Salvatore Salomone Marine LA BARONESSA DI CARINI

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Salvatore Salomone Marine LA BARONESSA DI CARINI
Ministero per i Beni e le Attività Culturali
Direzione Generale per i Beni Librari, le Istituzioni Culturali e il
Diritto d'Autore
Centro Internazionale di Etnostoria
Salvatore Salomone Marine
LA BARONESSA DI CARINI
Leggenda storica (1870-1873). Storia popolare (1914)
A cura di Aurelio Rigoli
EDIZIONE NAZIONALE
DELLE OPERE DI SALVATORE SALOMONE MARINO
Comitato Nazionale
Aurelio Rogoli (Presidente), Annamaria Amitrano (Segretario),
Antonino Fragale, Alberto Manodori, Ernesta Parroco.
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LA BARONESSA DI CARINI
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Introduzione
di Aurelio Rigoli
Questo volume (nell'organigramma della "Edizione Nazionale" delle "Opere" di Salvatore Salomone Marino inscritto ai nn. 2 e 3) raccoglie la "trilogia" rivolta dall'illustre demologo Salvatore Salomone
Marino alla triste vicenda dell'uccisione, il 4 dicembre del 1563, della
Baronessa di Carini, identificata con Donna Caterina La Grua (figlia
di Pietro III La Grua Talamanca, barone omicida), colpevole di una
"platonica" relazione amorosa con un nobile della casa Vernagallo
(Vincenzo, figlio di Ludovico Vernagallo e di Elisabetta La Grua), i cui
discendenti "tengono possessione" - testimonierà, sul fluire del XVIII
secolo, il Marchese di Villabianca - "nel territorio di Carini, chiamato di Don Asturi". Così la "fabula" narrata dal Salomone Marino, nel
1870, ne La Baronessa di Carini, leggenda storica popolare del sec.
XVI in poesia siciliana.
Pubblicando, nel 1873, una nuova edizione di tale leggenda storica
(La Baronessa di Carini, leggenda storica popolare del sec. XVI in poesia siciliana, seconda edizione corretta ed arricchita di nuovi documenti) Salomone Marino addiziona, al testo edito nel 1870, altri 150 versi,
modificando, inoltre, il quadro geneologico dei La Grua Talamanca;
ché ora dichiara Pietro III padre di Pietro Vincenzo II, sposato con
Laura Lanza di Trabia, genitori della Caterina protagonista nella I edizione, portatrice, anche, del nome di Laura, secondo l'uso nella casta
dei nobili, di imporre più di un nome di battesimo ai figli.
Ebbene, l'identificazione di Caterina/Laura (Caterina, nome attribuito alla vittima dalla tradizione orale; Laura, nome rintracciato nel
certificato di morte della protagonista, documentato, cioé, dalla tradizione scritta) è per Salomone Marino conditio sine qua non perché si
valida l'ottica teorico-metodologica che legge il binomio "Folklore vs
Storia" nel segno della veridicità delle fonti orali, perchè non volontariamente predisposte per il tracciato storiografico, sicuramente certe e
vere, che non le fonti ufficiali scritte, talvolta rivolte a tracciati storiografici di curialesca fisionomia.
A porre in dubbio la "teoresi" storiografica di Salomone Marino peraltro convinto della contemporaneità delle fonti orali con gli eventi
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echeggiati - è Giuseppe Pitrè. Io inclino a credere - scriveva, accogliendo il poemetto salomoniano edito nel 1873 nei suoi Canti popolari siciliani (Palermo, 1891, II, pp. 127 - 147) - «che nel poemetto sia da vedere
un uxoricidio»; «sicché la povera vittima sarebbe stata la moglie e non
la figlia dell'uccisore. Se la Caterina era ragazza e il Vernagallo era un
giovane scapolo, libero, data la tresca tra loro due, ci sarebbero state
ragioni così gravi da eccitare il barone a partire precipitosamente da
Palermo per andare ad uccidere la figliuola in Carini? O non ci sarebbero state delle ragioni, ancora più gravi, per accomodare tutto e fare
che la cosa non si risapesse? ... Ma poi è concepibile che, coi costumi
della Sicilia del sec. XVI, una ragazza fosse lasciata sola, in un castello,
in balia di se stessa? E dato che la madre fosse con lei, è credibile che
questa si prestasse ad una tresca? Come non credere, invece, che la colpevole sia la moglie, la baronessa, e che si tratti di un vero dramma di
alcova, come oggi si dice, nel quale l'onore del casato venisse riparato
dal tradito con una vendetta terribile sulla moglie?». E concludeva:
«Confessiamolo pure: la vittima, rea di un delitto - che in Sicilia si paga
sempre col sangue, - deve essere stata la moglie; e l'autore del caso deve
averlo nascosto per la medesima regione per la quale nessuno s'attentò
di scriverlo e di ripeterlo: il timore del personaggio potentissimo che
commise l'eccidio; il riguardo a tre casati che, contemporaneamente,
venivano messi in bocca al pubblico: Talamanca-La Grua (uccisore);
Lanza di Trabia (uccisa); Vernagallo (amante scampato all'ira del tradito barone)» (G. Pitrè, op. cit., pp. 130 - 131).
Sollecitato dai dubbi, vuoi dai Pitrè o dai L. Galante, Salomone
Marino si rimette al lavoro. Dal 1867, egli era andato raccogliendo in
diversi paesi di Sicilia, aiutato anche da vari collaboratori, parecchie
versioni de La Baronessa di Carini. Tra esse, però gli erano apparse
attendibili soltanto quelle che gli segnalavano l'accaduto come la fine
di una giovinetta pura ed innocente uccisa dal feroce padre. Orbene il
Salomone Marino rivede le varianti primieramente raccolte e si accorge di aver fatto male, nel '70 e nel '73, a trascurare accenni ed indizi
che lo avrebbero sicuramente «instradato alla verità». Dice egli stesso:
«Male fici allora (nel '70 e nel '73) a non tener conto delle spiegazioni,
delle delucidazioni, delle chiose, dei commenti che i popolani danno a
versi, a frasi, a parole del testo poetico... Ora questi commenti e queste
interpretazioni mi hanno aperto gli occhi e messo nella giusta via delle
ricerche storiche, via che mi era stata anche deviata e celata dagli al6
beri genealogici e dai documenti degli archivi di casa La Grua e casa
Vernagallo. E rileggendo, ora, quei primi frammenti che mi vennero
della storia poetica, io vi trovo quel che allora non vidi: l'amante che è
con l'amata al castello e con essa muore ammazzato: insomma quella
verità che il popolo ha ben conservata e ch'io non seppi vedere e riconoscere dentro il tenue velo che l'avvolgeva» (in A. Rigoli, La Baronessa
di Carini, tradizione e poesia, Palermo 1992, cap. 2, p. 37).
Ora Salomone Marino nota come nelle varianti del poemetto la vittima sia costantemente chiamata baronessa, signora, donna, anche in
quelle dove è lodata come giglio puro, anima innocente. Per cui non
mette tempo ad accogliere quale «definitivo» un tradizionale racconto, ripetuto per tutto il Val di Mazara, ma anche nel resto dell'isola,
secondo il quale la baronessa di Carini fu affidata dal padre ad una
vecchia zia e relegata in Carini per punizione della sua vita scioperata.
Ma al castello le tresche dell'affascinante donna continuarono a tal
punto che essa ebbe dal cugino tre figli. Allora lo scandalo dilagò per
ogni luogo, sicché un frate, del locale convento dei Carmelitani, si recò
a Palermo per denunciarla al barone padre. E questi, giunto di gran
corsa a Carini, trafisse la figlia trovata insieme con il proprio amante;
fece uccidere, pugnalandolo ai reni, il Vernagallo; ordinò di abbandonare per la strada i figli della colpa e, fatta con la mano insanguinata
una impronta sulla parete, per ammonimento per ai futuri nipoti, murò
e chiuse il castello. Poi, dopo parecchi anni, pentito, accolse i tre nipoti,
che una brava massaia aveva a suo tempo posto in salvo. Ma questo
tardivo pentimento non fu sufficiente a dargli la salvezza, né a stornargli la incombente maledizione e punizione divina.
In merito, intanto, ai personaggi interessati al caso, il Salomone
Marino (riconfermando ancora una volta la tesi del parricidio convalidata dai documenti popolari) così dice: «Se l'uccisa era maritata e
madre, ed uccisore è il padre di lei, è chiaro che i La Grua non c'entrano. Se fosse stato vivo Don Pietro III La Grua, padre di Don Vincenzo
II, avrebbe potuto sospettarsi di lui, che nel sangue della nuora lavava
l'onta fatta al figlio e alla casa; ma Don Pietro era morto sin dal 1535.
E allora necessariamente viene avanti la figura del padre di Donna
Laura, Don Cesare Lanza barone della Trabia, uno che ha più ricchezze, più potenza, più importanza storica del barone di Carini. La
tradizione, sia nei versi che nella prosa, designa solo come barone il
padre, ma di quale baronia non dice mai; ed è strano, quando della
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uccisa dice che era baronessa di Carini e dell'amante Vernagallo ricorda il titolo di Don Asturi. Ma ciò a me pare voluto, pensatamente
fatto. La musa popolare ha bene a ragione rispetto e paura del barone
di Trabia; anonima sì, ma essa parla nelle aperte vie; forte o sommesso,
ma parla; però parlando del caso certi nomi non li può pronunciare che
all'orecchio, in segreto e magari facendo un semplice segno o un ammiccamento di occhi espressivo, che si presta all'equivoco e all'errore, i
quali diverranno stabili in seguito» (A. Rigoli, op. cit., cap. 2, p. 29) .
L'ipotesi formulata ed accettata nelle due prime edizioni del poemetto che fosse stata uccisa, cioè, un'innocente fanciulla appare ora al
Salomone Marino infondata ed il risultato di una macchinazione documentaria delle famiglie interessate al caso: uccisa da Cesare Lanza
la signora Laura, i registri dell'archivio di casa Carini vennero manomessi. Si creò, dice il Salomone Marino, una inesistente Caterina La
Grua (a prestare il nome a tale personaggio fantastico fu una Caterina
ultimogenita di Ludovico Vernagallo, cognato di Pietro III La Grua)
e Laura fu dichiarata morta quattro mesi dopo, causa il dolore per
la perdita della giovanissima figlia. Né i baroni di Carini, d'accordo
con le altre famiglie cointeressate, fermarono a questo punto le loro
manipolazioni, se, al fine di ottenere per la loro fantastica creazione
il crisma della ufficialità, fecero diffondere o quanto meno costrinsero
i loro sudditi a propagandare come vera la realtà che essi avevano
fantasticamente creato. «Sparsasi, inoltre, ed accreditata la voce che
l'uccisa era la figlia e non la madre - vuole il Salomone Marino - fu
naturale la dimenticanza del barone della Trabia e la sua sostituzione
col barone di Carini».
Le conclusioni delle nuove indagini e la nuova ricostruzione del poemetto sono offerte dal Salomone Marino nel volume: La Baronessa di
Carini, storia popolare del sec. XVI in poesia siciliana, reintegrata nel
testo e illustrata co' documenti. In tale III edizione egli credette di potere affermare: «Il mirabile gioiello poetico, che io primo ricomposi dai
maltrattati e sparsi frammenti, mi era troppo a core perché io potessi
lasciarlo senza ulteriori cure con le visibili manchevolezze e incrostazioni e guastature. Dopo altri 40 anni di indefesse ricerche, posso ora
considerare completi i miei studi su La Baronessa di Carini. Esumata
e richiamata in vita la verità storica, ho reintegrato e stabilito il testo
«genuino» e «definitivo» della storia poetica giovandomi e di quello che
di esso conosciamo fin dal suo primo apparire e di quello soprattutto
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che copioso ci conserva la tradizione popolare sopravvivente, diverso
per estensione e disposizione e correttezza, ma costantemente uniforme
nelle scene essenziali del dramma, nei personaggi, nelle situazioni, nel
concetto, nei sentimenti. Dal lavoro condotto è venuta fuori la storia
quale oggi la ripresento nel testo reintegrato e che (non è jattanza il
dirlo) i posteri non potranno mutare:intendo dei letterati ortopedici e
ricostruttori» (A. Rigoli, op. cit. cap. 2, p. 30).
Con l'edizione del 1914, dunque, Salomone Marino rovescia il binomio "Folklore vs Storia" nella positivistica (e non più romantica) sequenza "Storia vs Folklore", nel segno del riconoscimento primario delle fonti ufficiali, scritte. E vi è di più: ché "Folklore e Storia" vengono
dichiarate discipline complementari perché si illustrano, si confermano
e si completano a vicenda.
In altri termini, se nel '70 e nel '73 Salomone Marino si era fatto
guidare dalla documentazione folklorica/orale per pervenire a dichiarazioni "storiche"; ora inverte esattamente i termini del suo discorso
e si lascia piuttosto guidare dai documenti ufficiali scritti, in un percorso coincidente con una progressiva limitazione della scientificità
storiografica delle tradizioni popolari capaci - semmai - di delineare
una prospettiva strumentale da integrare nella più equilibrata Storia
dell'homme complet.
E allora, una "trilogia" che riconsegna le ricerche sul "caso" della "Baronessa di Carini", dovute, negli anni 1870 - 1914, a Salomone
Marino, come percorsi antesignani della moderna "Etnostoria"che, recuperando la fabula delle fonti orali quale strumentale "controstoria",
la fa confluire - con rigoroso metodo comparativo - nella più che auspicata Storiografia "totale", esito della paritaria interconnessione di tutte le fonti possibili (Rif.: A. Rigoli, Le ragioni dell'Etnostoria, Palermo
1995, passim).
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LA BARONESSA DI CARINI
edizione 1870
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A MIA MADRE
GIOVANNA MARINO
in Borgetto
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A te madre, che nella mia recente perniciosissima infermità vegliasti
assidua le notti angiolo consolatore al mio capezzale, e con le amorose
cure e le dolci parole allenisti i miei fisici e morali patemi, e mi strappasti alle ghiacciate mani di morte; a te, Madre mia, io voglio s'intitoli
questa sublime storia di dolore, che m'è costata tre anni di minuziose e
pazienti ricerche, e ch'io udiva da te la prima volta ne' beati anni della innocente e rosea mia fanciullezza, quando alla religione, al dovere,
all'onestà mi educavi il cuore e la mente.
Madre, la vita mia stessa ben saria misero compenso per quel che ti
debbo: ma non isdegnar tu questa offerta, povera sì, ma che viene dal
cuore, che tu conosci in ogni sua fibra...
Palermo, 8 febbraio 1870.
S. Salomone-Marino
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LE LEGGENDE SICILIANE
E
LA BARONESSA DI CARINI
------------------I.
Ogni popolo ha tradizioni religiose, politiche e storiche sue proprie,
che affidate alla sola memoria, di generazione tramanda ai tardi nepoti.
Ogni popolo, con non mentito culto, rispetta e geloso conserva questo
retaggio degli avi, con ferma predilezione restando più attaccato a quello
che spetta ai luoghi che lo videro nascere, anzichè a quello di altra nazione, foss'anco della stirpe medesima. Da ciò l'indole varia, i caratteri
differenti, i colori diversi di queste tradizioni, registrate ne' proverbî, ne'
canti, nelle leggende popolari. Qi è la veritiera storia delle passioni del
popolo, delle sue gioie, de' suoi dolori; degli avvenimenti che l'innalzarono o lo depressero, lo glorificarono o lo martoriarono, o lo commossero in un modo qualsiasi, o per lor novità, o grandezza, o sublimità. Il
virtuoso col santo, il re coll'eroe, l'assassino col tiranno, la sventurata o
fortunata regina colla sventurata o fortunata donzella nobile o plebea, i
più feroci odii o delitti, e i più ferventi e fortunosi amori passano a far
soggetto delle infinite leggende, sì in verso che in prosa, delle popolazioni: corrono gli anni, e fantasia e verità storica si intrecciano, si confondono, si unificano; l'eroe o il fatto celebrato diviene più misterioso,
ingigantisce, è più ammirabile, più sacro1.
Il cielo, il suolo, le condizioni di vita pubblica e privata, cittadina o
rurale, modificano, travolgono il sentimento che informa la leggenda.
All'Oriente, culla de' popoli e della civiltà, terra di ricchezze infinite,
di varia e incantevol bellezza, sorgente de' concitati affetti, di copiosa
ispirata poesia; la leggenda è un ardente inno, immaginoso, tutta luce e
armonia, che sull'ali della speranza volge la inebriata mente alle beatitudini di un incognito mondo, cui tende l'anima passionata e fidente.
Le cupe nebbie, i fragorosi torrenti delle inaccesse rupi, le perpetue
nevi de' poli dànno al settentrionale un sentire diverso dall'orientale e
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Properzio disse: Omnia post obitus fingit maiora vetustas, | Majus ab exequiis nomen in
ora venit.
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meridionale, cui ride sempre il zaffiro de' cieli e la fiorente natura. Il
bardo caledone, e il germano, ha forza e possente immaginazione; feroci passioni, feroci vendette, più feroci amori: non pace dell'animo, non
speranza; storie orribili, racconti paurosi; inferno co' ghiacci e col fuoco,
con strazii e terrori; fantasmi e mali spiriti notturni che portano all'anima uno sgomento, uno sconforto, un dolore, una oppressura indicibile.
Nelle regioni dell'occidente, che alle orientali magnificenze accoppiano la nordica fierezza, che il cocente sole temprano colle brezze spiranti da' ceruli mari, il popolo, di sangue latino, scioglie melodioso il suo
canto, e di vivo affetto esaltato si confonde cogli eroi del maraviglioso
racconto. Ora i gaudii eterni celestiali dipinge, ora gli eterni tormenti
dell'inferno, ma d'un inferno, che ci fa palpitare e sperar, direi quasi,
tuttavia; focosi amori accanto a freddo abbandono o dispregio; entusiasmo e prodigi di valore per la virtù accanto a crudeli delitti, a vigliacche
scelleraggini, alle quali trascina talora la esuberanza di passione. - Qui
le romanze che sono splendida memoria di una lotta, che fu insieme una
crociata religiosa ed una guerra nazionale: - qui ancora quelle reminescenze di cavalleria e gaia scienzia, già tanto celebri, quei galanti amori,
e quelle leggenduole spiritose, allegre, frizzanti, caratteristiche: - qui finalmente l'orgogliosa ricordanza d'una città e d'un impero senza rivali,
di repubbliche che prestan danaro ai re più potenti e solcano con cariche
navi i più lontani mari allor conosciuti, di potenti e superbi imperatori
sconfitti e umiliati, di santi e di eroi senza numero che al grido di Dio
lo vuole! volano belli di ardimento in Palestina; la ricordanza infine di
storie varie, «narrate con soavità e con semplice grazia. da ridere o da
piangere, casi fantastici e naturali, di fine buona o paurosa, racconti nostrali o di fuora, recati d'Oriente alcuni per le Crociate o dai Giudei1».
Parvemi giusto che queste parole precedessero quelle con cui delineare intendo il carattere preciso, lo spirito intimo delle siciliane leggende.
Dallo studio di queste, come de' proverbi e de' canti popolari nostri, è a
me venuta molta luce per chiarire l'indole e i costumi di questo popolo,
che tanto m'è a cuore; e reciprocamente l'indole e i costumi suoi mi hanno illustrato e appianato la via per la conoscenza delle leggende.
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A. CONTI, I discorsi del tempo in un viaggio d'Italia, Firenze 1867, pag. 477. - Vedi ancora il bel lavoro di P. VILLANI, L'Italia la civiltà latina e la civiltà germanica, Firenze,
1868: - BERCHET, Prefazione alle romanze spagnuole, nelle Opere, Milano 1863:
SCHLEGEL, Storia della letteratura antica e moderna, traduz. dell'Ambrosoli, Milano
1857. - Romanzetti moreschi trad. da Fra Silvestro da Como, Venezia 1846: - Canti popolari allemanni trad. da G. Fissore, Savigliano 1857: - Canti popolari slavi, trad. da F.
De-Pellegrini, Torino 1846; ec. ec.
Come i prischi popoli, il Siciliano ha grandi virtù e vizii grandi; chè
colle ardite fantasie, cresciute dall'elemento arabo, col forte sentire, col
passionato e rapido operare, ti riesce esorbitante nel bene come nel male.
Dàllo scolare alla Virtù, o al Vizio; lo avrai o finito galantuomo, o inarrivabile assassino1. La sua impetuosa o fervente natura lo porta agli eccessi: t'ama o t'odia senza misura; rapido all'ira, allo sdegno alla zuffa;
tenace ad un giuramento o ad un impegno, come a' suoi usi ed a' suoi
pregiudizi; fieramente geloso dell'onore della famiglia; oppresso, soffre,
ma scoppia in breve come vulcano; primo e cieco al pericolo; schietto,
liberale; religioso, anche ne' delitti, ma superstizioso, sovente; e nelle
opinioni sue e ne' contrasti come l'Etna immutabile, come il suo Cariddi
fremente e ruinoso. Studialo ne' primissimi tempi e mano mano sotto
qualunque dominatore, nostrano o forestiero, fino ai presnti dì, egli è
ugualmente, inalterabilmente lo stesso il siculo popolo2.
Questo pallido e breve ritratto, che, completato, in ogni minima parte
colorirò (se la vita mi basta) in altra operetta3, nè oziosi nè inutile ho stimato mettendolo qui: dapoichè l'ignoranza dell'indole, de' costumi, delle
credenze e tradizioni del Siciliano ha dato luogo a' torti giudizî, alla poca
estimazione di esso, a que' rimedî vani o nocivi da' reggitori adoprati a
curare i suoi mali. Qualche altra osservazione soggiungeremo, venedocene il destr, nello esame, che seguirà, delle nostre leggende.
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«Il popolo è come la terra in mano di chi la coltiva, o i metalli sotto il martello dell'artefice; se quella abbandoni, diverrà irta di spine e di rovi; se questi non saprai animare, invece
di una statua di eloquenti movenze e palpitante di vita, uscirà dai tuoi ferri un mostro d'oro
o di argento». VIGO, prefaz. ai Canti popolari siciliani, § I, pag. 5.
È maraviglioso questo, e degno di tutta l'attenzione, che il linguaggio siciliano, di fondo
tutto latino, inalterato si conservi dal mille a noi. Documenti certi, le scritture nostre e i
manoscritti, fanno fede di questa verità, che amplissimamente il Vigo provò (pref. cit. §
II) dopo d'avere in carte e diplomi latino-barbaro-siculi trovato chiari vestigi del vivente
siciliano dal 560 al 1000. Nel primo secolo della lingua e letteratura italiana non era differenza nessuna tra gli scritti volgari nati all'Oreto od all'Arno, in Messina o in Bologna:
da questi primi scrittori ho dunque io ricavato infinite frasi e parole, in buona parte oggi
smesse nel comune linguaggio d'Italia, ma vive e fresche in bocca del nostro popolo, in
ispecie de' villaggi e della campagna, ov'è meno corrotto e più tenace alle antiche tradizioni. L'ho ricavate con triplice intento: per annotare i canti popolari; - per mostrare che qualche bel modo di dire, o parola, non sarebbe poi tanta colpa richiamar in vita, quando l'ha il
popolo tuttavia; - per far vedere e toccare con mano, nelle presenti quistioni di lingua, che,
mutate le desinenze, la lingua de' Toscani e Fiorentini (anche moderni, di cui pur adduco
gli esempi) vive in Sicilia ne' vocaboli, ne' modi, nella più parte de' costrutti. Unici padri,
uniche tradizioni, unica lingua ebbero i popoli della italiana famiglia, nè volger di secoli,
nè invasioni ed oppressioni straniere, nè divisioni hanno potuto annullare la cognazione
di essi. Vedi il PICCOLO VOCABOLARIO in fine a questo volumetto.
L'indole e i costumi del popolo siciliano.
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Alle quali passando, io sento il bisogno di fare una partizione tra
leggende sacre e leggende profane. Le prime, generalmente intese
Orazioni, innumerabili, più lunghe per lo più delle profane, affoscate da
superstiziose nubi ma spesso animate dalla candida fede che ci ricorda i
Pellegrini di Terrasanta, io non ho voglia di esaminare per ora; ed ogni
attenzione rivolgo ale seconde. Il popolo nostro, come il toscano e come
gli Antichi, dà il nme di Storie a queste novellette o poemetti narrativi;
da cui i Cantastorie che le vanno cantando per le piazze e per le ville.
E storia indica appunto che non è fiaba; e se tal pare, gli è perché ci ha
sottratto il tempo la memoria del fatto o del personaggio cantato. Le vere
fiabe qui appellansi Conti, e in questi sì che un fondo di vero è rara cosa
trivarcelo, ma pur c'è. Dunque anche le leggende profane ci portano ad
una suddivisione: i Conti e le Storie. - Se nascesti in quest'Isola, o qui
fosti, o lettore, e in una delle lunghe serate d'inverno sedesti al fuoco tra'
cari congiunti ed amici, ricorderai certamente come il più anziano, o la
vecchia nonna, alleggerisse quella gelida noia novellando con grazia ed
arte di antichissimi tempi, di re, di regine, di fate, di guerrieri, di Sarcini
e di Cristiani, di superstiziose credenze la cui origine si perde nella oscurità de' secoli1. Questi Conti, che han pasciuto e pasceranno mai sempre
le menti nostre in seno della famiglia, a tutt'i popoli sono comuni, a tutt'i
tempi. E basti ricordare di volo le Mille e una notte, e i novellatori che
nobili e ricchi tenevansi presso a tutte l'ore nell'evo medio2, e quei versi
con cui pinge Dante la fiorentina che
...traendo alla rocca la chioma
Favoleggiava con la sua famiglia
De' Troiani, di Fiesole e di Roma (Parad., XV).
Ma pe' conti di genere cavalleresco dura in Sicilia tuttavia, precipuamente nelle grandi città e più in Palermo, quell'antico uso del Contastorie3,
1 LO SCIMONELLO tocca di tali scene quando dice:
O cuntannu di tempi assai luntanu
Cuntu di maghi, di rigini e re (Gherardo ed Argilla, st. 40)
Ne parla pure il PIAGGIA ne' Nuovi studi sulla città di Milazzo ec. - Palermo 1866, parte,
I, lib. VI, cap. IX.
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Novellino, nov. XXVI, LXXII.
Egregiamente il descrisse ne' Racconti popolari V. LINARES, amoroso raccoglitore di
tradizioni del popolo e buon dipintore di costumi nostri. - P. EMILIANI-GIUDICI ancor
esso, nella lez. IX della sua Storia della letteratura italiana, ha di belle parole pe' nostri
Contastorie.
che all'aperto, o in apposito magazzino, con enfasi e maestria mirabile,
narra alla moltitudine, che a bocca aperta pende dal suo labbro, le prodigiose avventure di Orlando e di Rinaldoe di tutti i Paladini; non come le
ha imparate da' Reali di Francia, ma come la feconda sua fantasia gliele
fa creare, come il suo ingegno sa ordinarle, adattandole spesso agli avvenimenti ed alle passioni che sono più vive, e con allusioni ora lodando,
ora correggendo, ora spargendo a piene mani il ridicolo su questo o quel
Governo, o Municipio, o Generale, o Prefetto; chè indole nazionale è del
Siciliano «inchinare sempre alla satira, come al richiamo de' tempi degli
avi1». La potenza intellettiva di quest'illitterato narratore, la splendidezza
e freschezza delle immagini, i movimenti tutti del corpo, gli occhi che
brillano infocati, la voce tonante ed armoniosa traggono a lui il cuore
dell'ascoltate turba, lo esaltano a tal grado, ch'essa adora, direi quasi,
nel Contastorie il suo profeta, e dà in sua difesa all'occorrenza la vita.
Si licet magna componere parvis, io rassomiglierei questo narratore a
Pericle, il quale orando, come di Aristofane (Acarnesi, v. 330),
«Mettea fulmini e tuoni e tuttaquanta
La Grecia commovea»;
e come Cicerone: «dixerunt tantam in eo vim fuisse, ut in eorum
mentibus, qui audissent, quasi aculeos quosdam reliqueret (De Orat. lib.
III, cap. 24)»2.
Le Storie sono in poesia, si cantano con musica propria ad ognuna ed
espressiva, accompagnate col violino, colla chitarra, col sistro o triangolo. V'è una classe di popolani, ciechi i più, poeti o che han sentimento
per la poesia, e dotati di bella memoria; che han capo, leggi e statuti
1
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VIGO, pref. ai Canti popolari siciliani, § I, pag. 4.
Diamo, non potendo ad essi fermarci, i titoli di alcuni dei moltissimi Conti che fra noi
corrono, e sceglieremo quelli che a parer nostro hanno importanza non poca per chi studia
il popolo. - La bella dei sette cedri, La testa prodigiosa, Il cavaliere invincibile, L'anello
di Angelica, Il re de' Mori, La tomba del Saraceno, Il Cavaliere nero, L'eremita di trecent'anni, I Canonici di legno, San Pietro ed i ladri, Gesù Cristo e Maestro Cecco, La
capra e la monaca; Saecula e Saeculoro, Il mezzo galletto, Le avventure di Firrazzano, Le
avventure di Giufà, simili quest'ultime a quelle dello sciocco Trianniscia di Terra d'Otranto: I tre anelli, che pur sono nel Novellino (LXI), in Busone da Gubbio (Lib. III), e nel
Decamerone (gior. 1ª, nov. 3ª); Il villano ed i fichi, che troviamo nel Novellino (LXII)
come in Michel Berti: La moglie diavolo, che non è che il Belfagor del Machiavelli e
non so come sia qui passato: e molti altri che si leggono nelle Mille ed una notte poco
diversamente.
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proprî in Palermo1; e questi si addicono sin da giovinetti al mestiere
del canto e della musica. Vanno attorno per le città, pe' paesetti della
provincia, per le ville, guidati a mano da un ragazzo; e «banditori dell'intimo consentimento nazionale, verificano l'ironia, la beffa, il lamento
(VIGO)», improvvisano su cose recenti e antiche, o ripetono le più vecchie storie di cui han piena la mente. Sono essi l'anima delle feste e de'
giochi popolareschi2; li vedi rallegrar nelle taverne quella sollazzevole
brigata che mangia e beve, non curante i guai d'ieri e d'oggi; li trovi
dietro al corteo che di ritorno dal tempio accompagna alla casa gli sposi
novelli; gli ascolti di notte sotto i veroni di questi ultimi, o di innamorata
fanciulla, intuonare con patetiche note gli antichi amori di Cavalieri e
Regine, di Serafini e di Fate, o le gioie e le speranze di sposi dei tempi
che furono; li scontri per tutti i canti nel carnevale, e dopo i grandi avvenimenti, e questi in mille modi ti ripetono essi, ti riveston di cari e vivaci
colori, e secondo il soggetto celebrato ora teneri, or gravi, ora umili, ora
feroci, e sempre ispirati, grandiosi. E non poss'io cancellar dalla mia
mente l'anno 1860. nel quale con soave palpito udiva le dolenti storie del
Saccheggio di Partinico, di quello di Carini e della inseguita fanciulla,
che, nuova Gamma Zita, si butta volontaria nel pozzo per salvare l'onore;
il Bombardamento di Palermo, i Morti di Milazzo, insieme al 4 aprile,
alla Battaglia di Calatfimi, al 27 maggio, e alla Liberazione dell'Isola
dopo sgombrata la messinese cittadella.
Questi rispettabili ciechi cantori, quante volte io li scontri, mi ricordano i Rapsodi della Gracia, da cui Omero attinse; mi ricordano in certo
qual modo i Cyclici poetae dell'antica Italia, accennati dal Muratori3.
Così propagasi per ogni canto dell'Isola una leggenda, così diventa
popolare e famoso un fatto, un uomo: e quel villese l'apprende a quest'altro, quella donnetta la ripete alla sua figliuolanza, quel giovane all'amico, al compagno suo. Ma il mutar di luogo, il trascorrer degli anni, il
passare da una mente all'altra va sempre diffalcando o mutando qualcosa
alla leggenda. Questi ne ricorda un brano, e quello solo ripete; e per
farlo parer intero ne modifica spesso il principio o la fine. Quell'altro ha
dimenticato una parola, due versi; poco monta; dovendo ripetere e inse1
VIGO, op. e loc. cit. § X.
3
Antiq. ital. diss. 29, t. 2.
2
20
IL VILLABIANCA aveva a ciò posto mente. «De' parti e composizioni di tai bassi poeti
di volgo (dice) per me Villabianca, al volume piccolo di num. 82 di mie erudizioni, se
ne tiene una buona raccolta». Sgraziatamente questo volumetto non esiste ora più nella
Comunale di Palermo, ov'era già. Vedi il ms. Qq. E. 90, n.3, pag. 36
gnar ad altri quella poesia, supplisce altra parola, altri versi ai mancanti,
o creandoli se è da ciò, o togliendoli a qualcuno de' canti che a centinaia
tiene a memoria. Quel terzo, che a circostanze di sua vita, ad avventure
sue vuole accomodare l'antica storia, la trasforma, la strazia, l'annulla.
Di qui le varianti di parole e di versi, varianti sempre infinite, e talora
contradittorie, anche in un paese medesimo, e che fanno la disperazione
di chi con paziente amore va raccogliendo que' cari frammenti d'antica
poesia per unirli, e chi sa! vedersene emergere forse alla fine un brutto
mosaico. Di qui ancora la dispersione totale di lunghe storie, di cui solo
ricordanza lontana ha qualche vecchio, ma che non sa più recitare. E di
tutto cuore io rinunzierei allo sciame infinito dei sedicenti poeti moderni
che pur pigliando il tono alto dell'ode 1ª del lib. III di Orazio, traggono al
vitupero la italiana casta poesia; purchè mi fosse dato, ad es., di rinvenire la intera leggenda cui appartenevano i versi seguenti:
Si scippa la curuna e la sbattiu (in terra),
- Sta impia Terra chi s'arrivutau,
'Nnimica di la Patria e di Diu,
Cu sta lanza la passu...
Ca li fragellu dintra mi piurtau...
Li palumbi vularu pri sò via1...
o di poter completare le due che si riferiscono al Vespro la prima, al
Caso di Sciacca la seconda:
1. 'Na vuci pri li strati chi gridava:
- Nun lu sintiti a Véspiru ca sona?
2. Cu l'ajutu di Cristu onniputenti,
Di la Matri Maria e di li Santi,
Sintiriti di Sciacca li lemnti,
Li morti, li firuti e li gran chianti2...
Ma chi fa, e come queste leggende? Qual è il carattere d'esse la regola
che le governa costantemente, la metrica?Una risposta è necessaria, e la
daremo: brevemente, più chiaramente che per noi si potrà.
1
2
Potrebbersi far delle ipotesi: ma a che pro se non ci sono altri versi?
Il terzo di questi versi ci resta qual modo proverbiale, e corrisponde all'altro minaccevole
farò un caso di Sciacca! Questi tre frammenti, unitamente a tre leggende poetiche ed a
parecchi canti bellissimi, dettavami Niccolò Allegra contadino di Corleone.
21
Lo abbiamo avanti accennato; molti de' Cantastorie improvvisano mirabilmente squisite composizioni poetiche: ma poichè a ben pochi fu dato
ingenium, mens divinior atque os magna sonaturum (HORAT. Sat. l. I,
4) i più d'essi ricorrono a' bardi compagni1 o a leterati di professione. A
letterati, sicuro, non vi paia strano: e se vi deste briga di accuratamente
cernere le storie popolari, in non piccolo numero ravvisereste la mano
di chi ha svolto i libri. E il popolo accetta e canta cose non sue? Le accetta, le canta; ma quando ciò fa, sono retaggio non indegno di lui, non
sono più uscite dalla lettera letteratesca. - Per le vie di Palermo ti assorda ogni dì la voce di monelli che per pochi centesimi ti vendono storie,
arie, canzone2 in dialetto, fatte e stampate da tali che popolo non sono.
Ebbene, quelle storie, quelle arie, quelle canzone, sono imparate dai cantastorie di professione; e questi, pel grande uso che hanno della popolar
poesia, i versi e le immagibni e le parole di altri canti suppliscono in quei
luoghi che al sentire ed al fare del popolo non sono conformi: tolgono,
aggiungono, mutano continuamente, finchè la lingue e i sentimenti sieno
tutti del popolo, e le grazie e l'armonia e i colori spicchino per verginale
semplicità. Qualch'esempio chiarirà tutto. Nel ms. 20q. A. 21, pag. 349,
della Comunale di Palermo leggiamo la seguente canzona contro Messina
scelleratamente abbandonata da' Francesi (16 marzo 1678):
Li gaddi si parteru, e tu, Missina,
Ristasti comu 'na gaddina nana;
Si fa la pace per la tua ruina,
E di donna si' fatta ruffiana.
Non cc'è chiù fumu tra la tua cucina,
Non cc'è chiù privilegi, nè campana,
Lu portu è apertu, e sta senza catina
Appuntu comu cosci di...
1
Il valentissimo poeta vivente, ma vecchio e semicieco, il fabbro Stefano La Sala, richiesto
continuamente di storie da questi ciechi, scappò una volta in questa otava perchè non si
vedeva pagato:
Binchì di musa lu pueta servi,
A fari chisti versi 'un si risorvi;
Nun cci su' tanti dàini nè cervi,
Nun cci su' tanti àculi nè corvi,
Nun cci su' tanti pàmpini 'ntra l'ervi,
Nun cc'è 'ntra li spitali tanti morvi (morbi),
Nun cci sunnu a lu munnu tanti servi,
Quantu rifardi si trova 'ntra l'orvi. (VIGO, canti pop. XLIV, 5)
2
22
In Sicilia sempre canzuna. Vedi il PICCOLO DIZIONARIO in fine.
Qui ben è chiaro lo stento di chi vuole popolarmente cantare e non vi
riesce. Ma chi avrebbe detto a D. Giuseppe Artali, che n'è l'autore, che
il popolo di Palermo, per ischernire la dolente rivale Messina, avrebbe
fatto sua la conzona, infondendole vita novella, più decorosa, più splendida? Leggete, paragonate, e poi date giudizio.
Li Gaddi si parteru di Missina,
Ristau sulidda la gallina nana;
S'ha fattu paci pri la sò ruina,
Cci persi l'oricchini e la cullana;
Nun cc'è cchiù fumu 'ntra la sò cucina
E dispirata lu succursu chiama;
Lu portu è apertu è sta senza catina,
Nun cc'è cchiù privilegi nè campana.
Più luminoso è l'esempio che segue, tratto dal ms. medesimo, pag. 67,
e fattura di D. Luigi Lu Scavuzzu:
Ramingu auceddu chi chiancennu vai
La tua pirduta cara cumpagnia,
Veni, e chiancemu 'nsemmula cchiù assai,
Mi trovu arrassu, oimè, di la mia dia.
Ma tu la tua fors'hoggi truvirai;
Iu la mia quandu? O dura sorti ria,
Pirchì 'ntisi nun sunnu li me' guai?
cui tantu m'arrassau di l'Alma mia?
Questa ottava, che chiaramente arieggia il sonetto del Petrarca «Vago
augelletto, che cantando vai ec.», era poesia troppo dura e contorta del
popolo; ma l'ha mutata egli e fatta inarrivabile:
O turturedda ca pirdutu hai
Di l'amica la duci cumpagnia,
Tu fra diserti ripitannu vai,
Ed allaghi di lagrimi ogni via,
Deh, veni ccà, ca mi raccuntirai
Ssi amari peni, ed io dirò li mia;
23
Tu morta la tò amica chiancirai,
La chiànciu iu viva, ca nun è cchiù mia1.
Non uscirono dalla mente del popolo la Storia di Gioacchino Murat,
La Setta Carbonara, I Palombi, I Fra Diavoli, ec. e chi è pratico di poesia popolare a bella prima lo vede: ma quando un canto, una leggenda io
trovo in bocca del popolo (il quale ciò che vera poesia non è non impara),
quando la memoria dell'autore s'è perduta, oppur vive coi versi2; per me
li colloco addirittura tra la popolar poesia, e con tal nome li appello.
Se una leggenda accarezza od agita le passioni del popolo, vedi trasvolarla subitamente da questo a quei promontori di Sicilia, imparata con
maravigliosa rapidità. Ho assistito, nell'aprile del 1867, alla popolarizzazione (passatemi la parolaccia) di una sacra poesia in Borgetto, e rimasi
stupito e confuso. Il poeta Salvatore d'Arrigo, un povero campagnuolo,
un ometto sui cinquanta tutto fuoco, legando in essa le vicende presenti
alle antiche tradizioni sulla Patrona del paese, non risparmiando i suoi
dardi a spregiatori di questa e a tralignati preti; non appena l'apprese
a' suoi figli e a qualche altro, che a turbe lui venivano la gente, e dalla
sonora e chiara sua voce, dopo due o tre recite, sapevano senza sgarar
sillaba trentuna ottave, che di tante era cmposta. Fra pochi dì quella poesia era divulgatissima.
Or come, dirà qui taluno, ritenere sempre e bene può mente di popolo
queste leggende? Uno, due, pochi rispetti, transeat, questo mi persuade;
ma le lunghe e molte leggende, come mai? - Questa domanda, scusate,
mi sa della vecchia antifona oraziana odi profanum vulgus, quasichè la
1
2
Dalla Raccolta del VIGO, XXX. 10.
Ciò segue in due modi: o che la tradizione porta che la tale e tal altra poesia è di Tizio o
di Caio (come avviene de' versi del Fullone): oppure, ciò chìè più frequente, il poeta negli
ulimi versi e ne' primi dela leggenda, rivela il nome suo, la patria e anche il tempo del suo
poetare. Così negli esempi seguenti:
A lu milli secentu pocu avanza,
Di lu cinquantadui fa disinenza
Cu' dila Cruci lassa ricurdanza
Vàrtulu Di Criveddu li dispenza. (La Croce)
Lu milli setticentu uttantatrì
Nui l'àppimu di Cristu la chiamata;
'Ntra li canzuni mei fazzu accussì,
Notu lu puntu e scrivu la jurnata...
Aitànu Virgillitu lu 'gnuranti,
Nativu Paturnisi veramenti,
Abitanti in Catania tant'anni. (Il tremuoto del 1783)
24
gente che veste d'albagio e vive e muore tra stenti e miserie, e nata alla
marra, sua speranza e salute, non possa o debba fruire dell'intelletto e
della memoria che a tutti dispensò Natura. Ma ricordate che questa gente
ha scarpe grosse e cervelli fini; che la sua memoria è vergine e fresca
sempre, perchè non affaticata come la nostra su centomila cose per non
venire a capo di nessuna, essendo vero pur troppo che «la memoria è
fragile e non bastevole alla moltitudine di esse»1. È per ciò che l'uomo
del popolo può serbare in mente per lungo tempo lunghissime poesie, o
meglio poemi, come il San Cristofaro che supera i trecento versi, Tuppituppi che ne ha 216, I compari del Comiso di 288, Le miserie della vita
umana del Fullone di circa 400 versi; le Parti della Confessione e quelle
dell'Inferno che toccano i mille per ciascuna. E non parlo delle canzone,
che v'è chi ne sa trecento (2400 versi), chi 400, chi 600; e a quest'ultima
cifra è arrivata giovane tessitrice di piccolo villaggio. Ma bisogna anche aggiungere che, giusta la sentenza di Aristotile2, i versi sono potenti
sussidio della memoria; e molto più la rima dirò io. Infatti in ogni lungo
componimento vediamo l'ultima rima d'una ottava far consonanza colla
prima della seguente, oppure con una parola al primo verso di essa3;
cosicchè tutte queste ottave vengono a formare una lunga catena, che
interrotta rimane se per avventura una rima sfugge od un verso. È un
esercizio tutto meccanico, e per un ignorante non è poco4.
Senza volerlo, abbiamo già detto il metro più comune alle leggende, e
il più antico, l'ottava. Dissi più comune, perchè non poche son le leggende in settenario, in ottonario, in quinario accoppiato, o libero; qualcuna,
ma rara, offre un miscuglio di quinario e settenario, di endecasillabo e
quinario, come il Gioacchino Murat, l'Amante che si finge monaco, il
Testamento del duca di Palma. Altre volte sono in quartetti endecasil1
2
SENECA, De Beneficiis, VII.
Rettorica, III.
3 Ecco esempi di tutti e due i casi:
1. L'avaru cusciènzia nu' nn'havi,
Arrobba e fa 'micidii senza stentu. (versi 7-8)
Durmianu li Santuzzi a lu cunventu:
- Rispigghiati e talìa, grida 'na vuci, etc. (versi 1-2)
2. La forza e la putenza di lu 'nfernu
Li cchiù grossi muntagni jetta 'n funnu. (versi 7-8)
Eu mi cunfunnu - a sèntili parrari
Cui mali parrirà di lu Signuri. (versi 1-2)
4
Altra prova che nel popolo agisce la memoria meccanicamente e non l'intelletto è che le
canzone, che son cose dislegate, le ritiene con quello stesso ordine con cui le imparò, nè
con altr'ordine potrebe ripeterle. Chi ha raccolto canti popolari nostri sìè convinto di ciò.
25
labi, o in sestine; ma quella che prevale, ripeto, è sempre la ottava siciliana sopra accennata, in endecasillabi con due rime alternate quattro
volte; e quindi, incatenandosi fra loro le ottave, ogni rima viene ripetuta
otto volte1.
Però non si creda tutt'oro di coppella ciò che in queste leggende ci
resta; e a certe espressioni, a certe parole, a certe dissonanze (che però il
popolo fa sparire cantando) ho visto torcere il niffolo a qualcuno, biascicando l'orazione his plebecula gaudet2: ma che volete, non omnes eadem
mirantur amantque rispondo con Orazio medesimo (L. II, 2); e per me
è sacro ogni rimasuglio di queste antiche storie di popolo3. E poi sentite
al proposito come scriveva quella venerabile persona ch'è il Tommaseo,
autorevole maestro in queste cose: «Fra le tante leggiadre immagini rincontrerete qualcuna che l'arte avrebbe a ragione evitata; fra i tanti versi
soavi, qualcuno che passa la giusta misura; fra le tante eleganze qualche idiotismo disubbidiente a grammatica: e queste macchie agli occhi
degli accademici dalla natività coprirebbero ogni candore; ma noi non
parliamo agli accademici dalla natività. Versi di non giusta misura (a
cui la pronunzia deve aggiungere o tôrre qualche suono) troviamo in
Dante... ne troviamo in Omero, in Virgilio. Quanto alle rime assonanti,
codeste cred'io dimostrino la delicatezza dell'orecchio popolare, che di
meno materiale corrispondenza si appaga e coglie più tenui differenze»4.
Se anacronismi e bisticci trovi nelle leggende, e mescolanza di sacro e di
profano, di storico e di favoloso, e di uomini e fatti lontani e disparatissimi, ciò ti sia argomento della povertà di natali di esse, e anche della loro
antichità, se il consenti, giacchè le narrazioni e i romanzi del medio evo
sono siffatti. Un esempio ci basti. «I nove Prodi che giravano, secondo la
credenza, pel mondo invisibili a cavallo uniti colle Fate per proteggere
i buoni, ed animarli a grandi avventure, erano Sansone, Davidde, Giuda
Maccabeo; Alessandro, Annibale e Giulio Cesare; il re Artù, Rolando,
e Lancillotto del Lago»5. Segno di loro antichità è pure l'invocazione e
la lode a Dio ed ai Santi nel principio e nel fine della leggenda (appunto
come adoprossi negli antichi poemi cavallereschi) benchè l'argomento
1
2
3
4
5
26
Grandi ostacoli offre perciò questa maniera di poetare; ma gli ostacoli il poeta del popolo
«li crea, li sfida, li vince (VIGO)».
HORAT. Ep. L. II, 1.
Sanctum est vetus omne poema. HOR. Ep. l. II, 2.
Canti popolati toscani, vol. I, pag. 12-13.
G. F. NOTT, nell'Avvertimento al Proemio dell'Aventuroso Ciciliano di Busone da Gubbio,
pag. 41.
trattato fosse tutt'altro che religioso, anzi talora incredulo1 e schernitore
di certe nubi che dopo i primi secoli vennero ad offuscare la purità del
cristianesimo. Nelle leggende non cercare per altro l'artificio degl'intrecci e la moralità voluta persuadere a bello studio, che rara cosa vorresti;
ma sublimi sentenze troverai ad ogni passo, grandi virtù o grandi delitti,
cui inciela o condanna la voce de' secoli; e storiche tradizioni, e pitture
fedeli di costumi e di passioni, e tanto più care quanto meno industriosa
è la forma onde vengono espresse. Venghiamo a qualche particolarità2.
In Borgetto, in tempi lontani, primachè uno stormo di banditi ne avesse fatto un casale3 che al 1360 cadde nelle branche de' PP. Benedettini4,
levavasi un Castello dove gentilezza e cortesia avevano sede5. Un brani di
leggenda porta che l'unica giovinetta figlia del Conte, signor del Castello,
segretamente amoreggiasse con un suo vago scudiere: il che dal padre
saputo, il giovane è mandato alla forca: ma in questo la Contessina si affaccia, e udita la voce dello sfortunato che le si raccomanda, impedisce
al boia l'esecuzione, e dal genitore ottiene la vita e la mano dello amante;
il quale così, creato Cavaliere, diviene il Signore della Terra. - La stessa
rozzezza di certe frasi e parole fa fede dell'antichità di questi versi.
- Ora affaccia la Stidda, vera luci6 ,
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4
5
6
Questo caso è rarissimo in vero in Sicilia.
Le leggende che passo ad esaminare sono tutte inedite presso di me: fra non molto però
vedranno la luce nella amplissima raccolta de' nostri canti popolari che il Vigo sta facendo
stampare in Catania. In Sicilia abbiamo gran numero di leggende, ma fino a qui poche
se n'erano stampate, ne' Canti popolari del Vigo, e nella Aggiunta mia ad essi. Ed ecco
risposto alla domanda che ci rivolge il Puymaigre nel suo bello scritto Sur la poésie populaire en Sicile (Metz, 1869). Profittiamo dell'occasione per mandare i nostri più cordiali
ringraziamenti a questo illustre ingegno francese, per le cortesissime e lusinghiere parole
che a riguardo nostro usò nel citato suo scritto, pag. 10 e segg.
Vedi VILLABIANCA, Opuscoli palermitani, vol. XIII, ms. Qq. E. 89 della Comunale di
Palermo.
VITI AMICO, Lexicon topograficum Siciliae, art. Burgettus; e ROCHI PIRRI abatis netini, Sicilia sacra ec. lib. IV, par 2ª, ove dice che la nobile Donna Margherita De Blanco
donò al monastero di S. Martino delle Scale de' Benedettini Casale Burgetti cum juribus
suis.
Lo accenna il MALATERRA, FRA SIMONE DA LENTINI e qualche altro. Il piano, ch'è
davanti alla villa e casa Migliore, anche oggi vien inteso per piano del Castello; nome
per altro che sempre gli è stato dato nella enumerazione de' fuochi, delle case e delle
anime fatta dal Comune. È poco più che un ventennio trascorso che prepotente e vandalica mano atterrava gli ultimi vestigi del Castello, perchè gli enormi e ben tagliati massi
formassero il fondamento e le mura della sua casa. Quod non fecerunt barbari, fecerunt
BARABBINI!
Parla il giovane che va alla forca, vedendo affacciare, la Contessina, stella e vera sua
27
Un pocu avanti cchiù scuru facia;
Tu mi mittisti cu li vrazza 'n cruci1,
Eu 'un era omu ca ti lu dicia.
Mi vrocu e mi rivrocu senza cruci2 ,
Vaju a la furca e va' moru pri tia;
Bedda, dùnala tu la nova vuci,
Lévami di la furca, armuzza mia! - Férmati, boja, cchiù nun jiri avanti,
Lu chiaccu scinni, e lu 'mpisu mi cala:
A morti 'un divi jiri lu mè amanti,
Ti lu òrdinu eu ca sù suvrana.
Lu Conti cu la figghia nun si nega;
................................................................
Ma si pri forza la testa ti leva,
Lu mè coddu a li sbirri e tu ti paj3. Di la furca a l'otaru fu purtatu;
Sùbitu lu visteru cavaleri,
Spirùna d'oru e sciàbula a lu latu,
Si persi la mimòria di scuderi:
Signuri di Burgettu titulatu,
Avanza lu cchiù nobili guirreri;
La Sorti e la sò Dia l'ha 'ncurunatu,
E sutta lu dumìnìu un Statu teni.
Le reminescenze cavalleresche, in Sicilia non troppo frequenti, crescon grazia alla seducente Regina delle Fate; per la quale i più ricchi e
potenti Baroni sospirano, e chi la libertà perde per essa, e chi la vita. Il
Contino galante, che nè sappiamo nè ci fu dato trovare chi sia, trionfa
alla fine della bella disdegnosa, dopochè in sella armato alla campagna
abbatte dieci rivali con maraviglioso valore, e dopochè si è mostrato
1
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28
luce. - Il VIGO ne' Canti popolari (VIII, 104) ha otto versi di Giarre simili a questa prima
stanza: ma poco si comprendono così staccati dagli altri, e trsformati come sono.
Tu mi costringesti, io non t'avrei mai detto il mio amore.
Vrocu e rivrocu, contratto da vròdicu e rivròdicu, mi seppellisco vado a seppellirmi. Senza
croce perchè condannato. Non farò note delle parole e delle frasi siciliane perchè tutte di
questo libretto spiego nel PICCOLO DIZIONARIO ch'è alla fine.
Anch'io darò il collo al boja, e sarai pagato. Così all'amante suo.
esperto e gentilmente passionato poeta sotto i veroni della diletta donzella. La virtù dunque colla poesia e coll'amore hanno ottenuto ciò che
al solo amore, alla potenza, all'oro non fu dato di ottenere. Le due otteve
che qui riporto, mentre da un canto appartengono alla più squisita e immaginosa poesia ch'io m'abbia mai letta, ricordano dall'altro un costume antico siciliano, seguìto da' poeti della Corte Sveva e dal re stesso,
giusta le parole di Matteo Spinello: «Lo re Manfredi la notte esceva per
Barletta cantando strambotti e canzuni, che iva pigliando lo frisco, e con
isso ivano due musici siciliani ch'erano gran romanzatori»1.
Gira 'ntunnu2 lu jornu e la notti
E duci duci cci cogghi la mota,
E duci duci cantannu strammotti,
Comu lu risignolu di la rosa: «Amuri ca furmau stu cori forti,
'Ntra stu curuzzu l'Amuri arriposa;
Amuri parra e mi duna li botti,
Li canzuneddi soi 'n bucca mi posa3.
Tu si' la rosa, - la rusidda fina,
Lu pumu d'oru ch'annaca la rama4,
Di li Fati e di l'Ancili Rigina,
Lu paradisu chi stu cori abbrama!
Ridi a Livanti 'na luci divina
E cunsola lu mìsaru chi ama,
Mi dici ca la stidda matutina
Lu suli cu li räj doppu si chiama5».
1
2
3
Diurnali, anno 1258, presso il MURATORI vol. VII, e il CARUSO Bibl. Sic. vol. II. - Il
notturno, anche ai dì nostri, non è mai senza i musici o più propriamente i suonatori,
perchè mercè di essi «più di piacer lo canto acquista», com'ebbe a dir Dante (Parad.,
XX, 144). Non mi si ascriva a carico se ricorro all'autorità di Spinello, oggi che il tedesco
BERNHARDI l'ha fatto apparire una falsificaziono del sec. XVI: poichè ancora sub judice
lis est.
Intorno alla casa dell'amata.
Non potea meglio esprimersi questo concetto, ch'è lo stesso di quello di Dante (Purg.
XXIV, 52-54):
... I' mi son un che, quando
Amore spira, noto, ed a quel modo
Che detta dentro, vo significando.
4
5
Annaca (da annacari, cullare) culla. E tutto il verso si muove, e la rama che culla il pomo
d'oro la vedi e la senti.
Doppu dietro. Ne abbiamo esempio in Dante ed in tutti i Classici. - Tutta questa ottava
29
Ne' Due Banditi del bosco di Partinico tu vedi già la baronale prepotenza che, dopo i memorabili Vespri, sorse gigante ad opprimere il generoso popolo. Per fallo d'amore cercati come i Francesi1, fugati col fuoco e
colle armi dal bosco, riparano in quel di Castellamare, ove il persecutore
Conte potenza non tiene, e di quivi s'imbarcano. Malinconicamente affettuoso è il distacco dalla fiorita patria, e l'addio di Nino alla Contessina
amor suo, ed ai capi Santo Vito e Rama che pare abbraccino le acque del
golfo di Castellamare.
Nun cc'era cchiù la nivi a li muntagni,
Lu celu com'un spécchiu strallucia,
Eranu tutti ciuri li campagni,
Chistu guardava a chiddu e cci ridia2 ...
E Ninu e Brasi, l'amari cumpagni,
Vannu suli e scuntenti a la campia,
Ca di li peni hannu li testi bianchi,
L'arma accasciata di malancunia.
La via - chi fannu li porta a lu mari,
Ddà cc'è 'na varca ch'aspetta li venti:
- Rima, cumpagnu, e nun ti custirnari,
Chistu 'un è locu ca cci vennu aggenti. Lu ventu 'n puppa li porta 'n canali,
Viva san Petru ca l'afflitti senti!
Su' fora gulfu e la terra scumpari,
Ninu chiancennu fa chisti lamenti:
- Senti - la vuci mia, stidda Diana,
Cuntissinedda graziusa e fina,
La sorti scilirata m'alluntana,
Cui sapi a quali fini mi distina!
O capu Santu Vitu e capu Rama
Chi aviti abbrazzatedda sta marina,
1
2
30
inciderei in oro.
Il Pitrè, a cui diedi un brandello di questa leggenda, pubblicandolo nel suo Studio critico
sui canti popolari siciliani (Palermo, 1868) ben disse che da questa espressione «appare
che la memoria del Vespro era tuttavia calda nella mente del popolo; oggi nessuno direbbesi perseguitato come un Francese (pag. 82)».
Come annotare certe bellezze ineffabili senza guastarler?
Diciti a la Cuntissa quannu chiama:
«Turnirà, turnirà qualchi matina...»
Il dispotismo de' nobili trovi maggiore nella Caterina, ove il Barone
fa incatenare qual pazzo e minaccia di morte l'antico e povero amante di
essa. - Ma se, fidente nel suo potere, il nobile osa contaminare con sagrilegia mano il talamo coniugale, oh no, tanto sfregio non ha sofferto nè
sofferirà mai un siciliano; e gli espulsi Bizantini, e i massacrati Francesi
tel dicano, e le tante vendette private, spesso scintille di civili discordie,
ch'hanno origine da offesa onestà. Allora il più abbietto, il più vigliacco
popolano sa maneggiare un pugnale, uno schioppo, e, pur con certezza
di morte, si vendica spietatamente. Leggi la Vendetta: egli, alla posta
dopo un ponte, scopre a un tiro di balestra1 il Conte offensore tra' suoi
cagnotti; tira impavido, e si accoscia, ma non fugge. L'hanno messo in
prigione: domani la forca. Che importa? Egli ride, ch'ha sparso l'iniquo
sangue nobilesco: e al morto padre, che viene in sogno a benedirlo d'avere rifatto lucente l'onor della sua famiglia, ei dice co sprezzo e cinico riso
che i martirii e la forca son bagatelle, che con securo animo è pronto di
calare all'inferno, dove però, (grida) in quel fuoco aggrapperò il Conte
alla nuca, il cuore gli strapperò, e coi denti stracciatolo glielo sputerò in
faccia. - Scena degna del pennello di Dante!
Severa lezione di morale ci dà il Marinaro di Capo Feto. Tra noi, San
Giovanni Battista è protettore e vindice de' legami di comparatico; ed è
con terrore adorato dal popolo, come un santo che la fa costar salata a
chi viola il suo sagramento. La leggenda pubblicata dal Vigo, I Compari
del Comiso, è bastevole a suggellar questa credenza; ma la riconferma il
nostro Marinaro. «Passato il Capo di Caraccà (scriveva l'Auria al 1652),
quando si va per la città di Patti, vi è un altro Capo, detto Capo Feto;
ed infatti, passandovi da vicino, vi s'intende un certo fetore. I marinai
dicono haver inteso da persone antiche, che in quel luogo è sepolta una
Comare con un Compare, ambidue oppressi miracolosamente nell'atto
venereo da una gran pietra, ... la quale si vede ancor hoggi distaccata da
un grande sasso vicino2». Quest'avventura narra la storia che esaminiamo; e quale spavento incuta quel Capo, ce lo fanno saper questi otto versi
che stan verso la fine di essa:
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Quando la leggenda nacque, la balestra non era dismessa per lasciare il posto allo schioppo, che poi s'inventò.
AURA, ms. Qq. A. 3, pag. 45 della Comunale di Palermo.
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Lu rimjanti pri la pisca passa;
A Capu Fetu metti a sinniari,
Ca la varchitta sulidda s'arrassa
E pri sùspicu s'àudi cricchïari.
Lu pisciteddu ccà nun àvi passa,
Mori 'ntra st'acqui vilinusi e amari:
Sùlitu lu jacobbu cci fa stassa
Cu lu luttusu cùculu fatali1
Un triste quadro è la Donna di Calatafimi, la quale trova ucciso il
bambino nella cuna, arde inconscia il più grandetto nel forno, ed ella
stessa è scannata dal marito suo, che la reputa autrice de' due delitti.
Tanto male, dice il popolo, le venne per aver fatto il pane di domenica; perchè «de' Santi devi devi guardare le feste, acciò che l'ira di Dio
non venga sopra di te2». Ma in questa leggenda è forse poca elevazione,
e meno sentimento: questo v'è di notabile, che l'ultima stanza termina
consei rime baciate amo' de' rispetti toscani, e con quattro versi che appartengono alla Baronessa di Carini.
Cecchina è la vittima d'un padre brutale, che fa sagrificio all'oro del
cuore di lei, imponendole un esoso marito, nel quale ei vede l'alba de'
proprî buoni giorni. Il contratto è firmato; domani in chiesa... L'indomani
Cecchina era morta. Imprecando al nero padre, il popolo piange:
L'hannu purtatu supra 'na vara,
Parma e curuna, ciuri a migghiara;
Parrini e mònaci cu nìuru mantu,
La cruci avanti, l'amaru cantu:
Chini di pòpulu strati e barcuna:
- Chi bedda virgini va 'n sepultura!3
Oltre al patetico suono, è in questi versi registrata una antica gentil costumaza, la quale orna di fiori di corona e di palma la bara della
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Verso sublime ed impareggiabile!
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Questo nuovo metro, che solo in tre o quattro leggende abbiamo trovato, fu introdotto in
Sicilia dopo il 1830 colle Ballate del Navarro. Potrebbe darsi che la Cecchina fosse parlo
letterato, fatto legittimo poi dal popolo che lo ripete con mesto affetto.
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FRA FILIPPO DA SIENA, Assempri, cap. 50. Lo stesso Autore racconta di «una donna
che cosse 'l pane la dimenica, e volendolo poi sfornare era tutto sanguinoso»; e di «un
uomo che lavorando il dì di Santo Bartolomeo si ruppe la gamba». Molte simili storie
corrono tradizionali in bocca del popolo di Sicilia.
vergine, che tra mesta folla e mesto salmodiare del clero è condotta al
sepolcro1: costumanza viva ne' comuni di provincia, non in Palermo,
dove i recenti pomposissimi carri funebri hanno annullato ogni idea di
dolore e di religioso raccoglimento che al cuore manda l'immagine di un
mondo che passa...
Beppuccio il valente cionca allegro co' più fidi amici le ricolme tazze
di vino; si fan tocchi, si gioca alla morra: ma fumano le teste, e da una
parola attizzati, imbrandiscono tutti i coltelli... Il lume è già spento, solo
si ode il crosciarsi delle lame. Beppuccio il valente l'hanno morto con
sette colpi gli amici.
Il povero Bartolo, già ricco e potente, or è mendico e fuggiasco pe'
molti nemici che gli stanno alla pelle. Esausto, affamato, precipita con
volontaria disperazione nel mare, in vista del capital suo nemico, Simone
il terribile. Questi palpita di pietà la prima volta, buttasi a nuoto, e salvo
lo riporta in propria casa, donde lo rimanda poi con donativi e col bacio
dell'amore e della fratellanza.
Populu di Sicilia ginirusu,
Di la liggi di Diu ca nni fai casu,
Diu ti darrà cumpensu priziusu,
Ed eu mi vôtu a Iddu e 'n terra vasu.
Non è mia intenzione di esaminare qui la copia immensa delle siciliane leggende, nè il posso; che a sè ritorce tutta mia cura la Baronessa di
Carini, la più varia, la più perfetta, la più sublime tra le leggende.
Ma prima di venir ad essa, non so resistere a non citare almeno parecchie altre storie che inedite io conservo, o il Vigo o il Pitrè, e che non
sono di lieve interesse. - Banditi e ladri celebri sono Testalonga, Lupa
di mare, Girolamo Bruno, I Fra Diavoli, Paolo Cocuzza, I Mafiusi
del Castello di Carini. Ne' Due innamorati, nel Monaco ospitato, nel
Confessore e la penitente, nella Moglie rapita e nel Frate della cerca è
tolto il velo a certe maccatelle di alcuni frati, ai quali, religioso com'è, il
popolo di Sicilia non serba poi tanto rispetto, nè risparmia frizzi ed aculei. Il Sangue lava sangue fa rabbrividire per quelle lotte cittadine che
trascinano a ruina famiglie e paesi e che, nuovi Casi di Sciacca, sulle
pubbliche piazze in pieno dì si consumano, perchè la Giustizia dorme
nell'apprestare validi e certi rimedi. L'avversieri che strangola l'avaro
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Al v. 139 della Baronessa di Carini cennasi anche a tale usanza.
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richiama alla mente la novelletta di Fra Filippo da Siena «di un mercante
avaro che fu veduto strozzare dal Diavolo», e la legenda allemanna del
Conte malvagio che nel sonno fu dal diavolo strangolato, sì bene dal
Fissore tradotta. Nell'Uccello fatato, ma più nella Casa incantata si raccolgono le più superstiziose credenze sui tesori nascosti, le streghe, i fantasmi, i prodigi della magia. Rosina e la Fuga amorosa ti dicono a qual
grado pervenga la passione in cuore di Siciliana, talchè cieca si dona
questa all'amante e seco al mare si affida. Il Matrimonio di Federico
III e Costanza d'Aragona è cosa che merita studio particolare per l'importanza storica che offre. Poi la Rivoluzione del 1672, il Tremuoto di
Messina del 1740, l'Eruzione dell'Etna del 1766, Rivoluzioni del 1820,
1848, 1860, Cholera del 1837, 1854, 1867: e poi Carestia, e Pestilenza, e
Condannato a morte, ed Elisabetta, e Testamento d'un povero, e Morte
ed ignorante, e Miracoli di Santo Sano, e Gioachino Leto, e cento altre
varie, leggiadrissime storie
Ch'io non posso ritrar qui tutte appieno.
II.
Sulla costa settentrionale della Sicilia, dirimpetto l'isola d'Ustica, sovra ubertoso ariosissimo poggio siede la gaia e pulita Carini, l'antica
Iccari, nota più per la famosissima Laide, la cui beltà trascinossi dietro
governanti, filosofi, artisti e poeti1, anzichè per le varie vicende a cui,
per due volte distrutta e rifabbricata, soggiacque per lunghissimi secoli2.
Questa Carini, che ne' tempi normanni fu di quel Matteo Bonello che
diè morte (1160) all'infame Maione, supremo Almirante di Guglielmo
il Malo3; e fu ne' tempi angioini del famoso Palmerio Abate, che col
Procida concorse a preparare la strage dei Vespri4; passava il 26 agosto
1397 ad Ubertino La Grua, cavaliere, barone e vicerè per la valle di
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I Carinesi la ricordano tuttavia coll'appellativo la bedda di Liccari.
Vedi le Notizie d'Iccari in forma di dialogo scritte dal sac. PASQUALE PECORARO,
Palermo, 1856, cap. I.-VI.
VILLABIANCA, appendice alla Sicilia nobile, vol. I. pag. 60: e PALMERI Somma della
Storia di Sicilia cap. XXII, 10.
VILLABIANCA, op. e loc. cit.; PALMERI, op. cit., cap. XXX, 9.
Mazara1, e gliela donava il re Martino da' beni appertenenti a Manfredi
Chiaramonte, già fatto decapitare come reo di ribellione e di alto tradimento2. Moriva Ubertino al 1410, e Castello e Terra di Carini restavano
a Giliberto Talamanca3, che al 1402 avea sposato l'unigenita Ilaria La
Grua di Ubertino, con obbligo di assumere il cognome e le armi di casa
Grua4. Discendente da questa illustra famiglia Talamanca-La Grua, dopo
una serie di successori, Vincenzo II, barone, al 1532 menava a compagna Eleonora Manriquez, discendente da' Greci imperatori5: e Pietro III
suo figlio, barone al 1552, da Maria Tocco e Manriquez della casa reale
d'Aragona otteneva la sventurata figlia Caterina, soggetto delle nostre
indagini, e della poetica istoria6.
Perchè abbiamo accennato a tutte queste particolarità degli ascendenti di Caterina vedrà il lettore più sotto: adesso cerchiamo di questa
infelice.
Aveva il padre abituale stanza nel suo palazzo di Palermo7, occupando sempre i Baroni di Carini i più alti uffici del Regno: la figlia dimorava invece al Castello carinese, il perchè non sappiamo. - Nello stesso
territorio di Carini è un vasto feudo detto Don Asturi; oggi di proprietà
del duca d'Aumale, che l'ha aggregato alla vasta sua fattoria dello Zucco;
ma nel sec. XVI di casa Vernagallo, una delle sette famiglie pisane passate in Sicilia nel 14008, una delle più ricche fra le altre nobili, tanto da
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VILLABIANCA, op. e loc. cit. pag. 61. Sulla tomba di Ubertino, nella Chiesa di S.
Francesco de' Minimi Conventuali di Palermo, si leggeva: Ubertinus. La. Grua. Miles.
Baro. Careni. Prorex. Vallis. Mazariae. obiit. anno. 1410.
PALMERI, op. cit. cap. XXXIX, 2-3. - Le armi della famiglia Chiaramonte vedonsi ancora sulla porta del Castello di Carini insieme a quelle dei La Grua. VILLABIANCA Sic.
nobile, vol. I, P. II, lib. I, p. 56.
Era de' Grandi di Catalogna; ed era passato con Martino in Sicilia al 1392 per ire contro i
quattro tiranni che si chiamaron Vicarii. CARUSO Storia di Sicilia, vol. II, parte 2ª, lib. 10.
VILLABIANCA, Sic. nob., loc. cit. - Queste armi sono: Scudo diviso in due pel lungo: il
destro mezzo campo fatto a quadretti bianchi e celesti; nel sinistro, ch'è rosso, vedesi la
gru di color pardo avente una pietra nel destro piede ch'è alzato, mentre il sinistro poggia
sul suolo.
PECORARO, op. cit. cap. VII.
VILLABIANCA, App. alla Sic. nob., v. I, pag. 61-62. Molto confuse in lui e nel Pecoraro
sono le successioni di Casa Carini: noi con l'aiuto de' ritratti delle sale del Castello l'abbiamo un po' chiarificata.
È quello stesso ch'è rimpetto alla Cattedrale, arso nella rivoluzione del 1860 ed ora ricostruito. Vedi VILLABIANCA, op. e loc. cit.
VILLABIANCA, Sic. nob., vol. II, parte 2ª, lib. 2°, pag. 129; e vol. III, parte 2ª, lib. 4°,
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comperare ai tempi di Carlo V la città di Caltanissetta1: e un Ludovico
Vernagallo, di questa famiglia, avea sposato Elisabetta La Grua figlia
del Barone di Carini, Pietro II forse2. La parentela, la vicinanza che è
mezza parentela, l'età fiorita e fresca e la gentilezza avvicinarono il bel
cavaliere Vincenzo Vernagallo3 e la più vaga stella de' Serafini, Caterina
Talamanca La Grua.
«Amor, ... al cor gentil ratto s'apprende»4; e, come fiore, co' fiori nel
febbraio germogliando, sbocciò in marzo, diè profumi divini alle aure
di aprle e di maggio, e di sublime poesia alimentò due cuori palpitanti
la prima volta. Ma «chi pon freno agli amanti o dà lor legge5?» Era
desto l'incendio, e dovea consumare non potendo più spegnersi. Chi ha
osservato la intensità della prima passione in diciottenne fanciulla siciliana6, che madre e parenti e mondo e Dio allora dimentica, darà la
sua commiserazione al fallo della disgraziata Caterina, inerme e sola,
direi quasi, contro gli assalti di Amore. Ma le felicità della innamorata
coppia destarono presto la invidia, morte comune7; e la spia, pubblico
flagello8, fecela un tristo di monaco, che con odiati colori è ritratto nella
leggenda.
Vola il barone Pietro a Carini, il 4 decembre 1563, e Caterina, invano di sala in sala gridando ajuto, Carinesi9! è scannata mentre per un
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Vale a dire pochi anni prima della morte di Caterina La Grua. Vedi VINCENZO DI
GIOVANNI, Palermo ristorato, lib. II, pag. 100: - BONFIGLIO, Messina nobile cap. II,
p. 72: VILLABIANCA, op. e loc. cit.
Il VILLABIANCA, loc. cit., ha qui al solito, un po' di confusione.
Sempre bel cavaliere e bella figura, è appellato ne' versi, come la Caterina coll'epiteto del
testo, o coll'altro di Giglio di Carini.
DANTE, Inferno, V, 100.
PETRARCA, Sonetto CLXXXV, in vita di Laura.
Un 40 anni addietro mi si assicura esistesse nelle sale del Castello di Carini il ritratto di
Caterina «Era una giovinetta (mi si disse) di alta statura, lunghe trecce bionde, bel profilo, fresca, delicata, occhio malinconico e passionato: poteva contare appena diciottanni.
Vestia lunga veste (cantùsciu), con ricco cinto e larghe maniche a voli: nulla di più semplice ed elegante». Sventuratamente questo ritratto non esiste più tra quelli che si trovano
al Castello.
DANTE, Inferno, XIII, 66.
Delatores, genus hominum publico exitio repertum. TAG. Ann. IV, 30.
Inseguita dal padre, Caterina gridava: ajuto, Carinesi! ma nel momento che quel mostro
la feriva, non vedendo accorrer nessuno, gridò invece Cani, Carinesi! epiteto registrato
nella leggenda, e veramente cagnesco; perdonabile a quella disgraziata in quell'estremo
momento, ma non a chi, anche oggi, ingiuria Cani i Carinesi, che son in vero tra' più
gentili, ospitali e cordiali Siciliani. E ben l'ho provato tre volte che son ito nel lor caro
Comune. - Altri vuole che il Cani, Carinesi! lo profferisse il Barone quando, consumato
andito fugge ad altro appatamento. Cadendo, la insanguinata mano ella
imprime al muro, sotto la Gru marmorea presso una porticina, e quella orma sanguinosa è lì sempre indelebile a gridare vedetta dell'infame
parricidio1.
Vernagallo, cerco a morte da Pietro, nascondesi in Lattarini, quartiere di Palermo: poi pentito si dà a Dio, non sappiamo in quale convento;
certo non in Sicilia, dove il feroce Talamanca l'avrebbe scannato anche
sugli altari. La fantastica mente del popolo ha immaginato che lo spirito
di lui vada ancor da quel dì per l'aeree regioni, piangendo e chiedendo
vendetta contro il padre assassino2. - Il castello fi chiavato e murato3; si
disse vi albergassero mali spiriti: il barone, anima di Caino4, disperatamente visse gli altri suoi giorni, esecrato e maledetto da tutti5.
Questa è la storia che i versi e la uniforme tradizione di tutta l'Isola ci
conservano. Non curo e non registro i cento aneddoti, le cento avventure,
i cento romanzi che sulla Caterina sonosi accumulati presso il popolo,
perchè alla critica, al buon senso, alla storia non reggono. I Dumas vi
mietano e spigolino, ch'è campo per loro. A me basta, a mia scusa, far
avvertire come i miracoli, i prodigi, le fortune e le sventure inaudite si
raccontino centuplicati, trasformati, con migliaia di chiose, contradittorie sovente: perchè chi racconta ciò che udì, aggiunge, toglie, modifica
a senno suo, o per bizzarria, o per mostrarsi più animato dipintore. E
a prova di ciò vi basti l'esempio del Quintilio del Gozzi che inventava
storiette per vederle divulgare, crescere, trasformare: e l'altro esempio di
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il delitto e pentito, odiava a torto i Carinesi perchè non accorsero solleciti alle strida della
figlia. Ne' versi è in bocca di quest'ultima.
Al Pitrè, ed a me pure, osservando quella impronta cruenta di piccola mano, parve quel
rosso non essere proprio il sangue del 1563, ma un colore forse che posteriormete si aggiunse, perchè viva restasse quella macchia che pel tempo sbiadiva.
Vedi in fine del volumetto gli SCHIARIMENTI (B).
Chi murò le sale del Castello fu un muratore cognominato Oliveri ma ingiuriato 'Ntampani
(baggeo), ed ebbe facoltà dal Barone di prendersi tutt'i mobili della stanza del delitto.
L'Oliveri non però toccare una cassetta che, dal peso, conobbe contener danaro: anzi
smurando dopo qualche tempo le stanze, presentò al Talamanca la cassetta là dov'era.
Ammirato di tanta fedeltà, questi gli concesse un pezzo di terra a sua scelta: ed egli, da
scimunito che era, scelse un piccolo piano sopra Carini, sassoso, infruttifero, che d'allora
in poi fino al presente si noma il Piano di 'Ntampani. I pronipoti di questo muratore vivono in Borgetto, e conservano viva la tradizione di questo aneddoto, come dell'arte di lui ed
anche un pochino dell'indole.
Leggenda, verso 40.
Pare che anche i suoi successori lo avessero in odio, perchè frai ritratti della famiglia quello di lui è il solo che manchi. Allo stesso modo nel palazzo de' Dogi in Venezia manca
il ritratto di Marin Faliero, tenuto come traditore.
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quel marito che finse partorir un uovo, narrato in arguta novelletta del
Guadagnoli (il quale, in parentesi, lo tolse di peso ad un autore Francese,
che a sua volta l'avea rubato ad un nostro cinquecentista).
Ma sento qui domandarmi: - Una poesia popolare, che probabilmente
potrebb'essere una spiritosa invenzione di qualche ingegno, come tante si
dànno a' dì nostri almanaccate leggende nere e bianche e bigie su questo
castello, su quel lago, su quel burrone: una tradizione che, appunto per
ciò che poc'anzi è detto, può essere falsa o almeno molto sformata: una
macchia rossa ad un muro, che anche per semplice ghiribizzo potè venir
fatta: tre nomi, storici sì, ma che potrebbero esser messi ad arte in iscena
per dar faccia di verità ad un parto di fantasia: questo solo, insomma, è
egli bastevole perchè noi potessimo giurare sulla veracità storica di un
fatto sì luttuoso ed inaudito? Gli storici, i cronisti, gli scrittori contemporanei, che ne han lasciato di certo? La lira dei poeti letterati dell'epoca,
che strimpellava minuziosamente su tutte le frivolezze, fu muta affatto,
quando l'intera Sicilia era messa a rumore per tanto delitto?
