Leopardi e Novecento: un infinito desiderio d`infinito

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Leopardi e Novecento: un infinito desiderio d`infinito
IX edizione de “I Colloqui fiorentini” (Firenze, 25-27 Febbraio 2010)
“Giacomo Leopardi – Desiderii infiniti, visioni altere, pensieri immensi”
Leopardi e Novecento:
un infinito desiderio d’infinito
Nel corso dell’anno scolastico, durante le ore di italiano, abbiamo studiato la vita e le
opere di Giacomo Leopardi. Siamo rimasti molto colpiti dal suo pensiero e in
particolare dalla sua rinomata concezione pessimistica della vita. Incuriositi da tali
aspetti ci siamo confrontati con il nostro insegnante ed abbiamo deciso di non
stabilire subito un argomento specifico, provando piuttosto a conoscere più in
profondità l’autore, alla ricerca di qualche spunto interessante e – perchè no – più
accattivante per noi. Al centro del nostro lavoro non poteva non esserci il testo
letterario, così abbiamo letto alcuni lavori leopardiani in aggiunta a quelli già
affrontati nelle ore curricolari (passi dallo “Zibaldone” relativi ai concetti di
“infinito” e “indefinito”, gli idilli ed anche alcuni stralci della sua “Storia
dell’astronomia”, commentata da Margherita Hack) e abbiamo dato vita attorno a
essi ad una vera e propria “tavola rotonda”, lasciando libera la nostra immaginazione.
Non sono mancate le idee: c’era chi proponeva di scrivere qualcosa sul cielo, sugli
astri, sulla passione innata nel poeta per l’astronomia; c’era chi voleva puntare
decisamente sul pessimismo giovanile del poeta rinvenendo in esso un atteggiamento
non distante da certe inclinazioni di larga parte dei ragazzi d’oggi; c’era, infine, chi
immaginava di intervistare il poeta di Recanati comodamente seduto in poltrona, ma
con un bel problema… Quali domande rivolgergli? Così abbiamo deciso di attendere
ancora un po’ in attesa di una lampadina che non ha esitato ad accendersi. Infatti,
rileggendo il celebre “Infinito”, abbiamo associato l’immagine del poeta che, seduto
sull’ermo colle, vaga con la mente negli interminabili spazi posti oltre la siepe, che
«da tanta parte dell'ultimo orizzonte il guardo esclude», con un’altra a noi ben nota:
Danny Boodman T.D. Lemon Novecento, protagonista dell’omonimo “Novecento” di
Alessandro Baricco, che, scendendo dalla scaletta del Virginian, si arresta di colpo e
fissa l’immensità che gli si para davanti. Qui occorre una spiegazione. Conosciamo
quel testo poiché due anni fa l’abbiamo letto integralmente in classe e ne abbiamo
visto la versione cinematografica realizzata da Giuseppe Tornatore, ovvero “La
leggenda del pianista sull’oceano”. I versi di Leopardi hanno così rievocato in noi
quell’immagine. Sarà pure una semplice associazione figurativa, ma sta di fatto che
questo confronto/scontro è divenuto il nostro punto di partenza per una riflessione
sull’uomo Leopardi, la cui grandezza consiste anche nell’aver espresso in versi di
“eterna poesia” il senso dell’infinito che, in qualche misura, ci coinvolge in prima
persona.
Ciò che proporremo sarà dunque una sorta di comparazione tra la lirica leopardiana e
il monologo finale dell’opera di Baricco, in cui si condensa la “spiegazione” di
quell’immagine a cui abbiamo poc’anzi accennato e che andiamo ora a rievocare.
