La guerra di bosnia E la tragedia di srebrenica

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La guerra di bosnia E la tragedia di srebrenica
La guerra di bosnia
E la tragedia di srebrenica
Appunti della lezione del Dottor Marco Abram
redatti da Claudia Mirandola, Melissa Modola e Giulia Generoso (1 A LC) e revisionati dall’autore
Il conflitto jugoslavo, sviluppatosi tra il 1991 e il 1995, ha riportato in Europa lo spettro della
guerra, svanito con la Seconda Guerra Mondiale. Questo scontro ha avuto luogo solamente
diciannove anni fa, in un’epoca in cui la tecnologia e i mezzi di comunicazione avevano già
raggiunto un alto livello di sviluppo: perciò fu una delle prime “guerre mediatiche”, documentata
quasi in ogni suo momento. Tuttavia, oggigiorno, questi avvenimenti sono stati quasi cancellati
dalla memoria pubblica come se fossero parte di un passato lontano dal nostro presente.
Non è un caso che il conflitto si sia sviluppato all’interno di
quest’area geografica; infatti, la presenza di numerose e diverse
etnie che convivono l’una accanto all’altra (“microcosmo
jugoslavo”) ha comportato gravi tensioni. Esse furono dovute in
parte anche alla ripartizione del territorio che, allora come oggi,
non rispecchia la suddivisione tra i vari gruppi etnici. La Jugoslavia
era costituita da sei stati: Serbia, Croazia, Bosnia Erzegovina,
Slovenia, Montenegro e Macedonia.
La Repubblica Socialista Federale di Jugoslavia, istituita (anche se con altro nome) il 29 novembre
1943 dal dittatore Tito, ebbe diversi fattori di coesione, tra cui la minaccia costante dell’URSS, il
carisma del capo di stato e un diffuso benessere comune. Ma negli anni Ottanta la morte di Tito, lo
scioglimento dell’Unione Sovietica, il conseguente crollo del Muro di Berlino e un improvviso
squilibrio economico diedero inizio alla decadenza della Jugoslavia. Ciò causò una perdita di
potere da parte del governo centrale. In particolare, il Partito comunista subì il contraccolpo della
caduta del muro di Berlino: la Lega dei Comunisti fu sciolta, e si indissero di elezioni democratiche,
che tuttavia non sortirono l’effetto sperato. Infatti, di lì a poco, numerosi stati avrebbero dichiarato
la propria indipendenza dalla Federazione Jugoslava.
Il primo stato a separarsi dalla Federazione Socialista fu, nel 1991, la Slovenia, che creò proprie
istituzioni e una nuova bandiera. Le altre nazioni, in particolare la Serbia, tentarono di ostacolare
quest’allontanamento: ebbe così inizio la breve guerra d’indipendenza slovena, detta anche Guerra
dei Dieci Giorni. Le truppe dell’esercito jugoslavo si scontrarono con i militari sloveni, ma il
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conflitto fu risolto velocemente grazie all’accordo di Brioni, con cui la Jugoslavia accettò di fatto
l’indipendenza della Slovenia.
Contemporaneamente anche la Croazia si dichiarò indipendente; il processo fu però più lungo e
complicato rispetto a quello sloveno, data la presenza all’interno dello stato di una numerosa
componente serba, che premeva affinché la Croazia continuasse a far parte della Federazione.
Poiché non si riuscì a risolvere la situazione per via diplomatica, il governo centrale decise di
passare alle armi, dando così inizio alla guerra serbo-croata.
Mentre le fasi della guerra si succedevano, negli altri stati, in particolare nella confinante Bosnia
Erzegovina, l’atmosfera era tranquilla, nonostante ci fossero già i primi segnali della volontà
d’indipendenza e di tensione. La Bosnia Erzegovina si poteva considerare un “microcosmo
jugoslavo”, data la presenza di tre diverse etnie, che si differenziavano nella religione oltre che nei
costumi: i croati, cattolici; i serbi, ortodossi; e i bosniaci musulmani (Bosgnacchi). I Paesi confinanti,
Serbia e Croazia, storicamente avevano sempre incluso la Bosnia nei loro piani espansionistici (di
Grande Serbia o di Grande Croazia), adducendo come pretesto l’unificazione delle due etnie con le
proprie nazioni.
Nel 1990 ebbero luogo le prime elezioni multipartitiche, che videro trionfare i partiti “etnici”, che
rappresentavano cioè le diverse etnie presenti in Bosnia: serba, croata e bosniaco-musulmana, i cui
rispettivi capi: Karadžić, Kljuić e Izetbegović, si allearono in un accordo anticomunista. Tuttavia,
nonostante l’accordo stipulato, furono attuate azioni di propaganda volte ad accentuare le
differenze e le ostilità tra i vari gruppi etnici: ciò anche se in realtà c’erano tanti in Bosnia che si
consideravano semplicemente “jugoslavi” (ad esempio i figli di matrimoni misti, che in Sarajevo
erano il 40%) e si opponevano alla divisione etnica.
