01_Da Natalia Levi a Natalia Ginzburg, 25

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01_Da Natalia Levi a Natalia Ginzburg, 25
La formazione culturale di Natalia e il contesto intellettuale di Casa Einaudi
«In un suo saggio del 1993, la Zambon riflette approfonditamente sul fatto che le scrittrici italiane, nel
periodo compreso tra Otto e Novecento, hanno in comune un modello di formazione e di educazione alla
letteratura di tipo prevalentemente autodidatta : “…in effetti, tutte rivendicano, di contro, non a fianco
dell’esperienza scolastica, le “lezioni pratiche della vita”. […] Dunque si rileva per le scrittrici di fine
‘800 – inizio ‘900, una diffusa tendenza a discostarsi dallo studio istituzionalizzato per rivendicare un
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approccio del tutto personale alla lettura ed alla stessa scrittura» .
Anche Natalia Ginzburg si avvicina alla lettura attraverso un percorso educativo e formativo sui generis:
riceve infatti la sua prima educazione dalla madre e accede alla scuola pubblica, il liceo classico, solo
successivamente. Dopo la maturità classica si iscrive alla facoltà di Lettere ma non consegue la laurea.
Avrà però modo di frequentare un nutrito gruppo di intellettuali che gireranno attorno alla casa editrice
Einaudi dove troverà lavoro lei stessa a guerra finita.
La sua stessa famiglia le offre contatti con gli esponenti della cultura e con gli intellettuali politici
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dell’epoca di alto livello . Basti pensare che il padre, Giuseppe Levi, dichiaratamente antifascista, è un
importante istologo, professore di una giovanissima Rita Levi M ontalcini.
La sua stessa madre, Lidia Tanzi è una donna colta e raffinata, nata in seno ad una famiglia di ideali
socialisti, legata a personalità del calibro di Filippo Turati, presidente del partito socialista e antifascista
della prima ora, e di Anna Kuliscioff, attiva anche nel movimento di emancipazione femminile.
La sorella Paola si sposerà con Adriano Olivetti che salverà la vita a Natalia e ai suoi tre figli quando si
trasferirà da Pizzoli a Roma. A sua volta Adriano Olivetti ha fortissimi legami con Ferruccio Parri,
Presidente del Consiglio negli ultimi sei mesi del 1945, e con Carlo Rosselli fondatore del gruppo
antifascista Giustizia e Libertà.
A13 anni legge avidamente Gli indifferenti di M oravia. A casa sua la sorella, la madre e il fratello M ario
amano appassionatamente Proust.
Da subito conosce Čechov che ammira per il suo modo brusco di entrare nelle storie. L’incontro con
questi autori l’allontano dalla produzione di poesie.
All’iniziò degli anni Trenta conosce il futuro marito Leone Ginzburg (9 aprile 1909- 5 febbraio 1944), un
intellettuale di origine russa, socio fondatore della casa Einaudi. Sarà lui ad apprezzare il valore dei suoi
primi racconti e ad impegnarsi affinché siano pubblicati.
Quando Natalia raggiunge l’età per il liceo, viene iscritta al leggendario Liceo M assimo D’Azeglio,
frequentato dai suoi fratelli, da Leone Ginzburg (che dopo aver ottenuto la libera docenza in lettura russa
all’università di Torino, nel 1934 rifiuterà di prestare giuramento di fedeltà al Partito Fascista, unendosi
agli altri 12 docenti universitari su 1250 che si erano opposti nel 1931), da Cesare Pavese, da Giulio
Einaudi (cofondatore della casa editrice Einaudi e figlio del futuro primo Presidente della Repubblica
italiana, Luigi Einaudi), da Norberto Bobbio, da Vittorio Foa, da Giancarlo Pajetta, decisamente una
buona scuola per la futura classe dirigente.
Leone Ginzburg è in ottimi rapporti con Benedetto Croce, autore del manifesto degli intellettuali
antifascisti.
Anche Sion Segre frequenta la casa dei Ginzburg. La zia Drusilla che vive a Firenze è la M osca, ovvero
prima compagna e poi moglie ,di Eugenio M ontale.
Della cerchia degli amici dei fratelli fa parte anche il pittore Carlo Levi a lei caro come un fratello.
