DOPO AUSCHWITZ IL LINGUAGGIO SPEZZATO E` nota la sentenza

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DOPO AUSCHWITZ IL LINGUAGGIO SPEZZATO E` nota la sentenza
DOPO AUSCHWITZ
IL LINGUAGGIO SPEZZATO
E' nota la sentenza emessa da Th. W. Adorno nel 1966: “Dopo Auschwitz, nessuna poesia, nessuna
forma d'arte, nessuna affermazione creatrice è più possibile. Il rapporto delle cose non può stabilirsi
che in un terreno vago, in una specie di no man's land filosofica” ( Dialettica negativa, Einaudi,
Torino 2004, p. 326).
E' pur vero che in seguito, contestando il celebre aforisma di L. Wittgenstein “su ciò di cui non si
può parlare si deve tacere”, lo stesso Adorno assegnerà alla filosofia proprio il compito di indagare
ciò di cui non si può parlare; resta tuttavia il fatto che Auschwitz assurge a tema per eccellenza
'indicibile', perché il male “con Auschwitz ha raggiunto una sorta di indicibile perfezione” ( P. De
Benedetti, Quale Dio? , Morcelliana, Brescia 1997, p. 41)
Il poeta ebreo di lingua tedesca Paul Celan (Czernowitz, Bucovina, 1920 – Parigi 1970) ha
rivendicato esplicitamente e disperatamente il diritto di procedere oltre il divieto adorniano della
poesia. E in verità nessuno più di lui ha colto ed espresso l'enormità dell'evento 'shoah': non solo e
non tanto attraverso la testimonianza di ciò che è accaduto, ma anche e soprattutto attraverso un
“linguaggio spezzato” che è a sua volta testimonianza del sovvertimento che quell'evento ha
prodotto sia nel linguaggio che si riferisce a Dio, sia nella sintassi del modo quotidiano di parlare.
Segnato indelebilmente dalla shoah (vi ha perduto entrambi i genitori), egli da un lato confessa di
“dover scrivere continuamente per poter tenersi in vita”, e dall'altro, da sopravvissuto, condivide
con Osip Mandel'stam la necessità di vincere la 'distanza della separazione' dalle persone perdute
per dire loro “ciò che non abbiamo potuto dire”.
In occasione del conferimento del premio letterario Città di Brema (1958), nel discorso di
ringraziamento, Celan aveva detto:
“Raggiungibile, vicina e non perduta in mezzo a tante perdite, una cosa sola: la lingua. / La lingua, essa sì, nonostante
tutto, rimase acquisita. Ma ora dovette passare attraverso tutte le risposte mancate, passare attraverso un ammutolire
orrendo, passare attraverso le mille e mille tenebre di un discorso gravido di morte. Essa passò e non prestò parola a
quanto accadeva; ma attraverso quegli eventi essa passò. Passò e le fu dato di riuscire alla luce, 'arricchita' da tutto
questo. / Con questa lingua, in quegli anni che seguirono, io ho tentato di scrivere poesie: per parlare, per orientarmi,
per accertare dove mi trovavo e dove stavo andando, per darmi una prospettiva di realtà”. (P. Celan, La verità della
poesia, Einaudi, Torino 1993, p.35).
Sembra davvero che la lingua vinca e oltrepassi il silenzio, come scrive K. Schwedhelm: “Con
Celan ha fatto la sua comparsa una potenza poetica che afferra l'indicibile per i suoi margini e
prende sul serio, come una realtà estrema, la parola”; ma neppure dieci anni dopo, la speranza di
una lingua tornata alla luce si rivela del tutto irrisoria. Con il passare del tempo, a mano a mano che
la sua mente scende nella profondità dell'orrore, la 'vicinanza' della lingua a 'ciò che è stato' si
smarrisce e la poesia di Celan assume l'aspetto di un ammasso di rovine.
Egli ora tocca con mano l'impotenza della parola contro la quale si scaglia con furore, come il
gladiatore contro la spada spezzata e lo scudo incrinato che lo hanno tradito. Lui, poeta e scrittore,
si sente abbandonato dalla parola. Così la sua ultima stagione poetica, quella che si chiude con il
suicidio, è caratterizzata dalla disgregazione sintattica, dal lessico bizzarro, dall'inversione della
parola, dalla parola che nega se stessa.
Primo Levi, che confessa la sua segreta attrazione per Celan, così descrive il tormento della sua
poesia:
“L'effabile è preferibile all'ineffabile, la parola umana al mugolio animale. Non è un caso che i due poeti tedeschi meno
decifrabili, Trankl e Celan, siano morti entrambi suicidi, a distanza di due generazioni. Il loro comune destino fa
pensare all'oscurità della loro poetica come ad un preuccidersi, a un non voler-essere, ad una fuga dal mondo, a cui la
morte voluta è stata coronamento. Sono da rispettarsi, perché il loro 'mugolio animale' era terribilmente motivato: per
Trakl, dal naufragio dell'Impero Asburgico, in cui egli credeva, nel vortice della Grande Guerra; per Celan, ebreo
tedesco scampato per miracolo alla strage tedesca, dallo sradicamento e dall'angoscia senza rimedio davanti alla morte
trionfatrice […]. Si percepisce che il suo canto è tragico e nobile, ma confusamente: penetrarlo è impresa disperata, non
solo per il lettore generico, ma anche per il critico. L'oscurità di Celan non è disprezzo del lettore né insufficienza
espressiva né pigro abbandono ai flussi dell'inconscio: è veramente un riflesso dell'oscurità del destino e della sua
generazione, e si va addensando sempre più intorno al lettore, stringendolo come in una morsa di ferro e di gelo […].
Questa tenebra che cresce di pagina in pagina, fino all'ultimo disarticolato balbettio, costerna come il rantolo di un
moribondo, ed infatti altro non è”. (P. Levi, Dello scrivere oscuro, in Opere, Einaudi, Torino 1958-87, vol. III, pp.63637).
Susan Shapiro, esperta di ermeneutica, teoria critica e critica retorica in campo ebraico, ha studiato
le pagine di Celan, di Nelly Saks, di E. Wiesel, riconoscendo in esse una duplice strategia
ermeneutica. La prima può essere così definita: “non scrivere con le parole, ma contro le parole”,
denunciando con la protesta muta e la preghiera disperata il limite della scrittura; è l'approccio
prediletto da Celan:
“Parla anche tu,
parla per ultimo,
di' il tuo pensiero.
Parla – Ma non dividere
il sì dal no.
Da' anche senso al tuo pensiero:
dagli ombra.
Dagli ombra che basti, tanta
quanta tu sai
attorno a te divisa fra
mezzanotte e mezzodì e mezzanotte.
Guardati intorno:
vedi come in giro si rivivePer la morte! Si rivive!
Dice il vero, chi parla di ombre. […] (P. Celan, Poesie, cit. p. 231).
L'altra strategia, affine a questa, consiste nel narrare dicendo che “non si può dire pienamente”,
evitando di parlare dell'olocausto come semplice argomento del discorso condizionato dal discorso
stesso. E. Wiesel, che ha avuto occasione di precisare di aver parlato direttamente dell'olocausto
solo nel suo libro più famoso, La notte, osserva:
“Il linguaggio era stato talmente corrotto che doveva essere di nuovo inventato e purificato. [...]Spesso dicevamo meno
[parole] per rendere più credibile la verità. Se qualcuno di noi avesse raccontato tutta la storia, sarebbe stato creduto
pazzo. In passato, romanzieri e poeti erano in anticipo sul loro tempo: adesso, no. In passato gli artisti potevano
prevedere il futuro: adesso, no. Adesso devono ricordare il passato, pur sapendo che ciò che devono dire non sarà mai
trasmesso. Solo possono sperare di poter comunicare l'incomunicabilità della comunicazione”.
