marilyn - Cineforum del Circolo

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marilyn - Cineforum del Circolo
i quaderni del cineforum
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50 ANNI DOPO
MARILYN
LUCI E OMBRE DI UN MITO
Chiara Mattucci
CIRCOLO FAMILIARE DI UNITÀ PROLETARIA
50 ANNI DOPO
MARILYN
Luci e ombre di un mito
CHIARA MATTUCCI
marzo 2012
CIRCOLO FAMILIARE DI UNITÀ PROLETARIA
Viale Monza 140, Milano
www.cineforumdelcircolo.it
[email protected]
INTRODUZIONE
M
arilyn Monroe è uno dei rari casi di sopravvivenza e trasformazione, di cambiamento che però
continua a riproporre qualcosa di identico a sé. È uno dei rari casi di attrice che dura nella memoria collettiva (non solo cinematografica) e di traduzione di quell’immagine in icona, manifesto,
faccia, oggetto. Questo meccanismo ha reso la diva sempre uguale a se stessa, a quella figura tanto irraggiungibile sullo schermo quanto tragicamente di carne fuori dalla scena. Infine, si tratta di uno dei rari casi
di personaggio ricordato anche senza il bisogno di aggiungere il cognome. Marilyn e basta, donna riconoscibile in una parola o in un volto, spesso in un’espressione del viso che è diventata protagonista di
un’enorme circolazione di massa.
Per quale motivo, allora, decidere di dedicare una rassegna a Marilyn Monroe, soprattutto alla luce della
mole di materiale (filmografico, bibliografico, giornalistico) che la riguarda? Proprio per provare a dare
una risposta a questa domanda è nata l’idea di un ciclo pensato in modo alternativo, ovvero non solo un
percorso all’interno di un gruppo scelto di titoli, ma anche una serie di luci accese su diversi aspetti della
vita e della carriera dell’attrice. Non c’è altra maniera per descrivere le ragioni e le caratteristiche del fenomeno Monroe, capace di andare al di là delle singole pellicole, degli autori che hanno provato (o sono riusciti) a utilizzarlo e dei discorsi emersi nel tempo. Di certo, partendo da questo scopo, nella consapevolezza di poter aggiungere poco a quanto già si conosce la rassegna prende le mosse da una certezza: tentare
di riflettere sulle dimensioni di un personaggio che solo andando incontro al proprio drammatico destino
poteva far rivivere all’esterno un sistema di vuoti e contraddizioni, di verità e menzogne. Abbiamo preferito dare voce a questa certezza, confrontandoci ancora una volta con la morte della diva, di cui nel 2012
si celebrano i cinquant’anni, cogliendo l’occasione per meditare su tutte le inevitabili conseguenze.
Marilyn era l’incarnazione del bello sofferente, era il simbolo del desiderio e del malessere, perciò “oggetto” di sentimenti opposti di attrazione e rifiuto. In tale processo veniva coinvolta sia l’immagine pubblica
sia la vita privata, perché ogni volta che circolavano notizie di un comportamento non proprio professionale sul set o fotografie delle sue vicende personali quel mito usciva dallo schermo, si staccava dalle copertine e si avvicinava allo spettatore condividendo le reciproche fragilità. Il dolore lo umanizzava, e infatti
la sua fine non contribuì a renderlo una stella cadente, ma una stella triste senza salvezza. Non si credeva
più alla favola della donna “leggera” e spensierata che seduceva gli uomini. Non si poteva più vedere la
Monroe, anche se in effetti era possibile guardarla all’infinito. Quella morte senza scomparsa mostrava di
nuovo la disumanità dell’intreccio fra industria hollywoodiana, spettacolo e potere. Era la dissoluzione di
un sogno e l’inizio della sua indistruttibilità. Modello visibile e proiezione degli impulsi erotici della società dell’epoca, riferimento e punto inarrivabile, vicina e lontana: questo era ed è Marilyn.
Nella ricca filmografia a disposizione (ancor più sorprendente considerato il periodo relativamente breve
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nel quale ha preso forma) abbiamo individuato cinque titoli significativi che, ciascuno con una sfumatura
diversa se inquadrati nella storia del cinema e del personaggio, riassumono alcuni nodi essenziali dell’esistenza di Marilyn Monroe. Si comincia con Niagara di Henry Hathaway (1953) e Gli uomini preferiscono
le bionde di Howard Hawks (1953), per proseguire con la presentazione di Il principe e la ballerina di
Laurence Olivier (1957). Il ciclo si conclude con i due appuntamenti finali, rispettivamente uno dei capolavori di Billy Wilder (A qualcuno piace caldo, 1959) e Gli spostati di John Huston (1961), l’ultima pellicola compiuta girata dall’attrice.
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È NATA UNA STELLA.
LA VITA E I FILM DI MARILYN MONROE
Un’infanzia non proprio tranquilla
La diva che tutti conosciamo, la bionda procace capace di lasciare a bocca aperta stuoli di ammiratori di
tutto il mondo, nasce a Los Angeles l’1 giugno 1926. All’anagrafe è Norma Jeane Mortenson: il mistero
che accompagna la vita della futura star ha origine prima ancora della sua nascita, il padre infatti rimarrà
sempre uno sconosciuto. La madre Gladys Monroe (da cui prenderà il futuro cognome), è caporeparto agli
stabilimenti delle Consolidated Film Industries ed è sposata con Edward Mortenson, da cui però viene
lasciata dopo pochi anni di matrimonio e prima del parto. Da qui la probabilità che il padre sia un collega
di Gladys, Stanley Gifford. Come si nota le incertezze sono tante, in ogni caso la bambina viene registrata col cognome di Mortenson.
A pochi giorni dalla sua nascita, la madre per mancanza di risorse è costretta ad affidarla ai coniugi Ida e
Wayne Bolender, che vivono in periferia, pagando cinque dollari alla settimana perché si prendano cura di
lei.
Nel 1934, a 8 anni, la Gladys riesce a mettere insieme il denaro per riprendersi la figlia, ma dura poco. La
donna infatti è soggetta a crisi depressive e l’anno seguente viene ricoverata al manicomio di Norwalk.
Norma è mandata in orfanotrofio, come sua tutrice viene nominata Grace McKee, un’amica della madre
che però riesce a prenderla con sé solo due anni dopo. Ma il marito ha delle attenzioni particolari per la
piccola, che è costretta all’ennesimo trasferimento a casa della zia Ana Lower.
Nel 1942, a 16 anni, per mettere fine ai continui cambi di famiglia, Norma Jeane lascia gli studi e sposa il
ventunenne Jim Dougherty: il primo di una lunga serie di matrimoni la unisce a un giovane con cui si
instaura un rapporto di tipo paterno. Ma il marito si arruola presto in Marina e nel 1944, appena compiuti
18 anni, Norma viene assunta come operaia in una fabbrica di aeroplani, dove il fotografo militare David
Conover la nota e le chiede di realizzare un servizio per una rivista. Norma accetta trasformandosi in una
delle pin-up più famose per le truppe americane sparse in tutto il mondo. Entra a far parte della Blue Book
Model Agency e conosce il fotografo Andrè De Dienes, il quale scatta la foto che le vale la prima copertina sulla rivista Family Circle, mentre Earl Moran (massimo disegnatore di pin-up d’America) la elegge sua
modella preferita. L’aspetto fisico nelle pubblicità e sui cartelloni non è ancora quello della diva che conosciamo. I capelli sono castani, il naso è schiacciato, la bellezza ancora acerba: sono gli albori di una lunga
e tortuosa gavetta.
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Sotto:Marilyn ragazza di copertina verso la metà
degli anni ‘40 per la rivista The Family Circle.
In basso: una giovane Marilyn Monroe.
Marilyn work in progress
Il 24 agosto 1946 Norma firma il suo primo contratto con
la 20th Century-Fox e assume il nome d’arte che la renderà famosa: Marilyn Monroe. Nello stesso periodo si colloca il divorzio dal primo marito. Riesce a ottenere una piccola parte in Scudda Hoo! Scudda Hay! (Hugh Herbert,
1948), un’opaca storia di provincia (in cui tra l’altro le
scene affidate alla giovane attrice vengono quasi tutte
tagliate in fase di montaggio, ne resta solo una). Il passo
successivo è la partecipazione a Dangerous Years (Arthur
Pierson, 1948), dove interpreta una cameriera. Ma la Fox
decide di non rinnovarle il contratto per “insufficiente recitazione drammatica”.
Passa alla Columbia Pictures con cui gira un solo film,
Orchidea bionda (Ladies of the Chorus, Phil Karlson,
1948), pellicola di serie B sul mondo del varietà in cui la
starlet si esibisce per la prima volta in due numeri musicali, senza però le doti che la renderanno indimenticabile
qualche anno dopo. L’immagine comincia a cambiare, il
trucco è modellato su quello di Rita Hayworth. Alla
Columbia Marilyn prende lezioni di recitazione con
Natasha Lytess, una figura fondamentale per la sua carriera: infatti è lei a puntare sulle doti comiche e sul sex appeal dell’allieva, tanto da diventarne l’assistente personale su
tutti i set fino al 1954. Tuttavia, anche alla Columbia non
le rinnovano il contratto, e si ritrova senza lavoro.
Le famose foto di Tom Kelley che la ritraggono nuda distesa su un drappo rosso vengono scattate proprio in questo
periodo. Marilyn non è ancora famosa e all’inizio le immagini si confondono tra le tante dedicate al pubblico maschile, senza particolare scalpore. Solo tre anni dopo hanno un
ruolo fondamentale per la vita dell’attrice, a cui Playboy
dedica la prima copertina nel dicembre 1953. Nel 1950 riesce ad avere una piccola parte nell’ultimo film del trio
Marx, Una notte sui tetti (Love Happy, David Miller).
Partecipa poi a La figlia dello sceriffo (A Ticket to
Tomahawk, Richard Sale, 1950), l’ennesimo film minore in
cui compare in brevi scene, alcune divise con altre starlet.
In questi anni Marilyn ha una relazione con l’agente teatrale Johnny Hyde, che si prende cura di lei e l’aiuta a ottenere delle parti importanti. Sono gli anni del primo film davvero interessante, Giungla d’asfalto (The Asphalt Jungle,
John Huston, 1950), in cui compare per circa cinque minuti come fidanzata di un avvocato connivente con la malavita. Huston rappresenta un nome decisivo per la futura star
del cinema americano. Il celebre regista, infatti, la dirigerà
undici anni dopo nel suo ultimo film compiuto, Gli spostati (The Misfits, 1961).
Nonostante il grande successo del film, la carriera della
Monroe prosegue con lentezza. Né con Lo spaccone vagabondo (The Fireball, Tay Garnett) né con Messicano (Right
Cross, John Sturges) e Hometown Story (Arthur Pierson),
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tutti del 1950, avviene il salto di qualità tanto sperato.
Eppure nello stesso anno riesce a entrare in una grande produzione accanto a Bette Davis e Anne Baxter, Eva contro
Eva (All About Eve) di Joseph Mankiewicz, in cui però la
piccola parte che le viene affidata la relega sullo sfondo.
La Marilyn che tutti conosciamo, all’inizio degli anni
Cinquanta, è ancora un work in progress. La sua carriera è
piena di incertezze e a questo si aggiunge la morte del compagno Hyde, a cui la donna reagisce con una fortissima crisi.
Nel 1951 continua a girare film minori (L’affascinante
bugiardo, As Young as You Feel di Harmon Jones, Le memorie di un dongiovanni, Love Nest di Joseph Newman, Mia
moglie si sposa, Let’a Make It Legal di Richard Sale) che
non le danno le soddisfazioni sperate. Ma la continua presenza al cinema come sulle pagine di riviste e giornali attirano l’attenzione del pubblico, tanto da spingere la Fox a
concederle l’occasione sognata.
La strada verso il successo
La grande chance arriva finalmente nel 1952, quando la Fox
“presta” Marilyn alla RKO per girare Confessioni della
signora Doyle (Clash by Night) di Fritz Lang, accanto a
Barbara Stanwyck. Lang è uno degli autori più importanti
del momento, ma non gode di buona reputazione quanto al
modo di trattare gli attori. Tuttavia il regista è in grado di
esaltare le qualità di Marilyn affidandole un ruolo particolarmente adatto alle sue doti, quello di una donna libera ed
emancipata che, di fronte all’adulterio
della cognata, prova a capirne i motivi
senza conformarsi alla morale comune.
Grazie a quest’esperienza la Monroe conquista la parte principale che desidera da
tempo in La tua bocca brucia (Don’t
Bother to Know, 1952) di Roy Ward Baker.
Nel ruolo della protagonista, una malata di
mente con manie omicide e un passato difficile, Marilyn appare intensa e credibile.