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Marcella Russano, Natalia Ginzburg, in « Parola di donna», http://www.paroladidonna.net/Saggi/RussanoM01-S.html.
Fino ad altra nota, cfr. Maja P flug, Natalia Ginzburg. Una biografia, Milano, La Tartaruga edizioni, 2004 (Iª ed. 1995
Berlino), pp. 11-86.
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Testo di Enrica Cavina per il seminario del 25 febbraio 2011 a Ravenna
Non ho inventato niente. Omaggio a Natalia Ginzburg
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Quando Natalia entra nella Casa Einaudi diventa amica di Italo Calvino, conosce Vittorini, Elsa M orante
e molti altri autori illustri.
Grazie a questo contesto Natalia avrà modo di crescere come scrittrice, affrontando evoluzioni che la
condurranno alla creazione di una propria poetica.
Per esplicitare questo processo ci avvarremo della scansione individuato dallo studioso Luigi Surdich che
distingue tra Natalia Levi, Alessandra Tornimparte e Natalia Ginzburg.
Le idee sulla scrittura di Natalia Levi
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La bambina-ragazza Natalia Levi scrive una poesia al giorno . A 13 anni decise di inviare alcune sue
poesie a Benedetto Croce che le rispose garbatamente dicendole che le sue poesie non erano molto belle.
Di questa produzione giovanile non resta traccia se non nelle dichiarazioni fatte ne Il mio mestiere.
Presto, però, compare anche la sua vocazione narrativa.
La sua vera attività di scrittrice inizia quando abbandona le velleità di poetessa e romanziera. Le riesce
così di scrivere, a 17 anni, un racconto breve, di 5 o 6 pagine, intitolato Un’assenza,
«una cosa seria […]: le poesie e i romanzi con le ragazze e le carrozze mi parvero a un tratto
molto lontani, in un’epoca scomparsa per sempre, creature ingenue e ridicole di un’altra età»
Per i sei anni successivi scrive racconti, alcuni dei quali pubblicati sulle riviste «Solaria» e «Il Lavoro»,
dal 1934 al 1937.
Natalia esprime sin da subito con grande chiarezza il suo amore per la scrittura e quando nel 1936 a 20
anni incontra Tommaso Landolfi, così ricorda la sensazione che ne ebbe:
«Landolfi […] Lo invidiavo perché era un uomo, io no; […] e soprattutto lo invidiavo perché era
uno scrittore. […] Desideravo anch’io scrivere […]. Sentivo tuttavia in non appartenere ancora
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alla specie pregiata e magnifica degli scrittori. Desideravo poter discorrere con degli scrittori» .
Il desiderio di essere un uomo, uno scrittore e non una scrittrice si ricollega a un suo timore espresso nella
Nota scritta nel 1964 per i Cinque romanzi brevi:
«E avevo un sacro terrore di essere “attaccaticcia e sentimentale”, avvertendo in me con forza
un’inclinazione al sentimentalismo, difetto che mi sembrava odioso, perché femminile: e io
desideravo scrivere come un uomo» 5.
Si tratta di un desiderio alquanto diffuso fra le scrittrici tant’è che Virginia Woolf, già all’inizio del ‘900,
in un suo articolo tratto dal saggio Le donne e la scrittura 6, riflette sulla necessità dell’uso del maschile da
parte di alcune scrittrici. M a la Woolf conclude le sue riflessioni rilevando che si tratta di posizioni senza
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Per tutte le considerazioni sull’evoluzione della scrittura di Natalia Ginzburg dall’adolescenza alla maturità, cfr. Luigi
Surdich, Da Natalia Levi a Natalia Ginzburg, in Giovanna Ioli (a cura di), Natalia Ginzburg: la casa, la città, la storia. Atti
del Convegno internazionale, San Salvatore Monferrato, 14-15 maggio 1993, - [S. l. : s. n.],1995, pp. 5-34.
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Natalia Ginzburg, Lettura di Landolfi, in « Paragone» , XLI, N.S., 21 (484), giugno 1990, p. 3.
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Natalia Ginzburg, Nota, in Cinque romanzi brevi, 1964.
6
Virginia Woolf, L’uomo e la donna, in Le donne e la scrittura, Milano, La Tartaruga, 1981, p. 68.
