RECENSIONE D`AUTORE 3. GIOVANNI BOCCACCIO: IL PRIMO

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RECENSIONE D`AUTORE 3. GIOVANNI BOCCACCIO: IL PRIMO
RECENSIONE D’AUTORE
Il pubblico del Canzoniere
Voi ch’ascoltate in rime sparse il suono
di quei sospiri ond’io nudriva ’l core
Il rapporto che il Canzoniere istituisce col suo pubblico, emblematizzato da quel pronome (Voi) che lo nomina da una sede tanto importante, può essere un buon punto di
avvio per la nostra ricerca. Nel rapporto col pubblico sta infatti una delle maggiori
innovazioni della poesia petrarchesca, una di quelle che hanno segnato il corso della
lirica europea. Il testo petrarchesco si rivolge ad un uditorio privo di caratterizzazioni
sociali o culturali o ideologiche: non è una cerchia aristocratica né un pubblico borghese, non un gruppo di «scuola», né una udienza specializzata (le donne o i «fedeli d’amore»). L’unico requisito che il testo sembra richiedere al proprio lettore è quello di essere
tale, di «ascoltare». È forse la prima volta nell’epoca moderna che la poesia lirica si
rivolge a un pubblico non preselezionato. Sicuramente, rispetto alle condizioni duecentesche, anche alle più «aperte», Petrarca ipotizza e richiede un’udienza molto più
vasta, tendenzialmente universale. Mentre dunque la prassi poetica duecentesca appare strettamente legata ad una specifica referenza sociale, la poesia del Petrarca sembra
non volersi rapportare a nessun referente determinato. A questo pubblico indifferente
Petrarca propone una storia d’amore, la sua personale storia d’amore. Una storia però
che è anche un itinerario spirituale e in quanto tale un itinerario simbolico, suo e di
tutti, individuale ed esemplare. È ovvio allora che un testo di morale cristiana si rivolga
ad un pubblico universale: una vicenda di salvazione […] non può rinchiudersi entro
confini socialmente determinati.
M. Santagata
[da Dal sonetto al canzoniere, Liviana, Padova 1979]
3. GIOVANNI BOCCACCIO: IL PRIMO AFFABULATORE
3.1 La vita
Sulla biografia di Boccaccio, ancora oggi, sussistono numerose incertezze dovute alla penuria di dati documentari. Permangono
dubbi innanzitutto sulla data e sul luogo di nascita: lo scrittore
nacque probabilmente nel 1313, forse a Certaldo o a Firenze; è
certo, invece, che fosse figlio illegittimo, poi riconosciuto, del mercante Boccaccio di Chellino. Trascorse l’infanzia e i primi anni dell’adolescenza a Firenze, dove fu istruito da Giovanni da Strada,
padre del poeta Zanobi. In seguito Boccaccio di Chellino, che de-
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siderava avviare il figlio all’arte della mercatura e del cambio, quando ebbe l’incarico
di rappresentare la potente banca fiorentina dei Bardi presso gli Angioini, condusse
Giovanni con sé a Napoli. Gli anni vissuti nella capitale angioina ebbero un ruolo fondamentale nella formazione di Boccaccio: fu un periodo ricchissimo di esperienze a
contatto con l’ambiente di corte, che egli poté frequentare grazie alla rilevante funzione svolta dal padre. Proprio in questi anni maturò la vocazione letteraria e compose le
sue prime opere. A Napoli, inoltre, conobbe la donna che nei suoi scritti chiamerà
Fiammetta, con la quale ebbe forse una storia d’amore. La giovane è da identificare
molto probabilmente con Maria d’Aquino, figlia illegittima di Roberto d’Angiò, ma
Fiammetta, nell’universo letterario boccacciano, acquista un valore simbolico che trascende la persona reale e diventa figura intorno alla quale si condensano le diverse
esperienze sentimentali dello scrittore. Il periodo napoletano, che sarà ricordato sempre con intensa nostalgia dall’autore, s’interruppe tra il 1340 e il 1341, quando, per le
difficoltà finanziarie del padre, Giovanni fu costretto a ritornare a Firenze. Negli anni
immediatamente successivi fu prima a Ravenna e poi a Forlì, venendo così a contatto
con gli ambienti frequentati da Dante negli ultimi anni della sua vita.
Boccaccio rientrò a Firenze nel 1348, quando la città fu dilaniata da un’epidemia di
peste che produsse vittime anche tra le persone più care all’autore: il padre e alcuni
intellettuali suoi amici. Questa drammatica esperienza lasciò una traccia indelebile in
lui, diventando lo sfondo della sua più nota e importante opera, il Decameron. Intanto Giovanni acquisiva sempre più prestigio nella città di Firenze e iniziò a ottenere
incarichi di rilievo. Nel 1350 fu mandato a Ravenna con il compito di consegnare alla
figlia di Dante dieci fiorini d’oro come risarcimento parziale dei danni subiti dalla
famiglia dell’Alighieri a causa del suo esilio. Nello stesso anno conobbe Francesco Petrarca con il quale instaurò un profondo e duraturo rapporto di amicizia.
Nel 1355 si recò a Napoli con la speranza di assumere la carica di segretario; ma tale
possibilità, tanto vagheggiata poiché gli avrebbe permesso di vivere nella città dove
aveva trascorso il periodo più felice della sua vita, non si realizzò. Durante il soggiorno
napoletano, tuttavia, poté frequentare la Biblioteca di Montecassino e scoprire i manoscritti di Varrone, Tacito e Apuleio. Tornato a Firenze, s’impegnò, spinto dall’amore
e dall’interesse sempre più forti per i classici e la filologia (→ Glossario), a far inserire
nello Studio fiorentino l’insegnamento del greco. Intanto Boccaccio aveva preso gli
ordini minori e nel 1360 ottenne l’autorizzazione alla cura delle anime. Nello stesso
anno fu allontanato dalle cariche pubbliche a causa di un tentativo di colpo di Stato
nel quale furono coinvolti alcuni suoi amici. Lasciata la casa di Firenze, si ritirò a Certaldo e trascorse il suo tempo dedicandosi agli studi eruditi e incontrando a volte l’amico Petrarca. In questo periodo fu nuovamente a Ravenna e a Napoli e, in seguito, riammesso agli incarichi pubblici, compì missioni diplomatiche ad Avignone e a Roma.
Negli ultimi anni della sua vita continuò un’intensa attività di studi, interrotta spesso
da problemi di salute. Le sue incerte condizioni lo costrinsero anche ad abbandonare
l’incarico, affidatogli dal Comune di Firenze nel 1373, di eseguire la lettura pubblica
della Commedia di Dante nella Chiesa di S. Stefano di Badia. Ritiratosi a Certaldo e
angustiato da difficoltà economiche e angosce morali, morì il 21 dicembre del 1375.
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3.2 Il profilo letterario
Con Boccaccio giunge a piena maturazione il processo, avviato da Petrarca
(→ I grandi autori), di interpretazione ed espressione dei temi e dei valori di
una società nuova, affiancato dal recupero in chiave nostalgica degli ideali
cortesi. Figlio di un mercante, Boccaccio proveniva dall’ambiente pratico e
industrioso della borghesia mercantile fiorentina, ma a Napoli, frequentando la corte angioina, aveva scoperto un modello di vita raffinata e colta. In
lui coesistono vecchio e nuovo: è già uomo dell’Umanesimo (→ Parte Seconda, Panoramica storico-culturale), ma mantiene alcune caratteristiche dell’intellettuale del Medioevo; è portavoce della nuova visione del ceto mercantile, ma non disperde le eredità culturali ed espressive della tradizione
aristocratica e cavalleresca.
La formazione culturale a Napoli e a Firenze La corte angioina offriva al giovane Boccaccio continui stimoli. Nella ricca biblioteca di corte, fornita di testi
francesi e di opere classiche, l’autore si avvicinò non solo alla produzione cortese, ai romanzi cavallereschi e alla lirica (→ Glossario) d’amore, ma anche
alla letteratura classica, per la quale iniziò a nutrire grande ammirazione, privilegiando in particolare Ovidio, Virgilio e Stazio. Non si trattava ancora, però,
di un approccio di tipo umanistico e rigorosamente filologico, ma di un interessamento libero, spontaneo e disponibile alle più varie suggestioni. Lo scrittore guardava, inoltre, ai recenti modelli della letteratura volgare, in primo
luogo agli stilnovisti (→ I generi letterari) e a Dante (→ I grandi autori). Egli,
dunque, mostra nella sua formazione una notevole diversità di interessi e una
tensione allo sperimentalismo, che denotano una mentalità aperta e un carattere curioso, desideroso di sapere e fortemente ricettivo.