È facile una risposta quando noi ci facciamo a tratteggiare in poche linee l'epoca triste dentro di cui si compì l'abbominato parricidio.
Eccelle in essa lo spirito di rivoluzione, quello di vendetta, e la sete di
sangue. Il tumulto contro gli Ebrei, la espulsione del Vicerè Moncada, la
sanguinosa congiura di Squarcialupo e quella dei fratelli Imperatori, il
caso di Sciacca, il tumulto che notar Tersino capitanò, ce nedanno prove
sufficienti e chiarissime1. E frattanto i ladri scorazzavano arditamente le
campagne, imponendo taglie ai proprietarî, e sfidando a suon di tromba
i Vicerè2: i Turchi ardevano, saccheggiavano le città e le ville di tutto il
litorale,e rapiano le vergini3; e i Baroni co' loro scherani si afforzavano
ne' castelli, sempre a dovizia forniti di trabocchetti, carceri, ordigni di
trtura; e spesso rubelli, impaurivano i re colla lor prepotenza. E questi
dall'altro lato non poterli affrenare, non poter ridurre a calma e sicurezza il Regno, a malgrado de' profusi tesori; perocchè ben altre cure li
teneano in continuo travaglio, le lunghe guerre contro il Turco, contro la
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Vedi il DI BLASI, Storia del Regno di Sicilia, lib. XI, epoca Austriaca: e PALMERI, op.
cit. cap. XLII-XLIV.
Più famoso fra' contemporanei banditi, un Vincenzo Agnello ebbe l'ardire di farsi vedere
dal Vicerè duca di Medinaceli disposto in ordinanza co' seguaci suoi sopra un colle, toccando trombetta e facendo sventolar lo stendardo, su cui era dipinta la morte. V. AURIA,
Cronologia de' Vicerè, p. 46: DI BLASI, op. ed epoca cit. cap. XII.
PALMERI, loc. cit.: LA LUMIA, La Sicilia sotto Carlo V, c. 6 e segg.
Francia, contro l'Olanda, la Inghilterra, il Portogallo1.
Quand'io volsi la mente a riunire le sperse membra della leggenda di
Caterina La Grua, corsi con sollecita cura a rovistare le storie del XVI
e XVII secolo. Quanta infruttuosa fatica durai! Trovai narrate le guerre
che i re nostri sostennero, i subugli popolari, le lotte civili, le scorrerie
dei ladri e dei Turchi, i provvedimenti dei Vicerè, le pretese vittorie, le
luminarie, i tornei, i caroselli fatti per dar polvere negli occhi alla infelice popolazione e farle dimenticare così le fami, i tremuoti, la peste
che l'affliggevano: ma non solamente non trovai un cenno dell'assassinio
consumato in Carini, ma neanco una parola che riguardasse gli abituali
delitti o le prepotenze de' nobili; e se questi son qualche volta ricordati,
lo sono per vigliacche adulazioni alla corte che dava lor campo franco
per non averli nemici. Scoraggiato ricorsi ai diari manoscritti, nella speranza che qualcuno m'avesse potuto rivelar intera la verità, per ciò che il
Diarista non avea fatto di ragio pubblica il suo scritto, e ben conservato
l'avea trasmesso ai nipoti. Ma l'immagine del nobile coi suoi cagnotti
stava pur sempre innanzi agli occhi del Diarista. Egli, che ad una caccia
artificiale, ad un torneo, ad un ingresso di nuovo Vicerè o Cardinale, o
ad altre inutili insulsaggini consacra ben molte pagine; quando viene al
punto di segnare l'empio operato d'un Grande pargli vedersi luccicare
davanti il pugnal nobilesco, e si confonde nelle idee, e trema e verga,
e scrive in modo rapido e oscuro: «1536. Sabato a' 4 Xbre succese il
caso della Signora di Carini2». Valerio Rosso3, Palmerino ed altri due
Diaristi4, copiandosi pur dicono le parole di Filippo Paruta. Solo un anonimo, il cui ms. era in potere del Marchese della Favorita (paesetto vicino a Carini), sollevò un po' più il velo dicendo: «1536. Sabbato a 4 Xbre
fu ammazzata la Signora Donna Caterina La Grua, Signora di Carini5».
Ma a ciò pongasi mente, che nessuno si attenta non che di accennar la
cagion della morte, ma di nominar l'uccisore. E la ragione è patente:
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DI BLASI, Storia ec. epoca cit. cap. XV.
FILIPPO PARUTA, Cronica di Palermo, (ms. Qq. F. 4 della Comunale di Palermo), in
quest'anno 1869 data alla luce dall'egregio e dotto Abbate Gioachino Di Marzo nel vol. I
della Biblioteca storica e letteraria della Sicilia. In questa stessa ed eccellente collezione
ei pubblica gli altri diari cui io accenno. E qui colgo la occasione per pubblicamente manifestargli la mia stima e ringraziarlo delle cortesi parole che a pag. 25-26 del citato volume
usa a mio riguardo, pigliando opportunità del Caso della Signora di Carini.
Diarii antichi palermitani ec. raccolti dal marchese di VILLABIANCA, vol. VI, pag. 47,
ms. Qq. D. 98, della Comunale di Palermo.
Riuniti nel ms. Qq. E. 55, della stessa Biblioteca.
Notizie di successi vari ec. Ms. Qq. C. 2.
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Pietro Talamanca La Grua, di alto e antico lignaggio spagnuolo, imparentato a due case regnanti, ricchissimo e potentissimo, orgoglioso più
che altro grande di Spagna, talchè in questa palermitana provincia è passato in proverbio1; incuteva spavento ai più forti e più ricchi. Vincenzo
Vernagallo dovette nascondersi, fuggire ad un convento fuori dell'Isola.
Caterina venne scannata, e la Giustizia non ardì proferir verbo. Erano i
tempi corrotti ed iniqui che portavano a ciò: tempi di schiavi e di tiranni,
di rivoltosi e di assassini, senza religione, senza patria, senza onore. In
altra epoca, in cui nel cuore de' nobili al fumo e all'orgoglio toglieva il
posto il cortese e generoso sentimento cavalleresco e il rispetto squisito
al bel sesso, abbiam noi visto2 il Conte signor di Borgetto cedere ai preghi della figlia, assolvere l'infido scudiero e farlo suo genero. Che abisso
fra queste due età, fra questi due titolati!
La stessa causa che imponeva silenzio agli storici dovea con più ragione imporlo ai poeti, che in quell'epoca miseranda strisciavano ai piedi
della Corte e della Nobiltà, avviliano nel fango dell'adulazione la santità
della poesia, nata a sublimar Dio e la Patria, a infuturare gli Eroi e i
Benefattori dell'Umanità, a percuotere con implacabile flagello i vizî ed
i delitti, o coronati, o mitrati, o imberrettati. Ciò che avveniva alla corte
di Leon X e di Cosimo de' Medici, avveniva tra noi: nel Continente e
nell'Isola correvan le lettere uguale fortuna: e se al Varchi di Firenze
una stilettata insegnava che dovesse mutar tuono scrivendo l'istoria;
in Palermo si faceva scoppiare la polveriera del forte di Castellamare,
dove stava chiuso il siculo Petrarca, l'immortale Antonio Veneziano,
perchè il suono della sua lira seppe acre di molto al Vicerè Conte di
Albedelista3.
Ma se il feudale potere chiudeva agli scrittori la bocca, perchè l'oblio
involvesse nella sua notte scelerità sì nefanda; non poteva imporre sul
sentimento del popolo che da essa nelle intime fibre del cuore fu scosso. Un suo ignoto cantore a melodiosa cetra affidò gli amori infelici di
Caterina, e innanzi al tribunale de' secoli futuri chiamò l'empio Barone,
cui marchiò d'infamia non peritura. Ma a ciò torneremo più tardi: adesso
ci incombe di cercare che un lume più certo venga a diradare il pauro1
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Barone Talamanca si chiama fra noi chi affetta superbia e fumo e va tronfio e pettoruto
battendo il tacco. Bisogna distinguere questo motto proverbiale dall'altro venutoci dagli
Spagnuoli, Dottore di Salamnca, Che si dà a chi si crede i dottrina superiore agli altri.
Vedi il § I del presente discorso, a pag 26.
Vedi nelle Opere del Veneziano lo scritto del MODICA, sulla vita e opere di lui: e V. DI
GIOVANNI, Il Miceli o l'apologia del Sistema, p. 304.
so buio che ricopre la storia dell'amica di Don Asturi. - Siamo al sec.
XVIII, ed è il ricco ed autorevole marchese di Villabianca, solito a ficcare il naso in tutte le minuzie private di nobili e di volgo, che ci soccorre
nelle nostre ricerche. A suo tempo i Talamanca La Grua esiston tuttavia, anzi col titolo di Principi1, ma non son più quelli del secolo XVI;
chè altre case nobilesche, con eterna vicenda, son sorte, e pareggiano e
vincono le antiche. Ora, il Villabianca può fare le sue curiose indagini
una prima, una seconda, una terza volta, e infine con franchezza lasciar
scritto: «Il Caso miserando detto della figlia di Carini lo fe' Pietro La
Grua Talamanca, Barone di Carini, a' 4 dicembre 1563, con dar morte
colle sue mani e nel suo stesso Castello di Carini alla sua figlia creduta
rea di fallo venereo con uno di Casa Vernagallo. E questo si chiama il
Caso della figlia di Carini che ancor rumoreggia nella Sicilia». accenna
dopo alle macchie di sangue esistenti nel castello, ed alla poetica leggenda che i Cantastorie andavano modulando su strumenti a corda o a
fiato. Siccome il sig. Marchese scrive scempiatamente ho messo tra gli
SCHIARIMENTI (A) le sue parole, e qui riporto le due stanze che della
poesia (dice) gli fu dato raccogliere.
Lu Vernagallu beddu cavaleri
Di Carini a la figghia fa l'amuri,
Ma cchiù chi cci usa modi 'nnammureri
Pri mia fora (idda dici) Don Asturi.
Iddu la voli in tutti li maneri,
Cci va d'appressu e l'invita a l'amuri,
E currennu a la fini da livreri
La junci e tuttidui dicinu Amuri.
Lu patri poi, baruni di Carini,
A Vernagallu cerca d'ammazzari;
Ma chistu si nni fuj a Lattarini,
S'ammùccia forti e nun si pigghiari:
Unni la figghia subitu a Carini
Scanna arraggiatu, e lu sangu ora pari
Di l'auccisa a la turri di Carini:
1
Il titolo di Principe concesse a' Baroni di Carini il re Filippo IV il 19 settembre 1622,
come si vede nel VILLABIANCA, Sicilia nobile, vol. I, parte 2ª, lib. 1°, pag. 56. La nostra
Caterina della leggenda il popolo chiama principessa, e principe il padre, anco ne' versi:
ma siccome al 1563 non aveano questo titolo, come dal citato documento risulta, così ho
sostituito barone e baronessa ov'era principe e principessa.
41
Sempri ruini fannu onuri e amari.
Chi ha qualche conoscenza della poesia del popolo stenterà a credere
di lui queste insipide e sguaiate ottave. Non le ardite e fantastiche immagini, non i colori vivi, non l'armonia, non l'affetto, non la spontanea
semplicità, pregi costanti della nostra popolar poesia. Non è popolare
il paragone del 7 verso, e molto più per quel currennu DA livreri; chè
il da manca alla lingua siciliana e il di ne tiene le veci. Forse potrebbe
dirsi questa una correzione del letterato Villabianca, s'egli stesso non ci
facesse avvertiti d'aver trascritte le due stanze tali quali gli furon dettate.
Molto meno sanno di popolo gli ultimi otto versi, con quella meschinità
di rime, con quelle inarmoniche spezzature letteratesche, con quel brutto
bisticcio ch'è in ultimo. E poi, tutta la storia di Caterina incomincia e si
compie in esse due stanze: e allora, addio alla leggenda poetica! che il
popolo dice ch'era molto lunga, e il Villabianca stesso pare ne convenga,
dicendo che le due ottave sono parte della canzone espressiva del Caso
della Signora di Carini. Il non trovar poi popolare, in nessuno de' nostri
Comuni, anche un solo di questi sedici versi, mi ha rinforzato in una mia
opinione, che mi pare la più plausibile che si possa emettere, cioè, che
essi versi dovettero esser parto di qualche mente mezzana di sedicente
letterato, posteriori alla leggenda, e come ad argomento della medesima.
L'autore della quale, tanto delicato poeta e finito artista, avesse pur verseggiato sonnecchiando qualche volta1, non poteva dar vita a due ottave,
che in paragone delle altre, vuoi per sentimento, mi dàanno l'aspetto della scoria che galleggia nel crogiolo dell'oro. E, a malgrado di ciò, per non
lasciar una lacuna che nuocerebbe al progressivo sviluppo dell'azione,
sono stato necessitato a far uso della prima di esse. Vero che, tra' versi
che la precedono e seguono,
Strazia inarmonica
Gli orecchi, come
In una musica
Solenne e grave
Un corno, un oboe
Fuori di chiave2:
ma non le posso dar il bando finchè un più fortunato, ma di me certo
1
2
42
«Quandoque bonus dormitat Homerus». HORAT. Ar. poet.
GIUSTI, il Ballo.
non più amoroso cercatore, non avrà rinvenuto quei brani che con gran
mio dispiacere veggo mancar tuttavia a questa sublime leggenda.
Il popolo nostro, allorchè di essa favella, adopra invariabilmente le
parole: è la più bella e insieme la più dolorosa poesia che in siciliano
siasi cantata giammai1. E si avverta che con quel dolorosa intende non
solo il dolore e il lutto dell'avvenimento in se stesso, ma il sentimento
arcano e patetico che informa que' versi ed ha possa di risvegliare in
altri il dolore. E avvegnachè i canti popolari sieno di tutti e non sieno di
nessuno, pure chi primo compose questa leggenda ci fu, ed essa stessa ci
dice che non fu ingegno volgare, nè incolto.
Il suo nome non è giunto a noi. Potea forse trovarsi, come in molte leggende, registarto negli ultimi versi: ma più probabilmente fu taciuto per
non esser fatto segno alle temute persecuzioni dello strapotente Barone,
a cui, come vedremo, non risparmia le più fiere ingiurie e le minacce di
sicura vendetta celeste. Vero però, dall'altro canto, che al Talamanca doveva bene esser noto; posciachè ci si riveli egli stesso espertissimo conoscitore del Padre, della Figlia, del Castello e delle minime parti di esso.
La descrizione che ci dà dell'aurora che va ad indorar l'isola di Ustica e il
mare, guardata dai balconi del Castello (versi 85-88), non potea darcela
se non se chi l'ebbe ad ossevare da quei balconi medesimi. Certe particolarità, come lo spionaggio del frate (v. 69-80), il dolore della madre e
delle sorelle (v. 131-138), i rimorsi di Pietro (v. 245-250), ec. non poteva
conoscerle che persona della casa medesima. E per tale appunto ci si appalesa l'Autore del poemetto; (e lasciate che poemetto lo chiami, perchè
nessun requisito gli manca per essere tale). Noi lo udiamo dar principio
al canto suo agitato nel cuore e nella mente, chiedendo una dolce e mesta
poesia per piangere la colonna della sua casa, la infelice Baronessa, che
sola potrebbe dire l'amore che le portava il poeta (v. 7-16). E non basta:
ai versi 139 e segg. noi lo veggiamo, dolorosamente prostrato sulla lapida di lei, lamentare di non averla potuto veder morta e ornarne di fiori
la bara: chiedere lo ingegno di re Salomone per eprimere fedelmente lo
stato dell'animo suo, posciachè la sorte (dice) mi ha tratto al fondo e
La mè varcuzza fora portu resta
Sena pilotu 'mmenzu la timpesta;
La mè varcuzza resta fora portu,
La vila rutta e lu pilotu mortu!
1
Vedasi negli SCHIARIMENTI (G).
43
Non v'ha dunque più dubbio; Caterina, e sola essa, era sostegno, guida, protettrice di lui. Ma nè al castello, nè alla biblioteca di Carini, nè
altrove mi fu dato aver indizio almeno di questo poeta. Veneziano, Rau,
D'Avila, Aurispa, che furono i più celebri rimatori siciliani del tempo,
non ebber mai che fare con la Casa di Carini, e tanto meno han che
fare collo stile, co' pensieri, coll'affetto dell'incognito Nostro. Solamente
nella pagina ultima delle Canzone del siracusano D'Avila, che stan manoscritte nella Comunale di Palermo (ai segni 2Qq. C. 5), ho trovato
tre versi che corrispondono ai v. 93-95 della Baronessa; però sono di
carattere alieno e posteriore a tutto il volume non solo, ma scritti anche
erroneamete e da mano inesperta1: il che basta per farci affermare che il
poeta di Siracusa non può esserne stato l'autore.
Or poichè queste ricerche a nulla non ci han fatto nè ci faranno approdare, fino a che la comparsa di qualche documento, che potrebbe esistere
forse nell'archivio gentilizio de' Carini, non verrebbe a dissipar queste
nubi; noi dobbiam rassegnarci ad ignorar il nome di un poeta, i cui vividi raggi non poco splendore darebbero alle sicule muse, e non poche
stelle minori farebbero ecclissare. Ed a prova di ciò, noi passiamo ad
esaminare quella parte dell'opera di lui che tuttavia ci rimane, sottratta
alla voracità del tempo la mercè del tenace affetto del popolo nostro alle
tradizioni degli avi.
Il poeta dipinge con mano maestra, dipinge a tratti, squisiti, rapidi,
spiccati, e sempre compagni alla armoniosa melodia che il Foscolo impetrava dalle Grazie. Poetava pel popolo, e del popolo grandemente ha
familiari le tradizioni e la poesia inarrivabile: ma l'arte acquistata su'
Classici forte lo aiuta, e il suo metro egli adorna dei fiori raccolti nell'uno
e nell'altro Parnaso. Udiamone il canto, ch'egli è agitato dal Dio, che il
suo cuore ribocca di amarezza, che la sua vista è appannata del pianto:
Ciumi, muntagni, àrvuli, chianciti,
Suli cu luna, cchiù nun affacciati:
La bella Barunissa chi pirditi
Vi li dava li räj 'nnammurati:
1 «Simili scanto e simili terrori
Chi appi la baronissa di Carini,
Essenno spasso con li sui signuri...»
Li riporto testualmente per mostrare che sono scritti da ignorante, e di più per darli come
variante de' nostri.
44
Acidduzzi di l'aria, chi vuliti?
La vostra gija 'nùtili circati:
Varcuzzi chi a sti praj lenti viniti.
Li viliddi spincitili alluttati!
Ed alluttati cu li lutti scuri
Ca morsi la Signura di l'Amuri. (v. 21-30)
E chinon vede e non sente il pianto della natura cui risveglia il poeta?
Eccolo qui, adempito l'oraziano precetto: si vis me flere dolendum est
primum ipsi tibi. E quel sole e quella luna senza raggi amorosi; e quelli
uccelletti che spaziano per l'aere e voglion darsi ragione della perduta
allegria; e quelle barchette che lantamente, e pari alla lenta armonia del
verso, vengono innanzi, e a lutto inalzeranno le vele; e infine tutti que'
cari vezzeggiativi; sono così fine bellezza che annotata si guasta, che
tradotta in altra lingua perde le verginale soavità.
Ma se avrà da mettervi innanzi la breve scena della felicità degli
amanti, il poeta, appuntati in oriente gli sguardi, lì troverà le convenienti
fantasie, e nuovi colori, e nuovi ori e nuovi rose, per dar vita al passionato quadro degli amori:
Chi vita duci, ca nudda la vinci,
Gudìrila a lu calmu di la rota!
Lu suli di lu celu passa e 'mpinci,
Li raj a li du' amanti fannu rota:
'Na catinedda li curuzzi strinci,
Bàttinu tuttidui supra 'na mota;
E la Filicità chi li dipinci
Attornu attornu di oru e di rosa. (v. 57-64)
E per colpirli più vivamente, a lato questa magnifica orientale pittura,
ti dà il tradimento, lo spionaggio di un frataccio al padre di Caterina.
Questi delira, - e il frate ride col riso maligno diMefistofele: ma il mondo ne sente orrore, e ne dà segno la luna che si avvolge tra le nubi, e il
paventato gufo che svolazzando ripete il lugubre U-U (v. 69-80).
Queste sono scene sublimi, che solo ai Grandi è dato di poter tratteggiare. Ma ne vedremo ancora delle altre e non inferiori. - Moltissimi
han descritto l'aurora del cielo nostro: tre soltanto divinamente, Dante,
45
Tasso, Tassoni. Il Nostro viene a gara con loro; e non credo ch'io esageri
affermando che egli è quarto fra cotanto senno1:
'Ncarnatedda calava la chiarìa
Supra la schina d'Ustrica a lu mari;
La rininedda vola e ciuculìa,
E s'àusa pri lu suli salutari... (v. 85-88)
Quanto affetto, quanta morale nella rondinella che s'alza gorgheggiando per dare al sole il saluto2! - Però, più che in queste pitture dele
bellezze fisiche dell'universo, il poeta è mirabile artista nelle morali e in
quelle del sentimento, nella parte drammatica e parlante del poemetto.
Quando il Barone conosce le erotiche tresche della figlia, tostamente,
benchè notte, cinge le armi, e: - vola! grida al cavallo. E il rapido volo co'
nostri occhi stessi veggiamo: perocchè la sventurata donzella vede apparire dall'Agliastrello, due miglia lontano3, la paterna cavalleria, e appena
ha il tempo di profferire ah! forse è il padre che viene ad uccidermi!
che questi le è già di sopra e le trapassa il debole petto (v. 93 e segg.).
Gli angosciosi stridi di lei, il suo spavento che la fa fuggire, inseguita di
sala in sala, finchè non cada esclamando: Cani Carinesi! trovi descritti
dopo, quando il poeta ripigliando il suo pianto viene a muovere il tuo
(v. 139-160): messi al loro posto naturale avrebbero impicciolito l'effetto della terribile tragedia. E quando la notizia di questa batte le ali pel
Regno, con orrore da bocca a bocca ripetuta, e incontra Don Asturi, di
tutto inconsapevole; io veggo ed odo le genti che voltan altrove la faccia
e ripeton sommesso: chi gli darà nuova sì triste!? (v. 161-164).
In mezzo a queste scene di dolore e di sangue, l'animo del poeta,
informato a rettitudine, a morale, a religione, trova conforto levando al
cielo gli sguardi e la mente all'avvenire. Esclama: «Le nostre miserie
sono infinite, il tempo è corto; voltatevi a Dio, o peccatori (v. 223-224):
Egli ha piè di piombo, ma ci arriva tutti (v. 37-40), e la pesante sua mano
viene a visitarci fino alle terze e alla quarta generazione (v. 255-262)». È
questa religiosa morale che è il fine ultimo del suo poemetto: ed egli non
la scorda perfino nella più lieta scena, nella invidiabile felicità de' due
1
2
3
46
Il nostro impareggiabile Meli ha una stupenda descrizione dell'aurora nel suo poema eroicomico Don Chisciotte e Canciu Panza, c. II, 33-35.
Anche in una canzonetta (ària) popolare «Tutti l'oceddi càntanu - Salùtanu a lu suli». E
simile il Meli nel luogo citato.
Vedi SCHIARIMENTI (C).
innamorati, i quali ammonisce sulla vanezza degli umani gaudî, dicendo
che l'oro desta l'invidia di cento e dileguasi come spuma di mare, che le
fresca rosa avvizzisce in brevi istanti e si muore:
E la Filicità chi li dipinci
Attornu attornu di oru e di rosa;
Ma l'oru fa la 'nvidia di centu,
La rosa è bella e frisca pr' un mumentu;
L'oru a stu munnu è 'na scuma di mari,
Sicca la rosa e spampinata cadi! (v. 63-68).
Caterina eglia ama con sacro affetto; ma Caterina peccò, dunque ha
meritato l'inferno; e te la colloca lì, nelle ardenti fiamme de' lussuriosi.
Però chi ancor beve le dolci aure di vita ha tempo a pentirsi ed espiare il
suo fallo: ecco perchè ti dipinge il giovine amante che si dà a penitenza,
e il padre che da continui rimorsi lacerato piange dì e notte l'irreparabile
misfatto. Ma speranza di salvazione, ma, non che perdono, compassione non evvi per chi ha fatto la spia, per chi ha tradito: il Giuda cocerà
eternamente nella incesa caldaia infernale, e il Poeta ve lo ha collocato
anche pria che fosse preda di Morte; giacchè non par possibile che pochi
dì soli dopo spenta la Baronessa, quando cioè si finge che Vernagallo
scenda ai bui regni, il frate se ne foss'ito già da questo mondo. E in ciò
il Nostro ha seguito quell'inesorabile apostolo di verità e di giustizia,
l'immortale Alighieri, che fra' traditori della Tolomea (inf. XXXIII) ficca
il Frate Alberigo e Branca d'Oria che pur erano fra' viventi.
E qui mi cade in acconcio di entrare in maggiori particolarità, in più
attente osservazioni per mostrare come l'autore della leggenda avesse
formato il suo ingegno sui volumi degli Spiriti Magni, per dirla con
Dante.
Chi ha studiato ne' Classici vedrà tosto, leggendo i versi su la
Baronessa, come classiche sieno tutte le tinte; le immagini che li abbellano, la melodia. E ciò non nuoce, ma giova alla popolarità della poesia
stessa, quando l'arte imita per bene la natura sua madre: perchè i veri
Grandi non altro che questo hanno fatto. La Bibbia, Virgilio, Ovidio,
Ausonio, Petrarca, Poliziano, Aristo ti ricorrono spesso alla mente scorrendo il nostro Cantore. Gli esempî di somiglianza o meglio d'imitazione
potrebbonsi addurre in buon dato: noi ne riportiamo parecchi, sufficienti
a far prova del nostro assunto. - Biblico è il chiamar giglio di Carini
47
la Caterina (v. 121), e Serpe il diavolo (v. 199): come i versi 225-226
ricordano le parole di JOB (XXXIII, 15-16): «Per sommium in visione
nocturna... tunc Deus aperit aures virorum et erudiens eos instruit disciplina, insieme anche ai versi danteschi (Purg. XXVII, 92-93) il sonno
che sovente. Anzi che il fatto sia, sa la novella»: così i versi 255-256
richiamano il «Patres nostri peccaverunt et non sunt, et nos iniquitates
eorum portavimus» di GEREMIA, pur in Dante espresso col «Molte
fiate già pianser li figli Per la colpa del padre (Parad., VI, 109)»: e così
finalmente i versi 259-262 si riportano alla solenne minaccia d'ISAIA
(XXV, 10-11): «Quia requiescet manus Domini in monte isto, et triturabitur Moab sub eo... Et extendet manus suas sub eo... et humiliabit
gloriam ejus cum allisione manuum ejus». - Il verso 21 più su riferito
fa sovvenire il virgiliano «Daphni, tuum... Interitum, montesque, feri,
sylvaeque loquuntur (Ecl. V, 28)»: come i versi 79-80 i «Fugit aurea
coelo Luna: tegunt nigrae latitantia sidera nubes... Ter omen Funereus
bubo letati carmine fecit di OVIDIO (Metamorph. X, 448-453)»; e quel
di VIRGILIO: «Solaque culminibus ferali carmine bubo Saepe queri,
et longas in fletum ducere voces (Æn. IV, 462-63)». I versi 128 e 130
rispondono a quelli dell'Eneide (IX, 486-487): «nec te in tua funera mater Produxi pressive oculos aut vulnera lavi». Paion ispirati anche dallo
stesso poeta i versi 131 e segg.: «Nuntia fama ruit matrisque allibatur
aures Euryali. At subitus miserae calor ossa reliquit, Excussi manibus
radii revolutaque pensa (Æn. IX, 474-476). Ed inoltre l'Interea pavidam
volitans pennata per uben Nuntia Fama ruit (Æn. IX, 73)» ha molta
relazione col verso 162 della leggenda. - In questa la rosa è bella e fresca
per un momento e sfogliata cade al suolo (v. 66 e 68): in AUSONIO «dum
nascuntur, consenuisse rosas (Idil. XIV)», ed in POLIZIANO la stessa
rosa, «che in dolce foco ardea pur ora, Lanquida cade e 'l bel pratello
infiora (Giostra, I, 78)». - Caterina è colonna della casa del Poeta (v. 8):
il PETRARCA già scrisse: «Gloria colonna in cui s'appoggia Nostra speranza (Son. II, var.)» e anche: «del viver mio... colonna (Canz. I, in m.)».
Il verso 33 somiglia il 1° del Sonetto I in morte di Laura: il 49 l'altro
della Sestina VI in vita di Lei, «Era un tenero fior nato in quel bosco»:
e così il 223 è foggiato anche sul petrarchesco «Perchè il cammino è
lungo e 'l tempo è corto (Son. CCVI)». - La felicità degli amanti goduta
al colmo della ruota (v. 58) ci ricorda che l'ARIOSTO ha detto: «Quando
felice in su la ruota siede (Orl. Fur. XIX, 2)». I versi 81-82 dicon lo stesso
che quest'unico del Ferrarese: «Piglia l'arme e 'l destriero ed esce fuore»;
48
allo stesso modo che il 97 e 98 quegli altri dello stesso: «Ogni pensiero...
In lei finia, nè passava oltre il segno (Orl. Fur. VI, 47)».
Ma più che ne' citati poeti, il Nostro ha largamente attinto nel divino
poema dell'alighieri, a cui pare abbia detto: «Tu se' lo mio maestro e il
mio autore». Egli è dantesco nelle tinte brevi, ardite, maestose; dantesco
nello stile, nall'armonia del verso imitativa della cosa che rappresenta,
nelle minime frasi poetiche; dantesco nella coraggiosa fierezza dell'invettiva, nell'amara ironia, nell'amor del vero e del buono, e soprattutto poi nella orditura del poemetto. Ci si conceda qui ancora un po' di
tempo per provar con esempî queste asserzioni; e affretteremo il nostro
cammino,
«Che moltissima via quinci ne resta».
Un'anima veramente dantesca era duopo perchè, in que' tempi di feroce prepotenza baronale, allo scellerato padre apponesse, ne' versi, l'eterna
nota infamante di anima di Caino, e di più empio lo appellasse, e Turco
senza pietà, pari a quei Turchi che verso quell'epoca stessa erano il più
crudo e temuto e maledetto flagello della nostra Sicilia1. Ma qui pur non
si arresta il Poeta; e a lui, al fiero Talamanca, minaccia la immancabile
ira dell'Eterno, che si stenderà eziandio su' figli de' figli suoi.
E tutta dantesca è l'ironia che qua e là gli viene a sommo delle labbra:
ironia lieve, forse, quando, esanime Caterina e sanguinolente, e' si volge
a' Carinesi, non accorsi alle amare sue voci, dicendo: Correte, ora ch'è
morta! ma ironia feroce, che penetra fino al midollo, quando ci dipinge
il Giuda monaco nell'infernal fuoco ad arrostirsi le delicate carnuccie,
ed avente in mano il libro degli Evangeli, ch'egli, frate, doveva sapere quale amore insegni pel prossimo, e quali maledizioni scagli su la
schiatta de' traditori!
Moltissime somiglianze di versi, espressioni, parole e concetti ci si
appalesano tra il Cantore nostro e Dante Alighieri. A tutte io non posso
fermarmi, e alcune le abbiamo viste già. Rammento di volo che il verso
5 pare figlio al 7, XXXI del Purg. «Era la mia virtù tanto confusa»: che
il fuoco dell'amore che arde e non consuma (v. 53-54) rassembra quello
del Purgatorio dantesco (XXVII, 21), il quale «puote esser tormento ma
non morte»: che l'oro, spuma di mare (v. 67) richiama i versi 50-51 del
XXIV dell'Inferno, «Cotal vestigio... lassa, Qual... in mare la spuma»:
1
Vedi il nostro scrittarello La storia nei canti popolari siciliani.
49
che l'aurora posa sul dorso di Ustica (v. 85-86) come il sole veste al dilettoso monte le spalle nel I, 16, dell'Inferno: che il verso 98 si direbbe
modellato sul «Termine fisso d'eterno consiglio» e «fine di tutt'i desii
(Par. XXXIII, 3, 46)»: che la madre che accieca pel dolore (v. 134) è
simile ad Ugolino che si dà, tra' morti figli, «Già cieco a brancolar sopra
ciascuno (Inf. XXXIII, 73)». La nostra rondinella che s'alza, cantando, in
aria per salutare il sole (v. 87 e segg.) rende idea della dantesca «rondinella presso alla mattina che comincia i lai (Purg. IX, 13)», e anche della
«lodoletta che in aria si spazia Prima cantando (Par. XX, 73-74)»: e lo
sparviere che la insegue, ed essa che ripara timida al suo nido, ha lontana relazione con «l'anitra che di botto, Quando il falcon s'appressa, giù
s'attuffa (Inf. XXII, 130-131)». E non dico che i versi 149-150 ripetino il
«Nave senza nocchiero in gran tempesta (Purg. VI, 77)», come il 162 si
avvicina all'altro: «Che per mare e per terra batti l'ali (Inf. XXVI, 2)», e
come il 247 e i 261-262 ci fan ritornare il primo al doloroso «Ahi, dura
terra, perchè non t'apristi! (Inf. XXXIII, 66)», e i secondi a quel verso del
Paradiso (XXVII, 57) «O vendetta di Dio, perchè pur giaci?»
Crediamo più opportuno e più utile venire a raffronti di maggiore rilievo, come quelli che meglio possano dimostrarci lo studio che il Nostro
fece sulla Commedia, e la cura che pose nell'imitarla. Dante si smarrisce per una selva oscura e non sa ridire come siavi entrato: l'Autore
della Baronessa va in inferno per scura via e non sa dirne il dove e il
quando (v. 201-202). Dante infligge pene temporali ed eterne pe' peccatori, e gloria eterna dà ai giusti, perchè si propone la rigenerazione
morale dell'uomo: questo ancora è lo intendiamo del Poeta nostro nel
suo breve drama, e non vi impiegheremo altre parole dopo ciò che più
sopra abbiam detto. Notammo la relazione che passa tra la pena del frate
Alberigo e Branca d'Oria con quella del nostro frate spia; e la infocata
caldai, dov' e' sta, non è dissimile dagli avelli degli eresiarchi de' canti
IX-X dell'Inferno. I lussuriosi stanno nel fuoco, e un fiato ivi soffia in
continui turbi; e se questa è copia del tormento ideato dall'Alighieri colla
«bufera infernal che mai non resta, o fiato che gli spiriti mali mena di
qua, di là, di su, di giù (Inf. V)»; con più ragione il siciliano poeta dovea
informare la sua Caterina alla mirabile Francesca. L'una e l'altra per
erotico fallo cadono trucidate; l'una e l'altra appartengono a nobile famiglia, che ha ricoverato e soccorso il Cantore. Il popolo siciliano, col suo
acuto vedere, a diritto osserva che la sfortunata Baronessa non doveasi
collocar tra' dannati; «perchè pentita erasi ella, e inseguita dal barbaro
50
padre non chiede grazia per sè, ma un confessore»: e davvero che il
pentimento basta a' cattolici per la salvazione dell'anima. Ma al poeta
stava davanti agli occhi la figlia di Guido. Egli compiange Caterina sua
colonna; la chiama giglio e stella, innocente, benefica, buona; e le buone
genti invita a piangerla, a farle corteo funebre e rasciugarle la livida faccia, e far elemosina in suffragio dell'anima sua: il lutto per la morte di lei
va da un capo all'altro dell'Isola, cuopre ancor la natura: e nondimeno,
non appellandola mai giovane bensì donna1, la mette trai peccator carnali, perchè quivi sta la Francesca del suo Modello. Bisogna però confessare che questa ultima rimarrà mai sempre delicatissimo inarrivabile
quadro: come anche il Paolo che tace e piange è più poetico, forse, del
Vernagallo che ricorda alla sua bella ch'egli ha rinunziato al mondo per
l'eterno fuoco, solo per favellare e dirle ancora che l'ama.
E qui basti di imitazioni classiche e di raffronti: e, pria di venir ad altro, diciamo brevemente del metro e della musica della leggenda. Questa
componesi di ottave caudate, cioè seguite da due, quattro o sei versi
rimati a due a due, ossia a rima baciata, come sono appunto i rispetti
della Toscana. Il Vigo porta opinione che questo metro non sia siciliano:
io sostengo che loè, non quanto il sicilianissimo della canzona (cosa
nostra affatto), ma quanto gli altri metri d'Italia tutta, comunissimi anche tra noi. Esso tu trovi ugualmente in Piemonte, Lombardia, Venezia,
Umbria, Toscana, Romagna, Napolitano: in Sicilia è frequente i parecchi indovinelli, in qualche altra storia, come il Testamento del duca di
Palma, e in molte Orazioni sulla Passione di G. Cristo, la Orazione di S.
Giuseppe, quella di S. Antonio, quella di Santa Caterina, ec. E forse non
a caso presceglievasi dall'Autore il metro delle sacre composizioni.
Abbiamo innanzi accennato (pag. 14) che ogni storia ha musica sua
propria: ma tutte queste musiche diverse possono riunirsi in distinti gruppi, come fa il popolo stesso. Abbiamo la Capona o meglio la Caupona,
musica delle storie più comunemente ascoltate, o create anche, nelle taverne: difatti Caupona è derivata dal latino Caupo. C'è la Virdulidda,
musica delle leggende campagnuole, sollazzevoli e gaie come il verde
smaltato de' nostri colli. La Vuschittera accompagna le storie de' ladri e
banditi, soliti a menar vita ne' boschi. La Allazzarata è la tetra e malinconiosa delle storie di lutto e dolore, ed è la più espressiva e sentita di
tutte2. A quest'ultima apparterrebbe in certo qual modo la musica della
1
2
«La bella giovinetta ch'ora è donna». PETRARCA.
Allazzaratu deriva da Lazzaro della Scrittura, e vale piagato, doloroso; vale ancora oscuro, luttuoso, come quando diciamo celu allazzaratu il cielo coperto di scure nubi, e chiesa
51
Signora di Carini; ma a rigore, dobbiam confessare co' nostri popolani
che non può riferirsi nè applicarsi a niun'altra, perchè è tutta propria ed
esclusivamente di essa1. Io l'ho udita tre volte, da chi mi dettava i versi,
in Carini, in Terrasini, in palermo; è passionata, lamentosa, melanconica
molto; dolce qualche volta, tetra e paurosa verso la fine: musica che fa
piangere e tremare, e fa dirizzare i peli2. Come sarebbe diventata divina
in mano dell'immortale autor della Norma!
Commossi fortemente gli animi de' Siciliani dal nero delitto del
Baron Talamanca, sorta appena la mirabile poesia che lo narrava, fu
avidamente imparata in ogni angolo dell'Isola. E passò il faro, e giunse
nel Continente, dove pure trovò la simpatia del popolo, che volle farla
suo retaggio. Ma solo qualche brandello ne conservano oggi que' nostri
fratelli di terraferma: ed è ben degno di tutta la nostra attenzione questo,
che i luoghi puù conosciuti son quelli che descrivono la discesa all'inferno del giovane amante: il che riconferma assai bene ciò che il Tommaseo
annunziava, cioè «come le visioni de' regni oltremortali fossero tradizione profonda nel popolo, sì che Dante attingendovi, attingeva alle viscere
della credenza e dell'anima umana»3.
I versi 195 e segg. della nostra leggenda si ripetono in venezia come
espresso:
Diavolo grando, paron de l'inferno,
Fami 'na grazia che te la domando:
ed a Spoleto:
Diavolo, diavolo, in cortesia
Fammi vedere la galente mia,
Che giù a l'inferno ci verrò cantando:
E se l'amante mia mi fai vedere
L'anima mia ti voglio donare.
I versi 203 e segg. suonano in bocca de' Toscani così:
Sono stato all'inferno e son toranto:
1
2
3
52
allazzarata la chiesa parata a lutto. - Il VILLABIANCA (Opusc. palerm. vol. XIV, n. 3,
ms. Qq. E. 90) ricorda la Savochetta, musica oggi dimenticata dal popolo.
Vedi SCHIARIMENTI (C).
Vedi SCHIARIMENTI (B) e (C).
TOMMASEO, Canti popolari toscani, pag. 21.
Misericordia! la gente che c'era!
E c'era Lucibello incatenato,
Quando mi vedde, gran festa faceva...
V'era una stanza tutta alluminata,
E dentro v'era la speranza mia:
Quando mi vedde gran festa mi fece,
E poi mi disse: dolce anima mia,
Non t'arricordi del tempo passato
Quando tu mi dicevi, anima mia?...
Ora, mio caro ben, che m'hai baciato,
Di qui non isperar d'andarne via.
Più vicina all'originale è questa variante in Napoli:
Jette a lu 'nfiernu e nce fuje mannato;
Tanto ch'era chino non ce capea.
Giuda nce steva a 'na seggia assettato,
fece festino quando vidde a mea.
Intuorno intuorno nu fuoco allumato
Mienzo ce steva la galante mia;
Essa se vota: - Cane disperato,
Cheste so ppene che soffro pe tte.
- Cara diletta, io t'ho bene amata,
Sto core non pò stà senza di tte.
Questi versi, con qualche variazione, si cantano in Umbria, in Lecce,
in Napoli stesso, in Airola, in Piemonte: io non vo' andar per le lunghe, riportandoli: chi n'ha vaghezza può riscontrarli nel libro di Vittorio
Imbriani, di cui più sotto diremo1. Io voglio invece avvertire come questo frammento si ritrovi pur popolare fra' campagnuoli della Germania
(a cui lo tolse il Goethe per imitarlo nel Fausto), e si ritrovi anco in
Francia, cioè in Vernéville nel paese di Metz. In una ballata di questo
paese (La Damnée) l'Amante, perduta l'Amata, prega «la buona Vergine
Maria perchè gliela faccia rivedere». Egli non ha finito la sua preghiera,
che già la vede e le parla: «Oh la mia bella, la mia bella, dove sei stata
che hai così tramutato il viso?» Essa risponde:
1
Dell'Organismo poetico e della poesia popolare italiana, sunto delle lezioni dettate ne'
mesi di febbraio e marzo MDCCCLXV nella R. Università di Napoli da VITTORIO
IMBRIANI. Napoli, 1866.
53
Ce sont les diables et les enfers
Qui ont ainsi rongé mes membres,
Et cela pur un maudit péché
Que nous avons commis ensemble.
In altro canto di Normandia un Pietro dice alla sua cara:
- Reveill' ous, Jeanne, si vous dormez.
- Non, je ne dors, né ne sommeille
Je sis dans l'enfer à brûler.
Auprés de moi reste un place
C'est pour vous, Pierre, qu' on l'a gardée1.
Un altro frammento della storia di Caterina (v. 167-194) ha fatto
anch'esso il giro d'Italia, ed ha preso qualche modificazione, com'è ben
naturale, secondo i luoghi dove si è fermato: ma la fisonomia sua prima
non l'ha mai perduto. Ecco in Napoli:
Fenesta che lucive e mo non luce,
Segno è che nenna mia stace malata.
S'affaccia la sorella e che mme dice!
- Nennella toja è morta e s'è atterrata!
Chiangeva sempre che dormeva sola,
Mo dorme cu li muorti accompagnata...
Jate a la Chiesia e la vedite pure;
Aprite lo tavuto, e che trovate!
Da chella vocca che n' asceano sciure
Mo n' esceno li vierme, o che pietate!
Udiamola ora cantata a Spoleto, e quindi in Toscana:
1
54
Passo e ripasso, la finestra è chiusa,
Vederla non poss'io l'innamorata.
S'affaccia la sua mamma addolorata:
- Quella che cerchi tu, l'è sotterrata.
Se non lo credi va a Santa Maria,
Chants populaires recueillis dans le Pays Messin mis en ordre et annotés par le Cte. TH.
DE PUYMAIGHE. Metz, 1865.
Che lì la troverai la sventurata;
Apri la lapide della sepoltura,
Tutta dai vermi la vedrai mangiata.
- O sagrestano mio, famme 'na cura,
Mettemece una lampana appicciata...
Finestra che splendevi ed or se' oscura,
Lo vedi, l'amor mio diace malato.
Si affaccia la sorella e m'assicura
Che il mio bene è già morto e sotterrato.
Sempre piangeva che sola dormiva,
Or se ne sta co' morti in comitiva.
Senti, Pasqualin mio, àbbici cura,
Accendi il lume a quella sepoltura...
Vado di notte come va la luna,
Vado cercando lo mio 'nnamorato;
E ritrovai la morte acerba e dura,
Mi disse: Non cercar, l'ho sotterrato!
Con qualche altra differenza si ripetono questi versi medesimi in
Arpino, Napoli, Lanciano, Spoleto, Umbria, Piceno, Arnesano, Caballino,
gessopalena, e l'Imbriani ebbe cura di registrarli tutti nel libro suo1. E in
questo ancora troviamo i versi seguenti, di Napoli i primi, di Lanciano i
secondi, i quali non sono che i versi 233-238 della nostra leggenda:
A nu deserto me ne voglio ire,
Erba mancianno com' a n'animale.
Tirato me ne vado a 'no deserto,
Pascendo l'erba come un animale;
Sopra le spine formerò il mio letto,
'Na pietra metterò per capezzale;
L'altra mi sbatto tante volte al petto
Infin che l'occhi mii so' do' fontane.
Qualche altro verso della leggenda ho trovato in questo e in quel can1
La variante di Gessopalena si trova in altro opuscolo dell'IMBRIANI stesso, Per le fauste
nozze di donna Ottilia Wagener-Heyroth col nobile Carlo Ajassa di Rombello. Firenze,
Barbèra, 1869.
55
to popolare delle varie provincie italiane; ma lunghi frammenti no: e
io mi auguro che, pubblicata or quasi intera questa poesia, gli egregi
raccoglitori di versi del popolo del Continente avessero a trovare ad essa
novelli riscontri, che valessero a viepiù dimostrarla diffusa in Italia.
E qui mi si permetta una brevissima digressione. Il prof. Vittorio
Imbriani, che accuratamente viene studiando la popolar poesia di
tutt'i dialetti della Penisola, trovando comuni a molti paesi i versi della
Baronessa da noi citati, e trovando altre due otave di un poemetto del
5001 fatte popolari in Toscana; immaginò tosto una origine nuova per
la massima parte de' canti del popolo, e scrisse: «Gl'Italiani, come ogni
popolo, ebbero un'epopea popolare. Ma a mano a mano che moriva nel
popolo il contenuto epico, si obliterava dalla sua memoria anche tutta
la parte puramente narrativa de' canti; i brani lirici invece che meglio
rispondevano alla mutata coscienza nazionale rimasero, si enuclearono,
ai rimpolparono, e divvennero tante poesie per sè, e sono quelle che i
nostri compagnuoli, i nostri famigliari, noi stessi tuttodì canterelliamo2».
Non è qui il luogo di discorrere delle vere origini della popolar poesia, e
a me basta su ciò di rimandare il lettore ai libri di chi ha raccolto canti
popolari, e al bellissimo Studio critico su quelli del popolo siciliano del
mio amico Pitrè3: io vo' solamente osservare che nulla provano le due
ottave del Paris e Vienna popolari in Toscana; perchè popolari furon
pur ivi, come sulla veneta Laguna, le ottave della Gerusalemme, senzachè niuno ne avesse tirato la conseguenza dell'Imbriani. Ma questi
vuole appoggiare più la sua idea, annunziando che la maggior copia dei
canti popolari ci viene da un antico poema il Vernagallo, che si conserva manoscritto nella Biblioteca di Palermo, e del quale (dice) «non
conosco che pochi frammenti. N' è tema la storia de' felici ma sfortunati
amori fra la figliuola di Pietro La Grua Talamanca signor di Carini con
Vincenzo Vernagallo barone di Asturi; la ragazza fu uccisa dal padre
il 4 decembre 1563. Almeno così dice Lionardo Vigo: io ci ho le mie
difficoltà, e credo che il fatto a cui si allude nel poema sia più antico assai, quantunque il poema abbia potuto essere rifatto e riportato a nuovo
e consimile argomento (pag. 156-157)». Così il professore napoletano
vorrebbe che il Vernagallo rimontasse «per lo meno, al decimoterzo se1
2
3
56
Innamoramento di due fedelissimi amanti Paris e Vienna, composto in 8ª rima dal Pastore
Poeta e nuovamente corretto.
IMBRIANI, Dell'organismo poetico, ec. pag. 150.
Sui canti popolri Siciliani, studio critico di GIUSEPPE PITRÈ. Palermo, tipografia del
Giornale di Sicilia, 1868.
colo (pag. 178)». Non occorre qui dire che nella palermitana biblioteca
non ha mai esistito il manoscritto supposto dall'Imbriani. Tuttociò che in
essa per diuturne ricerche rinvenni su Caterina La Grua, l'ho riportato
più avanti. Il sig. Imbriani, dopo le nostre illustrazioni e i nostri documenti, non dirà più che ci ha le sue difficoltà: e pare lo abbia già detto
(dopo la lettura del libro del Pitrè, che pur tocca di questa sua opinione)1,
allorchè, parlando di un giovane veneto, che senza discutere faceva sua
e ammetteva come certa la non provata teoria2, scrisse egli stesso nella Nuova Antologia di Firenze3: «Questo concetto... non può tuttavia
considerarsi come un punto assodato dalla critica, anzi rimarrà pur
troppo una felice ipotesi». Del resto abbiamo innanzi provato che nè i
Talamanca, nè i Vernagallo eran venuti in Sicilia nel XIII secolo, e lo
stesso castello di Carini non fu fabbricato che pochi anni prima del 1400
da Manfredo Chiaramonte. Che poi il poema fosse antico e «riportato a
nuovo e consimile argomento», sol perchè «nel 500 la fantasia italiana
non si occupava più di discese agl'inferni (pag. 178)», noi non sappiamo
immaginarlo; perocchè le cronache e le storie siciliane non ci forniscono
un orrendo fatto simile a quello della Caterina, veramente unico: oltre di
che tanto meno puossi dire imitazione o rifacimento la squisita e impareggiabile leggenda, quanto più si ha idea chiara di ciò che originale e
copia importi. Quanto al dubbio poi sulla discesa all'inferno, che dirà il
critico napoletano se gli faccio sapere che in pieno secolo decimonono
il popolo di Sicilia, nella Storia di Paolo Cocuzza, ha immaginato una
visita ai regni di Lucifero, perchè il celebre bandito fosse ammaestrato dagli antichi banditi e ricevesse un amuleto che valesse a renderlo
invulnerabile?
La digressione è stata lunghetta, e ne chiediamo scusa: ci è d'uopo
tornare ancora per poco alla nostra leggenda. Questa ha un numero infinito di varianti che, tutte raccolte, sono di più ch'essa stessa. Il principio è uniforme in tutta Sicilia, col solo mutamento di Siragusa (v. 1) in
Murriati, Favarotta, Partinicu o in altri paesi, secondo la patria di chi la
ripete: perchè, collo stesso disio con cui ciascuno vorrebbe esser stimato
autore di sì bella poesia4, ama che in essa il suo paese natio venisse ri1
Opera cit., pag. 114 e segg.
3
Vol. IX, pag. 628, fascicolo di novembre 1868.
2
4
BINDONI STEFANO, Sulla poesia popolare italiana, memoria letta nella Sala della
Società Ugo Foscolo in Venezia. Treviso, 1868, pag. 31.
Parecchie persone del popolo, dettandomi i versi della Baronessa, sono uscite in questa
espressione nè più nè meno: Beato chi ha saputo mettere in rima questa poesia degli
57
cordato. Solo in una variante fornitami dal Vigo1 il poemetto comincia
in modo affatto diverso:
Una, li dui, li pochi palori;
Palazzu fabbrucatu a menzu mari;
E la bella Signura di Carini ec.
Chi sa che questi versi non sieno principio di altra leggenda! ed io forte ne dubito. - In Acireale e Catania, secondo varianti dello stesso Vigo,
i versi 215-220 cedono il posto a questi otto, dove l'amorosa passione è
più stemperata, ma che pur sono belli e spontanei:
Chi mégghiu nun t'avissi amatu mai,
E la mè vucca 'un t'avissi parratu!
Nun l'avissi patutu tanti guaj,
Mancu li patiria chisti ca patu.
- Tu ha' statu la mè amanti e tu sarai,
Chidda chi m' ha' tinutu 'ncatinatu;
Apri lu pettu ca ci truvirai
Lu bellu nomu tò dintra stampatu.
Altre molte varianti di uno o più versi riunisco dopo la leggenda, ed
ho scelto solamente le più importanti.
Non possiamo a questo punto non accennare, almeno di volo, alle
imitazioni innumerevoli che nelle sue canzone ha fatto il popolo de' versi
della Baronessa. Basta scorrere la raccolta de' Canti popolari del Vigo,
o la mia Aggiunta ad essi, o quella che vien pubblicando il Pitrè2, per
convincersi di ciò. Ma quel che più monta si è, che in più d'una leggenda
trovi stanze intere della nostra; come avviene, ad es., nella Donna di
Calatafimi, nel Marinaro di Capo Feto, nella Passione di Cristo. In
Terrasini ho sentito modulare il seguente stornello:
1
2
58
angeli!
LIONARDO VIGO, ch'io venero con cordialissimo affetto, e che con tanta brama ha
affrettato la pubblicazione di questa leggenda, oltre alle varianti inedite, che riporto nel
testo, me ne ha fornito delle altre, che ho messo colle compagne dopo la leggenda: e a lui
debbo ancora di questa i versi 13-20. Con qual cuore io me gli tenga obbligato di tante
amorose gentilezze egli sel sa, che mi conosce: onde non mi resta da aggiungere cosa.
Canti popolari siciliani inediti, preceduti da uno studio critico e seguiti dalle melodie
popolari, per GIUSEPPE PITRÈ. Palermo, Pedone-Lauriel editore, 1870: vol. due.
Oh luna, luna!
Sulidda mi lassau la bella Tina,
Ora la sepultura nn'è patruna!
stornello che, mentre da un lato contiene il nome di Caterina (Tina),
dall'altro ha nel terzo verso un'immagine ch'è propria della nostra leggenda. E tal immagine trovi pur in una graziosa leggenduola, che piange
la morte di bella e innamorata giovane, e che, lettala, diresti affatto ricalcata sopra la nostra; tanta somiglianza di espressioni e di sentimento
ha con essa. Essendo troppo lunga per inserirla qui, la diamo in fine, tra
gli SCHIARIMENTI (D).
Ma la storia di Caterina La Grua, così com'io la stampo è completa?
Tre anni di faticose, pazienti ed accurate ricerche in più di cinquanta nostri Comuni, e nelle biblioteche di Palermo, Carini, ec.; ricerche
agevolatemi assai da parecchi egregi letterati e amici carissimi dell'Isola1, mi han dato di poter mettere assieme 262 versi di sì nobile composizione poetica. Ma pur troppo! un'altra cinquantina di versi, almeno,
mancherebbero a completarla. Ne ho qualcuno staccato, qualche altro
dimezzato: ma non dicono nulla, così senza altri compagni: onde me ne
rammarico, e richiamo sovente al pensiero le cause che maggiormente
concorsero alla loro dispersione. A due possiamo ridurle: 1° il dievieto
che i Signori di Carini imponevano colla loro potenza di cantare e perpetuare la terribile storia; 2° il ribrezzo che il popolo stesso risente nel
ripetere alcuni squarci di essa. E di questo posso far fede io, che molte
donzelle mormoravano di mala voglia, dopo mie istanze, i versi dove si
pinge la Caterina in inferno, per la sola ragione di non voler crescer pesi
a quella sventurata anima, a torto confinata nel fuoco eterno. - Quanto
alla 1ª causa, dopo ciò che sul Barone Pietro si è detto, è facile comprender come specialmente in Carini e dintorni nessuno osasse cantar
all'aperta questa poesia. Il divieto durò fino al secolo presente: e mentre
io rimando i lettori agli SCHIARIMENTI (C), vo' ricordare un aneddo1
Nomino a cagione di gratitudine affettuosa gli egregi Prof. V. DI GIOVANNI e U. AMICO
che molto hanno aiutato le mie fatiche colla loro dottrina; il mio GIUSEPPE PITRÈ,
che con instancabile cura ha raccolto per me vari frammenti; l'ab. GIOACCHINO DI
MARZO, e l'avvocato FRANCESCO MAGGIORE-PERNI; il sac. G. BADALAMENTI,
il prof. G. B. SIRAGUSA, il sig. BENEDETTO RUSSO, e il sig. PIETRO GIUFFRÈ. Dei
brani di leggenda pubblicati dal VIGO nella prefazione a' suoi Canti popolari (§ 2) ho fatto tesoro, e si trovano al posto che loro apparteneva: così ancora degli otto versi (167-174)
che il bravo prof. LETTERIO LIZIO-BRUNO pubblicò ne' suoi Canti scelti del popolo
siciliano, posti in versi italiani ed illustrati; Messina, 1867.
59
to sul proposito. - Un vecchio carinese, abitante in Palermo, dettando al
Pitrè qualche stanza delle leggenda, che giovinetto aveva imparata dal
padre, usciva in queste precise parole: - Mio padre era celebre cantore,
e sapeva le storie a migliaia. Una volta, io era su' dieci anni e appena
ci penso, molti nobili cavalieri vennero di Palermo col Principe, per
divertirsi al Castello, e fecero chiamare mio padre perchè cantasse.
Egli cantò molte cose; e vedendosi lodato molto, volle cantare la più
bella poesia che sapesse, quella della Baronessa. Ma non appena cominciò il canto, il principe si turbò in viso, e con voce alterata, mettendogli in mano dieci scudi, lo licenziò, dicendo ch'eran sufficienti le cose
cantate.
Pur in Carini stessa la leggenda cantavasi sempre, ma con qualche
timore, e di nascosto1: ragione, forse, per cui si sanno in esso Comune
meno versi che negli altri circonvicini. In questi al contrario, come in
Borgetto, si cantava solennemente nelle numerose serenate, e il cantore
non se ne la faceva pagare a mite prezzo2. E tuttavolta io non l'ho potuto
completare; e piangerò sempre un episodio, ch'è forse il più poetico e sublime, e che, non ricordandone i versi niuno, raccontasi in efficacissima
prosa, ch'io vedrò di ritrarre il meglio possibile.
Il Poeta descrive sulla fine il Turco spietato, l'assassino padre, martoriato da' rimorsi che non gli dan tregua nè dì nè notte, a tal segno da
fargli invocare un pietoso fulmine, un pietoso coltello che notturno gli
spezzi il cuore nel letto, poi che questo è duro campo di battaglia per
lui (v. 245-250). Ma alfine ha chiuse le palpebre un momento. - Ecco, e'
sogna; e pargli di venire al Castello, come a' tempi de' suoi lieti giorni,
e di cercare indarno per le vôte sale le dlette viscere sue, la Caterina.
Tutto è silenzio. Una pallida vecchia, senza muovere labbro, gli addita
una stanza (la stanza del delitto); ed egli va dentro. Bianca coltre ricopre
un letto da capo a piè, e la figura di corpo umano. Ei chiama, e nessuno
risponde: alza colla sinistra un lembo della coltre, e la destra introduce
sott'essa per iscuotere la dormente. Oh terrore! E' la ritira di fumente
sangue imbrattata, d'un sangue che brucia fieramente; e quel fuoco si
propaga per tutte le vene, pel cuore, - e lo consuma d'un tratto! - Sogno
terribile, figlio dell'incessante rimorso che gli rode l'anima come l'avvoltojo di Prometeo!3.
1
Vedi SCHIARIMENTI (C).
3
A questo sogno accenna il RUSSO (SCHIARIMENTI (B)); dunque al 1828 non eran
periti i versi che lo narravano: io n'ho trovati due soli in Borgetto, e dicono della pallida
2
60
Vedi SCHIARIMENTI (B).
III.
Ed ora che abbiamo attinto la fine delle nostre ricerche1, comprende
agevolmente ciascuno qual tesoro di poesia e di affetti ci erano fino a
qui nascosti colla nostra leggenda. A questa può con profitto ricorrere
il poeta, come romanziere e l'autore drammatico. E quanti altri tesori
non ci sono palesi, sol perchè obliando e spregiando le nostre, per ardente sete di novità appressiamo i labbri alle fonti straniere! A quasta
classica Terra nostra, mestra ed emula di Grecia in civiltà, vincitrice di
Atene e Cartagine, e sol vinta da Roma, ma gloriosa cadendo col divino
Archimede; a questa Terra, grande eziandio nell'abisso della sventura,
ingiuriata e dileggiata da chi è nato pur ieri; molti serti sono stati strappati dal furore, o dall'insania, o dall'invidia dell'uomo. A noi incombe un
sacro dovere, di conoscer noi stessi e le cose nostre, e farle conoscere;
di raccogliere le gloriose corone degli avi, e ridar loro lo splendore che
affoscato era dall'oblio. Noi abbiamo usi e costumanze e tradizioni poco
studiati, abbiamo glorie ignote da portare alla luce tutto a documento
prezioso di storia. Il popolo nostro è stato negletto e così i suoi sentimenti, le sue passioni, la sua poesia. «E avanzi di vecchie canzoni, e racconti
popolari, e motti, e proverbî, ogni cosa gioverebbe raccogliere, a ogni
cosa dar ordine e luce; peerchè ogni cosa si collega con pensieri importanti, con immagini allegre e desiderabili, con nobili affetti, che solo un
ingegno istupidito dall'orgoglio della gelida scienza potrebbe avere in
disprezzo»2.
Questi studî sono men che bambini fra noi, e poco in onore tenuti. In
Isvezia, sotto gli auspicî e gl'incoraggiamenti della Regina, fin dal 1503
fu pubblicato un volume di canti popolari svedesi. Gli Spagnuoli segnan
col 1667 la prima raccolta della lor poesia popolare: di poco posteriori la
vecchia
Dda strja giarna ca nun pari viva
Stenni la manu ca tutta cci trema.
1
2
Non parlo della ortografia da me adottata, perchè è la stessa che adottai ne' Canti popolari,
e nella prefazione ad essi giustificati. Ho serbato rigorosamente la pronunzia di certe parole; cosicchè troverai beddu e bellu, Vernagaddu e Vernagallu, àrbulu ed àrvulu, sbintura
e svintura, bucca e vucca, manciari e mangiari ec., perchè dalla modificazione di esse
il popolo trae partito di squisitezza di armonia ritmica: e l'arte del popolo non la cede a
quella de' dotti.
TOMMASEO, Canti popolari toscani, pag. 25.
61
raccolsero e studiarono gli Allemanni. In Francia è il governo stesso che
promuove la raccolta de' canti tradizionali della nazione, e ne incarica
i migliori ingegni di una celebre accademia parigina, e contribuisce co'
fondi della Pubblica Istruzione. Il Villemarquè, pe' suoi lavori su' canti
popolari bretoni, fu nominato membro dell'Istituto di Francia!
A me fa difetto l'ingegno, e la salute; a me altri studî di scienza vietano di continuare alacremente e profondamente un genere di studî che
richiede molto tempo, molta fatica, e molti mezzi. Ho fatto ciò ch'era in
poter mio; e se male ho fatto, non si scordi che anche il far male costa
travaglio. Altri verrà, e impiegherà meglio le forze della sua mente: ed io
ho fede nella gioventù ch'ora sorge forte d'animo e ardita di cuore, e che
presto, non ne dubito, smetterà indegnata le nocevoli ed esaltate passioni
di setta, i clamori di piazza, la cieca ammirazione e pretesi colossi con
piedistallo di creta, la troppa bramosia d'affollarsi alla vita, le scomposte
ambizioni: e tornerà così a rinnovellare l'intelletto ed il sentimento alle
caste, virtuose e pure fonti nostrane, che diedero gloria universale ed
eterna alla Patria ed ai nostri magnanimi progenitori.
62
LA BARONESSA DI CARINI
63
64
Chianci Palermu, chianci Siragusa1,
Carini2 cc' è lu luttu ad ogni casa;
Cu' la purtau sta nova dulurusa
Mai paci pozz'aviri a la sò casa.
haju la menti mia tantu cunfusa,
Lu cori abbunna3, lu sangu stravasa;
Vurria 'na canzunedda rispittusa,
Chiancissi la culonna a la mè casa:
La mégghiu stidda chi rideva 'n celu,
Arma senza cappottu e senza velu;
10
La mégghiu stidda di li sarafini,
Póvira Barunissa di Carini!
Ucchiuzzi fini di vermi manciati,
Ca sutta terra vurvicati siti,
D'amici e di parenti abbannunati,
Di lu mè amuri parrati e diciti.
Pinsati a idda4, e chhiù nun la turbati,
Ca un jornu comu è idda cci sariti;
Facítini limósina e caritati,
Ca un jornu avanti vi la truvuriti5.
1
2
3
4
5
5
15
20
Cioè piange Sicilia tutta, rappresentata da Palermo e Siragusa, due città che sono a due
estremi di essa.
In carini. L'in frequentemente, in simili casi, elidesi dal popolo. Così pure in Toscana,
quando dicono: «Roma facesti la prima posata» e «Mezzo Stazzana ha fatto la fermata»
ec. V. TIGRI, Canti pop.
Espressione forte e fisiologicamente vera, giacchè nei sentiti dolori il sangue dalla periferia affluisce al centro, o, in altri termini, viene ad abbondar il cuore.
Pensate a lei. Sott. il vocativo, o genti, o cittadini, ecc.
Che un dì vi sarà compensata; cioè da Dio.
65
Ciumi, muntagni, árvuli, chianciti;
Suli cu luna, cchiù nun affacciati;
La bella Barunissa chi pirditi
Vi li dava li räj 'nnammurati:
Acidduzzi di l'ária, chi vuliti?
La vostra gioja 'nútili circati:
Varcuzzi chi a sti praj lenti viniti,
Li viliddi spincitíli alluttati!
Ed alluttati cu li lutti scuri
Ca morsi la Signura di l'amuri.
Amuri, Amuri, chiánciti la sditta,
Ddu gran curuzzu cchiù nun t'arrisetta;
Dd'ucchiuzzi, dda vuccuzza biniditta,
Oh Diu! ca mancu l'úmmira nni resta!
Ma cc' è lu sangu chi grida vinnitta
Russu a lu muru, e vinnitta nn'aspetta:
E cc' è cu' veni cu pedi di chiummu1,
Chiddu chi sulu cuverna lu munnu;
E cc' è cu' veni cu lentu caminu,
Ti junci sempri, ärma di Cainu!
..................................................................
Lu Vernagallu, beddu cavaleri,
Di Carini a la figghia2 fa l'amuri,
Ma cchiù chi cci usa modi 'nnammureri,
- Pri mia fora (idda dici) Don Asturi. Iddu la voli in tutti li maneri,
Cci va d'appressu e la 'nvita a l'amuri,
E, currennu a la fini da livreri,
La junci, e tuttidui dícinu: Amuri!
Stu ciuriddu nascíu cu l'áutri ciuri,
Spampinava di marzu a pocu a pocu;
Aprili e maju nni gudiu l'oduri,
Cu lu suli di giugnu pigghiau focu:
E di tutt'uri e nun cunsuma;
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Dio viene con piè di piombo, ma sempre, benchè tardi alle volte, ci coglie. Un prov.: Diu
ha pedi di chiummu, ma a tutti nni arriva.
La figlia di Carini, cioè del Baron di Carini. È noto che i nobili prendano anche a cognome
il titolo de' loro feudi: così a' versi 44 e 163 il Vernagallo è appellato Don Asturi dal suo
feudo di tal nome.
Stu gran focu a du' cori duna vita,
Li tira appressu comu calamita.
Chi vita duci, ca nudda la vinci,
Gudírilia a lu culmu di na rota!
Lu suli di lu celu passa e 'mpinci,
Li räj a li du' amanti fannu rota:
'Na catinedda li curuzzi strinci,
Báttinu tuttidui supra 'na mota;
E la Filicità chi li dipinci
Attornu attornu di oru e di rosa.
Ma l'oru fa la 'nvidia di centu,
La rosa è bella e frisca pr'un mumentu;
L'oru a stu munnu è 'na scuma di mari,
Sicca la rosa e spampinata cadi.
Lu Baruni di caccia avia turnatu:
- Mi sentu straccu, vógghiu arripusari. -
Quannu a la porta si cci ha prisintatu
Un munacheddu, e cci voli parrari.
Tutta la notti 'nsémmula hannu statu;
La cunfidenza, longa l'hannu a fari...
Gesù-Maria! chi áriu trubbatu!
Chistu di la timpesta è lu signali...
Lu munacheddu nisceva e ridía1,
E lu Baruni susu sdillinía:
Di núvuli la luna s'ammugghiau,
Lu jacobu cuculla e sbulazzau.
Afferra lu Baruni spata e ermu:
- Vola, cavaddu, fora di Palermu!
Prestu, fidili, binchì notti sia,
Viniti a la mè spadda in cumpagnia. 'Ncarnatedda calava la chiaría
Supra la schina d'Ustrica a lu mari;
La rininedda vola e ciuciulía,
E s'áusa pri lu suli salutari;
Ma lu spriveri cci rumpi la via,
L'ugnidda si li voli pilliccari!
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Ecco il riso fratesco, il riso mefistofelico di chi non cape nei panni per aver finalmente
potuto nuocere al suo odiato. Riso terribile qui, messo a lato al furente delirio del Barone
Talamanca.
67
Timida a lu sò nidu s'agnunía,
A mala pena ca si pò sarvari.
Simíli scantu e simíli tirruri
Happi la Barunisa di Carini:
Era affacciata nni lu sò barcuni
Chi si pigghiava li spassi e piaciri;
L'occhi a lu celu e la menti a l'Amuri
Términi 'stremu di li so' disj.
- Vju viniri 'na cavalleria;
Chistu è mè patri chi veni pri mia!
Vju viniri 'na cavallarizza;
Forsi è mè patri chi mi veni ammazza1!...
- Signuri patri, chi vinistu2 a fari?
- Signura figghia, vi vegnu a 'mmazzari.
- Signuri patri, aspittátimi un pocu
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Quantu mi chiamu lu mè cunfissuri.
- Havi tant'anni ch' 'un t'ha cunfissatu,
Ed ora vai circannu cunfissuri?!
Chista 'un è ura di cunfissiuni
E mancu di ricíviri Signuri. -
E, comu dici st'amari palori,
Tira la spata e cássaci lu cori.
- Tira, cumpagnu miu3, nun la garrari
L'appressu corpu chi cci hai da tirari! Lu primu corpu la donna cadiu,
L'appressu corpu la donna muriu;
Lu primu corpu l'happi 'ntra li rini,
L'appressu cci spaccau curuzzu e vini!
Curriti tutti, genti di Carini,
Ora ch'è morta la vostra Signura, Mortu lu gígghiu chi ciuríu a Carini,
Nn' havi curpanza un cani tradituri4.
Curriti tutti, mónaci e parrini,
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Mi veni a ammazza, mi viene ad ammazzare: forma uguale a quella de'Toscani: vallo a
ipara, vallo a piglia ec.
Veniste: simile al venistù della comune lingua d'Italia.
Parla il padre stesso a un suo fidato che solo, de' seguaci, era salito con lui nelle stanze
superiori del Castello.
Questo cane traditore è il monacello che la fece la spia.
Purtativilla 'nsemi in sepultura:
Curriti tutti, pirsuneddi boni,
Purtativilla in gran pricissioni;
Curriti tutti cu 'na tuvagghiedda
E cci stujati la facciuzza bedda,
Curriti tutti cu 'na tuvagghiola
E cci stujati la facciuzza azzola!
La nova allura a lu Palazzu1 jìu:
La nunna cadiu 'n terra e strangusciau,
Li so' suruzzi capiddi 'un avíanu2,
La sò matruzza dil'occhi annurvau:
Siccaru li galófari a li grasti,
Súlitu ch'arristaru li finestri3;
Lu gaddu, chi cantava, 'un canta cchiui,
Va sbattennu l'aluzzi e si nni fuj.
Eu nun ti potti di ciuri parari,
Eu nun la vitti cchiù la tò fazzuni;
Mi nesci l'arma, nun pozzu ciatari
Supra la tò balata addinucchiuni.
Poviru 'ncegnu miu, méttiti l'ali,
Dipíncimi stu níuru duluri;
Pri li me' larmi scriviri e nutari
Vurria la menti di re Salamuni.
E comu Salamuni la vurria
Ca a funnu mi purtau la Sorti mia;
La mè varcuzza fora portu resta
Senza pilotu 'mmenzu la timpesta;
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La mè varcuzza resta fora portu,
La vila rutta e lu pilotu mortu.
Oh dógghia amara di dd'arma 'nfilici
Quann' 'un si vitti di nuddu ajutari!
Abbauttuta circava l'amici,
Di sala in sala si vulia sarvari:
Gridava forti: - Ajutu, Carinisi!
Ajutu, ajutu! mi voli scannari! 1
Al palazzo di Palermo del Barone, ov'era la madre.
3
Le sole finestre, prive di vita, non dier segno del doloroso lutto!
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Non avevano più capelli da strapparsi.
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Dissi arraggiata: - Cani carinisi! L'ultima vuci chi putissi fari.
Tutta Cicília s'ha misu a rumuri,
Stu Casu pri lu Regnu batti l'ali;
Ma vòta quannu vidi a Don Asturi:
- Stu corpu 'n pettu cu' cci l'havi a dari?
Filía di notti1, e l'occhi a lu barcuni,
Cci vinni lu silénziu ad abitari!
- Su' chiusi li finestri, amuri mia2!
Dunna affaccaiava la mè Dia adurata3;
Cchiù nun s'affácia no comu sulia,
Vol diri chi 'ntra lu lettu è malata.
'Ffáccia4 sò mamma e dici: Amuri a tia!
La bella chi tu cerchi è suttirrata! Oh sipultura chi all'ómini attassi,
Comu attassasti la pirsuna mia!
Vaju di notti comu va la luna,
Vaju circannu la galanti mia;
Pri strata mi scuntrau la Morti scura,
Senz'occhi e bucca parava e vidia,
E mi dissi: - Unni vai, bella figura?
- Cercu a cu' tantu beni mi vulia, Vaju circannu la mè 'nnammurata.
- Nun la circari cchiù, ch' è suttirrata!
E si nun cridi a mia, bella figura,
Vattinni a San Franciscu a la Biata5,
Spinci la cciáppa di la sepultura, Ddà la trovi di vermi arrusicata;
Lu surci cci manciau la bella gula
Dunni luceva la bella cinnaca...-
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1
Si sottintende il soggetto, ch'è Vernagallo o Don Asturi.
3
Il Lizio-Bruno scrisse qui adurnata, con evidente errore forse di chi gli dettò i versi. Non
dico che adurnata non potrebbe stare, ma è men semplice, meno spontanea, e dice assai
meno di adurata.
2
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Parla lo sventurato amante, e continua fino a tutto il verso 222.
'Ffaccia per affaccia: elisione frequente anche dra' Toscani, nei Canti popolari de' quali
leggiamo: «Viso di nobiltà 'ffacciati fuora, - 'Ffacciati fuora, se le vuoi contare».
Alla chiesa di S. Francesco ov'è la Beata Vergine.
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- Sagristanu, ti preju un quartu d'ura1
Quantu cci calu 'na tórcia addumata;
Sagristaneddu, tenimilla a cura,
Nun cci lassari la lampa astutata,
Ca si spagnava di dormiri sula
Ed ora di li morti accumpagnata!
.............................................................,
Diávulu, ti preju in curtisia,
Fammi 'na grázia ca ti la dumannu,
Fammi parrari cu l'amanti mia,
Doppu a lu 'nfernu mi restu cantannu.
Lu Serpi2 chi passava e mi sintia:
- Cavárcami ca sugnu a tò cumannu.-
Hàmu spirutu pri 'na scura via,
Nun sácciu diri lu unni e lu quannu.
Jìvi a lu 'nfernu, o mai cci avissi andatu!
Quant'era chinu, mancu cci capía!
E trovu a Giuda3 a 'na séggia assittatu
Cu un libru a li manu chi liggía4;
Era dintra un quadaru assai 'nfucatu
E li carnizzi fini s 'arrustía!
Quannu mi vitti la manu ha allungatu
E cu la faccia cera mi facía5 ...
Ma attornu attornu lu focu addumatu
E 'n menzu la mè amanti chi s'ardia;
E nun cci abbasta ca mina lu ciatu
E di cuntinu mazzamariddía6.
Idda mi dissi: - Cori sciliratu,
Chisti su' peni chi patu pri tia;
Tannu la porta t'avissi firmatu
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Ti prego di accordarmi un quarto d'ora.
Nella S. Scrittura sivente è chiamato Serpe il Diavolo: e pur con questo nome si designa in
varie nostre sacre leggende, come in quella di S. Cristofaro, nelle Parti della Confessione, ec.
Giuda, il solito cane traditore di monaco.
Forse gli Evangeli? dove le parole di Dio inculcano amore pel prossimo, e gradano eterna
maledizione al traditore? Quanta ironia!
Stende la farisaica mano al giovane e gli sorride, credendo lo avesse a compagno di pene: la
maligna gioia dell'anima trista la esterna anche in inferno! Quel far cera col volto è un'espressione dantesca (Inf. XXIII, 82-83): «Vidi duo mostrar gran fretta Dell'animo col viso».
Cioè, a rinfrescarla non è bastevole il vento che continuo soffia qivi a guisa di turbo.
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Quannu ti dissi: trasi, armuzza mia! Ed eu rispusi: - Si 'un t'avissi amatu,
Mortu nun fora lu munnu pri mia1!
220
Apri stu pettu e cci trovi stampatu
Lu bellu nomi di Titidda mia.................................................................
Li guaj sunnu assai2, lu tempu è curtu;
Chi cci dimuri? Vótaci cu Cristu:
Li sónnura, ca scrópinu lu tuttu,
Lu zoccu havi a succédiri hannu dittu.
Lu beddu Vernagallu, com' è struttu!
A 'n 'agnuni di crésia l'haju vistu;
Séntiri si lu vòi lu sò lamentu,
Affrittu cori, ca nun havi abbentu!
Lu sò lamentu si lu vò' sintiri,
Affrittu cori, cu' lu pò suffriri?
- Mi nni vógghi'jiri addabbanna un disertu,
Erva mangiari comu l'animali,
Spini puncenti fárimi lu lettu,
Li petri di la via pri capizzali;
Pigghiu 'na cuti e mi battu lu pettu
Fina chi l'occhi mia fannu funtani.................................................................
Casteddu, ca lu nomu l'ha pirdutu,
Ti vju d'arrassu e fuju spavintatu;
Si' misu a lista di capu-sbannatu
Ca cci vennu li spirdi e si' muratu!
Chiancinu li to' mura e fannu vutu,
Chiánci e fa vutu ddu Turcu spiatatu!
Ddu Turcu spïatatu 'un dormi un'ura
E gastima lu celu e la natura:
- Apriti, celu, ed agghiúttimi, terra,
Fúlmini chi m'avvampa e chi m'atterra!
Strazzátimi stu cori di lu pettu,
Cutiddata di notti 'ntra lu lettu3!
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Perchè per venirle a parlare avea giurato al Diavolo che si rimarrebbe sempre in inferno.
Ora è il poeta che parla.