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esito in quanto la scrittura di una donna non può che essere sempre femminile, così come la scrittura di un
uomo è sempre maschile, per una ragione molto semplice: «ciascun sesso descrive se stesso, [così come]
ciascun sesso è poi estremamente acuto a cogliere i difetti dell’altro».
La necessità di scrivere come un uomo sarà per Natalia temporanea. Divenuta adulta, infatti, abbandonerà
questa posizione. Tuttavia, questo primo impulso direziona fortemente la sua prima produzione nel senso
di una ricerca continua del distacco, secondo il modello di Čechov.
Detto ciò non vi è univocità interpretativa su questo suo desiderio di scrivere come un uomo, tant’è che
una parte della critica ha sostenuto che questa sua iniziale necessità può essere dipesa anche dal «tentativo
di farsi ascoltare, di dare valore al proprio lavoro, di sottrarsi ad una discriminazione troppo diffusa»7.
Del resto Natalia riesce a pubblicare su «Solaria» solo grazie all’intercessione di Leone Ginzburg il quale
forza le reticenze di Carocci al punto che il 17 ottobre 1933 gli scrive:
«Per la rivista ti sto facendo un regalo: t’ho scoperto uno scrittore. Sei contento? […] I suoi versi
[…] erano curiosi, ma brutti […]. La novella che ti accludo e un’altra […] denotano, invece, una
maturità artistica, una concretezza d’invenzione, una capacità di distacco, e insieme un’umanità,
certo notevolissimi. […] Natalia Levi mi pare uno scrittore»8.
Anche Leone utilizza la parola «scrittore» per sottolineare l’effettivo talento di Natalia, a rimarcare sia la
difficoltà delle scrittrici italiane di farsi prendere sul serio, sia la reticenza della cultura dominante di
andare oltre al pregiudizio che vedeva le scrittrici italiane capaci solo di scrivere autobiografie
sentimentali.
A Natalia però anche Carocci deve riconoscere un certo talento, sebbene l’editore non sia sicuro della sua
prolificità e tenuta.
Nonostante queste reticenze, i suoi primi racconti mostrano già la capacità di Natalia di rimandare a
significati più ampi attraverso la descrizione della quotidianità. Una qualità non da poco se si considera il
contesto in cui Natalia la sviluppa, ovvero il contesto della retorica fascista degli anni Trenta.
Luigi Surdich osserva, al riguardo, che in questi racconti Natalia adotta uno stile che si contrappone in
maniera evidente al linguaggio fascista e che la scrittrice scalfisce il velo di ipocrisia della retorica di
regime attraverso il suo intimismo domestico.
Natalia non ha nessuna intenzione consapevole di opporsi al regime, ma si sottrae ai suoi modelli culturali
sviluppato una narrativa del privato capace però di rimandare a questioni esistenziali più ampie.
Per esempio nel Ritorno, la storia della fine delle vacanze della bambina di 9 anni Sandra rimanda in
realtà alla fine di una stagione della vita, ovvero dell’infanzia, così come ci parla della famiglia nella sua
valenza di sistema patriarcale opprimente. Ciò avviene attraverso l’osservazione distaccata del lato oscuro
di situazioni apparentemente compatte e solide, degli inciampi che mettono a repentaglio un sistema di
sicurezze. Natalia sa cogliere i momenti di rottura della quotidianità, mettendone così in evidenza la
fragile se non irreale continuità.
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Marcella Russano, Natalia Ginzburg, in « Parola di donna», http://www.paroladidonna.net/Saggi/RussanoM01-S.html.
Giuliano Manacorda (a cu ra di), Lettere a Solaria, Roma, editori Riuniti, 1979, p. 448.
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RITORNO
Sandra, bambina di nove anni, vestita di un paltò alla marinara strettissimo e corto, coi bottoni
che pendono e stanno per staccarsi, siede in uno scompartimento di seconda classe, le mani tra le
ginocchia, presso il finestrino. È intimidita e contenta di viaggiar sola. Vede prati e prati, meli
carichi, case con accanto il pagliaio e pannocchie di granoturco appese ai balconi, fiumi lisci di
color grigio che il treno attraversa su ponti di ferro, montagne brune con macchie di boschi e
paeselli appollaiati sul dorso. Ella dice addio a tutto questo.