( E. Wiesel, The Holocaus as Literary Inspiration, in Dimensions of the Holocaust, N. U. P., Evaston 1977, 8).
PRIMA / DOPO
Il valore periodizzante di Auschwitz (prima / dopo) è messo chiaramente in evidenza dal teologo e
romanziere ebreo Arthur Cohen: Auschwitz -egli dice- rappresenta una cesura radicale nella storia
ebraica perché lì si è dispiegato agli occhi del mondo il 'Tremendum' nella forma demoniaca. Cohen
mutua da Rudolf Otto (Das Heilige - Il sacro - 1917) questa categoria, assumendola come criterio
epistemologico e fenomenologico di comprensione della storia, e ricostruendo intorno ad essa la
teologia giudaica classica. 'Mistero tremendo' è il divino stesso in quanto “magnifico, mostruoso,
fascinoso, misterioso, orribile, in una parola: santo”. “Il santo -egli scrive- in quanto tremendum era
proprio quella complessità di potere positivo e negativo che conviene al padrone dell'antico
universo” (Nella nostra terribile epoca: il tremendum degli ebrei, in Concilium, n. 5/1984, p. 29).
L'Olocausto degli ebrei è tremendum in quanto “inversione del divino, di-scendenza demoniaca che
si contrappone alla trascendenza divina” (ivi), “non-senso” e “anti-significato” che irrompe nella
storia: ad Auschwitz la libertà dell'uomo ha esperito concretamente la possibilità demoniaca
realizzando il tremendum demoniaco. Questo evento ha scardinato la teologia tradizionale: “...Fu
quando si arrivò al tremendum che l'edificio del monarchismo teologico poté essere visto per quello
che era diventato in realtà: una struttura arcaica di interpretazione, che lasciava il dio della storia in
posizione sospetta o irrilevante. Il Dio del riscatto e della redenzione non riscatta e non redime” (ivi,
p. 36). Ne consegue che tutto ora va riletto alla luce di questo evento: ciò che è stato e ciò che sarà.
Per Cohen, lungi dal preludere a una sorta di concezione astratta e metafisica della shoah,
l'avverarsi dell'evento svela che Dio, “in qualche modo”, si è ritratto dalla storia per lasciare - “per
così dire”- spazio all'uomo. Egli non è più regista della storia umana, ma solo garanzia della libertà
degli uomini. L'uomo, non Dio è responsabile di ciò che è accaduto, e alla teologia non resta altro
compito che reinventare un nuovo linguaggio (“L'assalto retorico di rifiuto al dio silenzioso
manifesta non tanto il fallimento di Dio, quanto piuttosto il fallimento del linguaggio religioso, un
linguaggio prigioniero di una comprensione quasi infantile del rapporto divino-umano”) e insegnare
all'uomo a guardare l'abisso da lui stesso causato per rintracciare, se e dove possibile, la scintilla di
bene tra le macerie della storia.
La necessità e l'enorme difficoltà di questo cambiamento linguistico, che è anche necessariamente
culturale, sono testimoniate dall'imbarazzato ricorso di gran parte della teologia ebraica a
espressioni del tipo: “ per lo più”, “ in qualche modo”, “ per così dire”, lontane dal linguaggio di
una fede limpida e inconcussa.
Dopo Auschwitz, dunque, anche la teologia deve compiere una radicale torsione: non è la Bibbia
che deve leggere l'olocausto, ma l'olocausto la Bibbia.
Se così è, innanzitutto si deve porre la domanda: come concepire o immaginare un Dio che non
salva il suo popolo dalla distruzione? L'avvenimento in questione infatti mette in discussione la
stessa concezione fondamentale di un Dio onnipotente, giusto e misericordioso.
Per costruire un linguaggio nuovo, è istruttivo riflettere sugli sforzi ermeneutici dei poeti a cui
poc'anzi abbiamo fatto riferimento e, se possibile, trasformare l'interpretazione teorica e pratica di
Dio in “ermeneutica di rottura”. Dunque: come è possibile esprimere o comunicare l'esperienza di
un evento di negazione radicale che spezza la convenzione del parlare? Come è possibile riprendere
il discorso intorno a Dio sotto il punto di vista inevitabile dell'evento shoah, considerato che il
concetto di Dio ereditato dalla tradizione giudaica sembra improponibile? Il Dio della perfezione
somma -buono e giusto, onnipotente, misericordioso e fedele- non sembra più predicabile dopo il
tremendum demoniaco dell'olocausto all'apparire del quale la perfezione divina si è dissolta o, per
meglio dire, si è rovesciata nella 'perfezione del demoniaco'.
LA STRUTTURA DELL'ESPERIENZA EBRAICA DI DIO
Per capire l'effetto destabilizzante della shoah sulla teologia ebraica, è necessario riflettere sulla
struttura dell'esperienza ebraica di Dio quale è testimoniata nella Bibbia e nella tradizione rabbinica.
Scrive il rabbino riformato Emil L. Fackenheim che si salvò dalla shoah fuggendo in Canada:
“Gli ebrei furono i primi ad affermare il Dio della storia. Essi hanno vissuto un rapporto unico con questo Dio solo per
il fatto che, soltanto nel loro caso e per circa quattro millenni, la stessa sopravvivenza collettiva fu legata a lui. Eppure
oggi sembra che se altri credenti hanno delle ragioni per rifiutare il Dio della storia un ebreo abbia addirittura l'obbligo
di farlo. Ad Auschwitz gli ebrei furono massacrati non già perché avessero disobbedito al Dio della storia, ma piuttosto
perché i loro nonni gli avevano obbedito. Lo avevano fatto crescendo bambini ebrei. Un ebreo d'oggi ha il coraggio di
continuare ad obbedire al Dio della storia, ed esponendo così se stesso, i suoi figli, e i figli dei suoi figli al pericolo di
una nuova Auschwitz? Mai prima d'ora gli uomini hanno avuto una ragione così tremenda, spaventosa, per volgere le
spalle al Dio della storia” (La presenza di Dio nella storia, Queriniana, Brescia 1977 pp. 22-23)
E' questo Dio della storia, dunque, che sembra inabissarsi nella livida tenebra di Auschwitz. Prima
di allora Israele aveva incontrato il suo Signore dentro la storia, facendone concreta esperienza.
L'alleanza di Dio con il suo popolo e la fedeltà di Dio a quella alleanza non sono enunciati
dogmatici ( l'ebraismo, d'altra parte, non conosce un sistema teologico dogmatico), ma esperienza
viva che impregna la condotta (halacha), la vita dell'ebreo per il quale la presenza di Dio nella
storia non è da intendere come presenza-in-generale di un Dio-in-generale in una storia-in-generale,
ma piuttosto come una presenza che riguarda “questi” uomini in “questa” particolare situazione,
sicché l'ebreo credente si presenta non come filosofo, ma come “testimone” di eventi specifici,
seppure dotati – a differenza di eventi puramente 'tribali' – di significati universali.