Nel periodo successivo torna sul set di
alcuni film a episodi come Matrimoni a
Sorpresa (We’re Not Married, 1952) di
Edmund Goulding e La giostra umana
(O’Henry’s Full House, 1952) di Henry
Koster, per poi passare a lavorare con
Howard Hawks accanto a Cary Grant e
Ginger Rogers in Il magnifico scherzo
(Monkey Business, 1952). Come avvenuto
in precedenza l’attrice si cala nei panni di
una segretaria, riuscendo in questo caso a
usare molto bene la propria recitazione
leggera unita a una fisicità prorompente.
Sembra ci siano tutte le premesse per il
“grande salto”, ma a distanza di tre anni
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Uno dei famosi nudi di Marilyn realizzati
da Tom Kelley.
A sinistra: Richard Widmark e Marilyn
Monroe in La tua bocca brucia, film nel
quale l’attrice interpretò la sua prima
parte da protagonista.
Sotto: Marilyn ritratta dal fotografo Elliot
Erwitt
vengono rispolverate le
vecchie foto di nudo destinate a fare
il giro del mondo. Marilyn trasforma lo scandalo in una forma di
autopromozione, specificando
che gli scatti risalgono a un
momento di grosse difficoltà economiche.
Alle vicende pubbliche, inoltre, si aggiungono grandi
cambiamenti nella sfera privata (il fidanzamento con il campione
di baseball Joe Di Maggio). È un periodo fortunato per la Monroe. La Fox
decide di costruire un film intero attorno alla figura della diva e, contrariamente alle
aspettative, si tratta di un noir, Niagara di Henry Hathaway (1953). Per la prima volta Marilyn si
confronta con il personaggio negativo di una femme fatale che trama alle spalle del marito per ucciderlo e
vivere con il giovane amante, in una storica interpretazione lontana da quel mix di fascino e innocenza alla
base del suo mito. Niagara inaugura anche la celebre “camminata di burro”, che diventa un vero e proprio
marchio di fabbrica agli occhi del pubblico.
L’ingresso nell’Olimpo
Il 1953 è un anno fortunatissimo per Marilyn: dopo Niagara gira quello che resterà uno dei capisaldi della
sua carriera e un “oggetto di culto” per i cinefili, Gli uomini preferiscono le bionde (Gentlemen Prefer
Blondes), in cui viene diretta nuovamente da Howard Hawks (ma questa volta in coppia con Jane Russell).
Il legame tra le due amiche è palpabile non solo nella finzione scenica, infatti la Russell risulta indispensabile per l’equilibrio di Marilyn, spesso troppo emozionata e soffocata da enormi paure. È in questo film
che esplodono gli indimenticabili numeri musicali Bye Bye Baby e Diamonds Are a Girl’s Best Friend.
Grazie alla pellicola le due compagne possono lasciare le impronte sul marciapiede del Chinese Theatre,
ricevendo così la consacrazione ufficiale come star di Hollywood.
Nel frattempo la carriera della Monroe continua con Come sposare un milionario (How to Marry a
Millionaire, Jean Negulesco, 1953), girato nel nuovo formato panoramico Cinemascope insieme a Lauren
Bacall e Betty Grable. Nonostante racconti la storia di tre semplici ragazze che decidono di cercare marito nel bel mondo, il film non ha la forza corrosiva del precedente e la stessa Marilyn, che qui interpreta la
miope e occhialuta Pola, non possiede lo stesso fascino della Lorelai di Hawks. Piuttosto attrae per la simpatia e per i goffi tentativi di mascherare il difetto visivo. Non a caso il film di Negulesco si chiude con un
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matrimonio totalmente opposto rispetto a quello di Hawks: se in Gli uomini preferiscono le bionde le due
amiche riescono a coronare il proprio sogno e Marilyn sposa effettivamente un milionario, qui le tre ragazze antepongono l’amore al denaro. Ad accomunare i due titoli, invece, rimane sempre l’atteggiamento di
Marilyn, tesa e alla costante ricerca di sostegni esterni (è Betty Grable ad averne la responsabilità).
Il successivo La magnifica preda (River of No Return, 1954) è un vero sforzo per l’attrice, che crede di
essere stata coinvolta in un western di serie B. Ad appesantire l’atmosfera intervengono i rapporti con
Preminger, il quale non tollera le insicurezze e i ritardi della Monroe. Le riprese vengono portate a termine e, subito dopo (il 14 gennaio 1954) Marilyn e Joe Di Maggio coronano la loro storia con un matrimonio destinato a durare solo nove mesi. La coppia decide di trascorrere la luna di miele a Tokyo, ma la diva
interrompe il viaggio per recarsi in Corea a intrattenere le truppe americane impegnate in guerra. Tornata
a Hollywood, gira Follie dell’anno (There’s No Business Like Show Business, Walter Lang, 1954), che
nonostante il grande successo di pubblico sembra rappresentare un passo indietro nella carriera della star.
Ma è solo un momento, perché l’anno seguente arriva il film per eccellenza, quello che per molti è l’immagine stessa di Marilyn: Quando la moglie è in vacanza (The Seven Year Icht) di Billy Wilder. Si tratta
di uno dei capolavori della commedia, che prende di mira il bisogno di evasione e di fantasia dell’uomo di
città, incapace di resistere alla tentazione di corteggiare l’affascinante vicina dopo la partenza della famiglia per le ferie. Marilyn è proprio quella ragazza priva di nome (nei titoli compare come “the girl”) che
domina l’immaginario maschile dell’epoca (tutti gli uomini lasciati soli dalle rispettive mogli sembrano
attratti dallo stesso tipo di donna libera, emancipata, gioiosa, oggetto consapevole di pulsioni erotiche). Ma
“the girl” è soprattutto una sintesi di tutti i miti, veri o falsi, su Marilyn: la star che ha sempre parlato apertamente dell’importanza che il sesso ricopre nella sua vita, che ha posato nuda senza negarlo, che non ha
mai nascosto le umili origini e la voglia di cambiare. Se la carriera della diva è ormai all’apice, non si può
dire altrettanto delle vicende sentimentali. Il 27 ottobre 1954 divorzia da Joe Di Maggio mettendo fine a
una travagliata storia d’amore, anche se il legame tra i due resta uno dei più duraturi nell’esistenza della
Monroe.
Marilyn e iI campione di
baseball Joe Di Maggio
sposi. Sarà un matrimonio
che durerà solo nove mesi.
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Marilyn Monroe con il commediografo
Arthur Miller
Dall’identificazione con il personaggio all’uscita
di scena
Marilyn torna a occuparsi della propria formazione iscrivendosi all’Actors Studio di New York (dove insegna Lee
Strasberg), la famosa scuola che sfornerà alcuni tra i principali esponenti del cinema americano (Paul Newman,
Marlon Brando, Al Pacino, Robert De Niro, Montgomery
Clift, ecc.). Il metodo di Strasberg, completamente opposto
a quello di Natasha Lytess, si ricollega alle teorie di
Stanislavskij e si basa sull’identificazione completa con il personaggio. Pur essendo assalita da un’eccessiva fragilità
emotiva, Marilyn riesce a fare di quest’esperienza una grande risorsa. Intanto comincia a frequentare il drammaturgo
Arthur Miller, considerato uno dei più grandi scrittori statunitensi, che diventa in seguito il suo terzo marito nonché lo
sceneggiatore del suo ultimo film compiuto. Nello stesso
tempo si prospetta un’altra separazione, quella da Natasha
Lytess, che Marilyn licenzia ponendo fine anche alla loro
amicizia.
Il primo film dopo l’esperienza con Strasberg è Fermata
d’autobus (Bus Stop, 1956) di Joshua Logan, ancora un
western in cui l’attrice riesce a mettere a frutto gli insegnamenti appresi e, al contrario delle altre volte, si mostra particolarmente rilassata. Al termine delle riprese, il 29 giugno
1956, sposa Arthur Miller per poi volare in Inghilterra, non
per il viaggio di nozze ma per il successivo impegno. Nelle
aspettative della Monroe Il principe e la ballerina (The
Prince and the Show Girl, 1957) doveva essere il suo capolavoro: noto per le performance in teatro e per aver portato
sul grande schermo alcuni testi di Shakespeare, il regista
Laurence Olivier rappresenta in quegli anni l’idea di un
cinema più “alto” e impegnato rispetto a quello dello star
system americano. Purtroppo sia per motivi di carattere professionale (Olivier non ama l’approccio troppo “psicologico” di Strasberg) sia personale (il rapporto con Miller
mostra già i primi segni di cedimento) le circostanze degenerano. Paula Strasberg, figlia di Lee, che è diventata l’assistente personale di Marilyn, è costretta ad andarsene e le
riprese proseguono faticosamente: Olivier non ha il carattere focoso di Hawks e Preminger né interviene in modo deciso sull’attrice, ma quando non approva il suo comportamento la tratta con sufficienza, atteggiamento a cui lei non è di
certo abituata. La pellicola rispolvera il genere del film-operetta, con Marilyn nel ruolo di una ballerina che irrompe in
un mondo al quale non appartiene per sconvolgerne le regole interne. Assieme al regista la diva compare per la prima e
ultima volta anche come produttrice.
Dopo l’esperienza inglese Marilyn Monroe torna in patria
per girare il secondo film con un autore a cui deve i migliori risultati, Billy Wilder. L’occasione è imperdibile, infatti il
cineasta la chiama per A qualcuno piace caldo (Some Like
It Hot, 1959) insieme a Tony Curtis e Jack Lemmon. Le
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riprese sono tormentate da continui problemi, come il tentativo (fallito) da parte dell’attrice di avere un
figlio, i soliti ritardi sul set e le abituali distrazioni che iniziano a far circolare aneddoti e racconti di ogni
tipo. Non ci resta che l’oggettività del film e della sua bravura, che in quest’occasione è straordinaria. Il
cinema di Wilder, costruito attorno ai meccanismi del mascheramento e della rivelazione, è perfetto per
Marilyn. A qualcuno piace caldo narra la storia di due musicisti che, dopo aver assistito alla “strage di San
Valentino”, si uniscono a un’orchestra femminile fingendo di essere donne. Qui conoscono Zucchero
(Marilyn appunto), che inconsapevole della loro vera identità ne diventa amica, accendendo in realtà le più
calde fantasie maschili. Il film rappresenta l’apoteosi di tutte quelle caratteristiche che l’hanno resa indimenticabile: la miscela di sensualità e candore, il vitalismo sfrenato, la naturalezza accompagnata dalla
capacità di giocare con gli atteggiamenti della femme fatale (nella scena in cui deve sedurre il finto miliardario interpretato da Curtis). La Monroe ottiene il Golden Globe come miglior attrice di commedia. La
fama è alle stelle e l’anno successivo gira Facciamo l’amore (Let’s Make Love) di George Cukor accanto
a Yves Montand. Il rapporto con l’attore diventa intimo, anche a causa della crisi matrimoniale che la allontana da Miller. Commedia degli equivoci e del travestimento, in Facciamo l’amore Marilyn incarna un
ruolo che l’ha accompagnata per tutta la carriera - quella della show girl - ma con una maturità palpabile
con cui si congeda dal genere brillante.
Quando la Monroe interpreta Gli spostati (The Misfits, 1961) non sa ancora che sarà l’ultimo film che riuscirà a finire, eppure tutto, prima ancora dell’inizio delle riprese, è circondato da un’atmosfera nebulosa.
Il testo scritto da Arthur Miller per la moglie è effettivamente la trasposizione cinematografica della sostanza stessa di Marilyn, quella che il pubblico ha cominciato a intuire dietro gli innumerevoli amori sbagliati, le scelte improvvise, i capricci e le contraddizioni. Questa volta, infatti, è la complessità della donna a
essere raffigurata. Accanto a Clark Gable e Montgomery Clift, l’attrice viene diretta da John Huston a undici anni di distanza da Giungla d’asfalto. In tutto questo tempo da starlet è diventata una diva di Hollywood,
capace di richiamare fan da tutto il mondo e di creare decine di imitazioni. È un periodo difficile per
Marilyn, sta subendo l’ennesima cura psichiatrica e fa ricorso a farmaci. Ma nel film, quasi a esorcizzare
la sua disperata uscita di scena, è di una bravura straziante. Gli spostati non è affatto un’opera perfetta e,
come per la protagonista, non può essere giudicata unicamente per la sua “materia” filmica. L’alchimia tra
gli attori (che moriranno tutti a breve distanza), lo sguardo di uno dei drammaturghi più geniali cucito
addosso alla star per eccellenza, la mano di un regista come Huston, la storia di un mondo che sta finendo
(quello dei cowboy): tutto contribuisce a creare un rapporto osmotico tra la finzione e la realtà. RoslynMarilyn è un mix di forza ed emotività, metaforizzata da Miller e Huston attraverso l’immagine di un
cavallo selvaggio che non si può domare. E che nemmeno la morte riuscirà a far tacere.