Ha trascorso l'estate in montagna con una zia, perché quell'anno c'erano pochi denari e gli altri
son dovuti restare in città. La zia ha un bambino come lei, Nuccio, e si son divertiti moltissimo
insieme. La casa era dipinta d'azzurro, né la pioggia la poteva scolorire. […] Andavano nel bosco
e vi trovavano pigne, mirtilli, formicai, famiglie intere di funghetti grigi così velenosi che non si
dovevano neppure toccare. Ogni mattina andavano al paese con la zia per comperare e mettevano
tutto nella sporta, che poi portavano a turno. Conoscevano i contadini, sapevano il nome di tutti e
tra loro si burlavano dell'uno e dell'altro. Nella bottega del calzolaio c'era uno scoiattolo in
gabbia, saltava su e giù sui bastoncelli e rosicchiava una pera, tenendola fra le zampe...
Le batte il cuore al pensiero di rivedere sua madre, i fratelli e di sedere con loro a cena, poi
a turno la prendono sulle ginocchia ed ella racconta. […]
La città non è lontana e già se ne vedono i tetti e i comignoli... Ecco, ora il treno è entrato in città
ed ecco le strade polverose, i carrozzoni verdi dei tram e le tende color tabacco alle botteghe.
Alla stazione è venuto ad aspettarla Dario, il più giovane dei suoi fratelli, un ragazzo di quindici
anni biondo e magro, dalle rosse ginocchia nude. È con un amico che Sandra non ha mai visto.
Dario la accompagna fino al portone di casa, le dà la valigia e dice «Bé, addio». Sale i pochi
scalini, reggendo con due mani la valigia: suona il campanello. Riconosce attraverso il vetro le
palme dell'anticamera. La mamma viene ad aprire e dice: «Ah, è la bambina!». Le toglie il
berretto e la bacia sui capelli e sul viso. Suo padre nello studio domanda: «Chi è?» e si affaccia
alla porta con aria sospettosa. «È la bambina». […]
Nella stanza vicina, Silvia singhiozza e d'improvviso la sentono picchiare nel muro e gridare
«Vigliacchi, vigliacchi ». Il papa si china verso la mamma e dice sottovoce: «È pazza» - Ruggero
allora si alza, pallido, e la sua bocca si contrae come se stesse per piangere. «Sei tu che l'hai fatta
impazzire... Sei tu» - sbatacchia per terra la seggiola ed esce dalla stanza. «Bravo, l'ha fracassata
- dice il papa - fracassata. Questo son capaci di fare. Cani! Cani ringhiosi, ecco che cosa sono! ».
La mamma prende un grappolo d'uva, sputa le bucce nel piatto. In ogni suo gesto c'è tristezza e
timore. […]
Nel mangiare la frutta [a S andra] viene in mente quella sera dalla zia, che c'era un dolce di
prugne e di crema. Non ne potevano più dal ridere perché era un pasticcio tutt'altro che
buono. Ma ora le sembra sciocco d'aver riso tanto. Rivede le facce contente di Nuccio e
della zia, ed essi le sembrano stupidi e ingenui, le sembrano stupidi gli scherzi che faceva
con loro e ne prova vergogna. Dopo cena, la mamma la conduce a letto e l'aiuta a spogliarsi.
[S andra] Al buio, prova una felicità intensa per non aver più paura. Nasconde la testa sotto
le coperte e racconta, non sa con certezza a chi: «Mio cugino Nuccio ed io facevamo delle
barche di scorza d'albero... Ho imparato benissimo a farle... Nel prato dietro la casa c'era
un pantano con rane e girini... Abbiamo fatto una passeggiata lunga, Nuccio mi ha prestato
i suoi calzettoni... La casa era azzurra... ». Chiude gli occhi e vede la casa, il ballatoio, le
montagne. Tutto, Nuccio, il bosco e il pantano, lo scoiattolo nella bottega del calzolaio, e
perfino la cuoca col gozzo, tutto risveglia nel suo cuore l'affetto e la nostalgia.
Testo di Enrica Cavina per il seminario del 25 febbraio 2011 a Ravenna
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Alessandra Tornimparte riflette sull’impossibilità di escludere la vita della scrittrice dalle sue opere
Prima di divenire Natalia Ginzburg, Natalia pubblica con lo pseudonimo Alessandra Tornimparte e si
osserva un nuovo passaggio sia per quel che concerne il procedimento creativo dello scrivere, sia per quel
che concerne la struttura delle narrazioni.