Un noto midrash richiama l'attenzione sul primo capitolo del libro di Ezechiele in cui sono descritte
le “visioni di Dio” con straordinaria ricchezza di particolari che il midrash stesso amplifica e
arricchisce ulteriormente. La scena è sfolgorante di luce numinosa. Eppure, osserva il midrash, ciò
che vide Ezechiele era infinitamente meno di quanto videro gli israeliti presso il Mar Rosso.
Ezechiele e tutti gli altri profeti in realtà non videro Dio se non per immagini. Osserva Fackenheim:
“[ I profeti] erano uomini che percepiscono un re di carne e di sangue, circondato da servitori di carne e sangue, e che
sono costretti a chiedere : 'chi è il re?'. Gli israeliti davanti al Mar Rosso non ebbero invece bisogno di chiedere chi
fosse il re”. Racconta infatti il libro dell'Esodo: “Non appena essi lo videro, lo riconobbero e aprirono le loro bocche per
dire 'questo è il mio Dio e io lo glorificherò'” (Es. 15,2).
Nel corso del tempo la fede ebraica è passata più volte attraverso esperienze radicali che ne hanno
saggiato la tenuta: dalla fine della profezia alla distruzione del primo Tempio, dalla rivolta dei
Maccabei alla distruzione del secondo Tempio fino alla cacciata degli ebrei dalla Spagna e oltre. La
fede dei padri nel Dio della storia fu messa a dura prova e l'esito non fu l'abbandono della fede
stessa, ma una fede rinnovata attraverso il confronto con l'esperienza di volta in volta
contemporanea. Grazie al rapporto dialettico tra il presente e il passato, un evento del passato
diventa legge del presente:
“Così il devoto ebreo che ricorda l'esodo e la salvezza al Mar Rosso non richiama alla mente eventi ormai morti e
trascorsi: Egli riattiva tali eventi come una realtà presente: solo così egli ha la certezza che il Dio salvatore del passato
continua a salvare e che giungerà a portare la salvezza definitiva” (Fackenheim, cit., p. 29).
Per illustrare come sia possibile all'ebreo del presente attingere l'evento passato e 'vederlo', per
'riattivarlo' nel presente, Fackenheim riporta questa pagina illuminante tratta dal Moses (New York
1958) di Martin Buber:
“Quel che è decisivo per la storia interiore dell'umanità...è che i figli di Israele lo intesero come un atto del loro Dio,
come un 'miracolo'; il che non significa che essi lo interpretassero come un miracolo, ma che lo sperimentarono come
tale e come tale lo percepirono.
Il concetto di miracolo che è ammissibile da un approccio storico può essere definito, alle sue origini, come stupore
permanente. La...persona religiosa...permane in quello stato di meraviglia; nessuna conoscenza, nessuna scienza può
attenuare il suo stupore. Una qualche spiegazione causale non fa che approfondire in lui la meraviglia. Le grandi svolte
della storia religiosa si fondano sul fatto che un individuo ed il relativo gruppo si stupiscono in continuazione, e
continuano a stupirsi: per un fenomeno naturale, per un evento storico, o per entrambi nello stesso tempo; sempre per
qualcosa che interviene fatalmente nella vita di questo individuo e di questo gruppo. Essi lo sentono e sperimentano con
meraviglia. Certamente questo è solo il punto di partenza del concetto storico di meraviglia; tuttavia non può essere
trascurato. Il miracolo no è qualcosa di 'soprannaturale' o 'soprastorico', ma un incidente, un evento che può essere
contemplato nel nesso obiettivo, scientifico della natura e della storia e il cui significato vitale, tuttavia, distrugge, per la
persona a cui capita, la sicurezza di tutto il nesso di conoscenza e fa esplodere la fissità dei campi d'esperienza chiamati
'natura' e 'storia'.
Possiamo ascrivere ciò che origina il nostro stupore ad un potere specifico...Per la realizzazione del miracolo uno spirito
magico particolare, un demone speciale, un idolo speciale è chiamato all'essere. E' un idolo proprio perché è speciale.
Ma non è questo che la comprensione storica intende per miracolo, perché, dove un autore è limitato da altri autori, il
sistema corrente di causa ed effetto è sostituito da un altro...Il vero miracolo significa che nell'esperienza stupefacente
dell'evento il sistema corrente di causa ed effetto diventa, per così dire, trasparente e permette di gettare uno sguardo
fugace nella sfera in cui agisce un unico potere, non limitato da un altro”.
Volendo indicare la cifra essenziale dell'esperienza ebraica di Dio, diremo che essa è riconoscibile
in questo: che Dio è presente e salva il suo popolo nella storia; dunque non salvezza dell'anima
nell'aldilà, attraverso un evento apocalittico che 'chiuda' per sempre la storia, ma salvezza qui e ora
di un popolo che è chiamato in causa dalla voce di Dio e che perciò diventa attore della salvezza
stessa (e non semplice 'ricettore'). Il midrash insiste sul fatto che a Mosè che invoca Dio viene
ingiunto di mettere in cammino il popolo: non v'è salvezza senza questo cammino. Una voce che
comanda si fa udire proprio quando si delinea l'evento salvifico, e la salvezza non avviene se non
quando a quella voce si risponde. Per questo la storia non rappresenta lo sfondo neutro di una
salvezza predestinata, ma costituisce una sorta di 'minaccia' alla 'riattivazione' del passato, o almeno
una concreta possibilità di 'falsificazione' del passato. Dio stesso, per la Bibbia e per il pensiero
rabbinico, non è confinato in uno spazio metafisico, ma è concretamente impegnato nella storia; per
questo, a rigore, è del tutto improprio 'pensare' Dio; Dio si ascolta, non si pensa.
Nella Bibbia sono innumerevoli i modi in cui Dio si fa presente; dal fragore del tuono e nel chiarore
dei lampi con cui Yahve si rivolge a Mosè :
“Il suono della tromba si faceva sempre più forte. Mosè parlava e Dio gli rispondeva con un tuono” (Esodo 19,19);
“Vide le voci, i lampi e il suono dello shofar e il monte fumante. Il popolo vide, si mosse e si tenne a distanza” (Esodo
20,18);
al leggero soffio di vento con cui si rivolge ad Elia:
“voce di silenzio sottile” (I Re 19,12)
Si tratta sempre comunque di un Dio presente, anche se a volte si fa attendere o è adirato o deluso.
L'esperienza storica di Israele attesta con forza soprattutto la fedeltà e la misericordia di Yahve:
“Sì, come una donna abbandonata e afflitta ti ha chiamati Yahve. E come la moglie ripudiata della gioventù dice il tuo
Dio. Per un breve istante ti ho abbandonato, ma ti riprenderò con immenso amore. Nell'eccesso della collera ho
nascosto per un poco la mia faccia da te; ma con eterno affetto ho avuto pietà di te, dice il tuo redentore Yahve” (Isaia
54,6-8).
A volte la Bibbia attesta la prontezza, la tempestività di Yahve:
“Allora tu chiederai e Yahve risponderà, implorerai aiuto ed egli dirà: 'eccomi pronto!'” ( Isaia 58,9).