Stracciatemi il cuore, scannatemi di notte nel letto! - Del lungo e sublime frammento che
manca dopo questo verso rileggasi ciò che ne abbaimo detto a pag. 71-72.
................................................................
L'ira fa scava la nosra ragiuni,
Nni metti all'occhi 'na manta di sangu1;
Lu súspicu strascina a valancuni,
L'onuri e la virtù cci damu bannu.
Lu sarilégiu di l'impiu Baruni
Tutti i rami soi lu chiancirannu:
Lu chiancirannu, pinsati, pinsati,
Cu' fa lu mali cu l'occhi cicati,
E 'ntra la cara sua önuri 'un senti,
E la manu di Diu cálcula nenti:
cala, manu di Diu ca tantu pisi,
Cala, manu di Diu, fatti palisi!
1
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Effetto morale e materiale ad un tempo dell'ira.
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74
VARIANTI
Verso
7
Diria na canzunedda angustiusa.
"
26Lu vostru amuri 'nvanu lu circati.
"
38
"
"
"
33 Ddi labbra, dda vuccuzza tutta meli.
40
Li trova sempri l'armi di Cainu.
58
Ca iddu sulu cumanna lu munnu.
LI stiddi si cci méttinu pri rota.
"
79-80
| La luna cu li négghi s'ammugghiau
| Di lu gran tardimentu aggirniau - e
| Lu jacobu chiancennu sbulazzau.
"
91Idda a lu nidu ripígghia la via.
"
95| Era affacciata cu lu sò Baruni.
| 'N finestra era cu li so' Baruni.
"
99-100| Vitti viniri 'na cavallaria
| Cu 'na gran quantità di genti armata.
| Vju viniri a mè nunnu pri 'ntunnu,
| Vju ca veni pr'ammazzari a mia.
"
105-110| Signuri patri, 'un m'ammazzari ora,
| Chista 'un è ura d'ammazzari a mia
| Ca prima iu mi vógghiu cunfissari.
| - Chista 'un è ura di cunfissioni
| Nè mancu è ura d'assurvizioni
| Nè mancu è ura riciviri a Diu.
"
112| Pígghia un cuteddu e cci cassa lu cori.
| Pícala 'ntra la parti di lu cori.
| L'afferra beddu giustu 'ntra lu cori.
75
Verso 115-117| Lu primu corpu chi cci happi di dari
| La fici stari di milli culuri,
| L'appressu corpu la vosi ammazzari.
"
119Curriti tutti, cani di Carini.
"
136
"
123-124| Sò patri stissu cci spaccau li vini,
| Accumpagnátila a la sipultura.
"
138
Ristaru visitusi li finestri.
Facennu siritini e matinati.
"
149-152| La mè varcuzza fora scaru resta
| Senza timuni 'mmenzu la timpesta;
| La mè varcuzza resta fora scaru,
| La vila rutta e lu timuni a mari.
"
"
186
189
La vidi 'n terra di vermi manciata.
Oh Diu! ch'avissi quant'un quartu d'ura.
"
191-192| Sagristaneddu, a tia la raccumannu,
| Addúmacci la lampa notti e jornu.
| Sagristaneddu tenimicci cura,
| Si no li surci la vannu a manciari,
| E tu cci fai la mala figura.
"
198
Ca nun mi curu si restu a lu 'nfernu.
"
203-210| Jìvi a lu 'nfernu ca cci fui mannatu,
| Ca si mannatu 'un cc'era nun cci jia,
| E cc'era Giuda a 'na banna assittatu,
| E fici festa quannu vitti a mia;
| Quannu mi vitti la manu m'ha datu
| Dicennu: - Ora vinisti, armuzza mia.
"
212| E 'ntra lu menzu la galanti mia.
| E 'mmanzu cci truvai l'amnti mia.
"
213-214| E nun cci abbasta lu ventu ca mina,
| E mancu lu sirenu di lu mari.
"
217-218| Ti l'arricordi lu tempu passatu
| Quannu middi carizzi ti facia?
"
76
223
L'angustii sunnu assai, la vita curta,
Verso 225-226| Li sónnura nni dícinu lu tuttu,
| A tanti genti boni l'hannu dittu.
"
239-240| O casteddu, casteddu malaurusu,
| Cu' ti talía curri spavintatu.
"
242
E di tricentu spiriti abitatu.
"
261-262| Lu chiancirannu; e lu farà palisi
| Stu sarilégiu chi mai nun si 'ntisi.
77
78
LA BARONESSA DI CARINI
edizione 1873
79
DELLO STESSO SALVATORE SALOMONE-MARINO
____
CANTI POPOLARI SICILIANI in aggiunta a quelli del VIGO, raccolti
ed annotati. Palermo, F. Giliberti editore, 1867. Un vol. di pag. 300 in-18.
IL MONASTERO DI SANTA MARIA DELLE CIAMBRE presso
Borgetto in Sicilia. Palermo, tipografia del Giornale di Sicilia, 1870.
LA STORIA NEI CANTI POPOLARI SICILIANI, Studj. Seconda
edizione corretta ed accresciuta di parecchi nuovi canti. Palermo, F.
Giliberti editore, 1870. Un volumetto in-16.
DI ALCUNI LUOGHI DIFFICILI E CONTROVERSI DELLA
DIVINA COMMEDIA interpretati col volgare siciliano, lettera al ch.
Prof. Francesco Corazzini. Seconda edizione con giunte. In Palermo,
per tipi del Giornale di Sicilia, 1873. Un volumetto in-16.
Di prossima pubblucazione:
SCRITTI DI CRITICA E LETTERATURA SICILIANA.
Un grosso vol. in-16.
80
81
82
A MIA MADRE
GIOVANNA MARINO
in Borgetto
-------------------
A te madre, che nella mia recente perniciosissima infermità vegliasti
assidua le notti angiolo consolatore al mio capezzale, e con le amorose
cure e le dolci parole allenisti i miei fisici e morali patemi, e mi strappasti alle ghiacciate mani di morte; a te, Madre mia, io voglio s'intitoli
questa sublime storia di dolore, che m'è costata tre anni di minuziose e
pazienti ricerche, e ch'io udiva da te la prima volta ne' beati anni della innocente e rosea mia fanciullezza, quando alla religione, al dovere,
all'onestà mi educavi il cuore e la mente.
Madre, la vita mia stessa ben saria misero compenso per quel che ti
debbo: ma non isdegnar tu questa offerta, povera sì, ma che viene dal
cuore, che tu conosci in ogni sua fibra...
Palermo, 8 febbraio 1870.
S. Salomone-Marino
83
84
AVVERTENZA PER QUESTA SECONDA EDIZIONE
___
Il favore onde fu accolta da' dotti la prima edizione di questo libro, e
il completo suo spaccio nel brevissimo corso di quattro mesi, furono a
me di sprone a continuare più alacremente nelle ricerche, sì che apprestar potessi una edizione novella nella quale avesse a leggersi completa la
maravigliosa storia poetica della Baronessa di Carini, cui l'illustre poeta
Zanella appellando gioello e capolavoro non dubitava «di porre insieme
alla Francesca da Rimini e alla Giulietta di Shakspeare». Ed ora che il poemetto è completo, con cencinquanta versi di più che nella prima stampa, e
non inferiori a quelli per la freschezza delle tinte e per la vigoria del tocco,
oltre alle varie infinite bellezze di concetto e di affetti; io lo ripresento al
pubblico accompagnato da' miei nuovi studj su di esso e sulle leggende
siciliane in genere, dalle ricerche sull'autore di sì bella poesia, e da buon
numero di documenti che servono ad illustrare viemaggiormente e le cose
da me scritte e la veridicità storica del fiero Caso che diede argomento al
poemetto. Il quale va, nella presente ristampa, diviso in VI capitoli; e non
di mia volontà ho introdotto queste divisioni, ma per seguire anche in ciò
il popolo, che in sei parti lo distingue; e la sua distinzione merita di venir
rispettata e perchè logica e perchè probabilmente proviene dal poeta medesimo, di cui per trecento anni il solo popolo è stato l'erede col suo tenace
affetto alla poesia tradizionale. Pregio non lieve poi viene a questo libro
dalla stupenda e fedele versione latina che della leggenda poetica siciliana
ha fatto il Can. Prof. Giuseppe Vàglica da Monreale, uno di que' superstiti dotti della famosa scuola monrealese, uno de' pochissimi che delle
grazie e dell'oro virgiliano dispone come di tesoro proprio, con faciltà ed
arte singolare. Volentieri avrei ornato il mio volume della traduzione in
italiano spontaneamente promessami dal valoroso Zanella; ma egli stesso
scrivevami qualche tempo dopo: «Mi sono provato più volte di porre in
versi italiani la maravigliosa leggenda della Baronessa di Carini; ed ogni
volta ho gittata la penna per disperazione di non poetr rendere né un millesimo di tante bellezze. Que' tocchi brevi, robusti guizzi di folgore in cielo
notturno: la nostra lingua comune... non può renderli che prolissamente e
fiaccamente». Nondimeno, senza le molteplici cure che occupano i giorni
dell'illustre uomo, egli, espertissimo traduttore, ogni difficoltà avrebbe superato, e non avrebbe mancato (come forse non mancherà) di far gustare
condegnamente all'Italia queste bellezze d'un ordine superiore della poesia
85
siciliana, com'egli si esprimeva.
Lieto io frattanto di vedere quale incremento vada oggi pigliando anche
nella Penisola nostra questo profittevole genere du studj popolari, sui quali,
or e più di tren'anni, il Cantù ed il Tommasèo primi e poi il Vigo chiamavano la seria attenzione dei dotti; pongo termine a queste brevi parole e
congratulandomi cogl'Italiani che si sforzano di rimettere così nuovi serti
gloriosi sul capo della Patria, e ringraziando con riconoscente ed affettuoso animo quegli illustri e gentili che vollero pubblicamete onorare di loro
benevole critica il mio volume presente1, e quegli altri che agevolarono
le mie nuove ricerche e mi fornirono versi nuovi o varianti inedite della
leggenda da varj punti di Sicilia. Tra questi ultimi vanno onorevolmente
notati gl'illustri U. A. Amico, T. Cannizzaro, V. Di Giovanni, Gaetano
Di Giovanni, G. Di Marzo, F. Maggiore-Perni, Can. G. Montalbano, G.
Pitrè, Can. G. Vàglica e L. Vigo; e dopo ancora i miei cari amici Giacomo
Aricò, Sac. G. Badalamenti, Pietri Della Vigna, M. Diu Martino, gaetano
Lombardo, Sac. S. Lombardo, M. Messina-Faulisi, Benedetto Russo e Nino
Salemi. Per ricerche fatte nell'archivio gentilizio de' Vernagallo mi dichiari
infinitamente obbligato a quella gentile e garbata persona ch'è il Barone
Francesco Paolo Vernagallo principe di Patti, come per l'altre nell'archivio
de' Carini al chiarissimo Benef. Cinà e al Sac. Giuseppe Sansone. E qui fo
punto, ripetendo le parole del Venosino:
Ignoscent, si quid peccavero stultus, amici.
Di Borgetto, ai 14 d'aprile 1873.
1
86
S. SALOMONE-MARINO
Il Prof. A. CASTELFRANCO nella Scena di Venezia, anno VII, num. 51: il prof. Cav.
A. D'ANCONA nella Nuova Antologia di Firenze, vol. XIII, fasc. IV:il prof. A. DE
GUBERTANIS nella Rivista Europea, di Firenze, anno I, vol. II fasc. 3°. il Cav. F. DI
MAURO nel Supplimento perenne alla Nuova Enciclopedia popolare italiana di Torino,
vol. IV, disp. 17ª: il prof. A, GABRIELI nel Piccolo Corriere di Bari, anno VI, num. 50: il
cav. E, NARDUCCI nel Buonarroti di Roma, serie II, vol. V, quad. 2°: il prof. G. PITRÈ
nelle Nuove Effemeridi siciliane di Palermo, anno I, disp. XII, e nell'opera Le scienze, le
lettere e le arti in Sicilia negli anni 1870-1871:il cav. F. ZAMBRINI nel Propugnatore
di Bologna, vol. II, parte 2ª, disp. 5ª e 6ª: ed altri in altri giornali, che tralasciansi per
brevità.
Fra i non Italiani citiamo il Conte TH. DE PUYMAIGRE che lungamente ne scrisse nella
Revue critique di Parigi, anno V, um. 27; e nel suo pregiato scritto La poésie popolaire en Italie (Paris, Charles Doumiol 1872) estratto dal Correspondant: il prof. FELIX
LIEBRECHT che pur lungamente se ne occupò nel Göttinger gelehrte Anzeigen, fasc. 26
del volume del 1870: il prof. ADOLF TOBLER che ne scrisse nel Jahrbuk für romanische
und engliche literatur di Lipsia, XII, 4: e il redattore dell'Athenoeum di Londra nel fascicolo 1° del 1871.
CITTÀ E PAESI
dove fu raccolta la Baronessa di Carini.
____
Provincia di Caltanisseta
Caltanissetta
Castrogiovanni
Piazza
Santa caterina
__
Provincia di Catania
Acireale
Catania
Etna
Mineo
Vizzini
__
Provincia di Girgenti
Bivona
Casteltermini
Cianciana
Girgenti
Lucca sicula
Ribera
__
Provincia di Messina
Alì
Caronia
Messina
Mistretta
Patti
S. Stefano Camastra
__
Provincia di Palermo
Alia
Alimena
Bagheria
Balestrate
Belmonte
Borgetto
Capaci
Carini
Castelbuono
Casteldaccia
Ciminna
Corleone
Ficarazzi
Isnello
Misilmeri
Mondello
Monreale
Montelepre
Palazzo Adriano
Palermo
Parco
Partinico
Porticello di Solanto
Prizzi
Resuttano
Roccapalumba
Sancipirrello
San Giuseppe de' Mortilli
Sferracavallo
87
Termini
Terrasini
Torretta
Trappeto
Ustica
Valguarnera di Ràgali
Valle d'Olmo
__
Provincia di Siracusa
Noto
Siracusa
__
88
Provincia di Trapani
Alcamo
Aragona
Calatafimi
Campobello
Camporeale
Castellammare del Golfo
Castelvetrano
Gibellina
Mazzara
Monte San Giuliano
Poggioreale
Salaparuta
Salemi
Trapani
__
LE LEGGENDE SICILIANE
E
LA BARONESSA DI CARINI
___
I.
Ogni popolo ha tradizioni religiose, politiche e storiche sue proprie,
che affidate alla sola memoria di generazione in generazione tramanda ai
tardi nepoti. Ogni popolo, con non mentito culto, rispetta e geloso conserva
questo retaggio degli avi, con ferma predilezione restando più attaccato a
quello che spetta ai luoghi che lo videro nascere, anzichè a quello di altra
nazione, foss'anco dela stirpe medesima. Da ciò l'indole varia, i caratteri
differenti, i colori diversi di queste tradizioni, registrate ne' proverbj, ne'
canti, nelle leggende popolari. Qui è la veritiera storia delle passioni del
popolo, delle sue gioie, de' suoi dolori; degli avvenimenti che l'innalzarono
e lo depressero, lo glorificarono e lo martoriarono, o lo commossero in un
modo qualsiasi, o per lor novità, o grandezza, o sublimità. Il virtuoso col
santo, il re coll'eroe, l'assassino col tiranno, la sventurata o fortunata regina
colla sventurata o fortunata donzella nobile o plebea, i più feroci odii e delitti, e i più ferventi e fortunosi amori passano a far soggetto delle infinite
leggende, sì in verso che in prosa, delle popolazioni: corrono gli anni, e
fantasia e verità storica si intrecciano, si confondono, si unificano; l'eroe
o il fatto celebrato diviene più misterioso, ingigantisce, e più ammirabile,
più sacro1.
Il cielo, il suolo, le condizioni di vita pubblica e privata, cittadina o rurale, modificano, travolgono il sentimento che informa la leggenda.
All'Oriente, culla de' popoli e della civiltà, terra di ricchezze infinite, di
varia e incantevol bellezza, sorgente de' concitati affetti, di copiosa ispirata
poesia, la leggenda è un ardente inno, immaginoso, tutto luce e armonia,
cha sull'ali della speranza volge la inebriata mente alle beatitudini di un
incognito mondo, cui tende l'anima passionata e fidente.
Le cupe nebbie, i fragorosi torrenti delle inaccesse rupi, le perpetue
1
Properzio disse (lib. III, èlegia 1ª):
Omnia post obitus fingit maiora vetustas,
Majus ab exequiis nomen in ora venit.
89
nevi de' poli dànno al settentrionale un sentiero diverso dall'orientale e
meridionale, cui ride sempre il zaffiro de' cieli e la fiorente natura. Il bardo
caledone, e il germano, ha forza e possente immaginazione; feroci passioni, feroci vendette, più feroci amori: non pace dell'animo, non speranza; storie orribili, racconti paurosi; inferno co' ghiacci e col fuoco, con
strazii e terrori; fantasmi e mali spiriti notturni che portano all'anima
uno sgomento, uno sconforto, un dolore, una oppressura indicibile.
Nelle regioni dell'occidente, che alle orientali magnificenze accoppiano la nordica fierezza, che il cocente sole temprano colle brezze spiranti da' ceruli mari, il popolo, di sangue latino, scioglie melodioso il suo
canto, e di vivo affetto esaltato si confonde cogli eroi del maraviglioso
racconto. Ora i gaudii eterni celestiali dipinge, ora gli eterni tormenti
dell'inferno, ma d'un inferno, che ci fa palpitare e sperar, direi quasi,
tuttavia; focosi amori accanto a freddo abbandono o dispregio; entusiasmo e prodigi di valore per la virtù accanto a crudeli delitti, a vigliacche
scelleraggini, alle quali trascina talora la esuberanza di passione. - Qui
le romanze che sono splendida memoria di una lotta, che fu insieme una
crociata religiosa ed una guerra nazionale: - qui ancora quelle reminescenze di cavalleria e gaia scienzia, già tanto celebri, quei galanti amori,
e quelle leggenduole spiritose, allegre, frizzanti, caratteristiche: - qui finalmente l'orgogliosa ricordanza d'una città e d'un impero senza rivali,
di repubbliche che prestan danaro ai re più potenti e solcano con cariche
navi i più lontani mari allor conosciuti, di potenti e superbi imperatori
sconfitti e umiliati, di santi e di eroi senza numero che al grido di Dio
lo vuole! volano belli di ardimento in Palestina; la ricordanza infine di
storie varie, «narrate con soavità e con semplice grazia. da ridere o da
piangere, casi fantastici e naturali, di fine buona o paurosa, racconti nostrali o di fuora, recati d'Oriente alcuni per le Crociate o dai Giudei1».
Questi pochi accenni m'è parso giusto di far precedere, perchè potessero aprirmi la via a quelle osservazioni, per le quali delineare intendo
ilcarattere preciso, lo spirito intimo delle siciliane leggende. Dallo studio
di queste, come de' proverbi e de' canti popolari nostri, è a me venuta
molta luce per chiarire l'indole e i costumi di questo popolo, che tanto
1
90
A. CONTI, I discorsi del tempo in un viaggio d'Italia, Firenze 1867, pag. 477. - Consulta
ancora al proposito il bel lavoro di P. VILLARI, L'Italia la civiltà latina e la civiltà germanica, Firenze, 1868: - BERCHET, Prefazione alle romanze spagnuole, nelle Opere,
Milano 1863: SCHLEGEL, Storia della letteratura antica e moderna, traduz. dell'Ambrosoli, Milano 1857. - Romanzetti moreschi trad. da Fra Silvestro da Como, Venezia
1846: - Canti popolari allemanni trad. da G. Fissore, Savigliano 1857: - Canti popolari
slavi, trad. da F. De-Pellegrini, Torino 1846; ec. ec.
m'è a cuore; e reciprocamente l'indole e i costumi suoi mi hanno illustrato e appianato la via per la conoscenza delle leggende.
Come i prischi popoli1, il Siciliano ha grandi virtù e vizii grandi;
chè colle ardite fantasie, cresciute dall'elemento arabo, col forte sentire,
col passionato e rapido operare, ti riesce esorbitante nel bene come nel
male. Dàllo scolare alla Virtù, o al Vizio; lo avrai o finito galantuomo, o
inarrivabile assassino2. La sua impetuosa o fervente natura lo porta agli
eccessi: t'ama o t'odia senza misura; rapido all'ira, allo sdegno alla zuffa;
tenace ad un giuramento o ad un impegno, come a' suoi usi ed a' suoi
pregiudizj; fieramente geloso dell'onore della famiglia; oppresso, soffre,
ma scoppia in breve come vulcano; primo e cieco al pericolo; schietto,
liberale; religioso, anche ne' delitti, ma superstizioso, sovente; e nelle
opinioni sue e ne' contrasti come l'Etna immutabile, come il suo Cariddi
fremente e ruinoso. Studialo ne' primissimi tempi e mano mano sotto
qualunque dominatore, nostrano o forestiero, fino ai presenti dì, egli è
ugualmente, inalterabilmente lo stesso il siculo popolo3.
Questo pallido e breve ritratto, che, completato, in ogni minima parte
1
2
3
Sìè vero che ne' tipi primitivi si riscontri l'osso frontale bipartito verticalmente e riunito
da sutura per tutta la vita, non è fuor di luogo il far osservare che, otto fra cento, dei cranj
siciliani offrono la bipartizione del frontale: e me ne appello all'illustre professore di anatomia normale dell'Università di Palermo, il cav. Francesco Randacio, il quale ha fatto
degli acuti studj in proposito.
«Il popolo è come la terra in mano di chi la coltiva, o i metalli sotto il martello dell'artefice; se quella abbandoni, diverrà irta di spine e di rovi; se questi non saprai animare, invece
di una statua di eloquenti movenze e palpitante di vita, uscirà dai tuoi ferri un mostro d'oro
o di argento». VIGO, prefaz. ai Canti popolari siciliani, § I, pag. 5.
È maraviglioso questo, e degno di tutta l'attenzione, che il linguaggio siciliano, di fondo
tutto latino, inalterato si conservi dal mille a noi. Documenti certi, le scritture nostre e i
manoscritti, fanno fede di questa verità, che amplissimamente il Vigo provò (pref. cit. §
II) dopo d'avere in carte e diplomi latino-barbaro-siculi trovato chiari vestigi del vivente
siciliano dal 560 al 1000. Nel primo secolo della lingua e letteratura italiana non era differenza nessuna tra gli scritti volgari nati all'Oreto od all'Arno, in Messina o in Bologna:
da questi primi scrittori ho dunque io ricavato infinite frasi e parole, in buona parte oggi
smesse nel comune linguaggio d'Italia, ma vive e fresche in bocca del nostro popolo, in
ispecie de' villaggi e della campagna, ov'è meno corrotto e più tenace alle antiche tradizioni. L'ho ricavate con triplice intento: per annotare i canti popolari; - per mostrare che qualche bel modo di dire, o parola, non sarebbe poi tanta colpa richiamar in vita, quando l'ha il
popolo tuttavia; - per far vedere e toccare con mano, nelle presenti quistioni di lingua, che,
mutate le desinenze, la lingua de' Toscani e Fiorentini (anche moderni, di cui pur adduco
gli esempi) vive in Sicilia ne' vocaboli, ne' modi, nella più parte de' costrutti. Unici padri,
uniche tradizioni, unica lingua ebbero i popoli della italiana famiglia, nè volger di secoli,
nè invasioni ed oppressioni straniere, nè divisioni hanno potuto annullare la cognazione
di essi. Vedi il PICCOLO DIZIONARIO in fine a questo volume.
91
colorirò (se la vita mi basta) in altra operetta1, nè oziosi nè inutile ho stimato mettendolo qui: dapoichè l'ignoranza dell'indole, de' costumi, delle
credenze e tradizioni del Siciliano ha dato luogo a' torti giudizî, alla poca
estimazione di esso, a que' rimedî vani o nocivi da' reggitori adoprati a
curare i suoi mali. Qualche altra osservazione soggiungeremo, venedocene il destr, nello esame, che seguirà, delle nostre leggende.
Alle quali passando, io sento il bisogno di fare una partizione tra
leggende sacre e leggende profane. Le prime, generalmente intese
Orazioni, innumerabili, più lunghe per lo più delle profane, affoscate da
superstiziose nubi ma spesso animate dalla candida fede che ci ricorda i
Pellegrini di Terrasanta, io non ho voglia di esaminare per ora; ed ogni
attenzione rivolgo alle seconde. Il popolo nostro, come il toscano e come
gli Antichi, dà il nme di Storie a queste novellette o poemetti narrativi;
da cui i Cantastorie che le vanno cantando per le piazze e per le ville.
E storia indica appunto che non è fiaba; e se tal pare, gli è perché ci ha
sottratto il tempo la memoria del fatto o del personaggio cantato. Le vere
fiabe qui appellansi Conti, e in questi sì che un fondo di vero è rara cosa
trivarcelo, ma pur c'è. Dunque anche le leggende profane ci portano ad
una suddivisione: i Conti e le Storie. - Se nascesti in quest'Isola, o qui
fosti, o lettore, e in una delle lunghe serate d'inverno sedesti al fuoco tra'
cari congiunti ed amici, ricorderai certamente come il più anziano, o la
vecchia nonna, alleggerisse quella gelida noia novellando con grazia ed
arte di antichissimi tempi, di re, di regine, di fate, di guerrieri, di Sarcini
e di Cristiani, di superstiziose credenze la cui origine si perde nella oscurità de' secoli2. Questi Conti, che han pasciuto e pasceranno mai sempre
le menti nostre in seno della famiglia, a tutt'i popoli sono comuni, a tutt'i
tempi. E basti ricordare di volo le Mille e una notte, e i novellatori che
nobili e ricchi tenevansi presso a tutte l'ore nell'evo medio3, e quei versi
con cui pinge Dante la fiorentina che
...traendo alla rocca la chioma,
Favoleggiava con la sua famiglia
1
L'indole e i costumi del popolo siciliano.
3
Novellino, nov. XXVI, LXXII.
2 LO SCIMONELLI tocca di tali scene quando dice (Gherardo ed Argilla, stanza 10):
O cuntannu di tempi assai luntanu
Cuntu di maghi, di rigini e re.
Ne parla pure il PIAGGIA ne' Nuovi studi sulla città di Milazzo ec. - Palermo 1866, parte,
I, lib. VI, cap. IX.
92
De' Troiani, di Fiesole e di Roma (Parad., XV).
Ed è meritevole di ogni studio questo, che tali conti, se ne eccettui le
quasi impercettibili differenze di lezione, si ripetono in gran parte per
tutta l'Europa, conservando perfino inalterati certi versi, certi ritornelli,
certe forme di parole, che ti appare meraviglioso1.
Ma pe' conti di genere cavalleresco dura in Sicilia tuttavia, precipuamente nelle grandi città e più in Palermo, quell'antico uso del Contastorie2,
che all'aperto, o in apposito magazzino, con enfasi e maestria mirabile,
narra alla moltitudine, che a bocca aperta pende dal suo labbro, le prodigiose avventure di Orlando e di Rinaldoe di tutti i Paladini; non come le
ha imparate da' Reali di Francia, ma come la feconda sua fantasia gliele
fa creare, come il suo ingegno sa ordinarle, adattandole spesso agli avvenimenti ed alle passioni che sono più vive, e con allusioni ora lodando,
ora correggendo, ora spargendo a piene mani il ridicolo su questo o quel
Governo, o Municipio, o Generale, o Prefetto; chè indole nazionale è del
Siciliano «inchinare sempre alla satira, come al richiamo de' tempi degli
avi3». La potenza intellettiva di quest'illitterato narratore, la splendidezza
e freschezza delle immagini, i movimenti tutti del corpo, gli occhi che
brillano infocati, la voce tonante ed armoniosa4 traggono a lui il cuore
1
2
3
4
Diamo, non potendo ad essi fermarci, i titoli di alcuni dei moltissimi Conti che fra noi
corrono, e sceglieremo quelli che a parer nostro hanno importanza non poca per chi studia
il popolo. - La bella de' sette cedri, La testa prodigiosa, Il cavaliere invincibile, L'anello
di Angelica, Il re de' Mori, La tomba del Saraceno, Il Cavaliere nero, L'eremita di trecent'anni, I Canonici di legno, San Pietro ed i ladri, Gesù Cristo e Maestro Cecco, La
capra e la monaca; Saecula e Saeculoro, Il mezzo galletto, Le avventure di Firrazzano, Le
avventure di Giufà, simili quest'ultime a quelle dello sciocco Trianniscia di Terra d'Otranto: I tre anelli, che pur sono nel Novellino (LXI), in Busone da Gubbio (Lib. III), e nel
Decamerone (gior. 1ª, nov. 3ª); Il villano ed i fichi, che troviamo nel Novellino (LXII)
come in Michel Berti: La moglie diavolo, che non è che il Belfagor del Machiavelli e non
so come sia qui passato: e molti altri che si leggono nelle Mille ed una notte poco diversamente. De' Conti siciliani ha pubblicato due volumi la signora LAURA GONZENBACH
(Leipzig, 1870); ed attendiamo ansiosi la raccolta che ne ha promesso G. PITRÈ.
Egregiamente il descrisse ne' Racconti popolari V. LINARES, amoroso raccoglitore di
tradizioni del popolo e buon dipintore di costumi nostri. - P. EMILIANI-GIUDICI ancor
esso, nella lez. IX della sua Storia della letteratura italiana, ha di belle parole pe' nostri
Contastorie. In Venezia i conti erano, e non so se ancor sieno, narrati sovra un argine
rimpetto alla laguna - Ne dice poche ma belle parole il Goethe nel suo Viaggio in Italia,
all'anno 1786.
VIGO, pref. ai Canti popolari siciliani, § I, pag. 4. Vedi in fondo al volume, NOTE E
DOCUMENTI, (A).
Il Goethe faceva osservare che il popolo pregia sovratutto la robustezza della voce
(Viaggio in Italia, an. 1786).
93
dell'ascoltate turba, lo esaltano a tal grado, ch'essa adora, direi quasi,
nel Contastorie il suo profeta, e dà in sua difesa all'occorrenza la vita.
Si licet magna componere parvis, io rassomiglierei questo narratore a
Pericle, il quale orando, come di Aristofane (Acarnesi, v. 330),
«Mettea fulmini e tuoni e tuttaquanta
La Grecia commovea»;
e come Cicerone: «dixerunt tantam in eo vim fuisse, ut in eorum
mentibus, qui audissent, quasi aculeos quosdam reliqueret (De Orat. lib.
III, cap. 24)1».
Le Storie sono in poesia, si cantano con musica propria ad ognuna ed
espressiva, accompagnate col violino, colla chitarra, col sistro o triangolo. V'è una classe di popolani, ciechi i più, poeti o che han sentimento
per la poesia, e dotati di bella memoria; che han capo, leggi e statuti
proprî in Palermo2; e questi si addicono sin da giovinetti al mestiere
del canto e della musica. Vanno attorno per le città, pe' paesetti della
provincia, per le ville, guidati a mano da un ragazzo; e «banditori dell'intimo consentimento nazionale, verificano l'ironia, la beffa, il lamento
(VIGO)», improvvisano su cose recenti e antiche, o ripetono le più vecchie storie di cui han piena la mente. Sono essi l'anima delle feste e de'
giochi popolareschi; li vedi rallegrar nelle taverne quella sollazzevole
brigata che mangia e beve, non curante i guai d'ieri e d'oggi; li trovi
dietro al corteo che di ritorno dal tempio accompagna alla casa gli sposi
novelli; gli ascolti di notte sotto i veroni di questi ultimi, o di innamorata
fanciulla, intuonare con patetiche note gli antichi amori di Cavalieri e
Regine, di Serafini e di Fate, o le gioie e le speranze di sposi dei tempi
che furono; li scontri per tutti i canti nel carnevale, e dopo i grandi avvenimenti, e questi in mille modi ti ripetono essi, ti riveston di cari e vivaci
colori, e secondo il soggetto celebrato ora teneri, or gravi, ora umili, ora
feroci, e sempre ispirati, grandiosi. E non poss'io cancellar dalla mia
mente l'anno 1860. nel quale con soave palpito udiva le dolenti storie del
Saccheggio di Partinico, di quello di Carini e della inseguita fanciulla,
che, nuova Gamma Zita, si butta volontaria nel pozzo per salvare l'onore;
il Bombardamento di Palermo, i Morti di Milazzo, insieme al 4 aprile,
alla Battaglia di Calatafimi, al 27 maggio, e alla Liberazione dell'Isola
1
2
94
Vedi NOTE E DOCUMENTI (B).
VIGO, op. e loc. cit. § X.
dopo sgombrata la messinese cittadella.
Questi rispettabili ciechi cantori, quante volte io li scontri, mi ricordano i Rapsodi della Gracia, da cui Omero attinse; mi ricordano in certo
qual modo i Cyclici poetae dell'antica Italia, accennati dal Muratori1.
Così propagasi per ogni canto dell'Isola una leggenda, così diventa
popolare e famoso un fatto, un uomo: e quel villese l'apprende a quest'altro, quella donnetta la ripete alla sua figliuolanza, quel giovane all'amico, al compagno suo. Ma il mutar di luogo, il trascorrer degli anni, il
passare da una mente all'altra va sempre diffalcando o mutando qualcosa
alla leggenda. Questi ne ricorda un brano, e quello solo ripete; e per
farlo parer intero ne modifica spesso il principio o la fine. Quell'altro ha
dimenticato una parola, due versi; poco monta; dovendo ripetere e insegnar ad altri quella poesia, supplisce altra parola, altri versi ai mancanti,
o creandoli se è da ciò, o togliendoli a qualcuno de' canti che a centinaia
tiene a memoria. Quel terzo, che a circostanze di sua vita, ad avventure
sue vuole accomodare l'antica storia, la trasforma, la strazia, l'annulla.
Di qui le varianti di parole e di versi, varianti sempre infinite, e talora
contradittorie, anche in un paese medesimo, e che fanno la disperazione
di chi con paziente amore va raccogliendo que' cari frammenti d'antica
poesia per unirli, e chi sa! vedersene emergere forse alla fine un brutto
mosaico. Di qui ancora la dispersione totale di lunghe storie, di cui solo
ricordanza lontana ha qualche vecchio, ma che non sa più recitare. E di
tutto cuore io rinunzierei allo sciame infinito dei sedicenti poeti moderni
che pur pigliando il tono alto dell'ode 1ª del lib. III di Orazio, traggono
al vitupero la italiana casta poesia; purchè mi fosse dato, ad esempio, di
rinvenire la intera leggenda cui appartenevano i versi seguenti:
Si scippa la curuna e la sbattiu (in terra),
- Sta impia Terra chi s'arrivutau,
'Nnimica di la Patria e di Diu,
Cu sta lanza la passu...
Ca li fragellu dintra mi purtau...
Li palumbi vularu pri sò via2...
o di poter completare le due che si riferiscono al Vespro la prima, al
Caso di Sciacca la seconda:
1
2
Antiq. ital. diss. XXIX, t. 2.
Potrebbersi far delle ipotesi: ma a che pro se non ci sono altri versi?
95
1. 'Na vuci pri li strati chi gridava:
- Nun lu sintiti a Véspiru ca sona?
2. Cu l'ajutu di Cristu onniputenti,
Di la Matri Maria e di li Santi,
Sintiriti di Sciacca li lementi,
Li morti, li firuti e li gran chianti1...
Ma chi fa, e come queste leggende? Qual è il carattere d'esse la regola
che le governa costantemente, la metrica?Una risposta è necessaria, e la
daremo: brevemente, più chiaramente che per noi si potrà.
Lo abbiamo avanti accennato; molti de' Cantastorie improvvisano mirabilmente squisite composizioni poetiche: ma poichè a ben pochi fu dato
ingenium, mens divinior atque os magna sonaturum2, i più d'essi ricorrono ai bardi compagni; i quali o con una mancia, o con un meschino
compenso qualsiasi, o spesso ancora gratis et amore Dei li contentano,
creando per essi le storie e le orazioni richieste3. Altre volte s'attaccano ai
panni di qualche letterato di professione, ch'è più alla mano; e questi, vuoi
per compiacenza, vuoi per levarseli di dosso, mette in carta la richiesta
composizione poetica. E non deve sembrare strano che il letterato stenda la falce in un campo che non è suo per nessun verso: chè se vi deste
briga di accuratamente cernere le storie popolari, in non piccolo numero
ravvisereste la mano di chi ha svolto i libri. - E il popolo accetta e canta
cose non sue? Le accetta, le canta; ma quando ciò fa, sono retaggio non
indegno di lui, non sono più uscite dalla penna letteratesca. - Per le vie
1
2
3
Il terzo di questi versi ci resta qual modo proverbiale, e corrisponde all'altro minaccevole
farò un caso di Sciacca! Questi tre frammenti, unitamente a tre leggende poetiche ed a
parecchi canti bellissimi, dettavami Niccolò Allegra contadino di Corleone.
HORAT. Sat. lib. I, 4.
Il valentissimo poeta vivente, ma vecchio e semicieco, il chiodaiolo Stefano La Sala, richiesto continuamente di storie da questi ciechi, scappò una volta in questa ottava perchè
non si vedeva pagato:
Pirchì di musa lu pueta servi,
A fari chisti versi 'un si risorvi;
Nun cci su' tanti dàini nè cervi,
Nun cci su' tanti àculi nè corvi,
Nun cci su' tanti pàmpini 'ntra l'ervi,
Nun cc'è 'ntra li spitali tanti morvi (morbi),
Nun cci sunnu a lu munnu tanti servi,
Quantu rifardi si trova 'ntra l'orvi.
VIGO, Canti pop. XLIV, 5.
96
di Palermo ti assorda ogni dì la voce di monelli che per pochi centesimi
ti vendono storie, arie, canzone1 in dialetto, fatte e stampate da tali che
popolo non sono. Ebbene, quelle storie, quelle arie, quelle canzone, sono
tosto imparate dai cantastorie di professione; e questi, pel grande uso che
hanno della popolar poesia, i versi e le immagini e le parole di altri canti
suppliscono in quei luoghi che al sentire ed al fare del popolo non sono
conformi: tolgono, aggiungono, mutano continuamente, finchè la lingua e
i sentimenti sieno tutti del popolo, e le grazie e l'armonia e i colori spicchino per verginale semplicità. Qualch'esempio chiarirà tutto. Nel ms. 20q.
A. 21, pag. 349, della Comunale di Palermo leggiamo la seguente canzona contro Messina scelleratamente abbandonata da' Francesi (16 marzo
1678):
Li gaddi si parteru, e tu, Missina,
Ristasti comu 'na gaddina nana;
Si fa la pace per la tua ruina,
E di donna si' fatta ruffiana.
Non cc'è chiù fumu tra la tua cucina,
Non cc'è chiù privilegi, nè campana,
Lu portu è apertu, e sta senza catina
Appuntu comu cosci di...
Qui ben è chiaro lo stento di chi vuole popolarmente cantare e non vi
riesce. Ma chi avrebbe detto a D. Giuseppe Artali, che n'è l'autore, che
il popolo di Palermo, per ischernire la dolente rivale Messina, avrebbe
fatto sua la conzona, infondendole vita novella, più decorosa, più splendida? Leggete, paragonate, e poi date giudizio.
Li Gaddi si parteru di Missina,
Ristau sulidda la gallina nana;
S'ha fattu paci pri la sò ruina,
Cci persi l'oricchini e la cullana;
Nun cc'è cchiù fumu 'ntra la sò cucina
E dispirata lu succursu chiama;
Lu portu è apertu è sta senza catina,
Nun cc'è cchiù privilegi nè campana.
1
In Sicilia sempre canzuna. Vedi il PICCOLO DIZIONARIO in fine.
97
Più luminoso è l'esempio che segue, tratto dal ms. medesimo, pag. 67,
e fattura di D. Luigi Lu Scavuzzu:
Ramingu auceddu chi chiancennu vai
La tua pirduta cara cumpagnia,
Veni, e chiancemu 'nsemmula cchiù assai,
Mi trovu arrassu, oimè, di la mia dia.
Ma tu la tua fors'hoggi truvirai;
Iu la mia quandu? O dura sorti ria,
Pirchì 'ntisi nun sunnu li me' guai?
cui tantu m'arrassau di l'Alma mia?
Questa ottava, che chiaramente arieggia il sonetto del Petrarca «Vago
augelletto, che cantando vai ec.», era poesia troppo dura e contorta del
popolo; ma l'ha mutata egli e fatta inarrivabile:
O turturedda ca pirdutu hai
Di l'amica la duci cumpagnia,
Tu fra diserti ripitannu vai,
Ed allaghi di lagrimi ogni via,
Deh, veni ccà, ca mi raccuntirai
Ssi amari peni, ed io dirò li mia;
Tu morta la tò amica chiancirai,
La chiànciu iu viva, ca nun è cchiù mia1.
Sol che lo volessi, potrei moltiplicar quasti esempj, con l'aiuto de' manoscritti del sec. XVI e XVII esistenti nella palermitana Biblioteca, i
quali contengono ben molte poesie siciliane di non dubbia origine letterata, e che oggi riscontriamo rabbelliti e soavissimi in bocca del popolo2.
Un'ultima citazione vo' però farla, per la quale vien dimostrato con la
massima evidenza come il popolo rogetti tuttociò che non cape nell'intelletto suo, o non è secondo l'indole e la maniera propria, e come di sua
testa supplisca a ciò che viene togliendo. In una stampa messinese del
1
2
98
Presso il VIGO, Canti popolari siciliani, XXX, 10.
Leggi anche al proposito lo scritto che il PITRÈ ci dirigeva in forma di lettera: Di un manoscritto di canzoni siciliane (del sec. XVII) attribuite ad Antonio Veneziano (Bologna,
tipi Fava e Garagnani, 1871); e l'altro Di alcuni canti popolari in un manoscritto del sec.
XVIII, che insieme al primo è ora stampato nel suo recente volume Studj di poesia popolare (Palermo, L. Pedone-Lauriel editore, 1872) pag. 185 e segg.
1665 dela tanto famoso Tuppi Tuppi, la quale porta il nome dell'autore,
un Filippo Russo, ed è posseduta dall'esimio prof. U. A. Amico, alla
stanza undicesima si legge:
Tu nun sa' ancora chi miu frati è un Marti?
Il popolo, che il Tuppi-Tuppi accettò di buon cuore e tuttavia va ripetendo in tutte le sue trentuna ottave, che sapeva di Marte e non Marte? E
però ha mutato subitamente così:
Vidi ca li me' frati nun su' matti!
Inoltre, alla stanza 13, l'autore, che conosce e storia e mitologia, fa
dire dalla giovane donzella allo amante:
Sintirai chiù di Baccu li duluri,
E chiù di Titu li turmenti amari,
O di Troja l'incendiu e l'arduri,
Chi tutt'a un tempu si vitti abbruciari.
Volete che il popolo s'avesse a dare la pena di indagare chi fosse
Bacco e chi Tito, e come e perchè bruciasse questa Troia, ch'esso ignora
che sia? Ha rifatto dunque a suo modo i quattro versi, ed eccoli qui, tali
com'ei li canta:
Ch'avissi senza abbáccu li duluri
E di cuntinu li turmenti amari;
Cci fussi 'na carcata in granni arduri
E tutt'a un tempu t'avissi a 'ddumari1.
Ho prove indubbie che non uscirono dalla mente del popolo la Storia
di Gioacchino Murat, La Setta Carbonara, I Palombi, I Fra Diavoli,
1
Nel Tuppi-Tuppi pubblicato dal PITRÈ (Canti pop. sic., vol. II), questi quattro versi leggonsi in questa maniera:
Oh! ti putissi veniri un duluri!
Manciari cibi di frumenti amari!
Cci fussi 'na carcara in granni arduri,
E ti vidissi ddà 'mmenzu abbruciari!
Lo stesso PITRÈ negli Studj di poesia popolare a pag. 263 e sgg. fa un bell'esame del
Tuppi-Tuppi del 1665, paragonandolo a quello che oggi corre nelle stampe di Ignazio
Mauro ed all'altro che egli stesso diede alla luce.
99
Girolamo Bruno, ec. e chi è pratico di poesia popolare può anche a bella
prima vederlo. Tuttavolta io colloco addirittura tra la popolar poesia, e
popolari le appello, queste e simili storie, allorchè le ritrovo ripetute tradizionalmente dal popolo (il quale ciò che vera poesia non è non impara), sia che la memoria dell'autore fosse perduta, sia continuasse a vivere
con i versi. Ciò avviene della seguente maniera: o la tradizione porta che
la tale o tal altra composizione poetica appartenga a Tizio ed a Caio /
come accade per i versi del Fullone, del Pavone, del Mòdica ec.), ed in tal
caso non si può pronunziare un giudizio esatto e deffinitivo; oppure, ciò
ch'è più frequente, il poeta negli ultimi versi o nei primi della leggenda,
rivela il suo nome, la patria ed anche il tempo del suo poetare. Così:
A lu milli secentu pocu avanza,
Di lu cinquantadui fa la disinenza;
Cu' di la Cruci lassa ricurdanza
Bártulu di Criveddu li dispenza.
(la Croce, st. ultª.)
Lu milli setticentu ottantatrì
Nui l'appimu di Cristu la chiamata;
'Ntra li canzuni mei fazzu accussì,
Notu lu puntu e scrivu la jurnata...
Aitanu Virgillitu lu 'gnuranti,
Nativu Paturnisi veramenti,
Abitanti in Catania tant'anni.
(Il tremuoto del 1783, st. 1ª e ultª.)
Se una leggenda accarezza od agita le passioni del popolo, vedi trasvolarla subitamente da questo a quei promontori di Sicilia, imparata con
maravigliosa rapidità. Ho assistito, nell'aprile del 1867, alla popolarizzazione (passatemi la parolaccia) di una sacra poesia in Borgetto, e rimasi
stupito e confuso. Il poeta Salvatore d'Arrigo, un povero campagnuolo,
un ometto sui cinquanta tutto fuoco, legando in essa le vicende presenti
alle antiche tradizioni sulla Patrona del paese, non risparmiando i suoi
dardi a spregiatori di questa e a tralignati preti; non appena l'apprese
a' suoi figli e a qualche altro, che a turbe lui venivano la gente, e dalla
sonora e chiara sua voce, dopo due o tre recite, sapevano senza sgarar
100
sillaba trentuna ottave, che di tante era cmposta. Fra pochi dì quella poesia era divulgatissima.
Aggiungi a questo, che il popolo non isdegna imparare quelle canzone e leggende che gli sono importate da altri popoli, purchè egli le comprenda non solo, ma ne sia commosso, e non se ne dispiaccia quanto alla
forma. E di questa maniera, raccogliendo leggende siciliane, mi sono
imbatturo in alcune che provengono evidentemente da Napoli, in altre
che non possono ascondere la fisonomia toscana o piemontese; dapoichè, quantunque sicilianizzate da cima a fondo, non han potuto lasciare
qualche espressione, qualche parola, piana o tronca, la quale è pretta
napoletana, o toscana, o piemontese. Sentite queste due strofette della
Cecilia, come si cantano nel Monferrato; confrontatele alla lezione che
se ne canta in Sicilia, ch'io faccio seguire, e ditemi se la veste monferrina
non è ancora lì:
Sicilia, bela Sisilia,
Piura ra nocc e u dì,
R'ha so marì an parzun
E i l' voro fee murì.
- Sisilia, bela Sisilia,
Si t' m'aureise ben,
T'andreise da ir capitan-nhe
A dimandée grasia pir me.Cicilia, Cicilia
Chianci la notti e 'u dì,
Ca sò maritu è in cárciaru
Lu vonnu fa' murì.
- Cicilia, Cicilia,
Si tu vo' beni a mia
Va nni lu capitániu
Si mi fa grazia a mia1.
Pure il nostro popolo accoglie e ripete come proprie queste leggende,
che non sono di sua creazione, e ne accresce la immensa suppellettile
delle indigene.
Or come, dirà qui taluno, ritenere sempre e bene può mente di popolo
1
Questa leggenda è divulgata eziandio nel Milanese, in Germania, in Ispagna; in Sicilia è
venuta dal Piemonte dopo il 1860. Vedi G. FERRARO, Canti popolari monferrini, p. 28.
101
queste leggende? Uno, due, pochi rispetti, transeat, questo mi persuade;
ma le lunghe e molte leggende, come mai? - Questa domanda, scusate,
mi sa della vecchia antifona oraziana odi profanum vulgus, quasichè la
gente che veste d'albagio e vive e muore tra stenti e miserie, e nata alla
marra, sua speranza e salute, non possa o debba fruire dell'intelletto e
della memoria che a tutti dispensò Natura. Ma ricordate che questa gente
ha scarpe grosse e cervelli fini; che la memoria sua è vergine e fresca
sempre, perchè non affaticata come la nostra su centomila cose per non
venire a capo di nessuna, essendo vero pur troppo che «la memoria è
fragile e non bastevole alla moltitudine di esse»1. È per ciò che l'uomo
del popolo può serbare in mente per lungo tempo lunghissime poesie, o
meglio poemi, come il San Cristofaro che supera i trecento versi, Tuppituppi che ne ha 248, I compari del Comiso di 288, Le miserie della vita
umana del Fullone che giunge a 643 versi; La storia di Santa Genovefa
che ne conta 904; le Parti della Confessione e quelle dell'Inferno che
toccano i mille per ciascuna. E non parlo delle canzone, che v'è chi ne
sa trecento (2400 versi), chi 400, chi 600; e a quest'ultima cifra è arrivata giovane tessitrice di piccolo villaggio. Ma bisogna anche aggiungere
che, giusta la sentenza di Aristotile2, i versi sono potenti sussidio della
memoria; e molto più la rima dirò io. Infatti in ogni lungo componimento vediamo l'ultima rima d'una ottava far consonanza colla prima della
seguente, oppure con una parola al primo verso di essa3; cosicchè tutte
queste ottave vengono a formare una lunga catena, che interrotta rimane
se per avventura una rima sfugge od un verso. È un esercizio tutto meccanico, e per un ignorante non è poco4.
1
2
SENECA, De Beneficiis, VII. - Il BRESCIANI (Costumi di Sardegna, cap. XIV) scrive:
«I popoli schietti e naturali hanno memoria tenacissima come i fanciulli».
Rettorica, III.
3 Ecco esempi di tutti e due i casi:
1. L'avaru cusciènzia nu' nn'havi,
Arrobba e fa 'micidii senza stentu. (versi 7-8)
Durmianu li Santuzzi a lu cunventu:
- Rispigghiati e talìa, grida 'na vuci, etc. (versi 1-2)
2. La forza e la putenza di lu 'nfernu
Li cchiù grossi muntagni jetta 'n funnu. (versi 7-8)
Eu mi cunfunnu - a sèntili parrari
Cui mali parrirà di lu Signuri. (versi 1-2)
4
102
Altra prova che nel popolo agisce la memoria meccanicamente e non l'intelletto è che
le canzone che son cose dislegate, le ritiene con quello stesso ordine con cui le imparò,
nè con altr'ordine potrebe ripeterle. Chi ha raccolto canti popolari nostri s'è convinto di
Senza volerlo, abbiamo già detto il metro più comune alle leggende, e
il più antico, l'ottava. Dissi più comune, perchè non poche son le leggende in settenario, in ottonario, in quinario accoppiato, o libero; qualcuna,
ma rara, offre un miscuglio di quinario e settenario, di endecasillabo e
quinario, come il Gioacchino Murat, l'Amante che si finge monaco, il
Testamento del duca di Palma. Altre volte sono in quartetti endecasillabi, o in sestine; ma quella che prevale, ripeto, è sempre la ottava siciliana sopra accennata, in endecasillabi con due rime alternate quattro
volte; e quindi, incatenandosi fra loro le ottave, ogni rima viene ripetuta
per ben otto volte1. A maggior chiarimento ecco qui un brandello, ch'io
levo alla squisita leggenda La regina delle Fate:
C'era 'na Fata, regina di Fati2
Bella ca nun ci nn'è sutta la luna,
'Mmenzu du' muntagneddi sdirrupati
'Ntra 'na casina cu li bianchi mura:
Fannu suspiri li gran Putintati,
Cci vannu appressu Dómini e Baruna;
Cci fu cu' persi la sò libirtati,
Cu' cci lassau la peddi a li vadduna.
A nuddu cci rispunni la furtunata,
E la putenza nun havi valia,
Cunta pri nenti l'oru a munzidduna,
Puru d'Amuri la gran signuria.
Lu cuntinu galanti tuttu adduma:
«O t'haju, o lassirò la vita mia!»
Cavarca, e nesci armatu a la vintura
'Mmenzu li voschi senza cumpagnia.
San Giorgi! la prisenzia chi tinia!
Vurria sapiri cu' nun si nni 'nciamma;
O puramenti cu' havi valia
Di livaricci ad iddu la giurlanna.
1
2
questo.
Grandi ostacoli offre perciò questa maniera di poetare; ma gli ostacoli il poeta del popolo
«li crea, li sfida, li vince (VIGO)».
Non farò note delle parole e delle frasi siciliane di questi ed altri versi appresso citati,
perchè tutte di questo volume spiego nel PICCOLO DIZIONARIO.
103
Di deci amanti nn'ha fattu tumía;
Cu' veni, è misa a puntu la cunnanna.
«'Ncurunami la frunti, o nata Dia,
Si stu valuri lu tò cori 'nciamma» ec.
Altre volte troviamo adoperate le ottave con la prima baciata, ossia le
ottave epiche; altre volte ancora, ripetendosi più d'una fiata queste rime
baciate a fin di ottava, nascer veggiamo nè più nè meno il rispetto, che è
sì comune presso il popolo di Toscana e dell'Umbria.
Però non si creda tutt'oro di coppella ciò che in queste leggende ci
resta; e a certe espressioni, a certe parole, a certe dissonanze (che però
il popolo fa sparire cantando) ho visto torcere il niffolo a qualcuno, biascicando l'orazione his plebecula gaudet1: ma che volete, non omnes
eadem mirantur amantque rispondo con Orazio medesimo2; e per me è
sacro ogni rimasuglio di queste antiche storie di popolo3. E poi sentite
al proposito come scriveva quella venerabile persona ch'è il Tommaseo,
autorevole maestro in queste cose: «Fra le tante leggiadre immagini rincontrerete qualcuna che l'arte avrebbe a ragione evitata; fra i tanti versi
soavi, qualcuno che passa la giusta misura; fra le tante eleganze qualche idiotismo disubbidiente a grammatica: e queste macchie agli occhi
degli accademici dalla natività coprirebbero ogni candore; ma noi non
parliamo agli accademici dalla natività. Versi di non giusta misura (a
cui la pronunzia deve aggiungere o tôrre qualche suono) troviamo in
Dante... ne troviamo in Omero, in Virgilio. Quanto alle rime assonanti,
codeste cred'io dimostrino la delicatezza dell'orecchio popolare, che di
meno materiale corrispondenza si appaga e coglie più tenui differenze»4.
Se anacronismi e bisticci trovi nelle leggende, e mescolanza di sacro e di
profano, di storico e di favoloso, e di uomini e fatti lontani e disparatissimi, ciò ti sia argomento della povertà di natali di esse, e anche della loro
antichità, se il consenti, giacchè le narrazioni e i romanzi del medio evo
sono siffatti. Un esempio ci basti. «I nove Prodi che giravano, secondo la
credenza, pel mondo invisibili a cavallo uniti colle Fate per proteggere
i buoni, ed animarli a grandi avventure, erano Sansone, Davidde, Giuda
Maccabeo; Alessandro, Annibale e Giulio Cesare; il re Artù, Rolando,
1
HORAT. Ep. L. II, 1.
3
Sanctum est vetus omne poema. HOR. Ep. l. II, 2.
2
4
104
HORAT. Ep. L. II, 2.
Canti popolati toscani, vol. I, pag. 12-13.
e Lancillotto del Lago»1. Segno di loro antichità è pure l'invocazione e
la lode a Dio ed ai Santi nel principio e nel fine della leggenda (appunto
come adoprossi negli antichi poemi cavallereschi) benchè l'argomento
trattato fosse tutt'altro che religioso, anzi talora incredulo2 e schernitore
di certe nubi che dopo i primi secoli vennero ad offuscare la purità del
cristianesimo. Nelle leggende non cercare per altro l'artificio degl'intrecci e la moralità voluta persuadere a bello studio, che rara cosa vorresti;
ma sublimi sentenze troverai ad ogni passo, grandi virtù o grandi delitti,
cui inciela o condanna la voce de' secoli; e storiche tradizioni, e pitture
fedeli di costumi e di passioni, e tanto più care quanto meno industriosa
è la forma onde vengono espresse.
Ma prima che per noi si scenda a mettere in piena luce tutto questo con esempij, che avvalorino insieme quanto fu detto sul carattere
de' Siciliani, ci si permetta di toccare per sommi capi un po' di storia
bibliografica delle siciliane leggende; la quale, nuova quasi del tutto3,
non viene per altro fuor di proposito; ma le nostre opinioni in riguardo
alla lingua pur confermando, ci conduce ad osservazioni e deduzioni
di qualche interesse per chi studia con affetto la tradizione e la poesia
popolare.
Lasciate da parte quello di sacro argomento, le più antiche leggende,
ch'io conosca messe alle stampe qui in Sicilia, rimontano al secolo XVI.
La destruttione de Lipari per Barbarussa (corsaro): La verità di Patti
in che modo lo prisi, con lo ritorno di faro, l'anno 1544: composta per
Giovan Andria di Simon, detto il Poeta, è la prima ad offrirsi alle nostre
ricerche, e fu stampata con gratia et privileggio in Venezia, e ristampata nel secolo seguente in Messina4. Sono 146 ottave, che si vendevano
pubblicamente, come appare da quella ch'è impressa nel frontespizio: ma
la fortuna che la fece accogliere e ricercare da principio, pe' miserevoli
casi che vi sono raccontati e che interessavano vivamente i contemporanei, non durò lungo tempo: il popolo scartò ed obliò affatto una storia
poetica uscita dalla penna di uomo di lettere5, mentre serba religioso
1
2
3
4
5
G. F. NOTT, nell'Avvertimento al Proemio dell'Aventuroso Ciciliano di BUSONE DA
GUBBIO, pag. 41.
Questo caso è rarissimo in vero in Sicilia.
Dico quasi del tutto, perchè già un interessante articolo ha consacrato il PITRÈ alle poesie
popolari siciliane a stampa, nel suo citato volume Studi di poesia popolare.
In Messina, per Pietro Brea, 1624.
Il verso e la frase del Di Simone non sono di popolo: alla stanza quarta egli ricorda le
antiche guerre di Annibale; altrove serba altre reminescenze di libri dotti; nella stanza 145
dice: «La pinna più non scrive»; l'ultima ottava, ch'è fra le migliori, la riportiamo a titolo
105
le altre che sgorgano dal suo petto medesimo. E prova ce ne fornisce
la stupenda e ispirata Historia di la bella Agata, prisa da li cursali di
Barbarussa nelli praij vicinu a la Licata, la quale, composta nel 1546 e
passata ai torchj venti anni dopo1, risuona tuttavia con mestizia e bellicoso entusiasmo sulle bocche dei nostri montanari, da' quali se l'ebbe il
Pitrè (sebben dimezzata), e la die' fuori col titolo I Pirati2. Ell'è davvero
una squisitissima cosa, in ottave siciliane e rusticana affatto, onde mette
conto che reintegra e completa si ripubblichi3.
La vita di Angilu Falcuneddu, capu di scurrituri, e la sua morti alli 25
di aprili4, è un'altra importantissima storia del 1566, di quel tempo, cioè,
quando i banditi con la loro potente compagnia di scherani rubavano, ardevano, imponevano taglie, ed atterrivano non che i cittadini, i Vicerè5.
Falconello è di Monreale, ed ha vent'anni: capo di cinque malfattori, si
annida su' monti di S. Martino e ddel Scale, donde scende a frequenti
assalti ed uccisioni, portando il terrore e la strage dovunque ei pervenga.
Moltiu buoni cittadini, spalleggiati da venti militi, lo inseguono e accerchiano alfine in un casalino, dove mentr'egli fa festa arditamente, vien
morto da una palla al cuore. La moralità, che l'ignoto cantore popolano
trae dalla fine del Falconello, viene così espressa nell'ultima ottava:
Cussì lu vinticincu di l'aprili
di saggio:
Cussì lu casu tuttu quantu è statu
di Lapari dugliusu e discontenti
comu lu supra vi l'aggio narratu
per quista rima mi mortalimenti:
s'in qualchi cosa forsi havissi erratu,
perdono vi domando humilementi;
la colpa dati di qualchi mancanza
a cui mi tinni tanto tempo in Franza.
1
In Palermo, per le stampe di Matteo Mayda 1566, in-16: altra stampa anteriore non conosco. Nella ottava penultima vi si dice:
L'annu quarantasei faczu stu cantu
A lu fravaru milli e cincucentu.
2
3
4
5
106
PITRÈ, Canti popolari siciliani raccolti ed illustrati, vol. II, num. 926: Paler., L. PadoneLauriel editore, 1871.
E lo facciamo difatti nell'APPENDICE a questo volume.
In Palermo, per le stampe di Matteo Mayda, 1566, in-16.
Più famoso fra' contemporanei banditi, un Vincenzo Agnello ebbe l'ardire di farsi vedere dal Vicerè duca di Medinaceli disposto in ordinanza co' seguaci suoi sopra un colle,
toccando trombetta e facendo sventolar lo stendardo, su cui era dipinta la Morte. Vedi
AURIA, Cronologia dei Vicerè, pag. 46: e DI BLASI, Storia del Regno di Sicilia, lib. XI
epoca Austriaca, cap. XII.
Lu Falcuneddu ci laxiau lu strazzu;
Cussì surtisci a cui campa crudili
E dici: a chistu pigliu, a chiddu ammazzu.
Sempri bon ventu nun spanni li vili;
Lu scurrituri l'ha la Morti in brazzu;
A la liggi di Diu stajati fidili
E chistu è lu rigordu chi vi fazzu.
Tutta la leggenda, che a frammenti corre ancora sulle bocche de'
montanari dell'Isola, è in canzone siciliane bellissime, ed è la prima che,
riguardante banditi, io trovi a stampa; ma non è l'unica certamente; perchè, oltre a quella su Testalonga, già notata dal Vigo1, e ad altre che
eisteranno sconosciute, io n'ho avute a mano due del principio del secolo passato, le quali passerò più giù a disamina. Per la qual cosa, mal
si apponeva il Pitrè quando, nell'esame delle poesie popolari a stampa,
lasciò scritto: «In Sicilia, la leggenda profana, la leggenda specialmente
di banditi (dico sampata), non fiorì mai2». Egli, che tanta luce ha portato sulla tradizionale poesia del popolo nostro, sa benissimo di quanta
circospezione abbisognino i giudizj in questo genere di studj; dapoichè
ciò che oggi pare evidente e scevro di errori, è infirmato domani da
una scoperta, da un documento novello. Così, quella storia serio-faceta
dell'allocco Antonio Nnàppa, a cui la moglie fa insulti, ingiurie, onte e
fusa torte, finchè egli non la fa divenir savia con sante legnate; quella
storia, dico, che fino a ieri si conoscava solo in una stampa del secolo
passato, e ad esso secolo attribuivasi; ho trovato che fu già stampata tale
e quale al 1588 in Palermo3 col titolo seguente: La historia curiusa di
Antoni Nnappa con la quali si declara la virtù di lu vastuni contra li
mugghieri, composta da lu pueta palermitanu. Questo anonimo poeta
mi par di popolo vero, ed ha popolarissima forma, limpida, immaginosa,
vivace: e basti questa canzona ad esempio:
Si lu guaddemi 'un mutava rigistru,
Nun 'nzirtava la strata e lu violu:
È lu vastuni di virtuti un mistu,
1
2
3
La vita e la storia di Antuninu Testalonga e Cumpagni, in terza rima siciliana di JAPICU
VURZÌ catanisi. Catania per Barsagni, 1765: presso il VIGO, Canti popolari siciliani,
pag. 107.
PITRÈ, nel cit. vol. di Studj di poesia popolare, p. 243.
In Palermo, per Giann'Antonio De Franciscis, 1588: in-16.
107
Addrizza lu vastuni un mariolu;
Cu lu vastuni si fa lu rigistru,
Fa fari lu vastuni a tutti volu;
Lu vastuni fa bonu ad unu tristu,
E lu vastuni ammanza lu figghiolu.
Il lamento che fa una vecchia per un gallo perduto, novamente posto in luce per Giuseppe Rosso siciliano1 merita particolare attenzione
per due fatti importanti: il primo, quello di vedere riprodotta un'antica
leggenda anonima col nome di un padre putativo, il quale, conoscendo
che la poesia del popolo è fatta da tutti ma non è fattura di nessuno,
se l'appropria senza uno scrupolo; e di fatti m'è caduto sott'occhio un
esemplare del Lamento uscito da' tipi di Decio Cirillo al 1628, im-16°, il
quale non reca nome d'autore e si dice nuovamente posto in luce; il che
ci dà argomento che una più antica edizione senza dubbio esistesse. Ma
il curioso è poi questo: che mentre il Russo appropriasi la paternità della
leggenda al 1695, sorge al 1750 Antonino La Fata da Catania che zitto
e cheto la ristampa come cosa propria2. Il caso non fu nuovo forse, ma
certo non è solo; e mi basta richiamarmi al sì divulgato Cunsigghiu di li
Zingari di mastru Vitu Catarinicchia3 che non è altro che una riproduzione alquanto rabberciata del Cunvitu di Baccu di Vincenzo Calacione,
tanto comune ed accetto nel settecento ed ottocento4: ma questo fatto
medesimo concorre sempre più a raffermare la mia idea, che la leggenda
rimonti ad epoca anteriore, per lo meno al principio del cinquecento5. Il
secondo fatto che rende interessante questa poesia, ed aggiunge prove
alla antichità sua, e quello di vederla da tanti e tanti anni ripubblicarsi di
continuo in Napoli, anonima e scempiatamente voltata in italiano6.
Popolari ed in ugual maniera tradotte corrono in Napoli, Milano,
Firenze, Il morto risuscitato, La zingarella, ed altre storie: ma avendole
1
In Palermo, per Costanzo, 1695.
3
Palermo, presso Ignazio Mauro, 1865, e prima e poi.
2
4
5
6
108
La vecchia ca persi lu gaddu per ANTONINO LA FATA catanese. Catania, 1750.
Lu Convitu di Baccu in canzuni siciliani cumpostu da VINCENZU CALAXIUNI, dedicatu a bastasi, mattareddi e siggitteri. In Palermo, per G. B. Molo 1723.
Leggasi quanto ne dice il PITRÈ nel citato scritto sulle Poesie popolari siciliane a stampa, pag. 274 e segg. dove discute anche con belli argomenti sul tempo al quale ascrivere
il Lamento in discorso.
Che l'originale sia il testo siciliano, lo vedrebbe un cieco: pur il PITRÈ (articolo cit.) ne
reca per via di esmpj la prova evidente.
diligentemente esaminate il Pitrè1, io taglio corto ad esse, a vengo a Lu
schettu scuntenti2, a Lu lamentu di un rugnusu3, e a Lu Frusteri a parti
strana4. Del primo componimento, che si chiude in 42 canzone lagate
fra loro dalla rima, e di forma elegante e popolare, è autore quall'Antonio
Zacco da Catania vissuto nel secolo XVI e del quale di stampa e ristampa anche oggidì il notissimo Medicu riversu5: eccelle nel secondo l'intendimento morale e religioso; è in ottave siciliane, e ce n'ha delle belle,
ma il poeta parmi di lettere infarinato: il terzo è opera dell'analfabeta
Girolamo Iaci, il cui nome si registra nell'ultima canzona; non manca di
pregi, ed è ripetuto dal popolo anche al presente, sebbene incompleto.
Una parola di più, e non inutilmente, spendiamo sulla poetica leggenda
I due infelici amanti milanesi6. Il cavaliere Alessandro, riamato amante
di Lorenza, è venuto da Milano a Firenze più che mai doloroso per quella separazione che niun amatore vorrebbe mai: e quivi, per difendere
la fedeltà della sua diletta, uccide in duello un Alfiere veronese, onde
per ordine del Granduca è fatto giustiziare al momento. Affettuosa, immaginosa è la poesia, e nella forme e nel concetto niente trovi che non
concordi col sentire e col pensare del popolo; anzi molti versi vi leggi,
che qua e là si riscontrano nel canzoniere popolaresco; e degni di nota
quelli, che son levati di peso dalla storia della Baronessa di Carini, e
ch'io riporterò a suo luogo. Veggasi intanto questa ottava, che col pianto
e con la morte di Lorenza dà fine alla leggenda, e serva di conferma al
nostro giudizio sopra il Poeta, il quale crediamo più antico, e tutt'altro
che il ripubblicatore Di Gregori:
Cu l'occhi stava marandu lu tettu
comu vulissi contemplari in Diu:
1
G. PITRÈ, op. e loc. cit.
3
Lu lamentu exortativu chi fa un rugnusu, riduttu a l'estrema miseria per li mali conversazioni, compostu a datu in luce da DOMINICU D'ALOI di Galteri. In Palermo, per l'Isola,
1689.
2
4
5
6
Palermo, per Colicchia, 1654. Fu ripubblicato al 1758, in Palermo, nella Stamperia Ferrer
col titolo: Canzuni siciliani in ottava rima supra lu schettu siddiatu di li cattivi, cumposta
da ANTONI ZACCU Catanisi.
Storia nova di quantu pati un Frusteri a parti strana. Cumposta in ottava rima da
GIROLAMU IACI, cittadinu di la Licata. In Palermo, per Costanzo, 1695.
Palermo, presso Ignazio Mauro, 1862, e prima e poi.
Lu stupendu e maravigliusu successu di dui infilici amanti milanisi. Vulendu addimandari
licenza alla Signura sitiriti quillu chi successi. Novamente posta in luce per FRANCESCO
DI GREGOLI. In Paler., per Costanzo, 1695.
109
dissi, chiancendu cu tantu rispettu:
E comu nun ti viju, beni miu?
Poi chi moristi prima, ti promettu
di moriri per tia, signuri miu.
Battennusi continuu lu pettu,
dicendu: ohimè Lixiandru! e poi finiu.
Lasciando da parte La miseria delli pedanti, Lu curnutu cuntenti, La
lésina, L'infelice supplicante, La nuvedda Cuccagna in Conca d'oru,
Li glorii imparagiabili di la bedda Vucciria di Palermu e simili1, più o
meno interessanti e spiritose, più o meno ben verseggiate, ma che lontano un miglio rivelano la penna e la mente dell'uomo di lettere; io
passo a far un cenno delle storie de' due banditi Raimondo Sferlazza e
Francesco Antonio Papaséudi2.
Esse corsero popolarissime e ricercate nel passato secolo, come ne
attestano le varie successive edizioni; ma in vero son parto pur esse di
uomini più o meno scienti de' libri; onde la fortuna di queste poesie appresso il popolo deve ripetersi per metà dal tema stesso e per metà dal
conforto che tutti i buoni dovean trarre nel vedere rappresentato il trionfo della giustizia sui feroci, «che dier nel sangue e nell'aver di piglio3».
Di fatti, che si propone l'autore che canta di Sferlazza? Niente altro che
«pri esemplari a li giuvini sfrenati»
........................................ in brevi dinotari
Lu fini, quali fa cu' arrobba o ammazza:
e quindi sin dal principio esclama:
Di la campagna tanti scurrituri,
Omini risoluti crudi e forti,
1
2
3
110
Vennero alle stampe al 1697, 1706, 1707, 1708, 1712, 1722, ed acquistarono qualche
popolarità: oggi sono in dimenticanza presso il popolo.
Distinta istoria di la vita e morti di D. Raimundu Sfirrazza iniqu capu di banduti, e soi
pessimi cumpagni, composta da GIUSEPPI PRESTERA' palermitanu, in terza rima siciliana, In Palermu pri Felicella e Gramignani, 1727; e per lo stesso al 1728 e 1729. - Lu
fini di lu larruni espressu nella storia di Cicc' Antoni Papaséudi e so cumpagni. In terza
rima siciliana. In Palermu, pri Antuninu Epiru, 1729; e per Gramignani 1730. Nella copia del 1729 trovo scritto sul frontespizio in caratteri del tempo: «di un anonimo poeta
monrealese».
DANTE, Inferno, c. XII, v. 105.
Chi si nni dici di tantu valuri?
Pri li fallaci e iniqui soi diporti,
Pri 'ncattivari e pri rubbari a tanti,
Oh quanti a li tri ligna nni su' morti!
...................................................................
Cussì, cui pigghia pri la strada mala,
Finisci la sua vita 'ntra l'affanni,
E lu mundu cussì paga e rigala.
Nè diverso è l'intendimento dell'ignoto cantore di Papaséudi, il quale,
narrata la violenta e disonorata morte del capo bandito e de' suoi compagni, grida:
Impari ogn'unu a sti funesti canti,
A sti ruini, precipizii e morti!
e ricordando il recente esempio del temuto Sferlazza, predice che
penderanno ancor dalle forche il compagno di lui Scursuni e quel tale
Sfirrazzedda, bandito di Partinico, il quale tra le male lane,
Abbinchì fussi di diciott'anni,
Si vulia fari d'un gran nomu acquistu.
Dal 1730 a noi, altre leggende tradizionali si sono messe ala luce,
come pur non sono mancate quelle di popolani e simidotti, nate nelle
occorrenze e fortune varie dell'Isola: conosco il titolo di parecchie, ma
nessuna ancora ho potuto esaminare. Ond'è che dobbiamo venire fino al
1857, cioè al volume di Canti popolari siciliani di Lionardo Vigo, nel
qual volume sette storie tradizionali si rinvengono, raccolte dalla viva
voce del popolo1. Quattro nuove se ne leggono fra' Canti popolari di
Giuseppe Pitrè. Eppure, tut'altro che esaurita è questa preziosa miniera
in Sicilia; chè cinquantadue, di bellezza e importanza singolare, ne conservo inedite e pronte alla stampa: e di queste appunto mi avvolgo, per
discendere con esempj a perticolarità maggiori su le siciliane leggende e
sull'indole speciale del popolo nostro2.
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2
Come si vede, ho escluso i Contrasti, de' quali ben a ragione il PITRÈ ha fatto una classe
distinta.
Tra le storie, che passo ad esaminare, ho voluto prescegliere quelle che offrono caratteri più
spiccati a chiarire l'indole de' Siciliani. Si rilegga ciò che ne scrivemmo a pag. 16 e 17.
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In Borgetto, in tempi lontani, primachè uno stormo di banditi ne avesse fatto un casale1 che al 1360 cadde nelle branche de' PP. Benedettini2,
levavasi un Castello dove gentilezza e cortesia avevano sede3. Un brani di
leggenda porta che l'unica giovinetta figlia del Conte, signor del Castello,
segretamente amoreggiasse con un suo vago scudiere: il che dal padre
saputo, il giovane è mandato alla forca: ma in questo la Contessina si affaccia, e udita la voce dello sfortunato che le si raccomanda, impedisce
al boia l'esecuzione, e dal genitore ottiene la vita e la mano dello amante;
il quale così, creato Cavaliere, diviene il Signore della Terra. - La stessa
rozzezza di certe frasi e parole fa fede dell'antichità di questi versi.
- Ora affaccia la Stidda, vera luci4 ,
Un pocu avanti cchiù scuru facia;
Tu mi mittisti cu li vrazza 'n cruci5,
Eu 'un era omu ca ti lu dicia.
Mi vrocu e mi rivrocu senza cruci6 ,
Vaju a la furca e va' moru pri tia7;
Bedda, dùnala tu la nova vuci,
Lévami di la furca, armuzza mia! - Férmati, boja, cchiù nun jiri avanti,
Lu chiaccu scinni, e lu 'mpisu mi cala:
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Vedi VILLABIANCA, Opuscoli palermitani, vol. XIII, ms. Qq. E. 89, della Biblioteca
Comunale di Palermo.
VITI AMICO, Lexicon topograficum Siciliae, art. Burgettus; e ROCHI PIRRI abatis netini,
Sicilia sacra ec. lib. IV, par 2ª, ove dice che la nobile Donna Margherita De Blanco donò al
monastero di S. Martino delle Scale de' Benedettini Casale Burgetti cum juribus suis.
Lo accenna il MALATERRA, FRA SIMONE DA LENTINI e qualche altro. Il piano, ch'è
davanti alla villa e casa Migliore, anche oggi vien inteso per piano del Castello; nome per
altro che sempre gli è stato dato nella enumerazione de' fuochi, delle case e delle anime
fatta dal Comune. È poco più che un ventennio trascorso che prepotente e vandalica mano
atterrava gli ultimi vestigi del Castello, perchè gli enormi e ben tagliati massi formassero
il fondamento e le mura della sua casa. Quod non fecerunt barbari, fecerunt barbarini!
Vedi NOTE E DOCUMENTI (C).
Parla il giovane che va alla forca, vedendo affacciare, la Contessina, stella e vera sua
luce. - Il VIGO ne' Canti popolari (VIII, 104) ha otto versi di Giarre simili a questa prima
stanza: ma poco si comprendono così staccati dagli altri, e trsformati come sono.
Tu mi costringesti, io non t'avrei mai detto il mio amore.
Vrocu e rivrocu, contratto da vròdicu e rivròdicu, mi seppellisco vado a seppellirmi. Senza
croce perchè condannato.
Il POLIZIANO (Rime, ediz. Barbèra, 1863, pag. 273) disse: «Per troppo amore i' son
condotto a morte».
A morti 'un divi jiri lu mè amanti,
Ti lu òrdinu eu ca sù suvrana.
Lu Conti cu la figghia nun si nega;
................................................................
Ma si pri forza la testa ti leva,
Lu mè coddu a li sbirri e tu ti paj 1. Di la furca a l'otaru fu purtatu;
Sùbitu lu visteru cavaleri,
Spirùna d'oru e sciàbula a lu latu,
Si persi la mimòria di scuderi:
Signuri di Burgettu titulatu,
Avanza lu cchiù nobili guirreri;
La Sorti e la sò Dia l'ha 'ncurunatu,
E sutta lu dumíniu un Statu teni.
Le reminescenze cavalleresche, in Sicilia non troppo frequenti, crescon grazia alla seducente Regina delle Fate; per la quale i più ricchi e
potenti Baroni sospirano, e chi la libertà perde per essa, e chi la vita. Il
Contino galante, che nè sappiamo nè ci fu dato trovare chi sia, trionfa
alla fine della bella disdegnosa, dopochè in sella armato alla campagna
abbatte dieci rivali con maraviglioso valore, e dopochè si è mostrato
esperto e gentilmente passionato poeta sotto i veroni della diletta donzella. La virtù dunque colla poesia e coll'amore hanno ottenuto ciò che
al solo amore, alla potenza, all'oro non fu dato di ottenere. Le due ottave
che qui riporto, mentre da un canto appartengono alla più squisita e immaginosa poesia ch'io m'abbia mai letta, ricordano dall'altro un costume antico siciliano, seguìto da' poeti della Corte Sveva e dal re stesso,
giusta le parole di Matteo Spinello: «Lo re Manfredi la notte esceva per
Barletta cantando strambotti e canzuni, che iva pigliando lo frisco, e con
isso ivano due musici siciliani ch'erano gran romanzatori»2.