Pochi giorni dopo l’uscita di Gli spostati la Monroe e Miller divorziano. L’equilibrio psicologico dell’attrice è fragile (anche a causa della scomparsa di Clark Gable, morto a dieci giorni dalla fine delle riprese),
ma Marilyn non rinuncia a girare Something’s Got to Give di Cukor. Siamo nel 1962, la diva si assenta dal
set per giorni provocando ritardi nelle riprese e un aumento insostenibile dei costi di produzione, tanto da
essere licenziata e riassunta dalla Fox a distanza di una manciata di settimane. Si reca persino a New York
per cantare il famoso «Happy Birthday Mr. President» e festeggiare il compleanno di Kennedy, al quale è
legata da una relazione segreta. Alcuni sostengono che ai tormentati rapporti con la famiglia Kennedy risalgano i motivi dell’oscura morte della Monroe, avvenuta nella notte tra il 4 e il 5 agosto del 1962, ufficialmente per un suicidio dovuto a una dose letale di barbiturici. Quelle ultime ore rimangono un mistero ancora irrisolto. Del film incompiuto, invece, ci restano poche scene, tra cui la sequenza in cui l’attrice nuota
nuda in piscina. Pur nell’apparente felicità, simbolicamente Marilyn è libera solo dentro confini limitati
(che la vita o il sistema le imposero), a cui si è accostata con un atteggiamento di adesione e insieme di
rifiuto. La morte rappresenta forse il superamento definitivo di quei limiti, e quindi la prova estrema della
sua immortalità.
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MARILYN:
PUNTA DI DIAMANTE E FINE DELLO STAR SYSTEM
L
a nascita del mito di Marilyn Monroe affonda le proprie radici nello star system hollywoodiano e
nelle trasformazioni che lo attraversano nel periodo bellico. Proprio quando gli Stati Uniti decidono l’intervento nel Secondo conflitto mondiale l’impianto divistico americano subisce alcuni importanti cambiamenti legati al rapporto fra i sessi e all’evoluzione della società. Le interpreti femminili degli
anni Quaranta rappresentano un’altra immagine rispetto a quella delle grandi attrici del periodo immediatamente successivo. Questo perché il cinema come industria opera all’interno di un contesto storico diverso, dominato dall’impegno in guerra e dalla conseguente chiamata alle armi di numerose star maschili. La
donna, quindi, diventa strumento essenziale di un nuovo mondo di riferimento da comunicare non solo
all’interno del Paese, viene adoperata come simbolo di una nazione in cui anche in assenza degli uomini
si continua a lavorare. Sullo schermo infermiere, impiegate, giornaliste, insegnanti, volontarie sono l’incarnazione di tutti quei valori ai quali si richiama l’America. Katharine Hepburn, Bette Davis e Joan
Crawford (solo per fare i nomi più illustri) sono la dedizione, la forza e la solidarietà che consentono di fare
della guerra un affare collettivo, dando la possibilità al pubblico di identificarsi con figure vicine al quotidiano. Modello che tuttavia non è dominante, perché accanto a tali personaggi assume un ruolo sempre più
decisivo per il periodo seguente quello di un altro “corpo” da ammirare già presente nell’immaginario dell’epoca, la pin-up. Fotografata soprattutto per le qualità fisiche e per la capacità di rendersi oggetto di attrazione per soldati e reduci, la starlet inizia ad alterare il canone di bellezza femminile con il quale il pubblico si è confrontato fino a quel momento. La fine del conflitto e la volontà di accentuare la funzione dominante degli Stati Uniti (insieme a Hollywood) nello sviluppo socio-economico accelerano il meccanismo
in atto, consolidando la relazione tra divismo e consumi di massa. Lusso ed eccesso sono le risorse principali, sia per le star che le esprimono sia per lo spettatore che aspira a evadere dalle angosce della realtà.
Quella che Marilyn Monroe riceve in eredità è una civiltà dove gli ideali di splendore e benessere richiamano seduzione e sessualità. Con un intervento che modifica la mitologia popolare lo star system capovolge il ruolo delle dive creando un’associazione duratura tra donna e spettacolo, generando sentimenti di imitazione che guardano al look, alla presenza scenica e sempre meno al talento. Mentre negli anni Cinquanta
la concorrenza della televisione costringe il cinema a rivalutare i propri meccanismi di base, la donna sul
grande schermo deve attirare in primo luogo desideri sessuali. Marilyn entra con decisione in una simile
struttura, dimostrandosi abile però nel combinare un doppio ritratto di sé, raffigurando un erotismo forte
che fa risaltare anche l’ingenuità e l’innocenza. Dopo i sacrifici dovuti alla crisi degli anni Trenta e allo
sforzo bellico, si assiste all’adeguamento della femminilità ai consumi collettivi. Si trasforma la società,
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mutano i bisogni comuni e le star rispecchiano un nuovo universo, sono l’oggetto di quelle speranze e di
quelle illusioni che la morte di Marilyn porta alla luce in modo drammatico. Se nel corso della sua breve
carriera la Monroe mette in scena con spontaneità i conflitti e la problematicità del rapporto fra i sessi, i
suoi comportamenti spesso autodistruttivi così come la fine dolorosa vi aggiungono una dimensione tragica nella quale vengono risucchiate le incertezze e le paure. I sogni si disperdono nella disperazione, il male
di vivere non è più qualcosa di eccezionale nell’Olimpo dei divi.
Senza troppi giri di parole possiamo dire che nell’esistenza personale e cinematografica di Marilyn può
essere disegnata la parabola dell’intero star system nei due decenni che seguono la Seconda guerra mondiale. Una parabola interrotta nei punti più alti da molte cadute, dominata dal potere di Hollywood che vede
nel divismo lo strumento principale di un’operazione importantissima per la propria sopravvivenza: la
commerciabilità. La star è uno stereotipo da costruire, è glamour, sex appeal non solo nei toni sfarzosi, ma
anche nella routine di tutti i giorni. Viene usata osservando ciò che accade all’esterno degli Studios (nella
realtà, negli altri media), senza dimenticare il pubblico di riferimento. Infatti Marilyn è amante e desiderio
puro per gli uomini, donna per le altre donne o rivale con cui confrontarsi e alla quale adeguarsi. È un simbolo universale. È il mito di tutti e arriva a rappresentare il terreno di scontro dove si negozia il potere nella
sessualità. Per capirlo non si deve pensare solo alla vita privata dell’attrice, alle diverse disavventure che
occupano gli spazi delle cronache o del pettegolezzo. Ai dolori personali del passato si aggiunge l’ascesa
all’interno di un dispositivo meschino, che si serve del “materiale umano” come di una merce da mettere
al servizio del successo. Ricordando le ricerche di Edgar Morin, tutto quello che interessa il divo (e quindi non solo l’immagine cinematografica) è parte di un commercio selvaggio dipendente dalle regole della
produzione. Lo spettatore nel dopoguerra è il consumatore per eccellenza che deve comunicare con oggetti di mercato visibili, appetibili, affascinanti. Deve amarli ma solo per possederli. Per il cinema il possesso è associato allo sguardo, alla voglia di vedere personaggi che stimolano i propri impulsi. Ed è così che
il corpo delle star diviene oggetto modellato su un bisogno più ampio occupando il centro degli interessi
legati alla sessualità, in particolare dopo la riduzione del peso occupato dalle norme restrittive del codice
Hays nella scelta dei temi e del modo di affrontarli.
Proprio quando la Monroe raggiunge l’apice del successo, lo star system americano inizia ad avvertire i
sintomi di un declino che diventerà evidente poco dopo. Anche a causa dell’enorme diffusione della Tv e
dell’affermarsi delle correnti che in Europa impongono una fase di rottura con il cinema precedente (il
Neorealismo e la Nouvelle Vague su tutte), la crepa nel divismo tradizionale è ormai aperta: le star non
sono più dei miti assoluti, la loro esistenza privata è ingombrante e tende a far prevalere l’umanità dell’attore o dell’attrice sui ruoli ai quali vengono assegnati. Da esseri divini per definizione i personaggi più
celebri di Hollywood si trasformano negli amori tormentati, nei lutti e nelle dipendenze che opprimono le
loro vite. Si avvicinano alla condizione dello spettatore perché l’infelicità o la morte contaminano un regno
osservato per la sua indistruttibile perfezione. La figura della diva decaduta è piena di una verità che infrange l’utopia dell’epoca d’oro lontana dalle preoccupazioni e dagli affanni quotidiani. Nella generale atmosfera di lusso ed euforia, la tragedia di Marilyn rimane la traccia destinata a sconvolgere un organismo
malato da tempo. Come scrive Morin, questo suicidio riapre la recente ferita della morte di James Dean,
che pochi anni prima ha anticipato il clima sofferente e nevrotico del «cinema problematico». Solitudine e
vanità del successo, che circolano fra i contenuti di certi film d’autore provenienti dalle scuole europee,
entrano nella vicenda disperata di una «donna molto amata, ma anche amata male», pronta a nascondere
dietro l’erotismo e l’innocenza il volto triste per l’esistenza che non ha mai avuto. Dietro l’icona del sorriso c’è il corpo del disagio. Morin parla di «demitizzazione naturale» e «fine dell’Olimpo», due espressioni in grado di riassumere il significato effettivo di ciò che accade al sistema americano quando viene
privato delle star. James Dean (eroe dell’adolescenza) e Marilyn Monroe (eroina della nuova femminilità)
spezzano il rapporto tra successo sociale e realizzazione personale. Nella tormentata ricerca di un senso e
nella fine improvvisa i due divi parlano il linguaggio umano del fallimento. Ma, paradossalmente, la morte
apre la strada dell’immortalità.
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I FILM
Niagara (Henry Hathaway)
Gli uomini preferiscono le bionde (Howard Hawks)
Il prinicipe e la ballerina (Laurence Olivier)
A qualcuno piace caldo (Billy Wilder)
Gli spostati (John Huston)
NIAGARA
Regia Henry Hathaway
Sceneggiatura Charles Brackett, Walter Reisch,
Richard L. Breen
Fotografia Joseph MacDonald
Montaggio Barbara McLean
Musica Sol Kaplan
Scenografia Maurice Ransford, Lyle R. Wheeler
Costumi Dorothy Jeakins
Con Marilyn Monroe, Joseph Cotten, Jean Peters, Max
Showalter, Richard Allan, Denis O’Dea
Anno 1953
Durata 92’
LA TRAMA
urante una vacanza alle cascate del Niagara una
donna cerca il modo di assassinare il marito reduce
di guerra con l’aiuto del giovane amante. Il piano però non si conclude come progettato dai due
e le cose ben presto precipiteranno...
D
CONTRIBUTI CRITICI
[…] È chiaro che il film è stato fatto per lei [Marilyn Monroe], per vederne affiorare le rosee carni dalle
lenzuola (così viene presentata nella prima scena che la riguarda) o per seguirla con lo sguardo mentre s’allontana, con i suoi movimenti da marciatore, verso il fondo di un corridoio o di una piazza, corridoi lunghissimi e piazze vastissime: compiacimenti per il gusto grossolano delle platee. Ma attenzione. Marilyn
Monroe (Rose nel film) è l’abisso della perdizione, è il bruciante amore carnale, è la sfrenatezza e la violenza della passione che tutto travolge inarrestabile come le gigantesche e paurose cascate del Niagara.
Ecco l’analogia e il contrappunto con l’ambiente. Disgraziato chi capita con una donna simile. Se ne innamora; e in principio è come un pezzo di legno che galleggia sulle calme acque del fiume, finché a un tratto si trova nel filo di una corrente più forte e infine è travolto dai vortici delle rapide, si trova sul salto e
precipita nel fondo iridato con le acque torreggianti. […] Intanto lo scopo è stato raggiunto: per mezzo film
Marilyn Monroe ha fatto del suo meglio per essere la droga del racconto, per mostrarsi come la “super
bomba all’idrogeno”; e Hathaway l’ha servita a puntino con le sue lunghe inquadrature, spianandole la
strada per nuove violenze al buon gusto degli spettatori. Ma, miracolo dei miracoli, è anche riuscito a farla
recitare.
(Domenico Meccoli, Epoca, 20 settembre 1953)
[…] Niagara è una specie di giallo, che col tempo è diventato involontariamente comico, sulla gelosia e
l’adulterio, con lo sfondo delle famose cascate. […] La Monroe muore, cioè scompare dal film almeno tre
quarti d’ora prima della fine; ma il film continua egualmente, imperterrito, la sua corsa verso la conclusione edificante. Eppure, dopo aver visto il film, qualche cosa di inalterabile e di indimenticabile rimane nella
memoria; e sono alcune fotografie della Monroe. Si badi, non fotogrammi ma fotografie; cioè non l’interpretazione e il personaggio, bensì proprio fotografie non tanto diverse, in fondo, da quelle del ben noto
calendario […]. Sta a indicare, secondo noi, che Marilyn riempie lo schermo con qualche cosa che non è
bravura dell’interprete, anche se è chiaro che, con la solita ingenuità e trepidazione, ce la mette tutta per
identificarsi nel personaggio. Questo qualche cosa non è neppure il così detto “sex appeal” che è già un
17
risultato di secondo grado. Questo qualche cosa è lei stessa. […] La chiave potrebbe essere quella sua
maniera di ridere con gli occhi socchiusi e le pupille annegate in un’espressione deliziata, voluttuosa. È
l’espressione del tutto leggibile e in qualche modo tradizionale che dovrebbe assumere il viso nel momento dell’orgasmo. Questa espressione, sul viso di Marilyn torna frequentemente, anzi, diciamo pure che
torna tutte le volte che è possibile ricorrervi con un minimo di verosimiglianza. Ma è un’espressione ovviamente menzognera: al tempo di Marylin non c’erano ancora film sessuali nei quali gli attori non simulano
ma vivono l’erotismo. Qualcuno, adesso, dirà: che c’entra la simulazione, Marilyn era un’attrice, recitava.