E i midrashim confermano. Narrano ad esempio che Dio decise di salvare gli ebrei dalla schiavitù
dell'Egitto, mosso a compassione da un bambino: Faraone aveva ordinato di usare i bambini come
mattoni per costruire la piramide; bastò che l'arcangelo Michele conducesse davanti a lui uno di
questi bambini perché Yahve, mosso a pietà, decidesse di salvare tutto il suo popolo.
Un altro midrash riprende, arricchendolo di dettagli, l'episodio narrato in Esodo in cui Dio, adirato
con il suo popolo infedele che egli ha appena condotto fuori dall'Egitto, sta per distruggerlo con un
soffio, ma dopo un drammatico dialogo con Mosè che gli ricorda la promessa di moltiplicare i figli
di Israele, Dio si ravvede: “Yahve si pentì del male che aveva minacciato contro il suo popolo”
(Esodo 32,14). Deponendo la sua ira, Dio si pente e torna sulla sua decisione (teshuvàh è il
pentimento e la decisione di cambiare 'cuore' o 'mente').
Gli stessi testi biblici e i midrashim di 'protesta' confermano con una forza del tutto particolare la
presenza di Dio: Abramo, Geremia, Giobbe si lamentano con Dio; a sua volta il rabbi hassidico Levi
Yitzak, interrompendo il servizio sacro del Yom Kippur, protesta con decisione che mentre gli altri
popoli sono protetti dai loro re, Israele invece non è protetto dal re dei cieli, ma non dimentica di
recitare il Kaddish: “Sia lodato e esaltato il nome di Dio nel mondo...”.
DOMANDE
Dopo Auschwitz è ancora possibile 'riattivare' nel presente l'evento dell'esodo? Allora, racconta il
midrash, Dio era andato in esilio con il suo popolo ed era tornato con esso. Da Auschwitz non c'è
stato ritorno. Forse Dio non era con i suoi? Dov'era? E se per salvare il suo popolo bastò un tempo
un solo bambino, perché non bastò in pieno secolo XX un numero sterminato di bambini
massacrati?
Osserva A. Neher, uno degli intellettuali più rappresentativi del giudaismo francese del dopoguerra:
“Mentre durante il Medioevo e fino all'inizio del XX secolo gli ebrei si riferivano, come modello delle persecuzioni
subite da parte dei cristiani o dei musulmani al servo sofferente di Isaia (cap. 53) e a volte alla 'aqedah, al sacrificio di
Isacco (Gen. 22), di fronte al genocidio perpetrato dai nazisti è Giobbe che diviene la figura centrale. Senza dubbio si
reagiva così ad una doppia tentazione, alla quale importava resistere e sfuggire.
Per la 'aqedah nessun paragone era più possibile, perché il braccio di Abramo era stato fermato all'ultimo momento,
Isacco era stato salvato, mentre, nelle camere a gas, più di un milione di bambini ebrei erano periti...Ma se la 'aqedah
non poteva servire da riferimento, non era la stessa cosa per Giobbe. Quest'ultimo, è vero, aveva avuto altri figli, ma i
figli che aveva perduto sono rimasti perduti per sempre” (Chiavi per l'ebraismo, Marietti, Genova 1988, p. 104).
Si ricorda spesso la pagina della Notte ( vero midrash del XX secolo) in cui E. Wiesel racconta
l'impiccagione, nel campo di Auschwitz, di tre vittime, tra cui un bambino, e dà voce alla domanda:
“Dov'è Dio? Dov'è?” e alla risposta “Eccolo qui: sta penzolando da questa forca”. Midrash
dell'impotenza di Dio: questa volta però, rispetto al midrash della tradizione, non dell'impotenza
“per così dire”, ma dell'impotenza radicale. Anche Fackenheim richiama questo testo
paradigmatico, ma prende le distanze dalla radicalità con cui l'impotenza divina viene adombrata:
“Puntare tutto sulla impotenza divina significherebbe perciò considerarla sia radicalmente che letteralmente. Dio soffre
di impotenza letterale e radicale, cioè di morte reale; e qualsiasi potere divino risuscitato sarà manifesto non tanto nella
storia ma al di là di essa. Un ebreo, in breve, dovrebbe diventare cristiano. Ma […] in duemila anni di confronto ebreocristiano, non è mai stato meno possibile di ora, per un ebreo, abbandonare la sua ebraicità o il suo ebraismo per
abbracciare il cristianesimo.
La fede ebraica non sembra così trovare alcun rifugio nei midrashim dell'impotenza divina, nessuno nel rifugio
nell'aldilà, nessuno nel potere redentore del martirio, e soprattutto nella visione di Auschwitz come punizione per i
peccati di Israele. Se non si vuole abbandonare il Dio della storia, non resta che una preghiera da rivolgere al potere
divino, ma che sia pronunciata a bassa voce, nel timore che venga udita” (La presenza di Dio nella storia, cit. p. 104).
VOCI DELL'EBRAISMO
Richard L. Rubenstein. Oltre il Dio della storia
R.L. Rubenstein è considerato come il primo che con la sua opera After Auschwitz. Radical
Theology and Contemporary Judaism (1966) ha introdotto nel giudaismo il problema della
“teologia dell'olocausto”, influenzato dalla teologia protestante americana detta della “morte di
Dio”.
Egli osserva che dal punto di vista dell'ebraismo biblico e rabbinico sono ugualmente irrinunciabili
tanto la giustizia quanto la potenza di Dio. La tradizione ebraica che vede in Dio l'Onnipotente e il
Giusto impone per ciò stesso “la conclusione che egli è, in ultima analisi, l'unico autore di tutto ciò
che è accaduto al popolo d'Israele, Olocausto compreso”. Ne consegue che davanti a un Dio simile
l'umanità non può che essere colpevole di tutto il male e meritevole della sofferenza che ne
consegue.
Rispetto a questa concezione dura e radicale del rapporto tra uomo e Dio, la filosofia ha cercato di
tenere ferma la perfezione divina e nello stesso tempo di riscattare la sofferenza individuale come
elemento indispensabile per l'esito del progetto universale. E' in questa chiave che Rubenstein legge
il concetto hegeliano di Aufhebung che vuole assorbire nel fine universale i destini degli individui.
Ma, come osserva Adorno -citato espressamente da Rubenstein-, l'Aufhebung appare assolutamente
inadeguato a tal fine:
“Dopo Auschwitz...gli eventi ridicolizzano la costruzione del senso dell'immanenza irradiato da una trascendenza posta
affermativamente...Dopo il massacro che ha visto somministrare la morte a milioni di persone, quest'ultima è diventata
qualcosa che non era ancora stata temuta in questa forma. Non vi è più alcuna possibilità che essa risulti nell'esperienza
vissuta dagli individui come qualcosa che sia in un certo senso in armonia con il corso della loro vita” (Dialettica
negativa, cit., pp. 326-27)
Nel tentativo di respingere la disgiunzione tra giustizia e potenza divine non sono mancati rabbini
che -come Wasserman di Baranovitch (1875-1941) in uno scritto del 1939, all'indomani della
“notte dei cristalli”- interpretano la furia nazista come conseguenza dell'assimilazione e del
disprezzo della Torah da parte degli ebrei occidentali, in particolare degli scienziati. In questa
prospettiva la morte degli ebrei è “Qorban”, offerta espiatoria che preannuncia la redenzione. Su
questa linea si collocano le posizioni estreme di rabbi Lubavitch e di Joseph Isaac Schneershon. Per
quest'ultimo, lo stesso Hitler è strumento di Dio che castiga gli ebrei che con l'assimilazione hanno
disertato la via della Torah: castigo e sacrificio necessari alla venuta del Messia.