1
2
Anch'io darò il collo al boja, e sarai pagato. Così all'amante suo.
Diurnali, anno 1258, presso il MURATORI vol. VII, e il CARUSO Bibl. Sic. vol. II. - Il
Notturno, anche ai dì nostri, non è mai senza i musici o più propriamente i suonatori,
perchè mercè di essi «più di piacer lo canto acquista», com'ebbe a dir DANTE (Parad.,
XX, 144). Non mi si ascriva a carico se ricorro all'autorità di SPINELLO, oggi che il
tedesco BERNHARDI l'ha fatto apparire una falsificaziono del sec. XVI: poichè ancora
sub judice lis est. - A questa nota della Iª edizione or aggiungo che il sig. CAMILLO
MINERI - RICCIO da Napoli ha ribattuto con vigore di dottrina e di documenti l'accusa
del BERNHARDI, mostrando quasi ad evidenza l'autenticità de' Diurnali. (Vedi il vol. I
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Gira 'ntunnu1 lu jornu e la notti
E duci duci cci cogghi la mota,
E duci duci cantannu strammotti,
Comu lu risignolu di la rosa: «Amuri ca furmau stu cori forti,
'Ntra stu curuzzu l'Amuri arriposa;
Amuri parra e mi duna li botti,
Li canzuneddi soi 'n bucca mi posa2.
Tu si' la rosa, - la rusidda fina,
Lu pumu d'oru ch'annaca la rama3,
Di li Fati e di l'Ancili Rigina,
Lu paradisu chi stu cori abbrama!
Ridi a Livanti 'na luci divina
E cunsola lu mìsaru chi ama,
Mi dici ca la stidda matutina
Lu suli cu li räj doppu si chiama4».
Ne' Due Banditi del bosco di Partinico tu vedi già la baronale prepotenza che, dopo i memorabili Vespri, sorse gigante ad opprimere il generoso
popolo5. Per fallo d'amore cercati come i Francesi6, fugati col fuoco e
colle armi dal bosco, riparano in quel di Castellamare, ove il persecutore
Conte potenza non tiene, e di quivi s'imbarcano. Malinconicamente af1
2
notamenti di Matteo Spinelli da Giovenazzo difesi ed illustrati da C. MINERI-RICCIO.
Napoli, 1870).
Intorno alla casa dell'amata.
Non potea meglio esprimersi questo concetto, ch'è lo stesso di quello di DANTE (Purg.
XXIV, 52-54):
... I' mi son un che, quando
Amore spira, noto, ed a quel modo
Che detta dentro, vo significando.
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Annaca (da annacari) culla. E tutto il verso si muove, e la rama che culla il pomo d'oro la
vedi e la senti.
Doppu, dietro. Ne abbiamo esempio in DANTE ed in tutti i Classici. - Tutta questa ottava
inciderei in oro.
Anche fino al 1448 il popolo ricorreva al re Alfonso contro le vessazioni di ogni maniera
de' Baroni. Vedi DE VIO, Felicis fidelissimae urbis panhormitanae privilegia (Palermo,
1706). pag. 311.
Il Pitrè, a cui diedi un brandello di questa leggenda, pubblicandolo nel suo Studio critico
sui canti popolari siciliani (Palermo, 1868) ben disse che da questa espressione «appare
che la memoria del Vespro era tuttavia calda nella mente del popolo; oggi nessuno direbbesi perseguitato come un Francese (pag. 82)».
fettuoso è il distacco dalla fiorita patria, e l'addio di Nino alla Contessina
amor suo, ed ai capi Santo Vito1 e Rama che pare abbraccino le acque
del golfo di Castellamare.
Nun cc'era cchiù la nivi a li muntagni,
Lu celu com'un spécchiu strallucia,
Eranu tutti ciuri li campagni,
Chistu guardava a chiddu e cci ridia2 ...
E Ninu e Brasi, l'amari cumpagni,
Vannu suli e scuntenti a la campia,
Ca di li peni hannu li testi bianchi,
L'arma accasciata di malancunia.
La via chi fannu li porta a lu mari,
Ddà cc'è 'na varca ch'aspetta li venti:
- Rima, cumpagnu, e nun ti custirnari,
Chistu 'un è locu ca cci vennu aggenti. Lu ventu 'n puppa li porta 'n canali,
Viva san Petru ca l'afflitti senti!
Su' fora gulfu e la terra scumpari,
Ninu chiancennu fa chisti lamenti:
- Senti la vuci mia, stidda Diana,
Cuntissinedda graziusa e fina,
La sorti scilirata m'alluntana,
Cui sapi a quali fini mi distina!
O capu Santu Vitu e capu Rama
Chi aviti abbrazzatedda sta marina,
Diciti a la Cuntissa quannu chiama:
«Turnirà, turnirà qualchi matina...»
Il dispotismo de' nobili trovi maggiore nella Caterina, ove il Barone
fa incatenare qual pazzo e minaccia di morte l'antico e povero amante di
essa. - Ma se, fidente nel suo potere, il nobile osa contaminare con sagrilegia mano il talamo coniugale, oh no, tanto sfregio non ha sofferto nè
sofferirà mai un siciliano; e gli espulsi Bizantini, e i massacrati Francesi
tel dicano, e le tante vendette private, spesso scintille di civili discordie,
ch'hanno origine da offesa onestà. Allora il più abbietto, il più vigliacco
popolano sa maneggiare un pugnale, uno schioppo, e, pur con certezza
1
2
L'antico Promontorio Egitarso.
Come annotare certe bellezze ineffabili senza guastarle?
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di morte, si vendica spietatamente. Leggi la Vendetta: egli, alla posta
dopo un ponte, scopre a un tiro di balestra1 il Conte offensore tra' suoi
cagnotti; tira impavido, e si accoscia, ma non fugge. L'hanno messo in
prigione: domani la forca. Che importa? Egli ride, ch'ha sparso l'iniquo
sangue nobilesco: e al morto padre, che viene in sogno a benedirlo d'avere rifatto lucente l'onor della sua famiglia, ei dice co sprezzo e cinico riso
che i martirii e la forca son bagatelle, che con securo animo è pronto di
calare all'inferno, dove però, (grida) in quel fuoco aggrapperò il Conte
alla nuca, il cuore gli strapperò, e coi denti stracciatolo glielo sputerò in
faccia. - Scena degna del pennello di Dante!
Severa lezione di morale ci dà il Marinaro di Capo Feto. Tra noi, San
Giovanni Battista è protettore e vindice de' legami di comparatico; ed è
con terrore adorato dal popolo, come un santo che la fa costar salata a
chi viola il suo sagramento. La leggenda pubblicata dal Vigo, I Compari
del Comiso, è bastevole a suggellar questa credenza; ma la riconferma il
nostro Marinaro. «Passato il Capo di Caraccà (scriveva l'Auria al 1652),
quando si va per la città di Patti, vi è un altro Capo, detto Capo Feto;
ed infatti, passandovi da vicino, vi s'intende un certo fetore. I marinai
dicono haver inteso da persone antiche, che in quel luogo è sepolta una
Comare con un Compare, ambidue oppressi miracolosamente nell'atto
venereo da una gran pietra, ... la quale si vede ancor hoggi distaccata da
un grande sasso vicino2». Quest'avventura narra la storia che esaminiamo; e quale spavento incuta quel Capo, ce lo fanno saper questi otto versi
che stan verso la fine di essa:
Lu rimjanti pri la pisca passa;
A Capu Fetu metti a sinniari,
Ca la varchitta sulidda s'arrassa
E pri sùspicu s'áudi cricchïari.
Lu pisciteddu ccà nun àvi passa,
Mori 'ntra st'acqui vilinusi e amari:
Súlitu lu jacobbu cci fa stassa
Cu lu luttusu cúculu fatali3.
1
Un triste quadro è la Donna di Calatafimi, la quale trova ucciso il
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Quando la leggenda nacque, la balestra non era dismessa per lasciare il posto allo schioppo, che poi s'inventò.
AURA, ms. Qq. A. 3, pag. 45 della Comunale di Palermo.
Verso sublime ed impareggiabile!
bambino nella cuna, arde inconscia il più grandetto nel forno, ed ella
stessa è scannata dal marito suo, che la reputa autrice de' due delitti.
Tanto male, dice il popolo, le venne per aver fatto il pane di domenica; perchè «de' Santi devi devi guardare le feste, acciò che l'ira di Dio
non venga sopra di te1». Ma in questa leggenda è forse poca elevazione,
e meno sentimento: questo v'è di notabile, che l'ultima stanza termina
consei rime baciate amo' de' rispetti toscani, e con quattro versi che appartengono alla Baronessa di Carini.
Cecchina è la vittima d'un padre brutale, che fa sagrificio all'oro del
cuore di lei, imponendole un esoso marito, nel quale ei vede l'alba de'
proprî buoni giorni. Il contratto è firmato; domani in chiesa... L'indomani
Cecchina era morta. Imprecando al nero padre, il popolo piange:
L'hannu purtatu supra 'na vara,
Parma e curuna, ciuri a migghiara;
Parrini e mònaci cu níuru mantu,
La cruci avanti, l'amaru cantu:
Chini di pópulu strati e barcuna:
- Chi bedda virgini va 'n sepultura!2
Oltre al patetico suono, è in questi versi registrata una antica gentil costumaza, la quale orna di fiori di corona e di palma la bara della
vergine, che tra mesta folla e mesto salmodiare del clero è condotta al
sepolcro3: costumanza viva ne' comuni di provincia, non in Palermo,
dove i recenti pomposissimi carri funebri hanno annullato ogni idea di
dolore e di religioso raccoglimento che al cuore manda l'immagine di un
mondo che passa4...
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FRA FILIPPO DA SIENA, Assempri, cap. 50. Lo stesso Autore racconta di «una donna
che cosse 'l pane la dimenica, e volendolo poi sfornare era tutto sanguinoso»; e di «un
uomo che lavorando il dì di Santo Bartolomeo si ruppe la gamba». Molte simili storie
corrono tradizionali in bocca del popolo di Sicilia.
Avevamo creduto che questo nuovo metro, che solo in tre o quattro leggende riscontriamo, fosse introdotto in Sicilia dopo il 1830 colle Ballate di V. NAVARRO. Adesso ci
ricrediamo, perchè lo abbiamo trovato in una leggenda del 1789, ed in un'altra del 1813,
tutte e due retaggio del popolo.
Anche nella Baronessa di Carini (v. 169) cennasi anche a tale usanza, che pare un rimasuglio delle corone di fiori, onde s'ornava il capo delle defunte Vestali nella pagana Roma.
Il popolo nostro, che ama di motteggiare e frizzare tuttociò che non gli talenta, ha composto a proposito de' carri funebri la seguente canzine satirica, la quale io raccolsi lo stesso
anno 1868 in cui nacque:
E stamu allegri, genti di la chiazza,
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Beppuccio il valente cionca allegro co' più fidi amici le ricolme tazze
di vino; si fan tocchi, si gioca alla morra: ma fumano le teste, e da una
parola attizzati, imbrandiscono tutti i coltelli... Il lume è già spento, solo
si ode il crosciarsi delle lame. Beppuccio il valente l'hanno morto con
sette colpi gli amici.
Bartolo, uomo già ricco e potente, è ora mendico e fuggiasco pe'
molti nemici che gli stanno alla pelle. Esausto, affamato, precipita con
volontaria disperazione nel mare, in vista del capital suo nemico, Simone
il terribile. Questi palpita di pietà la prima volta, buttasi a nuoto, e salvo
lo riporta in propria casa, donde lo rimanda poi con donativi e col bacio
dell'amore e della fratellanza. Il poeta, un tal di Tommaso, chiude quindi la storia sua con questa ottava di lode ai generosi, di avvertimento ai
traviati:
Populu di Sicilia ginirusu,
Di la liggi di Diu ca nni fai casu,
Diu ti darà cumpensu priziusu,
Ed eu mi vôtu a Iddu e 'n terra vasu.
Vui chi di nimicari aviti l'usu,
Vui 'mparati la véncia di stu Casu;
Triunfu di la vita gluriusu
É lu pirdunu, e cunchiudi Tumasu.
Non è mia intenzione di esaminare qui la copia non lieve delle siciliane leggende, nè il posso; che a sè ritorce tutta mia cura la Baronessa di
Carini, la più varia, la più perfetta, la più sublime tra le leggende.
Ma tuttavolta, prima che ad essa venghiamo, non so resistere a non citare almeno parecchie altre storie che tra le inedite ch'io serbo mi appaiono di maggiore interesse. Banditi e ladri celebri sono Cairone, Saltale-viti, Testalonga, Lupa di mare, Girolamo Bruno, I Fra Diavoli, Paolo
Cocuzza, I Camorristi del Castello di Carini. Ne' Due innamorati, nel
Monaco ospitato, nel Confessore e la penitente, nella Moglie rapita e nel
Frate della cerca è tolto il velo a certe maccatelle di alcuni frati, ai quali,
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Ca 'n paradisu si cci va 'n carrozza,
'Ntra 'na carrozza tutta giumma e lazza
Chi lu gattigghiu fa a li cannarozza:
Servi e cucchieri tutti bona razza,
Vistuti a gala vi vennu a la fossa:
Vurria sapiri cu' è dd'arma pazza
Ca pri tri liri 'un pigghia sta carrozza!
religioso com'è, il popolo di Sicilia non serba poi tanto rispetto, nè risparmia frizzi ed aculei. Il Sangue lava sangue fa rabbrividire per quelle
lotte cittadine che trascinano a ruina famiglie e paesi e che, nuovi Casi
di Sciacca, sulle pubbliche piazze in pieno dì si consumano, perchè la
Giustizia dorme nell'apprestare validi e certi rimedj. Nell'Uccello fatato,
ma più nella Casa incantata e nel Banco di Disisa raccolgonsi le più
superstiziose credenze sui tesori nascosti, le streghe, i fantasmi, i prodigi
della magia. Rosina, La tradita, La bella dello scoglio ti dicono a qual
grado pervenga la passione in cuore di Siciliana, talchè cieca si dona
questa all'amante e seco al mare ed ai boschi si affida. Il Matrimonio
di Federico III e Costanza d'Aragona è cosa che merita studio particolare per l'importanza storica che offre. e così ancora la Rivoluzione del
1672, il Tremuoto di Messina del 1740, l'Eruzione dell'Etna del 1766,
la Rivoluzione francese del 1789, la Carestia del 1813, la Rivoluzione
di Palermo del 1820, il terremoto del 1823, il Dodici gennaro 1848, il
Quattro aprile 1860, il Cholera del 1837, 1854, 1867. Ed a queste si aggiungano la Pestilenza, l'Ascensione di Lunardi col pallone, l'Ascensione
di Comasca, il Condannato a morte, Elisabetta, la Sommersione della
Gran Soldana, gli Sponsali della Contessa, l'Ombra paterna, Cecilia, il
Mercante, e Testamento d'un povero, e Miracoli di Santo Sano, e cento
altre varie, leggiadrissime storie
Ch'io non posso ritrar qui tutte appieno.
II.
Sulla costa settentrionale della Sicilia, dirimpetto l'isola d'Ustica, sovra ubertoso ariosissimo poggio siede la gaia e pulita Carini, l'antica
Iccari, nota più per la famosissima Laide, la cui beltà trascinossi dietro
governanti, filosofi, artisti e poeti1, anzichè per le varie vicende a cui,
per due volte distrutta e rifabbricata, soggiacque per lunghissimi secoli2.
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I Carinesi la ricordano tuttavia coll'appellativo la bedda di Liccari.
Vedi le Notizie d'Iccari in forma di dialogo scritte dal sac. PASQUALE PECORARO,
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Questa Carini, che ne' tempi normanni fu di quel Matteo Bonello che
diè morte (1160) all'infame Maione, supremo Almirante di Guglielmo
il Malo1; e fu ne' tempi angioini del famoso Palmerio Abate, che col
Procida concorse a preparare la strage dei Vespri2; passava il 26 agosto
1397 ad Ubertino La Grua, cavaliere, barone e vicerè per la valle di
Mazara3, e gliela donava il re Martino da' beni appertenenti a Manfredi
Chiaramonte, già fatto decapitare come reo di ribellione e di alto tradimento4. Moriva Ubertino al 1410, e Castello e Terra di Carini restavano a Giliberto Talamanca5, che al 1402 avea sposato l'unigenita Ilaria
La Grua di Ubertino, con obbligo di assumere il cognome e le armi di
casa Grua6. Discendente da questa illustra famiglia Talamanca La Grua,
dopo una serie di successori7, Vincenzo II, investito della baronia al
1536, menava a compagna Laura Lanza dei baroni di Trabia, la quale
faceva fecondo il suo letto di otto figli, tra cui la sventurata Caterina,
soggetto delle nostre indagini e della poetica istoria8.
Aveva il padre abituale stanza con tutta la famiglia nel suo palazzo di Palermo9, occupando sempre i Baroni di Carini i più alti ufficii
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Palermo, 1856, cap. I.-VI.
VILLABIANCA, appendice alla Sicilia nobile, vol. I. pag. 60: e PALMERI Somma della
Storia di Sicilia cap. XXII, 10.
VILLABIANCA, op. e loc. cit.; PALMERI, op. cit., cap. XXX, 9.
VILLABIANCA, op. e loc. cit. pag. 61: Archivio di casa Carini, volume segnato A, da
carta 39 a 42. Sulla tomba di Ubertino, nella Chiesa di S. Francesco de' Minori Conventuali
di Palermo (dove in abito di frate volle esser seppellito in una colla moglie), si leggeva:
Ubertinus. La. Grua. Miles. Baro. Careni. Prorex. Vallis. Mazariae. obiit. anno. 1410
(Archivio cit. vol. A, fol. 92 retro).
PALMERI, op. cit. cap. XXXIX, 2-3. - Le armi della famiglia Chiaramonte vedonsi ancora sulla porta del Castello di Carini insieme a quelle de' La Grua. VILLABIANCA Sicilia
nobile, vol. I, Parte II, lib. I, p. 56.
Era de' Grandi di Catalogna; ed era passato con Martino in Sicilia al 1392 per ire contro i
quattro tiranni che si chiamaron Vicarij. CARUSO Storia di Sicilia, vol. II, parte 2ª, lib. 10.
VILLABIANCA, Sic. nob., loc. cit. - Queste armi sono: Scudo diviso in due pel lungo: il
destro mezzo campo fatto a quadretti bianchi e celesti; nel sinistro, ch'è rosso, vedesi la
gru di color pardo avente una pietra nel destro piede ch'è alzato, mentre il sinistro poggia
sul suolo. Vedi NOTE E DOCUMENTI (D).
Vedi VILLABIANCA e PECORARO, op. e loc. cit. La famiglia Talamanca e La Grua era
imparentata con le regie case de' Greci imperatori e d'Aragona.
Confusi nel VILLABIANCA e nel PECORARO sono i nomi e le successioni di Casa
Carini; noi, avendo compulsato i volumi dell'Archivio gentilizio, abbiamo potuto rendere
chiara ed esatta ogni cosa. Vedi NOTE E DOCUMENTI, (E)
Non è quello rimpetto alla Cattedrale (arso nella rivoluzione del 1860 ed ora in parte
ricostruito) secondo scrive il VILLABIANCA op. e loc. cit.; ma era dietro la chiesa di
S. Francesco, a lato di quello del baron di Solanto, come afferma il contemporaneo cav.
del Regno: la figlia dimorava invece al Castello carinese, ignoriamo per
quale cagione ed in compagnia di chi1. - Nello stesso territorio di Carini
è un vasto feudo detto Don Asturi; oggi di proprietà del duca d'Aumale,
che l'ha aggregato alla vasta sua fattoria dello Zucco; ma nel sec. XVI
di casa Vernagallo, una delle sette famiglie pisane passate in Sicilia nel
14002, una delle più ricche fra le altre nobili, tanto da comperare al 1555
la terra di Calascibetta3: e il barone Ludovico Vernagallo, tanto onorato
dall'imperatore Carlo V, univasi al 1530 in matrimonio ad Elisabetta
La Grua e Talamanca, figlia di Vincenzo I barone di Carini e perciò
sorella di Pietro III, genitore di Vincenzo II4. La parentela, la vicinanza
ch'è mezza parentela, l'età fiorita e fresca e la gentil prosapia avvicinarono il bel cavaliere Vincenzo Vernagallo, terzogenito di Ludovico5, e
il delicato giglio di Carini, Caterina Talamanca La Grua. «Amor, ... al
cor gentil ratto s'apprende»6; e, come fiore, co' fiori nel febbraio germogliando, sbocciò in marzo, diè profumi divini alle aure di aprle e di
maggio, e di sublime poesia alimentò due cuori palpitanti la prima volta.
Ma «chi pon freno agli amanti o dà lor legge7?» Era desto l'incendio, e
dovea consumare non potendo più spegnersi. Chi ha osservato la intensità della prima passione in diciottenne fanciulla siciliana8, che madre
e congiunti e Dio allora dimentica, darà la sua commiserazione al fallo
della disgraziata Caterina, inerme e sola, direi quasi, contro gli assalti
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VINCENZO DI GIOVANNI nel suo Palermo restaurato, lib. II, pag. 321. - Cito adesso
non più dal manoscritto, come nella 1ª edizione, ma dalla stampa che di recente ne ha dato
il DI MARZO nella sua Biblioteca storica e letteraria di Sicilia, vol. X.
La tradizione vocale porta che ivi stesse a tener compagnia ad una vecchia congiunta.
VILLABIANCA, Sicilia nobile, vol. II, Parte 2ª, lib. II, pag. 129; e vol. III, Parte 2ª, lib.
IV. pag. 33. Ho pur consultato l'Archivio di Casa Vernagallo.
VINCENZO DI GIOVANNI, Palermo restaurato, lib. II, pag. 301, ove si aggiunge che
la casa de' Vernagallo, sita in via del Lauro, era cognita per grandezza e magnificenza.
Consulta ancora BONFIGLIO, Messina nobile, cap. II, pag. 72: e VILLABIANCA, op. e
loc. cit. e l'Archivio de' Vernagallo.
Vedi NOTE E DOCUMENTI, (E).
Sempre bel cavaliere e bella figura è appellato ne' versi, come la Caterina coll'epiteto del
testo o coll'altro di vaghissima stella de' Serafini.
DANTE, Inferno, c. V, v. 100.
PETRARCA, Sonetto CLXXXV, in vita di M. Laura.
Un 40 anni addietro mi si assicura esistesse nelle sale del Castello di Carini il ritratto di
Caterina «Era una giovinetta (mi si disse) di alta statura, lunghe trecce bionde, bel profilo,
fresca, delicata, occhio malinconico e passionato: poteva contare diciottanni. Vestia lungo
abito (cantùsciu), con ricco cinto e larghe maniche a voli: nulla di più semplice ed elegante». Sventuratamente questo ritratto non esiste più tra quelli che si trovano al Castello ai
dì nostri.
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di Amore. Ma erano appena dieci mesi trascorsi dacchè quelle anime si
erano intese, che le felicità della innamorata coppia destarono la invidia,
morte comune1; e la spia, pubblico flagello2, fecela un tristo di monaco,
che con odiati colori è ritratto nella leggenda.
Vola il barone Pietro a Carini, l'alba de' 4 decembre 1563, e Caterina,
invano di sala in sala gridando ajuto, Carinesi3! è scannata mentre per
un andito fugge ad altro appatamento. Cadendo, la insanguinata mano
ella imprime al muro, cercando un appoggio, sotto la Gru marmorea
presso una porticina, e quella orma sanguinosa è lì sempre indelebile a
gridare vedetta dell'infame parricidio4.
Vernagallo, cerco a morte dal Talamanca, nascondesi in Lattarini,
quartiere di Palermo; poi lascia la città e l'Isola ancora, e pentito donasi a
Dio, in un convento di Carmelitani a Madrid. In Sicilia non era possibile
che restasse, perchè l'offeso e fiero padre di Caterina lo avrebbe scannato anche sugli altari. La fantastica mente del popolo ha immaginato che
lo spirito di lui vada ancor da quel dì per le aeree regioni, piangendo e
chiedendo vendetta contro il padre assassino5. Il Castello fu chiavato e
murato; si disse vi albergassero mali spiriti6: e quando, molti anni dopo,
fu riaperto, il Barone fece murare la comunicazione tra la stanza dove
scannò la figlia ed il proprio appartamento, e per quella fece aprire la
nuova porta che dà nell'atrio, facendovi sopra incidere in lastra marmorea le parole che anch'oggi si leggono: ET NOVA SINT OMNIA. Ei ten1
DANTE, Inferno, c. XIII, v. 66.
3
Inseguita dal padre, Caterina gridava: ajuto, Carinesi! ma nel momento che quel mostro
la feriva, gridò invece, non visto accorrer nessuno, Cani, Carinesi! epiteto registrato nella
leggenda, e veramente cagnesco; perdonabile a quella disgraziata in quell'estremo momento, ma non a chi, anche oggi, ingiuria Cani i Carinesi, che son in vero tra' più gentili,
ospitali e cordiali Siciliani. E ben l'ho provato tre volte che son ito nel lor caro Comune.
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Delatores, genus hominum publico exitio repertum. TACITI, Annal. lib. IV, 30.
Al PITRÈ, ed a me pure, osservando quella impronta cruenta di piccola mano, parve quel
rosso non essere proprio il sangue del 1563, ma un colore forse che posteriormete si aggiunse, perchè viva restasse quella macchia che per gli anni sbiadiva.
Vedi NOTE E DOCUMENTI (F).
Chi murò le sale del Castello fu un murifabbro cognominato Oliveri, ma ingiuriato
'Ntampani (baggeo), ed ebbe facoltà dal Barone di prendersi tutt'i mobili della stanza
del delitto. L'Oliveri non volle però toccare una cassetta che, dal peso, conobbe contener
danaro: anzi smurando dopo qualche tempo le stanze, presentò al Talamanca la cassetta
là dov'era. Ammirato di tanta fedeltà, questi gli concesse un pezzo di terra a sua scelta:
ed egli, da scimunito che era, scelse un piccolo piano sopra Carini, sassoso, infruttifero,
che d'allora in poi fino al presente si noma il Piano di 'Ntampani. I pronipoti di questo
muratore abitano in Borgetto, e conservano viva la tradizione di questo aneddoto, come
dell'arte di lui ed anche un pochino dell'indole paucis exceptis.
tava con questo mezzo, ma invano, di allontanare ogni memoria che al
suo misfatto lo richiamasse; ei tentava di cacciare dal petto il disperato
rimorso, che gli avvelenava i giorni e le notti, dando sontuosi festini e
maritaggi nuovi celebrando; poichè la inconsolabile madre di Caterina,
non reggendo alla piena di tanto dolore e pari ad ombra cieca divenuta,
non sopravviveva che pochi mesi alla infortunata sua primogenita.
Questa è la storia che i versi e la uniforme tradizione di tutta l'Isola
ci conservano. Non curo e non registro i cento aneddoti, le cento avventure, i cento romanzi che sulla Caterina sonosi accumulati presso
il popolo, perchè alla critica, al buon senso, alla storia non reggono. I
Dumas vi mietano e spigolino, ch'è campo per loro. A me basta, a mia
scusa, far avvertire come i miracoli, i prodigi, le fortune e le sventure
inaudite si raccontino centuplicati, trasformati, con migliaia di chiose,
contradittorie sovente: perchè chi racconta ciò che udì, aggiunge, toglie,
modifica a senno suo, o per bizzarria, o per mostrarsi più animato dipintore. E a prova di ciò vi basti l'esempio del Quintilio del Gozzi che
inventava storiette per vederle divulgare, crescere, trasformare: o l'altro
esempio di quel marito che finse partorir un uovo, narrato in arguta
novelletta del Guadagnoli che, in parentesi, lo tolse di peso ad un autore
Francese, il quale a sua volta l'avea rubato ad un nostro cinquecentista
Anton Francesco Doni1.
Ma sento qui domandarmi: - Una poesia popolare, che probabilmente
potrebb'essere una spiritosa invenzione di qualche ingegno, come tante si
dànno a' dì nostri almanaccate leggende nere e bianche e bigie su questo
castello, su quel lago, su quel burrone: una tradizione che, appunto per
ciò che poc'anzi è detto, può essere falsa o almeno molto sformata: una
macchia rossa ad un muro, che anche per semplice ghiribizzo potè venir
fatta: tre nomi, storici sì, ma che potrebbero esser messi ad arte in iscena
per dar faccia di verità ad un parto di fantasia: questo solo, insomma, è
egli bastevole, perchè noi potessimo giurare sulla veracità storica di un
fatto sì luttuoso ed inaudito? Gli storici, i cronisti, gli scrittori contemporanei, che ne han lasciato di certo? La lira dei poeti letterati dell'epoca,
che strimpellava minuziosamente su tutte le frivolezze, fu muta affatto,
quando l'intera Sicilia era messa a rumore per tanto delitto?
È facile una risposta quando noi ci facciamo a tratteggiare in poche linee l'epoca triste dentro di cui si compiva l'abominato parricidio.
Eccelle in essa lo spirito di rivoluzione, quello di vendetta, e la sete di
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Trovasi nelle lettere di lui, ed anche nel volumetto di Novelle che ne pubblicò nella
Biblioteca rara il Daelli al 1863 in Milano.
123
sangue. Il tumulto contro gli Ebrei, la espulsione del Vicerè Moncada, la
sanguinosa congiura di Squarcialupo e quella dei fratelli Imperatore, il
Caso di Sciacca, il tumulto che notar Tersino capitanò, ce nedanno prove
sufficienti e chiarissime1. E frattanto i ladri scorazzavano arditamente le
campagne, imponendo taglie ai proprietari, e sfidando a suon di tromba
i Vicerè2: i Turchi ardevano, saccheggiavano le città e le ville di tutto
il litorale,e predavano le fanciulle3; e i Baroni, spesso rapitori impuniti
delle sacre vergini ne' monasteri4, co' loro scherani si afforzavano ne' castelli, sempre a dovizia forniti di trabocchetti, carceri, ordigni di tortura;
e spesso rubelli, impaurivano i re colla lor prepotenza. E questi dall'altro
lato non poterli affrenare, non poter ridurre a calma e sicurezza il Regno,
a malgrado de' profusi tesori; perocchè ben altre cure li teneano in continuo travaglio, le lunghe guerre contro il Turco, contro la Francia, contro
l'Olanda, la Inghilterra, il Portogallo5.
Quand'io volsi la mente a riunire le sparse membra della leggenda di
Caterina La Grua, corsi con sollecita cura a rovistare le storie del XVI
e XVII secolo. Quanta infruttuosa fatica durai! Trovai narrate le guerre
che i re nostri sostennero, i subugli popolari, le lotte civili, le scorrerie
dei ladri e dei Turchi, i provvedimenti dei Vicerè, le pretese vittorie, le
luminarie, i tornei, i caroselli fatti per dar polvere negli occhi alla infelice popolazione e farle dimenticare così le fami, i tremuoti, la peste
che l'affliggevano: ma non solamente non trovai un cenno dell'assassinio
consumato in Carini, ma neanco una parola che riguardasse gli abituali
delitti o le prepotenze de' nobili; e se questi son qualche volta ricordati,
lo sono per vigliacche adulazioni alla corte che dava lor campo franco
per non averli nemici. Scoraggiato ricorsi ai Diari manoscritti, nella speranza che qualcuno m'avesse potuto rivelar intera la verità, per ciò che il
Diarista non avea fatto di ragion pubblica il suo scritto, e ben conservato
l'avea trasmesso ai nipoti. Ma l'immagine del nobile coi suoi cagnotti
stava pur sempre innanzi agli occhi del Diarista. Egli, che ad una caccia
artificiale, ad un torneo, ad un ingresso di nuovo Vicerè o Cardinale, o
ad altre inutili insulsaggini consacra ben molte pagine; quando viene al
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Vedi il DI BLASI, Storia del Regno di Sicilia, lib. XI, epoca Austriaca: e PALMERI, op.
cit. cap. XLII-XLIV.
Vedi avanti a pag. 40.
PALMERI, loc. cit.: LA LUMIA, La Sicilia sotto Carlo V, c. VI e segg.
Vedi il Diario di PARUTA e PALMERINO, nella Biblioteca del DI MARZO citata qui
appresso, vol. I, pag. 45.
DI BLASI, Storia ec. epoca cit. cap. XV.
punto di segnare l'empio operato d'un Grande pargli vedersi luccicare
davanti il pugnal nobilesco, e si confonde nelle idee, e trema e verga,
e scrive in modo rapido e oscuro: «1536. Sabato a' 4 Xbre succese il
Caso della Signora di Carini1». Valerio Rosso2, Palmerino ed altri due
Diaristi3, copiandosi pur dicono le parole di Filippo Paruta. Solo un anonimo, il cui ms. era in potere del Marchese della Favarotta (paesetto
vicino a Carini), sollevò un po' più il velo dicendo: «1536. Sabbato a
4 Xbre fu ammazzata la Signora Donna Caterina La Grua, Signora
di Carini4». Ma a ciò pongasi mente, che nessuno si attenta non che di
accennare la causa della morte, ma di nominar l'uccisore. E la ragione è patente: Vincenzo Talamanca La Grua, di alto e antico lignaggio
spagnuolo, imparentato a due case regnanti, ricchissimo e potentissimo,
orgoglioso più che altro grande di Spagna, talchè in questa palermitana
provincia è passato in proverbio5; incuteva spavento ai più forti e più
ricchi. Vincenzo Vernagallo dovette nascondersi, fuggire ad un convento
fuori dell'Isola. Caterina venne scannata, e la Giustizia non ardì proferir verbo. Erano i tempi corrotti ed iniqui che portavano a ciò: tempi
di schiavi e di tiranni, di rivoltosi e di assassini, senza religione, senza
patria, senza onore. In altra epoca, in cui nel cuore de' nobili al fumo e
all'orgoglio toglieva il posto il cortese e generoso sentimento cavalleresco e il rispetto squisito al bel sesso, abbiam noi visto6 il Conte signor di
Borgetto cedere ai preghi della figlia, assolvere l'infido scudiero e farlo
suo genero. Che abisso fra queste due età, fra questi due titolati!
Il contemporaneo cavaliere palermitano Vincenzo Di Giovanni, che
nel suo Palermo restaurato7 s'intrattiene a dar contezza particolareg1
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FILIPPO PARUTA, Cronica di Palermo, (ms. Qq. F. 4, della Comunale di Palermo), or
già fin dal 1869 data alla luce dall'egregio e dotto Abbate GIOACCHINO DI MARZO nel
vol. I della Biblioteca storica e letteraria della Sicilia. In questa stessa ed eccellente collezione ei pubblica gli altri Diari cui io accenno. E qui colgo la occasione per pubblicamente manifestargli la mia stima e ringraziarlo delle cortesi parole che a pag. 25-26 del citato
volume usa a mio riguardo, pigliando opportunità del Caso della Signora di Carini.
Diarii antichi palermitani ec. raccolti dal marchese di VILLABIANCA, vol. VI, pag. 47,
ms. Qq. D. 98, della Comunale di Palermo.
Riuniti nel ms. Qq. E. 55, della stessa Biblioteca.
Notizie di successi varî ec. Ms. Qq. C. 2. Vedi NOTE E DOCUMENTI (G).
Barone Talamanca si chiama fra noi chi affetta superbia e fumo e va tronfio e pettoruto
battendo il tacco. Bisogna distinguere questo motto proverbiale dall'altro venutoci dagli
Spagnuoli, Dottore di Salamanca, Che si dà a chi si crede i dottrina superiore agli altri.
Vedi il § I del presente Discorso, a pag 49.
Edito nello scorso anno 1872 dal DI MARZO, nella citata Biblioteca storica e letteraria
di Sicilia, vol. X e XI.
125
giata di molti fatti e aneddoti de' tempi suoi, facendoci spesso penetrare
nella storia intima e dentro alle pareti domestiche dei vicerè, de' nobili
e degli uomini illustri ch'egli conobbe; verso l'anno 1565, cioè due anni
dopo la morte della infelice Caterina, ci fa conoscere quale fosse la condizione del paese scrivendo, che Don Garsia di Toledo vicerè, «quando
venne a Palermo, trovò la città oppressa da molti spataccini e bravacci,
che vivevano imperiosamente, inquietando e componendo1. Si vedevano
andar per la città con giacchi, chianette2, broccheri; si facevano coltellate allo spesso; manutenevano costoro le inimicizie; si assassinava e
si facevano molti altri eccessi. Erano quasi inespugnabili; nè temevano
giustizia, perchè erano favoriti dai Signori ed uomini potenti, de' quali
se ne servivano poi, avendone ognuno tre e quattro, dieci e venti, secondo era la loro qualità, a suo comando. I Nobili in questo modo volevano dominare; e chi li contradiceva, si trovava allo spesso e morto ed
assassinato. Si occidevano uomini per le strade di giorno, e non se ne
parlava. In loggia si componevano i mercadanti, e si rapivano le donne,
e si facevano altri enormi eccessi pubblicamente. Alle volte succedeva
inimicizia tra' potenti, e si vedevano le guerre civili, a grosse squadre
dall'una e l'altra parte, in modo che difficilmente si poteva dai reggitori
remediare... Onde ne succedevano diversi effetti ed eccessi, e con ferite
ed omicidii3». Queste parole sono già troppo eloquenti perchè abbisognino di chiosa.
La stessa causa, che imponeva silenzio agli storici, dovea con più
ragione imporlo ai poeti, che in quell'epoca miseranda strisciavano ai
piedi della Corte e della Nobiltà, avviliano nel fango dell'adulazione la
santità della poesia, nata a sublimar Dio e la Patria, a infuturare gli Eroi
e i Benefattori dell'Umanità, a percuotere con implacabile flagello i vizj
ed i delitti, o coronati, o mitrati, o imberrettati. Ciò che avveniva alla
corte di Leon X e di Cosimo de' Medici, avveniva tra noi: nel Continente
e nell'Isola correvan le lettere uguale fortuna: e se al Varchi in Firenze
una stilettata insegnava che dovesse mutar tuono scrivendo l'istoria;
in Palermo si faceva scoppiare la polveriera del forte di Castellamare,
dove stava chiuso il siculo Petrarca, l'immortale Antonio Veneziano,
perchè il suono della sua lira seppe acre di molto al Vicerè Conte di
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3
126
Cumponiri, in questo significato è voce siciliana, e vale costringere alcuno a pagare una
data somma di denaro sotto minaccia di maggior male; è voce malandrinesca.
Chianetta, in siciliano antico, specie di celata o elmeto.
DI GIOVANNI, Palermo restaurato, libro IV, pag. 185 e 186 del vol. XI della Biblioteca
del DI MARZO.
Albedelista1.
Ma se il feudale potere chiudeva agli scrittori la bocca, perchè l'oblio
involvesse nella sua notte scelerità sì nefanda; non poteva imporre sul
sentimento del popolo che da essa nelle intime fibre del cuore fu scosso. Un suo ignoto cantore a melodiosa cetra affidò gli amori infelici
di Caterina, e innanzi al tribunale de' secoli futuri chiamò il parricida
Barone, cui marchiò d'infamia non peritura. Ma a ciò torneremo più tardi: adesso ci incombe di cercare che un lume più certo venga a diradare
il pauroso buio che ricopre la storia dell'amica di Don Asturi. - Siamo
al sec. XVIII, ed è il ricco ed autorevole marchese di Villabianca, solito a ficcare il naso in tutte le minuzie private di nobili e di volgo, che
ci soccorre nelle nostre ricerche. A suo tempo i Talamanca La Grua
esistono tuttavia, anzi col titolo di Principi2, ma non son più quelli del
secolo XVI; chè l'avanzarsi della civiltà ingentilisce i cuori, e muta e trasforma le antiche abitudini, nel tempo stesso che altre case nobilesche,
con eterna vicenda, son sorte, e pareggiano e vincono le antiche. Ora, il
Villabianca può fare le sue curiose indagini una prima, una seconda, una
terza volta, e infine con franchezza lasciare scritto: «Il Caso miserando
detto della figlia di Carini lo fe' Pietro La Grua Talamanca3, Barone di
Carini, a' 4 dicembre 1563, con dar morte colle sue mani e nel suo stesso
Castello di Carini alla sua figlia creduta rea di fallo venereo con uno di
Casa Vernagallo. E questo si chiama il Caso della figlia di Carini che
ancor rumoreggia nella Sicilia». Accenna dopo alle macchie di sangue
esistenti nel Castello, ed alla poetica leggenda che i Cantastorie andavano
modulando su strumenti a corda o a fiato. Siccome però il sig. Marchese
1
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Vedi nelle Opere del VENEZIANO lo scritto del MODICA, Sulla vita e opere di lui:
e V. DI GIOVANNI, Il Miceli o l'apologia del Sistema, p. 304. Nel Diario della Città
di Palermo, edito dal DI MARZO e più volte citato, a pag. 115 leggo: «A primo i decembre (1588). Si trovò appizzato un cartello contra il vicerè alla cantonera di D. Pietro
Pizzinga allo piano delli Bologni. Ed alli 13 di gennaro seguente ne fu tormentato Antonio
Veneziano poeta famosissimo di Monreale, ed ebbe sette tratti di corda, e tinni (tenne il
segreto). E poi, stando carcerato a Castellamare, morse scacciato, quando fu il caso del
Castello nell'anno 1593».
Il titolo di Principe concesse a' Baroni di Carini il re Filippo IV il 19 settembre 1622,
come si vede dal VILLABIANCA, Sicilia nobile, vol. I, parte 2ª, lib. 1°, pag. 56. La nostra
Caterina della leggenda il popolo chiama principessa, e principe il padre, anco ne' versi:
ma siccome al 1563 non aveano questo titolo, come dal citato documento risulta, così ho
sostituito barone e baronessa ov'era principe e principessa. Vedi ancora il volume de'
Privilegi, all'ann 1622, nell'Archivio della Casa Carini.
Il VILLABIANCA ha scambiato col padre il barone Vincenzo II; e questi per altro nel
battesimo porta il nome di Pietro Vincenzo.
127
scrive scempiatamente l'italiano, ho relegato altrove le sue parole1, e qui
riporto le due stanze che della poesia (dice) gli fu dato raccogliere.
Lu Vernagallu beddu Cavaleri
Di Carini a la figghia fa l'amuri,
Ma cchiù chi cci usa modi 'nnammureri
Pri mia fora (idda dici) Don Asturi.
Iddu la voli in tutti li maneri,
Cci va d'appressu e l'invita a l'amuri,
E currennu a la fini da livreri
La junci e tuttidui dicinu Amuri.
Lu patri poi, baruni di Carini,
A Vernagallu cerca d'ammazzari;
Ma chistu si nni fuj a Lattarini,
S'ammùccia forti e nun si fa pigghiari:
Unni la figghia subitu a Carini
Scanna arraggiatu, e lu sangu ora pari
Di l'auccisa a la turri di Carini:
Sempri ruini fannu onuri e amari.
Chi ha qualche conoscenza della poesia del popolo stenterà a credere
di lui queste ottave, invero poco felici e stentate. Non le ardite e fantastiche immagini, non i colori vivi, non l'armonia, non l'affetto, non la
spontanea semplicità, pregi costanti della nostra popolar poesia. Non è
popolare il paragone del settimo verso, e molto più per quel currennu
DA livreri; chè il da manca alla lingua siciliana e il di ne tiene le veci.
Forse potrebbe dirsi questa una correzione del letterato Villabianca,
s'egli stesso non ci facesse avvertiti d'aver trascritte le due stanze tali
quali gli furono dettate. Molto meno sanno di popolo gli ultimi otto
versi, con quella meschinità di rime, con quelle inarmoniche spezzature letteratesche, con quel brutto bisticcio ch'è in ultimo. E poi (argomento più grave), la storia di Caterina La Grua si svolge e compie in
sedici versi soltanto? e allora, dov'è la sì rinomata leggenda poetica che
il popolo dice molto lunga, e lo stesso Villabianca pare ne convenga,
scrivendo che le due ottave sono parte della canzone espressiva il Caso
della Signora di Carini? Il non trovar poi popolare, in nessuno de' nostri
Comuni, anche un solo di questi sedici versi, mi ha rinforzato in una mia
1
128
Vedi NOTE E DOCUMENTI, (H).
opinione, che mi pare la più plausibile che si possa emettere, cioè, che
essi versi dovettero esser parto di qualche mezzano ingegno di lettere
infarinato, posteriori alla leggenda, e come ad argomento della medesima. L'autore della quale, tanto delicato poeta e finito artista, avesse
pur verseggiato sonnecchiando qualche volta1, non poteva dar vita a due
ottave, che in paragone delle altre, vuoi per istile, vuoi per frase poetica,
vuoi per sentimento, mi dànno l'aspetto della scoria che galleggia nel
crogiolo dell'oro. E, a malgrado di ciò, per non lasciar una lacuna che
poteva nocere al progressivo sviluppo dell'azione, mi fu necessario nella
prima edizione di questo libro accoglierne una, avvegnachè tra' versi che
precedevano e seguivano straziasse inarmonica gli orecchi come
In una musica
Solenne e grave
Un corno, un oboe
Fuori di chiave2:
Adesso però, che ho rinvenuti i brani allora dispersi, e che ho potuto
vedere nella sua interezza questa maravigliosa leggenda, ho avuto la riconferma che le due stanze che il Villabianca trascrisse nient'altro sieno
che l'argomento, e neppure ben fatto, alla intera composizione poetica.
Con tutto quello che ci han fornito i versi, la costante ed uniforme
tradizione popolare di tre secoli, e kle note de' Diaristi sincroni e del
Villabianca, certo si ha tanto in mano da non potere mettere in dubbio
la verità storica del fatto; ma l'amore con cui m'accinsi ad illustrare questa leggenda richiedeva ancora di più, desiderava particolari in maggior
numero, e, se vuolsi, più minuziosi: ond'io, pur dopo la prima stampa di
essa, non ho desistito dalle costanti ricerche nelle Biblioteche e, che più
monta, negli Archivj gentilizj delle famiglie La Grua e Vernagallo. Il
successo non corrispose per fermo a tutt'i miei desiderj, che non erano
pochi nè lievi, ma fu assai fruttuoso, e venne a confermare la esattezza
del racconto poetico e le mie asserzioni, appoggiate più che altro alla
tradizione del popolo. In quei molti volumi dell'archivio de' Carini3, che
vanno dal 1536 al 1592, cioè per tutt'i cinquantasei anni di baronato
di Vincenzo II, qualche cosa mi sono accorto che manca, e forse non
1
«Quandoque bonus dormitat Homerus». HORATII, De Arte poetica.
3
Specialmente i volumi de' Privilegi, della Genealogia e delle Possessioni, le quali erano
immense, ed estese a molti punti della Sicilia.
2
GIUSTI, il Ballo.
129
a caso. Anche nel volume della Genealogia, scrivendosi di lui è detto:
«Morta detta sua moglie (Laura Lanza) da cui fece figli, passò a seconde
nozze...»; ed altro non si aggiunge, e seguono lacune e fogli bianchi, dove
indarno ricercheresti notate tutte quelle particolarità e minuzie che trovi
a proposito de' baroni antecedenti e rispettiva figliolanza fino a Pietro
III. L'anno della nascita di Caterina, come pur quello de' suoi quattro
fratelli e delle tre sorelle, non mi fu dato di ritrovare: questo è certo
però, ch'ella era la maggiore, essendo le altre andate a marito in fresca
età l'una al 1568, l'altra al 1571, la terza al 1573. Laura Lanza moriva
nella primavera del 1564; ed il Barone passava a seconde nozze ai 21
ottobre dello stesso anno con Ninfa Ruis de' baroni di Santostefano; e
mortagli in breve anco questa, celebrava subito nuovo matrimonio con
Paula Sabia e Spinola a 11 marzo 1565. Ma da nessuna di queste due
mogli ebbe altra prole. La porta e la lapide con la iscrizione ET NOVA
SINT OMNIA, più innanzi accennate, furono eseguite veramente sotto il baronato di Vincenzo II e per ordine di lui. Un fatto poi di grave
importanza, e che, forse, contribuì non poco al tremendo parricidio e ci
spiega l'accanita persecuzione contro al povero amante, si è questo: che
tra Ludovico Vernagallo, padre del giovane, e Vincenzo II, eranvi stati
de' dissapori piuttosto notevoli e lunghe liti per cagion d'interesse; nè
certo al maltalento pose fine la transazione per atto pubblico del 1545,
nè la morte di Ludovico, avvenuta a 3 di settembre 1556. Un altro fatto,
che splendidamente riconferma la tradizione, ho ricavato dall'Archivio
de' Vernagallo; ed è, che l'amico di Caterina morì monaco sacerdote
carmelitano a Madrid, come si rileva dal testamento di lui, che porta la
data de' 22 settembre 15881.
Un'altra serie di ricerche, praticate nell'Archivio parrocchiale di
Carini, è venuta a confermarci splendidamente che ai 4 decembre, VII
indizione, 1563, fu morta la spettabile Signora di Carini; e si aggiunge,
che si seppellio nella Matri Ecclesia2. L'anno della sua nascita fu indarno ricercato nel libro de' Nati del medesimo Archivio; segno evidente
ch'ella non sortì i natali al Castello, come la sorella minore, che in quel
libro trovasi registrata3. Le indagini fatte negli Archivj delle Parrocchie
di Palermo, ci hanno dato ugualmente de' risultati negativi4.
1
Vedi NOTE E DOCUMENTI, (I).
3
Vedi NOTE E DOCUMENTI, (J).
2
4
130
Vedi NOTE E DOCUMENTI, (J).
Vedi NOTE E DOCUMENTI, (J).
Ed ore è già tempo che si venga all'esame della leggenda poetica. Il
popolo nostro, allorchè di essa favella, adopra invariabilmente le parole:
è la più bella e insieme la più dolorosa poesia che in siciliano siasi
cantata giammai1. E si avverta che con quel dolorosa intende non solo il
dolore e il lutto dell'avvenimento in se stesso, ma il sentimento arcano e
patetico che informa que' versi ed ha possa di risvegliare il altri il dolore.
Essi nacquero immediatamente che il parricidio fu consumato; e ce lo
rivelano i versi 323-326, ove si dipinge ancor viva, benchè simile ad ombra cieca, l'afflitta madre di Caterina, la quale come sopra fu detto non
sopravisse che pochi mesi alla figlia.
Ma sorse anzitutto il desiderio di conoscere chi fosse l'autore di questi
versi, tanto a ragione pregiati; e abbenchè corrano essi popolari, e malagevole molto, per non dire impossibile, sia l'indagare la sorgente di una
poesia popolare; tuttavolta, trattandosi nel caso nostro di una leggenda
che evidentemente viene da un ingegno nè volgare nè incolto, di buona
voglia ci mettiamo alla ricerca, per vedere di riuscire a qualcosa di probabile se non di certo.
In tutte le lunghe storie poetiche, lo abbiamo avanti accennato, l'autore ha cura di registrare in principio e più spesso alla fine il nome suo, ed
anche la condizione ed il tempo del suo poetare: ma talora il poeta vuol
rimanersi ignoto, e pensatamente e per circospezione avveduta. Di fatti,
sono le storie de' banditi, sono quelle che rivelano un'azione esecranda,
o un delitto, che non portano il nome del cantore: e nella Baronessa di
Carini siamo appunto nel caso, perchè probabilmente l'autore non amava
di esser fatto segno alle temute persecuzioni dello strapotente Barone, a
cui, come vedremo, non risparmia le più fiere ingiurie e le minaccie di
sicura vendetta celeste. Vero però, dall'altro canto, che al Talamanca doveva bene esser noto; posciachè ci si riveli egli stesso espertissimo conoscitore di lui, della figlia, della famiglia tutta, del Castello e delle minime
parti di esso. La descrizione che ci fa dell'aurora che va ad indorar l'isola
d'Ustica e il mare, guardata dai balconi del Castello (versi 103-106), non
potea darcela se non se chi l'ebbe ad ossevare da quei balconi medesimi.
Certe particolarità, come lo spionaggio del frate (v. 87-98), il dolore della famiglia (v. 151-158), gli ultimi giorni della povera madre, che dopo
tanta pena il poeta ravvisa a stento (v. 321-326), i rimorsi e i delirj del
barone Vincenzo con alcune particolarità della sua vita (v. 339 e segg.),
ec. non poteva conoscerle che persona della casa medesima. E per tale
1
Vedi NOTE E DOCUMENTI, (K).
131
appunto ci si appalesa l'Autore del poemetto. Noi lo udiamo dar principio
al canto suo agitato nel cuore e nella mente, chiedendo una dolce e mesta
poesia per piangere la colonna della sua casa, la infelice Baronessa, che
sola potrebbe dire l'amore che le portava il poeta (v. 7-16). E non basta:
ai versi 169 e seguenti noi lo veggiamo dolorosamente prostrato sulla
lapida di lei, lamentare di non averla potuto vedere anche una volta pria
che venisse interrata e ornarne di fiori la bara: chiedere lo ingegno di re
Salomone per eprimere fedelmente lo stato angoscioso dell'animo suo,
posciachè la sorte (dice) mi ha tratto al fondo e
La mè varcuzza fora portu resta
Sena pilotu 'mmenzu la timpesta;
La mè varcuzza resta fora portu,
La vila rutta e lu pilotu mortu!
Non v'ha dunque più dubbio; Caterina, e sola essa, era sostegno, guida, protettrice di lui. Ma nè al Castello, nè alla Biblioteca di Carini,
nè altrove mi fu dato aver indizio almeno di questo poeta. Veneziano,
D'Avila, Potenzano, Del Bosco, Bonincontro, Gioffredi, Paruta, Salvario,
Maia, Di Lorenzo, Graccaro, Ficalora, Bonafera, che furono i più celebri
rimatori siciliani del tempo1, non ebber mai che fare con la Casa Carini,
e tanto meno han che fare collo stile, co' pensieri, coll'affetto dell'incognito Nostro: hanno tutti più o meno voluto tentare la cetra del popolo
ma non sempre con favorevole risultato, se vogliamo eccettuarne per
altro il Veneziano, il Graccaro, il Ficarola, ed il Bonafera che a dir vero
spesse fiate e laudabilmente vi riescirono. Del primo, già tanto conosciuto e studiato, non occorre qui dire per escludere che possa aver creata la
leggenda della Baronessa: degli altri tre, ecco quanto lasciavane scritto
il contemporaneo cavalier Di Giovanni: «Maestro Pietro Graccaro, per
suo agnome il Biondolillo, fu buon poeta in lingua siciliana. Avea un
dire sublime ed altiero; era di bei concetti; fu seguace ed imitatore di
Veneziano, e le sue canzoni furono in molta stima. Ultimamente s'innamorò così ardentemente, che presasi la sua donna per moglie, quando, per troppe cure domestiche, abbandonò la poesia, e per recuperare
alcune sostanze entrò nel pelago delle liti. e Mentre andava e veniva
da Monreale, ove egli litigava, fu assaltato nel cammino da certi suoi
avversarii, maltrattandolo in modo, che il pover'uomo in pochi giorni si
1
132
Vedi il Palermo restaurato del cav. VINCENZO DI GIOVANNI, lib. II, pag. 403 esegg.
morse.
Il Ficarola fu un buon poeta in lingua siciliana e nella tosca. Le opere
sue dilettavano sommamente: ma volendo fare il maledico, fu imputato
di aver fatto un cartello; per il che, dopo d'essere molto tempo carcerato, ne fu mandato in esilio da questo regno; e se n'andò in Napoli, dove
finalmente si morse.
Giovanni Bonafora1 fu gran poeta siciliano, e tale, che di naturalezza
e facilità avanzò tutti i poeti dei nostri tempi. Aveva egli la poesia così
facile che ne faceva a voglia sua quel che ne voleva. Sonava anche egli
di leuto, e cantava assai bene, intanto che con queste due virtù era di
sommo diletto a quei che gli conversavano. Era perciò, essendo povero,
aggiutato e sovvenuto da ognuno: ma finalmente per infermità sopravvenutagli, non potendo dare e l'uno e l'altro diletto, per malanconia, oppresso da gran miseria, si morse2».
Assai scarse notizie abbiamo rinvenuto di questi poeti, e nessuna che
possa darci qualche addentellato che li ravvicini alla famiglia La Grua: e
nondimeno volemmo consultare le loro poesie, per conoscere se qualche
rassomiglianza offerissero, o per istile, o per concetti ed intendimenti,
con il poemetto della Baronessa. È giusto che anche il lettore ne abbia
sott'occhio alcun esempio. Il Graccaro o Biondolillo così canta dell'amor
suo:
Aquágghia stu cori amandu una billizza
Senza esemplu ammirabili, infinita,
Nata llà in Celu a la chiù estrema autizza
Pr'essiri di mill'almi calamita.
Ma non curandu la mia gran bascizza,
A lu sò amuri m'inxhiamma3 ed invita;
Iu pri tanta humiltati e gintilizza
L'amirò chiù di l'alma e di la vita4.
1
2
3
4
Bonasera e non Bonafera, lo appella il MONGITORE, che ne fa cenno nella sua Biblioteca
sicula (tom. I, pag. 341) ed il GALEANI nelle Muse Siciliane, parte I.
DI GIOVANNI, Palermo restaurato, lib. II, pag. 412-413.
Leggi inciamma. Che benedetto sia chi, anche oggi, la xh vorrebbe sostituita alla semplice
e nella scrittura del siciliano idioma.
Vedi Le Muse siciliane, ovvero scelta di tutte le canzoni della Sicilia raccolte da PIER
GIUSEPPE SANCLEMENTE ( GIUSEPPE GALEANI), Palermo, 1645 e 1662. P. 1ª,
pag. 268.
133
Bella al certo è questa canzona e da pregiarsene l'Autore, che mostra
di avere studiato con profitto il canzoniere del popolo; ma quale spazio
ancora non la divide da quelle mirabili stanze della nostra leggenda,
ove l'arte è infinita, inarrivabile? Ed il medesimo ci tocca pur troppo a
ripetere per Ficarola e Bonafera, quando ci facciamo a leggere le due
seguenti canzone, avvegnachè scelte tra le migliori cge d'essi tuttavia
sopravvivono.
L'acerba pena mia, lu miu tormentu,
Chi m'asciuca lu sangu 'ntra li vini,
È causa ch'iu d'ogn'hura mi lamentu
Di milli strazij e di milli ruini:
E quandu penzu: hora sarrò cuntentu,
Tandu l'affanni mei su' chiù vicini;
Mi fuij l'allifrizza com'un ventu,
E la miseria mia nun ha mai fini1.
L'alatu ed animusu miu disiu
Pretendi a volu un'ácula pigghiari;
Dubitu nun siquiri a cui cadiu
Per troppu in áutu vuliri vulari;
ma mi rispundi poi lu cecu Diu,
Mi dici: sequi, non ti dubitari,
Chi mai tant'áutu aucellu a volu iju
Chi non vinissi la terra a truvari2.
Nella pagina ultima delle Canzone siciliane del siracusano Girolamo
D'Avila, più sopra ricordato, le quali stanno manoscritte nella Comunale
di Palermo (ai segni 2 Qq. C. 5), ho trovato tre versi che sono precisamente i 113-115 della Baronessa; però sono di carattere alieno e posteriore a tutto il volume non solo, ma scritti anche erroneamnete e da
mano inesperta3: il che basterebbe per farci affermare che il poeta di
1
2
3
134
CARLO FICAROLA, presso il GALEANI, Le Muse siciliane, loc. cit. pag. 125.
GIOVANNI BONAFERA, presso il GALEANI, Le Muse siciliane, loc. cit. pag. 159.
Eccoli qui testulamente riportati, per mostrare che sono scritti da ignorante, e di più per
darli come variante de' nostri:
«Simili scanto e simili terrori
Chi appi la baronissa di Carini,
Siracusa non possa esserne stato l'autore, se di ciò non avesser convinto
gli altri versi di lui, d'indole e colorito ben differente a quelli della nostra
leggenda.
Con maggiore speranza di successo per conoscere alcuna cosa
dell'ignoto cantore di Caterina volgemmo la nostra attenzione intorno a
Matteo Di Ganci, notaio e poeta di Palermo1. Egli scrisse in siciliano tra
il 1567 e 1568 una lunga Orazione per la Madonna di Piedigrotta, in ottava rima all'antica, cioè a dire nella forma vera e più comune delle nostre leggende, composta di canzone che tra loro sono per la rima legate;
e quasta Orazione, che poi stampossi a Venezia al 1581, acquistò popolarità e rinomanza fin dal suo primo apparire, tanto che l'arcivescovo palermitano d'allora, Fra Ottaviano Preconio, concedette indulgenze a chi
l'avesse recitata2. In genere, io dissi, un poeta che gradito riesce al popolo non è mai un mediocre poeta; il Ganci poi, con la moralità e religione,
facevasi strada con più faciltà ne' cuori della divota gente, che sempre
ha fatto la maggioanza tra noi. Nella sua condizione di notaio, egli non
dovea difettare di studj e coltura intellettuale, tanto più che fioriva in un
tempo in cui Palermo era il centro ove convenivano e levavano palme di
bella fama molti nobili ed eruditi intelletti: per la qual cosa, onde conoscere se avessimo oppur no ad aggiudicargli la paternità della rinomata
Baronessa, era ben naturale che ci mettessimo dietro a due ricerche importanti, cioè: l'una, sapere s'egli avesse mantenuto delle relazioni con la
Casa Carini, e tali da poterlo far considerare come della famiglia; l'altra,
far comparazione del merito de' versi della Orazione e della Leggenda,
tanto in rapporto ai concetti ed al sentimento, quanto alla parte estetica.
E per quel che concerne la prima, il risultato l'ho avuto maggiore ch'io
stesso non m'attendeva; perocchè nell'Archivio de' Carini ho riscontrato
degli atti di notar Matteo Ganci non solo, ma, ciò che maggiormente
vale, appartenenti ad anni anteriori al 1563; dopo quest'ultimo, nè una
volta di più il nome di lui ricomparse. Ma per la seconda ricerca, ben
altrimenti è andata la faccenda; chè l'Alberti ed il Mongitore mi dicono
bensì con dettaglio qual fosse l'ordito della Orazione e quali miracoli
narrasse, ma non una stanza, non un verso riportiamo: ciò che fa più
1
2
Essenno spasso con li sui signuri...»
Immensamente mi professo obbligato all'ottimo prof. Ugo Antonio Amico, che primo mi
aperse la strada per queste ricerche su Matteo Di Ganci.
Vedi P. DOMENICO STANISLAO ALBERTI, Meraviglie di Dio, parte 2ª, cap. 32, pag.
297 e segg. (Palermo, 1718): ed A. MONGITORE, Palermo divoto di Maria Vergine,
tomo I, cap. XXI, pag. 375 e segg. (Palermo, 1719).
135
dispiacere, giacchè il primo scrive che l'aveva presso di sè; chiaro segno
che fosse ancora in voga, avvegnachè ben un secolo e mezzo contasse
dacchè fu creata; ed oggi l'ho io ricercata lungamente ed invano. Laonde
ogni certezza ci manca per affermare il Ganci autore della poetica storia
che illustriamo; delle probabilità stanno invece da parte nostra, ma esse
rimarrano prive di positivo valore fino a che non venga a solvere il nodo
il rinvenimento della Orazione medesima.
Or poichè queste indagini ad un risultato certo non ci han fatto approdare, a malgrado della diuturna insistenza nostra per esse; noi dobbiam
rassegnarci ad ignorar il nome di un poeta, i cui vividi raggi non poco
splendore darebbero alle sicule muse, e non poche stelle minori farebbero ecclissare. Ed a prova di ciò, noi passiamo ad esaminare l'opera di lui,
con grave stento riunita ed ordinata, sotratta solo alla voracità del tempo
la mercè del tenace affetto del popolo nostro alle tradizioni degli avi.
Il poeta dipinge con mano maestra, dipinge a tratti, squisiti, rapidi,
spiccati, e sempre compagni alla armoniosa melodia che il Foscolo impetrava dalle Grazie. Poetava pel popolo, e del popolo grandemente ha
familiari le tradizioni e la poesia inarrivabile: ma l'arte acquistata su'
Classici forte lo aiuta, e il suo metro egli adorna dei fiori raccolti nell'uno
e nell'altro Parnaso. Udiamone il canto, ch'egli è agitato dal Dio, che il
suo cuore ribocca di amarezza, che la sua vista è appannata del pianto:
Ciumi, muntagni, árvuli, chianciti,
Suli cu luna, cchiù nun affacciati:
La bella Barunissa chi pirditi
Vi li dava li räj 'nnammurati:
Acidduzzi di l'ária, chi vuliti?
La vostra gioja 'nútili circati:
Varcuzzi chi a sti praj lenti viniti,
Li viliddi spincítili alluttati!
Ed alluttati cu li lutti scuri
Ca morsi la Signura di l'Amuri. (v. 21-30)
E chi non vede e non sente il pianto della natura cui risveglia il poeta?
Eccolo qui, adempito l'oraziano precetto: si vis me flere dolendum est
primum ipsi tibi. E quel sole e quella luna senza raggi amorosi; e quelli
uccelletti che spaziano per l'aere e voglion darsi ragione della perduta
allegria; e quelle barchette che lantamente, e pari alla lenta armonia del
136
verso, vengono innanzi, e a lutto inalzeranno le vele; e infine tutti que'
cari vezzeggiativi; sono così fine bellezza che annotata si guasta, che
tradotta in altra lingua perde le verginale soavità.
Ma se avrà da mettervi innanzi la breve scena della felicità degli
amanti, il poeta, appuntati in oriente gli sguardi, lì troverà le convenienti
fantasie, e nuovi colori, e nuovi ori e nuovi rose, per dar vita al passionato quadro degli amori. Il bel cavaliere Vernagallo, che tra' gentili garzoni
tiene il primo posto, aggirasi presso al Castello di Carini come l'ape
intorno al fiore d'aprile; e da' primi albori fino al crepuscolo, or dalla
piazza vi appare sull'alipede bajo, ora in chiesa che dagli occhi manda
lampi amorosi, or di notte lo udite cantare sul mandolino le più soavi
canzone (v. 41-54)1. La giovane, dal pudore tenuta, vorrebe evitar quelle
possenti fiamme d'amore; ma presto vinta, ciecamente vi entra, allettata
dalle seducenti immagini di giorni felici.
Chi vita duci, ca nudda la vinci,
Gudírila a lu calmu di la rota!
Lu suli di lu celu passa e 'mpinci,
Li räj a li du' amanti fannu rota:
'Na catinedda li curuzzi strinci,
Báttinu tuttidui supra 'na mota;
E la Filicità chi li dipinci
Attornu attornu di oru e di rosa. (v. 75-82)
E per colpirli più vivamente, a lato questa magnifica orientale pittura,
ti dà il tradimento, lo spionaggio di un frataccio al padre di Caterina.
Questi delira, - e il frate ride col riso maligno diMefistofele: ma il mondo ne sente orrore, e ne dà segno la luna che si avvolge tra le nubi, e il
paventato gufo che svolazzando ripete il lugubre U-U (v. 87-98).
Queste sono scene sublimi, che solo ai Grandi è dato di poter tratteggiare. Ma ne vedremo ancora delle altre e non inferiori. - Moltissimi han
descritto l'aurora dell'italo cielo: tre soltanto divinamente, Dante, Tasso,
Tassoni. Il Nostro viene a gara con loro; e non credo ch'io esageri affer1
É notevole questo, e degno di osservazione, che il fratello maggiore di Vincenzo
Vernagallo, cioè Mariano II, «fu il più bravo suonatore di liuto di quell'epoca, e ne die'
solenni ed applauditi saggi in Roma e altre città italiane, in Ispagna e in Portogallo, condotto da Marco Antonio Colonna, Vicerè di Sicilia, che lo stimava da affezionato amico».
Consulta l'Archivio de' Vernagallo.
137
mando che egli è quarto fra cotanto senno1:
'Ncarnatedda calava la chiaría
Supra la schina d'Ustrica a lu mari;
La rininedda vola e ciuculía,
E s'áusa pri lu suli salutari... (v. 103-106)
Quanto affetto, quanta morale nella rondinella che s'alza gorgheggiando per dare al sole il saluto2! - Però, più che in queste pitture dele
bellezze fisiche dell'universo, il poeta è mirabile artista nelle morali e in
quelle del sentimento, nella parte drammatica e parlante del poemetto.
Quando il Barone conosce le erotiche tresche della figlia, tostamente,
benchè notte, cinge le armi, e: - vola! grida al cavallo. E il rapido volo co'
nostri occhi stessi veggiamo: perocchè la sventurata donzella vede apparire dall'Agliastrello, due miglia lontano3, la paterna cavalleria, e appena
ha il tempo di profferire ah! forse è il padre che viene ad uccidermi!
che questi le è già di sopra e le trapassa il debole petto (v. 112 e segg.).
Gli angosciosi stridi di lei, il suo spavento che la fa fuggire, inseguita di
sala in sala, finchè non cada esclamando: Cani Carinesi! trovi descritti
dopo, quando il poeta ripigliando il suo pianto viene a muovere il tuo
(v. 169-194): messi al loro posto naturale avrebbero impicciolito l'effetto della terribile tragedia. E quando la notizia di questa batte le ali pel
Regno, con orrore da bocca a bocca ripetuta, e incontra Don Asturi, di
tutto inconsapevole; io veggo ed odo le genti che voltan altrove la faccia
e ripeton sommesso: chi gli darà nuova sì triste!? (v. 195-198).
Efficacia ed arte più perfetta addimostra quel luogo dove si descrive
il diffondersi della notizia del lagrimevole Caso in Palermo: la gente
con palpitante senso fa capannelli; odi per le strade un sussurro misto a
gemiti e pianti, odi basse voci che s'interrogano e si rispondono: «Che
mala morte! - Che morte dolorosa! - È stata seppellita di notte, allo scuro, senza pompe, e senza corteo: anche beccamorto se ne spaventava!
(v. 159-166, 329-332)». - Il dialogo tra il giovane Vernagallo, che fugge
per remote campagne, ed un servitore che gli avvisa ch'hanno a' fianchi
i bravi del Talamanca, è così vero, e così pieno di vita, che tu scorgi
1
2
3
138
Il nostro impareggiabile MELI ha una stupenda descrizione dell'aurora nel suo poema
eroicomico Don Chisciotti e Sanciu Panza, c. II, st. 33-35.
Anche in una canzonetta popolare (ária) «Tutti l'oceddi cántanu - Salútanu a lu suli». E
simile il MELI nel luogo citato.
Vedi NOTE E DOCUMENTI (K).
quel povero amante aggirarsi con lena affannata per caverne e dirupi,
lacero, sconsolato e senza ombra di speme, e con lui ti duoli dell'acerbo
destino:
Comu la frasca a li venti purtata
Java sbattennu pri li rampi rampi:
«Caru patrun, mutati cuntrata
Ca li livreri l'avemu a li cinachi».
«'Ntra ciánnachi e sdirrupi la mè strata,
E già li gammi su' láciri e stanchi».
«Caru patruni, la vista è canciata,
Annuricaru li núvuli bianchi».
«Accussì lu me cori annuricau,
E lu valuri sò l'abbandunau;
E lu distinu chi mi cáccia arrasu,
A lu palazzu mi chiudiu lu passu. (v. 253-264)
Dolce poesia e strabocchevole affetto è nella preghiera del giovane
Vernagallo al sagrestano acciocchè non dimentichi di tenere accesa la
lampada alla sua Caterina, che a dormir sola aveva paura, ed ora le tocca la compagnia de' morti; e per lei gli ordina un modesto ma gentile e
poetico monumento:
Méttici 'na balata marmurina
Cu quattru ancileddi, unu pri cima;
E tutti qüattru 'na curuna tennu,
L'occhi a lu celu, e preganu chiancennu;
E a littri d'oru cci vógghiu nutata
La storia di sta morti dispirata. (v. 247-252)
Ma, a qual brano di classica poesia paragonerem noi quall'altro del
nostro poemetto, dove si dipingono e scolpiscono i rimorsi del padre
uccisore? V'è una tinta cupa, spaventevole, fiera, che tocca un sublime
che forse al solo Shakespeare fu dato di attingere, e che in Sicilia, se
non è sola, è però la più eccelsa ed insuperabile. Vedete; il Barone va
sospettoso e con occhi spalancati per le morte vie, e la notte con le gelide
ali gli sussurra: La tua speranza è perduta! Una folla di spiriti dannati
gli danza intorno e l'iride; e senza posa egli fugge, ma lamentevole voce
139
lo insegue, che gli va ripetendo: Tormento! tormento!... Ma alfine ha
chiuse le palpebre un istante, - e sogna. Come nuvola segue a nuvola, se
il vento le spinge, così incalzando succedonsi e passano le ricordanze de'
giorni felici della gioventù, gli amori, le pompe, la potenza, e quindi la
bella corona de' figli. Pargli di venire al Castello, come ne' suoi tempi
lieti, e indarno va cercando per le vôte stanze le dilette viscere sue, la
Caterina. Tutto è silenzio. Una pallida vecchia, senza muovere labbro,
gli addita una sala (la sala del delitto), ed egli va dentro. Bianca coltre
ricopre un letto da capo a piè, e la figura di corpo umano. Ei chiama, e
nessuno risponde: alza con la sinistra un lembo della coltre, e la destra
introduce sott'essa per iscuotere la dormente. Oh terrore! Ei la ritira di
fumante sangue imbrattata, d'un sangue che fiero brucia, quasi cercando
vendetta; e quel fuoco si propaga per le vene, pel cuore, - e lo consuma
d'un tratto! - Sogno terribile, figlio dell'incessante rimorso che gli rode
l'anima come l'avvotoio di Prometeo!
In mezzo a queste scene di spavento e di sangue, l'animo del Poeta,
informato a rettitudine, a morale, a religione, trova conforto levando al
cielo gli sguardi e la mente all'avvenire. «Le nostre miserie sono infinite
(egli esclama), il tempo è corto; voltatevi a Dio, o peccatori (v. 299-300);
Egli, che in tutte l'ore ci affanna o consola secondo i meriti nostri (v.
321-322), Egli tutti ci arriva, sebbene con piè di piombo (v. 37-40), e la
pesante sua mano viene a visitarci fino alle terze e alla quarta generazione (v. 405-412)». É questa religiosa morale che è il fine ultimo del suo
poemetto: ed egli non la scorda perfino nella più lieta scena, nella invidiabile felicità de' due innamorati, i quali ammonisce sulla vanezza degli
umani gaudj, dicendo che l'oro desta l'invidia di cento e dileguasi come
spuma di mare, che le fresca rosa avvizzisce in brevi istanti e si muore:
E la Filicità chi li dipinci
Attornu attornu di oru e di rosa;
Ma l'oru fa la 'nvidia di centu,
La rosa è bella e frisca pr' un mumentu;
L'oru a stu munnu è 'na scuma di mari,
Sicca la rosa e spampinata cadi! (v. 81-86).
Caterina egli ama con sacro affetto; ma Caterina peccò, dunque ha
meritato l'inferno; e te la colloca lì, nelle ardenti fiamme de' lussuriosi.
Però chi ancor beve le dolci aure di vita ha tempo a pentirsi ed espiare il
140
suo fallo: ecco perchè ti dipinge il giovine amante che si dà a penitenza,
e il padre che da continui rimorsi lacerato piange dì e notte l'irreparabile
misfatto. Ma speranza di salvazione, ma, non che perdono, compassione non evvi per chi ha fatto la spia, per chi ha tradito: il Giuda cocerà
eternamente nella incesa caldaia infernale, e il poeta ve lo ha collocato
anche pria che fosse preda di Morte; giacchè non par possibile che pochi
dì soli dopo spenta la Baronessa, quando cioè si finge che Vernagallo
scenda ai bui regni, il frate se ne foss'ito già da questo mondo. E in
ciò il Nostro ha seguito quell'inesorabile apostolo di verità e di giustizia, l'immortale Alighieri, che fra' traditori della Tolomea1 ficca il Frate
Alberigo e Branca d'Oria, che pur erano fra' viventi.
E qui mi cade in acconcio di entrare in maggiori particolarità, in più
attente osservazioni per mostrare come l'autore della leggenda avesse
formato il suo ingegno sui volumi degli Spiriti Magni, per dirla con
Dante.
Chi ha studiato ne' Classici vedrà tosto, leggendo i versi su la
Baronessa, come classiche sieno tutte le tinte, le immagini che li abbellano, la melodia. E ciò non nuoce, ma giova alla popolarità della poesia
stessa, quando l'arte imita per bene la natura sua madre: perchè i veri
Grandi non altro che questo hanno fatto. La Bibbia, Virgilio, Ovidio,
Ausonio, Petrarca, Poliziano, Aristo, ricorrono spesso alla mente scorrendo il nostro Cantore. Gli esempj di somiglianza, o meglio d'imitazione potrebbonsi addurre in buon dato: noi ne riportiamo parecchi, sufficienti a far prova luminosa dell'assunto nostro. - Biblico è il chiamar
giglio di Carini (v. 55, 141) la Caterina, e Serpe il Diavolo (v. 271): come
i versi 301-302 ricordano le parole di JOB (XXXIII, 15-16): «Per sommium in visione nocturna... tunc Deus aperit aures virorum et erudiens
eos instruit disciplina», insieme anche ai versi danteschi (Purg. XXVII,
92-93) «il sonno che sovente, Anzi che il fatto sia, sa la novella»: così
i versi 321-322 richiamano il «Dominus mortificat et vivificat: deducit
ad inferos, et reducit» del I de' Re (11, 6), ed i versi 405-406 il «Patres
nostri peccaverunt et non sunt, et nos iniquitates eorum portavimus»
di GEREMIA (Treni, V, 7), pur in Dante espresso col «Molte fiate già
pianser li figli per la colpa del padre (Parad., VI, 109)»: e così finalmente i versi 409-412 si riportano alla solenne minaccia d'ISAIA (XXV,
10-11): «Quia requiescet manus Domini in monte isto, et triturabitur
Moab sub eo... Et extendet manus suas sub eo... et humiliabit gloriam
1
Inferno, canto XXXIII
141
ejus cum allisione manuum ejus». - Il verso 21 più su riferito fa sovvenire il virgiliano «Daphni, tuum... Interitum, montesque, feri, sylvaeque loquuntur (Ecl. V, 28)»: come i versi 97-98 i «Fugit aurea coelo
Luna: tegunt nigrae latitantia sidera nubes... Ter omen Funereus bubo
letati carmine fecit di OVIDIO (Metamorph. X, 448-453)»; e quel di
VIRGILIO: Solaque culminibus ferali carmine bubo Saepe queri, et
longas in fletum ducere voces (Æn. IV, 462-63)». Caterina (v. 55-66),
pari alla Didone virgiliana, ama d'intenso amore, ma non vuole esternarlo (Æn. IV): il bel volto di Vincenzo ha infisso dì e notte nel cuore,
arde nelle midolle, va dissennata di stanza in stanza, precisamente come
la vedova di Sicheo «herent infixi pectore vultus (IV, 4)... Est mollis
flamma medullas Interea, et tacitum vivit sub pectore vulnus. Uritur
infelix Dido, totaque vagatur Urbe furens (IV, 66-69)». Il verso 66 non
è che l' «Omnia vineit Amor» del Mantovano (Buc. Ecl. X, 69) stupendamente espresso; e così i versi 148 e 150 rispondono a quelli dell'Eneide (IX, 486-487): «nec te in tua funera mater Produxi pressive oculos
aut vulnera lavi». Paion ispirati anche dallo stesso poeta i versi 151 e
segg.: «Nuntia fama ruit matrisque allibatur aures Euryali. At subitus
miserae calor ossa reliquit, Excussi manibus radii revolutaque pensa
(Æn. IX, 474-476)». Ed inoltre, l' «Interea pavidam volitans pennata
per ubem Nuntia Fama ruit (Æn. IX, 73)» ha molta relazione col verso
196 della leggenda. - In questa, la rosa è bella e fresca per un momento e
sfogliata cade al suolo (v. 84 e 86): in AUSONIO «dum nascuntur, consenuisse rosas (Idil. XIV)», ed in POLIZIANO la stessa rosa, «che in
dolce foco ardea pur ora, Languida cade e il bel pratello infiora (Giostra,
I, 78)». - Caterina è colonna della casa del Poeta (v. 8): il PETRARCA
già scrisse: «Gloria colonna in cui s'appoggia Nostra speranza (Son. II,
var.)», e anche: «del viver mio... colonna (Canz. I, in m.)». Il verso 33
somiglia il 1° del Sonetto I in morte di Laura: il 67 l'altro della Sestina
VI in vita di Lei, «Era un tenero fior nato in quel bosco»; e così il 229 è
foggiato anche sul petrarchesco «Perchè il cammino è lungo e 'l tempo
è corto (Son. CCVI)». - La felicità degli amanti goduta al colmo della
ruota (v. 76) ci ricorda che l'ARIOSTO ha detto: «Quando felice in su la
ruota siede (Orl. Fur. XIX, 2)». Quel ronzio doloroso che misto a gemiti
e pianti si ode per la città (v. 161-162), conduce la nostra mente al campo
de' Saraceni dell'Orlando (XVIII, 164), dove «Si versan pianti, gemiti e
lamenti, Ma quanto più si può cheti e soppressi». I versi 99-100 dicon lo
stesso che quest'unico del Ferrarese: «Piglia l'arme e 'l destriero ed esce
142
fuore»; allo stesso modo che il 117 e 118 quegli altri dello stesso: «Ogni
pensiero... In lei finia, nè passava oltre il segno (Orl. Fur. VI, 47)».