Ecco il punto, secondo noi: non recitava bensì ricorreva a cosa di cui si era servita e tutt’ora si serviva per
recitare una certa parte nell’esistenza quotidiana. Cioè, prima ancora che sullo schermo, con milioni di
spettatori, Marilyn aveva finto di raggiungere l’orgasmo con quei pochi uomini con i quali si era accoppiata. Sullo schermo la risata con gli occhi socchiusi faceva, del resto, lo stesso effetto che nella vita reale,
cioè traeva in inganno gli spettatori come aveva già tratto in inganno Di Maggio oppure Miller. Insomma,
secondo noi, o meglio secondo le immagini di Niagara, Marilyn sembrerebbe una donna resa frigida da un
antico stupro, alla ricerca patetica e costante della comunione amorosa. Quella comunione che le avrebbe
permesso almeno una volta, nella vita, di ridere almeno una volta con gli occhi socchiusi sinceramente e
autenticamente. Il vero volto di Marilyn appare, del resto, per un attimo in due o tre fotogrammi di Niagara.
Marilyn si distrae, dimentica il suo personaggio e ci guarda dallo schermo come ci avrebbe guardato se, la
notte della sua morte, fossimo entrati di colpo nella sua stanza. Allora scopriamo che Marilyn ha gli occhi
grandi e tondi, i così detti “occhioni” che di solito vengono attribuiti ai bambini. Lo sguardo di questi occhi
non è affatto ridente o voluttuoso: è soltanto innocente, nel senso di sprovveduto e impaurito; cioè innocente non soltanto per quanto riguarda l’amore ma anche la cultura, la società, le idee, la psicologia e così
via. Insomma, Marilyn spaventata come sono spaventati nelle favole i bambini che si sono smarriti nella
foresta. Cioè spaventata dalla propria innocenza nei confronti di tutto o quasi tutto. E per nascondere l’innocenza , ricorre alla ben nota risata con gli occhi socchiusi di cui si sa di certo, per istinto, che trae in
inganno. Insomma il mito di Marilyn è quello
della popolana, della civiltà industriale, fatalmente emarginata e tuttavia piena di buona volontà e
di umiltà che non ha ancora capito che la sola
chiave per la cultura, oggi, è quella della rivolta.
Quando lo ha capito, non le è sfuggito che era
ormai troppo tardi e che ben presto la risata con
gli occhi socchiusi non sarebbe più bastata a
nascondere l’innocenza […].
(Alberto Moravia, L’Espresso, 21 agosto 1977)
Per i più giovani sarà bene precisare che non si
tratta del primo film di una serie che proseguirà
con Idraulico liquido. Niagara è un film breve e
scuro, come la vita di Marilyn. È un film di amore
violento, di un tradimento, di un assassinio, di un
delitto passionale. C’è tutto ciò che rende una storia carica di sentimenti forti, capace di appassionare, di far partecipare, tifare. Lei è bella, bellissima, traditrice. Raramente Marilyn Monroe è stata
furba e cattiva, sempre è stata capace di far perdere la testa a ogni uomo possibile. Qui si è scelto un
marito geloso come una scimmia. Ma ciò che più
Una scena del film
18
sorprende è perché un uomo geloso come una scimmia vada a sposare una come Marilyn. Solo una inconscia voglia di punizione, magari covata negli anni di guerra, può giustificare un tale errore. Comunque, il
marito Otello, che la bionda moglie e l’aitante amante vogliono ammazzare, non solo la scampa, ma torno
torno cacchio cacchio (come diceva Totò), li fa fuori tutti e due, i fedifraghi. Il film ha una struttura severa e dura. Il finale è un santino alla tecnica del montaggio alternato, una campana e una strizzatina d’occhio della Marilyn [...].
(Walter Veltroni, Il Venerdì di Repubblica, 13 gennaio 1995)
[…] Niagara ha reso Marilyn Monroe una delle star principali della Fox. Hathaway, dopo il successo di
questo melodramma, voleva riaverla per il remake di Of Human Bondage (Schiavo d’amore, 1934), al fianco di Montgomery Clift (il film sarà poi realizzato nel 1963 da Ken Hughes con Kim Novak nella parte
scelta per la Monroe e Laurence Harvey in quella di Clift). È una delle poche opere di Hathaway in cui la
donna ha un ruolo autonomo ed è uno dei pochi film in cui la Monroe interpreta un personaggio totalmente negativo […]. Non è un caso, ovviamente, che il film nasca da un’idea di Charles Brackett, sceneggiatore di Billy Wilder per alcuni dei suoi film più aspri e desolati […].
(Stefano Della Casa, Dizionario del Cinema Americano, Editori Riuniti, 1996)
[…] Primo grande successo per la Monroe in un ruolo completamente negativo, benché la parte della dark
lady non sembri calzarle più di tanto. Perfetto invece Cotten, veterano della guerra di Corea, instabile e
amareggiato. Alcune scene sono di forte impatto (l’inseguimento lungo la passatoia a strapiombo sulle
cascate, la resa dei conti all’interno del campanile e il finale sulla barca travolta dalla corrente): ma nel
complesso la regia è discontinua, e la sceneggiatura di Charles Brackett (anche produttore), Walter Reisch
e Richard L. Breen rielabora senza troppa originalità temi cari al noir […].
(Il Mereghetti. Dizionario dei film 2011, Baldini & Castoldi)
[…] Melodramma criminale a suspense con diverse sequenze emozionanti grazie all’efficace uso del colore (fotografia di Joe McDonald) e alle angolazioni della cinepresa che sfruttano al meglio gli esterni delle
cascate. È il film che trasformò M. Monroe in una star della Fox, e uno dei pochi in cui interpreta un personaggio totalmente negativo: divennero famosi l’abito scarlatto che indossa in una scena passionale; il
sorriso che rivolge alla cinepresa quando, sbagliando, presume che il marito sia morto; la sua camminata
pelvica, sull’orlo dell’autocaricatura. È un brutto film, ma, in un certo senso, affascinante per il suo cattivo gusto.
(Laura, Luisa, Morando Morandini, il Morandini 2011, Zanichelli)
NOTE E CURIOSITÀ
È il primo film di Marilyn girato in Technicolor e l’unico in cui, interpretando un personaggio malvagio,
alla fine muore.
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GLI UOMINI PREFERISCONO
LE BIONDE
(Gentlemen Prefer Blondes)
Regia Howard Hawks
Sceneggiatura Charles Lederer
Fotografia Harry J. Wild
Montaggio Hugh S. Fowler
Musica Leigh Harline, Lionel Newman,
Hal Schaefer, Herbert W. Spencer
Scenografia Lyle R. Wheeler, Joseph C. Wright
Costumi Travilla
Con Marilyn Monroe, Jane Russel, Tommy Noonan , Elliott
Reid, Charles Coburn, Norma Varden, Taylor Holmes
Anno 1953,
Durata 95’
LA TRAMA
a bionda Lorelei Lee e la bruna Dorothy Show, ballerine e amiche, decidono di partire per l’Europa
dove Lorelei attende l’arrivo del fidanzato (figlio di un miliardario) per farsi sposare. Ma la situazione si complica a causa della passione sfrenata di Lorelei per i diamanti e della presenza di un
indiscreto detective privato...
L
CONTRIBUTI CRITICI
[…] Come dichiarò lo stesso Hawks, «le due ragazze, Marilyn Monroe e Jane Russell, stavano talmente
bene insieme che, ogni volta che non sapevamo quale scena inventare, le facevo camminare avanti e indietro, cosa che il pubblico adora». La sceneggiatura […] è ritagliata infatti sulle presenze femminili della
bionda Marilyn Monroe e della bruna Jane Russell. La guerra dei sessi per contro, appare mitigata, assorbita da spunti comici più mediati e tradizionali. Gentlemen Prefer Blondes ottenne comunque un grandissimo successo, rivelandosi una riuscita combinazione tra star system e regia smagliante nella sua colorata
confezione […]. Il film può essere annoverato tra le commedie più riuscite degli anni ’50. Ancora Hawks,
caustico: «In altri film ci sono due uomini che escono e cercano di trovare qualche bella ragazza per divertirsi. Noi abbiamo immaginato il contrario, e preso due ragazze che escono e si trovano qualche uomo per
divertirsi. Una storia perfettamente moderna» […].
(Stefano Della Casa, Cristina Bragaglia, Dizionario del Cinema Americano, Editori Riuniti, 1996)
Bye Bye Baby è un titolo che solo a pronunciarlo si sentono i brividi nella pelle. Una specie di overdose di
erotismo, una fleboclisi di sensualità, una indigestione di cattivi pensieri. La voce è quella di Marilyn e
viene da chiedersi perché la natura non faccia mai scherzi tipo: dare a una come Marilyn le corde vocali di
Tina Pica e viceversa? Sarebbe meglio distribuire le umane virtù e tutti vivrebbero più felici. Così è come
la famosa media del consumo del pollo, uno a testa, secondo le statistiche, anche se uno ne mangia due e
l’altro nessuno. In questo film Marilyn è a dir poco meravigliosa, sbarazzina e bomba sexy in un’unica
soluzione […].
(Walter Veltroni, Il Venerdì di Repubblica, 10 maggio 1996)
Quando il femminismo era solo una parola nel vocabolario, due splendide ragazze, una bruna e l’altra bionda, decisero di unire le forze e sfidare i maschietti sul loro terreno. I film al femminile non erano una novità a Hollywood ma dai lontani Donne (Cukor), L’amica (Sherman), La calunnia (Wyler) si trattava sem21
pre di rivalità, sgambetti, perfidie, secondo un’ottica che escludeva a priori la pace tra esponenti del sesso
debole, come si diceva una volta. Questo mentre l’amicizia virile (non omosessuale, per carità…) teneva
in piedi mezzo cinema americano, a cominciare dal western. Non sono sicuro della data, ma mi pare che
il primo film in cui due donne vanno d’amore e d’accordo, si completano e si proteggano a vicenda senza
invidia né gelosia, si comportano cioè “da maschi”, potrebbe essere proprio Gli uomini preferiscono le
bionde, girato nel 1952. Il testo teatrale, nella sua innocua spregiudicatezza (per l’epoca) era soltanto spiritoso. Hawks saggiamente lavorò sul ritmo, sui corpi, sull’irrealtà dei momenti musicali. Tra schermaglie
e scambi di ruolo, la sua presunta misoginia diventa un inno alla complicità di due amiche, un omaggio
all’intelligenza delle donne. Non è un caso che, come in altri suoi film (uno per tutti: Lo sport preferito
dall’uomo…) il maschio sia un giocattolo un po’ babbeo nelle mani del sesso opposto. Marilyn Monroe ha
avuto tanti partner maschili. Nessuno è stato alla sua altezza più di Jane Russell, femmina quanto lei. Jane
le fa da spalla e da sponda, le cede il campo e se lo riprende, nemmeno per un momento si lascia sopraffare. Sa che per vincere non è il caso di combattere, che l’unico modo di tener testa a Marilyn è volerle
bene. Lungo tutto il film, Jane la guarda con la condiscendenza affettuosa di una sorella maggiore, con la
tenerezza che si deve a una bambina. Per questo il fascino dell’una si riflette sull’altra. E quando il film è
finito, non sappiamo, nonostante il titolo, quale delle due preferire […].