Del resto, questa era stata l'interpretazione che rabbi Yohanan ben Zakkai aveva dato della caduta di
Gerusalemme nel 70 d. C., citando il libro del Deuteronomio:
“Non avendo seguito il Signore in mezzo all'abbondanza di ogni cosa...tu servirai i tuoi nemici che il Signore manderà
contro di te come fame, sete, nudità e bisogno di ogni cosa” (Deut. 28, 47-48)
E lo stesso Deuteronomio aveva ammonito con parole ancora più severe severe:
“Se non cercherai e metterai in pratica tutte le parole di questa legge, scritte in questo libro...allora il Signore colpirà te e
i tuoi discendenti con flagelli prodigiosi: flagelli grandi e duraturi...Come il Signore gioiva nel beneficarvi...così il
Signore gioirà nel farvi perire e distruggervi...Il Signore ti disperderà tra tutti i popoli da un'estremità all'altra” (Deut.
28, 58-64).
Rubenstein si chiede se questa posizione dell'ebraismo ortodosso sia sostenibile dopo l'olocausto:
“La domanda fondamentale posta dall'olocausto è la seguente: Dio si è servito di Hitler e dei nazisti come strumenti per
infliggere sofferenze e una morte spaventose a sei milioni di ebrei, tra i quali più di un milione di bambini? Da questa
domanda ne scaturisce un'altra del tutto naturale: sapere se l'esistenza del Signore della storia, il Dio dell'alleanza e
dell'elezione, riesca a mantenere una qualsiasi credibilità dopo Auschwitz”.
Precisato che attribuire a Dio la responsabilità della shoah non equivale di per sé a considerare
quest'ultima come punizione di una colpa (si pensi a Giobbe o al Servo del Signore di Isaia 53) come accade quasi sempre nella tradizione rabbinica che tuttavia non ha conosciuto un disastro
paragonabile all'olocausto - Rubenstein si misura in un confronto serrato con il rabbino Ignaz
Maybaum appartenente all'ebraismo riformato e autore di un'opera importante come The Face of
God After Auschwitz (1965).
L'alleanza tra Dio e il suo popolo - secondo Maybaum - non è e non può essere messa in
discussione: Dio continua a intervenire nella storia e lo stesso olocausto è uno straordinario
intervento di Dio. Intervento, tuttavia, non punitivo, non un castigo. Prendendo a modello la
crocefissione (cosa davvero sorprendente per un rabbino), Maybaum propone un'interpretazione
espiatoria della shoah. Inoltre, recuperando la tradizione profetica, egli parla dei morti nei campi di
sterminio e nei ghetti come di martiri e vittime sacrificali, e di Auschwitz come del “Golgota
dell'umanità moderna. La croce, il supplizio romano venne sostituito dalla camera a gas”. Solo in
questo modo la morte di sei milioni di ebrei acquista il senso di “sacrificio vicario”; Qorban è
“offerta espiatoria” ma anche “distruzione creatrice” che Dio permette in vista di un bene maggiore,
come già avvenne con la distruzione del primo e del secondo Tempio; in entrambi i casi l'evento
catastrofico permise agli ebrei di diffondere la conoscenza del vero Dio tra i popoli. La shoah è il
terzo Qorban che chiude un'epoca e ne dischiude una nuova. Epoca nuova, si badi, non solo per il
popolo di Israele, ma per l'intera umanità, che Maybaum interpreta come l'ingresso in quella
modernità di giustizia, fraternità e pace che i “progressisti” non hanno saputo realizzare.
Non è difficile comprendere perché questa interpretazione ottimistica della shoah abbia contrariato
e sconcertato molti sopravvissuti; ma soprattutto Maybaum non sembra avvedersi del fatto che
paradossalmente questa sua opinione secondo cui il sacrificio degli ebrei sarebbe condizione perché
abbia inizio una nuova epoca dell'umanità è la stessa proclamata dall'ideologia nazista, seppure per
motivi del tutto diversi. Egli dichiara senza esitazione :“ Dio si è servito di lui [Hitler] per pulire,
purificare, punire un mondo peccatore. I sei milioni di ebrei morirono di morte innocente. Morirono
a causa dei peccati degli altri”. Così Dio ha voluto.
Ma è proprio questa concezione di Dio che suscita ben più che perplessità. Osserva Rubenstein:
“l'immagine di Dio che [Maybaum] ci propone è quella di una Divinità pronta a sottoporre milioni
di individui innocenti alla sofferenza e alla morte più degradante ed oscena che abbia mai
conosciuto la collettività umana”.
Osserva ancora Rubenstein che il tentativo di Maybaum di mantenere l'immagine biblica di Dio
sullo sfondo dell'olocausto ha il merito, se non altro, di mostrare come sia “impossibile affermare
l'esistenza del Dio biblico dell'alleanza e dell'elezione senza affermare anche il suo coinvolgimento,
intenzionale, su Auschwitz. Quanto poi al tentativo di Maybaum di evitare la scissione tra
onnipotenza di Dio da un lato e giustizia e amore dall'altro sottolineando che molti ebrei sono
sopravvissuti, che l'olocausto ha avuto una durata limitata e che dopo di esso si è realizzata la “Terra
promessa” della modernità, si deve osservare che non è facile concedere che sei milioni di ebrei
siano “pochi” e che la persecuzione (1933-45) sia stata un “breve momento”; ma soprattutto si deve
sottolineare che proprio l'olocausto è stato non già il sussulto di un mondo medievale al tramonto,
ma l'espressione demoniaca della modernità. Il fatto poi che Maybaum proclami che le vittime
erano innocenti, scelte per una “sostituzione vicaria”, non rende più facile abbracciare la sua tesi.
Rubenstein conclude la sua critica a Maybaum ponendo in questi termini “il problema più cruciale e
più angosciante che tocchi agli ebrei”:
“Come possono gli ebrei credere ancora in un Dio onnipotente e benefattore dopo Auschwitz? La teologia ebraica
tradizionale sostiene che Dio è l'attore ultimo e onnipotente del dramma storico. Quella teologia ha interpretato le più
grandi catastrofi della storia ebraica come il castigo di un Israele colpevole. Non vedo come si possa mantenere questo
punto di vista, se non considerando Hitler e SS come strumenti della volontà divina. L'agonia degli ebrei d'Europa non
può essere paragonata alla prova di Giobbe. Per scovare nei campi una qualsiasi finalità, il credente della tradizione è
costretto a considerare lo scatenamento antiumano più demoniaco come espressione significante del progetto di Dio.