Fondamentale per l’autore fu il ruolo svolto dalla città di Napoli: serbatoio
inesauribile di situazioni, contatti e tipi umani, essa spinse il giovane Boccaccio a guardare la realtà e a scrutarla nella sua infinita varietà, senza pregiudizi
e senza schemi mentali prefissati. Quando ritornò a Firenze, portò con sé il
ricordo di questo mondo vivo e brulicante, conservando la propensione a indagare nei molteplici aspetti del reale. A differenza di Petrarca, che era mediatore di una cultura cosmopolita, Boccaccio appare inserito appieno nelle
strutture sociali della città di Firenze, alla cui vita coopera con l’attività politica e diplomatica e della quale non è solo partecipe, ma anche espressione: il
suo grande capolavoro, infatti, il libro di novelle Decameron, affonda le proprie radici nell’esistenza quotidiana della società urbana in cui lo scrittore vive.
L’ideale laico di Boccaccio L’intera opera di Boccaccio risulta intessuta di una
fiducia tutta nuova nelle potenzialità dell’essere umano e nelle possibilità
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della ragione di dominare la complessità del reale. Questa fede nell’«industria
umana», in grado di resistere ai bizzarri colpi della Fortuna, deriva dalla mentalità del ceto mercantile, da cui l’autore proviene, ceto che si fece portatore
di una visione fortemente innovativa dei rapporti dell’uomo con la realtà esterna, giungendo a riscoprire il valore dell’individuo e a rivalutare le capacità
del soggetto di incidere sul reale e di trasformarlo con il proprio ingegno. Boccaccio è espressione di un ideale laico e concreto e di una società urbana e
mercantile che ha riscoperto un atteggiamento più libero nei confronti della
vita, senza però arrivare a negare una visione religiosa dell’esistenza, dal momento che l’uomo, proprio esprimendo appieno tutte le sue qualità e tutte le
sue possibilità, non fa altro che testimoniare la presenza di Dio.
La concezione dell’amore Questo spirito squisitamente laico permea anche la
visione boccacciana dell’amore, che assume connotazioni completamente diverse rispetto alla tradizione stilnovistica, in quanto si configura, anche nelle sue
più nobili manifestazioni, come impeto naturale volto all’appagamento dei sensi. Il sentimento amoroso è sempre legittimo proprio perché è un istinto naturale di ogni individuo. Tale concezione dell’amore diventerà dominante nel Rinascimento, tuttavia non appare del tutto estranea alla cultura medievale che, se
da un lato era caratterizzata dalla forte diffusione del pensiero ascetico, teso alla
mortificazione della carne vista come fonte di peccato, dall’altro non si mostrava insensibile al carattere “naturale” dell’amore. Nella prospettiva di una concezione naturalistica dell’amore, muta profondamente anche il modo di vedere la
donna che, secondo Boccaccio, deve essere libera di poter soddisfare il sentimento amoroso. Egli auspica un’educazione meno rigida e repressiva di quella
attuata nella civiltà a lui contemporanea, in cui dominava un costume fortemente patriarcale, che imponeva al sesso femminile una morale restrittiva e
un’esistenza interamente sottomessa alla volontà degli uomini.
L’incontro con Petrarca e l’umanesimo boccacciano Avvenuto nel 1350, l’incontro con il poeta aretino produsse in Boccaccio un profondo mutamento.
L’amicizia con Petrarca, infatti, lo indusse a dedicare maggiore attenzione ai
valori spirituali e a elaborare una concezione più consapevole dell’impegno
morale dell’attività intellettuale; tale consapevolezza lo spronò ad abbandonare la letteratura d’intrattenimento, per una produzione di livello elevato, costituita da testi di carattere erudito e destinata a un uditorio dotto. Negli ultimi
anni della sua vita, Boccaccio approdò a una visione più rigida e tradizionalista dell’amore e del sesso femminile, tematiche verso le quali, in precedenza,
si era mostrato aperto e innovativo. Petrarca, inoltre, stimolò in Boccaccio la
formazione di una rigorosa coscienza filologica. Sull’esempio dell’amico, l’au-
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tore del Decameron approdò a uno studio più critico dei classici, amati, come
abbiamo visto, fin dalla giovinezza. A differenza del suo predecessore, però,
Boccaccio non sente l’esigenza di confrontare il culto degli antichi con il Cristianesimo: il suo è un umanesimo squisitamente e integralmente laico. In
virtù di quella curiosità intellettuale che sempre lo contraddistinse, inoltre,
Boccaccio si dedicò anche alla letteratura greca, che Petrarca, invece, non aveva accolto nei suoi studi. Tant’è che fu proprio Boccaccio a impegnarsi perché
fosse introdotto nello Studio fiorentino l’insegnamento del greco. Si trattò di
un’iniziativa di decisiva importanza, che permise di diffondere per la prima volta
la cultura greca e la lettura del grande poeta epico Omero, del quale il Medioevo
occidentale non aveva mai avuto conoscenza diretta.
3.3 Le opere
Sebbene lo scrittore abbia raggiunto i risultati più elevati nella prosa, il suo
esordio letterario avviene nell’ambito poetico e rivela immediatamente sia
la centralità del tema amoroso, che caratterizza l’intera produzione del periodo napoletano, sia l’adeguamento da parte dell’autore al gusto e agli schemi della tradizione cortese, molto diffusa presso la corte angioina.
Quadro generale della produzione letteraria
Titolo e data
di pubblicazione
delle più importanti opere
Genere
Contenuti
Caccia di Diana (1333-1334) Poemetto
in terzine
Protagoniste dell’opera sono le ninfe devote al culto
della casta Diana, sotto le cui sembianze sono elogiate belle dame napoletane, che si ribellano alla
dea, offrendo le prede catturate nella caccia a Venere. Quest’ultima trasforma ogni animale in un «giovinetto gaio e bello»; l’autore stesso, che dapprima
era un cervo, ritorna alla forma umana e, grazie alle
virtù della donna amata, si eleva moralmente e spiritualmente. È facile, dunque, individuare alla base
del poema il principio cortese dell’amore come
fonte di ingentilimento.
Filocolo (1336-1339)
Considerato il primo romanzo italiano in volgare,
il Filocolo narra la storia di due innamorati, Florio e
Biancifiore, che riusciranno ad unirsi in matrimonio
solo dopo una lunga serie di viaggi e peripezie. Il
titolo, secondo un’etimologia erroneamente ricostruita dallo scrittore, significherebbe «fatica d’amore» (il titolo corretto doveva essere, invece, Filocopo).
Romanzo
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Filostrato (1338-1339)
Poema
in ottave
Al centro della storia è l’amore tra Troilo e Criseida, la prima figura femminile dipinta dall’autore
con tratti maliziosi e disincantati. Il poema è caratterizzato da un’attenta indagine psicologica e da
un’intensa drammaticità. Il titolo grecizzante significa «vinto d’amore».
Teseida delle nozze d’Emilia Poema
in ottave
(1339-1340)
Ispirandosi ai romanzi cavallereschi, l’autore narra la storia di due amici, Arcita e Palemone, innamorati entrambi di Emilia, cognata di Teseo. I due
giovani ottengono da quest’ultimo l’opportunità di
contendersi la fanciulla in un torneo. Il vincitore risulta Arcita, che però ha riportato gravi ferite durante la battaglia e prima di morire, con un atto di
grande magnanimità, affida la donna amata al rivale
Palemone.
Comedia delle ninfe fiorenti- Prosimetro Dietro la vicenda del rozzo pastore Ameto che, grane o Ninfale d’Ameto (1341zie all’incontro con le ninfe della dea Venere, raffina
il suo spirito, si cela il tema cortese dell’ingentili1342)
mento prodotto dall’amore.
Amorosa visione (1342)
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Poema
L’autore immagina di giungere in sogno in un castello dove vede alcuni dipinti che raffigurano i trionfi
della Sapienza, della Gloria, dell’Avarizia, dell’Amore e della Fortuna. Viene delineato, così, un itinerario spirituale che non si configura come percorso
verso Dio, ma come approdo a una saggezza tutta
umana e laica.
Elegia di Madonna Fiammet- Romanzo
ta (1343-1344)
in prosa
È una lunga lettera di una donna rivolta ad altre
donne innamorate (→ “Le opere”).
Ninfale fiesolano (1344-1346) Poema
in ottave
Si racconta la vicenda del contrastato e infelice
amore tra il pastore Africo e la ninfa Mensola
(→ “Le opere”).
Decameron (1348-1352)
Raccolta
di novelle
Durante la peste del 1348 a Firenze dieci giovani si
rifugiano in un luogo del contado e decidono di
raccontarsi novelle (→ “Le opere”).