Ma più che ne' citati poeti, il Nostro ha largamente attinto nel divino
poema dell'ALIGHIERI, a cui pare abbia detto: «Tu se' lo mio maestro
e il mio autore». Egli è dantesco nelle tinte brevi, ardite, maestose; dantesco nello stile, nall'armonia del verso imitativa della cosa che rappresenta, nelle minime frasi poetiche; dantesco nella coraggiosa fierezza
dell'invettiva, nell'amara ironia, nell'amor del vero e del buono, e soprattutto poi nella orditura del poemetto. Ci si conceda qui ancora un po' di
tempo per provar con esempj queste asserzioni; e affretteremo il nostro
cammino,
«Che moltissima via quinci ne resta».
Un'anima veramente dantesca era duopo perchè, in que' tempi di feroce prepotenza baronale, allo scellerato padre apponesse, ne' versi, l'eterna
nota infamante di anima di Caino, e di più empio lo appellasse, e Turco
senza pietà, pari a quei Turchi che verso quell'epoca stessa erano il più
crudo e temuto e maledetto flagello della nostra Sicilia1. Ma qui pur non
si arresta il Poeta; e a lui, al fiero Talamanca, minaccia la immancabile
ira dell'Eterno, che si stenderà eziandio su' figli de' figli suoi.
E tutta dantesca è l'ironia che qua e là gli viene a sommo delle labbra:
ironia lieve, forse, quando, esanime Caterina e sanguinolente, e' si volge
a' Carinesi, non accorsi alle amare sue voci, dicendo: Correte, ora ch'è
morta! ma ironia feroce, che penetra fino al midollo, quando ci dipinge
il Giuda monaco nell'infernal fuoco ad arrostirsi le delicate carnuccie,
ed avente in mano il libro degli Evangeli, ch'egli, frate, doveva sapere quale amore insegni pel prossimo, e quali maledizioni scagli su la
schiatta de' traditori!
Moltissime somiglianze di versi, espressioni, parole e concetti ci si
appalesano tra il Cantore nostro e Dante Alighieri. A tutte io non posso
fermarmi, e alcune le abbiamo viste già. Rammento di volo che il verso
5 pare figlio al 7, XXXI del Purg. «Era la mia virtù tanto confusa»: che
il fuoco dell'amore che arde e non consuma (v. 71-72) rassembra quello
del Purgatorio dantesco (XXVII, 21), il quale «puote esser tormento ma
non morte»: che l'oro, spuma di mare (v. 85) richiama i versi 50-51 del
XXIV dell'Inferno, «Cotal vestigio... lassa, Qual... in mare la spuma»:
1
Vedi il nostro scrittarello La storia nei canti popolari siciliani, studj. Seconda edizione.
Palermo, Francesco Giliberti editore, 1870.
143
che l'aurora posa sul dorso di Ustica (v. 103-104) come il sole veste al
dilettoso monte le spalle nel I, 16, dell'Inferno: che il verso 118 si direbbe
modellato sul «Termine fisso d'eterno consiglio» e «fine di tutt'i desii
(Par. XXXIII, 3, 46)»: che la madre che accieca pel dolore (v. 144) è
simile ad Ugolino che si dà, tra' morti figli, «Già cieco a brancolar sopra
ciascuno (Inf. XXXIII, 73)». La nostra rondinella che s'alza, cantando,
in aria per salutare il sole (v. 105 e segg.) rende idea della dantesca «rondinella presso alla mattina che comincia i lai (Purg. IX, 13)», e anche
della «lodoletta che in aria si spazia Prima cantando (Par. XX, 73-74)»:
e lo sparviere che la insegue, ed essa che ripara timida al suo nido, ha
lontana relazione con «l'anitra che di botto, Quando il falcon s'appressa,
giù s'attuffa (Inf. XXII, 130-131)». E non dico che i versi 179-180 ripetino
il «Nave senza nocchiero in gran tempesta (Purg. VI, 77)», come il 196
si avvicina all'altro: «Che per mare e per terra batti l'ali (Inf. XXVI, 2)»,
e come il 341 e i 411-412 ci fan ritornare il primo al doloroso «Ahi, dura
terra, perchè non t'apristi! (Inf. XXXIII, 66)», e i secondi a quel verso del
Paradiso (XXVII, 57) «O vendetta di Dio, perchè pur giaci?» E così col
verso 256 ci rammentiamo quelli del XXXIII dell'Inferno (v. 30, 35-36):
«Con cagne magre, studiose e conte... e con l'agute scane Mi parea lor
veder fender li finachi».
Crediamo più opportuno e più utile venire a raffronti di maggiore rilievo, come quelli che meglio possano dimostrarci lo studio che il Nostro
fece sulla Commedia, e la cura che pose nell'imitarla. Dante si smarrisce per una selva oscura e non sa ridire come siavi entrato: l'Autore
della Baronessa va in inferno per scura via e non sa dirne il dove e il
quando (v. 273-274). Dante infligge pene temporali ed eterne pe' peccatori, e gloria eterna dà ai giusti, perchè si propone la rigenerazione
morale dell'uomo: questo ancora è lo intendiamo del Poeta nostro nel
suo breve drama, e non vi impiegheremo altre parole dopo ciò che più
sopra abbiam detto. Notammo la relazione che passa tra la pena del frate
Alberigo e Branca d'Oria con quella del nostro frate spia; e la infocata
caldai, dov' e' sta, non è dissimile dagli avelli degli eresiarchi de' canti
IX-X dell'Inferno. I lussuriosi stanno nel fuoco, e un fiato ivi soffia in
continui turbi; e se questa è copia del tormento ideato dall'Alighieri colla
«bufera infernal che mai non resta, o fiato che gli spiriti mali mena di
qua, di là, di su, di giù (Inf. V)»; con più ragione il siciliano poeta dovea
informare la sua Caterina alla mirabile Francesca. L'una e l'altra per
erotico fallo cadono trucidate; l'una e l'altra appartengono a nobile fami144
glia, che ha ricoverato e soccorso il Cantore. Il popolo siciliano, col suo
acuto vedere, a diritto osserva che la sfortunata Baronessa non doveasi
collocar tra' dannati; «perchè pentita erasi ella, e inseguita dal barbaro
padre non chiede grazia per sè, ma un confessore»: e davvero che il
pentimento basta a' cattolici per la salvazione dell'anima. Ma al poeta
stava davanti agli occhi la figlia di Guido. Egli compiange Caterina sua
colonna; la chiama giglio e stella, innocente, benefica, buona; e le buone
genti invita a piangerla, a farle corteo funebre e rasciugarle la livida faccia, e far elemosina in suffragio dell'anima sua: il lutto per la morte di lei
va da un capo all'altro dell'Isola, cuopre ancor la natura: e nondimeno,
non appellandola mai giovane bensì donna1, la mette trai peccator carnali, perchè quivi sta la Francesca del suo Modello. Bisogna però confessare che questa ultima rimarrà mai sempre delicatissimo inarrivabile
quadro: come anche il Paolo che tace e piange è più poetico, forse, del
Vernagallo che ricorda alla sua bella ch'egli ha rinunziato al mondo per
l'eterno fuoco, solo per favellare e dirle ancora che l'ama.
E qui basti di imitazioni classiche e di raffronti: e, pria di venir ad altro, diciamo brevemente del metro e della musica della leggenda. Questa
componesi di ottave caudate, cioè seguite da due, quattro o sei versi
rimati a due a due, ossia a rima baciata, come sono appunto i rispetti
della Toscana. Il Vigo porta opinione che questo metro non sia siciliano:
io sostengo che lo è, non quanto il sicilianissimo della canzona (cosa
nostra affatto), ma quanto gli altri metri d'Italia tutta, comunissimi anche tra noi. Esso tu trovi ugualmente in Piemonte, Lombardia, Venezia,
Umbria, Toscana, Romagna, Napolitano: in Sicilia è frequente i parecchi
indovinelli, in qualche altra storia, come gli Sponsali della Contessa,
e in molte Orazioni, o leggende sacre. Così una delle Orazioni sulla
Passione di G. Cristo, la Orazione di S. Giuseppe, quella di S. Antonio,
quella di Santa Caterina, ec. E forse non a caso presceglievasi dall'Autore il metro delle sacre composizioni.
Abbiamo innanzi accennato2 che ogni storia ha musica sua propria:
ma tutte queste musiche diverse possono riunirsi in distinti gruppi, come
fa il popolo stesso. Abbiamo la Capona o meglio la Caupona, musica
delle storie più comunemente ascoltate, o create anche, nelle taverne:
difatti Caupona è derivata dal latino Caupo. C'è la Virdulidda, musica
delle leggende campagnuole, sollazzevoli e gaie come il verde smaltato
1
2
Vedi la leggenda, ai versi 135-136: il PETRARCA disse: «La bella giovinetta ch'ora è
donna».
Vedi il § I del presente Discorso, a pag. 22.
145
de' nostri colli. La Vuschittera accompagna le storie de' ladri e banditi,
soliti a menar vita ne' boschi. La Allazzarata è la tetra e malinconiosa
delle storie di lutto e dolore, ed è la più espressiva e sentita di tutte1. A
quest'ultima apparterrebbe in certo qual modo la musica della Signora
di Carini; ma a rigore, dobbiam confessare co' nostri popolani che non
può riferirsi nè applicarsi a niun'altra, perchè è tutta propria ed esclusivamente di essa2. Io l'ho udita tre volte, da chi mi dettava i versi, in Carini,
in Terrasini, in Palermo; è passionata, lamentosa, melanconica molto;
dolce qualche volta, tetra e paurosa verso la fine: musica che fa piangere
e tremare, e fa dirizzare i peli3. Come sarebbe diventata divina in mano
dell'immortale autor della Norma!
Commossi fortemente gli animi de' Siciliani dal nero parricidio, sorta
appena la mirabile poesia che lo narrava, fu avidamente imparata in ogni
angolo dell'Isola. Ma quel ch'è degno di tutto lo studio e l'attenzione possibile è questo, che alcuni frammenti della nostra leggenda si ritrovano
con leggere varianti ripeturi dal popolo di tuta la italiana penisola, da
Reggio a Venezia. È cosa ben difficile, per non dire impossibile, che si
possa conoscere se veramente questi versi, nati col Caso della Baronessa
di Carini, abbiano passato il Faro e trovato simpatia presso il popolo
del Continente, che perciò volle farli suo retaggio; oppure se l'ignoto
cantore siciliano, a somiglianza di altri cxantori popolani, siasi giovato
dell'antica stoffa, che parvergli molto opportuna al suo bisogno. Questo
è certo però, che i frammenti suaccennati, comuni a' nostri fratelli di
terraferma, e che descrivono la discesa all'inferno del giovane amante,
sono appunto quelli che della siciliana leggenda hanno più diffusione,
e che per primi ti si ripeno tutte le volte che ti fai a richiedere la storia
della Baronessa di Carini. A ogni modo, o che il poeta contemporaneo
li abbia creati, o che li abbia preso in prestito dalla poesia popolare tradizionale, sempre questi versi mostrano ad evidenza che furono attinti
dall'indole e dalle idee del popolo, e riconfermano assai bene ciò che il
Tommasèo annunziava, cioè «come le visioni de' regni oltremortali fossero tradizione profonda del popolo, sì che Dante attingendovi, attingeva
1
2
3
146
Allazzaratu deriva da Lazzaro della Scrittura, e vale piagato, doloroso; vale ancora oscuro, luttuoso, come quando diciamo celu allazzaratu il cielo coperto di scure nubi, e chiesa
allazzarata la chiesa parata a lutto. - Il VILLABIANCA (Opusc. palerm. vol. XIV, n. 3,
ms. Qq. E. 90) ricorda la Savochetta, musica oggi dimenticata dal popolo.
Vedi NOTE E DOCUMENTI, (K).
Vedi NOTE E DOCUMENTI, (F), (K), (L).
alle viscere della credenza e dell'anima umana1». E d'importanza maggiore e più inesplicabile diviene il fatto, se ci facciamo a considerare che
in Francia (nel paese di Metz ed in Normandia) si cantano, fra le ballate
tradizionali, de' versi che contengono appunto la discesa in inferno, e
son proprio la cosa istessa con quelli dell'Italia2. Onde per l'utile degli
studj comparativi e per incitare qualcuno a nuove ricerche sul proposito,
è pregio dell'opera che tutte queste varianti, che certo da unica fonte
derivano, sieno tutte in un gruppo raccolte, insieme ad altre che con altri brani della nostra Baronessa serbano somiglianza notevole a spesso
uguaglianza perfetta3.
E qui mi si permetta una brevissima digressione. Il prof.Vittorio
Imbrinai, che accuratamente viene studiando la popolar poesia di tutt'i
dialetti della Penisola, trovando comuni a molti paesi i versi più sopra
cennati, e trovando altre due ottave di un poemetto del 5004 fatte popolari in Toscana; immaginò tosto una origine nuova per la massima parte
de' canti del popolo, e scrisse: «Gl'italiani, come ogni popolo, ebbero
un'epopea popolare. Ma a mano a mano che moriva nel popolo il contenuto epico, si obliterava dalla sua memoria anche tutta la parte puramente narrativa de' canti; i brani lirici invece che meglio ripsondevano alla
mutata coscienza nazionale rimasero, si enuclearono, si rimpopolarono,
e divennero tante poesie per sè, e sono quelle che i nostri campagnuoli, i
nostri famigliari, noi stessi tuttodì canterelliamo5». Non è qui il luogo di
discorrere delle vere origini della popolar poesia, e a me basta su ciò di
rimandare il lettore ai libri di chi ha raccolto canti popolari, e al bellissimo Studio critico su quelli del popolo siciliano del mio amico Pitrè6:
io vo' solamente osservare che nulla provano le due ottave del Paris e
Vienna popolari in Toscana; perchè popolari furon pur ivi, come sulla
1
TOMMASEO, Canti popolari toscani, pag. 11.
3
Vedi NOTE E DOCUMENTI, (M).
2
4
5
6
Vedi TH. DE PUYMAIGRE, Chants populaires recuellis dans le Pays Messin, mis en
ordre et annotés. Metz, 1865, pag. 71 e 72. Cogliamo questa occasione per mandare i più
cordiali ringraziamenti a questo nobile ingegno francese per le affettuose parole usate
a nostro riguardo nel suo bello scritto Sur la poésie populaire en Sicile, a pagina 10 e
segg.
Innamoramento di due fedelissimi amanti Paris e Vienna, composto in 8ª rima dal Pastore
Poeta e nuovamente corretto.
IMBRIANI, Dell'organismo poetico e della poesia popolare italiana, sunto delle lezioni
dettate ne' mesi di febbraio e marzo MDCCCLXV nella R. Università di Napoli: Napoli
1866, pag. 150.
Sui canti popolari siciliani, studio critico di GIUSEPPE PITRÈ. Palermo, tip. del Giornale
di Sicilia, 1868.
147
veneta Laguna, le ottave della Gerusalemme, senzachè niuno ne avesse
tirato la conseguenza dell'Imbriani. Ma questi vuole appoggiare più la sua
idea, annunziando che la maggior copia dei canti popolari ci viene da un
antico poema il Vernagallo, che si conserva manoscritto nella Biblioteca
di Palermo, e del quale (dice) «non conosco che pochi frammenti. N'è
tema la storia de' felici ma sfortunati amori fra la figliuola di Pietro
La Grua Talamanca signor di Carini con Vincenzo Vernagallo barone
di Asturi; la ragazza fu uccisa dal padre il 4 decembre 1563. Almeno
così dice Lionardo Vigo: io ci ho le mie difficoltà, e credo che il fatto a
cui si allude nel poema sia più antico assai, quantunque il poema abbia
potuto essere rifatto e riportato a nuovo e consimile argomento (pag.
156-157)». Così il professore napoletano vorrebbe che il Vernagallo rimontasse «per lo meno, al decimoterzo secolo (pag. 178)». Non occorre
qui dire che nella palermitana biblioteca non ha mai esistito il manoscritto supposto dall'Imbriani. Tuttociò che in essa per diuturne ricerche
rinvenni su Caterina La Grua, l'ho riportato più avanti. Il sig. Imbriani,
dopo le nostre illustrazioni e i nostri documenti, non dirà più che ci ha le
sue difficoltà: e pare lo abbia già detto (dopo la lettura del libro del Pitrè,
che pur tocca di questa sua opinione)1, allorchè, parlando di un giovane
veneto, che senza discutere faceva sua e ammetteva come certa la non
provata teoria2, scrisse egli stesso nella Nuova Antologia di Firenze3:
«Questo concetto... non può tuttavia considerarsi come un punto assodato dalla critica, anzi rimarrà pur troppo una felice ipotesi». Del resto
abbiamo innanzi provato che nè i Talamanca, nè i Vernagallo eran venuti
in Sicilia nel XIII secolo; e lo stesso castello di Carini non fu fabbricato
che pochi anni prima del 1400 da Manfredo Chiaramonte. Che poi il
poema fosse antico e «riportato a nuovo e consimile argomento», sol
perchè «nel 500 la fantasia italiana non si occupava più di discese agl'inferni (pag. 178)», noi non sappiamo immaginarlo; perocchè le cronache
e le storie siciliane non ci forniscono un orrendo fatto simile a quello
della Caterina, veramente unico: oltre di che tanto meno puossi dire imitazione o rifacimento la squisita e impareggiabile leggenda, quanto più
si ha idea chiara di ciò che originale e copia importi. Quanto al dubbio
poi sulla discesa all'inferno, che dirà il critico napoletano se gli faccio
sapere che in pieno secolo decimonono il popolo di Sicilia, nella Storia
1
Opera cit., pag. 114 e segg.
3
Volume IX, pag. 628, fascicolo di novembre 1868.
2
148
BINDONI STEFANO, Sulla poesia popolare italiana, memoria letta nella Sala della
Società Ugo Foscolo in Venezia. Treviso, 1868, pag. 31.
di Paolo Cocuzza, ha immaginato una visita ai regni di Lucifero, perchè
il celebre bandito fosse ammaestrato dagli antichi banditi e ricevesse un
amuleto che valesse a renderlo invulnerabile1?
La digressione è stata lunghetta, e ne chiediamo scusa: ci è d'uopo
tornare ancora per poco alla nostra leggenda. Questa ha un numero infinito di varianti che, tutte raccolte, sono di più ch'essa stessa. Il principio è uniforme in tutta Sicilia, col solo mutamento di Siragusa (v. 1) in
Murriati, Favarotta, Partinicu o in altri paesi, secondo la patria di chi
la ripete: perchè, collo stesso disio con cui ciascuno vorrebbe esser stimato autore di sì bella poesia2, ama che in essa il suo paese natio venisse
ricordato. Nello scegliere quella lezione, che servir dovesse di testo, ho
avuto di mira anzitutto di accogliere la più poetica e la più divulgata;
solo qualche volta mi allontanai da questa norma, come là dove al verso
più comune
Vattinni a San Franciscu a la Biata,
preferii l'altro che dice:
Vattinni a la Matrici a la Biata,
perchè il documento estratto dal libro de' Morti dell'archivio parrocchiale di Carini mi messo in chiaro che la Caterina fosse stata sepolta in
la Matri Ecclesia, nella gentilizia sepoltura, mentre nella chiesa di San
Francesco in Carini non c'è stata mai lapide che appartenesse alla famiglia La Grua. Parimente fra le tre lezioni del verso 328, cioè:
Anna-Maria, cu Donna Linora;
Donna Luisa cu Donna Linora;
Donna Maria cu Donna Linora;
io m'attenni ai documenti ricavati dall'Archivio de Principi di Carini
per scartare le due prime, che contengono i nomi di Anna-Maria e di
1
2
Vedi NOTE E DOCUMENTI, (N).
Parecchie persone del popolo, dettandomi i versi della Baronessa, sono uscite in questa
espressione nè più nè meno: Beato chi ha saputo mettere in rima questa poesia degli
angeli!
149
Luisa che non figurano tra le figlie del barone Vincenzo II, ed accogliere la terza, che mi dà il nome preciso delle due sorelle più grandette fra
le tre che aveva la Caterina. Del resto, e pe' riscontri a cui possono dar
luogo, e per istudio di lingua e di vaghe e varie forme poetiche, ho raccolto alla fine tutte le varianti dei 412 versi del poemetto, solo alquante
scartandone, che non offrivano la benchè minima importanza.
Non possiamo a questo puntonon accennare, almeno di volo, alle somiglianze innumerevoli che riscontransi tra molti versi della Baronessa
e delle Canzone del popolo; anzi talfiata sono versi ugualissimi in tutte
le parti loro, e fan sorgere anch'essi il dubbio, che non sì facilmente può
essere tolto, se cioè il popolo imitò e saccheggiò la leggenda; o l'autore di
questa s'appropriò largamente ciò ch'era ed è antico retaggio del popolo.
Aggiungi a tanto, che in più d'una delle storie popolari trovi non che versi, stanze intere, che sono veramente della nostra; così ad esempio, nella
Passione di Gesù Cristo leggiamo:
Viju viniri 'na cavallaria,
Viju accustari quantità d'aggenti;
e nella Donna di Calatafimi:
E comu dici sti cosi crudili,
Pigghia un cuteddu e cci cassa lu cori:
Lu primu corpu la donna cadiu,
L'appressu corpu la donna muriu.
Nel Marinaio di Capo Feto c'è questa ottava:
Li mali sunnu assai, lu tempu è curtu;
O piccaturi, còtati cu Cristu;
Chisti Casi nni 'nsignanu lu tuttu,
Lu zoccu cci succedi a lu dilittu:
A lu cumpari lu scogghiu l'ha struttu,
Ca San Giuvanni l'ha mannatu grittu;
E San Giuvanni nni manna lu luttu
Si nun facemu lu caminu grittu.
Così ancora nella storia de' Due infelici amanti milanesi, che innanzi
150
ho ricordato1, troviamo sparsi per le ventitrè ottave che la compongono
questi versi:
Lu Milanisi saggiu cavaleri;
E cci trapassa l'anima e lu cori;
Tutta Fiorenza chiancia a vuci forti;
Amuri pri tia patu tanti guai;
Mi viju la mia navi a malu portu;
Persi a cui tantu beni mi vulia;
Battennusi cuntinuu lu pettu;
Dicia: Furtuna 'ngrata, iniqua sorti;
Quandu a la bella donna cci fu dittu...
Cadiu trimandu cu lu visu afflittu;
Pocu mancau chi nun cci sciu lu xiatu. ec.
In Terrasini, poi, ho sentito modulare il seguente fiore o stornello
(come si dice in Toscana):
Oh luna, luna!
Sulidda mi lassau la bella Tina,
Ora la sepultura nn'è patruna!
stornello che, mentre da un lato contiene il nome di Caterina (Tina),
dall'altro ha nel terzo verso un'immagine ch'è propria della nostra leggenda. E tal immagine si riscontra eziandio in una graziosa leggenduola,
che piange la morte di bella e innamorata giovane, e che, lettala, diresti
affatto ricalcata sopra la nostra; tanta somiglianza di espressioni e di
sentimento ha con essa. Essendo troppo lunga per inserirla qui, il lettore
1
Vedi il § I del presente Discorso, a pag. 45.
151
la troverà per esteso alla fine1.
Così, dopo sei anni di faticose, pazienti ed accurate ricerche in più
di settanta nostri Comuni, e nelle biblioteche di Palermo, Carini e
Monreale, come pure in Archivj gentilizj e parrocchiali; ricerche agevolatemi assai da parecchi egregi letterati e amici carissimi dell'Isola2,
eccomi finalmente a poter dare nella su ainterezza questa meritamente
famosa leggenda siciliana: e se vogliamo ricercare perchè una così bella
poesia abbia potuto a amno a mano venirsi disperdendo, di maniera che
a grave stento da varie parti di Sicilia e dopo sei anni ho potuto raccattarne i varj btandelli per completarla; la prima nel divieto che i Signori
di Carini imponevano con la loro potenza di cantare e perpetuare la
terribile storia; la seconda è riportata nella ripugnanza che il popolo
stesso risente nel ripetere gli squarci più luttuosi ed atroci di essa. E
di questo posso far fede io, e mi aiutarono a raccogliere questa poesia,
che più parte delle donzelle mormoravano di mala voglia, e dopo molte
istanze, i versi dove si pinge la Caterina in inferno, per la sola ragione
di non voler crescer pesi a quella sventurata anima, a torto confinata
nel fuoco eterno. Altre poi mi affermano di sentire un certo ribrezzo
a recitare quelle stanze che descrivono la disperazione ed i rimorsi del
parricida Barone, perchè (dicevano esse) tali voci sono solo per le anime
perdute e dannate come quelle degli assassini; ai cuori timorati di Dio
fanno arricciare le carni ed erigere i capelli. E certo da questo timore
e da queste idee della basa gente dobbiamo ripetere la origine di questa
sacra leggenda che s'intitola Il Penitente, e che altro non è che una trasformazione sacra di que' tratti della Baronessa, che ai cuori timorati di
Dio recavano dispiacere e ribrezzo. Ha creduto il Pitrè che fose questa
una parodia della nostra leggenda: io inclinerei a crederla fatta sul serio, perchè sul serio si canta e senza mostrare neppur per segno di voler
burlare e irridere. A ogni modo, anche questa sacra trasformazione della
1
2
152
Vedi l'APPENDICE in fine al volume.
Nomino a cagione di gratitudine affettuosa gli ottimi Prof. V. DI GIOVANNI e U. AMICO
che molto hanno aiutato le mie fatiche colla loro dottrina; il mio GIUSEPPE PITRÈ,
che con instancabile cura ha raccolto per me varj frammenti; l'ab. GIOACCHINO DI
MARZO, e l'avvocato FRANCESCO MAGGIORE-PERNI; il sac. G. BADALAMENTI,
il prof. G. B. SIRAGUSA, il sig. BENEDETTO RUSSO, e il sig. PIETRO GIUFFRÈ. Dei
brani di leggenda pubblicati dal VIGO nella prefazione a' suoi Canti popolari (§ 2) ho fatto tesoro, e si trovano al posto che loro apparteneva: così ancora degli otto versi (207-214)
che il bravo prof. LETTERIO LIZIO-BRUNO pubblicò ne' suoi Canti scelti del popolo
siciliano, posti in versi italiani ed illustrati; Messina, 1867.
storia di Caterina è degna di studio1. Per quanto poi alla prima cagione
si riferisce, dopo ciò che sul Barone Vincenzo II abbiamo scritto, è facile comprendere come specialmente in Carini e dintorni nessuno osasse
cantar all'aperta questa poesia. Il divieto durò fino al secolo presente2:
ed a maggiore conferma io vo' ricordare un aneddoto sul proposito. - Un
vecchio carinese, abitante in Palermo, dettando al Pitrè qualche stanza
delle leggenda, che giovinetto aveva imparata dal padre, usciva in queste
precise parole: - Mio padre era celebre cantore, e sapeva le storie a migliaia. Una volta (io era su' dieci anni e appena ci penso), molti nobili
cavalieri vennero di Palermo col Principe, per divertirsi al Castello, e
fecero chiamare mio padre perchè cantasse. Egli cantò molte cose; e
vedendosi lodato molto, volle cantare la più bella poesia che sapesse,
quella della Baronessa. Ma non appena cominciò il canto, il Principe
si turbò in viso, e con voce alterata, mettendogli in mano dieci scudi, lo
licenziò, dicendo ch'eran sufficienti le cose cantate.
Pur in Carini stessa la leggenda cantavasi sempre, ma con qualche
timore, e di nascosto3: ragione, forse, per cui si sanno in esso Comune
meno versi che negli altri circonvicini. In questi al contrario, come in
Borgetto, si cantava solennemente nelle numerose serenate, e il cantore
voleva esser pregato e non se ne la faceva pagare a mite prezzo4.
Questo fatto è un argomento di più che viene a riconfermarci in quale
pregio fosse tenuta dal popolo tanto bella poesia. Sulla quale nient'altro a dir mi rimane, fuori che il rivolgere l'attendimento del leggitore
su d'una variante notevolissima, che m'è venuta da Acireale e Catania5.
Secondo questa, il principio del poemetto, senza pur cambiare nel pensiero e nell'intendimento, sarebbe diverso da quello che si recita nella
rimanente Sicilia e fu da noi accettato: certo ancor esso è affettuoso e
leggiadro, avvegnachè non sostenga il paragone del nostro, e di questo
sia più breve d'assai; ma ad ogni modo, lo vogliamo qui far conoscere ed
ammirare, senza pur trattenerci dall'esprimere il dubbio che non sia esso
1
G. PITRÈ, Studi di poesia popolare, pag. 387 e seg. Vedi l'APPENDICE.
3
Vedi NOTE E DOCUMENTI, (K).
2
4
5
Vedi NOTE E DOCUMENTI, (K).
Vedi NOTE E DOCUMENTI, (F).
LIONARDO VIGO, ch'io venero con cordialissimo affetto, e che con tanta brama affrettò
la pubblicazione di questa leggenda, oltre a molte varianti che riporto a suo luogo e al
nuovo cominciamento del poemetto che stampo nel testo, mi ha fornito i versi 13-20
della poesia, che colmarono una lacuna. Con qual cuore io me gli tenga obbligato di tante
gentilezze egli sel sa, che mi conosce; onde ogni altra parola che aggiungessi sarebbe
superflua.
153
un frammento di altra storia ora perduta che, insieme alla prima, potè
correre popolare su Caterina La Grua.
Una, li dui, li pochi palori,
Palazzu fabbricatu a menzu mori,
Tanta la pena di lu nostru cori
Nn'abbunna l'occhi di lu lagrimari;
Cu tia Carini e Cicilia nni mori,
Sangu la Turri e su' sangu l'atari;
Hannu scannatu dui filici cori,
Cc'è lu trabuccu e nun si pò parrari.
E la bedda Signura di Carini
Quannu affacciava pareva la luna,
Ca spicchïava marini marini
Una d'in celu e l'áutra a li barcuna;
Arristurava tutti li mischini,
Arriparava la mala furtuna,
Tutti li genti, luntani e vicini,
Amavanu di cori a la patruna.
III.
Ed ora che abbiamo attinto la fine delle nostre ricerche1, comprende
agevolmente ciascuno qual tesoro di poesia e di affetti ci erano fino a
qui nascosti colla nostra leggenda. A questa può con profitto ricorrere
il poeta, come romanziere e l'autore drammatico2. E quanti altri tesori
non ci sono palesi, sol perchè obliando e spregiando le nostre, per ardente sete di novità appressiamo i labbri alle fonti straniere! A quasta
classica Terra sicana, mestra ed emula di Grecia in civiltà, vincitrice di
1
2
154
Non parlo della ortografia da me adottata, perchè è la stessa che adottai ne' Canti popolari,
e nella prefazione ad essi giustificati. Ho serbato rigorosamente la pronunzia di certe parole; cosicchè troverai beddu e bellu, Vernagaddu e Vernagallu, árbulu ed árvulu, sbintura
e svintura, bucca e vucca, manciari e mangiari ec., perchè dalla modificazione di esse
il popolo trae partito di squisitezza di armonia ritmica: e l'arte del popolo non la cede a
paragone di quella de' dotti.
Vedi NOTE E DOCUMENTI, (O).
Atene e Cartagine, e sol vinta da Roma, ma gloriosa cadendo col divino
Archimede; a questa Terra, grande eziandio nell'abisso della sventura,
ingiuriata e dileggiata da chi è nato pur ieri; molti serti sono stati strappati dal furore, o dall'insania, o dall'invidia dell'uomo. A noi incombe un
sacro dovere, di conoscer noi stessi e le cose nostre, e farle conoscere;
di raccogliere le gloriose corone degli avi, e ridar loro lo splendore che
affoscato era dall'oblio. Noi abbiamo usi e costumanze e tradizioni poco
studiati, abbiamo glorie ignote da portare alla luce, tutto a documento
prezioso di storia. Il popolo nostro è stato negletto, e così i suoi sentimenti, le sue passioni, la sua poesia. «E avanzi di vecchie canzoni, e
racconti popolari, e motti, e proverbj, ogni cosa gioverebbe raccogliere,
a ogni cosa dar ordine e luce; peerchè ogni cosa si collega con pensieri
importanti, con immagini allegre e desiderabili, con nobili affetti, che
solo un ingegno istupidito dall'orgoglio della gelida scienza potrebbe
avere in disprezzo»1.
Questi studj sono men che bambini fra noi, e poco in onore tenuti.
In Danimarca, sotto gli auspici e gli incoraggiamenti della regina Sofia,
fin dal 1591 furono pubblicati i canti tradizionali danesi. E già prima gli
Spagnuoli avevan segnato col 1550 la più antica raccolta di lor poesia
popolare: di poco posteriori la raccolsero e studiarono gli Allemanni.
In Francia è il governo stesso che promuove la raccolta de' canti tradizionali della nazione, e ne incarica i migliori ingegni di una celebre
accademia parigina, e contribuisce co' fondi della Pubblica Istruzione.
Il Villemarquè, pe' suoi lavori su' canti popolari bretoni, fu nominato
membro dell'Istituto di Francia!
A me fa difetto l'ingegno, e la salute; a me altri studj di scienza vietano di continuare alacremente e profondamente un genere di studj che
richiede molto tempo, molta fatica, e molti mezzi. Ho fatto ciò ch'era in
poter mio; e se male ho fatto, non si scordi che anche il far male costa
travaglio. Altri verrà, e impiegherà meglio le forze della sua mente: ed io
ho fede nella gioventù ch'ora sorge forte d'animo e ardita di cuore, e che
presto, non ne dubito, smetterà indegnata le nocevoli ed esaltate passioni
di setta, i clamori di piazza, la cieca ammirazione e pretesi colossi con
piedistallo di creta, la troppa bramosia di affollarsi alla vita, le scomposte ambizioni: e tornerà così a rinnovellare l'intelletto ed il sentimento
alle caste virtuose e pure fonti nostrane, che diedero gloria universale ed
eterna alla Patria ed ai nostri magnanimi progenitori.
1
TOMMASÈO, Canti popolari toscani, pag. 25.
155
156
LA BARONESSA DI CARINI
157
158
I.
Chianci Palermu, chianci Siragusa1,
Carini2 cc' è lu luttu ad ogni casa;
Cu' la purtau sta nova dulurusa
Mai paci pozz'aviri a la sò casa.
Haju la menti mia tantu cunfusa,
Lu cori abbunna3, lu sangu stravasa;
Vurria 'na canzunedda rispittusa,
Chiancissi la culonna a la mè casa:
La mégghiu stidda chi rideva in celu,
Arma senza cappottu e senza velu;
10
La mégghiu stidda di li sarafini,
Povira Barunissa di Carini!
Ucchiuzzi fini di vermi manciati,
Ca sutta terra vurvicati siti,
D'amici e di parenti abbandunati,
Di lu mè amuri parrati e diciti.
Pinsati a idda4, e chhiù nun la turbati,
Ca un jornu com'è idda cci sariti;
Limósina faciti e caritati,
Ca un jornu avanti vi la truvuriti5.
1
2
3
4
5
5
15
20
Cioè piange Sicilia tutta, rappresentata da Palermo e Siragusa, due città che sono a due
estremi di essa.
In carini. L'in frequentemente, in simili casi, elidesi dal popolo. Così pure in Toscana,
quando dicono: «Roma facesti la prima fermata», e «Mezzo Stazzana ha fatto la fermata».
Vedi TIGRI, Canti popolari toscani.
Espressione forte e fisiologicamente vera, giacchè nei sentiti dolori il sangue dalla periferia affluisce al centro, o, in altri termini, viene ad abbondar il cuore. DANTE avrebbe
detto fece lago nel cuore (Inf. I, 20).
Pensate a lei. Sottint. il voc. o genti, o cittadini, ec.
Che un dì vi sarà compensata; cioè da Dio.
159
Ciumi, muntagni, árvuli, chianciti;
Suli cu luna, cchiù nun affacciati;
La bella Barunissa chi pirditi
Vi li dava li räj 'nnammurati:
Acidduzzi di l'ária, chi vuliti?
La vostra gioja 'nútili circati:
Varcuzzi, chi a sti praj lenti viniti,
Li viliddi spincitíli alluttati!
Ed alluttati cu li lutti scuri
Ca morsi la Signura di l'amuri.
Amuri, Amuri, chiánciti la sditta,
Ddu gran curuzzu cchiù nun t'arrisetta;
Dd'ucchiuzzi, dda vuccuzza biniditta,
Oh Diu! ca mancu l'úmmira nni resta!
Ma cc' è lu sangu chi grida vinnitta
Russu a lu muru, e vinnitta nn'aspetta:
E cc'è cu' veni cu pedi di chiummu1,
Chiddu chi sulu cuverna lu munnu;
E cc'è cu' veni cu lentu caminu,
Ti junci sempri, ärma di Cainu!
25
30
35
40
II.
Vicinu a lu Casteddu di Carini
Giria di longu un bellu Cavaleri,
Lu Vernagallu di sangu gintili
Chi di la giuvintù l'onuri teni;
Giria comu l'apuzza di l'aprili
'Ntunnu a li ciuri a súrbiri lu meli;
Di comu annarba finu a 'ntrabbuniri
Sempri di vista li finestri teni:
Ed ora pri lu chianu vi cumpari
Supra d'un baju chi vola senz'ali;
Ora dintra la chiesa lu truvati,
1
160
45
50
Dio viene con piè di piombo, ma sempre, benchè tardi alle volte, ci coglie. Un proverbio
siciliano dice: Diu ha pedi di chiummu, ma a tutti nni arriva.
Chi sfaiddía cu l'occhi 'nnammurati;
Ora di notti cu lu minnulinu
Sintiti la sò vuci a lu jardinu.
Lu gigghiu finu, chi l'oduri spanni
Ammugghiateddu a li so' stissi frunni,
Voli cansari l'amurusi affanni
E a tutti sti primuri nun rispunni:
Ma dintra adduma di putenti ciammi,
Va strasinnata, e tutta si cunfunni1;
E sempri chi2 lu sénziu cci smacedda,
Ch'avi davanti 'na figura bedda;
E sempri chi lu sénziu cci macina,
E dici: «Comu arreggi, Catarina?»
E sempri chi lu sénziu 'un ha valuri, Ca tutti cosi domina l'Amuri.
Stu ciuriddu nascíu cu l'áutri ciuri,
Spampinava di marzu a pocu a pocu;
Aprili e maju nni gudiu l'oduri,
Cu lu suli di giugnu pigghiau focu:
E di tutt'uri stu gran focu adduma,
Adduma di tutt'uri e nun cunsuma;
Stu gran focu a du' cori duna vita,
Li tira appressu comu calamita.
2
60
65
70
Chi vita duci, ca nudda la vinci,
Gudírila a lu culmu di la rota!
Lu suli di lu celu passa e 'mpinci,
Li räj a li du' amanti fannu rota:
'Na catinedda li curuzzi strinci,
Báttinu tuttidui supra 'na mota;
1
55
75
80
Questo passaggio dal senso figurativo al proprio, dal giglio a Caterina, non dee fare impressione, perchè trova molti riscontri in poesia popolare non solo, ma eziandio presso i
classici di nostra lingua. Così il BOCCACCIO (novella LXXII) parla di lire, e poi vi si
richiama col relativo mascolino, perchè ha in testa danari: così pure il SACCHETTI (I,
pag. 33; ediz. 1724), parlando anche di lire: così DANTE (Inf. III), che cennando al mal
seme di Adamo dice che «Gittansi da quel lito ad una ad una», perchè ha fisso in memoria
che quelle sono anime, ombre. Et jam satis.
Il chi di questo verso e dei seguenti 63 e 65 è un semplice riempitivo che il popolo sovente
adopra per la maggiore armonia dsel verso.
161
E la Filicità chi li dipinci
Attornu attornu di oru e di rosa.
Ma l'oru fa la 'nvídia di centu,
La rosa è bella e frisca pr'un mumentu;
L'oru, a stu munnu, è 'na scuma di mari,
Sicca la rosa e spampinata cadi.
Lu baruni di cáccia avia turnatu:
«Mi sentu straccu, vógghiu arripusari».
Quannu a la porta si cci ha prisintatu
Un munacheddu, e cci voli parrari.
Tutta la notti 'nsémmula hannu statu;
La cunfidenza, longa l'hannu a fari...
Gesù-Maria! chi áriu 'nfuscatu!
Chistu di la timpesta è lu signali...
85
90
Lu munacheddu nisceva e ridía1,
E lu Baruni susu sdillinía:
Di núvuli la luna s'ammugghiau,
Lu jacobu cuculla e sbulazzau.
Afferra lu Baruni spata e ermu:
«Vola, cavaddu, fora di Palermu!
Prestu, fidili, binchì notti sia,
Viniti a la mè spadda in cumpagnia».
95
100
III.
1
'Ncarnatedda calava la chiaría
Supra la schina d'Ustrica a lu mari;
La rininedda vola e ciuciulía,
E s'áusa pri lu suli salutari;
Ma lu spriveri cci rumpi la via,
L'ugnidda si li voli pilliccari!
Tímida a lu sò nidu s'agnunía,
A mala pena ca si pò sarvari.
162
105
110
Ecco il riso fratesco, il riso mefistofelico di chi non cape nei panni per aver finalmente
potuto nuocere al suo odiato. Riso terribile qui, messo a lato al furente delirio del Barone
Talamanca.
E d'affacciari nun azzarda tantu,
E cchiù nun pensa a lu filici cantu.
Simili scantu e simili tirruri
Happi la Barunisa di Carini:
Era affacciata nni lu sò barcuni
Chi si pigghiava li spassi e piaciri;
L'occhi a lu celu e la menti a l'Amuri
Términi 'stremu di li so' disj.
«Vju viniri 'na cavalleria;
Chistu è mè patri chi veni pri mia!
Vju viniri 'na cavallarizza;
Forsi è mè patri chi mi veni ammazza1!...
Signuri patri, chi vinistu2 a fari?»
«Signura figghia, vi vegnu a 'mmazzari».
«Signuri patri, accurdátimi un pocu
Quantu mi chiamu lu mè cunfissuri».
«Havi tant'anni chi la pigghi a jocu,
Ed ora vai circannu cunfissuri?!
Chista 'un è ura di cunfissiuni
E mancu di ricíviri Signuri».
E, comu dici st'amari palori,
Tira la spata e cássaci lu cori.
«Tira, cumpagnu miu3, nun la garrari
L'appressu corpu chi cci hai da tirari!»
Lu primu corpu la donna cadiu,
L'appressu corpu la donna muriu;
Lu primu corpu l'happi 'ntra li rini,
L'appressu cci spaccau curuzzu e vini!
Curriti tutti, genti di Carini,
Ora ch'è morta la vostra Signura,
Mortu lu gígghiu chi ciuríu a Carini,
1
2
3
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Mi veni ammazza, mi viene ad ammazzare: forma uguale alla toscana: vallo a impara,
vallo a piglia ec.
Veniste: simile al venistù della comune lingua d'Italia.
Parla il padre stesso a un suo fidato, che solo, de' seguaci, era salito con lui nelle stanze
superiori del Castello.
163
Nn' havi curpanza un cani tradituri1.
Curriti tutti, mónaci e parrini,
Purtativilla 'nsemi in sepultura:
Curriti tutti, pirsuneddi boni,
Purtativilla in gran pricissioni;
Curriti tutti cu 'na tuvagghiedda
E cci stujati la facciuzza bedda,
Curriti tutti cu 'na tuvagghiola
E cci stujati la facciuzza azzola!
145
150
IV.
La nova allura a lu Palazzu2 jìu:
La nunna cadiu 'n terra e strangusciau,
Li sò suruzzi capiddi 'un avíanu3,
La sò matruzza di l'occhi annurvau:
Siccaru li galófari a li grasti,
Súlitu ch'arristaru li finestri4;
Lu gaddu, chi cantava, 'un canta cchiui,
Va sbattennu l'aluzzi e si nni fuj.
A dui, a tri s'arrótanu la genti,
Fannu cuncúmiu cu pettu trimanti;
160
Pri la citati un lapuni si senti
Ammiscatu di rúcculi e di chianti.
«Chi mala morti! - Chi morti dulenti! Luntana di matri e di l'amanti! L'hannu urvicatu di notti a lu scuru;
Lu beccamortu si spantava puru! Poviru amuri! quantu mi sa forti,
Morta 'nnucenti, urvicata di notti! - »
1
Questo cane traditore è il monacello che la fece da spia.
3
Non avevano più capelli da strapparsi, tanti aveansene strappati.
2
4
164
155
165
Al palazzo di Palermo de' La Grua, dov'era la madre.
Le sole finestre, prive di vita, non diedero segno del doloroso lutto!
Eu nun ti potti di ciuri parari,
Eu nun la vitti cchiù la tò fazzuni;
Mi nesci l'arma, nun pozzu ciatari
Supra la tò balata addinucchiuni.
Poviru 'ncegnu miu, méttiti l'ali,
Dipincimi stu níuru duluri;
Pri li me' larmi scriviri e nutari
Vurria la menti di re Salamuni.
E comu Salamuni la vurria,
Ca a funnu mi purtau la sorti mia;
La mè varcuzza fora portu resta
Senza pilotu 'mmenzu la timpesta;
180
La mè varcuzza resta fora portu,
La vila rutta e lu pilotu mortu.
Oh chi scunfortu pri dd'arma 'nfilici
Quann' 'un si vitti di nuddu ajutari!
Abbauttuta circava l'amici,
Di sala in sala si vulia sarvari:
Gridava forti: - Ajutu, Carinisi!
Ajutu, ajutu! mi voli scannari! Dissi arraggiata: - Cani Carinisi! L'ultima vuci chi putissi fari.
L'ultima vuci cu l'ultimu ciatu,
Ca già lu sò curuzzu è trapassatu;
L'ultima vuci e l'ultimu duluri,
Ca già persi lu sangu e lu culuri.
170
175
185
190
V.
Tutta Cicília s'ha misu a rumuri,
Stu Casu pri lu Regnu batti l'ali;
Ma vòta quannu vidi a Don Asturi1:
«Stu corpu 'n pettu cu' cci l'havi a dari?»
Iddu, ca l'assicuta lu Baruni,
1
195
È noto che i nobili prendano eziandio a cognome il titolo de' loro feudi; ond'è il Vernagallo
viene qui chiamato Don Asturi dal suo feudo di tal nome.
165
A Lattanari s'ha ghiutu a sarvari:
Filía di notti, e l'occhi a lu barcuni...
Cci vinni lu silenziu ad abitari!
«Cci vinni lu silenziu scurusu1,
E lu mè cori va com'un marusu;
Cci vinni lu silenziu e la scuría,
Com'un marusu va lu cori a mia.
Su' chiusi li finestri, amuri mia!
Dunni affaccaiava la mè Dia adurata;
Cchiù nun s'affácia no comu sulia,
Vol diri chi 'ntra lu lettu è malata.
'Ffáccia2 sò mamma e dici: - Amuri a tia!
La bella chi tu cerchi è suttirrata! Sipultura chi attassi! oh sipultura,
Comu attassasti tu la mè pirsuna3!
Vaju di notti comu va la luna,
Vaju circannu la galanti mia;
Pri strata mi scuntrau la Morti scura,
Senz'occhi e bucca parrava e vidia,
E mi dissi: - Unni vai, bella figura?
- Cercu a cu' tantu beni mi vulia, Vaju circannu la mè 'nnammurata.
- Nun la circari cchiù, ch' è suttirrata!
E si nun cridi a mia, bella figura,
Vattinni a la Matrici a la Biata4,
Spinci la cciáppa di la sepultura, Ddà la trovi di vermi arrusicata;
Lu surci cci manciau la bella gula
1
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225
Parla lo sventurato amante, e continua fino a tutto il verso 252.
'Ffaccia per affaccia: elisione frequente anche dra' Toscani, ne' canti popolari de' quali
leggiamo: «Viso di nobiltà 'ffacciati fuora, 'Ffacciati fuora, se le vuoi contare».
Nella presente seconda edizione, ai due versi che si leggono in questo luogo nella prima,
ho preferito la variante del testo, che devo al sig. Lombardo, perchè (pur conservando
integroi il concetto) mi dà la rima che la lega alla stanza che segue.
Alla Madre Chiesa dov'è la Beata Vergine.
Dunni luceva la bella cinnaca; Lu surci si manciau li nichi mani,
Dd'ucchiuzzi níuri ca nun cc'era aguali...-
'Nsignatimi unni su' li sagristani
E di la chiesa aprissiru li porti;
Oh Diu, chi mi li dássiru li chiavi,
O cu li manu scassiria li porti!
Vinissi l'Avicáriu ginirali,
Quantu cci cuntu la mè 'ngrata sorti;
Ca vogghiu la mè Dia risuscitari
Ca nun è digna stari cu li morti.
Oh mala sorti, chi mi sapi dura,
Mancu vidiri la mè amanti amata!
Sagristanu, ti preju un quartu d'ura1,
Quantu cci calu 'na tórcia addumata;
Sagristaneddu, tenimilla a cura,
Nun cci lassari la lampa astutata,
Ca si spagnava di dormiri sula
Ed ora di li morti accumpagnata!
Méttici 'na balata marmurina
Cu qüattru ancileddi, unu pri cima;
E tutti quattru 'na curuna tennu,
L'occhi a lu celu, e preganu chiancennu;
E a littri d'oru ci vogghiu nutata
La storia di sta morti dispirata».
Comu la frasca a li venti purtata
Java sbattennu pri li rampi rampi:
«Caru patruni, mutati cuntrata
Ca li livreri l'avemu a li cianchi».
«'Ntra ciánnachi e sdirrupi la mè strata,
E già li gambi su' láciri e stanchi».
«Caru patruni, la vista è canciata,
Annuricaru li nuvuli bianchi».
«Accussì lu mè cori annuricau,
1
230
235
240
245
250
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Ti prego di accordarmi un quarto d'ora.
167
E lu valuri sò l'abbandunau;
E lu distinu chi mi cáccia arrasu
A lu palazzu mi chiudiu lu passu;
Chiudiu lu virdi di la spranza mia,
E Amuri ancora m'ardi e mi pinia!...
Diávulu, ti preju in curtisia,
Fammi 'na grázia ca ti la dumannu,
Fammi parrari cu l'amanti mia,
Doppu a lu 'nfernu mi restu cantannu.
Lu Serpi1 chi passava e mi sintia:
- Cavárcami ca sugnu a tò cumannu.Hâmu spirutu pri 'na scura via,
Nun sácciu diri lu unni e lu quannu.
Jìvi a lu 'nfernu, o mai cci avissi andatu!275
Quant'era chinu, mancu cci capía!
E trovu a Giuda2 a 'na séggia assittatu
Cu ün libru a li manu chi liggía3;
Era dintra un quadaru assai 'nfucatu
E li carnizzi fini s 'arrustía!
Quannu mi vitti, la manu ha allungatu
E cu la faccia cera mi facía4 ...
Eu cci haju dittu: - Lu tempu nun manca,
Ca senza la limósina 'un si campa5;
Aspetta tempu, ca rota è lu munnu,
Sicca lu mari ed assurgi lu funnu...-
265
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280
285
Ma 'ntunnu 'ntunnu lu focu addumatu
E 'n menzu la mè amanti chi pinia;
1
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5
168
La Santa Scrittura chiama sovente Serpe il Diavolo: e pur con questo nome si designa in varie
nostre sacre leggende, altrimenti dette Orazioni.
Giuda, il solito cane traditore di monaco.
Forse gli Evangeli? dove le parole di Dio inculcano amore pel prossimo, e gradamo eterna
maledizione al traditore? Quanta ironia!
Stende la farisaica mano al giovane e gli sorride, credendo lo avesse a compagno di pene:
la maligna gioia dell'anima trista ei la palesa anche in inferno! Quel far cera col volto è
un'espressione dantesca: «Vidi duo mostrar gran fretta Dell'animo col viso (Inf. XXIII,
82-83)».
Ti farò limosina è qui detto ironicamante e figuratamente: è la vendetta che, a tempo e
luogo, promette il Vernagallo al frate traditore.
E nun cci abbasta ca mina lu ciatu
E di cuntinu mazzamariddía1.
Idda mi dissi: - Cori sciliratu,
Chisti su' peni chi patu pri tia;
Tannu la porta t'avissi firmatu
Quannu ti dissi: trasi, armuzza mia! Ed eu rispusi: - Si 'un t'avissi amatu,
Mortu nun fora lu munnu pri mia2!
Apri stu pettu e cci trovi stampatu
Lu bellu nomi di Titidda mia».
................................................................
290
295
VI.
Li guaj sunnu assai3, lu tempu è curtu;
Chi cci dimuri? Vótaci cu Cristu:
Li sónnura, ca scrópinu lu tuttu,
Lu zoccu havi a succédiri hannu dittu.
Lu beddu Vernagallu, com' è struttu!
A 'n 'agnuni di crésia l'haju vistu;
L'haju vistu cu 'na tónaca 'nfilici
Ca scippa l'arma li cosi chi dici:
Séntiri si lu vòi lu sò lamentu,
Afflittu cori, ca nun havi abbentu!
Lu sò lamentu si lu vò' sintiri,
Afflittu cori, cu lu pò suffriri?
1
2
3
300
305
310
«Mi ni vogghi'jíri addabbanna un disertu,
Erva mangiari comu l'animali,
Spini puncenti fárimi lu lettu,
Li petri di la via pri capizzali;
Pigghiu 'na cuti e mi battu lu pettu
315
Fina chi l'occhi mia fannu funtani;
E di piatati du' funtani sunnu
Cioè, a rinfrescarla non è bastevole il vento che continuo soffia quivi a guisa di turbo;
poichè, anzi, serve esso a ravvivar sempre quel fuoco.
Perchè per venirle a parlare avea giurato al Diavolo che si rimarrebbe sempre in inferno.
Ora è il poeta che parla.
169
E m'abbrazza lu Patri di lu munnu;
E di piatati sunnu du' ciumari
E lu Celu m'avissi a pirdunari».
Cu beni e mali lu Celu nn'arriva,
Di tutt'uri nni angustia e nni cunsola:
Un'ambra ceca, nè morta nè viva,
L'afflitta mamma la canúsciu ancora!
Passanu l'uri, e sempri chi suspira,
Chhiù nun guttia, chhiù nun ha palora.
Accantu d'idda si lamenta e grida
Donna Maria cu Donna Linora:
«O soru, ca pri vu' 'un cci foru missi,
Mancu cci foru li sollenni offizii!
O soru, ca pri vu' nuddu ha vinutu1!
Mancu la manta supra lu tabutu!»
Casteddu, ca lu nomu l'ha pirdutu,
Ti vju d'arrassu e fuju spavintatu;
Si' misu a lista di capu-sbannatu
Ca cci vennu li spirdi e si' muratu!
Chiancinu li to' mura e fannu vutu,
Chianci e fa vutu ddu Turcu spiatatu!
Ddu Turcu spiatatu 'un dormi un'ura
E gastima lu celu e la natura:
«Àpriti, celu, ed agghiúttimi, terra,
Fúlmini chi m'avvampa e chi m'atterra!
Scippátimi stu cori di lu pettu,
Cutiddata di notti 'ntra lu lettu2!
Cu lu suspettu 'ntra l'occhi scasati,
Tampasiannu pri li morti rua,
Senti la notti cu l'ali agghilati
Ca dici: - È a funnu la spiranza tua! Senti attornu li spiriti dannati
Cu li balletti e li scáccani sua.
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Nessuno è venuto ad accompagnare la vostra salma, nè il clero, nè il popolo.
Stracciatemi il cuore, scannatemi notturnamentee nel letto!
E va e torna, e riposu nun trova,
Ca lu sò lettu è di spini e di chiova;
E va e torna, e lu cáccia un lamentu
Chi va dicennu: - Turmentu! Turmentu! L'abbattimentu all'ultimu lu junci,
Lu stissu sonnu l'abbrazza e l'abbinci,
Ma la sò fantasia turmenta e punci
Cu l'umbri e li fantásmi chi pinci,
Comu la négghia chi la négghia agghiunci,
E curri e vola e un átumu nu' 'mpinci.
Véninu e vannu li filici jorna,
La cara giuvintù chi cchiù nun torna;
Véninu e vannu li smánii ardenti
D'amuri e pompi e cumanni putenti;
E veni poi di figghi 'na curuna...
E gira gira, è rota di furtuna.
«Casteddu, chi lu titulu mi duna,
Tornu a gudiri lu tisoru miu,
La figghia chi fa invidia a la luna
Ca ognunu dici: - A lu suli vinciu.-»
E li cámmari cerni ad una ad una,
E sulu ch'arrispunni lu licchíu;
Sulu arrispunni di tutti l'agnuna
Comu dicissi ca tuttu finiu!
«Ah, ca 'na granfa m'accupa lu cori...
Unn'è la figghia mia di lu me' cori?
Ah, ca 'na granfa lu cori m'accupa...
Unn'è la figghia mia ch'era ccà supra?
Chist'aria muta li sensi m'attira...
Dicimi, vecchia, e lévami di pena,
'Nsígnami di truvari a Catarina
Ca di li beddi porta la bannera».
Dda strja giarna, ca nun pari viva,
Stenni la manu ca tutta cci trema
E a chidda sala chi cc'era vicina
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Cci fici 'nsigna di mala manera.
Vola, Baruni, la figghia è truvata,
Sutta la bianca cutra è cummigghiata;
Vola, Baruni, vidi la tò figghia,
Forsi chi dormi sutta la cutrigghia.
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Pigghia 'na punta e dici: «Catarina!»
E lu stissu silenziu 'un cci arrispunni;
Trasi la manu, e russa la ritira,
L'occhi scasati e tuttu si cunfunni...
Sangu fumanti, chi la véncia grida,
Adduma, chi la véncia ti rispunni;
Ardi lu vrazzu, cunsumi la vina
E 'ntra lu níuru cori ti sprofunni!
E ccà spiriu lu sonnu di duluri,
Lu sonnu funerali a lu Baruni.
L'ira fa scava la nosra ragiuni,
Nni metti all'occhi 'na manta di sangu1;
Lu súspicu strascina a valancuni,
L'onuri e la virtù cci damu bannu.
Lu sarilégiu di l'ímpiu Baruni
Tutti i rami soi lu chiancirannu:
Lu chiancirannu, pinsati, pinsati,
Cu' fa lu mali cu l'occhi cicati,
E 'ntra la cara2 sua önuri 'un senti,
E la manu di Diu cálcula nenti:
Cala, manu di Diu ca tantu pisi,
Cala, manu di Diu, fatti palisi!
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Effetto morale e materiale ad un tempo dell'ira.
Cara; faccia. Vedi il PICCOLO DIZIONARIO.
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VARIANTI1.
_
1
Versi 1-2
Chianci Missina e chianci Ravanusa,
A Carini si chianci ad ogni casa.
Luttu e chiantu si fa casa pri casa.
»
4
Varda la testa mia com'è cunfusa.
»
7
Diria 'na canzunedda angustiusa.
» 9-12
La megghiu stidda chi splinnia a lu celu,
Era comu la luna senza velu;
Era la megghiu stidda di marini,
Afflitta Barunissa di Carini!
» 12
'Ccideru a la Signura di Carini.
Finiu la Barunissa di Carini.
»
Vogghiu diri la storia di Carini.
»
» 13-20
Ucchiuzzi beddi a li vermi lassati,
Ca sutta terra cuvirtati siti,
Tutti l'amici vu' cchiù nun truvati,
Vu' suli lu mè amuri lu sapiti.
Pinsati a Diu e chiù non mi turbati
Ca un jornu com'eu sugnu cci sariti;
A li póuri faciti caritati
Ca un jornu in Paradisu vi nni jiti.
» 25-26
Acidduzzi di l'aria, a cu' chianciti?
Lu vostru amuri cchiù chi cci circati?
»
Finiu la donna mia, finiu l'amuri.
30
Essendo queste varianti venute da tanti diversi paesi di Sicilia, è naturale che si trovino
mischiate le varie parlate co' varj sotto-dialetti, ch'io ho lasciato nella loro integrità.
173
V. 31-34
Amuri, com'avisti mala sditta,
Ca pirdisti lu tronu e lu rizzettu;
Muriu chidd'animuzza beniditta
Chi ti pasciva dintra di lu pettu.
»
33
Ddi labbra, dda vuccuzza tutta meli.
»
38
Ca iddiu sulu cumanna lu munnu.
»
40
Li trova sempri l'armi di Cainu.
» 41-54
174
Attornu a lu Casteddu sempri vidi
Comu giria lu bellu Cavaleri.
Attornu a lu Casteddu di cuntinu
Cci passa e spassa un bellu Cavaleri
E fa comu l'apuzza a lu matinu
'Ntunnu a lu ciuri ca cerca lu meli.
Attornu a lu Casteddu di Carini
Cci passa e spassa un beddu Cavaleri,
Cci passa matinati e siritini,
L'ucchiuzzi a li finestri sempri teni;
Comu l'apuzza a lu misi d'aprili
Ca a li ciuriddi cci cogghi lu meli.
Vicinu a lu Casteddu passa e gira
Tuttu 'nciammatu un bellu Cavaleri;
Cci passa la matina e po' la sira
Giria e vòta e ritorna e riveni,
Comu l'apuzza chi si vòta e gira
'Ntunnu a li ciuri e si surbi lu meli.
Ed ora curri e passa cu lu baju:
«Vola, cavaddu, pri la zita vaju»;
Ed ora a la chïesa lu scuntrati
Chi ucchía comu l'áutri 'nnamurati;
Ora vi canta cu lu minnulinu
Di notti e notti dintra lu jardinu.
V. 55-58
Vidi a lu gigghiu chi ciáru spanni,
E ci fannu curuna li so' frunni;
Pirchì di stari chiusu ti cundanni
E a li suspiri mei nenti rispunni?
» 61-66
E sempri chi la testa fa ruina
Diciennu: Statti all'erta, Catarina!
E sempri chi la testa un chieta mai
E dici: Catarina, ma chi fai?
Sempri la testa pierdi lu valuri
Ca tutti cosi arruina l'Amuri.
»
67
Fu di frivaru ca spunatu stu ciuri.
»
75
Chista è la vita ca mai nun si vinci.
»
78
Li stiddi si cci méttinu pri rota.
» 89-92
Quannu a la porta un monacu cci ha andatu:
«Signur Baruni, cci vogliu parlari;
Chistu è sigretu troppu dilicatu,
Jamu suliddi si giustu cci pari».
» 97-98
La luna cu li negghi s'ammugghiau,
Di lu gran tradimentu aggiarniau.
Lu jacobu chiancennu sbulazzau.
» 103-104
Avia affacciatu giustu la chiaria
E l'Ustrica lucia 'mmenzu lu mari.
» 107-109
Lu spriveri cu préscia la gulia,
Tutta di bottu la voli ammuccari;
Idda a lu nidu ripigghia la via.
» 115
Era affacciata cu lu sò Baruni.
'N finestra era cu li soi Baruni.
Era affacciata a li so' finistruni.
175
V. 117
Sula sulidda pinzava a l'Amuri.
» 119-120
Vitti viniri 'na cavallaria
Cu 'na gran quantità di genti armata
Vitti affacciari 'na cavallaria,
Vitti affacciari quantità d'aggenti,
Chistu è mè nunnu chi veni pri mia.
Vju viniri a mè nunnu pri 'ntunnu,
Vju ca veni pr'ammazzari a mia.
»
Io, figlia, vinni pr'ammazzari a tia.
124
» 125-130
«Signuri patri, 'un m'ammazzari ora,
Chista 'un è ura d'ammazzari a mia
Ca prima iu mi vógghiu cunfissari».
«Chista 'un è ura di cunfissioni
Nè mancu è ura d'assurvizioni,
Nè mancu è ura riciviri a Diu».
» 130
( E mancu a Cristu pòi arriciviri.
( E mancu è ura d'estrema unzioni.
» 132
Pigghia un cuteddu e cci passa lu cori.
Pícala 'ntra la parti di lu cori,
L'afferra beddu giustu 'ntra lu cori.
» 133-134
( Spara, cumpagnu miu, nun la sgarrari,
( Pigghia la parti manca, 'ntra lu cori.
» 135-136
Lu primu corpu chi cci happi di dari
La fici stari di milli culuri,
L'appressu corpu la vosi ammazzari.
Secunnu corpu la fici muriri.
»
136
E la sò facci culuri mutau.
»
139
( Curriti tutti, cani di Carini.
176
V. 143
( Calássiru li genti di Carini.
Calássiru li mónaci e parrini.
» 144
( Purtativilla tutti in seculoru.
( Prestu, vaiticcilla a sippilliri.
» 143-144
( Sò patri stissu cci spaccau li vini,
( Accumpagnátila a la sipultura.
»
148
Quantu cci stuju la vuccuzza bedda.
»
150
Quantu ci stuju la vuccuzza azzola.
» 151-153
L'afflitta mamma allura lu sintiu:
«O figghia Catarina di stu cori,
La mamma pri stu puntu t'addivau?»
» 155-156
( Chiudi sti finestri e sti barcuni
( Ca li galoffari hannu a siccari.
» 156
( Ristaru visitusi li finestri.
( Li mura cci ristaru visitusi.
» 157-158
( Lu gaddu li finiu li so' cantati
( Facennu siritini e matinati.
» 159-162
La genti fa cuncúmiu: «Chi fui?»
«Chi mala morti! nun s'ha 'ntisu mai!»
«Poviru amuri, nun 'nvirdica cchui,
Cumenza la litánia di li guaj».
» 161-162
( Tutti li strati un lapuni si senti,
( Di sugghiuzzi, di rúcculi e di chianti.
» 165-168
Di notti senza lumi l'attirraru,
Magari si spantau lu sagristanu;
L'hannu attirratu sulidda di notti,
La carni cci arrizzau a li beccamorti.
177
V. 165-168
Sula sulidda attirrata a lu scuru.
Povira donna, mi pari assai forti,
Ca nun la miritava chissa morti.
Talà si cc'è disgrazia cchù forti,
Sula la vurvicaru a menzanotti.
Urvicata a lu scuru a menzanotti.
» 179-182
La mè varcuzza fora scaru resta
Senza timuni ammenzu la timpesta;
La mè varcuzza resta fora scaru,
La vila rutta e lu timuni a mari.
»
Oh dógghia amara di dd'arma 'nfilici.
183
» 185-186
( Java gridannu e chiamava l'amici
( Ca lu sò patri la vulia ammazzari.
» 199-200
Iddu, aggattatu, 'un sapi lu tinuri,
A lu Casteddu trema di 'ncugnari.
Cc'è lu Baruni chi lu fa trimari.
Cc'è lu Baruni a lu voli scannari.
» 213-214
( Oh sipultura chi all'omini attassi,
( Comu attassasti la pirsuna mia!
» 215-218
Arsira cu lu lustru di la luna
Annai a visitari 'na malata;
Pri via mi scuntrau la Morti scura,
Mi dissi: «Giratinni, è vurvicata».
» 220-222
Vaju circannu la galanti mia.
«No' la circari no, ch'è in sepurtura,
E cu l'áutri morti in cumpagnia».
» 225-226
( Non la circari no, ch'è sipilluta,
( All'ura d'ora è di vermi manciata.
178
V. 223-226
S' 'un co' cridiri a mia, la mè figura,
Ti nni va' a San Giuvanni a la Biata,
Isi la cciáppa di la sipultura
E ddhà cci vidi la facci manciata.
Vattinni a San Franciscu a la Biata
La vidi 'nterra di vermi manciata.
Vattinni a la Cappella a la Biata.
» 227-230
Ahi com'è fatta ddà facci di spera,
Dda duci vucca quantè strafurmata!
Nidu di surci la sò capiddera
Ch'era di ciuri e di perni adurnata!
»
'Nsignátimi unni sta lu sagristanu.
231
» 231-234
Tutti végnanu ccà li sagristani,
Lu parrineddu a pena di la morti,
Poi vegna l'Avicariu ginirali
Chiddu ch'àvi li chiavi di li porti.
Chiddu chi di li chiesi è lu patruni.
» 235-236
( E di li chiesi nni vogghiu li chiavi,
( O mi l'apriti o vi scassu li porti.
»
239
Oh 'ngrata sorti, chi m'ha' statu dura!
»
241
Oh Diu ch'avissi quant'un quartu d'ura.
» 241-244
O celu, o terra, dammi tempu un'ura,
Mi calu e 'nchianu 'na 'ntórcia 'ddumata;
Io cci la calu e idda mi la stuta,
Criju ch'è 'ntra lu 'nfernu cunnannata.
»
Quantu cci vju lu pettu e la gula.
243
179
V. 241-244
O morti, o morti, dammi un quartu d'ura
Quantu cci scindu 'na 'ntórcia 'ddumata;
Tè un muccaturi pri dda janca ula,
Quantu cummogghi dda facci 'ncarnata.
» 243-246
Sagristaneddu, a tia la raccumannu,
Addúmacci la lampa notti e ghiornu.
Sagristaneddu tenimicci cura,
Si no li surci la vannu a mangiari
E tu cci fai la mala figura.
» 247-252
Faticci 'na balata marmuranti
Cu quattru sarafini a li so' canti,
E tutti quattru prajanu pri vui
Chi 'ntra lu munnu nun turnati cchiui:
E cu' si 'ncugna 'ncosta ssa balata
Nn'havi lu cori e l'arma trapanata.
» 249-250
( E tutti quattru tennu 'na curuna.
( Prjannu a chiantu ruttu ura pri ura.
»
E cu' la vidi st'amara balata.
251
» 253-256
Comu la pagghia a lu ventu vulata
Vaju sbattennu pri li campi campi;
Haju pirdutu macari la strata
Ca li livreri li 'ntisi a li cianchi.
Ca li canazzi l'happi a li me' cianchi.
»
Fammi 'na grazia chi speru e dumannu.
268
» 265-266
( Li gammi ha rutti la spiranza mia,
( E Amuri ancora mi pirsicutia.
» 267-268
( Diáschicci, ti preju un quartu e un'ura
( Si mi cci porti a lu 'nfernu cantannu.
180
» 270
V. 275-278
Ca nun mi curu si restu a lu 'nfernu.
Annai a lu 'nfernu chi sù cunnannatu,
Chiddu era chinu chi non ci capia;
Ddhà intra cc'era Giuda cunnannatu,
Mi fici largu pri sò curtisia.
» 275-280
Jivi a lu 'nfernu ca cci fui mannatu,
E si mannatu 'un cc'era, nun cci jia,
E cc'era Giuda a 'na banna assittatu
E fici festa quannu vitti a mia;
Quannu mi vitti, la manu m'ha datu
Dicennu: «Ora vinisti, armuzza mia».
» 276-278
O Gesù, Gesù, quantu genti cc'era.
Cc'era Giudazza assittatu a la ciera,
Mi fici largu pri sò Signuria.
»
Ti fazzu la limósina si campu.
284
» 288
E 'ntra lu menzu la patruna mia.
E 'ntra lu menzu la galanti mia.
E 'mmenzu cci truvai l'amanti mia.
» 289-290
( E nun cci abbasta lu ventu ca mina
( E mancu u sirenu di lu mari.
» 291
Idda mi dissi: «Cani sciliratu».
Ccà mi vinisti, cani arruinatu?
Mi dissi: «Nesci, cani arrabbiatu».
» 291-298
Mi dissi: - Ccà vinisti, cori 'ngratu!
Tutti sti peni li patu pir tia.E io cci dissi: - Non m'avissi amatu,
Lu focu chi t'ha d'ardiri 'un t'ardia.
- Caru dilettu miu, dilettu amatu,
Stu cori nun pò stari senza tia.Ed io rispusi: - Si a lu 'nfernu vaju,
Vaju a lu 'nfernu pi vidiri a tia.
181
V. 293-294
( Ti l'arricordi lu tempu passatu
( Quannu middi carizzi ti facia?
» 295 e seg.
«Chi megghiu nun t'avissi amatu mai
E la mè vucca 'un t'avissi parratu!
Nun l'avissi patutu tanti guaj,
Mancu li patiria chisti ca patu».
«Tu ha' statu la mè amanti e tu sarai,
Chidda chi m'ha tinutu 'ncatinatu;
Apri lu pettu ca cci truvirai
Lu bellu nomu tò dintra stampatu.
» 299-300
( L'angustii sunnu assai, la vita curta,
( Vòtati a Diu, abbrázzati cu Cristu.
» 301-403
( Li sónnura nni dicinu lu tuttu,
( A tanti genti boni l'hannu dittu.
» 311-316
Mi nni voggh'iri unni abita lu suli
Chi la mè vita 'un s'havi a scufanari,
Cummattiri cu serpi e cu scursuni,
Puru cu la Sirena di lu mari:
Po' mi battu lu pettu c'un pitruni,
'Nfina chi Diu m'havissi a pirdunari.
Ora mi 'nd' 'ogghiu andari supra un munti
E ddhà mi vogghiu fari un novu lettu;
Spini puncenti com'un malfatturi,
Li petri di la via sutta mi mettu
Tantu mi vogghiu báttiri stu pettu
Fina chi l'arma mia s'havi a sarvari.
Conza stu liettu di spini pungienti,
'Na pietra di la via vurria pigghiari,
Li pietri di la via tutti li annettu
E mi li mientu io pri capizzali;
Dipoi una tónica mi miettu
Ca tuttu tuttu a Diu m'intiendu dari.
182
V. 318
E un cunta cchiù pri mia mancu lu munnu.
» 320
( E Diu m'avissi la pena a livari.
( E Diu m'avissi lu castigu a dari.
» 321-328
Lu Celu giustu ad ognunu nni arriva,
D'ogni tempu nn'affriggi e nni cunsola:
Un'umbra ceca ca nun pari viva,
Chista è la mamma e la canúsciu ancora!
Cci passanu li jorna chi suspira:
«Oh figghia! figghia!» e cchiù nun ha parola.
Puru cu idda si lamenta e grida
Anna Maria cu Donna Linora.
»
328
Donna Luisa cu Donna Linora.
»
332
Mancu li ciuri supra lu tabbutu.
» 333-334
( O Casteddu, Casteddu malaurusu,
( Cu' ti talia, curri spavintatu.
»
E di tricentu spiriti abitatu.
336
» 337-338
( A li to' mura lu luttu ha vinutu
( E 'ntra lu cori a ddu Turcu spiatatu.
» 341-344
Chi si grapissi la terra di sutta,
La mè pirsuna l'ammuccassi tutta!
Chi mi scinnissi un lampu fulminanti,
Cinniri mi facissi 'ntra un fallanti.
» 343-344
( Viniti, mi strazzati lu me pettu,
( Lassatimi scannatu 'ntra lu lettu.
» 345-346
( E cu suspettu firria li strati,
( Tampasiannu comu fa la grua.
183
V. 348
Ca dici: È chiusa la furtuna tua!
Dicennu: È morta la spiranza tua!
»
Chi fu? chi è chista paura tua?
350
» 351-354
E va e veni e nun trova riposu,
Ca lu lettu è di spini dulurusu:
E va e veni e lu junci un lamentu
Ca cci trapana l'arma cu turmentu.
Iva e viniva, e nun avia cuietu,
Iva e viniva e poi turnava arretu:
Sintia 'nu scrúsciu e cci paria lamentu;
Misiricordia chi sferu turmientu!
Annava e rivutava, e spini trova,
'Ntesta cci havi chiantati quattru chiova;
Annava e rivutava, e 'un sapi cui
Cci va dicennu: Chi nni speri cchiui?
» 357-358
( Ma la sò fantasia stimula e punci
( Cu li figuri níuri chi dipinci.
»
E passa e curri e all'áriu nun 'mpinci.
360
» 361-366
Passa lu risu e li belli jurnati,
La giuvintù e la filicitati;
Passa lu tempu di l'amuri ardenti
Quannu cu pompi e paggi era cuntenti;
E passa poi di figghi 'na curuna,
E tutti vannu appressu a la furtuna.
» 367-370
Va a lu Casteddu lu signur Baruni:
«Dicitimi, d'unn'è lu sangu miu?
D'unn'è la figghia di tantu valuri
Ch'a la stissa ricchizza idda vinciu?
» 367-374
A lu Casteddu ha ghiutu lu Baruni
Ca di la figghia sua happi disiu;
184
Arriva, ed era apertu lu purtuni,
Dici e dumanna: «Unn'è lu cori miu?»
Ma a puntu a puntu di tutti l'agnuni
Rispunni lamintusu lu licchíu,
Sulu rispunni a sonu di duluri
Pari ca dici: Ccà tuttu finiu!
V. 371
Li cámmari li tessi ad una ad una.
» 373-374
( Sulu arrispunni lu leccu dulenti
( E dici: «Tu chi vòi? Ccà 'un cc'è cchiù nenti!»
»
Pari ca dici: «Lu munnu finiu!»
374
» 375-378
E strittu strittu mi sentu lu cori
Ca nu vju a la figghia di lu cori;
Lu cori abbunna, l'affannu m'accupa,
Vurria la figghia mia ch'era ccaà supra.
» 377-378
Senti sta granfa chi lu cori afferra
Comu mè figghia fussi sutta terra?
»
Dunni pigghiau la figghia di ccà supra?
378
» 379-382
Chist'aria muta a mïa mi fa guerra,
Cu tia mi vuotu vecchia scialarata;
'Ddótami unn'è la figna tantu benna
Ca 'ntra li bernni figni è muntuata.