Si è voluto vedere in questo giudizio una professione di ateismo. In realtà tale giudizio non contiene alcuna negazione
dell'esistenza di Dio, pur se viene respinta l'immagine biblica del Dio che ha scelto Israele. Mi vedo costretto a un
inevitabile aut-aut. Ad Auschwitz si può affermare o l'innocenza di Israele o la giustizia di Dio. Io non ho ancora trovato
una terza via accettabile. Se però si afferma l'innocenza di Israele ad Auschwitz, Dio è ciò che si vorrà ma comunque
non è più, in forma distinta e unica, la Divinità sovrana dell'alleanza e dell'elezione. Piuttosto che conservare il minimo
sospetto sul fatto che Israele fosse oggetto di un giusto castigo divino ad Auschwitz, io respingo la concezione di un Dio
al quale si avrebbe motivo di attribuire una simile idea. Pur non essendo ateo, ho affermato che 'viviamo nell'epoca della
morte di Dio'” ( R.L. Rubenstein, Alleanza e divinità. L'olocausto e la problematica della fede, in A.A. V.V., Pensare
Auschwitz, Edizioni Thàlassa de Paz, Milano 1996, p.126-27)
Affermare che Dio è morto e contemporaneamente dichiararsi non ateo ma credente significa, per
Rubenstein, che parlare della morte di Dio è questione che non riguarda propriamente Dio stesso,
ma la relazione tra l'uomo e Dio; è questione 'culturale': la catena che -per usare una celebre
metafora nietzschiana- univa la terra al sole si è spezzata e la terra vaga nell'infinito spazio, orfana
del suo sole. Questo significa che il Dio della tradizione non è più credibile, che non è più credibile
l'idea di Israele popolo eletto dall'onnipotente e giusto Dio della storia. Esplicitamente Rubenstein
dichiara la propria sintonia con Bonhoeffer quando questi pone come problema teologico essenziale
e imprescindibile quello di parlare di Dio in un'epoca senza religione; e non sono pochi i passaggi in
cui sembra potersi riconoscere nella sua posizione l'acribia demitizzante di R. Bultmann.
Consapevole che gli ebrei che credono di essere stati scelti da Dio per osservare i suoi
comandamenti non potranno che rifiutare la sua posizione - quella di uno che intende l'alleanza
biblica in una maniera che travalica “l'etnicità, la razza, il legame familiare” - e recuperando con
misura elementi della filosofia hegeliana, del buddismo e della mistica, Rubenstein, sfiorando il
“silenzio rispettoso e attento davanti al divino”, enuncia in questi termini una prospettiva di
sopravvivenza della fede in Dio:
“A mio avviso, vi è una concezione di Dio...che rimane significativa dopo la morte del Dio-che-interviene-nella-storia.
Si tratta di una concezione antichissima profondamente radicata nelle forme orientali e occidentali del misticismo. Vi si
parla di Dio chiamandolo 'Nulla'. Definito così, viene concepito come radice e fonte di ogni essere. Parlare di Dio come
del 'Nulla' non implica che sia vuoto, anzi, esso è il Plenum indivisibile così ricco che ogni essere procede dalla sua
stessa essenza. Dio in quanto 'Nulla' non è assenza di essere, bensì sovrabbondanza di essere.
Perché usare il termine 'Nulla'? L'uso del termine si basa, in parte, su un'antichissima osservazione: ogni definizione di
entità finite implica una negazione. [B. Spinoza: “Omnis determinatio negatio”]. Il Dio infinito, fondamento di tutti gli
esseri finiti, non può essere definito. Di conseguenza, il Dio infinito non è alcuna entità in qualche modo paragonabile
agli esseri finiti del mondo empirico. Il Dio infinito corrisponde al non-qualcosa. A volte, i mistici hanno nominato Dio
col termine abbastanza umile di Urgrund, il cupo abisso innominabile dal quale è uscito il mondo empirico” (Alleanza e
divinità, cit. p.135).
Michael Wyschogrod. Contro l'enfasi della shoah
Nettamente opposta a quella di Rubenstein è la posizione del teologo ortodosso tedesco-americano
M. Wyschogrod che, personalmente segnato dalla persecuzione nazista, si rifiuta tuttavia di porre la
shoah al centro della stessa fede ebraica: fare questo significherebbe stravolgere il messaggio
centrale del giudaismo che proclama Dio “Redentore di Israele”. Non si tratta naturalmente di
sminuire la portata dell'olocausto, ma di opporre un netto rifiuto a che si sacrifichi, in nome di
Auschwitz, il quadro stesso del giudaismo che -appunto- si fonda sull'alleanza tra Yahve e il popolo
ebraico e sulla promessa della salvezza. Scrive Wyschogrod:
“Inserito nel cuore del giudaismo, come evento rivelativo simile all'evento del Sinai, l'Olocausto distruggerebbe
necessariamente il giudaismo e darebbe a Hitler quella vittoria postuma che noi tutti vogliamo negargli”.
Affermare che si deve leggere la Bibbia 'attraverso' la shoah significa affidarsi a una “teologia
naturale” che nega l'esistenza di un disegno divino. Certo non si può negare la 'diversità' dell'evento
Auschwitz; tuttavia la vera ragione di questa 'diversità' non sta in un'ambigua 'unicità' (tutti gli
eventi storici in quanto tali sono 'unici'), ma nel fatto, teologicamente rilevante, che ad essere
colpito è quell'Israele attraverso il quale si compie nel mondo l'opera redentrice di Dio. L'enfasi
della shoah rischia di essere una 'voce demoniaca' perché da Auschwitz non possono venire né
riscatto né salvezza della fede giudaica:
“ Il Dio d'Israele è un Dio che redime...Se l'Olocausto dovesse cessare di essere per la fede di Israele qualcosa di
periferico, per entrare nel Santo dei Santi e diventare la voce dominante che Israele ascolta, essa non sarebbe che una
voce demoniaca...Se dopo l'olocausto esiste una speranza, essa sta nel fatto che per i credenti la voce dei profeti grida
più forte della voce di Hitler, e il vento della divina promessa soffia sui forni crematori e riduce al silenzio la voce di
Auschwitz”
Ricomprendere Auschwitz nella prospettiva della fede -e non viceversa!- non è un'operazione
logica: è piuttosto la fede stessa che lo esige per continuare ad essere la fede nel Dio che salva
Israele:
“La fede ebraica significa questo: credere che Dio realizzerà le sue promesse nonostante l'evidenza sembri suggerire il
contrario […] Nel nostro tempo, questo implica credere che Dio realizzerà la sua promessa di redimere Israele e il
mondo nonostante Auschwitz. Posso comprendere come ciò sia possibile? No, non posso. E specialmente non posso
capire come Dio riuscirà a realizzarle per coloro che nell'Olocausto sono morti. E tuttavia, con Abramo, io credo che la
sua promessa si realizzerà”
NONOSTANTE TUTTO
Yossl Rakover si rivolge a Dio
Nel settembre del 1946 compare per la prima volta in Argentina, per la Yiddische Zeitung, un
piccolo testo a firma di Zvi Kolitz, tradotto in italiano con il titolo Yossl Rakover si rivolge a Dio
(Adelphi, Milano 1997). La storia di questo formidabile libretto, assai complessa, è ricostruita con
cura in appendice all'edizione italiana che riporta anche un illuminante, breve saggio di Emmanuel
Lévinas.
Si tratta del testamento di un ebreo credente che combatte (28 aprile 1943) la battaglia del ghetto di
Varsavia prossimo a cadere frantumato dall'artiglieria pesante del generale SS Jurgen Stroop. Yossl
Rakover si accinge a morire con animo fermo e si rivolge al suo Dio. Gli ricorda di averlo servito
“con tutta l'anima e con tutte le forze” nel tempo della prosperità ma che ora, dopo aver perso novello Giobbe- la moglie e i cinque figli per mano dei nazisti, si considera in credito nei confronti
di Yaveh e non accetta, diversamente da Giobbe, di essere punito per i suoi peccati. Egli afferma:“la
mia fede in Dio non è cambiata minimamente...Chi crede deve considerare questi avvenimenti parte
di un grande disegno di Dio”. E tuttavia: “dire che meritiamo i colpi che abbiamo ricevuto è una
bestemmia, una profanazione del 'Nome Ineffabile' di Ebreo, ed equivale in tutto e per tutto a
profanare il Nome Ineffabile di Dio perché denigrando se stessi si bestemmia Dio”.