(Gianni Amelio, Il vizio del cinema, Einaudi, 2004, pp. 114-115)
Di che cosa parliamo quando parliamo di musical? Di cose necessariamente frivole, leggere, inutili? Sì,
anche, dipende. Non certo nel caso di Cantando sotto la pioggia, tanto per citare un capolavoro di ironia
sul mondo del cinema. E nemmeno nel caso di Gli uomini preferiscono le bionde, 1953, altro capolavoro,
e trionfo della bellezza di Marilyn Monroe, in piccante associazione qui con la bruna Jane Russell. Howard
Hawks, uno dei grandi di Hollywood, maestro di tutti i generi, dal western alla commedia, con questo film,
da un romanzo di Anita Loos, poi diventato una pièce teatrale, sceneggiato da Charles Lederer, parla di
sesso e di denaro. Ne parla con grazia, con apparente leggerezza e con serietà. Nessuno, sotto la superficie
del gioco, potrà illudersi che la bella morbida bionda Lorelei Lee (Marilyn, appunto) sia attratta veramente da Tommy Noonan, che nel film ha il ruolo del figlio tonterellone di un miliardario: è chiaro che si tratta di un interesse d’interesse (questo per quanto riguarda il denaro). E nessuno, vedendo il numero di Jane
Russell in piscina assieme a una banda di super palestrati potrà pensare che la ragazza non sia attratta dalla
tentazione della carne (questo per quanto riguarda il sesso). Ma il gioco del desiderio e del denaro è condotto con eleganza sopraffina e con ironia magistrale, e dà origine a una delle commedie più magistrali che
Hollywood abbia creato. Più che un musical, infatti, Gli uomini preferiscono le bionde è una commedia
con musiche. Incantevoli. Da Diamonds Are a Girl’s Best Friend a Bye Bye Baby passando per Two Little
Girls From Little Rock è un trionfo del gioco sottotono, del sorriso, dell’eleganza, e una volta di più ci si
stupisce per la bravura di Marilyn Monroe e il controllo che esercita su una voce sottile ma seducente, sempre consapevole del gioco ironico di cui è parte determinante.
(Irene Bignardi, Il Venerdì di Repubblica, 28 aprile 2006)
Jane Russell e Marilyn Monroe, la bruna e la
bionda, nella commedia di Howard Hawks
Gentlemen Prefer Blondes
22
[…] È uno dei capolavori più nascosti della genialità di Hawks che riesce a descrivere l’avidità sessuale e
materiale delle due protagoniste senza essere offensivo né morboso: il suo tono secco ma sereno riesce a
prendere le distanze dalla materia trattata evitando la volgarità come la facile indignazione di fronte alle
ossessioni e ai desideri dei vari personaggi, ma piuttosto sottolineando - con il ritmo e la forza caricaturale ma “astratta” di un disegno animato - solo gli aspetti piacevoli di questo comportamento (per prima cosa
l’indubbio sex appeal delle due protagoniste, ma anche la simpatia un po’ ribalda degli uomini) […].
(Il Mereghetti. Dizionario dei film 2011, Baldini & Castoldi)
[…] Commedia con musiche e danze, sceneggiata da Charles Lederer e tratta da un romanzo (1925, già
portato sullo schermo nel 1928) di Anita Loos, influente sceneggiatrice nella Hollywood degli anni ’20, e
da un musical (1949) di J. Fields, A. Loos e J. Styne: frivolissima e radicalmente irrealistica dove i personaggi sono oltraggiosamente caricaturali e non c’è soluzione di continuità tra azione e numeri musicali
(Diamonds Are a Girl’s Best Friend, Bye Bye Baby…, Two Little Girls From Little Rock). È anche uno dei
rari film hollywoodiani prima degli anni ’70 imperniati su un’amicizia femminile. Raramente M. Monroe
e J. Russell sono state più brave […].
(Laura, Luisa, Morando Morandini, il Morandini 2011, Zanichelli)
NOTE E CURIOSITÀ
La canzone Diamonds Are a Girl’s Best Friend interpretata nel film dalla Monroe è rimasta nella memoria
collettiva. Nel 1985 Madonna ne ha ripreso scenografie, coreografie e il famoso vestito rosa per il video di
Material Girl. Nel 2001 Nicole Kidman ha reinterpretato la canzone nel film Moulin Rouge!. Nel 2007
Beyoncé la canta per lo spot di Emporio Armani.
23
IL PRINCIPE E LA BALLERINA
(The Prince and the Showgirl)
Regia Laurence Olivier
Sceneggiatura Terence Rattingan
Fotografia Jack Cardiff
Montaggio Jack Harris
Musica Leigh Harline, Lionel Newman, Hal Schaefer, Herbert
W. Spencer
Scenografia Roger K. Furce
Costumi Beatrice Dawson
Con Marilyn Monroe, Laurence Olivier, Richard Wattis, David
Horne, Jeremy Spenser, Sybil Thorndike
Anno 1957,
Durata 115’
LA TRAMA
n cerca di compagnia per partecipare all’incoronazione di re Giorgio V a Londra nel 1911, il
Granduca di Carpazia rimane affascinato da Elsa, una ballerina americana che si troverà ben presto
coinvolta nelle questioni di corte...
I
CONTRIBUTI CRITICI
[…] Dopo le note vicissitudini della Monroe con la Fox, si era finalmente presentata all’attrice una splendida occasione per affermare la propria indipendenza dal controllo hollywoodiano, e per provare il suo
reale temperamento di attrice […]. In Fermata d’autobus di Logan, Marilyn aveva mostrato buone possibilità drammatiche e si sperava quindi che un regista di talento come Olivier avrebbe finalmente varato una
Marilyn “attrice” nel vero senso della parola. Invece abbiamo avuto un’ennesima presentazione delle
forme voluttuose della “star”, le solite espressioni da bambola, lo stereotipato sfruttamento dei suoi trucchetti femminili. […] Specie di Cenerentola
moderna, ambientata nel 1911, è risultato solo un pretesto per le esibizioni di Olivier in una parte esagerata di grande amatore, che si pavoneggia
in una serie di variopinte e sfarzose uniformi. Film estremamente commerciale e notevolmente vacuo, The Prince and the Showgirl ci appare
in conclusione un povero lavoro e Marilyn deve cercare al più presto di
mettere le mani su qualcosa di maggior impegno. Altrimenti la storia di
Marilyn Monroe sul set e,
insieme a Laurence
Olivier, in una scena de Il
principe e la ballerina
25
“Marilyn attrice” crollerà clamorosamente in breve.
(G. N. Fenin, Cinema Nuovo, 1 luglio 1957)
L’idea di avvicinare il più autorevole attore del cinema britannico alla più seducente bellezza di Hollywood
nasce in parte da una posa (di Laurence Olivier) e in parte da esigenze di box office. La prima rivela, indirettamente, la presunzione (solo in parte ragionevole) del chiarissimo attore shakespeariano, il quale evidentemente credeva di divertirsi un mondo con l’ingenua (o ritenuta tale) “vamp” americana, e al tempo
stesso era convinto di farsi la parte del leone nell’insolito accoppiamento tra cultura e attrazione fisica. Sia
subito chiaro, peraltro, che la parte del leone spetta a Marilyn Monroe, nel senso che senza possibilità di
dubbio la Monroe è più brava, più sincera e più spigliata del suo titolatissimo e premiato partner. […]
Marilyn Monroe è bravissima nel personaggio (a lei congenito) di una ballerina di Milwaukee, “suonata”
ma adorabile, la quale colpisce l’attenzione del reggente di uno stato balcanico, che si trova a Londra, nel
1911, per le cerimonie dell’incoronazione di Giorgio V […].
(Cinema Nuovo, 15 dicembre 1957)
[…] Il principe e la ballerina segna il ritorno alla regia di Olivier ed è valorizzato da un cast d’eccezione
quanto rinomato costituito da Olivier e la Monroe […]. Come in film precedenti, Olivier non si è distaccato, per la determinazione della struttura narrativa del suo film, da un’opera teatrale […].
(Nino Ghelli, Rivista del Cinematografo, dicembre 1957)
[…] Fresca di nozze con Miller, tutta un maggio coniugale, Marilyn andò a Londra per girare con Laurence
Olivier Il principe e la ballerina […]. I sorrisi che Il principe e la ballerina ci chiede e gli diamo sono rari
e tenui, di riguardo. E se non li questuasse la inaudita avvenenza di una Monroe nuova (la bellezza contenta, appagata, in certe donne splende come il genio) glieli negheremmo, forse. […] Abiti? E chiamateli
bucce. Aderiscono a lei, dal principio alla fine, come una seconda epidermide. Velluto su velluto, ambra su
ambra, giglio su giglio. Una delle poche volte in cui ho sentito fremere, in qualunque rozzo spettatore ignorante di moda, l’animo di Christian Dior. […] Aggiungiamoci che la tigre dei sofà ha imparato a inventarsi film per film; recita, adesso, e come. Laurence Olivier non riesce a emularla. E ben gli sta […].
(Giuseppe Marotta, Marotta Ciak, Bompiani, 1958, p.271)
Da una commedia di Terence Rattigan, un film sdolcinato e melenso, una sorta di Vedova allegra senza
seltz, anche se stilisticamente impeccabile. Il grande Laurence Olivier, reduce dalle ponderose regie di
Enrico V, Amleto e Riccardo III, è vistosamente a disagio col genere brillante, ma si salva con la classe.
Perfettamente in ruolo, oltre che incantevole come sempre, invece Marilyn.
(Massimo Bertarelli, il Giornale, 13 gennaio 2003)
[…] Qualche momento convincente e una deliziosa interpretazione dei due protagonisti (anche produttori)
non bastano a far lievitare davvero la commedia tratta dal successo teatrale di Terence Rattigan, qui anche
sceneggiatore. Le morbidezze di Marilyn, però, sono imperdibili.
(Il Mereghetti. Dizionario dei film 2011, Baldini & Castoldi)
[…] Il copione è un po’ moscio, irrimediabilmente coperto di polvere teatrale, ma la messinscena di Olivier
è di un accademismo impeccabile e la Monroe, anche produttrice, sfolgora. Domanda: chi delle due star ha
più sfruttato l’altra?
(Laura, Luisa, Morando Morandini, il Morandini 2011, Zanichelli)
PREMI
David di Donatello a Marilyn Monroe (1958).
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A QUALCUNO PIACE CALDO
(Some Like It Hot)
Regia Billy Wilder
Sceneggiatura Billy Wilder, I.A.L. Diamond
Fotografia Charles Lang
Montaggio Arthur P. Schmidt
Musica Adolph Deutsch
Scenografia Ted Haworth
Costumi Orry-Kelly
Con Marilyn Monroe, Tony Curtis, Jack Lemmon, George
Raft, Joe E. Brown, Pat O’Brien, Nehemiah Persoff
Anno 1959,
Durata 120’
LA TRAMA
opo aver assistito al massacro di San Valentino due musicisti sono costretti a fuggire e a trovare
un’improbabile nascondiglio all’interno di un’orchestra composta interamente da donne. Fra gag
improvvise, equivoci e travestimenti i due jazzisti saranno trascinati dall’irresistibile fascino di
Zucchero Kandinskj...
D
CONTRIBUTI CRITICI
Avventure e disavventure di due suonatori jazz e di un splendida bionda detta Zucchero Candito, a spasso
per l’America degli anni Trenta. Travolgente e dissolutoria farsa che, praticamente senza alcun intreccio,
si snoda in episodi accidentali quasi sempre di irresistibile comicità, parodiando uno per uno personaggi e
luoghi comuni dell’epoca del proibizionismo e del jazz, dei gangster e di Rudy Valentino, dei miliardari e
delle bionde platino [...].
(Gian Piero Dell’Acqua)
Considerato dall’esterno, A qualcuno piace caldo è soltanto una allegra farsa, imperniata su una trovata tutt’altro che peregrina: due poveri diavoli, inseguiti e minacciati di morte da una banda di gangster, sono
costretti a travestirsi da donna per poter entrare a far parte di un’orchestra in partenza per la Florida; su
questa base, si sviluppa un complicato gioco di equivoci, sinché l’identità delle due provvisorie signorine
non viene in chiaro sia ai banditi, coi quali la disdetta li ha rimessi in contatto, sia rispettivamente alla
donna e all’uomo che l’amore ha fatto loro incontrare [...].