Corbaccio (1362)
Opera
in prosa
Scritto in volgare e in prima persona, il testo si
inscrive nella tradizione misogina medievale, che
individua nella donna l’origine di ogni male. Il titolo fa riferimento probabilmente al “corvo”, che è
simbolo sia del demonio che del dio Amore, che
priva gli uomini della “vista”, come il rapace strappa gli occhi ai cadaveri. Il Corbaccio, nell’attuazione
di un vistoso rovesciamento della concezione dell’amore e del sesso femminile testimoniata dalle
opere precedenti, è espressione della profonda crisi mistica vissuta dall’autore negli ultimi anni della
sua vita.
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Esposizioni sopra la Com- Testo
media
in prosa
Si tratta di un commento ai primi diciassette canti
dell’Inferno dantesco.
Trattatello in laude di Dante
Biografia
La sincera ammirazione per Dante prosegue in
quest’opera.
De genealogiis deorum gen- Opera
tilium
in prosa
Rientra nelle opere di carattere erudito e rappresenta
una vera e propria enciclopedia della mitologia
classica.
Elegia di Madonna Fiammetta
L’Elegia di Madonna Fiammetta si presenta come una lunga lettera che una
donna napoletana rivolge ad altre donne innamorate, ripercorrendo la storia del suo infelice amore per un mercante fiorentino di nome Panfilo. Per
la prima volta nella storia letteraria italiana la voce è affidata interamente
a un personaggio femminile, che confessa la propria passione amorosa,
colta dall’autore con delicatezza e sensibilità e con uno sguardo comprensivo e tollerante.
Le tematiche Il racconto di Fiammetta non pone in primo piano i fatti, ma
è tutto teso a esprimere e scandagliare i sentimenti della donna, i suoi stati
d’animo e gli effetti provocati in lei dalla passione, delineati dall’autore con
finezza psicologica e grande capacità introspettiva. Ci troviamo di fronte
al primo esempio di romanzo psicologico, anche se l’analisi, fortemente
filtrata da modelli letterari, appare lontana da una concezione moderna di
psicologia. Temi centrali sono il ruolo della donna, non più vista, secondo i
canoni della letteratura cortese, come oggetto dell’amore e della poesia, ma
come soggetto e protagonista del sentimento amoroso; e l’amore, inteso
come istinto naturale dell’essere umano e, in quanto tale, legittimo in ogni
sua manifestazione.
Lo stile Grazie all’esperienza di traduttore dello storico latino Livio, maturata proprio nei primi anni fiorentini, l’autore raffina la sua prosa modellando la sintassi sulla struttura del latino, creando periodi caratterizzati
dal verbo principale in posizione finale e dal cumulo di gerundi nelle subordinate.
Ninfale fiesolano
Il Ninfale fiesolano, composto tra il 1344 e il 1346, immediatamente prima
del Decameron, è l’opera che più si avvicina al capolavoro boccacciano per
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l’equilibrio formale, la matura rappresentazione realistica e le reminiscenze
classiche. In 473 ottave (→ Glossario), suddivise in sette canti, si racconta la
storia d’amore tra il pastore Africo e la ninfa Mensola, ambientata nel paesaggio delle colline toscane in un’età mitica e imprecisata.
La trama Il giovane pastore Africo, in un giorno di maggio, spiando le
ninfe devote alla dea Diana e quindi votate alla castità, viene colpito dalla
bellezza di Mensola e se ne innamora. Dopo avere invano tentato di incontrarla, su consiglio di Venere, riesce a possedere la ninfa ricorrendo
all’inganno di indossare abiti femminili. In seguito Mensola, pur ricambiando l’amore del giovane, evita di rivederlo, temendo la punizione di
Diana. Il pastore cerca inutilmente di ritrovare l’amata e alla fine, disperato, si uccide gettandosi in un fiume che prenderà il suo nome. La ninfa,
intanto, partorisce un figlio, Pruneo, ma viene scoperta da Diana che la
dissolve nelle acque di un ruscello che confluirà nell’Africo. La triste vicenda ha tuttavia un lieto epilogo: Pruneo sarà allevato dai genitori di Africo, Alimena e Girafone, e diventerà siniscalco di Attalante, mitico fondatore di Fiesole.
Le tematiche e lo stile Il poemetto si ispira al genere classico della favola
eziologica, che spiega, attraverso leggende e miti, l’origine di nomi di luoghi: in questo caso, è ricostruita l’origine dei nomi dei fiumi Africo e Mensola, che scorrono nei pressi di Firenze. L’opera si richiama, inoltre, ad
altri modelli della letteratura classica come le Metamorfosi di Ovidio e il
genere bucolico di Virgilio. Nel Ninfale tutto si risolve nell’armonia di una
rappresentazione realistica e fresca del mondo campestre, resa attraverso un linguaggio semplice e un metro di facile musicalità, che ricalca i
toni dei cantari (→ Glossario) popolareschi. Il mondo campestre è delineato nella sua spontaneità e nell’elementarità dei sentimenti che lo animano. Nel descrivere l’amore tra i due giovani, Boccaccio coglie con grande delicatezza e sensibilità psicologica i momenti dello sbocciare del sentimento, le sofferenze di Africo, la ritrosia di Mensola, il suo ingenuo timore dell’ignoto. Il sentimento nato tra i due, secondo la concezione naturalistica dell’amore propria di Boccaccio, è un impulso naturale, spontaneo e innocente, distrutto ingiustamente da forze superiori e coercitive; di fronte a ciò, l’autore non può non esprimere una commossa partecipazione e un amaro sbigottimento.
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Decameron
Scritto tra il 1348 e il 1352, il Decameron si compone di cento novelle. L’autore immagina che a Firenze, durante la peste del 1348, un martedì mattina, sette fanciulle s’incontrino nella Chiesa di Santa Maria Novella e decidano di trovare rifugio in campagna per sfuggire al pericolo del contagio
e alla dissoluzione morale e sociale che ormai attanaglia la
città. Si aggiungono al gruppo tre giovani e tutti trovano sistemazione in uno splendido palazzo con un gran cortile,
prati e giardini. La brigata, che lì trascorrerà quindici giorni, su proposta di Pampinea, decide di dedicare le ore del pomeriggio al racconto di novelle. Ogni giorno, tranne il venerdì e il sabato, ciascun giovane
narrerà una novella sul tema stabilito dal re o dalla regina della giornata, nominati tra i componenti del gruppo per controllare e garantire l’ordine. Il racconto delle novelle avviene in dieci giornate e a ciò fa riferimento il titolo
dell’opera, modellato sulla lingua greca.
La trama Nella prima giornata Pampinea permette a ciascuno di scegliere
liberamente l’argomento su cui verterà la novella, sebbene, poi, i giovani si
ritrovino tutti a raccontare storie in cui il protagonista riesce a risolvere situazioni complicate grazie all’acume del ragionamento. Nella seconda giornata (regina Filomena) si ragiona su casi di fortuna che si risolvono con un
lieto fine: in queste novelle le pagine del Decameron si aprono all’avventura,
alle più intricate vicende e a una sorprendente imprevedibilità. Nella terza
giornata (regina Neifile) si narra di chi alcuna cosa molto desiderata con industria acquistasse o la perduta recuperasse: in queste storie spesso trovano
spazio elementi scabrosi e licenziosi, in contrasto con la morale corrente,
non per il piacere di scandalizzare ma per «una lezione di schietto e franco
realismo». Nell’Introduzione alla quarta giornata l’autore prende la parola
per difendersi da alcune critiche che sono state mosse alle sue novelle (il che
può far supporre una circolazione parziale dell’opera), secondo le quali viene accusato di interessarsi troppo alle donne e di voler piacere a loro in maniera eccessiva, lodandole e ponendole al centro della sua opera. In risposta
lo scrittore racconta la novella di Filippo Balducci, tesa a illustrare come l’amore per le donne sia un impulso naturale, che è inutile e dannoso contrastare,
come drammaticamente dimostreranno le storie raccontate appunto nella
quarta giornata. In essa, sotto il reggimento di Filostrato, si racconta di amori
destinati a una fine infelice, storie dolorose e di sublime tragicità. Nella quinta giornata (regina Fiammetta) il tema riguarda ciò che ad alcuno amante,
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dopo alcuni fieri o sventurati accidenti, felicemente avvenisse. Ancora una volta
l’autore libera tutta la sua fantasia nel descrivere vicende mutevoli, che si
concludono con una felicità insperata da parte dei protagonisti. Nella sesta
giornata (regina Elissa) vengono narrate novelle che segnano il trionfo dell’arguzia e dell’intelligenza dell’uomo, il quale riesce a risolvere situazioni
difficili con una risposta pronta o una parola spiritosa. La settima e l’ottava
giornata (sotto il reggimento di Dioneo e Lauretta) sono entrambe dedicate
al racconto di beffe. L’estro inventivo di Boccaccio si sprigiona nella descrizione degli inganni, degli scherzi e dell’esuberante vitalità dei personaggi,
che ci appaiono spesso anche immorali, ma che affermano gli impulsi naturali dell’uomo contro ogni ipocrisia. Nelle novelle della nona giornata, in cui
sotto il reggimento d’Emilia, si ragiona ciascuno secondo che gli piace e di
quello che più gli aggrada, prevalgono ancora le burle e le situazioni scabrose. Nella giornata conclusiva (re Panfilo) si narra di gesti di generosità, gratitudine e magnanimità, espressioni della virtù di cui l’uomo è capace.