Deciso a vendere a caro prezzo 'con esultanza' la propria vita (“La vendetta è stata e rimarrà sempre
l'ultimo mezzo di lotta e la massima soddisfazione interiore per gli oppressi”), Yossl Rakover si
rivolge a Dio “come uomo vivo, come un semplice uomo che vive e ha avuto il grande ma
disgraziato onore di essere ebreo”, per dire:
“Credo nel Dio d'Israele, anche se ha fatto di tutto perché non credessi in lui. Credo nelle sue leggi, anche se non posso
giustificare i suoi atti. Il mio rapporto con lui non è più quello di uno schiavo verso il suo padrone, ma di un discepolo
verso il suo maestro. Chino la testa dinanzi alla sua grandezza, ma non bacerò la verga con cui mi percuote. Io lo amo,
ma amo di più la sua Legge, e continuerò a osservarla anche se perdessi la mia fiducia in lui”.
E non manca di rimproverare Dio ponendogli violenti interrogativi:
“Esiste al mondo una colpa che meriti un castigo come quello che ci è stato inflitto?”... “Esiste al mondo una punizione
che possa far espiare il crimine commesso contro di noi?”... “Che cosa ancora, sì, che cosa ancora deve accadere perché
Tu mostri nuovamente il tuo volto al mondo?”... “Abbiamo diritto di sapere: dove si trovano i confini della tua
pazienza?”
E nonostante tutto:
“Non ti posso lodare per le azioni che tolleri, ma Ti benedico e Ti lodo per la Tua stessa esistenza, per la Tua terribile
maestà”.
Yossl Rakover chiede la misericordia di Dio per gli ebrei che non hanno retto a una prova così
immane e si sono allontanati da lui, e invoca la sua maledizione sugli assassini, su chi non ha mosso
un dito per soccorrere le vittime, magari esprimendo simpatia per esse, e su chi, sapendo, ha taciuto.
Il testamento si chiude con queste parole:
“'Dio d'Israele, sono fuggito qui per poterTi servire indisturbato, per obbedire ai tuoi comandamenti e santificare il Tuo
nome. Tu però fai di tutto perché io non creda in Te. Ma se con queste prove pensi di riuscire ad allontanarmi dalla
giusta via, Ti avverto, Dio mio e Dio dei miei padri, che non Ti servirà a nulla: Mi puoi offendere, mi puoi colpire, mi
puoi togliere ciò che di più prezioso e caro posseggo al mondo, mi puoi torturare a morte, io crederò sempre in Te.
Sempre Ti amerò, sempre, sfidando la Tua stessa volontà!
E queste sono anche le mie ultime parole per Te, mio Dio colmo d'ira: non ti servirà a nulla! Hai fatto di tutto perché
non avessi più fiducia in Te, perché non credessi più in Te, io invece muoio così come sono vissuto, pervaso di
un'incrollabile fede in Te.
Sia lodato in eterno il Dio dei morti, il Dio della vendetta, della verità e della giustizia, che presto mostrerà di nuovo il
suo volto al mondo, e ne scuoterà le fondamenta con la sua voce onnipotente.
Ascolta, Israele, il Signore è il nostro Dio, il Signore è uno. Nella tua mano, Signore, affido il mio spirito”.
Anania, Misaele e Azaria: “Anche se non...”
Le parole di Yossl Rakover ricordano quelle pronunciate davanti a Nabucodonosor da Anania,
Misaela e Azaria:
“...Il Dio che serviamo può salvarci dalla fornace dal fuoco acceso e ci libererà dalla tua mano, o re. Ma anche “se non”
accadesse ciò, sappi, o re, che noi non adoreremo il tuo idolo e che davanti alla statua d'oro che hai innalzato noi non ci
prostreremo” (Daniele 3, 17-18).
La prospettiva del martirio chiama i tre alla responsabilità personale: nonostante tutto.
Commentando il passo di Daniele appena citato, così scrive A. Neher:
“Hen l^a'! ('se non') Strana sfida della lingua ebraica che si prende gioco delle contraddizioni e dei paradossi ed esegue
con essi sorprendenti acrobazie!...Hen l^a', formula della contraddizione, altro non è che la contiguità del sì e del no.
Ma mentre altrove questa contiguità sarebbe segno di indecisione, di equivalenza, di soppesamento del sì e del no, che,
a conti fatti, si rissolve nella passività neutrale, qui è il segno supremo dell'azione volontaria, della scelta deliberata e
irreversibile. E' dal dentro del vuoto, dall'interno dell'assenza, dal cuore del No che scaturisce il Sì: la fede è una genesi,
appare ex nihilo!
Manès Sperber: “Anche se tutto il firmamento...”
Con parole lontane dal lessico teologico, più poetiche e non meno autentiche, lo scrittore e saggista
ebreo Manès Sperber (Zablotòw, Polonia 1905 - Parigi 1984) scrive:
“Anche se tutto il firmamento fosse fatto di pergamena, tutti gli alberi fossero penne, tutti i mari inchiostro, ed anche se
tutti gli abitanti della terra fossero degli scribi e scrivessero giorno e notte -essi non riuscirebbero mai a descrivere la
grandezza e lo splendore del creatore dell'universo.
Cinquant'anni mi separano da un bambino che imparò a recitare questi primi versi di un lungo poema aramaico
trasmesso di generazione in generazione, accompagnato da un inalterato commento orale. Io ritorno sulla risonanza di
queste parole ogni qualvolta arrivo a pensare che non riusciremo mai a far capire l'Hurban, la catastrofe ebraica del
nostro tempo, a coloro che vivranno dopo di noi. Gli innumerevoli documenti che dobbiamo all'instancabile
organizzazione burocratica dei nostri sterminatori, tutti i racconti dei testimoni miracolosamente sopravvissuti, diari,
cronache e registrazioni- tutti questi milioni di parole mi ricordano che 'anche se tutto il firmamento...'” (...than a Tear
in the Sea, Bergen Belsen Memorial Press, 1967, VII).
HANS JONAS
Dalla gnosi all’etica della responsabilità
Della lunga e intensa riflessione filosofica di Jonas (Munchengladbach, Germania, 1903 -New
York, 1993) e della sua ricchissima produzione ci limitiamo qui ad esporre brevemente la parte
dedicata alla filosofia della pratica nella civiltà tecnologica, che trova l'espressione più compiuta
nell'opera Il principio responsabilità
(1979). Precedentemente Jonas, ebreo, allievo di Husserl, di Bultmann e di Heidegger, fuggitivo,
come la compagna di studi Hannah Arendt, dopo l'avvento del nazismo, si era dedicato prima allo
studio della gnosi, di cui aveva proposto una lettura heideggeriana, poi, con l'intento di colmare i
limiti della tradizione idealistica tedesca, allo studio delle scienze naturali in vista di una filosofia
della realtà organica. L'approdo alla filosofia pratica viene dunque preparato attraverso lo studio
dell'essere naturale, a coronamento del quale Jonas pone la libertà e la dimensione etica che ne
consegue: un'etica della libertà, quindi, nella quale il dover-essere è radicato profondamente
nell'essere. Se Apel, Habermas e Rawls costruiscono una ragione pratica indipendente dalla
metafisica, Jonas fonda in questa, e più precisamente nell'ontologia, tutta la propria etica della
responsabilità, resa urgente dalla civiltà tecnologica.