Tra il 29 febbraio ed il 1 marzo 1992 si tenne un referendum, in cui la popolazione fu chiamata a
decidere riguardo all’indipendenza della Bosnia Erzegovina. Da questo risultò che più del 90% dei
votanti voleva separarsi dalla Jugoslavia; tuttavia solamente il 63% degli aventi diritto si era recato
alle urne: i Serbi avevano boicottato la votazione, poiché volevano rimanere parte della
Federazione.
Il 5 marzo 1992 venne dichiarata l’ indipendenza.
Il 5 aprile 1992, a Sarajevo, una folla di migliaia di persone
si riunì in una manifestazione pacifista duramente
repressa dai nazionalisti serbi già pronti al conflitto.
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Il 6 aprile 1992 l’Unione Europea e gli Stati Uniti d’America riconobbero la Bosnia Erzegovina come
stato indipendente.
Contemporaneamente scoppiò la guerra.
Subito i Serbi di Bosnia crearono, con il sostegno della Serbia di
Milošević, un’istituzione indipendente occupante il 70% circa del
territorio, la Repubblica Serba di Bosnia, guidata da Radovan
Karadžić. Il braccio armato di Karadžić fu il generale Ratko
Mladić: entrambi sono stati accusati di crimini contro l’umanità.
Sarajevo fu immediatamente posta sotto assedio e rimase in questa situazione fino al 1995.
L’assedio di Sarajevo, di ben 1264 giorni, è stato il più lungo di tutta la storia europea e ha portato
alla morte di più 11 mila cittadini.
Nel 1993 anche i Croati, come i Serbi, decisero di creare all’interno della Bosnia uno stato
indipendente croato; così, incrinandosi i rapporti già precari con i Bosniaci-Musulmani, scoppiò una
guerra tra queste due popolazioni e il conflitto in Bosnia si espanse ulteriormente, dando origine
ad una guerra di “tutti contro tutti”.
L’obbiettivo delle varie fazioni consisteva nella distruzione dell’idea di uno stato unito e
multiculturale, in modo che le diverse componenti etniche si sentissero sempre più distanti tra loro
e si allontanassero sempre di più. Per raggiungere questo scopo i capi militari si servirono
dell’urbicidio, termine introdotto appositamente per questa fase della guerra, che consisteva
nell’attacco mirato alle città, per distruggerle ed eliminare così il simbolo della convivenza
multietnica.
Con lo stesso intento si cercò di cancellare in ogni modo il ricordo del passato comune delle varie
popolazioni, col la distruzione dei luoghi più simbolici della civiltà multiculturale che aveva
caratterizzato nei secoli la Bosnia.
Così il 9 novembre 1993 le armate croate
distrussero il Ponte di Mostar, una costruzione di
grande importanza storica e culturale, edificato nel
XVI secolo. Gli abitanti di Mostar rimasero
sconcertati davanti a questo spettacolo orribile,
ma non tutti ne furono dispiaciuti: una parte della
popolazione accolse con gioia questa notizia; si
vedevano già gli effetti della propaganda che
mirava all’incremento delle varie diversità
culturali.
Nello stesso periodo a Sarajevo venne bruciata anche la Biblioteca nazionale, che conteneva
preziosi documenti, testimonianza della pacifica convivenza multietnica.
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Durante la guerra che sconvolse questa regione dei Balcani si ebbe uno dei più alti numeri di vittime civili
mai registrato in una guerra. Uno dei fattori determinanti per questo massacro fu il processo di pulizia
etnica, che consisteva nel creare un territorio omogeneo dal punto di vista etnico, cacciando o uccidendo le
persone di etnia diversa. Perché il lavoro fosse completo, le loro case venivano solitamente rase al suolo o
date alle fiamme.
Questo sporco lavoro veniva compiuto non dai soldati regolari, ma da gruppi di paramilitari estremisti, che
non dipendevano dall’esercito ed erano perciò più indipendenti e liberi nel loro operato.
Un gruppo serbo in particolare, il più numeroso e guidato dal leader più spietato
e terribile di tutti, Željko Ražnatović (soprannominato Arkan, ex leader della
tifoseria ultras della Stella Rossa di Belgrado), si faceva chiamare “Tigri di Arkan”.
Questa condotta criminale della guerra fece in modo che i 4 milioni di Bosniaci si
riducessero alla metà: circa due milioni di bosniaci sono diventati profughi, molte
migliaia sono stati internati in campi di concentramento. Il primo e più famoso di
tali campi fu quello di Omarska, le cui immagini shock, pubblicate da giornalisti
inglesi, fecero il giro del mondo provocandone la chiusura… ma altri ne sorsero
dopo.
Nel luglio 1995 Srebrenica, una piccola città della Bosnia, il cui nome significa “città dell’argento”, divenne il
teatro del peggiore genocidio perpetrato in Europa dopo la tragedia della Shoah.