In merito alla struttura narrativa è importante rilevare che, mentre nei racconti precedenti la soluzione
della narrazione risiedeva nell’accettazione dei traumi, delle ferite da parte dei protagonisti, ora, nei
racconti del 1941 (Mio marito e La casa al mare) la soluzione è la morte.
Queste due formule risolutive governeranno la produzione della Ginzburg del decennio compreso tra i
primi anni Quaranta e i primi anni Cinquanta.
Le storie con chiusura definitiva suggellata dalla morte, dall’omicidio o dal suicidio sono La strada che
va in città, È stato così, La madre, mentre le storie concluse con un’amara accettazione sono Valentino e
Tutti i nostri ieri, in cui la speranza verso il futuro non è altro che l’allegria dei sopravvissuti.
Anche in merito al procedimento creativo dello scrivere, assistiamo ad un approfondimento della
questione. Nel suo primo romanzo, La strada che va in città, il distacco da lei tanto agognato non può che
nutrirsi della sua stessa vita:
«I miei personaggi erano la gente del paese, che vedevo dalle finestre e incontravo sui sentieri.
Non chiamati e non richiesti erano venuti nella mia storia […] M a in loro si mescolavano –
anche se non chiamati – i miei amici e i più stretti parenti. E la strada, la strada che tagliava in
mezzo il paese e correva tra i campi e colline, fino alla città di Aquila, era venuta anche lei
dentro la mia storia della quale io ancora non sapevo il titolo […]. La strada era, dunque, la
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strada che ho detto. La città era insieme Acquila e Torino»
Ciò non significa che il suo stile si fa sentimentale, ma di certo si fa ancora più capace di indagare e
restituire in maniera essenziale i vari aspetti dei rapporti umani. La memoria aiuta la fantasia
nell’operazione di scavo psicologico. La sua narrativa diviene particolarmente attenta alla dinamica
psicologica che viene colta attraverso la descrizione acuta della realtà, degli oggetti, degli spazi. Questa
sua capacità di analisi la porta a trasformare la strada in un emblema dell’inquietudine. A titolo
esemplificativo riportiamo poche righe del testo. Delia è sulla strada di casa:
«M i fermai. La campagna era silenziosa intorno a me e non vedevo più la città, non vedevo
ancora la nostra casa ed ero sola sulla strada vuota, con in cuore quello spavento»10
I primi anni Quaranta sono anni ancora felici per Natalia, nonostante il confino e rappresentano un passo
avanti nella definizione della sua poetica che assumerà una connotazione sempre più precisa negli anni
successivi, segnati da eventi tragici come la morte del marito Leone Ginzburg.
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Natalia Ginzburg, Nota, in Cinque romanzi brevi, 1964.
Natalia Ginzburg, La strada che va in città
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La poetica di Natalia Ginzburg
Leone muore in carcere il 5 febbraio 1944 in seguito alle torture subite. Poco tempo prima invia a Natalia
un’ultima lettera:
«Natalia cara, amore mio
ogni volta spero che non sia l’ultima lettera che ti scrivo, prima della partenza o in genere; e così è
anche oggi. […] Una delle cose che più mi addolora è la facilità con cui le persone intorno a me (e
qualche volta io stesso), perdono il gusto dei problemi generali dinanzi al pericolo personale.
Cercherò di conseguenza, di non parlarti di me, ma di te. La mia aspirazione è che tu
normalizzi, appena ti sia possibile la tua esistenza; che tu lavori e scriva e sia utile agli altri.
Questi consigli ti saranno facili e irritanti; invece sono il miglior frutto della mia tenerezza e del
mio senso di responsabilità. Attraverso la creazione artistica ti libererai delle troppe lacrime
che ti fanno groppo dentro; attraverso l’attività sociale, qualunque essa sia, rimarrai vicina
al mondo delle altre persone, per il quale io ti ero così spesso l’unico ponte di passaggio.
[…]»
questo testamento resta impresso in Natalia che, dopo la morte di Leone, si sente svuotata. Tornata a
Roma inizia a lavorare per la Casa editrice Einaudi e solo due anni dopo riprendere a scrivere. Il 1946
segna un nuovo passaggio nella sua evoluzione che si tradurrà nella pubblicazione, nel 1947 del libro È
stato così.