» 379-382
St'ária chi esti, ca tuttu m'attira?
Chi esti, ca la vista 'un è sirena?
Esti ca nun la trovu a Catarina,
A tia la ciercu, vecchia 'ntramisera.
» 381-382
( La bella di li belli è Catarina
( E 'ntra li belli mi spinci bannera.
»
Pari 'na rosa 'mmenzu la ciurera.
382
185
V. 387-388
( E lu Baruni la figghia attruvau
( Sutta la bianca cutra l'abbisau.
» 390
( Pari ca dormi sutta la cutrigghia
( È durmienti sutta la cutrigghia.
» 391-392
( Spinci la punta e chiama a Catarina,
( E nuddu ciata, e nuddu cci arrispunni.
»
Trasi la manu e dici: «o Catarina!»
393
» 393-394
( 'Nterna la manu sutta e la ritira
( 'Nsanguliata e tuttu si cunfunni.
»
394
A allura allura trema e si cunfunni.
»
398
E lu níuru cori lu sprofunni.
»
400
L'eternu turmintiu di lu Bariuni.
»
401
L'ira nni la 'ncattiva la ragiuni.
» 409-412
186
Cui la vuci d'onuri nun la senti
Lu chiancirannu cu milli turmenti;
Lu chiancirannu, e lu farà palisi
Stu sarilégiu chi mai nun si 'ntisi.
ALTRO COMINCIAMENTO DELLA LEGGENDA
Una, li dui, li pochi palori,
Palazzu fabbricatu a menzu mari,
Tanta la pena di lu nostru cori
Nn'abbunna l'occhi di lu lagrimari;
Cu tia Carini e Cicilia nni mori,
Sangu la Turri e sangu su' l'atari;
Hannu scannatu dui filici cori,
Cc'è lu trabuccu e nun si pò parrari.
E la bedda Signura di Carini
Quannu affacciava pareva la luna,
Ca spicchïava marini marini
Una d'in celu e l'áutra a li barcuna;
Arristurava tutti li mischini,
Arriparava la mala furtuna,
Tutti li genti, luntani e vicini,
Amavanu di cori a la patruna.
Attornu a lu Casteddu di Carini ec.
187
188
LA BARONESSA DI CARINI
edizione 1914
189
190
191
192
ALLA SANTA MEMORIA
DELLA MADRE MIA
GIOVANNA SALOMONE nata MARINO
VENERATA E DESIDERATA
SEMPRE
193
La dedicatoria, che leggevasi nelle edizioni prima e seconda, era
questa:
A te madre, che nella mia recente perniciosissima infermità vegliasti
assidua le notti angiolo consolatore al mio capezzale, e con le amorose
cure e le dolci parole allenisti i miei fisici e morali patemi, e mi strappasti alle ghiacciate mani di morte; a te, Madre mia, io voglio s'intitoli
questa sublime storia di dolore, che m'è costata tre anni di minuziose e
pazienti ricerche, e ch'io udiva da te la prima volta ne' beati anni della
innocente e rosea mia fanciullezza, quando alla religione, al dovere,
all'onestà mi educavi il cuore e la mente.
Madre, la vita mia stessa ben saria misero compenso per quel che ti
debbo: ma non isdegnar tu questa offerta, povera sì, ma che viene dal
cuore, che tu conosci in ogni sua fibra...
Palermo, 8 febbraio 1870.
194
AVVERTENZE
per questa terza edizione
_____
Quando nel giugno 1867 diedi fuori i Canti popolari siciliani, l'ottima mia genitrice, che con materno sollecito occhio seguiva i miei primi
lavori letterarj, mi avvertì che le due canzone di num. 167 e 596 non andavano messe staccate e lontane, perocchè ambedue facean parte d'una
antica pietosa Storia che narrava la uccisione, per mano del padre, della «bellissima giovane Baronessa di Carini»; e mi ripetè allora pochi
altri versi, che si legavano a quelli stampati, che Ella si ricordava. Da
quei pochi versi e da quella prima indicazione ebbe inizio l'opera mia
faticosa di ricerca e ricostruzione e illustrazione di questo maraviglioso
poemetto popolare, che, negletto se non ignorato per lo innanzi, destò
sorpresa e ammirazione generale allorchè venne in luce.
Evidentemente la paura e i riguardi sociali avevano circondato di
silenzio, di mistero e di incertezze quel delitto e la Storia poetica che
lo cantava; ma ben forte e profonda dovette esserne la impressione nel
paese, in un secolo che pur a orrendi delitti era avvezzo, se l'eco dolorosa e famosa se n'era trasmessa e conservata vivissima per oltre
a trecent'anni nella tradizione popolare. E in vero, il maleficio che si
consumò nel castello di Carini a' 4 decembre 1563, non solo non rimase occulto, ma ebbe vindice la onesta libera voce del popolo, la quale
lo rivelò e tramandò ai nepoti nella sua orrida e nequitosa vera sembianza, resistendo incrollabile alle criminose violenti macchinazioni e
falsificazioni delle nobili Famiglie interessate.
Il mio libro, che divulgò la Storia in poesia ricostruita e illustrata,
trovò larga benevola accoglienza e singolar fortuna presso gli studiosi,
nelle due consecutive edizioni (1870 e 1873), e parve che avese pres195
sochè esaurito al possibile le ricerche su l'argomento. Parve, ma non
a me. Per quanto pazienti e diligenti cure vi avessi speso attorno, ben
m'accorgevo ch'esse non avevano portato a tutto la luce sul Caso della
Baronessa; il quale restava aggrovigliato da incongruenze, equivoci,
incertezze e lacune, che non mi fu possibile allora di rimuovere e chiarire e colmare, appunto perchè la rete de' ben preparati inganni aveva
involto e deviato anche me, come aveva involto e deviato in parte la
tradizione del popolo.
Intanto accadeva a me quello che accade sempre a uno scrittore che
con faticate lucubrazioni è riuscito a liberare dallo stato caotico un
soggetto e a porlo in chiara luce, cioè: che molti corrono ad affissarvisi
e a sdottorarvi sopra, provandosi pur a chiarirne qualche punto oscuro. Onesta e lodevole sollecitudine questa, e tutt'altro che ingrata allo
scrittore, che vede presa in considerazione l'ardua opera a cui primo s'è
accinto. Se non che, con l'opera mia s'è passato il segno. Fin dal primo
istante che l'affidavo al tipografo, essa, pur venendo esaltata, è stata
per tutt'i versi usufruita, sfruttata, usurpata, manomessa e sfigurata
per quasi otto lustri, con violazione della proprietà letteraria e della
lealtà amichevole e sociale; e intanto, con tutto ciò, non una correzione,
non una circostanza nuova, un inedito documento o frammento poetico
nessuno vi ha arrecato: solo supposizioni e creazioni poggiate su incerte basi o chieste alla propria feconda fantasia1.
Mentre i saccomanni con tanta disinvoltura lavoravano e guastavano appropriandosela la roba mia, io non restavo inerte certamente. Non potevo abbandonare alla mercè degli altri La Baronessa, che
mi era troppo a cuore, se non altro perchè primo l'avevo tratta dal
Brefotrofio de' Trovatelli e tenuta a battesimo. Procrastinando la ristampa del libro mio, presto esaurito e con insistenza ricercato, perseguivo in silenzio a tentare ostinato e perseverante un varco per entro
la selva aspra e buja in cerca della Verità, guidato da scarsi ma promettenti indizj fornitimi da nuovi testi poetici e da qualche frase colta a
volo nelle Casemagnatizie implicate nel Caso tragico di Carini. E con
indefessa paziente diligenza ho rifrugato neli Archivj di queste Case,
con aqusita cortesia e liberalità a me riaperti, e più di tutto nell'Archivio di Stato palermitano, non suscettibile come quelli a manomissioni e
antiche e recenti. Molti e molti tarlati volumi ho svolti foglio per foglio,
comprendenti un periodo di tre quarti di secolo; ma il lungo studio e il
1
196
Vedi, in fine: «Bibliografia della Baronessa di Carini».
grande amore mi è valso a trovare e raccogliere un frutto che non solo
ha appagato, ma ha sorpassato le previsioni e le speranze mie. La verità sul Caso è venuta in luce completa, e completi fin dentro all'anima
ci si rivelano oggi gli attori di esso, mercè indiscutibili e inappellabili
Documenti.
Con lieto e soddisfatto animo presento i risultati deffinitivi delle lunghe ricerche in quetsa nova ristampa del libro mio; nova, non solo per
questi risultati, ma perchè in conseguenza di essi ho dovuto portare
un lavoro di rifacimento ab imis nell'opera mia, che aveva ora innanzi
errori da correggere, falsificazioni da rivelare, equivoci da eliminare,
sfondi opacati o incerti da lumeggiare. E il rifacimento mi era anche
per altra parte imposto da ulteriori studj e piùà matura esperienza del
folk-lore. I materiali vecchi sono rimasti, si capisce; ma, scartati i felsi
e gli intrusi e i guasti, gli altri buoni, meglio utilizzati, han servito co'
nuovi al nuovo edifizio, ch'è ormai stabile e sicuro nel complesso, e suscettibile solo forse di qualche lieve amminnicolo in qualche spigolo o
di alcun piccolo fregio secondario dispersosi o sfuggito.
Al testo del poemetto, reintegrato in maniera da potersi ormai considerare come definitivo, va innanzi uno studio storico-critico, il quale,
messi in chiaro la importanza e il valore e la costituzione organica delle
Storie popolari siciliane in poesia, espone la storia del Caso e de' personaggi che v'ebbero parte principale e secondaria, per venir quindi a
mettere in rilievo e dimostrare l'alta valuta storica, etnografica, morale
e artistica di esso poemetto, noto indubbiamente coevo al Caso.
Le «Variantipiù notevoli» del testo poetico, con discrezioni prescelte,
si sono principalmente aggiunte perchè valgono a precisare o chiarire
megio alcune circostanze e situazioni del dramma. E, per la più completa illustrazione di questo, ho fatto seguire un' «Appendice», la quale
accoglie:
a) I frammenti d'una seconda Storia in poesia, che ebbe corso insieme a quella di maggior valore rimasta stabilmente nella tradizione
orale dal popolo, ma che da essa fu vinta e in essa si fuse e confuse;
b) Una terza Storia in metro corto, succinta e men precisa, ma pur
antica e non priva d'importanza;
c) Il Travestimento sacro e le Parodie del poemetto;
d) Alcune «Leggende in prosa» che il popolo conserva tradizionalmente e servono, con le perticolarità circostanziate e aneddotiche,
come comento e completamento della Storia poetica.
197
Le «Note illustrative e Documenti» esplicano e dimostrano tutta
l'opera mia, che ha rimesso in luce e in trono quella Verità eorgoglio di
casta e prepotenza feroce avevano oppressa e sfigurata con ogni mala
arte, non la potendo sopprimere. E correggono, inoltre, o fanno conoscere per la prima volta accidenti e perticolarità di storia che si riferiscono al paese ed ai Signori che compajono attori e spettatori nel fosco
dramma, dandoci così agio a penetrare più intimamente nella vita privata e pubblica delle clòasse nobilesca del cinquecento.
Una «Bibliografia» e un «Piccolo Vocabolario», indispensabile per
la esatta intelligenzadei testi dialettali, chiudono il mio lavoro. Il quale,
mi sono sforzato che avesse a riuscire compiuto ed esatto in ogni sua
parte, e sopratutto utile. Mi lusingo ch'io abbia ottenuto l'intento; certo,
non v'ho risparmiato tempo, fatiche, diligena e paziente perseveranza,
vagheggiando ansiosamente quella meta che quarantatrè anni or sono
mi parea ben lontana e ardua asai e pressochè irraggiungibile.
Trecento cinquant'anni si compiono precisamente oggi che la
Baronessa di Carini, fatale bellezza peccatrice cadea trafitta al cuore
per mano del mostro che le avea dato la vita. La punizione sorpassò la
colpa; e gli uomini, ch'erano al governo dello Stato, compiacenti e paurosi no diedero pronto esemplare castigo, ma veri complici favorirono
anzi e agevolarono il silenzio e l'oblio. Solo la coscienza del popolo
insorse, e, pur commiserando la vittima di cui però crudamente espone
le colpe, giudicò e condannò inesorabile ma giusta gli attori tutti del
Caso, e con il colettivo vedetto lasciò ai posteri, in una sublime poesia,
un ammonimento severo e un esempio da non dimenticare in quell'orribile sagrilego delitto.
La voce del popolo è veramente, qui, voce di Dio: è bene che rivenga
fuori alta e chiara, oggi, in questo mio libro.
Palermo, li 4 decembre 1913.
198
SALVATORE SALOMONE-MARINO.
LE STORIE POPOLARI SICILIANE
IN POESIA
E
"LA BARONESSA DI CARINI"
STUDIO STORICO CRITICO
199
200
I.
1. La poesia popolare narrativa in Italia, ritenuta a torto come più
naturale manifestazione delle genti di razza celtica e quindi patrimonio
più specialmente proprio della regione settentrionale, è tutt'altro che deficiente o di poco valore tra le genti di ceppo italico del mezzogiorno e
specialmente della Sicilia. Certo, qui, non raggiunge essa la ricchezza e
il rigoglio della produzione lirica, la quale, da qui partendo, incontrastata
sin dal secolo XIII ha invaso largamente le regioni mediane e superiori
della Penisola; ma pari ad essa è antica, propserosa e ben accetta al popolo, che religiosamente pur la conserva e tradizionalmente la ramanda,
avendo in essa quasi un proprio archivio di ricordi e lieti e tristi della
vita e storia paesana. La differenza, che si può notare tra' due generi di
poesia, è questa: la poesia lirica, come sorgente abbondevole e perenne
per ogni luogo serpeggia e si espande, perchè meglio e più universalmente risponde ai sentimenti e alle esplicazioni cotidiane dell'anima e
della vita del popolo, cui accompagna dalla culla alla tomba; la poesia
narrativa nata ad intervalli per avvenimenti clamorosi e per determinate
circostanze, più aristocratica per natura, pari ad abito di gala e manicaretto prelibato serve alle grandi occasioni ed ai conviti solenni, e però si
mantiene in confini più ristretti e regioni più elevate1.
Le composizioni poetiche narrative in Sicilia (come suppergiù nel
resto d'Italia) vanno generalmente col nome di Storia, Liggenna, Diri,
Dittu, espressioni che si equivalgono e che si adoperano qualche volta
contemporaneamente nella stessa composizione; ma il nome di Storia
è il più diffuso e più universalmente accetto; e dopo viene quello di
Liggenna. E volendo essere più precisi, bisogna dire che nel gruppo delle
1
Cfr. NIGRA, Canti popolari del Piemonte, pp. XI, XVI, XIX, XXVI (Torino, Loescher;
1888); - D'ANCONA La poesia popolare italiana, passim. (Livorno, Giusti; 1907, 2.ª
ediz.); - RUBIERI, Storia della poesia pop. ital., P. I, c. V. e IX; P. II, c. I, V, VIII, X
(Firenze, Barbèra; 1877); - SALOMONE-MARINO, Leggende popol. sicil., p. VIII e
segg. (Palermo, Pedone Lauriel; 1880); - IDEM, Storie pop. in poesia sicil. riprodotte ecc.
(Bologna, Fava e Garagnani; 1875), p. V e segg. - e Le storie pop. in poesia sicil. messe
in stampa ecc., p. 5 e segg. (Palermo, Tipi del Giorn. di Sicilia; 1897).
201
Leggende si classificano le narrazioni che rilevano fatti generici, alquanto indeterminati, i quali possono ugualmente figurare in un'epoca antica
come in una recente; mentre il gruppo delle Storie accoglie quelle che
specificatamente raccontano un fatto relativo a persone e tempi e luoghi
determinati, fatto storico nel senso della parola. Tra le Leggende, trovan
posto le narrazioni divote, le vite di Santi e Beati, i miracoli, gli esempj
morali, le didascalie; tra le Storie, non mai. Ma si capisce, che delle mescolanze ne avvengano, che le due varietà non di rado si compenetrino e
confondono, anche nel nome che le designa. In casi speciali, poi, queste
poesie assumono i nomi di Casu, Cuntrastu, Lamentu, Triunfu, Pitàfiu,
Orazioni ecc.; ma Storie sono pur esse, tutte, e come Storie le considera
e dà il popolo stesso, che ha coscienza di quello che fa e di quello che
dice1.
2. Più completamente e meglio che le Canzuni, le quali rappresentano
ed esprimono quasi esclusivamente gli affetti2, le Storie ritraggono con
fedeltà e speciale arte la vita e l'esplicazione delle passioni del popolo
siciliano attraverso le sue vicende storiche particolari ed individuali, più
che generali; raccolgono e narrano quel che le storie togate o le stesse
umili cronache non registrano o cennano di volo appena, cioè: la particolareggiata esposizione di avvenimenti singoli e spesso minuscoli, ma
che pur valgono a meglio far conoscere i tempi e gli uomini ed assumono talore importanza massima; una storia spicciola tradizionale, ma non
perciò meno sincera e veritiera, data a pezzi staccati, in quadretti pieni di
vita e caldo colore, nei quali si disegnano, con abile e semplice maniera,
e glorie e sventure, e gioje e dolori, e magnanimi e detestabili atti, e virtù
e vizj, e fede e superstizione.
E da le Storie, meglio che da le Canzone, sorge e si presenta intera, quale fu e quale inalteratamente si mantiene, la figura e l'anima del
Siciliano, che serba in sè pur sempre qualcosa di pimitivo3. Lavoratore e
1
2
3
202
Una divisione grossolana distingue le Storie in sacre e profane, includendo in queste le
Storie propriamente dette e la più parte delle Leggende, e designando quelle complessivamente col nome di Orazioni.
Col nome di Canzuni o Strammotti (che in sotto ordine accolgono i Ciuri o Muttetti) viene
designato il gruppo delle poesie di genere lirico.
È stato osservato, che ne' tipi primitivi l'osso frontale è bipartito nel senso verticale e
riunito da sutura per tutto il corso della vita; or è importante notare, che ne' cranj siciliani
odierni questa bipartizione suturata del frontale si riscontra nella proporzione del cinque
per cento. Cfr. F. RANDACIO, Su talune quistioni etnografiche, p. 13 (Palermo, Off. Tip.
Eredi Clamis, 1870).
sobrio, pur ama le gale che lo abbacinano. Esuberante di passione, di entusiasmo e di fantasia, non sa contenere nella giusta misura gli atti suoi;
tenace e fedele alle amicizie ed agli impegni, lo è pure ai suoi usi ed ai
suoi pregiudizj; ospitale, franco e generoso, è al tempo stesso gelosissimo, sospettoso, memore delle offese, che vendica inesorabile, massime
se toccano l'onore; insofferente di comprensioni e di violenze, reagisce
audace e violento; ma non è perseverante; e inerte ed ingenuo si lascia
poi addormentare e ingannare e deprimere1.
Senza dubbio, non tutta è materia eletta e bene ordinata, nè tutta artisticamente egregia quella di che si compongono le Storie; nè ugualmente con precisi e regolari criterj d'arte procede la composizione di esse.
Molte Storie, o per difetto d'origine o per insufficienza eleborazione
consecutiva o per guasti e strappi che il tempo e le umane vicissitudini
vi hanno portato, ci si presentano in istato tutt'altro che perfetto; in tutte
poi, comprese le migliori, si trovan delle deficienze, delle incongruenze,
delle anormalità. Sovente, dalla semplice narrazione e da un ordinato
procedere, ci troviamo con bruschi passaggi portati in altro campo, con
ravvicinamenti e connubj strani, con anacronismi sbalorditorj, e affatto
furi chiave; dopo strofe e versi sublimi per concetto e felicità di espressione, incagliamo in forme primitive e rudi, in versi e rime che zoppicano e dissonano, ed in altro ed altro, che fa torcere il grifo ed i passi agli
scrupolosi Accademici.
Ma che perciò? A parte, che anche nei meglio sarchiati campi di
scelto grano si trova il loglio, noi non possiamo pretendere dalla musa
del popolo che quello ch'essa può dare e con l'arte sua propria. E l'arte
popolare, questa è. Il popolo non sottostà alle artificiose leggi e seste
accademiche; ha un'arte sua propria, come ho detto, sia pure irregolare
e difettosa, dalla quale però gli Accademici han molto da aprrendere,
perchè ha sangue e forza e fuoco e vitalità imperitura.
Due note predominano nelle siciliane Storie: prima, il sentimento religioso e morale profondo, ma spregiudicato, ed inesorabile anzi contro
ai ministri del culto che abusano empiamente del delicato officio e delle
sacre insegne; e poi il sentimento patriottico, che si esplica con amore
intenso delle natìe contrade, abborrimento di ogni tirannia, aspirazione
continua a libera indipendenza, ma non a demagogia e ad anarchia; poichè per tradizione e per indole il popolo siciliano è monarchico. Questi
sentimenti stessi, che si inchinano rispettosi alla Autorità jeratica e lai1
Ne La vita e i costumi de' Siciliani dal secolo XI alla metà del XIX, colorirò e dimostrerò
ampiamente questo pallido e breve ritratto dei nostri Isolani.
203
cale costituita, han creato e conservato per secoli quelle narrazioni poetiche di fatti empj ed orribili, che sarebbero enormezze se non fossero
(come sono) presentati come esempj da evitarsi e detestarsi; ed han creato e conservato le Storie boschiere, che hanno per obiettivo principale il
trionfo della Giustizia e la punizione esemplare dei ribelli ad essa1.
Un intento morale, le Storie tutte se lo prefiggono, anche quando
chiaro non lo esprimono ed apparentemente non lo dimostrano; se non
che, qualche volta, è quella una morale che deriva da ubbìe e superstizioni ed errori inveterati e forti a diradicare, cui l'ignaro popolo segue cieco
tuttavia; e non qui in Sicilia soltanto.
3. Norme costanti guidano ed informano le Storie, così nella materiale struttura come nel procedimento con cui si vuole giungere al fine
proposto.
va primo un esordio, nel quale il poeta, invocando l'aiuto degli Enti
superni o la benevolenza degli ascoltatori, o l'uno e l'altra insieme, richiama l'attenzione su l'argomento che piglia a cantare e ne rileva la
importanza. Ne lo svolgerlo, poi, non si attiene sempre all'ordine cronologico o logico, ma spesso presenta il fatto o la parte di esso che più
gli preme di scolpire, e torna idietro e si ripiglia e devia e divaga, e si
rimette in carreggiata, dando però maggiore ampiezza di particolari e
lenocinj d'arte a quelle circostanze ed a quegli episodj che sono capitali e
su cui intende concentrare la commozione ed il plauso. Nell'ultima parte,
solitamente, si contiene la soluzione e la morale del piccolo poema; e
qui, con gli ultimi versi, si trova ordinariamente modo di ringraziare gli
astanti, di scusare la pochezza dell'umile bardo, che però con una mal
dissimulata ambizione registra il nome proprio e spesso anche la propria
qualità e il luogo e il tempo e la occasione del suo poetare.
Per quanto breve e di tenue soggetto, una Storia, che sia completa,
raramente manca di tutte queste parti. Fa eccezione il nome del poeta.
Questi, avido di fama per quanto si voglia, si guarda bene dal rivelarsi ne
1
204
Storia o Liggenda vuschittera è detta quella che narra la vita e le imprese dei banditi,
uccelli di bosco.
Il «brigantaggio» non ha storia in Sicilia: è pollone calabrese, da Calabresi qui trapiantato
e primamemnte inaffiato, al 1863. Il bandito siciliano, il tipo antico, rifugiato alla macchia
il più spesso per falli d'amore o per private inimicizie, non è un vigliacco e barbaro assassino, avido solo del sangue e dell'avere altrui; esso è, fino a certo punto e a modo suo,
valoroso, audace, cavalleresco e generoso anche, religioso perfino; e taglieggia i ricchi e
osteggia i potenti per soccorrere i poveri e proteggere i deboli. È una virtù deviata, che
merita compianto efors'anco una qualche ammirazione; e il popolo glieli tributa, mentre
inesorabile li niega ai volgari feroci malfattori odierni.
la propria poesia quante volte, per ragioni diverse, la Storia può recargli
fastidj, grattacapi e danno, non escluso il pericolo della vita. E di fatti,
anonime vanno parecchie delle Storie boschiere, tutte quelle che toccano avvenimenti non belli di Case e Persone strapotenti, o argomenti
politici, o materia scottante religiosa.
Ho detto per incidenza, che breve può essere una Storia; ma breve,
ralativamente, ed eccezionalmente. Perchè, carattere essenziale delle
Storie è la pluralità delle strofe che le compongono; ed è sì connaturata
l'idea di lunghezza a proposito d'una Storia, che nel comune linguaggio
chiamasi Storia d'Orvu qualunque discorso o faccenda che riesca prolissa o interminabile1.
In armonia con il contenuto, seria e confacente ed appropriata è la
esteriore veste delle Storie nostre, le quali in conformità all'indole artistica del siciliano popolo non prediliggono (come quelle dell'Italia superiore) i metri brevi ed irregolari e le desineze tronche od ossitone2.
Il metro più comune, più speciale delle Storie, più antico, è la
Canzona, ossia la «ottava siciliana» in endecasillabi, con due sole rime
che si alternano per quattro volte ed il più spesso con parallelismo di
«consonanze atone» nelle rime contro-alterne3; ottava, che ben a ragione
il Nigra considerò come prototipo e disse la più importante e, nel suo
genere, modello dei più perfetti e e forse il più perfetto4. Ma non è tutto.
Ogni ottava, nelle Storie è legata alla successiva per mezzo della rima, la
quale è ripresa al primo verso della ottava che vien dopo, nel fine quasi
sempre o nel corso di esso; e così per tutta la composizione, in modo che
tutte le ottave vengono a formare una catena continua dal primo all'ultimo verso5. Questa maniera di poetare, con le strofe così legate come da
1
2
3
4
5
L'aggiunto di Orvu specifica che di altre Storie non si tratta che di quelle in poesia, solite
a cantarsi da Orbi rapsodi, dei quali si dirà più oltre.
Cfr. NIGRA, op. cit., p. XI e segg.
Esempio: ári-íri-ári-íri ecc. Cfr. NIGRI, op. cit., pp. XI, XXI, XXII. Le consonanze atone
hanno cercato anche i massimi poeti, non dico di Sicilia (che va da sè), ma del Continente:
e valga per tutti l'ARIOSTO (Orlando Fur., XIX, 97; XX, 11, 16, 113; XXI, 12; XXII, 1;
XXVII, 23, 35 ecc. ecc.).
Potendosi la ottava siciliana considerare composta da un doppio tetrastico a rime alterne,
il NIGRA (op. cit., p. XXII) suppone il tetrastico come l'archetipo dell'ottava; ma poichè
non può confortare di esempj anteriori il suo assunto, è costretto a convenire che «l'ottava
siciliana è coeva co' primi documenti poetici dell'Isola».
Ecco esempio dei due casi, che serve anche per es. della consonanza atona nelle rime
contro-alterne:
a) - 'Nca si, ca iu la morti ti priparu.
- Nun timi morti cu' pati pr'amuri! (vv. 7-8)
205
un gancio, dicesi a rima 'ncruccata1; ed è di grande difficoltà metrica,
perchè una stessa rima si viene a ripetere nel più dei casi per sedici volte;
ma difficoltà non esistono per il poeta popolare, il quale invece trova ne
la rima agganciata un mezzo di agevolazione per fermare nella memoria
le lunghe Storie e per poterle ripetere con l'ordine che originariamente
hanno avuto.
Più rara della «ottava siciliana», ma ugualmente antica, adoperasi
nelle Storie la «ottava epica», con sei versi endecasillabi a rime alterne e
gli ultimi due a rima baciata.
E, derivazione e riduzione di essa, abbiamo poi la sestina; la quale
(al pari della quartina o tetrastico a rime alterne, che pure si adopra) è
però assai meno frequente e meno stimata. La consonanza atona nelle
rime contro-alterne, e l'agganciamento fra le rime delle varie strofe, si
mantiene pure in tutte queste forme metriche.
E si mantiene in un'altra, che è in sostanza un sapiente accoppiamento della ottava siciliana e della epica: quella cioè, che ci presenta una
Canzuna, alla quale si accodano uno o più distici a rima baciata, a mo'
dello Strambotto toscano; un metro, questo, che conservando il maestoso andamento della ottava siciliana, ne evita la monotonia, nel tempo
stesso che dà al poema maggiore libertà per lo svolgimento dell'azione e
del pensiero2. Questo metro, designato dal popolo col nome di Canzuna
allungata, ha qualche cosa di più solenne ed elevato, ed è adoperato in
Sicilia più comunemente per le Leggende che han carattere sacro, per le
Orazioni propriamente dette, le giaculatorie devote ecc.; ed anche per i
canti d'amore, quando questi servono ad una manifestazione splendida
di gioia e pompa, come ne le serenate, ne' matrimonj, ne' battesimi del
Di novu cci spjau lu 'Mperaturi:
- Dimmi, chi cosa vôi, Cavaleri? (vv. 1-2)
b) D'ogni cosa ti fazzu suprajuri
si mi prumetti e fai li me' pinseri. (vv. 7-8)
- Tinti pinseri a Cristòfalu assigni;
ti l'àju dittu, 'Mperaturi Addagni. (vv. 1-2)
1
2
206
Da Croccu, gancio. BENED. ANNULERU, Duttrina Cristiana... ridutta in Canzuni, p. 2
(In Palermo, Gramignanu, 1744) usò: versi intruccati (per evidente e facile corruzione del
vocabolo), e anche rima stritta; ma il popolo dice rima 'ncruccata. Esempj di rima agganciata ci dànno anche gli antichi poemetti popolari italiani; e n'ha l'ARIOSTO, Il BERNI,
e frequenti il GIANNI, come di solito tutt'i poeti improvvisatori.
Ne le lunghe composizioni redatte in questa forma metrica, la Canzuna si riduce qualche
volta a sei versi ed anche a quattro; ma non per insufficienza di poesia, bensì per ragione
d'arte o di pensiero.
primo nato. La Canzuna allungata mantiene l'agganciamento delle rime
anche tra la strofe e i distici che ad essa si accodano1.
C'è poi il metro terzanario, il quale ha pure una certa larghezza di
uso, anche oggi; il che dimostra, che la terzina non è forma letteraria
aristocratica, come qualcuno ha creduto.
E poi, per le composizioni meno gravi, o che hanno bisogno di andatura più svelta o festevole, si adoperano tutt'i metri corti, con quest'ordine di frequenza: settenario, ottonario, quinario semplice o accoppiato, e
per ultimo (ma sono casi contati, imitazioni o importazioni) i polimetri2.
Le Storie in metri corti vanno comunemente sotto il nome di Storii ad
Ària, per la somiglianza esteriore che hanno con li Arii o Arietti, poesie
liriche amorose in metri corti appunto.
4. La produzione dei canti popolari narrativi, come quella dei canti
lirici, è perenne, e dall'antico tempo viene fino ai giorni presenti. Di continuo nascono le Storie e corrono fra la gente; ma seguendo il corso delle
umane vicende, molte soccombono e vanno in oblio; poche sorvivono e
restano, quando contenuto e forma ne le fa degne e il favore popolare le
piglia in custodia e difende.
Ma chi crea le Storie? E come? E in che modo esse acquistano popolarità, e diffusione e vitalità stabile, sì che per sola trasmissione orale si conservano integre per secoli, prezioso retaggio tradizionale del
popolo?
Sono fatti importanti, che bisogna studiare e chiarire.
La poesia popolare, creazione ed espressione spontanea del sentimento poetico ed estetico della razza che la canta, frutto naturale essenzialmente etnico del popolo, risale certo ai primitivi tempi storici e precede
e dà esempio alla poesia elaborata dei dotti. Ma come in antico s'è prodotta, così pur oggi si produce; chè il popolo, intimamente, non muta per
mutare di tempi.
Quando un avvenimento straordinario e strepitoso impressiona e
scuote l'anima popolare, questa, eccitata, scattando come molla manda il
1
2
Cfr. VIGO, Raccolta ampliss. di Canti popolari siciliani, nn. 3423 e segg., 267 e 275 delle
note, 3537, 3551, 4340, 4655, ecc. (Catania, Galàtola, 1870-74); PRÈTI, Canti pop. sicil.,
II, nn. 939, 940, 946 (Palermo, Giliberti, 1867); - ID., Le Orazione del Presepe in Sicilia
(Palermo, Tipi Giorn. di Sic., MDCCCXCV). Al sommo MELI non isfuggì la maestà
della Canzuna allungata e tentò di adoperarla nelle Favole che scrisse negli ultimi della
sua vita (Puisii siciliani, n. 4, a p. 391. Palermo, Pedone Lauriel, 1871).
Es. Storia di Jachinu Muratti, Lu tistamentu di lu Duca di Parma, L'Amanti chi si finci
monacu, ecc.
207
canto a la bocca e significa quel che dentro sente1. È un ignoto bardo che
prima lancia il suo grido canoro, il quale dobbiamo supporre abbozzato
appena e incompleto, ma sincero e potente: e poichè quel canto risponde
al sentimento e al pensiero universale, è subito raccolto dalla generalità,
e passa da bocca a bocca e da mente a mente; e, come la palla di neve
rotolata sempre più, si corregge e leviga, fino ad assumere le proporzioni e la forma estetica che gli convengono e che gli appagano. La voce
individuale che prima cantò, non s'ode più; risuona una voce collettiva,
la voce del popolo, che con l'arte ed il colorito suoi proprj esplica e manifesta il cuore e la mente della collettività. La rude nucleare poesia è già
fatta Storia poetica completa, è già opera d'arte, ed ammirata ed amata
è impressa ne la memoria e ne l'anima del popolo; è già Storia popolare
tradizionale, vive nei secoli2.
Questo periodo formativo e perfezionativo della Storia ha generalmente corso non breve, nè è privo di soste, di interruzioni, di deviazioni,
che giova tener presenti.
Ora è un avvenimento novo impressionante che trae a sè d'improvviso
gli animi e le menti e dà luogo e voga a nova Storia, la quale per un certo
tempo conquista e domina il paese; sì che l'altra resta da canto ecclissata
e muta, finchè un individuo o un evento non la richiama in azione canora
tra la gente. Ora è un poeta popolare o popolareggiante, che si picca di
fare correzioni e sostituzioni o aggiunte in conformità al suo individuale
giudizio, che non sempre è d'accordo con quello della collettività. Ora è
un ripetitore, che avendo dimenticato versi e strofe, colma senza esita1
Ciò esprime, stupendamente, il poeta popolare:
Lu viddanu, chi canta, nun la sgarra:
'nfantasiatu, comu ròggiu sferra,
grapi la vucca e lu spiritu parra.
2
Dice il NIGRA (op. cit., p. XXVII): «La poesia storica veramente popolare e tradizionale
è coeva col fatto da essa narrato... Però la coevità... non vuol essere intesa in un senso
stretto, nè si deve pensare che il canto storico esca, subito dopo l'evento a cui si riferisce,
perfetto e finito. Per le canzoni storiche, non che per le altre, esiste sempre un periodo più
o meno lungo d'incubazione, al quale succede una continua elaborazione che si perpetuando con fasi diverse». E su la genesi ed elaborazione della Storia torna l'A. ad intrattenersi
alle pp. XXXV-XXXVI. Il D'ANCONA, pur accettando in genere il principio della coevità del fatto e del canto, scrive: «Qiuesto criterio non deve però prendersi in senso assoluto,
potendosi anche ammettere che un canto popolare sia nato posteriormente all'evento, da
un racconto popolare orale o da una composizione di origine più alta, ma divenuta popolare per lunga trasmissione di bocca in bocca e di età in età» (Saggi di Letteratura popolare,
XII, p. 484).
208
zione le lacune con versi e strofe che gli fornisce il repertorio di poesia
popolare che serba in mente, oppure sopprime senz'altro, curando però
di riagganciare tra loro le stanze mercè il mutamento di qualche parola
che ripristini la rima. Altre volte, c'è chi, per sue vedute e circostanze
speciali, si arbitra di fondere la Storia con altra di argomento e forma
consimili, ma la cui soluzione è diversa come diverso è il fine cui mira.
E c'è, per ultimo, chi la spezza a suo piacimento, e staccando e modificando gli episodj e rimpinzandoli altrimenti, ne fa due storie distinte e
diverse.
E così ne viene che molte Storie, o diventano irriconoscibili pe' guasti, o si fanno al tutto differenti alla primitiva fisonomia, o dismembrate
si disperdono. Però (è giusto ed utile che si noti) anche delle Storie che
subirono alterazione o smembramento o dispersione, non è al tutto impossibile che si possa avere la reintegrazione, che si rintracci la forma
genuina prima; poichè si dà il caso, che inattesamente essa si rinvenga
rifugiata in qualche insospettato angolo di rurale abituro, ove ha potuto
evitare il deturpamento, le amputazioni, l'eccidio.
Ma il canto storico non ha sempre ignoti e anonimi principj. Si verifica il fatto ancora, che il primo bardo sia un umile popolano, incolto sì, ma poeta naturale ingegnoso e valoroso, e come tale già noto al
pubblico; oppure sia uno di questi letteratucci (chiamiamoli così) che
ordinariamente e per mestiere compone poesie per il popolo, avendo la
familiarità e la pratica della poesia popolare. La Storia, che questo tale
compone in proprio nome (più completa certo e regolare ed ornata che
non sia, nel suo primo inizio, quella anonima), qualora essa risulta composta con i materiali e con l'architettura speciali del popolo e si ispira ed
informa in tutto al sentire e pensare di esso, può ugualmente venir riputata degna di accogliersi e conservarsi nel demanio popolare tradizionale. Ma quando, dopo un certo periodo, vi si accoglie definitivamente e
conversa, essa Storia non è più quella che nacque: è modificata, raffazzonata, rimbellita, corretta, subendo un graduale e costante processo di
elaborazione riformatrice e perfezionatrice, ch'è davvero meraviglioso.
Il poeta, se noto come ho detto e meritevole, viene rispettato, viene riconosciuto come autore della poesia, conservandone il nome; ma questa,
egli, se vivo ancora ha la fortuna di rivederla dopo ch'è stata un pezzo a
peregrinare fra le genti e per i paesi, questa egli ritrova come una figliola
che serba nell'insieme le antiche fattezze, ma che s'è fatta più leggiadra e
209
raffinata, che sfoggia ricchezze e gale che egli non sogna neppure1.
Ma, ignoto o noto che sia il creatore d'una Storia, il processo di formazione e di elaborazione e rifacimento e perfezionamento di essa è
identicamente lo stesso. Io l'ho potuto sorprendere e seguire questo processo, ai dì nostri, e fermarne le prove dimostrative; e poichè quel che
accade oggi dovette necessariamente ed ugualmente accadere in passato, vengo convinto a questa conclusione: Che identico processo ha formate e stabilite le Storie antiche, così e non altrimenti. E del resto, per
quanto incomplete e scarse, le prove, anche per le antiche Storie, non mi
mancano2.
E poi soggiungo: Ma non è questo forse il procedimento stesso che
veggiamo avverarsi per le Canzuni? Con elementi popolari che preesistono e sotto l'impeto passionale, esse nascono dall'occasione, si spargono tra il popolo, invadono città e campi, e vivono e rimangono se degne,
mojono e scompajono nel caso contrario. Ma quando vivono e rimangono, hanno già subìto le necessarie modificazioni, i rimaneggiamenti, gli
adattamenti, le carezze indispensabili alla conveniente dignità. E così
vivono; vivono vita sempre giovane, insieme al popolo, giovane e terno;
e poichè il popolo le ha in bocca di continuo e per via della bocca le
trasmette di generazione in generazione, la conseguenza che necessaria
scaturisce è questa: Che le Canzuni (e così ancora ugualmente le Storii)
seguendo le modificazioni lente ma continue del dialetto, presentano, si
può dire, una redazione perpetua, sì che sotto l'apparente modernità della frase e del vocabolo conservano sostanzialmente l'antico contenuto3.
E quanto agli elementi costitutivi dei canti, così lirici come narrativi, elementi su cui è necessario che ci fermiamo un po', è giusto che
si riconosca che essi esistono ab antico, trasmessi per tradizione, e che
variamente mescolandosi e combinandosi servono alle nuove composizioni poetiche e credonsi nuovi in quantochè si presentano con apparenze moderne, mentre nel fatto non sono che quelli stessi che da secoli si
sono adoprati. Scrive in proposito il D'Ancona: «In generale potrebbe
1
2
3
210
Qui mi trovo in disaccordo col NIGRA, il quale generalizzando dice: «La canzona storica
popolare... è anonima. Non è improvvisata da un poeta popolare più o meno noto... Ha
carattere più impersonale» (op. cit., p. XXVII). Per la Sicilia, io ho le prove del contrario,
e gli apprezzamenti di lui su le Storie siciliane sono erronei.
Vedi in fine: «Note illustrative», I.
Cfr. NIGRA, op. cit., pag. XX. Tutto ciò magistralmente ce lo ha provato il D'ANCONA
nel cit. libro: La poesia popolare italiana. Al quale, se la vita mi basterà, aggiungerò a
completamento una ricca dimostrazione di canti popolari siciliani storicamente ordinati
ed illustrati, con le modificazioni e gli adattamenti successivi.
dirsi che tutta la massa delle poesie cantate dal popolo italiano è un patrimonio avito, posseduto da cinque secoli almeno, e via via trasmesso
di padre in figlio. Certo, qualche o men lieve aggiunzione vi si è venuta
facendo di tempo in tempo, più spesso col rimescolare e variamente
combinare ciò che già si possedeva; ma come è per noi chiaro che niuna
delle Canzoni secolari si è mantenuta integralmente nella primitiva sua
forma, così è anche indubitato che non molto si è prodotto di nuovo. La
facoltà poetica del popolo nella forma epico-narrativa sopratutto, non
che pur anche nella drammatica e lirica, sebbene in minor misura, si è
venuta esaurendo; sicchè anche quando e' crede di far di suo e di creare
qualche cosa di nuovo, non fa altro, se non rimaneggiare, rimpastare,
contaminare variamente elementi vecchi, custoditi quasi senza avvedersene entro i recessi della memoria1».
Esattamente vero, questo; e le prove, che io reco, affiancano e completano quelle dell'illustre mio Amico2.
5. Eccitata la curiosità del pubblico e conquistatane la simpatia, una
Storia si fa già subito strada naturalmente, e sicura passa da individuo a
individuo, da paese a paese, e per tanti rivolti si espande e dilaga. Ma c'è
un altro mezzo che ne agevola e ne affretta la diffusione e la penetrazione dapertutto e ne stabilisce la celebrità e ne assicura la vita: l'opera del
Cantastorie, perspicace, attiva, indefessa.
Successore ed erede, per quanto trasformato, dei vetusti Rapsodi e
de' Poeti ciclici, il Cantastorie è venuto dall'evo medio sino ai tempi
presenti, e andrà pur forse a quelli dei nepoti nostri, ad onta del mirabile
progresso odierno. Interprete e banditore del pensiero e della coscienza
nazionale, de' dolori e de le gioie, de' grandi come de' piccoli avvenimenti, il Cantastorie fu già eccitatore e moderatore e confortatore e sollazzatore delle attonite turbe, che pendevano dal suo labbro3. La introduzione
della stampa, che si fe' sin dall'inizio divulgatrice delle Storie popolari,
restrinse il campo e l'azione di lui; ma ei racquistò presto quasi intero il
dominio di prima, col farsi propagatore anche delle Storie stampate, e
cantandole e rivendendole al tempo stesso4.
Il Cantastorie è di solito un cieco, e come tutti i ciechi ricco di fan1
D'ANCONA, La poesia pop. ital., p. 130.
3
Cfr. MURETORI, Dissertaz. sopra le Antichità ital., T. II, Diss. XXIX, pp. 11-13; SALOMONE-MARINO, Le Storie popolari messe a stampa, p. 6.
2
4
Vedi: «Note illustrative», I e VI.
Vedi: «Note illustrative», II.
211
tasia e di sentimento artistico; e sin dalla prima età è stato educato e
addetto al mestiere del canto e della musica, per la quale i ciechi hanno
disposizione peculiare. Sin l'antichissima tradizione, simboleggiata in
Omero, ci ha fatto ciechi i rapsodi cantori. E natural poeta è spesso il
Cantastorie, o lo diventa per esercizio del mestiere; e compone e improvvisa. Ma per lo più ripete cantando quel che gli altri hanno composto,
e antichi e moderni, e ne la tenace ed esercitata memoria accumula e
conserva in gran copia le poesie d'ogni fatta, vetuste e tradizionali soprattutto, ma anche recenti ed attuali, poichè tutte gli giovano e adopra
per tutte le occasioni.
I Cantastorie si chiamano Orbi in Sicilia, da la loro imperfezione
fisica1. Sin da remoto tempo han formato una classe speciale, unita in
Corporazione, con Capo e leggi e regolamenti proprj in Palermo, come
in altre città. Per le piazze e per le vie cantano essi «li Storii viraci», e
sotto le apparenze di passatempo rivelano quel che è utile all'umano giudizio, perchè essi conoscono ciò che non sanno quei che pur la pretendono a sapienti2; e per via del suasivo canto, diffondono e fan conoscere le
vicende storiche co' minuti particolari di esse «fra coloro che non sanno leggere3». Gli Orbi si trovano ed insinuano dapertutto: sono l'anima
delle feste e degli spassi popolareschi; gli attori essenziali delle novene
ai Santi; i rallegratori del corteo e della pompa nuziale; i fattori della
splenditezza delle serenate sotto i veroni de le belle ragazze; i ravvivatori dell'allegria nei balli e nei giochi del carnevale; ma sopratutto poi, i
diffonditori e accreditatori delle Storie. Dopo gli strepitosi avvenimenti
che appassionano l'umanità, tu li incontri per le città e per il contado a
narrarli co' circostanziati episodj, cantandoli in versi immaginosi, coloriti, agili, ora teneri ed ora gravi, ora umili ed ora fieri, ma sempre ispirati, caldi, solenni. La voce sonora e la musica, e con esse la mimica ed
il gesto, completano ed ingrandiscono quella pubblica rappresentazione
poetica, alla quale non difetta mai un affollato e passionato uditorio4.
La Storia nova, o che venga improvvisata dall'Orbo o che a lui l'abbia
fornita qualche poeta popolare o popolareggiante, ha per sè l'attrattiva
ed il favore del momento, per quella ingenita curiosità che viene acuita
dal fatto straordinario e nuovo; ma non è essa ancora Storia completa e
1
La voce Cantastorii c'è nel dialetto, ma si adopra rara; Orvu è la comune.
3
GONZALO FERDIN. D'OVIEDO, Naturale et generale Historia delle Indie ecc., presso
D'ANCONA, La poesia pop., p. 65.
2
4
212
GIR. GOMES, Capitulu a M. A. Colonna, in «Rimi», p. 377.
Vedi: «Note illustrative», II.
perfezionata, non ha ancora traversati tutti gli stadj di elaborazione rigeneratrice che la renderanno retaggio popolare e tradizionale; e però la
Storia antica gode più di essa sempre le simpatie popolari, è pur sempre
la ricercata e voluta, e massimamente trionfa nelle sontuose feste, ne le
grandi occasioni; poichè essa ha già con la lunga prova conquistato il suo
posto tra le elette e pregiate, nel tempo stesso che l'aureola dell'antichità
ond'è circonfusa le ha conferito alcun che di grandioso, di misterioso, di
sacro. Tra la classe popolana, chi non conosce e non apprezza le antiche
Storie è tenuto per un grande sciocco, per una solennissima bestia1.
Le Storie, e nove e antiche, non vanno attorno mai senza la musica.
Musica e poesia procedono unite; e non il cantore di professione soltanto,
ma il villese stesso, l'operajo, la massaja, modulando per isvago le poesie
popolari, o nei solinghi campi o nelle officine o tra le domestiche mura,
le accompagnano, quando possono e come possono, con qualche rustico
strumento musicale, o co' ferri del mestiere, o con il ritmico movimento
del telajo o dell'annaspatojo, e fino con studiati suoni de le mani, dei
piedi o di qualsiasi oggetto che possono far vibrare all'unisono col canto.
All'Orbo, poi, la musica è assolutamente indispensabile; e se la fa egli
stesso col violino, l'indivisibile suo compagno, l'antico e magnifico strumento che docile si presta e risponde alle molteplici variazioni, alle più
delicate sfumature di colorito e di passione; e l'Orbo, generalmente, sa
da maestro adoperarlo etrarne straordinario vantaggio.
Ogni Storia, o meglio, ogni speciale gruppo di Storie ha la sua musica
speciale; musica adatta, nota, prettamente popolare e antica e tradizionale, che bisognerebbe con diligenza ricercare, identificare, trascrivere
genuinamente e senza preconcetti, prima che del tutto vada travolta e
dispersa da non indigene correnti invaditrici2.
Ecco i nomi di queste musiche, così come il popolo li conserva; e
li segno con l'avvertenza, che essi indicano e la musica e la poesia ad
un tempo, e spesso ancora il ballo che consensulamente accompagna, o
accompagnava, parola e suono. C'è la Pituta, la Papariana, la Capona,
la Fasola, la Ruggera, la Virdulidda, la Savuchetta, la Vuschittera, l'Al1
2
Vedi: LEOPOLDO MINUTILLA, La Vastasata, in «Poesie», pp. 48-49.
La Storia, quando è fornita all'Orbo da poeti popolari o popolareggianti, lo è mercè una
meschina retribuzione in denaro; ma questa retribuzione sfuma sovente, rimanendo una
semplice promessa per un domani che non giunge mai. Ciò diede occasione al valente
poeta popolare Stefano La Sala di lanciare contro gli Orbi rifardi (mancatori di fede) la
fiera canzona che leggesi in VIGO, Raccolta apliss., LI, 4390, p. 618.
I maestri FRONTINI, FAVARA, FERRARA, hanno iniziato con qualche utile risultato
questo lavoro; ma non è ancora quel che ci vuole.
213
lazzarata; musiche, de le quali trovo i vestigi fin dal secolo XVI, ma che
certamente han le radici nei secoli anteriori, e che, per manco di elementi, non tutte io posso con precisione definire e chiarire, come sarebbe
utile e necessario1.
Ma intanto è certo, che per la musica popolare accade quello stesso
che abbiam visto per la poesia: si piglia la materia preesistente, e si adatta ed usufruisce; la nota musicale antica di un'antica Storia, si accomoda
alla Storia nova, del genere stesso; cosicchè dalla intonazione melodica
iniziale conosce il popolo subitamente la natura della Storia che si va a
cantare, ed il metro ancora di questa. Sono norme queste immutabili,
costanti, consacrate da secoli.
6. Quando il Cantastorie la propaga e diffonde con l'arte ed i mezzi
suoi, la Storia ha già indossato una veste convenevole, degna di presentarsi al pubblico; ma non è l'abbigliamento agognato e definitivo, quello,
e rispondente in tutto ai gusti abituali del popolo; tale abbigliamento le
verrà dato in sèguito, come abbiamo già visto, dal popolo stesso, il quale
incessantemente rassetta e adorna e carezza le produzioni artistiche che
sono diventate patrimonio suo.
Questo patrimonio ei conserva ne la memoria, ch'è il suo archivio. Il
popolo, al pari de' fanciulli, ha tenacissima la memoria, come fino ha il
cervello; impara presto e bene, non solo le Canzone in gran copia, ma
le lunghe Storie, e durevolmente le ritiene; e le ritiene anche per ciò, che
i versi (come già notaba l'Aristotile) sono poyente sussidio mnemonico,
reso più efficace dalla rima, specialmente poi se agganciata, come è
nelle Storie2.
Ma ad onta di ciò, come tutte le umane cose, anche le Storie, per
belle e predilette che siano, cedono al comune destino; e come autunnali
foglie si vanno staccando ad una ad una dal ramo, e il vento le porta via
e gli elementi le dissolvono. Poche resistono a lungo; ma, se non intervengono messi di preservazione e conservazione naturali o artificiali,
pur esse finiscono con lo scomparire, trasformate ed immedesimate nei
1
2
214
Vedi il «Piccolo Vocabolario», in fine, alle singole voci. E in oltre: VILLABIANCA,
Suoni e loro Motti con Canti, in «Opuscoli Palermitani», ms. 2 Qq. E. 90, p. 57, nella
Biblioteca Comunale di Palermo; - SALOMONE-MARINO, La musica presso il popolo;
- ID. Costumi e usanze, XVII, p. 209; - GENTILE, Il canto nel fanciullo: contributo agli
studii di fisiopsicologia pedagocica, ne «La Sicilia musicale» di Palermo, VIII, 2-3.
San Cristòfalu ha 488 versi, Sàuta-li-viti 672. Santa Ginueffa 904, Li Parti di la Cunfissioni
e li Parti di lu 'Nfernu oltre a 1000 versi per ciascuna; pur si ripetono da tutti i popolani
generalmente senza inciampi o esitazioni.
nuovi polloni che incessanti risorgono dall'antico ceppo1.
Un singolare fenomeno va qui notato, che si osserva per la produzione poetica popolare, così lirica come narrativa: lo scambio tra regione
e regione, tra località diverse della Penisola italiana, in proporzione de'
contatti e commerci fra di esse.Ne' secoli andati, la esportazione isolana
nel Continente era in larga copia, mentre limitatissima era la importazione peninsulare; oggi avviene il contrario, per cause complesse che
occorrerebbe indagare e spiegare. E qualcosa di più accadeva in passato:
le poesie popolari siciliane venivano generalmente raccolte, e imitate
e tradotte nella Penisola, anche da letterati eminenti, o integralmente
ristampate (dopo che la stampa fu introdotta), quando pur non vedevano
la luce primamente ivi, e successivamente in Sicilia; fatto, che attesta il
favore e la stima in che eran tenute2.
Gli studj sistematici del folk-lore sono giunti un po' tardi, quando un
turbinio di progresso ha travolto e rinnovato tutto ed in tutti i modi; pur,
non sì tardi che non siano riesciti a salvare molto de le antiche divelte
tradizioni, per fecondarle e trarne vantaggio per l'intima conoscenza della vita del popolo.
In Sicilia già abbastanza s'è fatto, massime raccogliendo e conservando copioso materiale, che la piena travolgeva e sperdeva: e parecchio
ne resta, che si può ancora recuperare. Ma occorre sceverare quello che
non è genuino, inclusovi o per caso o per ignoranza o per inganno: e non
basta classificare e ordinare, guardando solo e fermandosi alla buccia,
ma occorre altresì che si penetri nell'intimo, che se ne scruti lo spirito
più che la lettera, e scientificamente si analizzi e si dimostri quel che
era oscuro ed ignoto. Di poesia lirica molto c'è, e con parecchia borra;
di poesia narrativa si ha ormai discreta messe, ma non poca ne resta sul
campo; ed è qui che bisogna lavorare e ingegnarsi, perchè non tutto quello che è stato raccolto si presenta completo e corretto, e non ha ottenuto
ancora che inizialmente quelle cure di ordinamento e di illustrazione che
merita.
Come già di proposito ho fatto per la lirica, traendone quanto conserva di documento per la storia e la etnografia e la psiche del popolo, così
1
2
Anche per la memoria si constata, che l'esercizio continuato ne conserva la integrità e
limpidezza; dal che consegue, che le Storie hanno men durata vitalità delle Canzone,
essendochè queste vivono la vita popolare di tutt'i giorni e ore, accompagnando, di tutte le
azioni di essa, e inizio e svolgimento e compimento: il che non avviene per le Storie.
Più che una nota, occorrerebbe qui una larga dimostrazione dell'importante fenomeno, che
ha ragioni non solamente letterarie ed etniche, ma pur politiche ed economiche. Sed non
est hic locus. Vedi: «Note illustrative», III.
215
principalmente dalla poesia narrativa ho inteso ed intendo che si tragga
tutto ciò non solo, ma quanto altro si può di utile e importante. Però i
testi poetici bisogna anzitutto completare e correggere, con paziente e
persistente diligenza frugando per tutta intera l'Isola; e si vedrà, com'io
per prova ho visto, che il popolo conserva più che non si suppone preziose memorie de la sua vita secolare, de la sua anima grande, de la sua
ingenita sapienza.
7. Le Storie siciliane che si hanno a stampa, raccolte dalla bocca del
popolo, raggiungono già una bella cifra; quelle che sono state divulgate
da stampatori specialisti, dal secolo XV in qua, sono nimerosissime,
anche sceverandone le non poche che a rigore non si possono annoverare
tra le poesie narrative1. Ma tra tutta questa ricca e varia e per vario aspetto interessante serie di Storie, una sola categoria debbo io qui sceverare
ed a questa fermarmi, la categoria, cioè, che specialmente riguarda fatti
determinati di storia pubblica e privata. In altri termini, lascio da banda
le Leggende, bastando ai fini del presente lavoro che dia una rassegna
sommaria di esse e singolarmente di quelle che ebbero e che conservano l'accoglienza ed il favore del popolo, dimostrati da la permanenza
loro e ne le ripetute secolari stampe e ne la tradizione orale sopratutto. E chiaro si vedrà ch'esse, da sole, bastano a rispecchiare la vita e
l'animo del popolo siciliano, ne' suoi diversi affetti ed atteggiamenti e
manifestazioni2.
Conti Ruggeri è tra le più antiche, forse la più antica delle Storie.
Ci conserva la memoria del Gran Conte, «fortissimo braccio, intrepido
cuore, dritto e sagacissimo ingegno», debellatore de' Musulmani e fondatore in Sicilia di uno stato fermo e vigoroso e d'una dinastia che seppe
acquistarsi l'ammirazione e l'amore de' contemporanei e de' posteri3. Ma
Ruggero non grandeggia ne la mente del popolo per le sue conquiste,
1
2
3
216
Rimando alle ben note collezioni e singole stampe di AMICO, CANNIZZARO,
GUASTELLA, MONACI, PITÈ, SALOMONE-MARINO, STRUPPA, VIGO, per le
quali si può consultare la Bibliografia delle Tradizioni popolari d'Italia; e per le Storie a
stampa, al cit. mio volume, al quale molte giunte avrei ora da fare.
Un lavoro che tenta e seduce, e che qualcuno vorrà attuare, è quello di dare corretti ed
accertati i testi di tutte le Storie, illustrate convenevolmente per ordine cronologico, in
modo che restino documento durevole della genuina concezione e narrazione della storia
presso il popolo nostro.
Nella rassegna, che qui faccio, mi giovo delle lezioni che sono a stampa e di quelle che
serbo inedite.
LA LUMIA, La Sicilia sotto Guglielmo il Buono, I, 3, in «Storie Siciliane», I, (Palermo,
Virzì, 1882).
per il valore e per la potenza; grandeggia per un atto eccelso di bontà
e magnanimità, che il riconoscente popolo rileva e addita in lui, ottimo Principe. L'anonimo aedo popolare narra di un indigeno del Val di
Mazzara, il quale, spinto dalla malesuada fame, tradisce e fa spegnere su
la via tre Cavalieri normanni: donde la cattura sua e l'ordine dell'immediato estremo supplizio. Ma ecco la derelitta madre, che solo per l'unico
figlio si sostenta, prostrarsi ai piedi del Gran Conte ed offrire anche il
proprio capo alla giusta punizione che doveasi al delitto; e gli angosciosi
e passionati accenti di quella madre toccano sì il cuore del Guerriero,
ch'egli con nobilissima vendetta restituisce libero il figlio alla donna,
rimandandola consolata e soccorsa anche in denaro:
Pàrtiti, donna, e cu tia lu figghiu:
oru e cunsolu ti duna Ruggeri;
cà chista è la vèngia chi mi pigghiu,
lùcinu sempri li nostri banneri! 1
E questa è luce vera di civiltà e di amore, che splende eterna!
Ma non luce che sinistramente e breve dura la «mala signoria», massime se straniera; contro la quale il popolo sorge impetuoso al grido:
Mora! Mora! quando la oppressione, le angherie, gli strazj d'ogni fatta
colmano e sopravanzano la misura e accendono l'odio e la vendetta. I fatali rintocchi de la campana del Vespro si ripercotono vivi sempre ne le
orecchie e ne l'anima de' Siciliani: il sanguinoso 31 marzo 1282 è indelebilmente impresso nella memoria del popolo, che lo scrisse con ardimentoso costante animo e valoroso braccio e lo coronò di glorioso immarcescibile alloro. Rimasto ne' Proverbj, negli Strambotti, ne' Racconti, che
ne recano anche i particolari episodj, il Vespro Siciliano, rivendicatore
de' diritti e della libertà e indipendenza della Sicilia, non poteva non rimanere anche nella poesia narrativa2. E la Storia di lu Vèspiru sicilianu
ha una freschezza di colorito, una vita, una passione, che fa palpitare ed
entusiasmare pur oggi dopo sei secoli; pur oggi, nel ripeterla, il popolano
si esalta e commove:
1
2
Per le voci e frasi dialettali non fo note; vedi: «Piccolo Vocabolario».
Vedi: SALOMONE-MARINO, La storia nei canti popol. sicil., cap. II, in «Archivio
Storico siciliano», a. II, p. 44 e segg.; - Il Vespro Siciliano nelle tradizioni popolari
della Sicilia, a p. 133 e segg. del volume: «XXXI marzo MDCCCLXXXII: Ricordi e
Documenti del Vespro Siciliano, pubblicati a cura della Società Siciliana per la Storia
Patria nella ricorrenza del sesto centenario» (In Palermo, Pei tipi del Giornale Lo Statuto:
MDCCCLXXXII).
217
'Na vuci pri li strati chi gridava:
- Nun lu sintiti a Vèspiru ca sona? ed ognedunu l'armi si pigghiava
e contra li Francisi nesci fora.
Tuttu lu populu a la vinnitta java,
puru li donni vonnu fari prova:
lu sangu tradituri ognunu abbrama
pirchì lu sangu l'onuri arrinova.
Cedi la Francia, e sona li martòria:
no, ca la Francia 'un veni cchiù 'n Sicilia!
Viva Sicilia! ca porta vittòria;
viva Palermu! fici mirabilia.
Sunati tutti li campani a glòria,
spinciti tutti l'armi tirribìlia,
cà pr'in eternu ristirà a mimòria
ca li Francisi ristaru 'n Sicilia!
Se la nota dell'odio rimane dentro a questa Storia anche oggi, gli è
perchè il popolo nostro, come serba perenne ricordo de' beneficj e de'
benefattori, così tenace rammenta le offese, precipuamente quelle che
toccano l'onore. L'onore, spirito di Dio che fulgido inghirlanda la fronte
della donna, non si rifà che tuffandolo nel sangue; e come in terra combattono in suo pro i valenti Procida, così Dio dal cielo manda a difenderlo e vendicarlo i suoi Angeli con le spade di fuoco:
Lu spiritu di Diu 'n frunti l'avemu,
l'onuri di la donna strallucenti;
sta giurlanna, cu' è chi nni leva,
cci veni a 'mpetta Pròcita valenti,
vennu li Sarafini di lu celu
sangu pri sangu cu li spati ardenti!
Anche pe' tiranni piccoli, indigeni, e per quanti si attentano di far
offesa all'intangibile onore delle famiglie, il popolo predica santa la vendetta, ed esalta ed onora il vendicatore, sia quale si voglia la vittima,
abbia pur dei pregi che la fanno degna di commiserazione e di pianto. La
218
vinnitta, Donna Aldonza e Bellupedi, Lu marinaru di Capu Fetu, sono
tre Storie che cantano chiaro e forte in proposito.
Nella prima, a Nardo, uccisore del potente e rispettato Conte suo
Signore perchè violò il talamo, apparisce notturna l'ombra del padre
morto e solenne lo benedice:
Figghiu, ti binidicu eternamenti:
l'ha' vinnicatu tu lu sangu miu,
l'onuri di la casa è arre' lucenti!
La seconda Storia, pur esprimendo sensi di profonda pietà per l'orribile
fine di Donna Aldonza «gìgghiu ilicatu di gran gintilia», e di Bellopiede
«ca l'àppi amara e crudili la morti», e più ancora per le ineffabili angosce
della madre di questo, costretta con barbara ferocia a ballare e cantare
presso il cadavere del figlio; e pur minacciando al possente Barone di
Militello la punizione futura per tanto eccesso; la seconda Storia, dico,
non si tiene di chiamare «altu Signuri di la biunna testa» lo spietato vendicatore marito, e di esaltarlo per la pronta e precisa azione omicida e
per il valente cuore, lui, che come raggio solare chiarifica il tutto, fatale
solo a chi ha macchiato l'onore della casa:
Pronti e sicura la stisi la manu
e di valenti cori si dinota,
raja di suli, lu tuttu fa chiaru,
mali a cu' tinci l'onuri 'na vota!
E la terza Storia ammonisce, che, ove quella dell'uomo manchi, scende sicura e inesorabile la vendetta del Cielo; perchè ogni azione delittuosa deve necessariamente avere la condegna punizione. La «massara»
Rosa tradisce il marito con «ràaisi» Nino, e (orribile a dirsi!) questi tiene
a battesimo il neonato adulterino, il figlio proprio. Il marito, buon uomo
che s'affanna per la famiglia su le lontane glebe, non sa nulla, e però
non può pigliar vendetta de' sagrilegi e malvagi adulteri; i quali, rotto
ogni freno, vanno a trescare fin su l'aperta marina di Patti. Ma c'è Chi
veglia, vede e provvede: ed ecco che, per volere Superno, dall'alta roccia
si stacca un gran masso, il quale sfracella e seppellisce gl'impudichi; e
subito, dal corrotto sangue dei due che ha maculata la bianca sabbia, si
sprigiona una pestifera mofeta che infetta permanentemente i dintorni:
219
Lu mari a lu cuntornu fu 'nfittatu,
la terra sin' a un migghiu manna fetu,
e l'àrbuli macari hannu siccatu;
lu stissu ventu, cci passa scuetu.
Sempri la petra a sò locu ha ristatu;
cu' la vidi, si scanta e torna arretu;
a chiddu Capu cchiù nuddu ha 'ncugnatu,
la genti lu chiamaru Capu Fetu.
Chistu dicretu di lu Celu vinni
pri sèrviri di spècchiu a li birbanti,
chiddi chi fannu li mali disinni
contra l'onuri e li pricetti santi.
Lu rimjanti pri la pisca passa,
a Capu Fetu metti a sinniari,
cà la varchitta sulidda s'arrassa
e pri sùspicu s'àudi cricchiari.
Lu pisciteddu ccà nun àvi passa,
mori 'ntra st'acqui vilinusi e amari,
sùlitu lu jacobbu cci fa stassa
cu lu luttusu cùculu fatali!
Ma la mano di Dio non sempre cala immediata pel condegno castigo,
nè sempre la Giustizia umana sa o può raggiungere i malvagi; ed allora
si leva ardita e inesorabile sentenziatrice la onesta coscienza popolare,
legando ai posteri il suo giudizio inappellabile.
Donna Catarina, per infrenabile libidine e sconfinata prodigalità lussuosa, fa morire apoplettico il nobile ed onorato suo genitore, e libera si
sfoga e diguazza nel fango, felice reputandosi e sul culmine della rota di
Fortuna; ma la Storia popolare, chiarite e divulgate le vergogne di lei, ce
la presenta di notte, sola nella galleria dell'avido palagio, in attesa smaniosa del volgare drudo a cui s'è data; ed ecco, terrifica vista! si avanza
l'ombra paterna, che con amara voce le richiama il sozzo avvilimento ed
il brago in cui ella sta, e la maledice:
Ti 'mmalidicu, Donna Catarina,
lu nomu tò l'àuta Casata infama!
220
sì che ella casca come morta al suolo; ma a la tormentata fantasia si
presentano ombre e fantasime, che le fanno passar dinanzi le sue pompe e gale, le sue smanie passionali ardenti e gli eccessivi piaceri, e poi,
dietro una scura cortina, il padre stesso irrigidito con il cuore grondante
sangue... un sangue, che macchiandole la mano si accende e brucia, e
attraverso il braccio va a sprofondarsi corrosivo nel nero cuore di lei! E
lei, la oscena parricida, vive; vive, ma ogni notte rivede la implacabile
ombra funerea del padre che la maledice, e la rivedrà fino a che non se
la trascinerà seco!
Giustizia di Diu! ca sempri dura,
ca firma dura, e triunfa sicura!
I banditi, gli assassini da strada «che dier nel sangue e nell'aver di piglio», quale che sia stata la causa che li ha spinti a delinquere, quali che
siano il valore ed anche le benemerenze loro, sono pur sempre de' ribelli
all'Autorità, alle leggi, al giusto, all'onesto; e però meritano castigo esemplare, che valga ad impaurire e trattenere chi ha istinto ed occasione a
malfare1. Possono Li dui Sbannuti di lu voscu di Partinicu meritamente
scampare abbandonando l'Isola, perchè, pur dati alla macchia, non si
bruttarono di crimini; ma Angilu Falcuneddu, Giorgi Lanza, Peppi Foti,
Sàuta-li-viti, Testalonga, Carminu Cairuni, Don Ramunnu Sfirrazza, Li
Palummi, Li Fra Diàvuli, Mommu Brunu e gli altri di simil genia, no,
questi, ebbenchè «omini risoluti, arditi e forti»,2 pure «su' malu ferru e
li strudi la mola»3, e finiscono tutti giustamente di mala morte, o nelle
campagne ove scorazzano, o nelle città «a li tri ligna misi»4.
Cussì surtisci a cui campa crudili,
e dici: A chistu pigliu, a chiddu ammazzu!5
Di lu gran Giorgi tantu alluminatu
chista misira fini s'ha vidutu!
Pati la pena chi a l'àutri ha datu,
1
«Pri dari esèmpiu di li mali cosi», dice la Storia di Sàuta-li-viti.
3
Storia di Giorgi Lanza.
2
4
5
Storia di Don Ramunnu Sfirrazza (testo orale).
Storia di Don Ramunnu Sfirrazza. «Li tri ligna», si sa, sono la forca.
Storia di Angilu Falcuneddu.
221
sangu pri sangu scutta lu Sbannatu.1
---
La Giustizia a lu 'ntuttu pruvidiu;
chista è la fini di st'Omini forti:
la putènzia, la zòria e lu sbju
cci leva tunnu cu dàricci morti.2
---
La vita di Stratàriu
è vampa di linazza:
la mola strudi sùbitu
a li mali firrazza...
Ora pigghiamu esèmpiu,
populi e genti tutti:
viditi a li Stratàrii
com'è ca sunnu strutti?
Oh vita priziusa
d'unistitati e paci!
lu pani travagghiatu
quantu prufitta e piaci!...
Putenti la Giustizia
arriva a tutti banni:
biatu cui pò gòdiri
cu paci onesta l'anni! 3
È questa qui la santa aspirazione de' buoni popolani: poter godere la
vita con onesta pace, assaporando il proficuo sudato pane!
Lode e premio, pertanto, devesi alle azioni virtuose ed agli uomini
dicuore che le compiono, perchè
l'Amuri e la Virtù su' triunfanti,
1
Storia di Giorgi Lanza.
3
Storia di Testalonga.
2
222
Storia di Don Ramunnu Sfirrazza (testo orale).
no lu Dinaru e mancu li Putenti;1
e quindi il poeta popolare celebra ed addita ai posteri questi benemeriti
virtuosi, che sublimano gli animi e fecondano le sorti della patria e della
umanità.
Ecco Lu Conti di Burgettu. L'unica sua figliola, «billizza ardenti», s'è
innamorata del prode e gentile Scudiero e gli s'è data. L'orgoglio di casta
impone, che chi tanto ha osato contro il Signor suo, vada ammantinente
al capestro; e l'ordine già si eseguisce... Ma il nobile cuore del Conte
cede alle preghiere della figlia, che dimostra la sua calda passione essere
ben locata nel giovane, il quale
sutta li rozzi vesti àvi gran cori,
e lu sò brazzu teni gran putiri;
sì che il Conte lo libera, lo perdona e abbraccia, e fa dar nelle trombe per
invitare i vassalli a pigliar parte alle feste nuziali:
Di la furca a l'otaru fu purtatu;
sùbitu lu visteru Cavaleri;
spiruna d'oru e la spata a lu latu,
si persi la mimoria di Scuteri:
Signuri di Burgettu titulatu,
avanza li cchiù nobili guirreri:
la sorti e la sò Diu l'ha 'ncurunatu
e sutta lu duminiu un Statu teni.
Bàrtulu, già ricco e strapotente e soperchiatore e però in odio a tutti,
è ora caduto in miseria e da tutti fieramente perseguito, e massime dal
suo implacabile emulo, Simone «tirribili e valenti». Quando, senza più
risorse o ripari, è giunto da questi anelante vendetta, egli per disperato
cerca volontaria morte ne' gorghi del mare. Ma Simone ha cuore generoso: a quell'inattesa miserevole scena palpita di pietà, si butta a nuoto, salva il già odiato nemico, e portandolo alla propria casa, con carezzevoli
cure e doni e baci fraterni esercita una vendetta santa. L'anonimo poeta
conchiude commosso la sua Storia:
1
Ma, pur troppo, non è così il più spesso: ed il popolo, arguto filosofo esperiente, in altre
sue Storie sostiene e dimostra che Pecuniae obediunt universa, e che la Forza opprime il
Diritto. Vedi: SALOMONE-MARINO, Leggende pop. sicil., VI, p. 26.
223
Populu di Sicilia ginirusu,
di la liggi di Diu ca nni fai casu,
Diu ti darà cumpensu priziusu,
e iu mi vôtu ad Iddu e 'n terra vasu.
Vui, chi di 'nnimicari aviti l'usu,
vui 'mparati la vència di stu Casu;
triunfu di la vita gluriusu
è lu pirdunu!...
Il popolo non ha trovato in genere materia degna di canto per i suoi
Governanti, per nulla benemeriti dell'Isola, e stranieri e lontani per giunta. Anzi, in qualche fuggevole accenno, si hanno amari ricordi di atrocità e tirannie e sfruttamento inumano1.
Un ricordo, in due Storie, ci ha conservato dei Re Aragonesi, che qui
corsero a combattere per la rivendicazione dell'Isola e qui si coronarono
e qui risiedettero; ma, delle due Storie, l'una, La guerra di li Raunisi,
narra e lamenta (nel poco che ne resta) la angustiose sofferenze delle
popolazioni per la lunga lotta combattuta in Sicilia; e non ci chiarisce se
trattasi della lotta consecutiva al Vespro e terminata al 1302 con la pace
di Caltabellotta, oppure dell'altra di un secolo appresso, quella, cioè, che
condussero i due Martini contro il dominio de' quattro Vicarj; la seconda, Lu spunsaliziu di Fidiricu e Custanza di Raona, si limita a descrivere gli abbaglianti apparati e le ricche gale per le regie nozze.
Ma quando l'imperatore Carlo V, vittorioso tornando da Tunisi viene
ad allietare di sua presenza questi suoi fedeli regnicoli, che gli avean
dato valido aiuto di braccio e di borsa, e solennemente giura in Palermo
l'osservanza delle leggi e de' privilegi locali, allora il popolo si esalta ed
inneggia alla gloriosa impresa ed alla magnanimità del potente Sovrano,
ne Lu triunfu di lu 'Mperaturi:
Triunfa lu Regnu e triunfa la Fidi,
Dïu li Regni so' pruteggi e teni:
lampu cu tronu 'nsèmmula si vidi
e la ruina di li Cani veni.
Chinu è lu portu di frischi galeri
e càntanu Sicilia cu Spagna;
1
224
Cfr. SALOMONE-MARINO, La storia nei canti pop. sicil., cap. I, pp. 150-151, in
«Archivio stor. sicil.», I; - VIGO, Raccolta apliss. cit., LI, 4440, p. 622; ecc.
vannu in triunfu li nostri banneri,
chianci e fuj lu Cani e si nn'appagna.
Un Àncilu mannau Diu di li celi:
- Prutèggimi e difenni la me' Spagna.Viva lu 'Mperaturi e li guirreri,
cà livau di li Cani la cuccagna! 1
E così ancora, ammirato e grato il popolo applaude entusiasticamente
al prode debellatore della terribile potenza ottomana, al gran Giovanni
d'Austria, «giuvini bellu chi Diu lu mannau», che la Sicilia mosse per la
santa impresa ed in Sicilia tornò trionfante a ricervervi amore, corone di
lauro ed apoteosi; e giustamente, perchè Sicilia gli die' tutti i mezzi e tutto il valore e tutto il sangue possibile per il conseguimento del successo
in quella gloriosissima giornata di Lepanto2:
Sicilia avia granni affrizioni,
tanti avia danni, cu tanti dulura,
sangu e ruina e distruzioni,
battia lu toccu di l'ultima ura;
e spiranzata, cci strincìa lu cori
l'amara granfa di la Morti scura:
l'Àngilu vinni di salvazioni,
Sicilia cci la pröj la sò curuna! 3
E glorioso ricordo dell'audace valore siciliano si conserva Lu Mircanti,
una Storia che registra due memorandi episodj del 1561: la perdita di
due galere cristiane con la cattura, per parte de' Turchi, de' rinomati
Capitani Luigi Osorio e Visconte Cicala, presso alle isole Egadi; e la
maraviglosa riscossa di pochi schiavi siciliani che, spezzate le proprie
catene, opprimono i numerosi loro tiranni e con due trionfate galere se
li traggono prigioni in Sicilia, sfuggendo la Costantinopoli di mezzo alla
flotta turchesca. Lu Mircanti, che solo in parte compresi ed illustrai nel
1
2
3
Parecchi altri ricordi conserva dell'Imperatore la tradizione; vedi: SALOMONEMARINO, Tradizione e Storia; - e: Carlo quinto imperatore nella leggenda siciliana.
Questo, che può parere esagerato giudizio per amore alla natia Isola, proverò rigorosamente giusto, co' documenti, nell'opera che prossima darò a stampa: La Sicilia e Don
Giovanni d'Austria nelle imprese contro gli Infedeli.
Ignoro se questa Vittoria di Don Giovanni d'Austria, che canta il popolo, sia quella stessa
che compose PIETRO CLEMENTE e fu stampata al 1575, poichè tale stampa non mi è
riuscito di trovare.
225
1880, merita speciale completa illustrazione, su la scorta de' documenti;
ma qui non posso che limitami a questo nudo accenno.
La prisa di la Gran Surdana celebra con preziosi particolari storicamente esatti un'altra vittoria cristiana sul mare, al 1644, su la famosa e
temuta galea turca:
La Gran Surdana tantu annuminata,
dunni passava, trimava lu mari;
e tutta di cannuna priparata
era 'n forma 'na rocca 'n menzu mari.
... ... ... ... ...
Tutta la sò putènza finiu,
pi li Regni cristiani 'un cc'è cchiù scantu;
di Màuta la squatra la vinciu
ca porta 'n puppa chiddu Signu Santu:
cci fu l'ajutu e vuluntà di Diu,
li Cavaleri nn'àppiru lu vantu.