I personaggi Il mondo del Decameron abbraccia tutti i tipi umani e tutti gli
strati sociali. Vi sono innanzitutto i rappresentanti dei vecchi ordinamenti,
principi e sovrani come Federico II d’Aragona, Carlo I d’Angiò, Tancredi, e
grandi dignitari ecclesiastici come l’abate di Cluny; accanto a questi ultimi
vi sono anche gli esponenti del basso clero come frate Cipolla e frate Alberto.
Sono ampiamente presenti i ceti della coeva società urbana: i banchieri e i
grandi mercanti come messer Torello; l’aristocrazia cittadina, rappresentata
da Federigo degli Alberighi e Nastagio degli Onesti; la borghesia professionale con il notaio Ciappelletto; i mercanti come Andreuccio da Perugia; gli artigiani e i bottegai come Cisti fornaio; i rappresentanti del proletariato urbano come Simona e Pasquino; i servi come il cuoco Chichibio. Non mancano
intellettuali e artisti come Guido Cavalcanti e Giotto e sono presenti, infine,
anche gli abitanti del contado come Masetto e Ferondo.
I luoghi Anche l’orizzonte geografico del Decameron è vastissimo: si spazia
dall’Italia all’Oriente islamico e sono delineati i luoghi e gli ambienti più disparati, descritti sempre in maniera realistica ed essenziale. Le località più
rappresentate sono, senza dubbio, Firenze e la Toscana contemporanea, ma
figurano anche tante altre città d’Europa e d’Italia; un posto particolare, per
ragioni autobiografiche, è riservato a Napoli. L’ambiente urbano, tipico della
società in cui l’autore vive, costituisce lo sfondo privilegiato di molte novelle:
Boccaccio, infatti, è stato il primo a scoprire le possibilità narrative offerte
dalla città, che ben si presta a fungere da ideale scenario delle più appassionanti avventure, come accade nella novella di Andreuccio da Perugia.
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La cornice La vasta materia narrativa è tenuta insieme e resa omogenea dalla “cornice” che rivela il senso profondo dell’opera: il giardino, dove si riuniscono i dieci giovani, è il luogo in cui sono restaurati gli ideali di una vita
cortese e nobile e i valori dell’onestà, del rispetto, dell’amicizia, dell’armonica convivenza, spazzati via dalla tragedia della peste che ha colpito Firenze. Nell’Introduzione alla prima giornata l’autore si sofferma a lungo sulla
descrizione delle drammatiche conseguenze dell’epidemia: essa non ha causato soltanto morte e sofferenza, ma ha distrutto totalmente i valori morali e
il tessuto sociale della città. Di fronte alla disintegrazione di ogni legame sociale e di ogni valore morale è necessario recuperare l’ordine e la socialità,
riaffermare il senso della vita, le infinite potenzialità dell’uomo, le inesauribili manifestazioni del suo cuore e della sua intelligenza.
L’uso di una storia principale che funge da riquadro alle storie minori era una soluzione narrativa già impiegata nella tradizione novellistica europea e orientale. L’espediente più consueto era immaginare che i racconti fossero narrati allo scopo di ritardare un pericolo o una pena di morte. Questo è il caso, per esempio, del Libro dei
sette savi, volgarizzamento del XII secolo di un testo latino che a sua volta traeva la
materia dalla tradizione orientale, nel quale si immagina che siano raccontate quattordici novelle al fine di trattenere il re dal mandare a morte il proprio figlio; anche
nelle Mille e una notte Shahrazad narra ogni sera un racconto nel tentativo di allontanare il momento della propria uccisione. Una diversa tipologia di “cornice” si riscontra nella Disciplina clericalis (Educazione dei chierici), dell’inizio del XII secolo: in quest’opera, anch’essa comprendente numerosi racconti di origine orientale,
le novelle sono inserite con la giustificazione di educare e ammaestrare. In tutti questi
casi la “cornice” è rappresentata da una storia di carattere convenzionale e di pura
invenzione narrativa. Boccaccio opera una rilevante innovazione in quanto utilizza
come riquadro una storia che prende le mosse da un terribile e funesto evento storico. Il carattere realistico della “cornice” boccacciana si rileva anche in un altro aspetto: il giardino, dove i giovani si riuniscono per raccontare le novelle, non ricalca soltanto il topos letterario del locus amoenus (luogo ameno), ma rappresenta un luogo
che caratterizzava effettivamente le abitudini di vita della borghesia agiata del tempo. La cornice, dunque, indica immediatamente la realtà sociale da cui nascono e a
cui si rivolgono le novelle.
Le tematiche La narrazione boccacciana è improntata al più concreto realismo e non concede mai alcuno spazio agli elementi magici e fantastici,
dal momento che l’autore intende scoprire e descrivere la realtà umana senza pregiudizi e senza idealizzazioni. Le forze che regolano la vita dell’uomo
costituiscono i temi intorno ai quali ruotano le storie raccontate: la natura,
la fortuna, l’intelligenza, l’amore, la virtù. Il Decameron, dunque, è caratCapitolo Secondo
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I GRANDI AUTORI: GIOVANNI BOCCACCIO
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terizzato da una molteplicità di temi in opposizione all’unicità di quello
amoroso, tipico della produzione precedente. Le vicende umane appaiono
dominate dalla Fortuna capricciosa e mutevole che, nella visione laica di
Boccaccio, non è più, come nella concezione medievale, lo strumento di
una volontà superiore. Essa crea innumerevoli ostacoli, ma anche i mezzi
per affrontarli e superarli: tocca all’uomo saperli cogliere con la sua prontezza e la sua intelligenza, ricorrendo anche, se è il caso, all’astuzia e all’inganno. Con lo stesso atteggiamento libero da pregiudizi e ipocrisie si indaga sull’amore, rappresentato nelle sue varie sfaccettature e manifestazioni:
può essere semplice desiderio sensuale o configurarsi come il più profondo dei sentimenti che ingentilisce e nobilita l’animo; può spingere agli inganni e ai tradimenti, ma anche alla generosità e al sacrificio di sé stessi.
L’amore è sempre un impeto dettato dalle leggi di natura e, in quanto tale, è
un sentimento legittimo e positivo; gli impulsi naturali, tuttavia, devono
essere regolati dalla ragione, altrimenti rischiano di trasformarsi in forze
irrazionali e distruttive.
Il destinatario dell’opera Nel Proemio l’autore chiarisce qual è il pubblico a
cui intende rivolgersi e quali sono le finalità dell’opera. Lo scrittore indirizza
le sue novelle alle donne, allo scopo di distrarle dalle pene d’amore e allietare
il loro tempo. Viene dunque innanzitutto affermata la funzione di intrattenimento attribuita all’opera. La natura colta delle interlocutrici, indicate dallo
scrittore, inoltre, ci lascia intendere che il destinatario è individuato nella borghesia cittadina, che costituisce la nuova élite sociale. La codificazione, che
si ha con Boccaccio, di un nuovo genere letterario come quello della novella
è il segnale della profonda trasformazione sociale verificatasi: la novella, caratterizzata dalla brevità, dall’aderenza alla realtà quotidiana, da uno stile
semplice e immediato, tesa a dilettare e al tempo stesso istruttiva dal punto
di vista morale, rispondeva appieno alle esigenze dei nuovi ceti dirigenti.
Lo stile La scrittura boccacciana si adatta al multiforme mondo descritto,
alternando stili e registri diversi. Si riscontra da un lato un linguaggio letterario, caratterizzato da un periodare lungo e complesso, modellato sulla sintassi latina e ricco di accorgimenti retorici, dall’altro un linguaggio più immediato, che si apre nei dialoghi alla registrazione di forme del parlato e di
tratti dialettali: basti pensare, per esempio, al veneziano del cuoco Chichibio. In questo modo Boccaccio fornisce gli strumenti per una compiuta rappresentazione della realtà quotidiana, ormai assurta a piena dignità letteraria, e crea una lingua che si imporrà come modello indiscusso della prosa italiana.
86
Parte Prima
●
Dalle Origini al Trecento
RECENSIONE D’AUTORE
Tra mondo aristocratico e mondo comunale: Novellino
e Decameron
Il Decameron ricostruisce in sede letteraria la nuova civiltà elaborata dalla borghesia mercantile, con il suo nuovo modo spregiudicato e rivoluzionario di interpretare la vita; e di ciò
possiamo avvederci anche nel semplice raffronto con il Novellino. Infatti, mentre nel Novellino, di intonazione ghibellina e aristocratizzante, i personaggi borghesi sono pochissimi e
la figura del mercante appare in modo del tutto periferico, in quanto dominano la scena
imperatori e re, feudatari e sapienti, nel Decameron vi è il trionfo del mondo borghese.