Alessandro Baricco nel 1994 scrive “Novecento”, un testo che nemmeno lui sapeva
come definire, a metà tra narrativa e teatro. Il personaggio principale è Danny
Boodmann T.D. Lemon Novecento, un pianista eccezionale nato e cresciuto sul
Virginian, un enorme transatlantico che solca le onde dell’oceano tra l’Europa e
l’America. A bordo c’è un’enorme fetta d’umanità che lascia una vita di stenti e parte
alla ricerca della felicità, rappresentata dal sogno americano. Abbandonato da
bambino nella sala da ballo della nave, Novecento è trovato e allevato da Danny
Boodman, un macchinista del Virginian tanto rozzo e sporco quanto buono e
affettuoso. Gli anni trascorrono e Danny Boodman T.D. Lemon Novecento (questo il
nome attribuito al ragazzo dal padre putativo) ha già compiuto 32 anni. Il dato
impressionante è che mai in questi anni ha messo piede sulla terra! Nonostante ciò
egli conosce il mondo meglio di chiunque altro, perché sa ascoltare i passeggeri della
nave e ha fatto tesoro dei loro racconti: è in grado di descrivere alla perfezione il
tramonto visto dal Pont Neuf a Parigi, sa raccontare con assoluta esattezza che odore
c’è in Bertham Street, d’estate, quando ha appena smesso di piovere… Ma lui in quei
posti non c’è mai stato! In nessun angolo del mondo è stato. È rimasto sempre e
soltanto lì, sul Virginian, dove, con la Atlantic Jazz Band, suona il pianoforte. Ecco,
questo è ciò che gli riesce meglio. Non si sa come diavolo faccia, nessuno gliel’ha
insegnato, eppure le sue dita scivolano sulla tastiera con una leggiadria inaudita.
Finalmente un giorno di febbraio, nel porto di New York, Novecento decide che
avrebbe messo piede a terra. Si prepara, indossa un cappotto di cammello
elegantissimo e scende il primo scalino. Pochi gradini lo separano dal mondo, ma al
terzo si ferma. Se ne rimane così per un tempo eterno. Guarda davanti a sé, sembra
che cerchi qualcosa.
È questa l’immagine che abbiamo associato a quella di Giacomo Leopardi che, dal
suo colle, guarda davanti a sé. Cosa vede il poeta di Recanati? Cosa vede Novecento?
Quali sentimenti si agitano in loro?
Partiamo con la lirica del 1819:
L'infinito
Sempre caro mi fu quest'ermo colle,
e questa siepe, che da tanta parte
dell'ultimo orizzonte il guardo esclude.
Ma sedendo e mirando, interminati
spazi di là da quella, e sovrumani
silenzi, e profondissima quiete
io nel pensier mi fingo, ove per poco
il cor non si spaura. E come il vento
odo stormir tra queste piante, io quello
infinito silenzio a questa voce
vo comparando: e mi sovvien l'eterno,
e le morte stagioni, e la presente
e viva, e il suon di lei. Così tra questa
immensità s'annega il pensier mio:
e il naufragar m'è dolce in questo mare
Come è noto, appartiene, insieme ad altre cinque opere alla serie degli Idilli. Stiamo
parlando di uno dei capolavori di Leopardi, scritto nel periodo di “Pessimismo
Storico”, nel quale l’autore considera la Natura una vana illusione per l’uomo: questi
cerca in essa consolazioni e risposte per sollevarsi dal dolore che prova, ma lei non dà
risposte. Leopardi è seduto in cima al colle Tabour, dove è solito meditare e
ascoltare; dinnanzi a lui c’è una siepe che non gli permette di osservare l’orizzonte,
perchè si pone come limite tra il finito e l’infinito spaziale; ode poi un suono, il
vento, limite a sua volta tra il finito e l’infinito temporale. È così che la fantasia e
l’immaginazione del poeta prendono il sopravvento: non esiste più il cespuglio, non
ci sono più barriere che ostacolano la sua visione, ma prevale l’immaginazione di un
mondo surreale, eterno, irrazionale, ricco di quiete nel quale Leopardi non distingue il
presente dal passato e si trova in bilico tra la perdita di se stesso («Così tra questa
immensità s’annega il pensier mio») e il piacere che prova («E il naufragar m’è dolce
in questo mare»). Il concetto di infinito leopardiano si costituisce come
quell’immensità di spazio e tempo surreali, nella quale il poeta supera ogni barriera,
sia fisica che ideologica per rifugiarsi nell’unico piacere possibile, una specie di
ebbrezza d’annullamento. L’idea di infinito acquista perciò un’accezione negativa, in
quanto fattore puramente creato dall’immaginazione e dal desiderio della mente
umana. Per Leopardi l’infinito è il desiderio assoluto di felicità, che conduce l’uomo
ad evadere dalla realtà fisica e a cercarla in un mondo perfetto ma immaginario, dove
non approderà mai. La causa dell’infelicità umana è proprio da ricercarsi in questa
sproporzione tra i desideri di felicità dell’individuo, potenzialmente illimitati, e le
oggettive, limitate possibilità di soddisfacimento.