(Vittorio Spinazzola, Cinema Nuovo, 1959)
Alla radice di un grande successo, come di un grande amore, c’è sempre una combinazione riuscita. La
combinazione che Billy Wilder ha escogitato per montare A qualcuno piace caldo, che risulterà alla fine
uno dei più grossi affari del secolo, è di aver preso la cruda materia della farsa cinematografica di Ridolini,
di Fatty e di Fridolen e di averla trasfusa negli schemi stilistici, nell’estro dialogico, nella squisita eleganza formale dell’ultimo e più sofisticato cinema. La meccanica della trovata è assolutamente la stessa. Basta
solo pensare che lo spunto di base poggia tutto sui travestimenti […]. Anche le macchiette sono quelle di
rito: il vecchio nababbo incitrullito che si innamora del contrabbassista e lo perseguita con le sue richieste
di matrimonio, i ferocissimi gangster a congresso che tentano inutilmente di acchiappare i due malcapitati giovani e finiranno per sterminarsi tra loro, ecc. Anche certe gag a tempo sono assolutamente da comica finale, come i due sculettamenti, mirabilmente cronometrati, di Marilyn tra due sbuffi di vapore. Sono
insomma ancora le solite vecchie risate. Con eccezionale intelligenza, Wilder è riuscito a trapiantarle in
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una tecnica raffinata e modernissima senza ch’esse perdessero nulla della loro credula, primitiva, clownesca buffoneria. […] Del resto c’è anche un dettaglio che dà la misura del colpo d’occhio infallibile con cui
è stata risolta la dosatura dei vari elementi del film, ed è l’accortezza con la quale è stata adoperata la materia retrospettiva. Il film si apre nella pittoresca Chicago degli anni del protezionismo, la Chicago di Al
Capone e dei seimila locali clandestini […]. Era facile la tentazione di sfruttare, esagerandole ai fini comici, la curiosità della cornice e del costume. Ebbene, se fate attenzione, vi accorgerete facilmente che Wilder
ha fatto volutamente smorzare le caricature dell’ambientazione. A parte l’architettura dell’albergo di
Miami […], manca per il resto (vedi il treno, il panfilo, il motoscafo) quel fastidioso baloccarsi con l’oggetto decorativo che fa alla lunga così triti e calligrafici i film retrospettivi. Le fogge stesse degli abiti sono
appena vagamente retrodatate: quelli di Marilyn in particolare non si staccano dalla linea di generica fantasia abituale della moda cinematografica. Soltanto per due personaggi, cioè i due musicisti travestiti da
donna, i figurinisti calcano volutamente i modelli del ’20-’25. Perché? Ma perché a questo modo Wilder
ottiene di scaricare su di loro tutto l’effetto del costume anacronistico: in altre parole, introduce la mascherata, che è uno dei motivi eterni della farsa. Anche lo stile degli attori, venuto tutto veloce e paradossale,
asseconda il gioco della farsa, in cui i personaggi non sono che zimbelli di un assurdo meccanismo di casi.
Tony Curtis e Jack Lemmon (le sue sgangherate boccucce!) portano con una tecnica infallibile le pantomime e le contorsioni della buffonesca coppia delle donzelle loro malgrado. Splendente ornamento e irresistibile pagliaccia primeggia naturalmente Marilyn Monroe in quella sua capacità unica di combinare la più
melensa malizia alla più innocente lascivia […].
(Filippo Sacchi, Epoca, 11 ottobre 1959)
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Chi non ama questo film può considerarsi ai margini del vivere civile. Non si può essere umani, dotati di
discernimento e non palpitare per le magnifiche avventure di Tony Curtis, Jack Lemmon e della zuccherosa Marilyn Monroe. Se non vi piace A qualcuno piace caldo fatevi vedere da uno specialista, la vita vi ha
fatto del male. C’è tutto quello che si può chiedere alla fantasia di chi si prende la briga di far divertire il
prossimo. C’è il tema classico del cinema americano, la fuga. C’è il modo classico della comicità, il travestimento. C’è la farsa, l’avventura, il giallo. C’è un pericolo che incombe e rende tutto più eccitante e
parossistico. C’è il sesso, incarnato nella più sensuale Marilyn della storia del cinema. C’è tutto e di più.
Una confezione accurata ed elegante, priva di cadute e volgarità. C’è un ritmo da vaudeville. Ci sono i
rimandi ai film classici come le gangster stories o le comiche di Sennet. E c’è il travolgente amore di un
miliardario completamente rincoglionito e Jack Lemmon travestito da donna. Fino al finale che ha cancellato il «Domani è un altro giorno» di Via col vento. Non lo ricordate? Beh, nessuno è perfetto.
(Walter Veltroni, Certi piccoli amori, Sperling & Kupfer, 1994, p. 2)
[…] Farsa di grande successo, generalmente considerata una delle pietre miliari della commedia cinematografica. Wilder vi organizza un autentico catalogo dei luoghi del repertorio comico: travestimenti, fughe
e inseguimenti, equivoci e scambi di persona; a ciò aggiunge una serie continua di simboli sessuali che
accompagnano, quasi secondo testo semantico, la struttura della farsa a inseguimento. Film di costante
effetto comico, costruito per accumulo di gag e rilancio continuo della situazione di partenza, Some Like
It Hot muove comunque - come è proprio della commedia wilderiana - da un giudizio amaro a pungente
sulla società, al di là delle sue brillanti apparenze […]. Marilyn Monroe non è mai stata, e non sarà mai più
tanto a suo agio. […] Tiene testa ai compagni con una leggerezza, un brio e una capacità di seduzione (fra
l’insinuante e l’infantile) […].
(Nepoti, Di Falco, Dizionario del cinema americano, Editori Riuniti, 1996)
«Nessuno è perfetto» dice il miliardario Osgood a Jack Lemmon, quando scopre che è un uomo. Ma la battuta finale non vale per il film di Wilder, che alla perfezione arriva molto vicino. […] Pietra miliare della
commedia cinematografica, con tutti i luoghi fondamentali del repertorio comico - travestimenti e fughe,
equivoci e scambi di persona - in un accumulo di gag memorabili. C’è anche un discorso “meta-cinematografico”, ossia la parodia del film di gangster anni ’30. Ma sotto lo strato divertente, Wilder non manca
l’occasione per mettere in scena due temi che lo ossessionano: il giudizio negativo sulla società americana e l’incertezza delle identità sessuali.
(Roberto Nepoti, la Repubblica, 19 aprile 1996)
[…] A qualcuno piace caldo (Some Like It Hot) mette in campo quanto di più americano si possa immaginare: proibizionismo, vita e malavita, sesso e tanto jazz più o meno hot secondo i gusti del momento.
Eppure il colpaccio del momento fu realizzato da una banda di esiliati mitteleuropei […]. Le follie di
Marilyn su quel set furono tali e tante da travolgere ogni difesa e attirare sulla produzione un imprevisto
richiamo mediologico. Lungi dal venir occultate, le intemperanze della diva furono addirittura esagerate e
sfruttate a fini pubblicitari. A un press agent si
deve probabilmente l’invenzione della storica
battuta di Curtis, che interrogato su cosa avesse provato abbracciando la Monroe avrebbe
detto: «È stato come baciare Adolf Hitler»
[…]. Del resto (e questa è una testimonianza
personale) Billy Wilder stesso ricordava
Marilyn senza alcun risentimento personale.
A lato: Jack Lemmon (Jerry) e Marilyn Monroe
(Zucchero) in una scena del film.
Nella pagina precedente: Marilyn con Tony
Curtis e Jack Lemmon
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Qualche anno fa, durante una cena al Kempinski di Berlino, gli chiedemmo quanto c’era di vero nel fatto
che la diva gliene avesse fatte passare di tutti i colori. Come risposta, l’anziano maestro alzò gli occhi al
cielo sospirando, ma subito aggiunse: «A volte l’avrei strangolata, poi andavo in proiezione e restavo
incantato». Quindi se Marilyn fosse ancora in circolazione l’avrebbe voluta di nuovo in un suo film?
Rispose: «Magari», con uno sguardo che stemperò la sua consueta espressione sarcastica su un tono di
nostalgia […].
(Tullio Kezich, Corriere della Sera, 21 agosto 2003)
Quando un gruppo di addetti stila classifiche di titoli assoluti, un paio di film di Wilder ci sono sempre. I
più citati sono Viale del tramonto e A qualcuno piace caldo. L’anomalia sta nel fatto che A qualcuno piace
caldo è un film comico, dunque appartiene a un genere sempre considerato, in chiave di qualità, nei contesti, mai in assoluto. Dico che quel film è un trionfo, per molte, per quasi tutte le ragioni. Non ha perso
vedibilità, fa sorridere e ridere adesso come allora, con la stessa intensità, nelle stesse sequenze. Seduce
tutti, dagli addetti a chi si trova distrattamente a vedere un film. E seduce a tutte le età. Un’altra misura
esatta, indiscutibile è l’audience: fa sempre numeri molto alti, passaggio dopo passaggio. È una garanzia
di gradimento, come pochi altri titoli storicizzati, sempreverdi che vengono da lontano. La storia è nota,
due musicisti leggeri sono costretti a camuffarsi in abiti femminili per salvarsi la pelle. Poi Marilyn si innamora di Curtis e Lemmon fa perdere la testa al miliardario Brown. E così il film rappresenta l’omosessualità e l’alcolismo (di Marilyn) con una leggerezza capace di sorpassare i codici, le etiche e i modelli rigidissimi di quella stagione hollywoodiana. La memoria del cinema, e dell’utente, archivia alcune sequenze
fondamentali, perfette come sfere, non riproducibili, “inalienabili”: Curtis con gli occhiali appannati mentre Marilyn lo seduce; Lemmon-Daphne, con la rosa in bocca, che balla il tango col vecchio milionario;
Marilyn che canta I’m Thru’ with Love e viene baciata da Curtis-Josephine che poi scatta sulla scala come
un centometrista, maschio; e poi naturalmente la solita battuta del nessuno è perfetto […].
(Pino Farinotti, www.mymovies.it, 2009)
[…] Una commedia assolutamente perfetta, scritta da Wilder e I.A.L. Diamond, che resuscita temi e modi
del vecchio comico e del vecchio cinema (banditi e pupe, travestimenti e torte in faccia) non per rileggerli criticamente ma «per mostrare i loro risvolti attuali e far leva sulle loro stesse contraddizioni»
[Lourcelles]. Al centro di tutto c’è la confusione tra i sessi, che provoca alcune tra le più celebri gag della
storia del cinema (la corte di Boccuccia di rosa/Brown a Daphne/Lemmon con il celeberrimo «Nessuno è
perfetto»; il doppio travestimento di Curtis in Josephine e nel miliardario che colleziona «conchiglie
Shell»). Nel ruolo di Zucchero Kandinskj (in originale Sugar Kane Kowalczyk) Marilyn è perfetta, indimenticabile quando suona l’ukulele e canta I Wanna Be Loved by You e I’m Thru’ with Love […].
(Il Mereghetti. Dizionario dei film 2011, Baldini & Castoldi)
[…] Pietra miliare della commedia americana. Una farsa strepitosa con molto punch, ritmo infallibile, odor
di sesso e di morte e una M. Monroe deliziosa in quella che è, forse, la sua miglior interpretazione in assoluto. Ricorrente nel cinema di Wilder, il travestitismo diventa qui l’asse portante dell’azione, contribuendo al suo lavoro di ribaltamento degli stereotipi sessuali e dimostrando che, contro il noto proverbio, l’abito fa il monaco. Il film si chiude con una battuta divenuta proverbiale: «Nobody is perfect».
(Laura, Luisa, Morando Morandini, il Morandini 2011, Zanichelli)
PREMI
- Vincitore del premio Oscar per i migliori costumi a Orry-Kelly (1960);
- Nomination all’Oscar per la migliore regia, miglior attore protagonista (Jack Lemmon), migliore sceneggiatura non originale, migliore fotografia, migliore scenografia (1960);
- Vincitore del Golden Globe come miglior commedia, miglior attore di commedia (Jack Lemmon),
miglior attrice di commedia (Marilyn Monroe) (1960);
- Nel 2000 è stato inserito al primo posto nella classifica delle migliori cento commedie statunitensi.
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GLI SPOSTATI
(The Misfits)
Regia John Huston
Sceneggiatura Arthur Miller
Fotografia Russell Metty
Montaggio George Tomasini
Musica Alex North
Scenografia Stephen B. Grimes, Bill Newberry
Costumi Jean Louis
Con Marilyn Monroe, Clark Gable, Montgomery Clift, Thelma
Ritter, Eli Wallace, James Barton, Kevin McCarthy
Anno 1961,
Durata 124’
LA TRAMA
n Nevada la showgirl di Chicago Roslyn conosce il cowboy
Gay e il meccanico e aviatore Guido. Il primo s’innamora presto della donna a tra i due s’instaura una
relazione, ma quando lei assiste alla crudeltà della caccia ai cavalli selvaggi ne rimane sconvolta. Gay
si troverà costretto a fare una scelta...
I
CONTRIBUTI CRITICI
È il primo film di Arthur Miller e l’ultimo di Clark Gable. Il noto commediografo ha messo troppa carne
al fuoco ma, nonostante la verbosità e le contraddizioni, il film ha un’insolita complessità psicologica, un
suo innegabile interesse che si trasforma in fascino e densità drammatica nella parte finale dove John
Huston ritrova l’antica vena. Interpreti eccellenti e una Monroe autobiografica come non era mai stata.
(La Notte)
Non si può certo affermare che l’incontro fra Arthur Miller e John Huston, due talenti tra i più inquieti e
anticonformisti dello spettacolo statunitense, abbia dato vita a un film persuasivo e appassionante, quale si
sarebbe potuto attendere. Interessante e apprezzabile per la storia delle alterne vicende dei rapporti fra cinema e letteratura e come esempio di sceneggiatura dotata di ambizioni autonome (e il significato dell’esperienza è stato colto e valutato adeguatamente da Aristarco), l’apporto di Miller si rivela poi disarticolato e
incoerente e sembra inscriversi nella fase attualmente involutiva della sua operosità. [...]
(Adelio Ferrero, Cinema Nuovo)
Il film, benché possa contare su attori e realizzatori di fama ed esperienza, non riesce a liberarsi dagli
impacci d’una eccessiva letterarietà, che smorza in gran parte gli effetti drammatici e toglie spontaneità e
vigore alla psicologia dei personaggi.