Seppure tra i personaggi largo spazio hanno re e signori, sono escluse le novelle ispirate
alle storie bibliche o a fatti miracolosi, che erano accolte nella novellistica tradizionale,
mancano i famosi personaggi dei romanzi cavallereschi, i filosofi antichi e le figure della
mitologia greco-romana. Quindi, se il Novellino rispecchia una società più concretamente
attiva e lo stile è teso all’essenziale, il Decameron nasce da una società più matura e l’accento si sposta più sovente sull’intreccio, sulla battuta, sul gesto, con una forza di introspezione psicologica. Il mondo borghese e mercantile entra nella letteratura italiana.
Infatti la realtà economica di Firenze erano i traffici del mondo mercantesco, delle banche e
degli affari, i mercanti che dominavano gli empori di tutta Europa. Quei mercanti, che erano
disprezzati da Dante e ignorati da Petrarca, sono assunti come protagonisti di non poche
novelle, con un’intima adesione al nuovo costume e alle nuove concezioni fatte trionfare
dalla borghesia mercantile. Anche nella glorificazione dell’intelligenza umana il Boccaccio
mostra aperta adesione alla nuova visione del mondo e della società maturata nell’ambiente borghese e mercantile, sottolineando soprattutto la «mentalità economica» rapportabile
al concetto dell’utile, quindi vi è l’utilizzazione del mondo reale posta come logica di vita.
Questa adesione del Boccaccio è però limitata in parte dalle sue vive simpatie per il mondo
aristocratico e cortese e, dal fatto che, quando egli scrive, assiste al tramonto della grande
età dei mercanti fiorentini: alla ricerca di nuovi mercati da aggiungere al grande impero
economico già conquistato subentravano ormai la pigra cautela e il momento della conservazione e quindi dell’inevitabile declino economico, politico e ideologico.
Da questa situazione e dalla sua particolare sensibilità morale deriva al Boccaccio il
ripensamento sulle tragiche conseguenze della ferrea obbedienza alla «ragion di mercatura», cui tutto deve essere sacrificato. Il Boccaccio, però, che accoglie in gran parte la
nuova elaborazione ideologica, non si lascia andare ad adesioni incondizionate, a esaltazioni o a giustificazioni; egli assume solo come personaggi questi mercanti e mostra
come «la ragion di mercatura» finisca con il riconoscere tra uomo e uomo un solo
rapporto, quello del nudo interesse. Allora il suo senso innato della misura e della
società si ribella, alleandosi agli ideali cortesi, cui aveva sempre guardato con simpatia;
ma sono anche i nuovi tempi a farsi sentire: infatti nelle tarde Esposizioni il giudizio da
parte di Boccaccio su coloro che pensano solo al guadagno si fa più sdegnoso, anche
se traspare ancora un certo accento di ammirazione.
G. Padoan
Capitolo Secondo
●
I GRANDI AUTORI: GIOVANNI BOCCACCIO
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Tecniche di lettura
Il testo narrativo
1. Ruolo e punto di vista del narratore
Il narratore ricopre un ruolo di grande rilievo nell’ambito di un testo narrativo: egli è
il “regista” della vicenda che narra, la “voce” cui l’autore (colui che ha materialmente
scritto il testo) affida il compito di raccontare. Il narratore può relazionarsi ai fatti che
narra in modi diversi, distinguendosi in narratore esterno e narratore interno.
• Il narratore esterno (o eterodiegetico) non prende parte ai fatti che racconta, ma,
quale voce narrante, li riferisce dall’esterno utilizzando la terza persona. Il narratore
esterno può:
— manifestare la propria presenza nella storia attraverso interventi utili a cucire i vari
fatti narrati o a commentare avvenimenti e vicende (I grado);
— rimanere nascosto dietro le vicende che si limita a raccontare, evitando commenti,
spiegazioni, interpretazioni; in questo caso si parla del narratore esterno impersonale (II grado).
• Il narratore interno (o omodiegetico), invece, coincide con uno dei personaggi della
vicenda e, quale io narrante, racconta in prima persona i fatti ai quali partecipa o ha partecipato, in veste di personaggio principale o secondario oppure come semplice testimone.
A seconda dei punti di vista da cui il narratore guarda alle vicende narrate, è possibile
distinguere tre diversi tipi di focalizzazione:
• focalizzazione interna, quando il narratore interpreta il punto di vista di uno dei
personaggi da un’angolatura inevitabilmente ristretta e limitata;
• focalizzazione esterna, quando il narratore è spettatore esterno dei fatti che racconta e pertanto si limita a registrarli senza aggiungere giudizi né fornire informazioni su quanto accade (il punto di vista, in questo caso, è oggettivo);
• focalizzazione zero, quando il narratore è onnisciente e quindi sa tutto, compreso
gli antefatti della storia, i sentimenti e i pensieri più nascosti dei suoi personaggi
(la sua ottica è illimitata).
2. La struttura tipo
Ogni testo narrativo presenta una struttura-tipo, articolata sostanzialmente in cinque momenti:
— situazione iniziale;
— complicazione e rottura dell’equilibrio iniziale;
— evoluzione della vicenda attraverso un suo miglioramento o peggioramento;
— conclusione della vicenda e ricomposizione dell’equilibrio;
— situazione finale.
88
Parte Prima
●
Dalle Origini al Trecento
Ogni vicenda, infatti, deve necessariamente partire da una situazione iniziale, il cui
equilibrio si rompe a causa di un evento che spinge i personaggi a entrare in azione.
Attraverso la naturale evoluzione della vicenda, che si può svolgere nei modi più diversi e articolati, si giungerà a un’inevitabile ricomposizione dell’equilibrio, migliore o
peggiore di quello iniziale, ma da quest’ultimo sicuramente differente. Tale equilibrio
costituirà la situazione finale e cioè la conclusione della storia.
3. La successione degli eventi
• Fabula e intreccio. Esistono due modi fondamentali per narrare una storia: in base
all’ordine naturale degli eventi, cioè riferendo gli eventi secondo l’ordine in cui si
sono verificati nella realtà, oppure in base a un ordine artificiale, che ne modifica la
successione reale, presentando prima gli eventi che cronologicamente o logicamente
verrebbero dopo. Si distinguono pertanto due diversi piani narrativi: la fabula (o storia), che rispetta l’ordine naturale degli eventi, e l’intreccio (o narrazione), che invece
li dispone secondo la scelta arbitraria dell’autore.
• I nuclei narrativi. In ogni testo narrativo troviamo una serie di informazioni: alcune
sono indispensabili per capire lo svolgimento della storia, altre invece aggiungono particolari meno importanti, e tuttavia utili a comprendere meglio determinate situazioni.
Le prime costituiscono gli eventi essenziali, le seconde gli eventi accessori. Ogni evento
essenziale, in concorso ai relativi eventi accessori, forma un nucleo narrativo, cioè una
porzione di testo più o meno completa, che sviluppa una parte ben precisa del racconto.
• Le sequenze. Un altro sistema di scomposizione del testo narrativo è attuabile mediante
l’individuazione di sequenze, che sono dei segmenti di testo, inferiori rispetto ai nuclei narrativi per estensione e complessità, forniti di senso logico compiuto. Le sequenze cambiano
quando entra in scena un nuovo personaggio o c’è una variazione di tempo e di luogo.
4. Tempo e spazio
Nell’economia (ordine che regola la disposizione delle varie parti) di un testo narrativo, grande importanza assume la dimensione temporale: gli eventi narrati si collocheranno naturalmente in una determinata epoca storica (il tempo della storia) e la
narrazione stessa si snoderà in un certo arco di tempo (la durata della storia). È chiaro
che la durata narrativa degli eventi narrati (corrispondente grosso modo al tempo
necessario per la lettura del testo) non coincide quasi mai con la loro durata reale,
cioè quella che essi avrebbero se accadessero realmente (fatta eccezione per le sequenze dialogate o scene nelle quali durata narrativa e durata reale coincidono).
Il narratore, la voce che racconta gli avvenimenti, per ovvie ragioni narrative, contrae
o altera il tempo reale e per farlo si avvale di un ampio numero di espedienti tecnici,
riconducibili a quattro tipologie fondamentali:
• il sommario: periodi più o meno lunghi vengono sintetizzati in poche righe;
Capitolo Secondo
●
I GRANDI AUTORI: GIOVANNI BOCCACCIO
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• l’ellissi: interi periodi di tempo, anche molto lunghi, vengono del tutto ignorati (in
tal caso, si potranno trovare espressioni come «l’anno successivo...», «dieci anni
dopo...», «terminato l’esilio...» ecc.);
• l’analisi: periodi di tempo perlopiù molto brevi vengono dilatati, abbracciando un
tempo narrativo più ampio di quello reale;
• la digressione: la narrazione s’interrompe per dare modo al narratore di soffermarsi
sulla descrizione dei personaggi, dei luoghi o del contesto storico della vicenda.