La permanenza presso il popolo delle due Storie: La ribbillioni di
Missina e La morti di Re Carru secunnu, si può solo spiegare con quel
provocato antagonismo, con quella peniciosa ira fraterna che divise nei
passati secoli e massime nel XVII le città siciliane, mettendone la più
parte (Palermo alla testa) contro l'ardimentosa Messina; la quale, insorgento contro agli Spagnoli, ebbe però il torto di darsi schiava ai Francesi,
odiosi pur sempre a' Siciliani, anzichè proclamare la indipendenza isolana. La ribbillioni è ispirata a questo deplorevolissimo livore intestino,
che per fortuna è oggi del tutto scomparso con la salda fraternità della
nova Italia unificata; La morti di Re Carru, invece, più equanime e senza astio, si limita a memorare il Re per l'animo buono e sommamente
religioso e che muore benedicendo e perdonando i sudditi, scusandosi di
averli maltrattati senza sua colpa:
- Binidicu e pidugnu in tuttu cori
tutti li Stati mei, Cità e Casali.
... ... ... ... ...
226
Nun cci àju culpa, comu vu' sapiti,
si vassalli cci su' mali trattati;
pirdugnu a tutti, e vògghiu chi scriviti:
«Nun vògghiu chi nesciunu pri mia pati».Dicennu sti palori âuti e cumpiti,
trapassau la Riali Maistati.
Un solco profondo indelebile di dolore e di pianto lasciano nell'animo
popolare i disastri e le calamità pubbliche: eruzioni vulcaniche, terremoti, inondazioni, guerre, carestie, incursioni barbaresche, morìe. E abbiamo: Lu Focu di Mungibeddu, (1669 e 1852), Lu Tirrimotu (1693, 1726
e 1823), L'Alluviuni di Palermu (1666), Lu Dillùviu di la Sicilia (1851),
L'Ultima Timpesta di Missina (1855), Lu Marimotu di Catania (1859),
Lu Casu di Sciacca (1529), Trapani nni la Guerra, e La Guerra di li
Piamuntisi (1718), La Caristia (1813), La distruzioni di Liapari (1544),
Scibìlia Nobili, e La bella Agàti (1545), La Pesti di Palermu (1624), La
Pesti di Missina (1743), Lu Culera (1873, 1854 e 1867) ecc.
Tutte queste Storie hanno un concetto unico che informa e dirige,
generalmente, e per conseguenza un aspetto speciale con cui si presentano. Tutti i malanni, che ci flagellano e martoriano e distruggono, sono
il prodotto dei nostri delitti e peccati, e della miscredenza nostra; sono
«castighi di Diu», perchè Dio, quando non ne può più, stende la potente
mano per annientarci, con uno od altro mezzo violento e terribile. Ma
la catastrofe completa è scongiurata sempre dall'intervento di Maria, la
Madre sempre misericorde e provvida, l'Unica che può e sa attutire la
giusta collera del Figlio offeso, o mossa per spontaneo benevolo sentimento o per le supplici insistenze dei Santi Patroni, zelanti patrocinatori
della traviata gente che hanno in protezione. E però, fra mezzo alla narrazione del fatto disastroso con le dolorose circostanze e conseguenze,
noi troviamo rappresentata immancabilmente e identicamente la scena
del contrasto, che si svolge in Paradiso, tra Madre e Figlio, con la conclusione stessa: la remissione, ma con lo ammonimento solenne, che i
peccatori non ricalchino più la mala via, che si diano alle sante opere,
perchè possano goder pace e prosperità in questa vita e poi il sommo ed
eterno Bene nell'altra.
Il soffio di redenzione de' tempi nuovi e di coscienza nazionale che
comincia a germogliare ne' popoli su la fine del secolo XVIII, lo veggia227
mo penetrare anche ne le nuove Storie popolari nostre, insieme al senso
di equità e di umanità, più esteso che prima non era; nuove aspirazioni si
schiudono e nuovi orizzonti di libertà del pensiero, per quanto segregata
sia la Sicilia dal resto del mondo il quel fermentatore e fortunoso periodo
di tempo.
Stimmatizza, sì, il popolo, gli orrori della sanguinosa rivoluzione francese e maledice ai Giacobini, ne La Francia ribella e ne La Rivuluziuni
di Francia; ma ne La Maria Carulina, con sottile artifizio colpisce gl'ingrati e fedifraghi suoi Sovrani Borboni, che pur ha salvati ed ospitati,
e con essi «li lagusti 'Ngrisi», protettori interessati; e ne La morti di
Jachinu Muratti, dai Borboni fatto assassinare, scioglie un magnifico
epicedio al prode e cavalleresco Re.
E poi va oltre ancora: inneggia a La Rivuluzioni di lu 1820, che al grido: «Via palermu e Santa Rusulia!» reclama la libertà e la indipendenza
da Napoli:
E giustu vonnu indipendenza e morti; 1
di tutta la Sicilia, d'ogni parti
su' cu Palermu e di cori arrisorti,
su' tutti uniti li Siciliani
ca cchiù nun vonnu a sti Napulitani!
E poi, con impeto ed entusiasmo che uguagliano l'impeto e l'entusiasmo della mirabile propria riscossa del 12 gennaro 1848, canta le vittorie
di questa e gli eroismi degni dei figli del Vespro. Ma tosto dopo, per le
infelici vicende della guerra, è costretto a lamentare la dolorosa catastrofe della libertà, e le tiranniche vendette, ed i martirj de' patrioti; fino
a che, mercè la costante fede e l'indomato ardimento, può sciopgliere
poco appresso il peana al novissimo giorno del risorgimento definitivo, nazionale questa volta e non più regionale, alla epopea maravigliosa
che col prorpio sangue scrissero gli eroi isolani ed i mille eroi che dal
Continente qui guidò l'invincibile e irresistibile Garibaldi, col grido fatidico: Italia una! 2.
1
2
228
Il motto: Indipendenza o morte, era stampato sulla coccarda degl'insorti del 1820.
Tralasciando quelle di meno interesse e valore, cito solo le Storie: Lu dudici jinnaru
quarantottu; La fujuta di li Napulitani; La guerra di lu 1849; La trasuta di li Regii a
Palermu; Bintivegna; Lu quattru aprili 1860; La battagghia di Calatafimi; Lu saccu e
focu di Partinicu; La trasuta di Garibaldi a Palermu; La rivuluzioni di lu sissanta; La
battàgghia di Milazzu; La vinuta di Vittoriu Manueli a Palermu. Alla quali aggioungo per
la loro singolare importanza, le più recenti: La guerra di lu sissantasei e Lu setti-e-menzu
8. Ma fra tante Storie poetiche della Sicilia, più o meno interessanti
e belle, quella che di tutte riunisce e compendia i pregi, che sopra tutte
si leva sublime per contenuto e per forma, e che sopra tutte ha goduto
le simpatie e l'ammirazione e la devozione universali e costanti per tre
secoli e mezzo, è la Storia che piglia argomento e nome da La Barunissa
di Carini. Alla quale io non ho neppure accennato sin qui, perchè tale
è l'eccellenza ed il valore suo, storico e letterario e morale, che come
il Saladino dantesco merita che stia sola ed a parte, ed abbia speciale
accurata illustrazione.
Ma, prima che la Storia poetica, è necessario che si conosca il tremendo Caso che diè occasione ad essa, e gli attori che vi ebbero parte.
E conosceremo così una ignorata pagina di storia siciliana, che ci mette
innanzi viva ed in azione la classe dei Potenti del cinquecento, rivelandocene intera la complessa agitata vita, i sentimenti, le idee.
(1866); La morti di lu Re e di lu Papa (1878); La guerra d'Africa (1895); La morti di
Ummertu (1900).
229
II.
1. Su la costa settentrionale della Sicilia, di faccia all'isoletta di Ustica
che si erige solitaria scolta su le cerule onde, sopra ubertoso ariosissimo
poggio siede col suo Castello a cavaliere la gaja e linda Carini, l'antica
Iccari, nota più per la famosa Laide la cui beltà trascinò governanti e
filosofi e artisti e poeti, anzichè per le fortunose vicende a cui, per due
volte distrutta e rifabbricata, soggiacque per lunghi secoli. Questa carini risorta, che splendida e fiorente al tempo de' Normannifu di quel
Matteo Bonello che diè morte all'odiato Majone supremo Almirante di
Guglielmo il Malo; che durante il dominio degli Angioini appartene a
Palmiero Abate, cooperatore del Procida nella preparazione del famoso
Vespro; e che appresso, da questa indigena signoria era passata bruscamente a quella esotica dei La Grua Talamanca, ai quali poi sempre rimase; questa Carini doveva, appunto sotto agli ultimi Signori, rivenire
a nova alta nominanza per un Caso memorando, una terribile tragedia
domestica che si svolse entro le mura dell'antico Castello1.
2. Dai beni confscati a Riccardo Abate, pertigiano de' Chiaramonte
e come questi processato per ribellione e alto tradimento, il Re Martino
donava a 26 agosto 1397 la Terra di Carini col Castello e il ricco Stato
al valoroso e fedele suo Ubertino La Grua, Milite e Barone e Vicerè per
la Valle di Mazzara. Con la morte di questi al 1410, l'eredità restava a
Giliberto Talamanca, Grande di Catalogna, il quale, passato in Sicilia
coi Martini e gratificato pur esso della Baronia di Misilmeri e di Vicari
confiscata ai Chiaramonte, aveva sposato sin dal 1402 l'unigenita Ilaria
di Ubertino, Obbligandosi in presenza del Sovrano ad assumere pei figli
e successori il cognome e le armi di Casa La Grua.
Da questo ceppo sorsero con opportuni innesti una serie di nobili
rami, nei quali fluì pur commisto il sangue regio aragonese e l'imperiale
greco; e la progenie crebbe in ricchezza e potenza e reputazione tra le
primarie del Regno di Sicilia2.
All'inizio del cinquecento, la Baronia di Carini stendevasi in vasta su1
2
230
Vedi: «Note illustrative e Documenti», IV.
Vedi: «Note illustrative e Documenti», V.
Non occorre avvertire, che la narrazione storica che qui do, o ignota affatto, o manca e
alterata nei singoli ricordi delle Case gentilizie interessate e nelle comuni storie, poggia
tutta sui documenti da me trovati.
perficie di terreni fertilissimi che davano cospicuo provento, reso maggiore da parecchi aviti censi e rendite1. Per la morte di Don Giovanni
Vincenzo La Grua (luglio 1517) restavane Signore il figlo Don Pietro II,
detto Don Petruccio, che se ne investiva a 2 febbraio 1518, per il tramite
della madre Donna Ilaria, sua tutrice, essendo egli ancora pupillo.
Don Petruccio, emancipatori e sposatosi appena raggiunta l'età idonea
(1525), ci apparisce subito come uno dei membri che più recò lustro e
ricchezza e potenza al Casato. Mente equilibrata e sagace, amministratore oculato de' proprj beni, egli è nel tempo stesso un cultore passionato
dell'esercizio delle armi, dei classici studj, delle belle arti e della gaja
vita. Ma nel fiore dell'età e dell'attività feconda ei si spegneva, ai 16
luglio 1535, lasciando due teneri rampolli: Don Vincenzo, primogenito
ed erede universale nato a 11 novembre 1527, e Don Alonso, cadetto e
morto poi senza prole.
La vedova, Donna Eleonora Manriquez e Tocco, della regale progenie
dei Despoti d'Arta, di Serbia e di Epiro, rimane tutrice ed amministratrice. È signora di alti sensi, energica, rigida, ma nel contempo industriosa
e buona massaja. Ogni cura ella volge al primogenito, perchè degnamente continui le orme del padre, e lo fa educare e istruire in conformità al
volere e alle disposizioni paterne, mentr'elle gli conserva ed aumenta
l'asse ereditario. E. certo, Don Vincenzo dovette presto spiccare tra' nobili coetanei, per le sue doti morali e intelettuali e fisiche, se presto ci
fu un uomo di grande acume e valore e ricchezza e potenza che posò
gli occhi su lui e lo volle a suo fianco congiunto; e se l'avveduta Donna
Eleonora, derogando alla legge e alla espressa volontà del defunto marito, consentì a emanciparlo e dargli una sposa e fargli assumere a 16 anni
appena il governo della Signoria di Carini2.
3. Ma al giovane Barone torneremo. Qui, m'è necessario che conduca
in iscena e faccia conoscere altri nobili personaggi, che hanno parte im1
2
I confini della Baronia e Stato di Carini, da Torretta e Capaci scendendo a mare e seguendone la riviera fino al seno di San Cataldo sotto Partinico, risalivano poi costeggiando
il torrente Nocilla e per i monti, che sovrastano a Montelepre, raggiungendo il punto di
partenza. Inchiudevano entro sè parecchi feudi feracissimi con ricce sorgenti d'acqua,
giardini, vigne, oliveti, cannamele, praterie, boschi, e poi mulini e tonnare al mare, che
davano tutti largo frutto. Montelepre, proprietà di Don Alvaro Vernagallo, s'incuneava ingrata spina sul fianco meridionale della Baronia. Cfr. nell'Archivio di Casa Carini i volumi
D e E delle Possessioni.
Vedi: «Note illustrative e Documenti», V.
231
portante e cospicua nella preparazione e svolgimento del dramma che dà
argomento al poemetto popolare ed a questo mio studio.
Nei primi anni del secolo XVI, sfuggendo alle accanite lotte partigiane della natìa Pisa, si trasferirono in Sicilia parecchie magnatizie
famiglie; tra esse quella dei Vernagallo, principalissima, di antica chiara
prosapia, e denarosa tanto quanto estesa per numero di rappresentanti. Don Mariano, rispettato capo di essa, stabilivasi a Palermo; e qui
al 1504 sposava Donna Giulia Cosenza, unica figlia di Don Antonio,
Signore di Billiemi. La magione dei Vernagallo, nella principale Via del
Lauro, rifulse tosto per la grandezza e la magnificenza1: e Don Mariano,
morendo al 1519, lasciava al primogenito Don Ludovico un patrimonio
vistosissimo, ed altro cospicuo al cadetto Don Alvaro, oltre a lasciti pur
larghi per la vedova, per le due figlie, per uno stuolo di congiunti e per
Opere Pie.
Don Ludovico Vernagallo, splendido, accorto, ambizioso, mirò sempre ad affermare la sua posizione tra la nobiltà siciliana; e mentre entrava in Casa La Grua sposando al 1530 Donna Elisabetta (Bettuccia) unica
sorella di Don Pietro II, acquistava successivamente il titolo e la Baronia
di Calascibetta e quella del Grano mercè largizioni e prestiti generosi
alla Corte e mercè la benevolenza e la fiducia del Vicerè Gonzaga e
dell'Imperatore Carlo V; e otteneva missioni politiche delicate e gli ufficj
eminenti di Capitano Giustiziere e di Pretore della Città e di Governatore
della nobile Compagnia dei Bianchi.
Anche Don Alvaro eccelle, occupando più d'una volta le alte cariche
di Senatore della Città e di Governatore della Tavola2; e anch'egli si dedica ai negozj, anch'egli col fratello e i nipoti entra com consocio nella
retributiva azienda dell'industria delle cannamele che tengono i Signori
La Grua.
In Casa Vernagallo, insieme alle industrie e alle operazioni bancarie,
fioriscono gli studj delle scienze, della armi, delle arti; e la musica in
ispecie vi ha cultori passionati e rinomati; sì che, tra la elegante e cortese
gioventù signorile del tempo, spicca singolarmente la prospera figliolanza di Don Ludovico: Mariano II, Giuseppe, Vincenzo, Ettore, Alvaro,
Maria, Giulia, Caterina, e quella del fratel suo Don Alvaro: Ludovico,
1
2
232
Vedi: V. DI GIOVANNI, Del Palermo restaurato, lib. II, p. 301, in «Biblioteca storica e
letter.» del DI MARZO, vol. X (Palermo, Luigi Pedone Lauriel, editore, MDCCCLXXII).
È il grandioso palazzo che fu poi dei Castrofilippo e oggi, deturpato e guasto, appartiene
al sig. Giuseppe Todaro.
Il pubblico Banco cittadino.
Ermilio, Fulvia, Giulia; chè i due fratelli, con le rispettive famiglie, procedono all'unisono, sono cordialmente e indissolubilmente legati1.
4. Contemporaneamente, dall'antico famoso ceppo dei Lanza, ecco
venirci innanzi un uomo, che nella storia che vo tracciando sta in prima
fila. È Don Cesare Lanza, figliolo del Barone di Castania e della Trabia,
di quel Don Blasco, che fu giureconsulto famoso ma non meno avveduto
politico e che, dopo i pericoli e i danni che gli portò la rivolta palermitana contro il Vicerè Don Ugo di Moncada, salì maggiormente in fama
e dignità e avere e potere, con la protezione e la particolare benevolenza
del Sovrano.
Don Cesare Lanza è una di quelle personalità spiccate complesse del
cinquecento, che si impongono in tutti i modi. Di mente perspicace, duttile e di larga veduta, affronte febbrilmente i problemi agrarj, industriali,
economici, e coltiva le scienze filosofiche e la cabala; uomo d'arme valoroso, di ambizione sconfinata, di audacia che non conosce ostacoli e li
atterra violento senza guardare a mezzi, egli ci apparisce sin da giovane
intento a una mèta che si è prefissa e che con tenacia e costanza e forza
di volontà raggiunge, questa cioè: la fondazione della Casa propria su
basi che mai più non oscillino e crollino, più eminente e più splendida e
più possente che ogni altra del Regno.
Don Cesare è appena uscito dalla minorità, che già occupa l'alto lucroso ufficio di Portulano del Regno; e mentre con successo combatte
contro il Turco nella fruttifera guerra di corso e si travaglia nelle industrie agricole, pensa a crearsi una famiglia propria, togliendo a sposa la
bella Donna Lucrezia Gaetani, vedova... ma, in compenso, di illustre e
rispettato lignaggio, ricca in roba e danaro, e più in senno e nobiltà di
carattere. E con incessante vertiginosa attività cosciente e avveduta, egli
si applica ai più svariati negozj: compra e vende, piglia e dà a prestito danari, fonda Banchi, esercita la industria dei trappeti di cannamele, delle
tonnare, delle masserie, dei vini, dei cereali, degli erbaggi, mentre nel
tempo stesso regge Opere Pie, soccorre alla Corte nei bisogni impellenti
di guerra, disimpegna la carica di Vicario Generale nel Regno, si occupa
con dirittura e sagacità delle pubbliche amministrazioni e degli affari di
Stato; sì che Carlo V lo ringrazia personalmente, gli affida incarichi delicati da sbrigare insieme al Vicerè Don Ferrando Gonzaga, e lo dà come
consigliere ed aiuto a quest'ultimo, cui pur tanto egli stima.
1
Vedi: «Note illustrative e Documenti», VI.
233
Tutto questo non toglie peraltro che Don Cesare non si ritenga dal
manifestare la sua violenta natura e la decisa volontà ch'ei sia rispettato
e obbedito da tutti in tutt'i modi. Per un litigio di confini della prediletta
Baronia della Trabia, egli fa assassinare di pieno giorno, su la pubblica
piazza di Termini Imerese, uno dei Giurati di questa città. Il delitto è
sì enorme, che il Vicerè è costretto a emettere il fuorbando, aprire il
processo criminale e confiscare i beni del Lanza. Ma questi è corso a
raggiungere a Bruxelles l'Imperatore, si è messo al suo fianco con una
Compagnia di cavalli condotta a proprie spese, e valoroso e fedele lo serve nella guerra germanica e nella spedizione su Algeri. E da qui, subito
dopo, torna a Palermo con un rescritto del potente Monarca, che ordina:
«Sia il Maestro Portulano Don Cesare Lanza, nostro diletto, perdonato e
assolto, reintegrato nelle cariche e nel possesso dei beni».
Com'è evidente, Don Cesare è tornato con autorità e potenza cresciute. E queste si accresceranno ancora ulteriormente1.
5. Due figlie, intanto, ha procreato Donna Lucrezia: Laura al 1529,
Giovanna Domenica Costanza al 1531. Ma il desiderato rampollo maschile non c'è, e quasi non ci si conta o spera più, trascorsi come sono
dodici anni dall'ultimo parto. Il Barone della Trabia, certo intimamente
se ne rammarica, perchè ambisce un collaboratore e continuatore della
stupenda opera propria e del Casato. È una disdetta. Ma c'è ben modo a
rimediare. Collaboratore e continuatore ed erede può essere un estraneo
che entri a far parte intima della famiglia, in virtù di legale matrimonio;
e Don Cesare ha la primogenita Laura, un fiore che ormai sta aprendo i
petali fraganti...
Ed ecco subito il prescelto e designato sposo: Don Vincenzo La Grua
Barone di Carini, che ha tutti i desiderabili requisiti; e basterà che venga
tirato entro la propria orbita e sotto la propria abile direzione, perchè si
perfezioni e completi, egli già sì ben indirizzato, e degnamente gli succeda poi a suo tempo.
Don Cesare Lanza e Donna Eleonora La Grua Tocco e Manriquez si
intesero e accordarono subito. La convenienza era reciproca, e, secondo
la ormai abituale usanza, l'unione fu sancita e stabilita pe' due giovanetti;
ai quali, ormai, non resta che a obbedire ai genitori e a dirsene lieti e
paghi2.
1
2
234
Vedi: «Note illustrative e Documenti», VII.
Vedi: «Note illustrative e Documenti», VIII.
E alla prima ora della sera de' 21 settembre 1543, nella gran sala del
sontuoso palagio cittadino dei La Grua, tribus luminibus accensis, co'
soliti riti e consuetudini si stipula il contratto matrimoniale. Il giovanetto
Barone interviene personalmente, cum auctoritate, interventu et expressa voluntate di Donna Eleonora madre e curatrice; la fanciulla invece è
rappresentata procuratorio nomine dal genitore Don Cesare1.
Possiamo immaginare la sontuosità delle feste e delle gale per nozze
così nobili e ricche, e possiamo immaginare l'ingresso trionfale nella
Terra di carini: la nuova Signora, con dote e corredo da sovrana, pigliava
possesso di una Magione e di un Castello degni della sovranità2.
6. Ma, per quanti dieltti e agi e omaggi potesse trovere nel Castello
e Stato di Carini, la signorile giovanissima coppia non poteva appagarsi
di una vita troppo calma, uniforme, monotona, isolata. A poche miglia
di distanza, Palermo, da la sua conca d'oro invitava seducente: Palermo,
capitale e centro e anima di tutta la Sicilia, con la Corte Viceregia, il
fiore della Nobiltà isolana, il lusso, le magnifiche feste che echeggiavano famose pel mondo3. Donna Laura vi è attratta irresistibilemente,
fatalmente, dalla sua alta posizione, dall'indole, dalla bellezza, per troneggiarvi; e ve la troviamo infatti dopo un anno, ad affascinare co' cerulei occhi lampeggianti, il viso lieto, le sottili labbra ridenti, lo splendido collo e la chioma d'oro, le grazie e cortesie, la elegante ricchezza
dell'abbigliamento4.
Adjacenti o propinqui al palagio del Barone di Carini se ne aggruppano parecchi altri magnatizj che formano ornamento dell'aristocratico rione della Kalsa; e a cento passi appena, allo sbocco della via, si
prospetta la grande magione dei Vernagallo, schiusa agli eletti ritrovi,
ai trattenimenti artistici, alle feste suntuose. Si comprende agevolmente
che i conjugi La Grua, data la parentela intima e le cordiali relazioni, vi
pigliano parte attiva ed essenziale. Ma Don Vincenzo, dal virile e serio
aspetto, partecipa come e quanto può alla galante vita cittadina. Perchè
egli si appassiona di più alla caccia del falcone e all'ornamento della
1
Vedi: «Note illustrative e Documenti», IX.
3
Vedi: DI GIOVANNI, Del Palermo restaurato cit., lib. II e IV; - ROCCO GAMBACORTA,
Foro Christiano, f. 194 e segg. (In Palermo, Appresso Gio. Franc. Carrara, MD.XCIIII);
- e Diari della città di Palermo, in DI MARZO, «Biblioteca storica e letteraria di Sicilia»
cit., vol. I e II.
2
4
Vedi: «Note illustrative e Documenti», X.
Vedi: «Note illustrative e Documenti», XI.
235
stupenda villa di Belvedere sopra Carini, e di più si ingolfa attivo negli
affari e nelle speculazioni del socero, di cui ha meritatamente guadagnato la cordiale benevolenza e la fiducia piena; e col socero si interessa alla
vita economica e politica del paese, nei limiti e nei modi che consentono
i tempi1.
In mezzo a tanta prosperità e lietezza e imperio invidiabile, il foschìo
di qualche nube si attraversa, che noi lontani intravediamo attraverso
indizj fugaci di ombra, ma che non possiamo precisare e circoscrivere.
Attriti e liti nascono o ripullulano tra i Vernagallo e i La Grua, a malgrado la familiarità e il paentado; attriti e malcelati livori ed astii tra
i Vernagallo e Don Cesare Lanza; e, più significante ancora, dissidj e
rancori tra Donna Eleonora La Grua e il figlio Don Vincenzo, tra Donna
Lucrezia Lanza e la figlia Donna Laura. A questa, la saggia e diritta
adre, proprio in sul puntop di lasciar la vita e di presentarsi al giudizio di
Dio, infligge uno schiaffo morale, la cui terribilità che ci si svela postuma impressiona seriamente2. E forse in conseguenza di esso (che dovette
essere noto allora e provocare le lingue pettegole a ingrati comenti) la
Baronessa fu costretta a prudente ecclisse; alla quale, probabilmente,
consigliavano anche le finanze domestiche, che, pur affiancate com'erano da tante risoerse, subivano serie scosse da una vita largamente grandiosa e galente. Certo e, che la Signora di Carini ha preso stabile dimora
nel suo Stato e Castello, e in Palermo non fa che fugaci apparizioni per
necessarj bisogni o affari o ufficile rappresentanza3.
Al castello carinese, del resto, non mancano i ritrovi amichevoli, i passatempi, i divertimenti. Ospiti amici da Palermo vi giungono frequenti,
eletti e colti e spiritosi; e coi notabili terrazzani, bona gente e devota ai
prorpj Signori, pigliano parte ai sollazzi familiari, alle gite campestri,
alle dilettevoli cacce alla Foresta, sul monte Saraceno, alla Montagnola,
che fa parte dell'amena tenuta di Dain Asturi. Il Barone, che ama in fondo il quieto vivere ed ha mite animo, così tra' vassalli come in famiglia
governa con mitezza e umanità; e per quanto, in virtù del mero e misto
impero, egli tenga in Vastello gli strumenti di tortura, non risulta che li
abbia mai adopertai4.
Don Cesare Lanza, per sua parte, dilige sempre svisceratamente la
1
Vedi: «Note illustrative e Documenti», VI e XII.
3
Così nell'accompagnamento nuziale alla figlia del Vicerè Don Giovanni de Vega. Vedi:
«Note illustrative e Documenti», XI.
2
4
236
Vedi: «Note illustrative e Documenti», XIII.
Vedi: «Note illustrative e Documenti», X, XII.
primogenita; va a trovarla al Castello, quante volte gli è possibile; e se
pur dubbj ha su di essa, non li dimostra, li cela anzi con carezze e indulgenze; e quanto al genero, palesa coi fatti di amarlo e apprezzarlo sempre
più. Del resto egli, senza pur mai smettere i molteplici privati negozj, è in
questo tempo principalmente assorbito dalle pubbliche cure di Governo,
cui attende con saputa e zelante e indefessa attività. Ambasciatore al
Monarca che lo ha sempre carissimo, Deputato del Regno, Vicario
Generale, Capitan d'Armi a guerra, Governatore dei Bianchi e della
Compagnia di Carità, Pretore di Palermo, per una ininterrotta serie di
anni, caro al popolo e in gran rispetto presso i Reggitori, egli può ben
dire allora che grandeggia fra' suoi pari, che, ammirato e temuto, esercita esteso e incontestato dominio su gran parte della Sicilia. Ma poichè
un animo ambizioso mai si arresta, e altri e valorosi collaboratori e alleati sono utili e necessarj quando si sta in sublime loco, Don Cesare
(essendogli già morta la moglie) con sicuro occhio e giudizio stende la
mano a Donna Castellana Centelles, vedova di Don Girolamo Filangeri
Conte di San Marco, e disposa questa Dama di regale lignaggio, di altissima autorità e pari intelletto, la quale insieme a nuove ricchezze gli reca
la parentela e il valido appoggio di altri potenti dell'Isola, dei Grandi di
Spagna, e sopratutto di Don Giovanni de La Cerda Duca di Medinaceli,
che presto succederà al Vega nel Viceregio Governo di Sicilia1.
7. Siamo al 1563. Venti anni di vita conjugale sono trascorsi pei
Signori di Carini. Donna Laura, pervenuta all'età in cui più rifulge la
matura bellezza, può con orgoglioso compiacimento materno bearsi
de' suoi rampolli, che prosperosi e consecutivi sono venuti dal settimo
anno di matrimonio in poi: Eleonora, Maria, Lucrezia, Cesare, Ottavio,
Tberio, che coi nomi battesimali dimostrano evidente l'attaccamento e il
devoto omaggio dei conjugi a Don Cesare Lanza2. E nel palazzo di Don
Cesare a Palermo trovansi accolte le fanciulle, a ricevervi educazione
e guida sicura da Donna Castellana, poichè l'altra saggia nonna Donna
Eleonora è già morta da cinque anni3. I maschietti invece, teneri e bisognosi ancora delle cure della madre, se ne stanno con questa: e sono
1
Vedi: «Note illustrative e Documenti», VII.
3
Il 3 agosto 1558. Vedi in Archivio di Stato di Palermo: Notai Defunti, Registri di Ricca
Pietro, Anni 1557-59, Ind. I-II, N. 506; - e «Note illustraive e Documenti», XIV.
2
Eccetto quello di Eleonora, che si riporta alla madre di Don Vincenzo, tutti gli altri nomi
appartengono al Casato Lanza, compreso anche quello di Giuseppe, un settimo figlio che,
morto in fasce, figura nell'Albero genealogico, ma non va segnato qui.
237
presumibilmente i beniamini suoi.
Don Cesare Capitan d'Arme a guerra in Catania, comparte tra questa
città e Palermo l'attività sua. Don Vincenzo, al prediletto Belvedere, sorveglia il rifacimento e l'abbellimento delle due palazzine per la famiglia
e della terza (la «Foresteria») per gli ospiti, e con passionata cura attende
alla coltivazione del viridario, al governo dei falconi e dei bracchi. La
quiete àlita intorno al forte Castello, e Donna Laura, la piacente Signora,
indisturbata e liberale spande grazie e soccorsi a' suoi terrazzani...
Quand'ecco, improvviso e inatteso, un fulmine scoppia nel nitido cielo, e l'eco se ne ripercote pel Regno. Un Cronista di Palermo segna questa laconica, nuda e oscura nota: «1563. Sabato a' 4 decembre successe
il Caso della Signora di Carini»1.
8. Il Caso. Ma che Casdo fu mai?
Nè scrittore nè altra memoria del tempo ne dà chiarimento o indizio:
misterioso silenzio si stende intorno, bujo assoluto copre tutto. Segno
evidente, che del Caso non si può e non si deve parlare. Pur, dalla nota
stessa, così come è, queste due considerazioni emergono: Che il Caso
dovette essere sì straordinario e sì noto, che bastava indicarlo con l'anno
e il giorno perchè la memoria precisa ne restasse ai posteri; - Che ragioni
serie di convenienza e di paura fermavano la penna al Cronista, insolitamete qui diventato conciso e enigmatico.
Come sempre accade in simili contingenze, poichè alto e chiaro non
si può paralre, se ne susurra sommesso e in segreto; e le circostanze
e i particolari, col diffondersi ad apersona a persona, si modificano e
contradicono e sformano, per inevitabili reticenze e incertezze e dubitazioni. E così la Leggenda spunta, piglia corpo, abbuja e sostituisce in
gran parte la Storia. Che se poi c'è chi ha interesse e premura a sopprimere questa e dare corso e vitalità stabile a quella, abbigliandola con
indumenti che dànno parvenza di verità, è conseguente che il fatto reale
finisca col perdere la sua faccia e il suo essere, e l'inganno occupi il proscenio e richiami l'attenzione dei più.
Così è accaduto per il Caso della Baronessa di Carini. Circondato dal
silenzio imposto e dal mistero studiosamente creato, doveva dar luogo di
necessità alla Leggenda. La Leggenda, spuntata subito in due forme (la
prosaica e la poetica) che scambievolmente si illustrano e completano, si
diffonde rapida, col favore delle nobili famiglie interessate, degli amici
1
238
Vedi: «Note illustrative e Documenti», XV.
e aderenti, dei terrazzani stessi o devoti o impauriti o ignari. E trascorre
per tutta Sicilia. Qualche anno è appena scorso, e la ferma già nelle sue
carte un nuovo Cronista, con l'aria di chi sa, e vuole specificare e chiarire la nota dell'antecessore: «1563. Sabbato a' 4 decembre. Fù ammazata
la Signora Donna Catarina La Grua, Signora di Carini».
Ma non è tutta, nè al tutto precisa; e bisogna rintracciarla e raccorglierla pazientemente nella tradizione orale del popolo, alla quale hanno pur attinto gli scrittori venuti dopo, intesi a portar luce sul Caso,
che fino al tempo presente «ancor rumoreggia nella Sicilia». Ed eccola
qui, ne' suoi più brevi ed essenziali termini, mettendo da banda alcune
particolari circostanze, minute ma interessanti, su le quali poi più in là
torneremo1.
«Il barone di carini (il nome non si fa mai), assorbito da cure politiche
e militari, poichè egli occupa alte cariche del regno, sta nel proprio palazzo in palermo con la numerosa famiglia; Caterina, la sua figlia maggiore, abita invece nel Castello Carinese in compagnia di una vecchia
congiunta. Fanciulla supremamente bella, ingenua e inesperta, circuita
dal gentile giovane Cavaliere Vernagallo, che come stretto parente ha
libero accesso a lei, è presa da ardentissima passione, e inconsciamente
e fatalmente gli cede; e, accecata dall'amore, rompe ogni freno e legge,
posciachè la vecchia congiunta o non vede o non ha autorità, se pure
compiacente non agevola, contando di far sanare quel trascorso poi, con
regolare matrimonio.
«Le genti di Carini, largamente e generalmente beneficate dalla caritatevole Padrona, chiudono gli occhi e la bocca su la notoria tresca, che
forse in parte compatiscono e scusano prudenti; ma un tristo di frate,
ingrato e invidioso, corre a denunziarla al padre in Palermo. E il padre,
che si vede doppiamente oltraggiato dal Vernagallo, irreconciliabile personale nemico suo e del Regio Governo (poichè parteggia per la faziosa
Messina), ardente d'ira vola notturno con la fida Compagnia di Cavalli al
Castello, e vi scanna inesorabile la figlia, che indarno implora la grazia
della confessione. Luce l'alba di sereno decembre nel momento ch'ella
cade innanzi a una porticina; e sul muro, presso a questa, rimane la
sanguinosa impronta della sua mano, pauroso perenne ammonimento ed
esempio a chi per cieca passione osa maculare l'onore della famiglia.
«Il Vernagallo, scampato a precipizio, si rifugia ne' fondachi di
1
Lascio ancora episodj singoli e particolarità accesorie, che variamente si aggiungono o
modificano da luogo a luogo. La ininterrotta continuità della Leggenda per tre secoli verrà
dimostrata più oltre. Vedi: «Note illustrative e Documenti», XV.
239
Lattarini a Palermo; poi, ad evitare sicura e feroce vendetta, sotto abito fratesco abbandona l'Isola, e pentito e penitente in fine muore in un
Convento di Spagna.
«La madre di Caterina soccombe per la gran pena, tosto dopo l'eccidio. Il padre uccisore, a stornare il ricordo funesto e i fieri rimorsi d'un
delitto mai udito, fa murare e poi riformare il paventoso Castello, e celebra nuove nozze; ma odiato e fuggito da tutti, stravolto nell'intelletto,
si travaglia e logora in continua tremenda angoscia espiatoria per molti
anni, e riescirà così a placare l'ira punitiva di Dio che lo minaccia pur
nei suoi rampolli.
«La vittima è largamente e affettuosamente commiserata e pianta,
proclamata innocente e pura, e caduta... per ineluttabile fatalità.
«La colpa e l'odio per l'inaudito eccidio si riversano interamente sul
malvagio frate, il Giuda delatore».
Ad avvalorare questo racconto, che per tre secoli e mezzo ha raccolto
largo consenso popolare, massime nell'àmbito dell'antico Stato di carini
e nella città di Palermo, l'Archivio gentilizio di Casa Carini mi forniva
queste importanti notizie: Che dal matrimonio celebrato al 1543, tra il
Barone Don Vincenzo La Grua e Donna Laura Lanza, erano nati otto figli, tra cui Caterina, che veniva subito dopo il primogenito; - Che questa
dimorava al Castello, mentre il padre stava abitualmente nel palazzo di
Palermo; - Che la madre Donna Laura moriva tre mesi dopo il parricidio, nel marzo 1564; - Che il barone passava a seconde nozze con Donna
Ninfa Ruis, a 21 di ottobre dello stesso anno; - Che appunto nel corso di
quest'anno eransi fatte le riforme edilizie al Castello; - Che, infine, lunghe liti di interessi c'erano state fra le due Case Vernagallo e La Grua,
pur essendo legate da stretta parentela.
E a sua volta, l'ultimo superstite dei Vernagallo, Don Francesco Paolo
Principe di Patti, spontaneo mi presentava l'originale testamento (del 29
settembre 1582) di Don Vincenzo Vernagallo, morto monaco sacerdote carmelitano a Madrid, e già «amante amato di Donna Caterina La
Grua»1.
E parvemi, allora, che la verità storica del Caso fosse in gran parte
scoperta.
Se non che, a prescindere dalle lacune e omissioni che non mancai di
notare nei volumi dell'Archivio Carini, e dalle reticenze e frasi evasive
1
240
Vedi: La Baronessa di Carini ecc. nella mia seconda edizione, pp. 62-79, 181-184,
186-197; e «Note illustrative e Documenti», V e VI.
del Principe di Patti1; a prescindere dagli esquilibrj e dalle crepe e rintonacature che si dimostravano nell'edificio della Leggenda2; a prescindere
da questo, a me dava dubbj e perplessità un altro tradizionale racconto
che, di pari passo col primo, con uguale consenso e uguale tenacia e
uniformità veniva ripetuto per tuttoi l'antico Val di Mazzara e anche nel
resto dell'Isola.
Esso dice:
«La bella Baronessa di carini, in Palermo, nei ritrovi nobileschi e nei
balli dimostra con poca prudenza che molto le piace la vita galante e la
intimità co' giovani Cavalieri. Il padre, rigido custode dell'onore proprio,
non potendo lasciare la Capitale del Regno ove occupava alte cariche,
relega la figlia al Castello, affidandone la custodia a una vecchia zia. Ma
il Castello dà invece maggiore opportunità e libertà alla lussuriosa giovane. Il Vernagallo, Cavaliere elegente e fino maestro nelle arti d'amore,
con la sua assidua tenacia vince e domina la fascinante cugina, cieco
abbandonandosi con essa entro alla vorace fiamma erotica. Al Castello
egli viene tutte le notti su poderoso destriero, dalla sua vicina proprietà
di Dain Asturi.
«La tresca dura indisturbata e felice più anni, e la Baronessa ha già
messi al mondo tre maschietti, che audace e con la connivenza della zia
tiene presso di sè nel Castello. Lo scandalo è pubblico; ma il silenzio ella
compra con larghi doni e favori d'ogni sorta, sì che al padre nulla è trapelato della sregolata sua vita. Ma poichè cecamente ella giunge a osare di
tenersi l'amante in Castello anche di giorno e uscire per la Terra con esso
e coi figli, se ne indegnano i frati del prossimo Convento Carmelitano
ed uno di loro va a riferire al genitore in Palermo le turpitudini che insozzano il Castello.
«Il Barone, con la sua Compagnia, cavalca a furia notturno per Carini,
circonda il Castello, trafigge di sua mano la figlia; da un Compagno fa,
invece, scannare il Vernagallo con pugnalate alle reni, come spregevole
e vigliacco paltoniere che tentava fuggire in quel supremo istante, senza
neppur far mostra di voler difendere la debole amasia e sè stesso.
«I due cadaveri il Barone fa buttar su la via, perchè servano di pasto
1
2
Vedi: La Baronessa cit., a p. 78, e «Note illustrative e Documenti», V e VI.
Mentre si piange e loda la ingenua e pura fanciulla, morta innocente per ineluttabile
fatalità che l'ha travolta in pochi mesi di viva passione, poi costantemente essa è detta
Baronessa, Signora, donna, galante Dea, che da tanti anni si fa gioco dell'amore, ecc.
241
ai cani; ma il buon sagrestano, sfidando per pietà l'ira del suo Signore,
li cala di notte nella comune fosse della Cura. E così ancora, all'ordine
perentorio che i tre innocenti figli della colpa siano abbandonati su' gradini della Parrocchia perchè mojano d'inedia, contravviene la generosa
compassione d'una popolana, che con gran rischio li nasconde e nutrica
nel proprio tugurio.
«Il parricida, fatta con la mano insanguinata la impronta su la parete
della stanza che vide l'eccidio, per ammonimento minaccioso ai nepoti
futuri, chiude il Castello e va via errabondo. Ma dopo molti anni di atroci rimorsi e delirj di pazzia, vi ritorna pentito e penitente; fa rinnovare e
rabbellire le sale, e vi accoglie amoroso i tre figli già rejetti, recuperandoli dalla buona massaja che li salvò. ma nè questo tardivo pentimento
nè questa espiazione sono sufficienti a dargli salvezza, a stornergli la
incombente maledizione e punizione divina che immancabilmente si
stenderà su lui e fin sugli ultimi suoi rami: non c'è perdono mai per certi
delitti!».
Ecco dunque due versioni della Leggenda, conformi nel fatto nucleare del parricidio per fallo d'amore e in alcune circostanze, difformi anzi
divergenti e contrarie nel resto.
La prima, benigna, attenua la colpa, la scusa, la rende meno repugnante e infamante riducendola a una giovanile ordinaria scappatella
riparabile e perdonabile; e conseguente commisera e piange la fanciulla
fatalmente caduta, per la quale ha le più tenere e calde espressioni1; e
ugualmente redime e perdona anche l'amante; e quanto al parricida, pur
colpendolo con roventi rimprocci, lo invita alla espiazione che può scansare la pena a lui e alla sua progenie; solo al frate Giuda dimostra odio
implacabile.
La seconda versione, invece, scopre e divulga disonestà indegne di
nobili Case, impavida e inesorabile accusa e condanna la peccatrice e
il suo complice, il padre assassino e il Giuda, e fino i Carinesi, ingrati
e sordi al grido di soccorso: tutti, insomma, gli attori che figurano nel
fosco dramma. Essa rappresenta, si può dira, la coscienza dell'onesto
popolo che non transige, che insorge, e cruda ma giusta pronunzia il
collettivo verdetto.
Da che parte è la verità? A stabilire questo, occorre non solamente
l'acume della critica e della ragione, ma e sopratutto la luce dei docu1
242
La Baronessa è dannata all'inferno, è vero, ma non per l'amore, che anche ivi la domina ed
esalta, bensì perchè morta non confessata, per colpa del padre.
menti: arduo lavoro, date le circostanze speciali e le persone tra cui si
svolge il Caso, e dati i risultati delle mie prime ricerche negli Archivj
gentilizj. Ma gli ostacoli non sono insuperabili.
9. È certo, che una tradizione non si conserva presso il popolo, costante attraverso i secoli, quando non ha fondamento sicuro e giuste ragioni.
È certo ancora, e sufficienti prove non mancano, che il popolo è storico
memore e veritiero nelle sue orali tradizioni, giustiziero severo ma equanime delle umane vicende e degli uomini. Costretto da peculiari condizioni e violenze, può fino a certo punto attenuare il proprio sentimento e
giudizio, far velo in certo qual modo alla verità; ma la verità non la tradisce, non la sepellisce, e chetamente, istintivamente, irresistibilmente, le
fornisce luce ed aria perchè viva e dia sentore di sè, perchè un dì o l'altro
trovi mezzo per venir fuori libera e più salda che mai.
Ora, riguardando alla Leggenda, che la tradizione conserva sul Caso
della Signora di Carini, vien subito fatto di osservare che, nella prima
versione, essa ha una veste che potremmo dire ufficiale, una livrea imposta, che mantiene quasi esclusivamente in determinati luoghi, in quelli
appunto che fino a ieri furono sotto il dominio assoluto delle Famiglie
baronali coinvolte nel Caso. Oltre alla incerta saldezza e logicità della
sua costituzione, essa poi col suo svolgimento ci dimostra un effetto catastrofico eccessivo, sproporzionato alla modesta causa. Nella seconda
versione, per contra, che conservano di preferenza le genti che non hanno
avuto relazioni di vassallaggio con le dette Famiglie, e però indipendenti
pur nel giudizio, la Leggenda procede per via ordinata e serrata, e sostituendo la donna madre e corrotta cronicamente alla fanciulla ingenua e
inesperta, ci fa apparire più ragionevoli e giustificati l'atroce parricidio
e le consecutive inesorabili punizioni su' delinquenti tutti. Il Caso, in tal
modo, ci si presenta più naturale, più vero.
E pertanto è da prestar fede alla seconda versione della Leggenda e
ad essa attenersi, pemnprechè si possa (come ho detto) roborarla e provarla co' documenti, distruggendo e spiegando quegli altri, che già mi
ritennero su torto cammino deviante dal vero.
Di insperato successo, superiore alla espettazione e ai desiderj miei,
sono state coronate le mie nuove ricerche, lunghe, pazienti, ostinate, non
più limitate a particolari Archivj e volumi e negli angusti confini degli
anni che attorniano il 1563, ma estese agli Ufficj di Governo (men soggetti a manomissioni e alterazioni), a ogni sorta di pubbliche e private
243
carte e per un periodo di tempo che abbraccia due terzi del secolo. E
posso, ora, dimostrare che la verità, intera e precisa fin nelle minute
circostanze, ci è stata conservata dalla tradizione, e che ben più terribile
che questa non dica ci è svelato il Caso, per la sua diabolica macchinazione ed esecuzione e prima e dopo il mefasto 4 decembre, sì che ben
a ragione commosse e atterrì tutto il Regno e «ancor oggi rumoreggia
nella Sicilia».
10. Rifacciamola questa storia, truce e mostruosa qual essa fu, ritorniamola a quel vero che si volle con tutt'i mezzi sfigurare e abbujare e
seppellire, ma che visse cultivato nella coscienza e memoria del popolo,
e integro e vogoroso e radioso risorge ora dopo tre secoli e mezzo.
La vita galante e lussureggiante della Baronessa di Carini, bruscamente interrotta in Palermo (come abbiam visto), si continuò al Castello,
con più cautezza forse ma con folle pertinacia, perchè la donna che stende il piede su lo sdruccilo del mal costume non sa o non vuole o non può
più ritrarnelo. Nè, tale vita, potè passare inosservata alle famiglie paterna e maritale; e avvertimenti e ammonizioni e rabbuffi dovvettero certo
correre, che la proterva Signora pigliò a gioco, com'è evidente. Spasima
ella per Don Ludovico Vernagallo, il primogenito di Don Alvaro. Con
lui, gentil Cavaliere come tutti di sua progenie, entrò in rapporti d'amore
forse ne' deliziosi ritrovi e trattenimenti di Palermo; ma ora, scapolo
tuttavia ad inta de' suoi trentun anni1, l'ha assiduo gratitissimo frequentatore per più anni al Castello, fornendone occasione e pretesto la parentela e l'azienda sociale delle cannamele2. Montelepre, la possessione
di Don Ludovico, non dista che poche miglia da Carini; e la scorciatoja
montana, che vi adduce per il Passo di Gallina, il cavallo stornello del
passionato Don Ludovico la può correre in mezz'ora.
Gli amanti si abbandonano alla dolce felicità, in apparenza sicura. ma
la sicurtà, per un intrico d'amore che si vuole celare, costa cara: e ben
molto devono ever sperperato Donna Laura e Don Ludovico, se guardiamo ai debiti che accumulavano. Però c'è chi vigila e medita sopra essi:
chè non siscerza con l'onore di due Case tanto eminenti e reputate, con
uomini che portano il nome di Don Cesare Lanza e di Don Vincenzo
La Grua; il primo sopratutto, che sappiamo già che valesse, e che animo
1
2
244
Il fratello cadetto, Don Ermilio, era già sposato da varj anni.
L'azienda sociale apparteneve per un quarto ai La Grua, per un quarto a Don Alvaro
Vernagallo, e per metà al fratello di lui Don Ludovico. Vedi, nell'Archivio di Stato in
Palermo: Notai Defunti: Ricca Pietro, Registri, A. 1557-59, Ind. I-II, N. 506, a f. 269.
avesse.
Padre e marito sì sconciamemte oltraggiati, in perfetto segreto accordo e con deliberata volontà hanno già studiosamente escogitato e tramato
un ordito, una macchinazione infernale, che sicuramente e interamente
s'ha a compiere.
Lo sappiamo già: Don Cesare e Don Vincenzo, in impreteribili gravi
cure trovano ragione di tenersi lontani dal Castello: circostanza, questa,
sommamente propizia, ma insidiosa, che tira i due amanti a avere meno
cautezza, a restar insieme più lungamente, ad accomunare il letto e le
follie d'amore. Ma se Donna Laura e Don Ludovico si tengono sicuri del
servitorame, complice necessario e interessato in simili casi e che difficilmente tradisce; se possono contare su discrezione dei terrazzani beneficati ed alieni dal mischiarsi negli intrighi e nelle brighe dei Signori; se
si trovano liberi fin anco da' curiosi indagatori sguardi delle tre figliole
già grandicelle, perchè stanno presso la nonna in Palermo; non sono
ugualmente sicuri e liberi dalla ignota spia ch'essi non sanno di avere
attorno,dalle compre investigazioni d'un malvagio frate, che insospettato
e con umile santimonia si insinua nel Castello e nell'animo fidente di
essi, che indaga e conosce tutto1.
Don Vincenzo, e per rispetto alla sua prole e allo Stato che personalmente governa, e per la sua indole mite flemmatica e bonaria, deve
restarsene inerte e inconsapevole; Don Cesare no, poichè porta la sua
orgogliosa risoluta e violenta natura, la sua abitudine alle stragi. Egli
solo basta, ora: verrà, dopo, la parte di Don Vincenzo2.
Avvisato notturnamente in Palermo dal frate Giuda, Don Cesare, con
la sua Compagnia di cavalli che ha sempre sotto mano, è in due ore a
Carini e sul far dell'alba ha già circondato il Castello: e subito dopo ha
compiuto l'orribile eccidio. Il dì stesso, il Cappellano segnava nel libro
parrocchiale: «A dì 4 Dicembro vij Indictionis 1563. Fu morta la spettabile Signora Donna Laura La Grua. Sepeliosi a la matrj ecclesia...
Eodem. Fu morto Ludovico Vernagallo»; e pietosamente segnava a canto ai due nomi quella Croce, che la pia consuetudine del popolo tributa
agli spenti di morte violenta sul posto dell'eccidio e che in quell'esecrando Caso non potè tributare3.
1
Vedi: «Note illustrative e Documenti», XVI.
3
Vedi: «Note illustrative e Documenti», XVII.
2
Vedi: «Note illustrative e Documenti», V.
245
11. Giustizia è fatta!
Ma non è compiuta. Quel Caso è dragunara1 che ruina e travolge
nel fango due stirpi, due nomi, che splendono e suonano altamente nel
Regno; e ciò non è ammissibile, ciò non è comportabile, ciò non deve
essere. Bisogna, quindi, riparare. E il riparo viene immediato, poichè
anch'esso era evidentemente previsto e prestabilito.
Le note genealogiche ne' Registri gentilizj di Casa La Grua, subito
dopo il Caso, vengono manomesse con strappi delle carte, con alterazioni, con rifacimenti; nel rifatto volume, destinato a sostituire l'originario,
si scrive di Donna Laura Lanza: «morse a... marczo vij indictionis 1564»;
l'Albero si rifà, e una Caterina, che per lo innanzi non c'era, spunta e si
aggiunge come prima delle figlie di Don Vincenzo. E allora al mondo si
fa sapere e intendere, che la vittima del 4 decembre non è già la Signora
di Carini, la quale è viva e sana in mezzo a' suoi, bensì Donna Caterina
sua primogenita, una fanciulla ingenua che per inesperienza ha commesso scusabile errore, e «fu morta» a torto, innocente, per eccesso d'ira che
momentaneamente offuscò la ragione del padre. Fu un giovanile errore;
e un giovanile errore, per quanto deplorevole e doloroso, non adombra
l'onore della Casa, che rifulge e rifulgerà sempre come prima2.
Ma intanto che al mondo si dice e si accredita questo, Don Cesare e
Don Vincenzo compiono inesorabili la concertata feroce opera di vendetta contro chi osò oltraggiarli nell'onore, aggravando lo sfregio con
l'abuso della fiducia di congiunto e di socio. I vecchi dissidj ed astii e
livori, rinfocolati, son divenuti odio inestinguibile, cui il solo sangue di
Don Ludovico non basta ad attuire: bisogna colpire Casa Vernagallo,
tutta: umiliarla e schiacciarla; e con inaudita prepotenza e violenza i due
Baroni raggiungono l'intento.
Di Don Alvaro Vernagallo, l'infelice padre, non è a dire. Avvilito, sfinito per angoscia e per paura, si è sottratto alla vista di tutti; e il solo atto
che compie, per istinto di conservazione in pro' del superstite ed egro suo
Ermilio, lo compie segretamente dentro il Convento di Dant'Agostino in
Palermo, 46 giorni dopo lo scempio di Ludovico. Rivendica a sè i beni
di questo, per passarli ad Ermilio: ma entro a quelle nude righe si sente
cupo il gemito represso di un'anima trafitta che sotto il velame oscuro
delle parole dispositive affida speranzoso al tempo ed agli eredi la sola
piccola vendetta cui può aspirare. Ma pur troppo, anche il tempo e gli
1
2
246
Dragone, tromba marina.
Vedi: «Note illustrative e Documenti», XIV.
eredi non gliel'hanno concessa, questa vendetta1!
Sopra il tronco principale il colpo cade con meno rumore, ma secco,
inumano. Don Ludovico I, il solo che avrebbe saputo tener testa agli avversarj nel fiero incontro, era morto a' 3 do settembre 1556; Don Mariano
II e i fratelli non hanno ancora forza ed autorità sufficienti e, spontanei
o forzati, si sommettono alla sopraffazione. E così, Donna Caterina,
l'ultima delle sorelle Vernagallo, prediletta e beneficiata dello zio Don
Alvaro, presta il nome e l'età alla neocreata immaginaria Caterina La
Grua, e funge da vittima nel caso; Don Vincenzo, il terzo dei fratelli, che
giusto allora vestiva la tonaca del Carmelita e partiva per Roma, donde
poi trasferivasi in Ispagna, assume la personalità dell'innamorato audace
e imprudente pur allora sì trucemente soppresso, e si adatta alla parte di
perseguitato e salvato in loco sacro e immune2.
E, a salvar meglio le apparenze e ad abbujare l'occorso, i Vernagallo
sopprimono nell'Albero di Famiglia il misero divulso ramo di Don
Alvaro, e di faccia al mondo ostentano di conservare la relazione di benevole parentado e la frequenza con Don Vincenzo La Grua, e più in là,
perfino con i figli di Don Cesare3!
12. E si va oltre ancora. Poichè la Baronessa di Carini è detto che è
viva e sana, occorre che nel Castello la vedano i terrazzani tra i soliti
ospiti amici e tra' figlioli. E così il Barone ai 28 d'aprile 1564 vi mostra
tra le feste la nova moglie, che porta, è vero, il nome battesimale di
Donna Nonfa Ruis, ma che, secondo l'uso dei Titolati, ella non è che
«la Signora e Baronessa di Carini»4. A completare il trucco, su l'Albero
gentilizio (dal quale è scomparso il nome di Donna Laura Lanza) a canto a Dopn Vincenzo è segnata la conjuge Donna Ninfa Ruiz, e sotto, la
prole: otto figlioli, inclusa la supposta Caterina! È il colmo! Ma non si
1
2
3
4
Montelepre, la bella proprietà del Vernagallo, ingrata spina infilzata nel fianco della
Baronia di Carini, fu dai La Grua intensamente desiderata e pretesa. Don Alvaro impone
che non venga distratta nè desintegrata, e, in caso di inadempimento, passi a Luoghi Pii.
Ma obliata e violata questa disposizione, Montelepre va in mano proprio ai Signori di
Carini, dopo! Vedi: «Note illustrative e Documenti», XIX.
Anche Don Vincenzo, benchè religioso, è con specialità riguardato nel testamento di Don
Alvaro.
Vedi: «Note illustrative e Documenti», Vi, XXI.
Nel rifatto volume della Genealogia il matrimonio con la Ruis porta data de' 21 ottobre
1564; ma questa data, che pensatamente fu segnata perchè non urtasse troppo con quella
vicinissima della morte della Lanza, è veramente la data di ratifica del matrimonio. Vedi:
«Note illustrative e Documenti», XVIII.
247
supponeva, dipingendosi qiell'Albero novo, che la Ruis sarebbe venuta a
morte appena dopo un anno, durante il quale (come nota la Genealogia)
«non fece figli»1!
E intanto, anche il Castello ha indossato veste nuova per la circostanza; chè il Barone l'ha fatto rimbellire, v'ha fatto turare usci all'interno,
mutare le disposizioni delle sale, spostare la porta d'ingresso su corte e
apporre al sommo di essa, come espressione dell'animo suo, una gran
lastra marmorea con le cubitali parole: ET NOVA SINT OMNIA2.
ma siccome la epigrafe si integra con la prima parte (Recedant vetera)
che è stata omessa ma si suppone, così è logico e necessario che l'antico
si cancelli del tutto, in tutt'i modi. E il Barone risolutamente, subitamente lo cancella nei «Capitoli del matrimonio» dei 28 di aprile 1564:
«Lo ditto Signor spuso fa donationi irrevocabili inter vivos a li figli, che
naxiranno del presente matrimonio, di tutti li beni stabili, renditi, mobili, joyi, oro, argento, scavi, cavalli, et di lo loco di Belvidiri a Carini et
di la Casa grandi in Palermo con la Casa collaterali, nomi di debituri,
dinari, raxuni et attioni presenti et futuri, tanto proprij quanto hereditarij
di la condam Signora Donna Aleronora matri del detto Signora Baruni»;
riserba però la dote di pareggio e la quota di dote materna alle figlie
Eleonora, Maria, Lucrezia, ed onze 800 a sè «per la anima sua»3. Comìè
chiaro, tutto è irrevocabilmente donato; ma mentre le figlie vengono legittimamente riconosciute, i tre maschi sono rejetti senza misericordi e,
senza neppur essere nominat, implicitamente considerati aduletrini. E
si noti, menzionandosi a proposito di quote dotali «la quondam Signora
matri» delle tre fanciulle, di essa madre non si fa il nome mai.
Morta la Ruis, tornavasi allo stato imbarazzante di prima. E però, a
rimediarvi, si ritorna a novelle nozze; e la novella Signora che viene al
castello è Donna Paola sabia, per la quale a 11 marzo 1566 si rinnovano
identicamente i «Capitoli» già stipulati con la Ruis: i figli, ritenuti adul-
1
2
3
248
Vedi: «Note illustrative e Documenti», V e XIV cit. La sterilità di Donna Ninfa è certificata dall'atto di restituzione di dote (per parte del Barone di Carini) del 20 gennaio 1567, ove
è detto di lei: «morta et defunta fuisset nullo per eam condito testamento et absque filijs»
(Arch. di Stato in Palermo: Notai Defunti: Acchipinti Antonino, Registri, A. 1565-67. Ind.
IX-X, N. 3728).
Vedi: «Note illustrative e Documenti», X e XII.
Vedi: «Note illustrative e Documenti», XVIII.
Alla Eleonora, primogenita prediletta, faceva una assegnazione privilegiata di diecimila
fiorini, oltre al regalo dei ricchi giojelli della nonna.
terini, rimangono pur sempre rejetti e pensatamente obliati1.
Ma, contro ai propositi e alle speranze, anche Donna Paola è sterile:
l'ambìto legittimo erede è svanito, e l'antica sì nobile Casa pericola di
estinguersi nella linea diretta maschile. Può ripararvi solo un provvedimento, che al Barone repugna al massimo grado: il riconscimento di
Cesare, primo de' maschi, come figlio legittimo. Ma qui interviene, conciliativa e insistente, la voce degli amici, di uno in ispecie che ha sapere,
probità, valore, autorità grande, ed è insieme stretto parente al La Grua:
Don Vincenzo Del Bosco, Conte di Vicari2. Gli argomenti addotti all'uopo, più o meno efficaci e persuasivi, si possono supporre; certo è questo,
che a 2 agosto 1573, con l'intervento del Conte, il Barone di Carini e «lo
Signor Don Cesare La Grua Tocco et Manriques suo figlio primo genito
et indubitato successuri» firmano i Capitoli dell'Accordio, per i quali
a quest'ultimo il Barone «dona, relaxia et concedi tutta la Baronia di
Carini» con tutti i beni stabili e mobili «cum omnimoda potesta civili et
criminali», con tutti i proventi e lucri, onori e oneri...; ma... ci sono i ma:
egli personalmente «si riserva lo dominio et possessioni»; e che «decto
Signor Don Cesare hagia et digia stari a la volunta et obedienza tancto
di detto Signor di Carini quanto ancora dello Illustrissimo Signor Conte
di Vicari»; e che inoltre «habia di assistere in decta Terra di Carini et
di quilla non si partiri senza expresso ordini et licencia di decto Signor
Don Vincencio La Grua Signor di Carini suo padre, et non altramente nè
per altro modo, et partendosi senza la licencia predicta, ipso jure et ipso
facto si intende exposseduto di decta Baronia», e i Capitoli tutti restano
cassi, irriti e nulli3.
Ad onta che il giovanetto Don Cesare, animo ricco di bontò e di lealtà, si fosse docile piegato ai voleri tutti del padre, rigettando perfino
(come dal testo di sopra si vede) il cognome della madre spettantegli
per diritto e dovere e assumendo quello della nonna, i Capitoli eran già
lettera morta sin da questo momento: egli non è che un fantoccio pri1
2
3
Vedi: «Note illustrative e Documenti», XVIII.
Don Vincenzo, ne' due matrimonj resi necessarj per quello che abbiam detto, procedette
con occhi aperti, a quanto pare. Donna Ninfa era una buona ragazza, modestamente vissuta accanto alla madre: non conosciamo altro. Di Donna Paola, invece, una delle più belle
dame di Palermo, ci risulta ch'era modesta, laboriosa ed economa donna. Vedi: «Note
illustrative e Documenti», IX e XVIII.
Intorno a Don Vincenzo Del Bosco, vedi: DI GIOVANNI, Del Palermo restaurato, lib. II,
pp. 337, 375, 405-406, vol. X della «Bibl. stor. e lett.» cit.; - e Vedi: «Note illustrative e
Documenti», XX.
Vedi: «Note illustrative e Documenti», XX.
249
gioniero, niente altro1. L' «Accordio» a 16 settembre dell'anno seguente
viene ratificato per atto pubblico, redatto e giurato in loco sacro2; viene
seguito, a 5 maggio 1575, dalla pubblica solenne donazione «mera pura
simplex et inrevocabilis inter vivos», la quale per la prima volta riconosce il giovane come «dilettissimo primogenito legittimo e naturale»3;
viene rinnovato ancora il 30 luglio 1578, dopo che Don Cesare ha sposato la dodicenne Donna Angela del Bosco figliola al Conte di Vicari,
allora Pretore di Palermo4; e poi ancora rifatto e ratificato a 22 novembre
1582; ma mi risulta che, ad onte della perfetta legalità di questi solenni
atti, esso mai ebbe reale esecuzione, se non dopo il 22 marzo 1592, giorno della morte di Don Vincenzo, in grazia della quale Don Cesare potè
finalmente investirsi e dirsi Signore della Baronia5.
Nè meno efferato e spietato è il trattamento che ricevono i cadetti
Don Ottavio e Don Tiberio.
Tenuti in Castello come carità e opera cristiana di misericordia, non
hanno che «li alimenti necessarj». Solo negli ultimi anni di sua vita il
Barone si mostra più umano, nelle apparenze. Comparte e cede ai figlioli la dote della madre loro, e lascia allora che nei pubblici atti si nomini
questa e si dichiari che essi sono legittimamente nati e procreati «ex eo
et condam illustre Domina Donna Laura La Grua et Lancea olim eius
prima uxore». Ma anche questa partizione e cessione di dote materna,
pei due cadetti è una lustra. Don Tiberio allora è già frate dei Minori
Osservanti, e i suoi diritti e ragioni reali e personali presenti e futuri ha
già ceduti allo zio Don Ottavio Lanza, Conte di Mussomeli, che col cognato Barone di Carini ha pur sempre relazioni d'affari e partite da liquidare; e Don Ottavio, benchè sposato, ha fatto già precedente donazione
1
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Il secondo cognome di Lanza, Don Cesare avrebbe dovuto portare per diritto ereditario
materno; ma, per condizione impostagli pel riconoscimento di leggittimo successore alla
Baronia, si vede ch'ei dovette rigetarlo e assumere quello di Tocco e Manriques, che era
della nonna Donna Eleonora. E lo conservò ufficialmente per tutta la vita. Anche i cadetti
Don Ottavio e Don Tiberio lo assunsero ugualmente.
«Apud stancias venerabilis Conventus Sancte Marie Montis Calmeti hujus terre Careni»,
dice l'Atto.
Sì, «filium delectissimum primigenitum legitimum et naturalem» lo dice l'atto di donazione; ma intanto sopprime (e non a caso) la formola rimanente, necessaria e mai omessa in
simili casi: «natum et procreatum ex ipso et ex domina..., eius uxore».
Il matrimonio celebravasi a 24 maggio 1578 «apud Cameram Hospitij Universitatis hujus
Urbis», cioè, nel Palazzo Municipale di Palermo, ove il Pretore aveva dimora con la famiglia per il tempo che teneva l'alto ufficio. Vedi, nell'Archivio di casa Carini, il Volume
I (1574-1578) della Possessione, al f. 448.
Vedi: «Note illustrative e Documenti», XX.
alla sorella Donna Eleonora della quota materna a lui spettante1!
13. E Don Cesare lanza?
Lo abbiamo un po' lasciato da parte, ma non lo abbiamo dimenticto il
principale artefice e attore del dramma.
Compiuto l'eccidio, Don Cesare, per quanto d'anomo indurito e avvezzo alle stragi, dovette rimenere atterrito del prorpio eccesso. Castigo
umano non teme: della impunità è sicuro. Chi oserebbe aprir bocca o
levar la mano contro di lui? Nessuno è da tanto in Sicilia, o per paura o
per convenienza o per parentela. Solo il Vicerè potrebbe processarlo. Ma
il Vicerè Don Giovanni de La Cerda, incline per natura e uso a darsi bel
tempo e feste coi Signori che accarezza e protegge, in questo momento si
affanna e dibette tra serj grattacapi dello Stato, tra la carestia e le rivolte,
tra grandi e pericolose brighe che gli dànno il terribile corsaro Dragut e i
banditi che audaci lo sfidano fin presso alle città e fra' suoi Alabardieri2.
E poi, oltre all'essere devoto amico e congiunto di Don Cesare, come può
mettersi contro di lui giusto quando il Re lo premia, elevandolo a Conte
di Mussomeli, e lo loda per le benemerenze, la fedeltà e l'affetto che lo
legano alla Corona? Invece di processare, Don Giovanni de La Cerda si
affretta, invece, a «esecutoriare» nel Regno le regie Lettere3.
Ma impune, ma sicuro non è e non può essere Don Cesare di fronte
alla propria coscienza. E nell'intimo di questa noia leggiamo, guardando
agli atti esterni di lui. Quest'uomo, che per quai mezzo secolo non ha
posato un sol giorno, svolgendo la sua straordinaria indefessa attività in
ogni campo; quest'uomo, ch'è vigoroso ancora di corpo e di mente ed è
pervenuto all'apogeo della potenza e della riccehzza, sua costante ambizione; quest'uomo, dico, dopo il fatale 4 decembre si arresta d'un tratto,
posa, tace, s'invola dagli uomini e dal mondo.
Don Cesare Lanza non è più quello. Ei vuole, ora, non vedere e non
essere visto, non udire e non essere udito, dimenticare ed essere dimenticato. Nella carica di Regio Portulano gli è subentrato Don Ottavio
1
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3
Vedi: «Note illustrative e Documenti», XX, e il Volume K (1579-1582) della Possesione,
ai ff. 367, 385, 573, 582, 588, 622, nell'Archivio di Casa Carini.
Vedi: Lettere Viceregie e Dispacci Patrimonili, A. 1563-64, Ind. VII, vol. N. 502, pp.
1,13,14 v., 83, 108 v. ecc. nell'Archivio di Stato in Palermo, Tribunale del R. Patrimonio, e
vol. N. 503, pp. 2, 15 v., 20, 39, 83 v., ecc. ecc.; - DI GIOVANNI, Del Palermo Restaurato,
lib. IV, pp. 164 e segg.; - GAMBACORTA, Foro Christiano cit., P. IV, Cap. II, f. 394; - e
«Note illustrative e Documenti», VII, 7.
Vedi: Protonotaro del Regno: Processi d'Investitura, Busta N. 1539, Proc. N. 2899,
nell'Archivio di Stato cit. a f. 12 e segg. - e «Note illustrative e Documenti», VII.
251
Spinola, in quella di Capitan d'Arme a guerra in Catania, Don Francesco
Santa Pau1. Nella Capitale ei non si trova più. Le sue vestigia trovo appena nella solinga remota Mussomeli dapprima, per l'esercizio di qualche
indispensabile atto padronale; poi alla Trabia, nel cui Castello ei permane, poco o nulla curante e della Baronia e della Contea; e a 27 giugno
1567, non appena il figliolo Don Ottavio ha attinta l'età idonea, si spoglia
d'ogni potere, facendo a lui solenne e irrevocabile donazione de' beni e
de' titoli come a suo legittimo successore2. Pur, quando la peste flagella
con terribile strage Palermo, l'istinto dela conservazione lo scuote e richiama a sè, ed egli invoca ed ottiene dal Reggitore poteri eccezionali di
Giustizia nella sua Terra «per evadere dal morbo contagioso»3.
In tal funesta occorrenza egli si volge anche al solo con cui (fatto
significante) mantiene e coltiva rapporti cordiali, al Barone di carini, e
gli manda larghi doni su quattro mule. E le sue lettere onotizie recate dai
mulattieri dovettero essere tali, forse, che in risposta, insieme a un ben
preparato regalo di ricambio, si invia a lui una letera che chiaramente
ha lo scopo di distrarlo, di sollevargli e rallegrargli l'animo oppresso e
impaurito e la ragione malferma. La lettera, passata inosservata sin qui,
ma molto interessante e dimostrativa al caso nostro, è scritta da un poeta
bizzarro, un bell'umore colto e mondano che spiccava allora tra gl'ingegni siciliani, Mariano Bonoscontro, amico intimo di vecchia data della
Casa Lanza e La Grua4.
Ma il colosso, che pur sgretolandosi ha potuto resistere ancora per
un pezzo, alla perfine va giù. Nel Libro parrocchiale di San Giacomo
La marina di Palermo, sotto la data del 16 marzo 1580 è scritto: «Si
oliao5 lo Illustrissimo Signor Don Cesare Lanza»; e più sotto, dopo
cinque successive annotazioni: «Eodem. Fu sepellito in Sancta Cita lo
Illustrissimo Signor Don Cesare Lanza».
E niente più. Il ricco e strapotente e stimato e temuto Barone, Corsaro,
1
2
3
4
5
252
Vedi: Lettere Viceregie e Dispacci Patrimoniali cit. vol. ai ff. 21 v. e 166, in Archivio di
Stato cit.
Vedi: Protonotaro del Regno: Processi d'Investitura, Busta N. 1539, Proc. N. 2899, a f. 2,
in Archivio di Stato cit.
Vedi: Privilegi della Famiglia Lanza, alle pp. 483-485, nell'Archivio di Casa Trabia; - e
«Note illustrative e Documenti», XXI.
Vedi: «Note illustrative e Documenti», XXI.
Da questa lettera, in contrasto allo stato d'animo di Don Cesare apparisce apparisce lo
stato d'animo di Don Vincenzo, tranquillo, godente di amichevoli conversazioni e allegri
desinari. Don Vincenzo non ha lorde di sangue le mani.
Ricebette l'olio santo.
Portulano, Capitan d'Arme, Vicario Generale, Ambasciatore, Deputato
del Regno, Pretore, Consigliere dei Vicerè e amico dei Re, è passato nel
più completo silenzio; nessuno si accorge che se n'è ito, forse perchè e
nella vita cittadina e nell'animo di tutti egli non c'era da un pezzo. E non
basta. Non appena ha esalato l'ultimo respiro, lo calano frettolosi nella
tomba, senza torce, senza mortorio, senza pianti1. Era il contraccambio,
che gli rendevano, del trattamento da lui fatto alla figlia Donna Laura?
O avean paura, forsa, a tenerne in casa la salma, a vegliarla?... Chi lo sa!
Certo è questo: che di lui, che più che il padre suo Don Blasco die' solidi
e incrollabili fondamenti alla Casa Lanza di Trabia, non si è conservato
il ritratto! E non avrebbe forse la bella arca marmorea gaginesca a custodia delle ceneri in Santa Cita, se egli stesso non vi avesse provveduto
innanzi, per giacervi insieme alla diletta seconda sua sposa2!
E così si chiude la storia del Caso della Baronessa di Carini, che ha
lasciato eco e strascichi di rancori e di liti fino ai tempi nostri3. Storia
truce, orrenda, mostruosa, incredibile, ma pur troppo vera, come ce la
rivelano dopo trecento cinquant'anni i documenti, che hanno squarciato
la fitta diabolica rete di inganni e prepotenze che con studiata colposa
insidia la volevano nascondere e opprimere. A noi, oggi, si accappona la
pelle al solo pensarci; ma queste feroci raffinate vendette e stragi eran
giudicate altrimenti dagli uomini del cinquecento; pei quali esse ritenevansi giuste e doverose, davano mostra di grande animo, costituivano
«gesti eroici e singolari» di cui si menava vanto, portavano «grandissimo
onore e reputazione» alle nobili famiglie. Don Vincenzo Di Giovanni,
Cavaliere onorato e mente culta, che questi atti vide e vi stette in mezzo,
ricordandoli, non sa tenersi dall'esaltarli e di conchiudere soddisfatto:
«Tanto si estimava l'onore a quei tempi!»4. E Girolamo Gomes, pittore e
poeta popolare coevo al Caso, non diversamente si esprimeva: la uccisione della donna adultera è per lui
1
2
3
4
Nel Registro delle Nascite e Morti e Matrimonj, che trovasi ora nell'Archivio della
Parrocchia di Santa Cita (subentrata a San Giacomo La Marina, demolita al 1863) si notano i pagamenti e l'opera prestata dal Cappellano; risulta che Don Cesare non ebbe nè ceri
nè mortorio.
Le tombe dei Lanza, nella magnatizia cappella in Santa Cita sono opere di Antonello
Gagini e suoi continuatori. Vedi: «Note illustrative e Documenti», XXII.
Le liti giudiziarie tra' Vernagallo e i La Grua e i Lanza si protrassero fino al secolo XIX ed
ebbero fine specialmente con le transazioni del 16 luglio 1800 e le altre del 1820. Quanto
ai rancori e agli odj latenti, vedi: «Note illustrative e Documenti», XIX.
Vedi: DI GIOVANNI, Del Palermo restaurato, Lib. IV, p. 151, in vol. XI della «Bibl. stor.
e letteraria» cit.
253
«un certu misteri
cuncessu e necessariu all'honuri
ed attu di honuratu Cavaleri»1.
Don Cesare Lanza, ch'era in tutto uomo del tempo suo, giudicò e
agì in conformità al tempo, e all'indole e consuetudine sua propria, e
non esitò, non si arrestò, pur trovandosi di fronte la sua primogenita
prediletta2!
13. Mettiamo in raffronto, ora, la Leggenda con la Storia, e vediamo
quanto e come quella si allontani da questa e ne discordi, e le ragioni che
ne furono causa efficiente.
Il parricidio non è a discutersi. Univocamente affermato da tutti, costituisce la base e il pernio del Caso; e per la sua stessa mostruosità, e
come delitto unico e mai udito fra Cristiani, è rimasto e rimane terribilmente famoso e indimenticabile presso il popolo e presso le Famiglie
stesse che lo perpretarono3. Gli inani sfrorzi, spontanei o provocati, di
quei che han voluto metterlo in dubbio o sfigurarlo cambiandolo in uxoricidio, sono sorti dalla erronea credenza di voler trovare ostinatamente
l'uccisore della Baronessa in un membro dei La Grua, e di volere e non
potere conciliarlo nei rapporti con la vittima, cui la tradizione dal 1563
ad oggi chiama Caterina, mentre la inconcussa fede del Cappellano, che
ne segnava la morte e il seppellimento, dà il nome di Laura4.
La tradizione popolare, così in prosa come in poesia, si è prestata
all'equivoco per il fatto, che essa non registra mai il nome del parricida,
ma lo designa solo come «Barone» e «Signore». E poichè ugualmente
Barone e Signore era e Don Cesare Lanza della Trabia e Don Vincenzo
1
2
3
4
254
GOMES, Lu Sbrigugnatu, p. 31 (In Palermo, per Francesco Cichè, 1707). Cito questa,
poichè le più antiche stampe sono irreperibili.
I Baroni odierni, pur conservando l'orgoglio della casta e i fumi del blasone, non ammazzano più le figlie che infangano la Casa; ma miti e indulgenti reclinano il capo che ha ricevuto la fiera botta filiale, confortandosi co' giudizj del progresso, che non dà più oggi un
nomaccio disonorante alla sfrenata libidine, ma la carezza con le espressioni di tenerezza
di cuore, generosità d'animo, slancio umanitario, altruismo disinteressato... Il popolo però,
per questa parte non ancora «evoluto», sta sempre fermo alle vecchie idee ed ai vecchi
esempj.
Vedi: «Note illustrative e Documenti», XV.
Si è perfino tratto dalla tomba Don Pietro II La Grua, morto al 1535, per mettergli in mano
la spada parricida! Vedi: «Note illustrative e Documenti», XV.
La Grua di Carini, si capisce come l'attribuzione dell'orribile Caso accaduto in Carini si addossasse facilmente al Padrone di questa Terra, in
conformità del resto a quella Leggenda che di accordo studiosamente
combinarono, curarono, accreditarono e imposero le Famiglie interessate, con l'intento di lasciar terso e lucido il nobilissimo stemma familiare.
Così, riguardata per questo aspetto, la Leggenda non dà chiaro il vero,
ma non gli fa torto. E notisi, che pur facendo menzione di figli e di vita
conjugale (posticcia o clandestina), essa non presenta mai la persona del
marito, non vi accenna neppure lontanamente. E quindi, la protagonista del Caso può ugualmente figurare e come colombella semplice che
inesperta s'invischia le ali su la pania impura e vi soccombe, e come
una galante mondana che corso la cavallina ostinatamente da un pezzo.