(Segnalazioni cinematografiche, vol. 49, 1961)
È un onesto ma goffo western, uno studio pseudo sociologico dei cowboy negli ultimi, disgustosi stadi
della obsolescenza, una rauca ode a Reno e agli orrori del divorzio, una ponderosa disquisizione sulla inumanità dell’uomo verso l’uomo, la donna e vari altri animali, un ottuso tentativo di scrivere una commedia sofisticata, un lamento alla maniera western sulla perdita di innocenza della vita americana e soprattutto un cupo lungo esame psico-analitico di Marilyn Monroe, Arthur Miller e di quello che andò storto nel
loro famoso matrimonio […].
(Time, 3 febbraio 1961)
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Gli spostati non è esattamente un “bel film”,
anche se spesso l’abilità e l’intelligenza registica di Huston sanno offrirci pagine di ottimo
cinema; ma ci pare un film straordinariamente
interessante per l’immagine (non tutta convincente e non tutta accettabile) che ci dà
dell’America d’oggi; un film fondamentale,
diremmo, sul piano sociologico. Ci troviamo
tutti i miti e i tabù del cinema americano, a
volte severamente criticati, e per certi altri
aspetti ingenuamente accettati, con una
contraddittorietà solo apparente in quanto
c’è un sincero sforzo di eliminare la parte
mitica e rivalutare la parte viva di questi
fenomeni. Così, per esempio, il film è in
molti casi una presa in giro compiaciuta
di Marilyn e di tutto quello che rappresenta e d’altra parte ne è anche un’altrettanto chiara
esaltazione. I cowboy sono visti ormai personaggi anacronistici e ridicoli, gente svitata e mezzo rimbambita che si illude dell’esistenza di un mondo vivo
ormai solo più nello spettacolo gratuito del rodeo, e al tempo stesso se ne esaltano certe virtù fondamentali come l’unico rimedio alla dispersione dei valori ideali in un mondo che si inaridisce. L’equilibrio tra
questi due aspetti non è mai raggiunto nel film, e ciò si deve forse a un dualismo Miller-Huston, poco notato, che si conclude in sostanza a favore del regista. […] Un film quindi abbastanza difficile da giudicare,
che è altrettanto pericoloso e ingiusto respingere con troppa severità come accettare con eccessivo entusiasmo. Interessante, ripetiamo, per il tentativo di dire cose nuove e intelligenti nell’ambito di un discorso ben
chiuso nei limiti della struttura filmica hollywoodiana e addirittura nel cerchio delle sue convenzioni.
(Nuovo Spettatore Cinematografico, 1961)
[…] Lo stile lucido e robusto di John Huston ha saputo scandire in un cinema che è sempre teso e significante anche dove le propose della sceneggiatura sembrano meno persuasive o accusano vuoti evidenti. Un
Clark Gable che avremo ora maggiori ragioni di rimpiangere (non ricordiamo nessuna sua interpretazione
più intensa e scavata di questa), un ottimo Montgomery Clift e un interessante Eli Wallach sono i tre cowboy. In mezzo, è Marilyn: di una bellezza inaudita. Ma un’attrice, anche, che nell’insinuante dolcezza come
nelle punte d’isterismo, nello slancio vitale come nello sgomento e nella paura di vivere, ha saputo stringere il personaggio nella linea di un autoritratto probabilmente esatto.
(Gian Maria Guglielmino, La Gazzetta del Popolo, 2 aprile 1961)
Gli spostati è innanzitutto un ritratto. L’analisi psicologica, anzi psico-analitica di una giovane donna. I
punti di rassomiglianza fra questa giovane donna che Marilyn Monroe incarna e Marilyn stessa sono evidenti. […] Miller non ha disegnato un personaggio romanzesco. Ha esplorato un cuore ben vivo: quello di
sua moglie. Ha messo a nudo quel personaggio mitico che era Marilyn Monroe e, togliendolo dal mito, ne
ha fatto un essere di carne, di sangue e di nervi, non meno pericoloso che vulnerabile. Ma Gli spostati non
è solamente un ritratto. È anche e soprattutto la storia di una coppia e di un amore. Storia raccontata da un
uomo. Storia fortemente impregnata di misoginia. Anche qui, evidentemente, interviene l’autobiografia,
ma Arthur Miller ha eccezionalmente elevato il dibattito […].
(Jean de Baroncelli, Le Monde, 11 aprile 1961)
In alto: Marilyn Monroe e Montgomery Clift.
Nella pagina seguente: una scena del film.
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[…] Dei tre maschi del film due sono cowboy classici, l’altro qualcosa di affine, perché è un ex meccanico garagista ed ex aviatore che con uno scassatissimo apparecchio coadiuva i cowboy del Nevada nelle
cacce ai cavalli selvaggi. Senonché essi si presentano ormai nel film come esemplari di una specie decisamente in declino. Sono cowboy patetici e piagnucolosi, assillati da problemi borghesi (la vedovanza, o la
nostalgia dei figli, o il rancore verso la madre che si è risposata, ecc.), oltre beninteso il problema di campare in una società trasformata nella quale non c’è posto per l’uomo isolato, e anche i cowboy devono
entrare nel sindacato: sicché per vivacchiare essi non hanno altra risorsa che fare gli acrobati del rodeo, o
come questi, andare fuori in montagna a catturare i cavalli che vi vivono ancora in libertà e venderli per
pochi dollari. […] Roslyn, che nasconde in un corpo luminoso la più semplice, mite, bonacciona natura del
mondo, non può resistere allo spettacolo della sofferenza altrui, e davanti alla sua disperazione e alle sue
lacrime per le povere bestie prese al laccio e crudelmente atterrate e vinte [...] i tre omaccioni sentono vergogna di loro stessi e rassegnatamente rimettono gli animali in libertà. È chiaro, sono finiti. Non gli resterà ormai che mettersi in pantofole e aspettare la pensione […].
(Filippo Sacchi, Epoca, 30 aprile 1961)
[…] La lavorazione del film, costellata di incidenti, richiede fatiche improbe, soprattutto per Clark Gable,
ormai sfiancato dalla cardiopatia (morirà undici giorni dopo la fine delle riprese). Marilyn Monroe è in
piena crisi, il matrimonio con Arthur Miller si sta sfasciando (è la situazione che si riproduce nel film, del
resto già scritto in forma cinematografica dal marito). Le depressioni si moltiplicano tanto che l’attrice, più
volte assente dei set, dev’essere ricoverata in ospedale (una settimana dopo la prima del film avverrà il
divorzio). Nonostante questo, il clima di collaborazione non conosce pause, Huston è riuscito a stabilire tra
sé e gli attori una solida consonanza, una semplicità sentimentale (ideologica, si vorrebbe dire) che supera ogni difficoltà. Roslyn domanda a Gay: «Dov’è la nostra casa?» E il cowboy invecchiato risponde: «È
questa la mia casa». Qua intorno. Il deserto, il vuoto, che è insieme solitudine e libertà. È il senso più vero
del film che Huston […] costruisce con una cura attenta dei dettagli, uno “scavo” spietato nei frequenti
primi piani dei personaggi, movimenti frenetici nelle battute di caccia […]. Miller aveva scritto la storia
due anni prima, per offrire alla moglie la possibilità di affrontare, dopo tante commedie, una prova drammatica. Huston la fa sua con una prontezza stupefacente: gli sembra di aver trovato la materia che da tempo
andava cercando, perché perfettamente coincide con la sua desolata filosofia di vita, con la sua lucida angoscia della morte […].
(Fernaldo Di Giammatteo, Dizionario del cinema americano, Editori Riuniti, 1996)
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Forse nessun film come Gli spostati fa venire in mente la celebre boutade di Jean Cocteau che «il cinema
è la morte sul lavoro degli attori». Sarà pure una frase a effetto, uno svolazzo decadente, ma è vero che
ogni volta si rinnova sullo schermo il miracolo di una resurrezione. […] Non so quale effetto faccia a uno
spettatore di oggi un film come questo di John Huston. Per me che lo vidi in prima visione nel 1961 non
è un film come gli altri, non mi interessa quello che racconta né perché lo racconta. Gli spostati mi sembra solo un pretesto, l’occasione ultima per guardare da vicino i suoi protagonisti. Senza il riferimento a
quello che loro rappresentano nella nostra esperienza di spettatori, il racconto sarebbe, adesso come quarant’anni fa, un elenco di parole vuote. Ma The Misfits fu l’addio di Clark Gable e di Marilyn Monroe, il
segno della fine per Montgomery Clift. E pare che ne siano consapevoli tutti, dalla prima all’ultima sequenza. Recitano con i nervi scoperti, senza cercare protezione nelle regole del mestiere. Ubriachi forse, o storditi e stanchi. Huston li lascia fare, si direbbe, trattenendo il fiato. La sua regia rispetta gli interpreti prima
di tutto come esseri umani. Il solo crudelmente freddo sembra Arthur Miller, che ruba il personaggio di
Roslyn dal malessere della donna che ha smesso di amare. E le infligge momenti insostenibili, dove solo
la sensibilità della Monroe può vibrare e commuoverci. Lo sguardo e la voce di Marilyn, la spossatezza
appena mascherata dei suoi partner, danno verità a dialoghi gonfi di significato, e aridi come il deserto.
Sono gli attori la ragione di questo film, i suoi veri autori. Il divismo, quando tocca certi livelli, si impone
come un valore primario, è creatività. «Per me è finita», dice Gable dopo aver domato e poi liberato un
cavallo selvatico. «Devo trovare un’altra via, se ancora ce n’è rimasta una». S’illuderanno di trovarla, il re
e la regina di Hollywood, seguendo la stella più luminosa di una notte americana. Ma è una stella ingannevole, che indica un punto senza ritorno.
(Gianni Amelio, Il vizio del cinema, Einaudi, 2004, pp. 229-230)
[…] Sceneggiato da Arthur Miller, una sorta di western contemporaneo e crepuscolare, percorso da un
senso di morte e sbandamento. La natura è ormai perduta, e gli uomini, privi di radici, non sanno districarsi tra le proprie contraddizioni. Il film di Huston era in anticipo sui tempi ma è stato anche sopravvalutato: soprattutto perché è l’ultimo film di Gable e della Monroe, ed è sembrato in qualche modo il loro testamento […].
(Il Mereghetti. Dizionario dei film 2011, Baldini & Castoldi)
[…] Unica sceneggiatura scritta dal commediografo Arthur Miller con eccessi di verbosità letterale che J.
Huston traspone in immagini con grande finezza e una sequenza (la cattura dei cavalli) da antologia. È una
trenodia sulla fine dei cavalli nell’America che cambia, un ritratto indiretto di M. Monroe, la storia di una
piccola comunità di sbandati che s’illudono di essere dei ribelli senza padrone, un’analisi del malessere
nella società nordamericana. Ultimo film di C. Gable che morì dopo la fine delle riprese e di M. Monroe
che, calandosi in un personaggio scrittole su misura, dà una prova del suo potenziale talento drammatico.
Male accolto quando uscì, il film è cresciuto col passare degli anni.
(Laura, Luisa, Morando Morandini, il Morandini 2011, Zanichelli)
Note e curiosità
Il film, sceneggiato da Arthur Miller che si basò completamente sulla figura della moglie (paragonata al
cavallo selvaggio), fu l’ultimo per entrambi gli attori principali: Marilyn Monroe morirà infatti l’anno successivo, Clark Gable dopo la fine delle riprese a causa di un infarto.
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FILMOGRAFIA
Scudda Hoo! Scudda Hay! (Hugh Herbert, 1948)
Un allevatore di muli si innamora della figlia del padrone e cerca di conquistarla, facendo in modo di non
perdere il posto.
Marilyn è un contadina, le sue parti vennero quasi tutte tagliate in fase di montaggio, resta un’unica scena
in cui rema assieme ad un’amica su una canoa.
Dangerous Years (Arthur Pierson, 1948)
Durante un processo a una banda di ragazzi per omicidio si scopre che Danny, il capo, altri non è che il
figlio dello sceriffo allevato nell’orfanotrofio della città.
Marilyn è una cameriera che rifiuta le avances di un teppistello.
Orchidea bionda (Ladies of the Chorus, Phil Karlson, 1948)
Film di serie B sul mondo del varietà: storia di un’irreprensibile chorus girl che viene corteggiata da un
ragazzo della ricca società. La madre di lei si oppone al fidanzamento per via del proprio passato (le accadde la stessa cosa e i genitori di lui si opposero), ma la futura suocera si dimostra di larghe vedute e accetta la ragazza senza problemi.
Marilyn è Peggy Martin, la ragazza oggetto della contesa: si esibisce in un paio di numero musicali ma il
copione non le rende giustizia e la sua immagine è ancora troppo vicina a quella di Rita Hayworth.