Innanzitutto Natalia si confronta con l’originaria necessità di scrivere come un uomo.
Il 31 gennaio di quell’anno in una lettera a Silvio M icheli afferma:
«[…] I libri non ha importanza chi li scrive, se gli uomini o le donne. Purché ci sia qualcuno che
li scriva»
Natalia inizia formalmente a equiparare uomo e donna sul piano della scrittura.
Tre anni dopo, nel saggio Il mio mestiere spiega che fu proprio l’ossessione di scrivere come un uomo a
spingerla ad adottare come strumenti creativi sia l’ironia che la malvagità:
«L’ironia e la malvagità mi parevano armi molto importanti nelle mie mani; mi pareva che mi
servissero a scrivere come un uomo, perché allora desideravo terribilmente di scrivere come un
uomo, avevo orrore che si capisse che ero una donna dalle cose che scrivevo. Facevo quasi sempre
personaggi uomini, perché fossero il più possibile lontani e distaccati da me» 11
Un’ossessione già messa in discussione con la nascita dei propri figli. Carlo nasce 15 aprile 1939, Andrea
il 9 aprile 1940 e Alessandra il 30 marzo 1943:
«adesso non desideravo più tanto scrivere come un uomo, perché avevo avuto i bambini e
mi pareva di sapere tante cose riguardo al sugo di pomodoro e anche se non le mettevo nel
racconto pure serviva al mio mestiere che io le sapessi…scrivevo il mio racconto molto in
fretta, come con la paura che scappasse via…perché ho dei fratelli molto maggiori di me e
quando ero piccola, se parlavo a tavola mi dicevano sempre di tacere. Così mi ero abituata
a dir sempre le cose in fretta in fretta, a precipizio e col minor numero possibile di parole,
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Natalia Ginzburg, Il mio mestiere, in Le piccole virtù.
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sempre con la paura che gli altri riprendessero a parlare tra loro e smettessero di darmi
ascolto»
A partire dal 1946 Natalia assume definitivamente il dato che non le è possibile scrivere come un uomo
perché è una donna; accetta che la sua memoria divenga un motore potente del suo mestiere; scopre che il
suo stile in parte è una conseguenza delle sue vicende domestiche di bambina: la parola breve e precisa
per mantenere l’ascolto su di sé.
Questa presa di coscienza avviene negli anni del neorealismo nei confronti del quale Natalia resta defilata
poiché anche nel successivo romanzo Tutti i nostri ieri, quello che più si avvicina ai principi di questa
corrente, i dati oggettivi della cronaca o della verità storica vengono filtrati dalla memoria e
dall’introspezione psicologica.
Riguardo al suo stile, che ricorda i dettami neorealistici, in una lettera inviata il 26 febbraio 1946 a Silvio
M icheli, autore di Pane nero romanzo capitale del neorealismo, Natalia dice:
«Io non scrivo con facilità. Le parole mi scoccano giù dalla testa una dopo l’altra e sono ognuna
una specie di conquista importante. […] Io sono avara di parole e di frasi, e ho paura che lo sarò
sempre. […] Io mi controllo sempre, ho sempre paura di dire cose noiose o futili»
Natalia vive le istanze intellettuali del suo tempo, ma riesce a ritagliarsi un suo spazio, a mantenere una
fisionomia precisa che non consente alla critica un facile inquadramento in un filone culturale. In merito è
interessante ascoltare la sua analisi della condizione degli scrittori nel dopoguerra,
«c’erano allora due modi di scrivere, uno era una semplice enumerazione di fatti, sulle tracce
d’una realtà grigia, piovosa e avara … l’altro era un mescolarsi ai fatti con violenza e con delirio
di lagrime, di sospiri convulsi, di singhiozzi [ma la realtà si rivelò] complessa e segreta,
indecifrabilmente oscura […] e le allegre vendemmie dei primi tempi, [un’illusione]. […] Era
necessario tornare a scegliere le parole, a scrutarle per sentire se erano false o vere, se avevano o
no vere radici in noi, o se avevano soltanto le effimere radici della comune illusione»
La ricerca di una lingua nuova era necessaria perché quella vecchia, dopo vent’anni di fascismo, era
divenuta vuota e inutilizzabile. La nuova lingua doveva essere lapidaria, chiara e corrispondente alla
realtà, ma soprattutto doveva essere autentica:
«è forse questo l’unico bene che ci è venuto dalla guerra. Non mentire e non tollerare che ci
mentano gli altri»
Natalia connota in termini etici la sua scelta stilistica che come abbiamo visto è dettata dal molti fattori
che si pongono in termini di continuità gli uni con gli altri: la parola parca della bambina che voleva
essere ascoltata si trasforma nella parola asciutta dell’adolescente che ricercando il distacco da sé vuole
scrivere come un uomo. Questa a sua volta si traduce nella parola lapidaria di una nuova visione del
mondo per giungere alla parola che non consente la menzogna: la parola autentica perché ha radici in chi
la scrive.