Essa era, insieme a Tuzla, Žepa e Goražde, una delle cosiddette “enclaves”, ovvero cittadine situate in
territorio controllato dai Serbi in cui i profughi bosgnacchi si erano rifugiati. Poiché i Serbi le assediavano e
le attaccavano, nel 1993 l’ONU le dichiarò aree protette, mandando a presidiarle i “Caschi blu”. In
particolare, compito dei Caschi blu (a Srebrenica furono inviati giovani canadesi, sostituiti poi da olandesi)
era smilitarizzare le enclaves (cioè disarmare i Bosgnacchi che vi vivevano, perché non tentassero azioni di
guerriglia contro i Serbi) e garantire la tregua fra assedianti e assediati.
L’11 luglio 1995 i Serbi decisero di dare l’assalto finale alle enclaves, cominciando da Srebrenica; anche a
causa del non intervento dei circa 200 Caschi blu olandesi, i Serbi penetrarono in città e seminarono il
panico tra la popolazione. La popolazione terrorizzata cercò rifugio a Potočari, poco fuori Srebrenica,
davanti alla sede dei Caschi blu dell’ONU per avere protezione, ma i soldati non fecero nulla per difenderli.
Diecimila uomini scapparono nei boschi cercando di raggiungere attraverso le montagne Tuzla, altra città
protetta, mentre le donne, i bambini e gli anziani oltre i 70 anni vennero caricati su dei pullman dall’esercito
serbo. Le donne e i bambini più piccoli furono portati in salvo; dei maschi la maggior parte fu uccisa. Anche
la maggior parte dei fuggitivi fu uccisa: i morti furono sepolti rapidamente in fosse comuni.
Alla fine (15 luglio) mancavano all’appello circa diecimila persone, vittime di genocidio (ossia di “atti
commessi con l’intento di distruggere, in tutto o in parte, un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso”)
L’intervento dell’ONU risultò veramente fallimentare, perciò si dice che quest’evento abbia decretato la
“morte dell’ONU”.
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La pace arrivò anche per l’intervento diretto degli Stati Uniti, nel settembre 1995, con raid aerei contro le
postazioni che assediavano Sarajevo.
Gli accordi di Dayton, siglati tra il 22 novembre ed il 15 dicembre 1995, posero fine al massacro in Bosnia.
Ai negoziati di pace, tenutisi a Dayton in Ohio, presero parte i capi di stato delle nazioni coinvolte nel
conflitto: Slobodan Milošević, presidente della Serbia, Franjo Tuđman, presidente della Croazia, e Alija
Izetbegović, presidente della Bosnia Erzegovina. Basati sul rispetto della pace tra le diverse etnie, gli Accordi
sancirono la nascita di una nuova Bosnia, in cui i territori erano però spartiti secondo i principi ispiratori
della guerra: esistono una Repubblica Serba e una Federazione Croato-Bosniaca, divisa in dieci cantoni,
abitati in parte da croati e in parte da musulmani; solo in un cantone si ha popolazione “veramente” mista.
Si può dire che dal punto di vista istituzionale la Bosnia Erzegovina nata a Dayton riconosce i principi che
hanno portato alla guerra, e mostra tristemente il successo effettivo della pulizia etnica.
Ad oggi si tenta ancora di accentuare le differenze tra le popolazioni e
un esempio significativo, può essere fornito da un semplice pacchetto di
sigarette: la scritta “il fumo uccide” viene riportata tre volte per
distinguere le tre diverse lingue, nonostante la frase sia identica nelle
prime due e si differenzi solo per l’alfabeto nella terza.
Gli episodi e le memorie della guerra sono, ancora oggi, fonte di
disaccordi: testimonianze differenti sono fornite dalle varie fazioni, e
persino la commemorazione delle proprie vittime può diventare
pretesto di provocazioni e rivalità.
Negli anni Novanta è stato istituito il Tribunale Penale Internazionale per l’ex-Jugoslavia, voluto dall’ ONU.
Molti attori del conflitto e della pulizia etnica sono stati processati (Karadžić è attualmente sotto processo),
anche se l’azione del Tribunale è spesso oggetto di controversie.
All’interno dello stato persistono ancora ondate di nazionalismo, eredità di un conflitto che ha radici molto
profonde. Nei Paesi occidentali si ha la tendenza a pensare in termini di “balcanismo”, ovvero a considerare
i Balcani come parte di un mondo primitivo, lontano dalla nostra cultura. Forse è proprio questo il motivo
per cui un conflitto avvenuto solo diciannove anni fa è stato quasi cancellato dalla memoria pubblica: la
Bosnia Erzegovina, la Jugoslavia, i Balcani nel loro complesso sono distanti dal nostro mondo, popolati da
persone di etnia diversa, lingua diversa, cultura e religione diversa. In realtà la “Polveriera d’Europa” è più
vicina di quanto crediamo e sarebbe bene non chiudere in fondo all’armadio gli spettri di un passato così
vicino.
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