Il narratore, inoltre, potrà interrompere il racconto dei fatti per narrare qualcosa che
è accaduto prima (analessi o flashback) oppure per anticipare quanto avverrà in seguito (prolessi).
La scelta dei luoghi in cui inserire le idee e le azioni dei personaggi di un testo narrativo non è casuale; essa piuttosto è il frutto di una precisa scelta funzionale all’economia generale della narrazione: un luogo ha una funzione narrativa quando non funge
da semplice sfondo alla vicenda ma interagisce con essa, oppure una funzione simbolica se viene utilizzato per esprimere un’idea o un concetto in relazione alla situazione
narrativa e ai personaggi. Gli stessi luoghi intervengono spesso in funzione della caratterizzazione psicologica di questi ultimi, riflettendone un modo d’essere o rappresentandone una particolare situazione emotiva.
5. I personaggi: ruolo, funzione e caratteristiche
Ogni testo narrativo presenta generalmente un vero e proprio sistema di personaggi,
all’interno del quale ognuno di essi ricopre un determinato ruolo, più o meno importante. A seconda del ruolo, i personaggi di un testo narrativo si distinguono in:
• personaggi principali, che svolgono un ruolo centrale nella vicenda e sui quali si
concentra maggiormente l’attenzione;
• personaggi secondari, che hanno un ruolo di secondo piano e quindi una rilevanza minore rispetto ai personaggi principali, ma talvolta possono incidere sensibilmente sulla situazione o sul comportamento di questi ultimi;
• comparse, che servono solo a definire un ambiente o una situazione e non incidono minimamente sullo sviluppo della vicenda narrata.
Oltre ad avere un ruolo, i personaggi ricoprono, nell’ambito della vicenda narrata,
anche una specifica funzione, in base alla quale si possono riconoscere:
• il protagonista (o eroe o soggetto): il personaggio principale, che si pone al centro
della narrazione anche quando non compare direttamente in scena. Gli eventi che
lo riguardano prendono avvio dalla rottura dell’equilibrio iniziale in cui vive, a
causa di un mutamento esterno oppure di un suo bisogno o desiderio;
• l’antagonista: il personaggio che contrasta il protagonista e gli si oppone concretamente o sul piano psicologico (spesso è l’artefice della rottura dell’equilibrio iniziale, ma può comparire anche a vicenda iniziata: in ogni caso, è sempre il motore
dello sviluppo dell’azione);
90
Parte Prima
●
Dalle Origini al Trecento
• l’oggetto: il personaggio che incarna, talvolta inconsapevolmente, lo scopo
dell’impegno o del desiderio del protagonista, contrastato in ciò dall’antagonista;
• l’aiutante: il personaggio che assiste, aiuta e protegge il protagonista, sostenendolo nella realizzazione delle sue imprese;
• l’oppositore: il personaggio che di solito è l’aiutante dell’antagonista e vi si unisce
nel tentativo di ostacolare il protagonista (l’oppositore, tuttavia, può agire di sua
iniziativa e addirittura schierarsi dalla parte del protagonista);
• il destinatore: il personaggio che propone al protagonista lo scopo da conseguire
(si pensi, nelle fiabe, al re che spinge l’eroe a compiere un’impresa in cambio di un
premio);
• il destinatario: il personaggio in cui si materializza l’oggetto del contendere
tra protagonista e antagonista (nella stessa fiaba potrebbe essere la principessa che il re concede in moglie all’eroe, se questi avrà realizzato la propria
impresa).
Un ultimo modo di classificare i personaggi è quello di distinguerli tra personaggi
statici e dinamici:
• i personaggi statici sono quelli che nel corso della storia non subiscono mutamenti di alcun tipo, né fisici, né psicologici, né di condizione sociale;
• i personaggi dinamici sono quelli che si modificano o dal punto di vista fisico o dal
punto di vista psicologico o ancora passano da uno stato sociale a un altro.
6. Le forme del discorso
Per riferire le parole o i pensieri dei suoi personaggi, il narratore può scegliere tra
diverse tecniche, che utilizzerà a seconda delle esigenze o in base all’effetto da conseguire. Tra esse ricordiamo:
• il discorso diretto, quando il narratore cede la parola al personaggio riportando tra
virgolette («…») quanto dice e collocandosi momentaneamente in secondo piano;
se il discorso del personaggio non è introdotto da un verbo dichiarativo (disse: «…»,
rispose: «…» ecc.), si ha il discorso diretto libero, che sortisce un effetto di maggiore
immediatezza;
• il discorso indiretto, quando il narratore riporta indirettamente le parole del personaggio, inserendole nel tessuto narrativo come frasi dipendenti da un verbo dichiarativo (dicono che..., commentò che... ecc.);
• il discorso indiretto libero, quando il narratore riporta le parole del personaggio
indirettamente, ma senza utilizzare verbi dichiarativi per introdurle; tale metodo
fonde i pregi del discorso diretto e di quello indiretto, consentendo di conservare la
spontaneità del primo e la continuità narrativa del secondo;
• il discorso raccontato, quando il narratore si limita a riassumere in maniera sommaria i discorsi del personaggio.
Capitolo Secondo
●
I GRANDI AUTORI: GIOVANNI BOCCACCIO
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Nel riferire i pensieri dei suoi personaggi il narratore può ricorrere sia alle tecniche
utilizzate per i discorsi sia ad altri espedienti di registrazione più elaborati e suggestivi:
• il monologo: senza alcuna mediazione da parte del narratore, vengono trascritte le
parole del personaggio che pronuncia discorsi rivolti a se stesso (è contemporaneamente emittente e ricevente del messaggio);
• il monologo interiore: il discorso viene proposto con le medesime modalità del
monologo, ma non è pronunciato (il personaggio pensa tra sé e sé, esprimendo le
proprie idee più intime e i sentimenti più nascosti, mentre la durata narrativa si
estende notevolmente, anche se concretamente non succede nulla);
• il soliloquio: il personaggio parla ancora da solo, ma si rivolge idealmente a un
interlocutore lontano dalla scena;
• il flusso di coscienza: il personaggio traduce in parole il flusso dei propri pensieri e
delle proprie sensazioni più intime; è l’inconscio che tenta di venire a galla e si
materializza in immagini spesso frammentarie e confuse, del tutto prive di rigore
logico (questa tecnica è tipica di alcuni narratori novecenteschi, come James Joyce).
92
Parte Prima
●
Dalle Origini al Trecento
Parte Seconda
Il Quattrocento
Introduzione
●
PANORAMICA
STORICO-CULTURALE
Capitolo Primo
●
I GENERI LETTERARI
● GLI AUTORI “MINORI”
● GLI STRANIERI
Capitolo Secondo
●
I GRANDI AUTORI
Introduzione
PANORAMICA STORICO-CULTURALE
Sommario: 1. IL CONTESTO STORICO – 2. IL CONTESTO CULTURALE
1. IL CONTESTO STORICO
Il secolo XV vede compiersi il lento e faticoso trapasso dal Medioevo all’età
moderna: è il momento in cui, tra aspre lotte di religione e instabili equilibri
europei, vengono alla luce le monarchie nazionali, fatta eccezione per l’Italia, dove non muta la fisionomia generale degli Stati regionali sorti in seguito
agli scontri tra le potenti Signorie del XIV secolo.
