Octave Mirbeau : Il Giardino dei supplizi

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Octave Mirbeau : Il Giardino dei supplizi
Octave Mirbeau : Il Giardino dei supplizi
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Da questo libro hanno attinto in molti, artisti, musicisti, poeti e faccendieri
del bizzarro, dal famoso locale fetish inglese ai tetri Death in June, che al giardino
dedicarono una splendida ballata, dalle compilation di pseudo post dark ai dj set per
session bdsm, diventato ormai quasi un luogo comune dell’anglofilia per pervertiti,
“The Torture Garden” è ora una sigla dimentica del suo natale francese del 1899,
quando uscì dalla mente corrosiva e ribelle di Octave-Henry-Marie Mirbeau col
titolo “Le jardin del supplices”.
Come spesso accade nella storia di alcuni personaggi “di pelle troppo chiara per
resistere al sole”, l’opera e l’uomo, ma potremmo dire l’opera è l’uomo, viaggiano
incarnandosi l’una nell’altro, scarnificandosi, scavando profondi vuoti per permettere
all’una di vivere mentre l’altro soccombe, fino “al termine della notte”. Dopo
un’infanzia difficile segnata dalla morte della madre e dalla tirannia di un padre
oppressivo, Mirbeau, partecipa alla guerra franco-prussiana del 1870 (che
indirettamente, a causa dell’entrata dei tedeschi a Parigi, vedrà la morte, forse per
suicidio, di un altro grande maledetto consacrato dai surrealisti, assieme a De Sade,
al tempio della perversione, Isidore Duchesse conte di Lautrémont), al termine della
quale inizia la carriera dell’amministratore statale. Ma il suo carattere combattivo e
polemico, poco adatto alla burocrazia, lo spinge verso il giornalismo, occupandosi di
teatro e arrivando alle pagine del prestigioso “Le Figaro”. In seguito ad un suo
articolo polemico, contro gli artisti drammatici, abbandona il giornale, e da questo
momento inizierà una sorta di nomadismo intellettuale che lo porterà alla stesura di
opere teatrali, romanzi, pamphlet, fondando anche un settimanale satirico e a
condividere tutte le esperienze culturali più avanzate dell’epoca. Tra i primi esegeti
dell’impressionismo, amico di Mallarmé, Monet, Pissarro e Rodin, ammiratore di
Maeterlinck, Franck e Deboussy, dopo l’affare Dreyfus, sul quale sostiene la
revisione del processo, si sposta da posizioni cattoliche e realiste verso un
progressismo di stampo anarchico che lo accompagna fino alla morte, a Parigi, nel
febbraio del 1917.
Il giardino dei supplizi è del 1899, secondo una certa critica letteraria tradisce
un’evidente matrice sadiana, sulla quale però grava l’ombra di “tendenze di oscuro e
morboso spiritualismo, tipiche degli ultimi decenni del secolo” (Enrico Badellino,
prefazione all’opera, ed. Sonzogno). Racconta la storia di un viaggio in Cina, in
particolare la visita di una prigione, un viaggio fatto da un personaggio che
preferisce restare anonimo, causa il male che dice di avere fatto a sé e agli altri, un
viaggio nell’inferno più nauseante dei desideri umani, dove la bellezza assume i tratti
del dolore che porta lentamente alla morte, della morte stessa, dell’agonia, non più
vista secondo la sua potenzialità catartica o catalizzatrice, come nel cristianesimo e
nella mitologia, ma nella sua pura e terribile essenza di presenza infinita, di ciclicità
delle ere all’interno di una logica della crudeltà universale assolutamente gratuita.
Ad accompagnare il nostro anonimo personaggio, nella sua discesa negli inferi della
prigione che ospita il Giardino dei Supplizi, c’è Clara, sorta di anti-Virgilio che svela
la sensualità della crudeltà umana, fino a mettere in dubbio, per sublimarlo in
un’estasi oltre ogni decadenza e decenza possibile, il significato stesso di “umano/a”.
E’ la rottura del codice chiamato “linguaggio”, della “parola”, la fine di ogni
comunicazione immaginabile e che, lasciata in balia di una sensualità che si nutre di
solo sangue, vivi-seziona l’umano per renderlo fonte di infinita sofferenza e quindi
oggetto che disseta, che infinitamente disseta una sete infinita, per questo non
comunicabile. Non è un’ apologia del male, una vittoria demoniaca da cui nessuno
trarrebbe vantaggio, ma una mistica (solo per certi versi affine al sadismo)
autoreferenziale, col sapore della rivelazione, qui, ora ed eternamente, che si appaga
nel dolore, che si appaga e riflette questo appagamento nel viso esangue di Clara
malata, Clara, forse la vera protagonista di questo romanzo di “malattia umana”.
E’ questo il senso del disprezzo con cui vengono trattati i “negri” durante una
discussione tra intellettuali, all’inizio del romanzo, che non lascia certo presagire
l’orrore che da li in avanti si propagherà fino a possedere la mente, dell’anonimo
viaggiatore, come un demone che solo alla fine lascerà scoprire la sua complicità con
l’umano fin dall’alba dei secoli, quando questa presunta “complicità” si toglierà la
maschera dell’alterità supposta, e forse sperata, per riemergere come assoluta identità
tra uomo e male . Ed ecco allora il raziocinio dei boia del giardino dei supplizi
tracciare sapienti geometrie sui corpi dei condannati affinché la loro agonia sia la più
lunga possibile, perché non è la morte che disseta, ma l’agonia, l’attesa della morte
che diventa accumulazione di energia sessuale, il senso di dolore eterno che emana
dai corpi segregati per mesi in anguste celle a dimensione umana, paradossalmente
umana. Il dolore deve essere eterno, deve tendere all’infinito (come ogni forma di
erotismo), perché non è la morte che la dolce Clara cerca, ma il sangue che
continuamente sgorga dal corpo lacerato dell’uomo.
Verso la fine, il romanzo offre una rassegna di supplizi dove l’unica cosa a
rappresentare la razionalità è il meccanismo del supplizio stesso e il suo artefice,
dove il condannato resta solo come corpo sofferente, senza più mente, senza più
anima, vivo, di sangue vivo ancora pulsante, che ingrossa le vene al suono delle
terribili campane sotto le quali sono legati due condannati ormai resi pazzi dal
dolore. E il demone si rivela alla fine un non demone, una donna morente, Clara, la
quale, guardata da una statua sghignazzante che le tende contro un fallo mostruoso ,
nel delirio dell’imminente fine, ruba le parole a “Il Corvo” di E.A. Poe, e ripete nel
sonno
come
un
bimbo
sognante:
“Mai
più!…Mai
più!….”
Dal “Giardino dei supplizi” sono state tratte parecchie opere teatrali, in particolare si
ricordi la prima al teatro Grand Guignol di Parigi il 28 ottobre 1922, tradotta e
portata sulle scene italiane il 4 ottobre 1929 al teatro dei Filodrammatici di Milano
da Alfredo Sainati, capocomico specializzato nel repertorio del Grand Guignol. Nel
1976 inoltre, il romanzo di Mirbeau fornì lo spunto al regista francese Christian Gion
per
farne
un
libero
e
mediocre
adattamento
cinematografico.
Il giardino dei supplizi (tit.or. Le jardin des supplices, Paris, 1899), trad. it. Mariella
Giacometti, R.C.S. Libri & Grandi Opere S.p.A., “I piaceri”, Sonzogno, Milano,
gennaio 1995 – ISBN 88-454-0724-1
SADSONG, 13 settembre 2004