Una notte sui tetti (Love Happy, David Miller, 1950)
Ultimo film che vede assieme i fratelli Marx, è una storia di equivoci: una preziosa collana viene trovata
in una scatola di sardine e rubata per sbaglio da un vagabondo che collabora con una compagnia teatrale.
Marilyn compare per meno di un minuto come cliente dell’investigatore privato Groucho. Durante la campagna per il lancio del film l’attrice concede la sua prima intervista importante.
La figlia dello sceriffo (A Ticket to Tomahawk, Richard Sale, 1950)
Commedia western dove la figlia dello sceriffo, seguendo le orme del padre, difende il viaggio inaugurale
della ferrovia contro i banditi.
Marilyn è una delle ballerine di un numero musicale.
Giungla d’asfalto (The Asphalt Jungle, John Huston, 1950)
Considerato uno dei migliori film di Huston, è la storia di un colpo a una gioielleria, che va a buon fine ma
che rovina i rapporti tra i partecipanti per la divisione del bottino.
Marilyn, che compare solo in tre scene per circa cinque minuti in tutto, è Angela, la pupa di un avvocato
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che collabora con una banda di gangster.
Lo spaccone vagabondo (The Fireball, Tay Garnett, 1950)
Un orfano scappato dall’istituto diventa un ricco e famoso pattinatore grazie all’aiuto di un’amabile ragazza ma s’innamora di un’altra che vuole solo i suoi soldi.
Marilyn è Polly, la cheerleader che fa perdere la testa al protagonista.
Il messicano (Right Cross, John Sturges, 1950)
Film sul mondo del pugilato messicano: racconta la storia di un campione mondiale che, dopo un incidente, non riesce più a tornare quello di una volta e cerca di uscire di scena trionfalmente rischiando grosso.
Marylin è una bellona che si sbarazza di un fastidioso corteggiatore.
Hometown Story (Arthur Pierson, 1950)
Sconfitto alle elezioni legislative, un uomo decide di dedicarsi al giornale dello zio per stare addosso al
proprio avversario, ma cambia idea quando scopre che il macchinario che può salvare la vita della sorella
proviene dalle industrie del suo rivale.
Marilyn ha la classica parte di una segretaria sexy.
Eva contro Eva (All About Eve, Joseph Mankiewicz, 1950)
Film sul teatro, è la storia di una grande interprete (Bette Davis) che prende sotto la propria ala protettrice
una giovane e furba arrampicatrice (Anne Baxter), la quale finisce per sovrastarla. Ebbe 14 nomination agli
Oscar e ne vinse sei tra cui miglior film, regia e sceneggiatura.
Marilyn è l’amante di un critico teatrale.
L’affascinante bugiardo (As Young as You Feel, Harmon Jones, 1951)
Un vecchio impiegato costretto ad andare in pensione si traveste da presidente della società e la salva dalla
bancarotta.
Per Marilyn ancora una parte da segretaria provocante.
Le memorie di un dongiovanni (Love Nest, Joseph Newman, 1951)
Storia di un ex soldato che si trasferisce con la moglie in una vecchia casa, dove subaffitta alcune stanze.
Le disavventure, però, sono dietro l’angolo.
Marilyn è l’inquilina del piano di sopra che affascina il padrone di casa, anticipando così quello che sarà
uno dei suoi ruoli più famosi in Quando la moglie è in vacanza.
Mia moglie si sposa (Let’a Make It Legal, Richard Sale, 1952)
Una coppia sposata da oltre vent’anni, con nipoti al seguito, decide di divorziare scatenando il panico
all’interno della famiglia. La situazione si risolverà grazie a un vecchio corteggiatore di lei.
Marilyn qui fa la parte della rovina famiglie: tenta infatti di sottrarre il marito alla protagonista.
Le confessioni della signora Doyle (Clash by Night, Fritz Lang, 1952)
È la storia di una donna che, delusa dalla vita, sceglie di tornare al paesino delle origini e di sposare senza
amore un maturo pescatore, cedendo alle avances di un giovane proiezionista per poi tornare dal consorte.
Marilyn è Peggy, contraltare dell’umile Mae che commette adulterio e viene accusata da tutti. Peggy, libera e indipendente, è l’unica a non giudicarla e a cercare di capirne le motivazioni.
Il film divenne famoso per i rapporti turbolenti tra l’attrice e il regista, che nonostante tutto riuscì a valorizzare le qualità di Marilyn.
La tua bocca brucia (Don’t Bother to Know, Roy Ward Baker, 1952)
Un ex pilota piantato dalla fidanzata conosce una baby-sitter afflitta da disturbi mentali e comincia a capire qualcosa della vita.
Primo ruolo da protagonista di Marilyn: è Nell, una donna con problemi psichici, che l’attrice portò in
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scena con un mix di follia e tenerezza.
Matrimoni a sorpresa (We’re Not Married, Edmund Goulding, 1952)
Commedia a episodi in cui diverse coppie di coniugi scoprono che i loro matrimoni non sono validi. Ne
approfittano per risolvere le crisi già evidenti prima di tornare all’altare.
Marilyn è Annabel Norris, una delle mogli.
La giostra umana (O. Henry’s Full House, Henry Koster, 1952)
Commedia tratta dai racconti di O. Henry e costruita attorno a diversi episodi ambientati nella New York
di fine Ottocento.
Marilyn, nel primo, è una prostituta d’altri tempi.
Il magnifico scherzo (Monkey Business, Howard Hawks, 1952)
Commedia sul fascino che la regressione all’infanzia e l’istinto hanno sull’intelligenza. Per l’intervento di
una scimmia da laboratorio un ricercatore (Cary Grant) trova il siero della giovinezza usandolo per sé, per
la moglie (Ginger Rogers) e non solo.
Marilyn è Lois Laurel, la segretaria di Cary Grant, di cui lui si innamora solo quando è in preda all’elisir
di giovinezza.
Niagara (Henry Hathaway, 1953)
Melodramma criminale a suspance sullo sfondo delle famose cascate. Una moglie infedele progetta di
uccidere il marito con la complicità dell’amante, ma i due fedifraghi ne rimangono vittime.
Marilyn è Rose Loomis, dark wife che complotta assieme al giovane amante per sbarazzarsi di suo marito. È il primo film costruito interamente attorno alla figura dell’attrice, l’unico in cui recita una parte così
negativa e muore. Da qui in poi la sua “camminata di gelatina” diventerà famosa.
Gli uomini preferiscono le bionde (Gentleman Prefer Blondes, Howard Howks, 1953)
La coppia di ballerine formata dalla bionda Lorelei e dalla bruna Dorothy s’imbarca su una nave diretta in
Francia. La prima, irresistibilmente attratta dai diamanti, vuole farsi sposare dal figlio di un miliardario ma
si troverà immersa in una serie d’impicci da cui uscirà grazie all’amica. È uno dei rari film hollywoodiani
prima degli anni Settanta imperniati su un’amicizia femminile.
Marilyn è Lorelei Lee, fiutatrice di diamanti e di miliardari. Canta i famosissimi brani Bye Bye Baby e
Diamonds Are a Girl’s Best Friends.
Come sposare un milionario (How to Marry a Millionaire, John Negulesco, 1953)
Tre ragazze di provincia affittano un appartamento di lusso a New York intenzionate a conquistare mariti
milionari, ognuna col suo metodo, ma alla fine preferiranno il cuore all’interesse. È la prima commedia
della Fox girata in cinemascope.
Marilyn è Pola Debevoice, che si impegna a trovare marito cercando di cancellare il proprio difetto visivo.
La magnifica preda (River of No Return, Otto Preminger, 1954)
Durante l’epoca della corsa all’oro un agricoltore vedovo assieme al figlio di dieci anni e a una cantante di
saloon sono costretti, dopo varie peripezie, ad attraversare un fiume su una zattera.
Marilyn è Kay, cantante di saloon, che si esibisce nella ballata del titolo River of No Return. La Monroe lo
considerava (ingiustamente) il suo film peggiore.
Follie dell’anno (There’s no Business Like Show Business, Walter Lang, 1954)
Storia di una famiglia di artisti diventata ricca e famosa, che vede i figli abbandonare la carriera, uno per
farsi prete e l’altro perché si innamora di una guardarobiera con cui finisce per esibirsi. Questi ultimi, dopo
essersi presi e lasciati, si ritroveranno insieme a tutta la parentela.
Marilyn è Vicky, che fa innamorare il primogenito della famiglia, creando inevitabilmente una spaccatura.
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Quando la moglie è in vacanza (The Seven Year Itch, Billy Wilder, 1955)
Commedia sulle pulsioni erotiche dell’americano medio: alla partenza di moglie e figlio per le ferie un
impiegato editoriale si ritrova a dover resistere alla procace vicina di casa che accende le sue più sfrenate
fantasie.
Marilyn è “la ragazza”, la bionda vicina di casa che fa perdere la testa a Tom Ewell. La pellicola è entrata
nell’immaginario comune, anche di quello di chi non ha mai visto un solo film della diva, per la famosa
scena della gonna alzata dal vento che l’ha resa un’icona.
Fermata d’autobus (Bus Stop, Joshua Logan, 1956)
Un ingenuo cowboy giunge a Phoenix per un rodeo e incontra una cantante a cui chiede di sposarlo. Dopo
essere stata obbligata a seguirlo, la ragazza acconsente.
Marilyn è Cherie, la showgirl protagonista.
Il principe e la ballerina (The Prince and the Show Girl, Laurence Olivier, 1957)
Ambientato alla corte inglese nel 1911, il granduca Carlo di Carpazia, arrivato a Londra per assistere all’incoronazione di Giorgio V, vuole compagnia galante per la serata e la trova in una ballerina americana, ma
la situazione si complica.
Marilyn è Elsie Marina, ballerina introdotta per sbaglio a corte, che fa innamorare il futuro re. Primo e ultimo film girato dall’attrice in Europa e che la vede anche in veste di produttrice.
A qualcuno piace caldo (Some Like It Hot, Billy Wilder, 1959)
Dopo aver assistito involontariamente alla strage di San Valentino a Chicago, due musicisti si travestono
da donna e si uniscono a un’orchestra femminile diretta a Miami, creando scompiglio. È una pietra miliare della commedia americana: mix di farsa, ritmo, sesso e morte, dove il tema del travestimento tipico di
Wilder raggiunge le vette estreme.
Marilyn è Zucchero, suonatrice di ukulele che si fa sedurre (e seduce) il finto miliardario interpretato da
Tony Curtis. È considerata la sua performance migliore, che le valse il Golden Globe come miglior attrice
di commedia.
Facciamo l’amore (Let’s Make Love, George Cukor, 1960)
Innamoratosi di una ballerina, un miliardario si finge un attore in bolletta, per essere sicuro di essere amato
davvero e non per i soldi.
Marilyn è Amanda Dell, attrice di una compagnia teatrale corteggiata da Yves Montand. È l’ultima commedia interpretata dalla Monroe.
Gli spostati (The Misfits, John Huston, 1961)
Unica sceneggiatura scritta dal drammaturgo Arthur Miller appositamente per la moglie Monroe, e diretta
da John Huston (con cui l’attrice aveva girato Giungla d’asfalto nel 1950). Giunta a Reno per divorziare,
la showgirl Roslyn fa amicizia con un anziano cowboy e un meccanico e pilota di aereo, innamorandosi
del primo (Clark Gable) ma non condividendone la crudeltà nel modo di trattare i cavalli. È la storia di una
piccola comunità di sbandati che vorrebbero essere ribelli senza padrone, ma si scontrano con la fine del
proprio mondo.
Marilyn è Roslyn Tabor, divorziata che riesce a far innamorare il duro Clark Gable. Il film, scritto per esaltarne le doti drammatiche, è un suo ritratto indiretto, nonché l’ultima pellicola compiuta per l’attrice, e
anche per Clark Gable che morirà poco dopo le riprese.
Something’s Got to Give (George Cukor, 1962, incompiuto)
Data per morta dopo essere scomparsa in mare, Ellen torna a casa e ritrova il marito (che nel frattempo si
è risposato) e i due figli che non riconoscono in lei la madre.
Marilyn doveva interpretare la protagonista Ellen. Le riprese furono interrotte diverse volte, fino alla tragica morte della diva. Ci restano solo poche scene, in cui Marilyn recita assieme ai due bambini e nuota
nuda in una piscina.
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INDICE
Introduzione………………………………………………………………………………….......................3
È nata una stella. La vita e i film di Marilyn Monroe……………………………………..........................5
Marilyn: punta di diamante e fine dello star system……………………………………...........................13
I film della rassegna………………………………………………………………………….....................15
Niagara……………………………………………………………………………………….....................17
Gli uomini preferiscono le bionde………………………………………………………….......................21
Il principe e la ballerina…………………………………………………………………….......................25
A qualcuno piace caldo……………………………………………………………………........................27
Gli spostati……………………………………………………………………………………...................31
Filmografia…………………………………………………………………………………...................…35
Bibliografia……………………………………………………………………………………..................39
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