Sul finire del Trecento, Gian Galeazzo Visconti, signore di Milano, sottomette buona
parte dell’Italia centro-settentrionale e tuttavia esce di scena molto presto, perché
trova la morte nel 1402 in seguito a un’epidemia di peste. Dopo la sua improvvisa
scomparsa, lo Stato milanese si scontra ripetutamente con la Repubblica di Venezia
per il controllo della valle del Po e con Firenze per la supremazia nell’Italia centrale,
ma in sostanza vede ridursi la propria espansione territoriale. Nel frattempo, la Repubblica di Venezia amplia i possedimenti su terraferma, dando vita a uno Stato
continentale che spazia dall’Adda alle coste della Dalmazia. Firenze, dal canto suo,
dopo l’esperienza di un governo oligarchico dominato dalla ricca aristocrazia degli
Albizzi, a partire dal 1434 passa sotto la signoria di Cosimo de’ Medici (1389-1464) e,
specie con Lorenzo il Magnifico, si propone come garante dell’equilibrio italiano,
affermando il proprio prestigio in Italia e in Europa. Quanto al Regno di Napoli, il
passaggio dalla dinastia angioina a quella aragonese, avvenuto nel 1442, segna l’inizio di un’ambiziosa politica di ricostruzione interna e la partecipazione della città
partenopea, in veste di protagonista, alla politica e alla cultura italiana del secondo
Quattrocento. La Chiesa, infine, si impegna a porre rimedio alle disastrose conseguenze scaturite dallo scisma d’Occidente (nel 1378 la Chiesa francese aveva rifiutato di accettare l’elezione del nuovo papa romano Urbano VI, procedendo alla nomina di un antipapa ad Avignone) e a ricondurre sotto la propria autorità i possedimenti dell’Italia centrale. Il Papato deve inoltre affrontare il grave fenomeno dell’eresia, mentre sempre più preoccupante si fa la minaccia di un’espansione turca
nei territori cristiani (nel 1453 la bellicosa popolazione islamica si era impadronita
Introduzione
●
PANORAMICA STORICO-CULTURALE
95
di Costantinopoli mettendo fine all’Impero d’Oriente). Anche in conseguenza del
pericolo turco, i maggiori Stati italiani (Venezia, Milano, Firenze, Napoli e lo Stato
della Chiesa) nel 1454 stringono un’alleanza, sancita dalla pace di Lodi, che resterà
valida per circa quarant’anni. La pace di Lodi garantisce un lungo periodo di stabilità, che si protrae fino alla discesa in Italia di Carlo VIII, re di Francia (1494). Il principale garante di tale equilibrio politico è Lorenzo de’ Medici, signore di Firenze dal
1464 al 1492, anno della sua morte, che segna, non a caso, la ripresa dei conflitti
nella nostra penisola.
96
Parte Seconda
●
Il Quattrocento
Fin dagli albori del XV secolo, in Italia, si registra una vigorosa ripresa delle
attività economiche: il commercio si intensifica notevolmente e in modo diffuso, mentre la produzione agricola risente positivamente dei vari progressi
tecnici e dell’utilizzo di nuove colture. Nasce, inoltre, un nuovo ceto aristocratico (il patriziato) che non vanta antiche origini, ma proviene dall’ambiente comunale e mercantile, dove è stato capace di raggiungere una condizione di benessere economico e di prestigio sociale, al pari della tradizionale
classe nobiliare. Sempre più diffuso è il fenomeno del mecenatismo, per cui
signori e principi accolgono sotto la propria tutela scrittori e artisti vari, provvedendo economicamente al loro sostentamento. Cambia, nel frattempo,
anche la vita del cittadino comune soprattutto grazie a rivoluzionarie scoperte come quella della stampa e della polvere da sparo, mentre sul finire del
Quattrocento Cristoforo Colombo si accinge a intraprendere il viaggio più
famoso della storia e più gravido di conseguenze per l’intera umanità.
TAVOLA CRONOLOGICA DEGLI EVENTI
1402 Muore Gian Galeazzo Visconti, signore di Milano.
1434 Firenze passa sotto la Signoria dei Medici.
1442 Nel Regno di Napoli si ha il passaggio dalla dinastia angioina a quella
aragonese.
1447 A Milano gli Sforza subentrano ai Visconti al governo della città.
1450 Gutenberg inventa la stampa a caratteri mobili.
1453 I Turchi si impadroniscono di Costantinopoli, mettendo fine all’Impero d’Oriente.
1454 Con la pace di Lodi gli Stati italiani stringono un’alleanza che assicura un
periodo di stabilità.
1464-1492 Signoria di Lorenzo de’ Medici.
1492 Muore Lorenzo de’ Medici; il genovese Cristoforo Colombo scopre l’America.
1494 Carlo VIII, re di Francia, scende in Italia.
2. IL CONTESTO CULTURALE
Nel corso del Quattrocento la circolazione della cultura si accresce notevolmente e raggiunge strati sociali differenti (soprattutto alla fine del secolo grazie all’invenzione della stampa). Grande rilievo, nell’ambito della produzione letteraria, assumono gli umanisti che stringono rapporti molto intensi con
il potere. Particolarmente diffusa è la figura dell’intellettuale cortigiano, sostenuto economicamente dal signore e pronto a fare della propria cultura
uno strumento di esaltazione della corte che lo accoglie. Nuova dignità culIntroduzione
●
PANORAMICA STORICO-CULTURALE
97
turale e considerazione acquistano inoltre gli artisti, che non vengono più
visti come semplici artigiani privi di cultura: spesso hanno una buona conoscenza del repertorio classico e possiedono uno specifico bagaglio di nozioni
filosofiche e scientifiche.
Per tutta la prima metà del Quattrocento, Firenze conserva un primato indiscusso
nella diffusione della cultura. I Medici, signori di Firenze, accolgono presso la propria corte un largo stuolo di letterati e artisti, facendo in modo che il prestigio culturale della città venga apprezzato in tutta Europa. A Nord, un importante polo di attrazione è senza dubbio Venezia, che vede nascere una propria tradizione letteraria
abbastanza svincolata dai modelli toscani e costituisce, inoltre, un importante tramite con la cultura greca. Altro centro prestigioso è la Milano dei Visconti e poi degli
Sforza. Si evidenziano ancora, in area padana, la Ferrara degli Estensi, la Mantova
dei Gonzaga, la Bologna dei Bentivoglio e la Rimini dei Malatesta. Non sono da
meno, infine, le città di Roma, florido centro di cultura che annovera, tra gli intellettuali umanisti, anche alcuni pontefici come Niccolò V e Pio II, e Napoli, dove la corte aragonese promuove un’intensa attività culturale.
Un cenno ancora va fatto alla nascita, in varie città italiane, delle accademie.
Esse sorgono, in un primo momento, come cenacoli privati, dove gli intellettuali accomunati dalla fede negli studia humanitatis si riuniscono per discutere problemi di varia attualità culturale e artistica, ma in breve vengono
ufficialmente riconosciute e assumono la classica definizione. Le più prestigiose e importanti si rivelano l’Accademia Fiorentina, l’Accademia Pontaniana e l’Accademia Romana.
Anche le botteghe degli stampatori rappresentano veri e propri poli di attrazione per gli intellettuali di questo periodo: a Venezia, ad esempio, la bottega
di Aldo Manuzio, il più famoso stampatore del periodo, è addirittura sede di
un’Accademia (detta «Aldina»), dove gli intellettuali hanno modo di discutere e confrontarsi. Un peso sempre maggiore acquisiscono, infine, le biblioteche, che iniziano ad essere pubbliche e aperte ai lettori. È quanto accade a
Firenze, Roma e Venezia, dove nascono rispettivamente la Biblioteca Laurenziana, la Vaticana, la Marciana.
La corrente umanistico-rinascimentale
Il Quattrocento è il secolo in cui ha inizio e prende progressivamente forma la corrente umanistico-rinascimentale, che investe la cultura del tempo in tutte le sue
forme ed espressioni. Nell’ambito della storia letteraria si è soliti distinguere due
momenti: l’Umanesimo (termine coniato solo nel XIX secolo), che va dalla fine del
Trecento alla fine del Quattrocento, e il Rinascimento, continuazione e compi98
Parte Seconda
●
Il Quattrocento
mento del primo, che si protrae fino all’ultimo Cinquecento. Va altresì precisato
che l’Umanesimo non va inteso come momento diverso o fase preparatoria del Rinascimento vero e proprio, ma come prima espressione di quest’ultimo, e cioè di quello
spirito rinnovatore che tra XV e XVI secolo avvia un processo di rivitalizzazione culturale e artistica, che gli stessi umanisti indicarono col termine «Rinascimento».
Gli umanisti partono dal rifiuto del Medioevo, visto come epoca di oscurantismo
spirituale e culturale, nel quale la fragilità umana, scaturita dalla consapevolezza del
peccato originale, aveva inserito l’individuo in un piano provvidenziale inconoscibile,
rendendolo perennemente bisognoso della Grazia divina. L’Umanesimo restituisce
l’uomo a se stesso e lo pone al centro dell’Universo, ne esalta la libertà d’azione e
lo rende artefice assoluto del proprio destino.
L’appassionata attenzione rivolta al mondo classico può indubbiamente considerarsi
l’aspetto più vistoso della cultura umanistica, che a partire dal XV secolo, ma seguendo
le direttrici già tracciate da Petrarca e Boccaccio (→ Parte Prima, I grandi autori) nel
corso del Trecento, procede alla sistematica riscoperta dei classici latini (e in un secondo momento di quelli greci), nel preciso intento di coglierne il significato più
autentico, deprivato delle ingenue deformazioni medievali. Nel Medioevo, infatti, i classici
erano stati spesso sottoposti a interpretazioni poco fedeli, finalizzate a giustificarne il
contenuto sulla base dei valori cristiani. Gli umanisti si propongono ora di coglierne lo
spirito genuino, risalendo in modo “scientifico” — attraverso una nuova scienza, la
filologia (→ Glossario) — alle loro reali prospettive storiche ed espressive.