Il 21 marzo 1946, in una nuova lettera a M icheli, Natalia prende le distanze dal neorealismo anche dal
punto di vista ideologico. Nega l’impegno etico-sociale della letteratura, non della parola.
Nel 1946 del resto abbiamo il passaggio definitivo alla scrittrice Natalia Ginzburg, nome con cui firma
nel 1947 il libro È stato così, che dedica al marito.
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Quando Natalia scrive questo libro, versa in uno stato di grande prostrazione, Natalia è infelice e questa
infelicità si riverbera nel testo, ma ciò non offusca i principi della sua poetica. Tenta di seguire gli ultimi
consigli di Leone per comprendere poi l’impossibilità di seguirli:
«Scrissi questo racconto per essere un po’ meno infelice. Sbagliavo. Non dobbiamo mai cercare,
nello scrivere, una consolazione. Non dobbiamo avere uno scopo. Se c’è una cosa sicura è che è
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necessario scrivere senza nessuno scopo»
Nel corso della stesura del libro si accorge di alcuni meccanismi del processo creativo:
«Non si trattava per me di diventare meno infelice, ma di riuscire a scrivere a malgrado della mia
infelicità e senza curarmene, senza lasciare che intorbidasse e ammalasse le cose che scrivevo.
M a per riuscire a questo è necessario che l’infelicità non sia in noi un’interrogazione lagrimosa e
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ansiosa, bensì una consapevolezza assoluta, inesorabile e mortale»
Natalia sa di non riuscirvi ancora, ma l’autenticità della parola usata è ciò che costituisce il valore del
romanzo:
«Quando lo scrissi avevo la mente confusa e annaspavo nel buio, e difatti ciò che è ancora vivo
nel racconto è proprio, in quella donna, il buio, il confondere e l’annaspare»
Natalia tocca con mano che non è possibile per lo scrittore non essere presente nella sua scrittura e decide
di abbandonare le storie d’invenzione per recuperare in maniera sempre più consistente la memoria.
Nel 1949, nel saggio Il mio mestiere riprende il tema della felicità e dell’infelicità dello scrittore e di
come queste possano influire sulla sua opera:
«l’essere felici o infelici ci porta a scrivere in modo o in un altro. Quando siamo felici la nostra
fantasia ha più forza; quando siamo infelici, agisce allora più vivacemente la nostra memoria»
Quando Natalia ha questa intuizione rispetto al rapporto tra sentimenti e scrittura, sta pensando ai due
romanzi La strada che va in città ed È stato così: il primo scritto in un periodo felice, il secondo in un
tempo di profonda prostrazione. Nella terza intervista rilasciata per la trasmissione radiofonica
«Antologia» andata in onda su Radio Tre nel maggio 1990, Natalia però afferma che:
«dopo, quando si diventa più adulti, ha meno importanza lo stato d’animo rispetto alla scrittura,
nel senso che si hanno a un certo punto della vita tante perdite che un sottofondo di infelicità
profonda c’è sempre. E perciò influisce meno» 14
M a già nel 1949 Natalia aveva capito che la scrittura non è in mano alla scrittrice, ma è quest’ultima a
doversi sottomettere alla prima:
«Questo mestiere è un padrone […]. Noi dobbiamo […] servirlo quando lui lo chiede. Allora
anche ci aiuta a stare in piedi, a tenere i piedi ben fermi sulla terra, ci aiuta a vincere la follia e il
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Natalia Ginzburg, Nota, in È stato così, Torino, Einaudi, 2001 (Iª ed. 1947), p. XIII.
Natalia Ginzburg, Nota, in È stato così, Torino, Einaudi, 2001 (Iª ed. 1947), p. XV.