A questo punto torniamo a Novecento. Non disse mai a nessuno perché quel giorno
non era sceso dalla nave. Dobbiamo attendere il monologo finale del libro per capire
cosa sia successo, quale molla sia scattata nella testa del pianista. Sono passati gli
anni e il Virginian è ormeggiato nel porto di Plymouth in attesa di essere distrutto. Il
personaggio-narratore Tim Tooney, nonché trombettista della band e amico di
Novecento, sale sull’imbarcazione e lo trova seduto sulla dinamite.
Comincia il monologo:
Tutta quella città… non se ne vedeva la fine.../
La fine, per cortesia, si potrebbe vedere la fine?/
E il rumore/
Su quella maledettissima scaletta... era molto bello, tutto... e io ero
grande con quel cappotto, facevo il mio figurone, e non avevo dubbi, era
garantito che sarei sceso, non c’era problema/
Col mio cappello blu/
Primo gradino, secondo gradino, terzo gradino/
Primo gradino, secondo gradino, terzo gradino/
Primo gradino, secondo/
Non è quel che vidi che mi fermò/
E' quello che non vidi/
Puoi capirlo fratello?, è quel che non vidi... lo cercai ma non c'era, in
tutta quella sterminata città c’era tutto tranne/
C’era tutto/
Ma non c’era una fine. Quel che non vidi è dove finiva tutto quello. La
fine del mondo/
Ora tu pensa: un pianoforte. I tasti iniziano. I tasti finiscono. Tu sai che
sono 88, su questo nessuno può fregarti. Non sono infiniti, loro. Tu, sei infinito,
e dentro quei tasti, infinita è la musica che puoi fare. Loro sono 88. Tu, sei
infinito. Questo a me piace. Questo lo si può vivere. Ma se tu/
Ma se io salgo su quella scaletta, e davanti a me/
Ma se io salgo su quella scaletta, e davanti a me si srotola una tastiera di
milioni di tasti, milioni e miliardi/
Milioni e miliardi di tasti, che non finiscono mai e questa è la verità, che
non finiscono mai e quella tastiera è infinita/
Se quella tastiera è infinita, allora/
Su quella tastiera non c’è musica che puoi suonare. Ti sei seduto sul
seggiolino sbagliato: quello è il pianoforte su cui suona Dio/
Cristo, ma le vedevi le strade?/
Anche solo le strade, ce n’era a migliaia, come fate voi laggiù a
sceglierne una/
A scegliere una donna/
Una casa, una terra che sia la vostra, un paesaggio da guardare, un
modo di morire/
Tutto quel mondo/
Quel mondo addosso che nemmeno sai dove finisce/
E quanto ce n’è/
Non avete mai paura, voi, di finire in mille pezzi solo a pensarla,
quell’enormità, solo a pensarla? A viverla.../
Io sono nato su questa nave. E qui il mondo passava, ma a duemila
persone per volta. E di desideri ce n’erano anche qui, ma non più di quelli che
ci potevano stare tra una prua e una poppa. Suonavi la tua felicità, su una
tastiera che non era infinita.