L’Umanesimo riconosce, quale impareggiabile strumento di civiltà, la poesia, espressione intima dell’humanitas, ed esalta, tra le varie discipline del sapere, i cosiddetti
studia humanitatis (letteralmente, «studi relativi all’umanità»). L’espressione fu coniata a suo tempo da Cicerone per designare gli studi letterari (grammatica, retorica,
filosofia, storia), considerati i più idonei a promuovere lo sviluppo integrale dei valori
umani nell’individuo. Gli umanisti, mostrandosi concordi con l’opinione del grande
oratore romano, ne riconoscono l’importanza e credono necessario imitarne scrupolosamente le forme e i contenuti, pur conferendo a tale operazione la maggiore
elasticità possibile.
Il desiderio di un totale e incondizionato ritorno alla classicità, tanto nei contenuti
quanto nella forma, spinge gli umanisti della prima metà del secolo XV a esprimersi
rigorosamente in latino, non soltanto nei trattati (come pure era avvenuto nel Medioevo), ma anche nelle opere più propriamente letterarie e poetiche. Il volgare, dal
canto suo, viene limitato a usi di pratica necessità e perde progressivamente ogni
prerogativa di lingua letteraria. Ad essere rifiutato, d’altra parte, non è solo il volgare, ma lo stesso latino medievale che, secondo gli umanisti, aveva perduto la purezza
di quello classico e si era “imbarbarito” e corrotto. L’unica lingua degna di essere
assunta come modello ideale è il latino dell’epoca classica. Ciononostante, una tale
scelta non poteva che rivelarsi antistorica: rinnegare la lingua di Dante e di Petrarca
significava disconoscere tutta una tradizione che era ormai patrimonio comune di
un’intera civiltà. Nel 1441, pertanto, si assiste a una netta inversione di tendenza:
Introduzione
●
PANORAMICA STORICO-CULTURALE
99
il volgare inizia una lenta ma progressiva riabilitazione a lingua letteraria. Nella
città di Firenze, infatti, proprio in quell’anno, Leon Battista Alberti (→ I generi letterari) organizza il famoso «certame coronario», una gara di poesia in volgare ideata
con il patrocinio di Piero de’ Medici. E se è vero che il premio non viene assegnato a
nessuno dei concorrenti, le cui opere non sono giudicate abbastanza degne della
corona poetica, è altrettanto vero che la gara in sé costituisce l’indizio inequivocabile
di una tendenza ormai riconosciuta e irreversibile. In breve il volgare viene equiparato, nella sua funzione di lingua letteraria, al latino. La letteratura volgare del
secondo Quattrocento, peraltro, trae dalla precedente produzione latina grossi benefici, il primo dei quali è l’abitudine a modellarsi, come a suo tempo aveva acutamente
suggerito Petrarca, sulla lingua dei classici. Il volgare utilizzato dagli scrittori della
seconda metà del XV secolo è una lingua tesa ad affinarsi mediante l’imitazione dei
classici latini dei quali assimila, rielaborandoli, forme e costrutti. La lingua nazionale
viene progressivamente a identificarsi con il fiorentino, consacrato quale lingua
letteraria dal prestigio dei tre grandi scrittori del Trecento. Va debitamente considerato, tuttavia, che tale lingua unitaria è solo una lingua letteraria, impiegata da una
ristretta minoranza colta e solo in relazione a determinati usi letterari. Le lingue
parlate quotidianamente da tutti restano i dialetti, specchio di un panorama estremamente vario e inevitabile risultato della frammentazione politica italiana.
100
Parte Seconda
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Il Quattrocento
Capitolo Primo
I GENERI LETTERARI
GLI AUTORI “MINORI”
GLI STRANIERI
Sommario: 1. LA PROSA – 2. LA POESIA – 3. IL TEATRO – 4. GLI AUTORI STRANIERI
1. LA PROSA
1.1 I trattati e le epistole
In linea con l’entusiastica riscoperta del mondo antico, la cultura umanistica
riprende, rielaborandoli, molti dei generi letterari della tradizione classica.
Tra tutti, il trattato si rivela in assoluto quello più ripreso e diviene il genere
per eccellenza della letteratura umanistica.
Tipici di questo periodo sono i trattati di argomento letterario e linguistico. Gli umanisti tengono in grandissima considerazione le litterae, strumento di espressione dell’intima
essenza dell’uomo, e si chiedono se la lingua più degna a veicolarne i contenuti sia il latino o il volgare. L’insigne filologo
umanista Lorenzo Valla (1405-1457), nel trattato intitolato
Elegantiarum linguae latinae libri VI (Le eleganze della lingua latina, 1435-44), mostra di prediligere il latino, operando tra l’altro un’importante distinzione tra quello medievale e quello classico.
Leonardo Bruni (1370-1427), invece, pur essendo un egregio traduttore del
greco e un attento studioso dei classici, nei suoi Dialogi ad
Petrum Paulum Histrum (1401) difende il volgare dal disprezzo degli umanisti; nelle biografie dedicate a Dante e
Petrarca (→ Parte Prima, I grandi autori), inoltre, riconosce
alla lingua volgare una dignità pari a quella attribuita al latino, sottolineando il pregio della poesia dei grandi trecentisti. Grande rilievo ha avuto, inoltre, la polemica sul problema dell’imitazione, emblematicamente interpretata da Angelo Poliziano (→ I grandi autori) e Paolo Cortese (1465-1510). Quest’ultimo
sostiene la necessità di rifarsi fedelmente a un unico modello; Poliziano, invece, conia il principio della docta varietas (dotta varietà), in base al quale
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I GENERI LETTERARI – GLI AUTORI “MINORI” – GLI STRANIERI
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bisognava tener presente un’ampia varietà di modelli, utilizzando quanto di
meglio offrisse ognuno di essi, per comporre in modo originale e creativo.
Numerosi sono anche i trattati di argomento filosofico-morale. Tra i principali autori figurano Coluccio Salutati (1331-1409), Poggio Bracciolini (13801459) e Lorenzo Valla.
Coluccio Salutati, amico e discepolo di Francesco Petrarca, scrive diversi trattati in latino, tra cui il De saeculo et religione (Il mondo e la religione, 1381), dove emerge la nuova
concezione antropocentrica tipica della civiltà umanistico-rinascimentale, e il De fato,
fortuna et casu (Il fato, la fortuna e il caso, 1396-99), in cui si sofferma sul concetto di
virtù come forza morale e intellettuale in grado di trionfare sulla fortuna e sul caso.
Poggio Bracciolini, abile ricercatore di testi classici (rintraccia
opere importantissime come il De rerum natura di Lucrezio e il
testo completo della Institutio oratoria di Quintiliano), privilegia
il trattato in forma dialogica. Nel De avaritia (L’avarizia, 1428-29)
giudica socialmente utile la ricchezza e condanna la vita contemplativa e statica di certi ordini religiosi; nel De varietate fortunae
(Il variare della fortuna, 1448) esalta la forza della virtù umana
contro l’imprevedibilità del caso; nel Contra hypocritas (Contro
gli ipocriti, 1448) accusa gli ecclesiastici e alcuni frati mendicanti di falsità.
Lorenzo Valla è autore di un trattato in forma dialogica (che sucita non poche polemiche) intitolato De voluptate (Il piacere, 1431). Il grande filologo e pensatore umanista tenta di conciliare la morale epicurea fondata sul piacere (Epicuro, filosofo
greco vissuto tra il IV e il III secolo a.C., è il fondatore dell’epicureismo che identifica
il “piacere” nell’assenza di ogni bisogno materiale o spirituale) e la dottrina cristiana, il cui scopo primario — sostiene l’autore — non è l’esercizio della virtù, ma il
conseguimento della beatitudine celeste, supremo piacere dello spirito.
La seconda metà del Quattrocento è caratterizzata, inoltre, dal recupero della
dottrina filosofica di Platone. I rappresentanti principali del platonismo (→
Glossario) quattrocentesco sono Marsilio Ficino (1433-1499), fondatore dell’Accademia Platonica e autore della Theologia platonica, in cui cerca di conciliare platonismo e Cristianesimo, e Giovanni Pico della Mirandola (1463-1494).
Discepolo di Ficino ed esperto cultore di studi filosofici, Giovanni Pico della Mirandola tenta una sintesi tra le maggiori dottrine
filosofiche (aristotelismo e platonismo) e religiose (Ebraismo, Cristianesimo e Islamismo), per cui idea il progetto, mai realizzato,
di convocare a Roma un convegno di dotti per discutere novecento tesi da lui elaborate sull’argomento. Introduzione al convegno
doveva essere la celebre orazione intitolata De hominis dignitate
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Il Quattrocento