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Natalia Ginzburg, Il mestiere di scrivere, in Cesare Garboli e Lisa Ginzburg (a cura di), È difficile parlare di sé, Torino,
Einaudi, 1999, p. 109.
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delirio, la disperazione e la febbre. M a vuole essere lui a comandare e si rifiuta sempre di darci
retta quando abbiamo bisogno di lui»
È una scrittura che vuole essere autentica e che per essere tale deve rinunciare all’imperio della fantasia
per recuperare la verità della memoria. E nella direzione della memoria Natalia si è già indirizzata alla
fine del 1946 quando inizia a scrivere il suo primo romanzo lungo Tutti i nostri ieri. Al di là della perdita
di Leone, questi anni del dopoguerra sono anni difficili, in cui si intravede la fragilità delle illusioni
prodotte dalla Liberazione.
Tutti i nostri ieri sarà pubblicato nel 1952 e rappresenta il contributo della Ginzburg alla letteratura della
Resistenza. Non è un documento di lotta partigiana così come non è una semplice testimonianza. Già in
Tutti i nostri ieri Natalia cerca di praticare la sua poetica che, facendo un uso consapevole della memoria,
la porta a creare testi in cui gli eventi storici che la circondano sono quanto mai presenti ma ricondotti allo
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stesso tempo a una dimensione quotidiana . La sua capacità di mostrare la storia attraverso tale
dimensione non ha nulla a che vedere con una sua banalizzazione e allo stesso tempo è tale da preservare
l’integrità della vita quotidiana dei suoi personaggi.
M a come ci riesce?
Natalia non descrive mai questi eventi in maniera diretta, ma li presenta come se fossero dei personaggi.
Cosa vuol dire ciò?
Vuol dire che li fa vivere attraverso le parole e le azioni dei suoi personaggi.
Ciò fa sì che dal punto di vista critico sia estremamente difficile inquadrare la sua opera in un unico
genere letterario poiché in essa troviamo «aspetti autobiografici, documentazioni storiche e pagine di
finzione creativa».
Dal punto di vista stilistico, in Tutti i nostri ieri, Natalia ritorna alla terza persona nel chiaro tentativo di
dare al romanzo l’impronta storica, ma sarà l’ultima volta perché per lei, successivamente, diverrà
imprescindibile ricorrere a un «io» narrante:
«o un io inventato o un io reale, mio (cioè io stessa), ma sempre guardando le cose da un angolo
solo, guardando il mondo da un angolo solo. Non mi è mai riuscito di salire sulle montagne e
vedere tutto dall’alto»16
Quando ciò non le sarà più possibile perché dopo Lessico famigliare, tutti gli “io” la ricondurranno
sempre a lei stessa, cercherà di ovviare a tale impasse in due modi: ricorrendo al teatro per il decennio che
intercorre tra Lessico famigliare e Caro Michele e approdando, per l’appunto, al romanzo epistolare.
Alla sua esperienza teatrale concorrerà la lettura di una scrittrice inglese che le fa conoscere Gabriele
Baldini, anglista, divenuto suo sposo nel 1950. nel intento di farle apprendere l’inglese, quando si
trasferiscono a Londra in seguito alla sua nomina triennale a direttore dell’Istituto di cultura italiana, le
compra tutti i libri di Ivy Compton-Burnett, libri fatti quasi unicamente di dialoghi che a Natalia
piacciono molto e che terrà presenti sia nella realizzazione del testo Le voci della sera edito nel 1961, sia
nella sua produzione teatrale successiva.
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Giovanna Bellesi a, Natalia Ginzburg: un a postilla alla Storia, in Irmgard Sch arold, Scrittura femminile: Italienisch e
Autorinnen im 20. Jahrhundert zwischen Historie, Fiktion und Autobiographie, Tübingen, Gunter Narr Verlag Tübingen, 2002,
p. 160.
16
Natalia Ginzburg, Il mestiere di scrivere, in Cesare Garboli e Lisa Ginzburg (a cura di), È difficile parlare di sé, Torino,
Einaudi, 1999, p. 112.
Testo di Enrica Cavina per il seminario del 25 febbraio 2011 a Ravenna
Non ho inventato niente. Omaggio a Natalia Ginzburg
www.gentesdeyilania.org
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