Io ho imparato così. La terra, quella è una nave troppo grande per me. È
un viaggio troppo lungo. È una donna troppo bella. È un profumo troppo forte.
È una musica che non so suonare. Perdonatemi. Ma io non scenderò.
Lasciatemi tornare indietro.
Per favore/
Sia Leopardi che Novecento guardano verso l’orizzonte ed entrambi scorgono un
immensità sconfinata, senza limiti spazio-temporali, in una parola, vedono davanti a
loro l’infinito; e poco importa se il primo è un infinito immaginario mentre il secondo
è reale, perché ciò che è più interessante è la diversa reazione dei due individui di
fronte ad esso: Leopardi lo cerca, anela ad esso; Novecento ne è terrorizzato, sente
che quella non è la sua dimensione. In Leopardi è vivo il desiderio di abbandonare il
suo mondo chiuso e finito per librarsi in volo verso l’infinito; egli sente, come ogni
uomo, il desiderio di trascendere i confini della vita umana per elevarsi, per andare
oltre. Anche Novecento, dal canto suo, percepisce l’infinito, lo avverte dentro si sé, lo
sente con chiarezza ogni volta che suona il suo pianoforte. È dell’immensità del
mondo che ha paura: d’altronde lui è nato e cresciuto in una nave e da lì non si è mai
spostato.
Cos’è quest’ansia d’infinito se non esigenza di eterno? Cos’è l’esigenza di eterno se
non ricerca di Dio? Dunque, se l’infelicità leopardiana scaturisce dalla sproporzione
tra desiderio d’infinito e limiti oggettivi dell’uomo, ecco che allora Novecento
diviene paradigma di questa situazione: il desiderio di scendere dalla nave ce l’ha
(aveva scelto lui di scendere dopo trentadue anni trascorsi sul Virginian!), il desiderio
di vedere quel “pianoforte immenso su cui suona dio”…ma lì si ferma, si paralizza!
La sua è una rinuncia. È la rinuncia di chi fa la scelta più comoda, di chi non decide
di rischiare, di chi non vuole cambiare. Scendere da quella scala avrebbe significato
cambiare vita per sempre. Lui sente la voce dell’infinito dentro di sé ma non riesce a
darle spazio se non nel suo habitat, la nave. Pensa che, una volta a terra, non sarà in
grado di produrre una sola nota e, per paura, non scende quegli scalini. Noi crediamo
che egli sarebbe riuscito a liberare quella sua voce infinita interiore anche nel mondo,
in mezzo agli uomini, e avrebbe potuto dare libero sfogo alla musica infinita che
giace dentro di lui. Il coraggio! Questo gli manca.
Questo nostro lavoro ci ha dato modo di riflettere sul significato d’infinito: attraverso
la figura del poeta e grazie ad un “magico” pianista degli oceani abbiamo viaggiato
dentro noi stessi e ci siamo scoperti più vicini al grande autore di Recanati di quanto
non pensassimo. Noi riteniamo, aldilà di tutto ciò che su Leopardi è stato scritto negli
anni, che egli sentisse dentro di sé la stessa esigenza d’infinito che avvertiamo in noi,
la nostra stessa sensazione d’incompletezza – in quanto uomini e come tali “esseri
finiti” – e ricerca di un “qualcosa” che ci soddisfi veramente. Più di una volta
troviamo il poeta con lo sguardo rivolto verso l’alto: in “Alla luna”, ad esempio, ma
anche nel “Canto notturno di un pastore errante dell’Asia”. La sua è una tensione
verso l’alto, il cielo, l’infinito o in quale altro modo si voglia definire. Il problema
semmai è che molte volte non diamo ascolto a quella voce interiore, che rimane
sepolta; il punto di vista da cui si guarda la vita è determinante: se ci lasciamo
spingere da questo desiderio fino in fondo, allora il resto acquista senso, valore, una
luce nuova e anche la sofferenza, che segna la vita degli uomini e ha segnato
pesantemente Leopardi nella sua breve esistenza, acquisterebbe un senso.

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