Il principio responsabilità
L'annuncio dell'era tecnologica è remoto, e Jonas ne coglie la nota già nell'antico coro dell'Antigone
di Sofocle, in cui l'uomo viene descritto capace di dominare ogni cosa, tranne l'Ade, il regno dei
morti. Ma, nello stesso momento, è annunciata l'angoscia connessa all'irruzione "violenta e
violentatrice" dell'uomo nell'ordine cosmico. Col passare del tempo, e con la crescente e
impressionante rapidità dello sviluppo tecnologico, è cresciuta anche la vulnerabilità della terra,
fino a includere la possibilità della catastrofe ecologica e dell'estinzione dell'umanità; lo stesso
uomo d'oggi, questo Prometeo "scatenato", appare profondamente diverso dall'uomo greco. Per
tutto questo, deve cambiare anche l'etica.
Per lunghi secoli, l'agire umano tradizionale si era caratterizzato per l'uso di una téchne ispirata
dalle necessità primarie, incapace di minacciare seriamente una terra salda nella sua serena
concretezza. Così che ancora Kant poteva enunciare il suo fondamentale imperativo senza curarsi
del contenuto e degli effetti, ma solo della forma universale dell'agire. A questo, Jonas contrappone
un altro imperativo che implica l'integrità dell'uomo e della terra, l'uno e l'altra divenuti precari e
quindi oggetto di un'attenzione etica un tempo inimmaginabile: «Un imperativo adeguato al nuovo
tipo di agire umano e orientato al nuovo tipo di soggetto agente, suonerebbe pressappoco così:
"Agisci in modo che le conseguenze della tua azione siano compatibili con la permanenza di
un'autentica vita umana sulla terra", oppure, tradotto in negativo: "Agisci in modo che le
conseguenze della tua azione non distruggano la possibilità futura di tale vita", oppure,
semplicemente: "Non mettere in pericolo le condizioni della sopravvivenza indefinita dell'umanità
sulla terra", o ancora, tradotto nuovamente in positivo: "Includi nella tua scelta attuale l'integrità
futura dell'uomo come oggetto della tua volontà"» (Il principio responsabilità).
A spingere alla formulazione di un simile imperativo concorre la paura, la cui funzione "euristica"
Jonas non manca di richiamare, unitamente alla doverosità del sapere che impone di «acquisire
l'idea degli effetti a lungo termine», tenendo conto dell'accumulazione tecnologica, dando
comunque maggior credito alla previsione cattiva rispetto a quella buona, e sempre tenendo conto
che nel dover-essere presente si decide il destino futuro della terra.
Prendendo spunto da Leibniz, e attraverso una complessa argomentazione squisitamente metafisica
nella quale affiorano motivi riconducibili al finalismo aristotelico, Jonas approda alla certezza che
l'essere è un bene in sé nel quale ha fondamento la norma del "sì ontologico" per l'uomo. Per
questo, l'umanità deve esserci oggi e dovrà esserci in futuro: “La vita è la confrontazione esplicita
dell'essere con il non-essere, dal momento che nel suo stato di bisogno costitutivo... la vita esperisce
la possibilità del non-essere quale sua antitesi costantemente presente, ossia come implicita
minaccia. La modalità del suo essere è la conservazione tramite azione. Il sì di ogni azione è qui
radicalizzato per mezzo del no attivo al non-essere. Mediante la negazione del non-essere, l'essere
diventa l'istanza positiva, cioè la scelta permanente di se stesso. La vita in quanto tale, nel pericolo
del non-essere che è immanente nella sua essenza, è l'espressione di questa scelta”.
La fondazione ultima dell'etica della responsabilità deve saper rispondere alla domanda: perché
l'essere è da preferire al nulla? «Una condizione umana può essere giudicata migliore di un'altra e
costituisce così un dover-essere per scelta; ma rispetto a entrambe si può optare per il non-essere
dell'uomo, che certamente è esente da tutte le obiezioni alle quali sono esposte ambedue le
alternative della scelta precedente. .. lo sostengo che si può scegliere il non essere in luogo di tutte
le alternative dell'essere se non è riconosciuta l'assoluta priorità dell'essere rispetto al nulla. Quindi
la risposta alla questione generale assume un'importanza reale per l'etica».
Archetipo genetico e tipologico della responsabilità è la relazione genitori-figli, ma è evidente che,
date la complessità e la dimensione del problema, la responsabilità non può non impegnare la
collettività umana e la politica assai più di quanto non accadesse in passato.
Attento all'essenziale e convinto che l'obiettivo prioritario sia non la perfezione ma la
sopravvivenza, Jonas si fa sostenitore di un minimalismo programmatico che lo porta a criticare
severamente ogni utopismo, baconiano o marxista che sia. Ciò non gli impedisce, tuttavia, di
segnalare con lucidità il pericolo insito nello sviluppo dettato dal profitto e dal mito del libero
mercato. Non si tratta di rifiutare la tecnologia, ma di favorire (in questo consiste il compito della
filosofia) la crescita di una coscienza e di un agire che, sfruttando al meglio il patrimonio del
razionalismo occidentale, entro il quale si pone il principio responsabilità, sappia produrre uno
sviluppo "cauto", affrontando adeguatamente i problemi della demografia planetaria, della bioetica
e dell'eutanasia, le questioni ecologiche e quelle poste dall'ingegneria genetica, problemi che Jonas
considera più urgenti e più decisivi della prospettiva di una guerra atomica.
Ebreo e credente, Jonas ha riflettuto a lungo sul problema dell'Olocausto, ponendosi soprattutto la
domanda di come abbia potuto Dio consentire che il suo popolo venisse sacrificato non per motivi
in qualche modo connessi alla sua fede, ma per motivi razziali: un «annientamento totale con il
falso pretesto della razza: il più mostruoso capovolgimento dell'elezione in maledizione» (Il
concetto di Dio dopo Auschwitz).
Le già precarie risposte della teodicea barcollano e svaniscono, di fronte al problema di Auschwitz.
A Jonas, l'unica via percorribile per sciogliere il "paradosso dei paradossi" sembra quella di
ripensare Dio a partire dagli attributi che la tradizione gli riconosce: la bontà assoluta, l'onnipotenza
e la conoscibilità. Escluso che il "concetto di un Dio totalmente nascosto" sia compatibile con la
fede ebraica, giacché vanificherebbe la rivelazione, e nell'impossibilità di rinunciare al concetto di
un Dio assolutamente buono, non resta che pensare Dio stesso in modo tale che la sua bontà non
escluda l'esistenza del male; non resta che pensarlo impotente a sconfiggere il male. Impotenza che
Jonas connette all’atto della creazione. Nel momento in cui ha creato «un essere finito capace di
autodeterminare se stesso», Dio ha liberamente limitato se stesso; ha rinunciato all'onnipotenza
perché la libertà dell'uomo fosse reale.
La riflessione di Jonas torna così, ancora, al tema prediletto della responsabilità.