Giovane e bella è sempre, nell'un caso e nell'altro: e storicamente questo
è accertato; ma la purezza e innocenza, anche nella lezione leggendaria
che con tenacia la vuole e la sostiene, diventa fiacca e dubbia e insostenibile, quando ivi stesso si afferma contemporaneamente che la pura e
ingenua fanciulla è «donna galante che si gioca da tempo l'onore»!
Come risulta, la verità, anche nella lezione leggendaria dolosamente
creata e violentemente imposta, ci è e si fa vedere, per quanto un po'
velata, un po' sformata. Tutta però, e nuda e in piena luce, essa ci si presenta nell'altra lezione, che rispecchia schiettamente la indipendente e
onesta coscienza del popolo.
Il nome di Donna Caterina, imposto, come abbiamo veduto, con
la violenza e con la frode, fu facilmente accettato e conservato dalla
Leggenda, perchè è un nome tra' più popolari e più accettati nella poesia
del popolo, non solo di Sicilia ma di tutta Italia. Ve lo ha poi raffermato,
da un secolo in qua, la Storia di Donna Catarina, una Storia poetica
che infiltrò e confuse con quella della Baronessa1. Quanto poi al nome
di Don Vincenzo, conservato scrupolosamente presso le Famiglie interessate, la Leggenda popolare non lo porta che rarissimamente; essa con
esattezza, benchè senza precisione tassativa nominale, indica l'innamorato con le espressioni: «il bel Cavaliere Vernagallo», «il Vernagallo di
gentil sangue e vanto della gioventù», anche nella lezione fche ammette
la sua fuga e salvamento e la vestizione monacale in un Convento di
Spagna.
Vera è la Leggenda, in ambedue narrazioni, quando afferma la stretta
parentela e la frequenza fra i due innamorati, e ardente e cieco l'amore
1
Vedi a p. 39, - e «Note illustrative e Documenti», XXIII.
255
che li travolse; ma nella prima, artatamente manipolata e imposta, l'amore nasce a Carini, divampa impetuoso e precipita alla violenta catastrofe
in nove mesi appena, come naturalmente porta la focosa natura siciliana
in giovani novizj cuori; nella seconda invece, spontanea e libera, è detto
che la colposa relazione ha inizio in Palermo, viene stornata con la relegazione a Carini, ove però si continua proterva per una serie di anni, con
tutte le sue fatali conseguenze; e qui la verità è conservata tutta e crudamente esposta, facendo inoltre intravedere la scorretta vita anteriore
della Baronessa in Palermo, in conformità a quello che i documenti ora
trovati ci fanno, non che sospettare, quasi ammettere sicuro1.
Vera è la circostanza, comune alle due versioni leggendarie, che il
Vernagallo abitava nella sua possessione non lontana, donde veniva a
trovare la Baronessa al Castello «supra un cavaddu chi vola senz'ali» e
che è bajo, o morello, o stornello, secondo le simpatie del narratore. Per
la tradizione, quella possessione è Dain Asturi, una possessione inclusa
nello Stato di carini e che fin quasi ai dì nostri fu proprietà e titolo dei
Vernagallo. ma la tradizione qui fu senza dubbio deviata e guasta dopo il
1645, anno in cui veramente Dain Asturi apssò a Casa Vernagallo2; perocchè Dain Asturi nel secolo XVI era del Barone di Carini, e parte del
suo Stato a lui carissima, quasi quanto il Belvedere3. La diletta possessione del Vernagallo era invece Montelepre, come già sappiamo, e assai
più prossima al Castello che Dain Asturi. Che maraviglia che il popolo
abbia dimenticata Montelepre e fatta la sostituzione, se Montelepre appunto passava ai La Grua circa il tempo stesso che Dain Asturi passava
ai Vernagallo? Il popolo non guarda a date e non va dietro, come noi
studiosi facciamo, agli atti legali dei Notai!
E quanto al cavallo, i documenti danno ragione assoluta alla tradizione: l'inventario dei beni dell'ucciso Don Ludovico Vernagallo segna a
capo di lista: «In primis, equum unum pili stornelli»...
La Leggenda porta la nimicizia e l'odio inconciliabile tra il padre
della Baronessa e il giovane Vernagallo, per ragioni non soltanto personali, ma anche politiche e regionali. E la Leggenda è nel vero, presa
nell'insieme; ma anche qui ha conglobato e fuso nell'unica persona del
«padre» i due Baroni, e nel giovane amante ha rappresentato tutta la
Casa Vernagallo e il capo di essa; e sbaglia poi designando questi come
1
Vedi «Note illustrative e Documenti», XIII.
3
Vedi: «Note illustrative e Documenti», XX.
2
256
Vedi: «Note illustrative e Documenti», XIX.
dain Asturi, ch'è inclusa nel vasto ex-feudo Zucco, appartiene oggi al Duca d'Orleaus.
avversario del Governo e «messinese ribelle». Quest'ultima parte è evidentemente intrusa e di tempi posteriori, ove non si voglia considerare
(il che ben può essere) come possibile alterazione e contaminazione di
quell'antagonismo che più o meno latente fermentò nel cinquecento fra
l'antica Nobiltà siciliana e quella di recente venuta da fuori: e i Vernagallo
appartenevano a questa appunto.
La Leggenda fa giungere a Carini il padre con la Cavalleria, ossia una
Compagnia di cavalli; ma nel Castello fa entrarlo solo con un Compagno;
e Compagno immutabilemente lo chiama esso padre quando lo incita a
ferire, sia per dare il colpo di grazia alla figlia trafitta con la propria
spada (prima versione), sia per passare le reni al Caino del suo onore (seconda versione). Anche qui la Leggenda è rigorosamente nel vero, perchè Don Cesare Lanza teneva allora ai suoi ordini, come sappiamo, una
Compagnia di cavalli: il Compagno fu, verisimilmente, il suo Alfiere o
Capo Squadra.
E con esattezza storica la Leggenda accenna alla madre della
Baronessa e alle tre piccole figlie di questa che nel palazzo in Palermo
ricevono la «mala nova», indicando perfino le più grandicelle col preciso
nome: Eleonora e Maria. Ma l'accenno, alquanto vago e indeterminato,
non è stato interpretato con giustezza, si è prestato all'equivoco a causa
della confusione portata dalla versione della Leggenda, manipolata e
imposta dagli interessati: e così si è creduto trattarsi della madre della
presunta vittima Donna Caterina e delle sorelline di questa, quando invece si tratta (e così giustamente eve intendersi) della matrigna Donna
Castellana Centelles e delle figlie della vittima stessa.
Vera è la Leggenda (nella seconda versione) per quello che riferisce
in riguardo ai figli della colpa. Lo riferisce in una forma artistica e quasi
allegorica, ma non manca di esattezza e precisione. I documenti ci dicono, che gli atti del Barone di Carini contro i tre figli ritenuti adulterini,
rispondono precisamente a quelli che ripete tradizionalmente il popolo;
il quale peraltro, anche qui confonde e congloba le persone e gli atti dei
due Baroni Don Cesare Lanza e Don Vincenzo La Grua. Ma questa
fusione, ma questa unificazione che pare errore leggendario, ha forse
un significato che attesta it sapiente acume e giudizio popolare, che è
maggiore di quel che noi crediamo, e rispecchia e prospetta intera la verità. Nell'orribile «Caso», Don Cesare Lanza e Don Vincenzo La Grua,
concordi, strettamente uniti e fusi in unico giudizio, in unico volere, in
unica azione, rappresentano un'anima sola, un Mostro con due corpi e
257
un'anima binata degno del concepimento di Dante, degno del concepimento del Popolo!
14. La conclusione, a cui quest'analisi ci porta, è: Che il popolo conserva la verità storica scrupolosamente (per quanto in maniera sua speciale), con più coscienza e verità che gli scrittori, dato che gli scrittori si
incarichino di conservarcela: il che non fanno sempre1.
Ma vi ha di più. Il popolo, lo ripetiamo, conserva della storia la parte
(diciam così) spicciola, certe particolarità, certe minute circostanze, che
gli scrittori ordinariamente trascurano o disprezzano, ma che intanto
sono di grande interesse per lumeggiarci e farci conoscere più a fondo
i fatti e le persone, e i tempi in cui quelli e queste si svolsero e agirono.
Nel caso attuale, così nella Leggenda poetica come nella prosaica, noi
abbiamo certe particolarità e minuzie e fino delle frasi e semplici parole,
che sono conservate e rispettate costantemente e uniformemente in tutta
l'Isola. Questo fatto dovrebbe bastare per indurci a ritenerle sicuramente vere, nel senso assoluto della parola: ma gli ignari o poco esperti di
folk-lore, gli scettici per natura o per partito preso, tentennano il capo
e sorridono, pur inchinandosi alla sapienza collettiva del popolo; io no,
convinto e saldo come sono in tutto questo che ho affermato e affermo,
per ineluttabili prove.
Ecco qui, pertanto, delle altre.
La Leggenda poetica, nell'episodio dell'incontro del Poeta bramoso
di vedere la uccisa Baronessa, con la morte che è certa del sepellimento,
mette in bocca a questa i versi:
E si 'un mi cridi, a la Matrici vai,
dintra lu zùbbiu ddà la truvirai,
china di vermi la gula sciacquata
dunni luceva la ricca ciannaca,
nidu di surci la sò capiddera
ca oru e perni cuncignata era,
e rusicati li so' nichi manu,
sfunnatu l'occhiu gazzu juculanu!...
versi stupendi come tutti gli altri del poemetto e ne' quali siam pronti a
riconoscere e ammirare un espediente magistrale dell'artista, con l'an1
258
Cfr. anche in proposito: SALOMONE-MARINO, Tradizione e Storia (Palermo, 1876)
titesi tra la ricca collana che luceva già su lo splendido collo e quella
di vermi che ora la sostituisce, tra l'oro e le perle congegnate già nella
folta chioma e i nauseabondi residui dei sorci che ora vi fanno nido, col
ricordo delle piccolette mani or rosicchiate, e de' cerulei festevoli occhi
ora sfondati1. Certo, è stupenda opera d'arte questa; ma è storia, è precisa pittura del vero, di cui il Poeta ha saputo opportunamente giovarsi.
Guardando, infatti, il maraviglioso collo che Donna Lucrezia Gaetani
protende in placido abbandono là, su l'arca marmorea che ne accoglie i
resti mortali in Santa Cita, ricorrono alla mente i versi citati e alle labbra
le parole: - Ecco il bel collo che la Baronessa ereditò dalla madre! - E
leggendo, poi, l'inventari de' ricchi giojelli che Donna Laura possedette e
portò, con stupore troviamo notati varj fermagli profusamente carichidi
diamanti e zaffiri e balasci e rubini, una collana con 168 perle oltre a
gran copia di perle sciolte; e per giunta: «Una scuffia di sita pardigla tutta seminata di perni grossi et picculi; Item una scuffia scurriczolo (sic)
di oro filato guarnuta di perni;... Item uno scuffione di oro et argento
filato»2!
E quel volto della fascinante Signora, che tutte le narrazioni tradizionali ci descrivono sorridente e assomigliano a chiara luna che si riflette
serotina sul tremulo mare e ricrea le anime e gli elementi... quel volto, chi
crederebbe che noi avessimo a vederlo tratteggiato ugualmente in documenti ove meno si può sospettare? Il vecchi e freddo notaro Occhipinti,
redattore abituale per oltre quarant'anni degli Atti delle Famiglie Lanza
e La Grua, quante volte ha da segnare una assenso di Donna Laura, non
sa tenersi dall'aggiungere, e per lei solamente, le parole: «laeta facie et
ilari vultu», oppure: «ilari fronte»3!
Al padre assassino, temuto ma esecrato in tutt'i modi, la Leggenda dà
l'appellativo di mari, gran mari. Quale espressione più efficace, più vera
potea darglisi, conoscendone la vita? Il mare ha grandezza, ricchezza,
moto indefesso e continuo, cinge e stringe la terra, ha vita feconda, ma
è terribile nelle sue tempeste! Gran mari, si; ma (ammonisce il popolo
filosofo, rivolto appunto a Don Cesare),
1
2
3
Il dialettale occhiu juculanu non si traduce bene in lingua nobile: non è semplicemente festevole, ma brilla e ride. Il LEOPARDI, fine artista quant'altri mai, trasse mirabile partito
da simile contrasto nel canto: Sopra il ritratto di una bella donna scolpito nel monumento
sepolcrale della medesima.
Vedi: «Note illustrative e Documenti», IX, XI, XVIII.
Vedi, in Archivio di Stato di Palermo: Notai defunti: Occhipinti Antonino, Registri, A.
1546-47, N. 3712, a' 25 nov. 1546; id. A. 1541-51, N. 3715, a' 5 dec. 1549; ecc. ecc.
259
«Lu gran mari sicca, e assurgi lu funnu!»
Quando la tradizione assegna alla Baronessa trentatrè anni, dobbiamo riconoscere che è esatta. Il popolo giudica dall'aspetto, ripete quel
che sente dai famigliari, a proposito d'una persona di cui si occupa: non
va a cercare in Parrocchia la fede di battesimo per correggere l'errore di
un anno.
Così, esatta e precisa è la tradizione, quando chiama il Caso: «ciclone
diabolico e malvagio»; quando, indicando come «zùbbiu» e «misera» la
fossa ove il corpo della Baronessa si accomuna a «tanti morti», ne appella costantemente il coperchio con la voce cciappa, e non mai con quella
di balata o lapida, perchè queste designano la lastra marmorea delle
sepolture privilegiate e gentilizie, mentre quella è l'antico nome proprio
della rozza pietra che copre il carnajo. E nella Madre Chiesa di Carini
c'era ben la sontuosa sepoltura dei Signori La Grua, nella Cappella della
«Beata Maria de lo riso»; alla quale pur accennano diverse varianti della
Leggenda, o per insinuare che la uccisa Baronessa fu sepolta lì, o per
indicare, quasi con rammarichevole confronto, che proprio accanto ad
essa era la fossa comune ove fu buttato il misero straziato corpo della
Signora1!
15. E tutto questo parmi che basti, parmi che dia prive luminose e
convincenti per concludere: Che la tradizione popolare su la Baronessa
di Carini, e in prosa e in poesia, ha conservato integra la verità storica
del tragico avvenimento non solo nell'insieme, ma fin nelle singole e minime circostanze particolari; e l'ha conservato per tre secoli e mezzo ad
onta degl'inganni e delle violenze e degli ostacoli d'ogni fatta2. E questa
conclusione, per necessaria logica conseguenza ci porta a quest'altra, non
azzardata, cioè: Che ugualmente vere ed esatte dobbiamo ritenere altre
circostanze pur unanimamente e costantemente affermate dalla tradizione, le quali per la loro natura stessa non mi è riuscito di dimostrare
co' documenti.
Ne reco qui tre, le più notevoli.
L'episodio più comune e saliente, il primo anzi talora il solo che i
popolani ci presentano quando chiediamo la «Storia» della baronessa
1
2
260
Vedi: «Note illustrative e Documenti», XVII.
Questo sarà meglio dimostrato più innanzi.
di carini, è quello del padre, il quale piomba fulmineo con la Cavalleria
e, raggiunta la colpevole figlia, che atterrita chiede solo la grazia della
confessione, le risponde: Grazia è solo il sangue che rifà terso l'onore! e le trapassa il cuore con la spada. Quest'episodio e il dialogo, mirabile
nella sua rapidsa e cruda semplicità, uniformemente riferito (salvo le
indispensabili solite variazioni e aggregazioni), io non lo ritengo creazione poetica immaginaria: lo ritengo storicamente e desattamente vero.
Dovett'essere riferito e diffuso tosto dopo l'eccidio, o dal Compagno che
fu presente, o da qualcuno dei Camperi o Creati che lo udirono; e restò,
e vive inalterartamente.
Il monaco Giuda, di cui per documenti indiretti ho potuto ammettere
l'esistenza, la Leggenda ce lo figura con un atteggiamento e con dei tratti
vivi, così decisi e uniformi e caratteristici, ch'io non esito a dire esser
quello un preciso ritratto dal vero. Senza dubbio, tutti, in Carini specialmente, dovettero conoscere quel monaco, per lo meno dopo il Caso
che gli die' fama infame; e con la fama dovette diffondersi il suo ritratto fisico e morale, che il popolo indelebilmente fermò nella Leggenda.
Sono due colpi di bulino magistrali: Ha piccola taglia, tiene gli occhi inchiodati sul Breviario, ma nel contempo ordisce tradimenti, soddisfatto
soridendo delle proprie macchinazioni e opere... Non vi par di vederlo,
fra Nunzio?1.
Concordemente ha affermato e afferma la tradizione che là, nella fatale stanza del Castello ove la Baronessa cadde trafitta, presso allo stipite
d'una porticina resta indelebile una macchia, che vorrebbe figurare la
impronta d'una mano: è il sangue della vittima. Questa impronta, secondochè narrano alcuni, ve l'ha lasciato accidentalmente la vittima stessa,
tentando di appoggiarsi al muro nel punto che mancava la vita; me secondo affermano i più, ve l'ha fatta deliberetamente il padre uccisore,
perchè restasse perpetuo pauroso ammonimento ai successori eredi della Baronia. E questa seconda versione è più attendibile, più logica, più in
armonia con l'indole del parricida; e spegherebbe anche il perchè tutti i
Signori del Castello per tre secoli e mezzo hanno rispetato quella lugubre macchia e hanno permesso che ai curiosi visitatori del Castello fosse
mostrata e illustrata. È, nel fatto, un continuato ribadimento del concetto
cinquecentistico su l'estimazione dell'onore famigliare.
1
Anche il nome la tradizione ci dà: Fra Nùnzio; e può essere vero, chè lo portano parecchi
testi del poemetto; ma può anche essere un nome posticcio ulteriormente affibiatogli per
lo spionaggio. Un solo testo reca Fra Nardu, un altro Fra Marcu. Non occorre avvertire
ch'io mi giovo di tutte le varianti della Leggenda, così prosaiche come poetiche.
261
Fu vera, originariamente, quella impronta sanguigna? Nulla vieta che
la si possa ritener vera, di fronte alla costante stabilità della tradizione;
ma se vera non fu (è il caso di dirlo opportunamente), fu ben trovata, e
si può ragionevolmente darle il valore delle cose vere.
16. La Leggenda tradizionale, come abbiamo visto e come ancora si
vedrà analizzando il poemetto popolare che narra il Caso della Baronessa
di Carini, è storia, la storia del popolo, veritiera e diligente più che non
sia quella dei letterati, fatta e conservata così come egli sa fare e conservare, e bisogna saper cercare tra le fitte e scure selve leggendarie, e che
bisogna con paziente discernimento spurgare dalle frasche, dai ragnateli,
dalla polvere, dalle alterazioni e dagli oltraggi che il tempo e i casi e
gli uomini vi hanno portato. Anche quando una tradizione vi pare incomprensibile, inverosimile, strana, non dite mai che è sogno di fantasia
primitiva o inferma. Noi, non tutto possiamo sapere, e molto meno quello
che è lontano e antico; ma è a ritenere che non c'è tradizione popolare che
in sè non contenga qualche cosa di vero e che dal vero non sia partita: si
presume, quando non la si può dimostrare, e per questo non la dobbiamo
sdegnosamente rigettare1.
La tradizione dice, che un Fato inesorabile e ineluttabile pesa e pesarà
mai sempre su le progenie di quei che pigliarono parte al sagrilego delitto,
e sul luogo stesso ove questo fu perpetrato.
Dopo il 4 decembre 1563, il forte e ricco e gajo Castello di carini ha
perduto le torri avanzate, i contrafforti, l'ampia cinta murata co' giardini,
l'armeria, il ricco mobilio. Smembrato e manomesso, nudo, roso dall'edace tempo, paurosa sede di Spiriti, lo sfuffono fin gli stessi suoi Signori,
che non s'attentano a passarvi più neppure una sola notte. È il fato2!
L'opulenta, splendidissima, gentilissima Casa Vernagallo, precipitando a valle successivamente, è finita. Finita è ancora, in Sicilia, Casa La
Grua, sì ricca, sì potente, sì orgogliosa del suo sangue imperiale... È il
Fato!
Ma i Lanza restano, saldi, eminenti, onorati. Espiò il delitto Don
Cesare, artefice ed esecutore principale; espiarono anche i figli, in un
periodo di depressione e silenzio inglorioso; ma i nepoti si sono redenti,
1
2
262
Cfr. in proposito: GAETANO AMALFI, Partenio di Nicea e le Favole milesie, Parte
I, p. 57 (Napoli, Prem. Stab. Tip. Cav. G. M. Priore, 1906); - SALOMONE-MARINO,
Tradizione e Storia cit. e: Luoghi e nomi storici della provincia di Palermo illustrati dalla
tradizione popolare. (In Palermo, Coi tipi dei Fratelli Vena, 1891, 2ª ediz.).
Vedi: «Note illustrative e Documenti», X, XV.
nobilmente redimendo le colpe dell'avo con alte virtù intellettuali e civili, con benemerenze eccelse verso la Patria.
Le magnanime opere hanno pur ragione dell'ineluttabile Fato!
263
III.
1. Un avvenimenti sì straordinario e terrificante come il Caso della
Baronessa di Carini non potea non iscuotere potentemente l'animo e la
fantasia del popolo, non eccitare il canto delle rustica Musa, che spontaneo e immediato prorompe in simili occasioni. La popolarissima Storia
di la Barunissa di Carini, che in forma poetica insuperabile è venuta
fino a noi per trasmissione orale, non è tardive o riflessa creazione: nacque subito dopo il Caso, poichè il bardo popolare è un imprevvisatore
del momento che commosso vuol commuovere e soddisfare la ingenita
curiosità delle genti avide di conoscere i particorali dell'avvenimento che
ja levato rumore. I versi stessi, ricordando il sangue che grida vendetta a
Dio, ci han conservato nella rima la precisa attestazione che il Castello
ha chiusi li porti1; ora, poichè storicamente risulta che il Castello non
restò chiuso che dal 4 decembre 1563 al 28 aprile 1564, noi possiamo stabilire ragionevolmente e dirò anche sicuramente che entro questi
brevi limiti di tempo ebbe nascimento la Storia in poesia; non, certo,
quella elaborata e perfetta che oggi si canta, ma il primo getto di essa,
l'organismo primitivo (uso una opportuna espressione del Gioberti) che
conteneva lo stame di tutto l'ordito posteriore e che aveva a subire successivamente l'indispensabile elaborazione e perfezione.
Questa coevità che ammetto del Caso e della Storia, non è una semplce razionale prosunzione, desunta dai casi analoghi; essa mi viene ribadita e confermata dal fatto probativo, che qualche anno è appena corso
dalla tragedia, e i versi della Storia si trovano già diffusi e popolari
da Palermo a Siracusa; cosicchè dbbiamo ritenere precisamente esatto
quello che i versi stessi pur ci fanno sapere, cioè: che subito il Caso
corse e scosse tutto il Regno; nè altrimenti potea essere, data la enormezza del delitto e la notorietà, la potenza e l'alta posizione sociale dei
protagonisti2.
È certo ed è provato ormai, che della poesia popolare tradizionale,
come roba di tuti e di nessuno i poeti tutti si sono generalmente appropriati con libertà senza confini e senza scrupoli. I dotti, che han poetato
in vernacolo, han mietuto e saccheggiato nei fioriti campi del popolo, in
questo comune fecondo demanio: ma i più, o han guastato goffamente
1
2
264
Anche il testo apocrifo conserva l'attestazione che il Castello è chiavato ('nchiuvatu).
Vedi a p. 14 e segg. e «Note illustrative e Documenti», I e XXIV.
o dolosamente han dichiarato propiria la roba rubata; pochi, con sapiente discernimento usufruendo dei fiori raccolti, li hanno intrecciati nelle
proprie ghirlande in maniera da farli apparire come prodotti della propria ingegnosa personale cultura1. ma il poeta del popolo, analfabetta più
o meno, non conosce e non ha altri materiali che quelli che la tradizione
gli fornisce, e di questi si serve e questi adopra coi soli sussudj che natura gli vengono, con opportuni adattamenti e aggiustamenti e modificeh;
sì che la nova sua composizione, pare ed è nova come espressione e
rappresentazione di un fatto novo, ma è realmente vecchia e per la forma
esteriore e sopratutto per la materia sostanziale di sentimenti e criterj e
giudizj, proprj della'anima popolare e ad essa connaturati da secoli2.
L'anonimo cantore del Caso della Signora di Carini non poteva comportarsi e non si comportò diversamente. I sentimenti e i concetti, e le
forme con cui esprimerli, ei non li trovò e plasmò individualmente: li
avea già pronti e sottomano nella inesauribile miniera poetica popolare
da tutti saputa e pregiata tradizionalmente: li scelse pertanto e ordinò
e adattò all'argomento in modo che rispondessero alla realtà storica di
esso e al sentimento generale per esso, ed offerse all'ansioso pubblico la
Storia: la quale, correndo tosto l'Isola, incontrò il gradimento universale,
poichè ognuno la riconobbe per roba propria, vi trovò dentro stupendamente rispecchiata l'anima, la passione, la mente, la forma estetica propria. E così, acquistata popolarità e diffusione e celebrità, la Storia ebbe
prospera e sicura e durevole vita.
È chiaro quindi che questi materiali poetici, questi elementi costitutivi
della nostra Storia si debbono trovare, preesistenti o centemporanei alla
nascita di essa; e così ancora (come in poesia popolare suole) chiaro dee
risultare che essa Storia, in grazia del contenuto e della forma superiori
e della celebrità che raggiunse, ebbe poi efficacemente a influire su le
composizioni poetiche posteriori, lasciando in queste la propria orma in
atteggiamenti e immagini e concetti e versi che in essa attinsero vitalità
nova e forma seducente.
A dimostrar tutto questo, che non è agevole, io necessariamente ho
posto ogni cura. Disgraziatamente, della poesia popolare siciliana an1
2
Così ANTONIO VENEZIANO e qualcuno de' migliori seguaci suoi, così GIOVANNI
MELI meglio che tutti; ma nessuno, tra quanti hanno scritto su queste due glorie dela
Musa siciliana, ha saputo veder bene ciò e molto meno dimostrarlo.
Vedi a p. 19 e segg. ; - e A. MEDIN e L. FRATI, Lamenti storici dei secoli XIV e XVI raccolti e ordinati; Volume quarto: Introduzione, pp. IX-XVIII, XXI-XXV (Verona-Padova,
Fratelli Drucker, librai-e-ditori, 1894).
265
tica, e massime della narrativa, non è a noi pervenuta che piccolissima
parte: intendo di quella fermata in iscritto, chè quanto a quella orale, ne
abbiamo a esuberanza, e di questa una buona parte si può sicuramente
ritenere sorta e vissuta innanzi al secolo decimosesto e poi rimasta nel
repertorio tradizionale fino ai dì presenti, con poche e non sostanziali
alterazioni e modifiche1. Quello che io ho trovato, con pazienti indagini, non è tutto certamente, e non è copioso per quel che si riferisce
a materiale scritto; pure è tanto, che a me giova ed è sufficiente per
la prpostami dimostrazione. La quale dimostrazione, che per necessità
debbo relegare in appendice essendo un po' pedantesca, mi ha condotto
a questa, per me netta e sicura conclusione: Che la Storia di la Barunissa
di Carini è interamente costituita da elementi popolari preesistenti, opportunamente e magistralmente usufruiti e adattati e modificati; sì che,
acquistata popolarità e celebrità estesissime e perfezione di forma insuperata, stabilmente rimase padrona del campo e sovrana indiscussa di
tutte le Storie del popolo, influendo non solo su la poesia di questo, ma
pur su quella dei dotti, ai quali non restò ignota2.
2. Or, se così è sorta la Storia, e se, d'altro lato, la speciale condizione
degli attori dell'efferata tragedia imponeva prudente riserbo, è naturale
che il poeta che compose e divulgò essa Storia non poetve essere che
anonimo, necessariamente; e le ragioni di ciò ho già innanzi toccate, chè
sono regola nella poesia popolare3. Cade quindi da sè ed è vana ogno
ricerca d'autore; e se anch'io inesperiente la tentati son già molti anni,
vi rinunzio ora diffinitivamente. E del resto, se guardiamo con sereno
giudizio ai poeti siciliani coevi al Caso, nessuno veramente ha tanto
valore e attitudine da saper concepire e attuare in quella forma il poemetto della Baronessa, forma prettamente popolare mirabile che nessun dotto, per abile contraffattore che sia, non saprà fare mai. Antonio
Veneziano, Bartolomeo d'Asmundo, Pietro Clemente, Girolamo Gomes,
Giuseppe Giudice, Geronimo d'Avila Barone della Boscaglia, Pietro
Pavone, Cesare Gravina, Nicolò e Ottavio Rizzari, Filippo Paruta, Pietro
Graccaro il Biondolillo, Carlo Ficalora, Giovanni Bonasera, Mariano
Bonoscontro, Luigi d'Erèdia, Matteo di Ganci, formano una onorata
schiera di poeti vernacoli, colti più o meno e più o meno popolareggian1
Vedi a p. 20 e segg.
3
Vedi a p. 9.
2
266
Vedi: «Note illustrative e Documenti», XXIV.
ti, con attitudini stupende d'ingegno e senso d'arte squisito, ma sono ben
lontani e incapaci per poter sorprendere e raccogliere per intero quelle
polle di poesia che impetuose e chiare e fresche e dolci sgorgano da la
sorgiva dell'anima popolare con iridescenti e fantasctiche e maravigliose
immagini. Miracoli come la Storia della Baronessa, non c'è che la Musa
collettiva del popolo che li sappia compiere.
Conosciuto quando e come questa poesia nacque, viene spontanea
un'altra domanda: Dove nacque?
Non è facile rispondere, come ognuno agevolmente intende. Nacque
in Palermo... nacque in Carini, che ha tradizioni di ingenita virtù poetica1... nacque in qualche altro Comune dei dintorni... Gli elementi sicuri,
per precisarlo, ci mancano. Però, con tal quale certezza affermiamo, che
essa nacque nella palermitana provincia, nei luoghi, cioè, dove la impressione per il parricidio prima fu sentita e dovett'essere più che altrove
terribile, perchè i protagonisti eran lì, presenti, notissimi, e amati e rispettati e temuti. E la parlata della palermitana provincia ha dato appunto la veste alla Storia, una veste che non muta, che si mantiene inalterata
pur trasmigrando nei più rimoti luoghi dell'Isola, nei quali la parlata è
diversa o anche esotica2.
E, a conferma, faccio poi osservare questo: che le lezioni più complete del poemetto, più ricche di particolari e di passione ed anche più ordinate e più uniformi e precise nel contesto, si incentrano nell provincia di
Palermo; e a mano a mano che ci dilunghiamo da questo centro, vediamo i raggi poetici divergere, variare nei colori, affiochirsi ed estinguersi
in buona parte lungo il cammino, cosicchè alla periferia non arrivano
che i più intensi ed essenziali. In queste estreme parti, la Storia non ci
offer che il nocciolo precipuo del dramma: la immagine uccisione che
tien dietro al concitato dialogo tra figlia e padre, imprecisato anche nel
loro personale essere3.
3. Conosciuta la esistenza della Storia in su lo scorcio del cinquecento, e giovandoci appunto di quegli elementi che abbiamo trovato per dimostrarla, noi possiamo ricostruire in certo qual modo nel suo schema,
1
2
3
«Carini è pri cantari puisia», dice una canzona; e sono note le gare poetiche carinesi per
la festa della Santa Croce. Ma all'origine carinese osterebbe il testo poetico che chiama
cani i Carinesi e adopra la espressione: vostra Signora, per dire della uccisa.
Così in Piana dei Greci e Santa Cristina.
Tutto questo risulta evidentissimo dalle 300 e più lezioni della Storia che dal 1868 in qua
ho potuto raccogliere in circa duecento Comuni della Sicilia.
267
nel suo ordito fondamentale il testo poetico primitivo. E risulta, che nella
poesia si svolgevano queste parti:
Annunzio del Caso tragico.
Felice godimento dell'amore.
Arrivo fulmineo del padre e uccisione.
Terrore e dolore della mala nova.
Incontro con la Morte e col sagrestano.
Discesa all'Inferno.
Imprecazioni ed esortazioni al parricida.
Quest'ordito e queste parti permangono, inalteratamente. Possiamo
con ragione supporre semplice e rude quel primitivo testo poetico, ma
in pari tempo dobbiamo ammettere che segue ad esso bentosto il lavorio
indispensabile costante di raffazzonamento e levigazione. Poi successivamente vengono le particolari circostanze, e con queste le aggregazioni,
gli infiltri, le superfetazioni, e le varianti e contaminazioni non poche,
le imitazioni, e fino i travestimenti e le parodie. Però tutto questo non fa
che conferamare e roborare la celebrità, la vitalità, il dominio trisecolare
incontrastato della Storia, che pertanto risulta a tutti nota.
Nota a tutti, sì, a dotti e indotti. Ma intanto, nessuno ne parla, nessuno
la cita apertamente: il che vuol dire, che tuttavia perdurano i riguardi e
le paure, ad onta che siano trascorsi già molti emolti anni e sostituite
successivamente parecchie generazioni. E bisogna venire fino alla fine
del settecento perchè si rompa il silenzio e si tenti il mistero. In questo
tempo, mentre in Cammarata un ignoto raccoglitore di poesie cantate
dal popolo trascrive un notevole frammento della Storia, in Palermo il
Marchese di Villabianca, il benemerito collettore e indagatore curioso
delle patrie memorie, udendola ripetere ai Cantastorie, ci si ferma, si industria di chiarirla con le notizie storiche e tradizionali che può raccorre
in Palermo stessa e in Partinico e in Carini, e riportandone i versi che
ritenne a memoria, rabbercia o parafrasa quelli che gli sfuggirono1.
Dopo, vengono successivamente le indagini e le notizie e le nove trascrizioni frammentarie di Giuseppe Lanza di Trabia (1804), Antonino
Russo (1828), Giovanni Ondes-Reggio, B. S. G. e Paolo Morello (1838),
Ignazio Polizzi (1847), Barnardo Oliveri (1854), Lionardo Vigo (1857),
Placido Tantillo (1868), Le quali riunite formano già un tutto che dà
corpo alla Leggenda poetica della Baronessa, sì da invogliare a riordinarla e illustrarla più completamente, essendochè la breccia è aperta e il
1
268
Vedi: «Note illustrative e Documenti», XV e XXIV.
recinto del Castello, già impenetrabile, si può ora invadere ed esplorare
a bell'agio1.
Al lavoro mi sono accinto con l'ardore entusiastico del neofita, affrontando difficoltà e ostacoli non lievi per rimuovere le macerie ammassate e trarre di sotto ad esse e ricomporre i frammenti dell'antico
genuino simulacro, spezzati, confusi, deturpati, mascherati e svisati da
pàtine e alterazioni accidentali o artatamente e dolosamente procurate
da antico tempo.
4. Però, pur incespicando o infilando qualche volta sentieri che non
spuntano o deviano, con la perseveranza si arriva. Lusinghiera benevolenza accolse le prime due edizioni del libro mio (1870, 1873), dov'io
diedi e illustrai quanto mi fu possibile; e certo non riuscirono infruttuose, anzi largamente vennero fruite e sfruttate da tanti più o meno sinceri
e competenti studiosi; i quali però (bisogna pur dirlo) nessuna ulteriore
luce o utile contribuzione portarono al testo e alle chiose, ma confusione
a volte ed estranea borra2.
Ma il mirabile giojello poetico, che io primo ricomposi dai maltrattati
e sparti frammenti, mi era troppo a core perch'io potessi lasciarlo senza
ulteriori cure, con le visibili manchevolezze e incrostazioni e guastature. Dopo altri quarant'anni di indefesse ricerche, posso ora considerare
completati al possibile i miei studj su di esso; ed esumata e richiamata in
vita la verità storica, posso anche reintegrare e stabilire il testo genuino
e diffinitivo della Storia poetica, giovandomi e di quello che di esso conosciamo fin dal suo primo apparire e di quello sopratutto che copioso
ci conserva la tradizione popolare sopravvivente, diverso per estensione
e disposizione e corettezza, ma costantemente uniforme nelle scene essenziali del dramma, nei personaggi, nelle situazioni, nel concetto, nei
sentimenti3.
Ma, com'è naturale, fra' testi poetici conservati oralmente dal popolo, uno, che sia assolutamente completo e ordinato e corretto, non c'è.
Eliminato tutto ciò che evidentemente è intruso ed estraneo, noi ci troviamo innanzi una copia di testi di diversa disposizione e lunghezza e
1
Vedi: «Note illustrative e Documenti», XV e XXIV.
3
Sarebbero da pubblicare integralmente tutt'i testi, e darebbero agio a studj proficui e importanti su la psiche, il caratlere etnico e la estetica del popolo; ma... chi se ne assumerebbe la spesa? Depositerò, a suo tempo, in qualche pubblica Biblioteca il ricco materiale
manoscritto, sì che i volenterosi possano usufruirlo.
2
Vedi, in fine, la «Bibliografia de La Baronessa».
269
valuta, con varianti a bastanza numerose non solo in canzone intere,
ma in versi e parole singole; e mentre in uno prevale l'ordine e la serrata rapidità dell'azione ma ha canzone monche o scorette, in un altro
eccelle l'artistica forma ricercata e colorita e la calda passione, però in
canzone malamente e irregolarmente aggruppate. È evidente, che mercè lo studio e il confronto di tutti, l'un testo, può e deve completare e
correggere l'altro; ma è pur evidente che nel tempo stesso sorgono le
difficoltà e le incertezze per la scelta, e quindi la necessità di procedere
circospetti e oculati nel lavoro di selezione, accertamento, ricostruzione
e reintegrazione.
Per giungere a risultato presumibilmente sicuro, ho eliminato quasi
afatto il personale giudizio e arbitrio, e ho preso a guida il popolo, creatore e conservatore della Storia, seguendone gl'intendimenti, le designazioni e i giudizj: poichè, veramente, è assurdo che noi letterati volessimo
imporgli i nostri.
Il titolo anzitutto. La Storia di la Barunissa di Carini è quello che
senza esitazione devesi accogliere e mantenere, poichè 179 testi su 300
ce lo dànno costante e uniforme, oltre a 15 altri che hanno una rispondente espressione1. L'altro: Lu Casu di la Signura di Carini, che ricorre
31 volte, appartiene a un testo perduto, di cui m'intratterò più in là; ad
altri pochi, o parziali o in modo vario espressi, non occorre fermarsi2.
La Storia cantano i più tutta di sèguito, senza distinzione di «parti»,
però facendo delle brevi pause in punti degignati: il che, in sostanza,
indica che una partizione virtualmente ci è; ma quei, che più sanno e
si appassionano di poesia tradizionale, dicono senz'altro che la Storia si
compone di cinque distinte «parti», che sono: I, La parti di lu pueta; - II,
La parti di l'amuri; - III, La parti di la morti; - IV, La parti di lu 'nfernu;
- V, La parti di lu patri3.
1
2
3
270
Cioè: Li Canzuni di la Barunissa... Li Parti di la barunissa... La Liggenna di la
Barunissa...
E sono precisamente: La galanti morta; - Lu padri ca ammazza a la figghia; - Li canzuni
di la Morti; - Li canzuni di lu 'Nfernu; - Lu Baruni smannatu; - Lu Baruni pintutu; ecc.
ecc. È ingenuità, per lo meno, il volersi tuttavia insistere da qualcuno per sostituire a
Barunissa il titolo di Principessa che portano solo 17 testi. I Signori di Carini, è risaputo
da tutti e non da ora, diventarono Principi 59 anni dopo il Caso, il 19 settembre 1652,
come risulta dal vol. dei «Privilegi» della Famiglia: che diciassette popolani analfabeti
ignorino e confondano la storia, si capisce e può lasciarsi passare; ma che li segua uno che
fa professione di studiarla... via, è grossa!
Interessantissimo parmi il giudizio che la settantenne massaja Provvidenza Scuteri da
Parco davami in proposito: «La Storia è bella assai, ma allazzarata. Dopo la rima angustiusa del Poeta, la parti di l'amuri ricrea; ma la parti di la morti schianta l'anima, e
Ecco, dunque, nettamente designata e partita dal popolo stesso la materia tutta del poemetto e l'ordine con cui è disposta; e questa materia e
partizione e ordine noi dobbiamo accettare e non possiamo e non dobbiamo portarvi col nostro personale criterio mutazione o alterazione,
e molto meno farvi aggiunzioni che evidentemente non vi possono o
debbono appartenere1.
E quanto all'ordine e successione delle singole canzuni, oltre alla
traccia che mi dà lo schema surriferito, ho seguito, come era naturale,
la guida dell'incatenatura della rima (rima 'ncruccata), la quale è regola
immancabile e inviolabile nelle Storie popolari perfette e accettate nel
tradizionale repertorio. Per la scelta, poi, e accettazione diffinitiva delle
varianti mi sono attenuto a questi criterj;
a) Accettare anzitutto le canzone e i versi che tornano costanti, immutati in tutti i testi;
b) Accettare di preferenza quelle varianti che rispondono più esattamente alla verità storica e quelle altre che risultano cronologicamente
più antiche;
c) E per ultimo, accettare quelle di incontestata superiorità artistica,
semprechè non urtino con la logica, con la struttura e unità del poemetto,
e sopratutto poi con la verità storica. E quanto a singole frasi e parole, ho
fatto la scelta tenendo conto dei comenti e delle spiegazioni che il popolo
ne fornisce e che sono in grande aiuto alla conoscenza e al ristabilimento del vero nelle sue minute particolarità.
Dal lavoro in tal maniera condotto e dallo studio critico e comparativo
di tutt'i testi racolti, è venuta fuori la Storia quale oggi la ripresento nel
testo reintegrato, che reputo genuino e diffinitivo e che (non è jattanza
il dirlo) «i posteri non potranno mutare»: intendo de' letterati ortopedici
e ricostruttori.
Dal quale lavoro e studio, due fatti d'importanza sono anche emersi
chiari ed evidenti: 1°. Le alterazione e modifiche che al poemetto arrecarono la imperfetta e guasta conoscenza del Caso, ma più la prepotenza
baronale e le prevalenti idee religiose intolleranti: donde la origine del
testo apocrifo della Storia; - 2°. La conoscenza, che non una soltanto ma
diverse Storie in poesia ebbero nascimento e via per la occasione della
1
tirrurusa è la parti di lu 'nfernu e la parti di lu padri; per tal motivo queste due ultime
parti era proibito di cantarle, e chi le cantava incorreva nella scomunica; ma noi, ragazze,
la cantavamo lo stesso, però a l'ammucciuni».
Molti popolani recisamente han dichiarato, a proposito di alcuni frammenti o episodj intrusi in varj testi, che «non vi appartengono e non vi vanno».
271
tragedia del 4 decembre.
5. Ma occorre, prima d'ogni altro, pigliar cognizione del poemetto,
quale ora ci risulta nel testo reintegrato.
Esso è semplice ed uno quanto altro mai, e con arte sorprendente ve
diritto e rapido al fine che si propone.
Annunziato, in breve commosso preludio, il dolore e terrore che ha
portato agli animi l'inatteso atroce Caso di così bella e adorata Signora,
il Poeta con smagliante colorita parola narra l'inizio e felice svolgimento della cieca colposa passione che nel Castello di Carini avvinse la
Baronessa e il Vernagallo. Ma poichè sotto al petalo della rosa sta la
spina e la fugace felicità desta la fatale invidia della mala gente, un tristo
monaco si affretta a denunziare in Palermo al Barone padre le turpitudini della figlia. E il padre furente cavalca notturno per Carini con la
sua Compagnia, e, come sparviero piombando improvviso, sorprende
i colpevoli che inebriati d'amore fantasticavano al balcone guardando
Lucifero fiammeggiante ne la rose chiarezza dell'alba. La Baronessa resta atterrita:
- Signor padre, a che veniste?...
- Signora figlia, son venuto ad ammazzarvi!
- Una grazia vi chiedo... che mi netti l'anima con confessore...
- Tersa, l'anima, dovevi serbarla! Grazia è il sangue che lava
l'onore!...E trapassandole il cuore con la spada, sì ch'ella subito cade spenta, ei
grida a un Compagno: - Fai fine pur tu! Spàccagli le reni al Caino! Chiusa così la scena del folle idillio, il Poeta, pur sentenziando che
solo il sangue potè estinguere quella fiamma voratrice erotica, alza la
voce a stimmatizzare la ingratitudine dei benefiziati vassalli Carinesi
che non si mossero al grido invocante soccorso, e come Cani infedeli
lasciarono scannata ed esposta a vergognoso ludibrio la disgraziata loro
Signora. La quale però (egli subito aggiunge) ben ha pagato il giusto
fio per evere dissenata guastato il domestico nido con la irrefrenabile
lussuria!
La mala nuova vola subito per il Regno, eccitando ovunque paurosa pena e comenti e pianti; e più a Palermo, ove infinita è l'angoscia,
particolarmente ne' congiunti e ne' familiari della uccisa entro il paterno palazzo. Il Poeta, impersonando l'ansioso e curioso pubblico, con la
smania febbrile di un redattore di Avvisi cinquecentista e di un reporter
272
giornalistico moderno, corre per notizie prima al palazzo; e ivi appreso,
dallo squallore e dal lutto, che la atroce morte è vera, parte frettoloso per
Carini benchè già calata la notte, perchè vuol vedere la uccisa personalmente e conoscere localmente i particolari della tragedia.
Ma è già tardi, come ha notizia per via. La vittima l'hanno già calata
nella povera fossa, ove già subito i topi e i vermi hanno iniziato il completo scempio di quella maravigliosa bellezza!
Non per ciò egli si sgomente e sosta. Venuto alla Cura, persuade il
buon sagrestano che a quella disgraziata fu solo pietoso seppellendola,
perchè per un momento ei risollevi la lapide e gli consenta l'augurale prova della torcia accesa per conoscere almeno se l'anima ha potuto
trovar salvazione... Ma pur troppo, la torcia spegnendosi dice che anche
l'anima è perduta e penerà eterna in inferno!
La smania del Poeta cresce: tutto ei vuol conoscere, a qualunque costo, e trovarsi di faccia alla vittima. Senza esitazione cede l'anima propria al Diavolo, e mercè il patto è condotto a volo in inferno tra le perdute anime. E sbirciato appena il Giuda monaco, che pur qui leggendo il
Breviario ordisce tradimenti, va più in fondo. Ed ecco in mezzo a gran
fuoco scorge quella meschina, col cuore che le brucia per rie fiamme
di continuo rinnovantisi. Ella sospira: - Cuore scellerato! queste orribili
pene patisco per te! Sono i frutti dela mala vita mondana, che per piccolo
godimento martoriano poi in eterno!... Ma quei che n'ha colpa!... Non si
stancherà la mia lingua di gridarlo: qui meco lo attendo, su questo infocato scaglione! E verrà: perchè ruota è il mondo, e anche il gran mare
dissecca e il fondo assurge!...Pigliando novo tono e mossa da questa violenta e chiara allusione, il
Poeta lascia la dannata e l'inferno (ove fa capire che è stato per visione
sognata: ma i sogni sono rivelatori di quello che non vediamo e di quello
che ha da accadere) e si volge diritto e severo al Barone parricida. Grandi sono i guai (gli grida) e breve è il tempo, e dannoso ogni indugio
per chi può ancora salvarsi. Lagrimoso e insistente un lamento va dalla
terra a Dio chiedendo giustizia, e dalle soglie del pauroso e spiritato
Castello il sangue sparso grida vendetta e morte. Vivere più orrido del
tuo non c'è. Vagante col senno sconvolto, abbandonato da tutti, perseguito da incessanti interne paure e tormenti, che speranze hai più? Fin
la Morte, che affannoso invochi a sollievo, fugge e da lontano ti irride!
Gira la prua della conquassata tua barca: contro sì furioso e fatale uragano, che t'ha scatenato il sagrilego delitto mai udito in Cristianità, o padre
273
Cane, a te non resta che un solo porto in cui cercare rifugio, la misericordia di Dio. Pèntiti sinceramente, fa' aspra penitenza, e Dio commosso
ti potrà far la grazia del perdono. Il mondo è un gorgo di dolo e di frode;
ma il Fato lo giunge inesorabile. Pènsaci! Fallente è il mondano onore,
nè cìè potenti innanzi a Dio: la pesante e giusta mano di Lui stritola
apertamente il malo ceppo e i suoi rami! Questo è il contenuto del poemetto. La concisa e serrata unità, la
proporzione delle parti che con rigorosa logica si succedono e svolgono
rapide, sicure, avvivate sempre dalla passione e da una forma supremamente poetica e ricca di immagini maravigliose fascinanti, lo rendono
unico nel suo genere, insuperato e insuperabile.
6. Ma il poemetto vuol essere anzitutto, e a buon diritto è, Storia nel
senso più rigoroso esposta bensì co' lecocinj dell'arte per maggiore allettamento; e come storia intende a dare ammaestramento utile, traendo
la moralità da un delitto detestabile e inconcepibile: perciocchè, informandosi a una idea tutta cristiana, non ci rappresenta essenzialmente
un orrido peccato se non per trarne questa conseguenza, cioè: Che la
punizione segue immancabile e proporzionata alla colpa, ma che questa,
per grande che sia, può nondimeno essere lavata innanzi a Dio mercè il
pentimento sincero e la penitenza rigorosa1.
Nel poemetto, la storia del Caso, espressa (si capisce) nella forma che
si addice alla poesia, troviamo che cìè intera e precisa; ma qusto vediamo
completamente solo ora, perchè solo ora essa storia ci si è fatta completamente nota, e ci ha messo al caso di meglio scernere le lezioni poetiche
varie e di accogliere o scartare l'una a preferenza dell'altra. E così solo
ora, aiutati anche dalle chiose e spiegazioni dei popolani, comprendiamo
e spieghiamo certe frasi e parole che sotto comune e semplice apparenza
non erano che sapiente velame poetico della verità. Basti citare queste:
Il fiorellino in mezzo alle sue frondi, che spande fragranza e miele,
significa la giovane bella Signora tra la sua famiglia (figlioli in ispecie)
che sparge intorno grazie e beneficj; il nido che la donna ha guastato
e che poteva esserle asilo sicuro nel tempestoso dicembre, vuol dire la
casa conjugale, che naturalmente suppone la prole e che è ad ogni modo
il riparo tutelare nei frangenti della vita; il gran mare che pur verrà a
disseccarsi, indica il potente Barone parricida.
Ricorrono poi nel testo e versi e frasi e vocaboli potentemente scultorj
1
274
Cfr. in proposito: D'ANCONA, La Leggenda di Vergogna e di Giuda, a p. 48 dei «Saggi
di Letteratura popolare» (Livorno, Raffaello Giusti editore, 1913).
che possono ben essere tocchi felici di artista, ma possono essere anche
riproduzione esatta di storia; a ogni modo, però, delineano e coloriscono
con più precisione i particolari del quadro drammatico e ci fanno più
intimamente penetrare nell'anime dei personaggi di esso. I quali, eccoli
qui, che ci balzano innanzi vivi e moventesi e parlanti. Sono quattro:
la Baronessa, il Vernagallo, il Barone padre, il monaco. Su lo sfondo si
disegnano appena la madre (madrigna) e le figlioline angosciate, e servi
che levano il pianto usuale, e il popolo commosso e atterrito che comenta e commisera sottovoce.
La Baronessa, fulgida stella che dà luce e vita alle cose, fiorellino
primaverile che spande fragranza e miele, coi capelli d'oro, lo splendido
collo e i cerulei occhi festevoli, è adorata da tutti per la grazia, la gentilezza, la beneficenza; ma, ardente di sensualità, frenata un po' dapprima per via dei figli, cede poi all'istinto e cieca si abbandona all'amore,
insaziabile della fugace felicità, incurante della vergogna e ruina della
famiglia e propria. E fin tra le fiamme infernali non appare pentita del
malfatto, ma rimpiange il breve godimento e impreca a chi violentemente glielo sottrasse.
Il Vernagallo non è veramente collocato in luce simpatica: è Cavaliere
di gentil sangue, assiduo e raffinato e abilmente industrioso nelle arti
della seduzione, che inebriato fruisce dei piaceri, non per passione vera,
ma per volgare orgia di senso; non ha cuore, come non ha coraggio; e
al momento catastrofico, non sa fare scudo del proprio petto all'amante,
ma vigliaccamente volge le reni, ove lo coglie il pugnale ignobile del
Compagno1.
Sua Signoria il Barone padre, trapotente, orgoglioso, cacciatore passionato come tutt'i pari suoi del tempo, esplode con bestemmie e smanie
violente all'annunzio del disonore che insozza il suo Casato, e s'arma e
cavalca a furore, e inesorabile scanna di propria mano la figlia: con la
spada però, l'arma dei nobili, chè l'alterigia di casta ei non smette in sì
tremendo frangente2. Ma benchè il mostruoso delitto lo designa più empio d'un Cane infedele, pur ei mostra di non avere anima volgare e cuore
1
2
Spontaneamente ci sovviene, a proposito del Vernagallo, la figura dell'Adoncino nobile
de' suoi tempi, che sì al vivo ci dipinge il GOMES (Lu Sbrigugnatu, vv. 15-20, 24-31):
egli sfoggia vestiti di velluto e seta che cambia ad ogni istante, con catene d'oro e ricami
e frappe, guanti e berretto piumato; incede impettito in punta di piedi, «garbeggiando»
con cerimonie e inchini, profumato, con barba pettinata e barba a punta, con dietro un
ragazzino in livrea, quello stesso che in casa lo spoglia e veste e striglia...
Il Vernagallo ei fa scannare dal satellite con l'arma dei sicarj, il pugnale: e precisamente
col terribile smagghiaturi, come portano varj testi.
275
al tutto perverso, se così fieri sente i rimorsi ed è incline a riabilitarsi e
mondarsi col pentimento e la pazienza1.
Il monaco, lo abbiamo visto, è la figura più abietta e dispregevole: due
pennellate mirabili infamano eternamente questo malvagio cui si infigge
il nome di Giuda, di quei che tradì per danaro il Maestro e Benefattore.
E pensare che, quando la Storia nacque, il monaco era ancora presumibilmente tra' vivi2!
E qui trovandoci a considerare le circostanze che fanno evidente la
circostanza storica del poemetto, reputo utile e necessario fermarmi a
una, la quale vi è ricisamente affermata, ma ch'io non posso ugualmente
confermare.
La Baronessa accusa il genitore come quei che ha colpa della sua perdizione e con felina voluttà addita l'infocato scaglione infernale ch'egli
occuperà presso a lei. È per averla strappata crudamente alla dolce vita
senza pur conserntirle un confessore? Non pare. Essa non si limita, come
la Francesca di Dante in simile caso, a mormorare: «Caina attende chi
vita ci spense»; ma dalla infaticata sua lingua scoppia odio implacabile.
Questo è inconcepibile, molto più se si tiene conto delle prove documentarie che mi attestano nel padre un amore premuroso, tenero, spiccatamente parziale per la sua primogenita, lungo tutto il ventennio della vita
conjugale di lei.
Qualcosa potè esserci forse, che fino a noi non è arrivata e che allora
potè correre attorno e il popolo potè ritener vera. Ma, per quanto si abbia
che fare con uomini e tempi feroci, io scarto a priori le ipotesi più inverosimili e ripugnanti. dati i rapporti cordiali tra padre e figlia, non interrotti o rallentati neppure quando la morente Donna Lucrezia Gaetani
(con la intelligenza se non col consenso di Don Cesare) infliggeva alla
figlia il terribile monito offuscante la moralità sua, riesce difficile a spiegarsi tanto odio.
E pertanto, a quella della uccisione, altre due cause possiamo aggiun1
2
276
Il parricida stesso (secondo una variante testuale di Montemaggiore) a contrasto con la figlia in inferno, pur riconoscendo l'enormezza del proprio delitto, le dice che lì non resterà,
avendo speranza di salvar l'anima mercè il pentimento e la penitenza.
Il popolo, sottile ed estatto nelle sue determinazioni e distinzioni, ha tre specie di traditori:
il traditore comune, che con la sua vittima non ha legami di affetto o parentela, e questo
appella semplicemente tradituri; il traditore, che alla vittima è legato da amicizia e da beneficj ricevuti, e questo chiama Giuda; il traditore, che con la vittima ha comune il sangue
o affinità o parentela, e questo dice Cainu. Nel poemetto, la determinazione e distinzione
è scrupolosamente serbata: il monaco è Giuda, Vernagallo Caino; ed anche al parricida, in
alcune varianti, si dà l'anima cainesca e cainesco è detto il suo delitto.
gere, per quel che valgono, e cioè: 1ª L'eccesso di tenerezza e condiscendenza paterna, che viziando la figlia le schiuse la via sdrucciolevole; - 2ª
La imposizione coatta di un matrimonio non desiderato e non voluto, in
incosciente bambina. ma a prima a scarso valore. E quanto alla seconda,
osservo: che i matrimonj fra le classi nobili era costume si contraessero
per tornaconto tra' rispettivi genitori, senza la conoscenza e il consenso
dei figli, minorenni quasi sempre, i quali non dovevavno che accettare
ed eseguire quanto era stato contratto1. Certo, Don Vincenzo La Grua
possedeva le migliori doti di nobiltà, ricchezza, gioventù, virtù intellettive e morali2; ma a Donna Laura (questo lo possiamo supporre), la
quale non si era ancora affacciata alla vita e accarezzava ancora sogni
infantili, quel marito e signore, che d'un colpo si vide imposto potè riuscire antipatico, esoso, odioso anche, e lo tollerò e subì col corpo, non
col cuore... finchè trovò come sottrarsi al marito e... si persi. Da qui l'origine dell'odio al padre, su cui solamente ella addossa la colpa propria,
generatrice della tragica fine e della ignominia pubblica. Ma tutto questo, ripeto, lo possiamo supporre; però non concorda co' documenti, ne'
quali invece trovo rispondenza di intenti e armonia ininterrotta fra' due
coniugi, fino a che, dopo la calma silenziosa degli ultimi mesi, scoppia
inatteso e improvviso il fulmine fatale.
7. Al valore storico del poemetto fa riscontro l'altro, non certo inferiore, della precisa rappresentazione etnica locale, della dipintura esatta
della vita, del costume, delle credenze popolari di allora, sopravviventi
anche oggi in parte. I 336 versi (lascio da canto le molte varianti) ce ne
forniscono sufficienti prove.
a) Che è mai il Caso amaro, che venne improvviso e inatteso? È
un'aerolite dolosa, una dragunara diabolica e malvagia. La verità storica
non poteva venir meglio definita e rappresentata che da queste due creazioni di Satana, trovate per flagello e distruzione dell'umanità: infatti,
la prima è un impasto di scoria infernale e fuoco etereo; la seconda,
pestifero fiato di mille Diavoli che sconvolge e scatena furiosi i quattro
elementi.
b) È mezzanotte, il monaco lascia il palazzo del Barone, soddisfatto
della rpopria malvagia opera; ed ecco l'assiuolo che fa sentire lì presso
il suo lugubre chiù-chiù! Segno sicuro è questo: annunzia imminente
1
2
Vedi: «Note illustrative e Documenti», VIII.
Vedi: «Note illustrative e Documenti», V, XII.
277
morte in quella Casa!
c) Può salvarsi un'anima rea? Si, certo. Ma non basta che nel momento estremo abbia intenzione e volontà di pentirsi, come Dante ammette
pel re Manfredi e per Buonconte: occorre pur la confessione che le ottenga il perdono; se manca questa, precipita senza speranza nelle eterne
pene d'inferno.
d) La notizia della tragedia corre subito nel Regno e lo commove.
Che clamore leverebbero oggi i Giornali! e quanti vituperj, e querele, e
lubriche studiate narrazioni, e fango da rimescolare in piazza! Ma nel
cinquecento la faccenda andava diversa: sul colle stavano i Signori, ne'
ben muniti Castelli con relativi trabocchetti e forche, e i pronti bravacci
con lu smagghiaturi; ne la valle si restringeano i vassalli impauriti e
devoti, i terrazzani e artigiani amanti del lavoro e del quieto vivere; ed
ecco perchè noi veggiamo nel poemetto la volgare folla quale allora era,
atterrita e addolorata far comenti in private adunanze «ma quanto più si
può cheti e soppressi», e, più che all'assassino, imprecare generalmente
al malo amore e al mal costume... e invocare la severa giustizia di Dio.
e) Il baronale Palazzo ha chiuse per il lutto tutte le imposte, dentro
sentiamo echeggiare il funebre lamento. Non è proprio quello sì comune
delle Reputatrici, chè non era forse il caso, ma l'altro dei familiari che
sogliono anch'essi imitare e far coro e che era immancabile allora1.
f) E segue il rammaricoso ricordo del sepellimento clandestino, di
notte, senza ceri, senza quella Croce che non solo è segno e speranza di
salvazione, ma preserva il frale dallo scempio dei maligni Spiriti, i quali
non consentono ch'esso resti integro più o men lungamente, ma sia subito
straziato e distrutto.
g) Altro uso mortuario, allora in gran voga: la augurale superstiziosa
cerimonia della torcia, o actu di blanduni. Questo ultimu uffitiu, solito
compiersi dai congiunti o da interessati, era prova decisiva per conoscere con sicurezza la sorte dell'anima nel mondo di là, se fosse il loco di
salvazione o perdizione. Scoverchiata la fossa, nei giorni immediati al
sepellimento, vi si calava dentro la torcia accesa: se questa restava fiammeggiante, dava segno esser l'anima salva; se invece spegnevasi tosto,
l'anima era irrimediabilmente perduta2.
1
2
278
Nella seconda Storia poetica, di cui dirò più innanzi, le Prefiche vengono addirittura su la scena, col loro repetío o vocéro. Intorno a queste prezzolate piagnone, vedi:
SALOMONE-MARINO, Le Reputatrici in Sicilia nell'età di mezzo e moderna, ricerche
storiche (Palermo, Tip. editrice Giannone e Lamantia, 1886).
Vedi, negli Atti del Comune di Palermo, agli anni 1425 e 1482, presso SALOMONE-
h) Al commercio col Diavolo, al patto, la cui storia sanguinosa e obbrobriosa medievale fa fremere, il popolo di oggi «evoluto e cosciente»
(come lo dicono) ci crede ancora, e lo ammette, per quanto esecrando.
Figurarsi nel cinquecento! E nel poemetto non manca, e ne costituisce
uno degli episodj più fantastici e artistici.
i) Si fa cenno dei sogni, che, per antichissima credenza accolta pur
nelle sacre carte e nella coscienza cristiana, sono rivelatori dell'ignoto
attuale e delle sorti avvenire, per ammonimento divino; si lascia ricordo
della tremenda paura con cui si fuggiva allora dagli appestati e dai banditi; si registra la cattolica aspirazione e convinzione che anche i feroci
odiatissimi Turchi fossero suscettibili di redenzione e perdono.
j) E altro ancora si accenna e intravede, che ci fa rivivere in quell'epoca e fra quegli uomini; ma poichè altra via mi resta a percorrere, mi
fermo per questa parte a quest'ultima nota: L'anima dell'ammazzato, per
vetustissima tradizione, resta vagolante nel luogo stesso ove il corpo fu
spento, invocante o attendente vendetta o pietà. Pei credenti cristiani se
ne allontana solo quando una Croce è segnata sul posto del delitto, o l'ha
trinciata con la mano un religioso nell'istante della morte, o per lo meno
l'ha portata visibilmente nell'accompagnare il cadavere alla sepoltura.
Tutto questo essendo mancato ai due amanti assassinati, ecco perchè
le anime loro sono ancora lì al Castello, gridano vendetta, perseguono
tormentosi senza requie l'uccisore o quanti si arrischiano a penetrare ivi
la notte1.
8. Sotto l'aspetto artistico, la Storia di la Barunissa di Carini è indiscutibilmente poesia di ordine superiore, dal primo all'ultimo verso, e
nel complesso e nelle singole parti. Si resta imbarazzati volendo scegliere qualche esempio.
L'Amore, che tutto e tutti vince e domina, è stato e sarà sempre il
tema universale dei poeti, dai sommi agli umili, e ha ispirato pagine
sublimi. Ma, chi sa trovarmi una lirica che avanzi questi dodici versi, co'
1
MARINO, op. cit., pp. 19-21; - e Historia nova di l'Amanti fidili e disgratiatu: E lu chiantu della sua morti, st. 16 e 17 (In Palermo per le stampe di Matteo Mayda, 1578). Che il
superstizioso uso non fosse solo della Sicilia, me lo dice questo che anche oggi permane
nel Parmigiano: «...è pur certo che dai lumi, che seguono il morto mentre si porta al cimitero, si può conoscere s'egli è, o non è in luogo di salute. Se i lumi stanno accesi, bene; ma
se si psengono subito è quasi inutile pregare per lui» (JACOPO DA CASSIO, Appennino
Parmigiano, a p. 522 dell'«Almanacco Italiano», A. XVII, 1912: R. Benporad e F. edit.,
Firenze).
Vedi: «Note illustrative e Documenti», XV.
279
quali il bardo del popolo esprime con smaglianti colori e singolari efficaci immagini e squisita armonia il frenetico felice godimento erotico di
Donna Laura e Don Ludovico?
L'Amuri dòmina e li cori vinci,
forti l'attacca a la sò ardenti rota
cu 'na catina chi li 'ngrana e strinci
e cci fa bàttiri la stissa mota;
cu vita duci li tira e custrinci,
cu raj di suli la vista cci abbota,
e di filicità 'ntornu li pinci
cu stiddi d'oru e scocchi di rosa.
Ma l'oru fa la 'nvidia a mala genti,
la rosa odura frisca pri mumenti;
ma l'oru è scuma di praja marina,
la rosa sfògghia e resta la spina!
E, per precisare il momento e il modo della sorpresa fatale al Castello,
quale similitudine meglio trovata e meglio significata di quella del falco,
che fulmineo piomba a ghermire e squartare l'allodola che passionata
felice cantando saluta il suo sole oriente?
La prim'arbura 'ncarnata lucia
e l'Ùstrica affacciava di lu mari;
la lònira massara ziulïa
e s'àusa, lu suli a salutari;
ma lu spriveri cci rumpi la via,
forti a lu pettu la veni a 'ggranfari,
tempi 'un cci duna ch'a lu nidu scïa,
tempu 'un cci duna d'ajutu circari,
e cci lu stàggia lu filici cantu
e si la porta cu tirruri e scantu.
Maravigliosa la dipintura della corrotta donna che guastando il domestico nido senza pensare alle tempeste dell'inverno, come arida spugna va suzzando ogni acqua ma non spegne mai la sua arsura:
Tinta dda donna chi lu nidu sconza
280
e a lu dicembru timpistusu 'un penza!
tintu ddu cori, ch'è 'na sicca sponza
e assuppa ogn'acqua, e mai 'stuta l'ardenza!
Più maravigliosa ma terribile la figura del parricida col senno sconvolto, errante come fantasma sbucato da la fossa, perseguito dagli implacabili Spiriti delle due vittime, irriso dalla stessa Morte che da lungi fa
eco a quelli co' suoi cachinni:
E - Morti! - scrami tu, sènziu smannatu;
la Morti fuj, pri nun ti dari ajutu.
D'amici e di parenti abbandunatu,
peju di l'appistatu e lu sbannatu,
tampasiannu eu l'occhiu scasatu
pari un malumbra di la fossa'sciutu.
Un Spirdu nìuru hai sempri a lu latu,
chi dici: - 'Un cc'è cchiu sprânza! si' pirdutu! E 'n'àutru Spirdu, senza riventu:
- Pirdutu sì'!... Türmentu! Türmentu! E chidda Morti, di li funni rua
l'eccu cci fa cu li scaccani sua.
E stupenda è l'arte del poeta quando opportunamente insinua l'amaro
rimproccio, pur largendo la lode (vv. 13-16, 22-28, 130-131); quando con
una parola aggetivale dà una scudisciata a sangue o scopre la latebre
dell'anima (vv. 43-44); quando da vero maestro maneggia terribile ironia
(vv. 83-86, 145-146).
Anche nella scelta del metro è entrata l'arte. Gli esempj, sopra riferiti,
ci fanno conoscere che il metro prescelto è quello della maestosa canzuna allungata, che conosciamo1; e qui aggiungo, che di essa ci porge
esempio già il quattrocento, e precisamente in una sacra rappresentazione2; il che ribadisce e comprova che quella forma metrica fu scientemente prescelta come la più idonea e adatta a un componimento che ha
ragione e scopo precipuamente ed eminentemente morale.
E qui cade in acconcio una parola su la struttura dei versi. «L'armoniosa
1
2
Cfr. alle pp. 12-13.
Vedi: ROSALIA ANASTASI-CAMPAGNA, Di una sacra rappresentazione del quattrocento in dialetto siciliano (Palermo, Scuola tip. «Boccone del Povero», 1913); ma , così
come essa venne stampata, il metro sfugge a chi non guarda con attenzione.
281
melodia pittrice» sovraneggia dal primo all'ultimo; ma noto, che in tutt'i
testi costantemente abbondano i versi accentuati su la quarta e la serttima sillaba, fatto isolito o eccezionale nella poesia popolare nostra, così
epica come lirica. E poichè nulla a caso il popolo fa e mantiene, credo
che la ragione di questo fatto debba trovarsi precisamente nella musica
propria de La Baronessa, una musica che (stando alla remota mia impressione) meglio si adatta a quella cadenza, e la vuole quasi.
La quale musica, tutta propria e speciale de La Barunissa, dolce e
carezzevole nelle prime due parti, svolgevasi poi rapida spezzettata singhiozzante e lugubre nella terza e quarta, per mutarsi d'un tratto in lenta
solenne severa nell'ultima. Nel complesso prevaleva una nota monotona, cadenzata, che in altre storie non ho mai sentita. Ma le mie sono
lontanissime e sbiadite reminiscenze; le persone che meglio ne conservano memoria, si esprimono uniformemente con le parole: «una musica passionata e melanconica molto: spremea lagrime e dava fremiti e
brividi»1.
9. Leggendo La Baronessa, impressione il fatto che i mirabili suoi
versi richiamano spesso a confronti biblici e classici, con sì precisa rispondenza talvolta, che si direbbe a vere il Poeta tenuto innanzi a modello e libri e autori, su cui aveva affinato e ornato il ben disposto ingegno:
e il sommo Dante è massimamente il maestro e l'autore che più d'altri
ricorre alla mente, e nelle scene più altamente drammatiche, e nella coraggiosa fiera parola che sentenzia e condanna, e nell'ironia tagliente,
e in atteggiamenti varj delle immagini e delle espressioni. Ciò credetti
già e sostenni, quando tentai individuare il Poeta; ma anche in ciò oggi,
con più matura esperienza, porto altra opinione; e metto da banda e
lascio ad altri le erudite copiose citazioni di raffonti e rispondenze. Del
sapere biblico e delle espressioni e citazioni jeratiche il popolo ha ben
fornita la memoria, come si sa, per quello che in passato ha appreso e pur
oggi apprende dalla bocca de' Ministri del culto. Quanto agli elementi
classici che si riscontrano nel poemetto, a parte la considerazione che
questi si erano già largamente infiltrati nella poesia popolare e popolareggiante dei secoli XV e XVI, è da considerarli forse da un altro punto
di vista, questo cioè: che gli scrittori classici (e non occorre provarlo)
1
282
Sgraziatamente, non la si ode più da molti anni, almeno per mezzo dei Cantastorie. Qualche
nota, potuta sorprendere in bocca a massaje che ripeteano la Storia canticchiando, è stata
raccolta da musicisti miei amici e la do in fine. Vedi «Note illustrative e Documenti»,
XXVI.
hanno attinto alle fonti popolari tradizionali, portandovi, com'è naturale,
la impronta del proprio genio. E quanto a Dante in ispecie, la cui opera
più spesso ci sovviene, noto, che anch'egli fu un grande assimilatore
dell'anima e del sentire e del linguaggio del popolo, e che egli era studiatissimo in Sicilia nel cinquecento e conosciuto anche ai poeti di popolo
e popolareggianti1.
10. Tenendo a base e punto di partenza il testo reintegrato che per noi
è genuino, riesce agevole dimostrare le successive modificazioni e alterazioni e contaminazioni che, con l'aiuto di propizie circostanze, vennero conseguentemente a generare l'errore e dar luogo al testo apocrifo.
Queste circostanze son quattro principalmente: la trasmigrazione orale
e regionale del poemetto; la insufficiente nozione del Caso e de' suoi
attori, che apparvero sin dal principio avvolti di silenzio e mistero; la
influenza e coercizione baronale; spirito religioso imperante.
Nella poesia popolare, lo sappiamo già, fatto ordinario questo: che, o
per dimenticanza o per fraintesa o per ambizione di correggere e di collaborare, si fanno dal popolo stesso delle sostituzioni, dalle variazioni,
delle aggiunte, le quali, insieme a qualche felice miglioramento e perfezionamento, apportano di necessità equivoci e guasti ed errori, involontarj il più spesso; equivoci e guasti ed errori che si mantengono e anche
si accrescono con la incerta conoscenza dei fatti e delle persone, come
accade per tutte le narrazioni orali che fanno più o meno lungo viaggio e
si stccano affatto dal punto iniziale. Ma intanto, ce c'è chi ha interesse di
trar profitto di essi (quando pur non s'è adoperato a provocarli e crearli
deliberatamente), è chiaro che debba sforzarsi a propagarli e accreditarli
in tutt'i modi, sì che il vero e il giusto e l'onesto necessariamente vengono a oscurarsi e a dileguarsi.
Or tutto questo è precisamente accaduto a La Baronessa.
Abbiao conosciuto come i due Baroni ordirono e compirono il misfatto, prestabilendo e disponendo in modo le cose, che esso (poichè occultarlo era impossibile) passasse tra la gente sfigurato e abbujato. La voce
del popolo, sia pur cauta e sommessa, non la potevano però soffocare e
fermare; potevano bensì alterarla esviarla, sia con le false macchinazioni
e le violente azioni perpretate, sia con la messa in credito e diffusione
delle alterazioni e deviazioni che il canto popolare naturalmente subiva
1
Questo si può in parte vedere in varj pregevoli scrittarelli di LUDOVICO PERRONIGRANDE; ne toccano di volo in altri scritti: VINCENZO DI GIOVANNI, S.
SALOMONE-MARINO e LUIGI NATOLI; ma i più lo ignorano, e merita che venga
ampiamente dimostrato.
283
nel passare da persona a persona e da paese a paese. E ciò, non occorre
dirlo, con maggiore facilità e potere ottennero nella regione stessa ove il
Caso avvenne e che era sottoposta alla loro Signoria.
Posso recare qualche prova, che, dando ragione al mio assunto, serve
nel tempo stesso a farci intendere e ammettere quelle altre che non posso
apprestare perchè mi mancano i termini di paragone.
L'antico primitivo testo, fedele al vero, portava che la Baronessa nel
fatale mattino fu terrificamente sorpresa dal padre mentre pigliava spassu cu lu sò Signuri1. Meglio e con più precisione non poteva indicarsi il
Vernagallo, che dicendolo Signore; perchè tale egli era, e signoreggiante
allora la Baronessa. Ma poichè con questa egli se ne stava e anch'egli
apparteneva a baronale famiglia, si capisce come facile sorse la sostituzione di Baruni a Signuri, e quindi la variante del verso:
pigghiannu spassu cu lu sò Baruni.
La quale variante, essendochè i due amanti stavano affacciati al balcone
donde videro giungere a corsa il padre con la Cavalleria, ci comparisce
anche con l'altra forma:
'ffacciannu a spassu cu lu sò Baruni;
oppure, dopo subìta ulteriore modificazione:
era affacciata cu lu sò Baruni.
Ma anch'essa quest'ultima lezione si altera e muta, agevolmente, quasi naturalmente, per semplice sostituzione e aggiunzione di lettere, e
diventa:
era affacciata a lu sò barcuni.
Ed ecco allora di un tratto, con le apparenze di spontaneità semplicissima e inocentissima (che però move il dubbio del dolo), la scena e il fatto
mutano radicalmente. È scomparso in fatti il Barone, il Signore, l'amante
insomma, e sola rimane la Baronessa; sola, e però non colta in flagranti,
e però con responsabilità e colpevolezza attenuate. La sua colpa si riduce
1
284
Vedi, per questo e gli altri esempj: «Note illustrative e Documenti», XXIV, e «Varianti più
notevoli».
al platonico amore dall'alto balcone con un bel Cavaliere, che è nemico
al genitore di lei; ma al postuto, l'amante non essendo entrato nel sacro
ricinto domestico, ella corporalmente è pura, e di conseguenza «fu morta» a torto, innocente1!
Il primo e più difficile passo, così, è fatto: gli altri seguiranno più
spediti, più sicuri.
In fatti, ecco qui. Dice il Poeta, parlando del palazzo del parricida in
Palermo:
Su' chiusi li finestri, amaru mia,
dunni affacciava dda stidda adurata;
le varianti, che a dda stidda adurata sostituiscono la rosa odurata,
chidd'amanti amata, la Dia adurata ecc., discono in fondo lo stesso;
ma quando, con l'aggiunta di unsemplice pronome possessivo, portano:
la me' rosa grata, la me' amanti amata, la me' Dia adurata, ecco che
hanno ricondotto in iscena l'amante in persona, vivo, ansioso di avere
nuove della sua diletta; e allora si comprende bene che i versi che vengono dopo si debbono mutare conseguentemente, e i due:
e 'ntra l'arma 'na vuci piulïa:
- La bella, chi tu cerchi, è trapassata! diventano per graduale passaggio:
e la mamma sta vuci pilïa...
la mamma fa li vuci e dici a mia...
'ffaccia la mamma e dici: - Amaru tia!
la bella, chi tu cerchi, è trapassata!
con che si dimostra, che la mamma o altre donne della famiglia2, piangendo la cara vittima, compiangono pure l'amante, col quale usano una
certa riguardosa dimesticheza.
1
2
Su la frase «fu morta», nel significato di «fu ammazzata», che ha fatto sproloquiare più
d'uno, a proposito dell'atto di morte della Baronessa, vedi: «Note illustrative e Documenti»,
XVII.
In alcune varianti è una sorella che parla, in altre una zia.
285
Conseguenza diretta di questo novo aspetto del dramma è, che l'innamorato ha ormai levato il posto al Poeta e si è a lui sostituito: e però è
lui, l'innamorato, che risponde alla Morte, non già:
Cercu la donna chi gràzii spannia,
cercu la rosa d'amuri odurata,
oppure, con l'altra comune variante:
cercu a cu' tantu di beni facìa,
cercu la bella donna 'nnamurata;
ma con quest'altra, che essenzialmente muta le cose per virtù del pronome possessivo:
Cercu a cu' tantu beni mi vulìa,
cercu la bella mïa 'nnamurata.
Ed è lui, l'innamorato, che prega il sagrestano e poimil Diavolo; è lui,
che scende in inferno a trovarvi la meschina dannata; e qui, lo scambio
di persona è favorito e roborato da un equivoco di interpretazione, senza
che ci sia mutamento nel testo. Questo dice:
Idda suspira: - Cori sciliratu,
st'orrenni peni pri tia li patu! ma poichè a lei sta dinanzi l'amante, viene naturale il credere e l'interpretare, che le parole: Cori sciliratu ecc. siano rivolte appunto all'amante,
e non al proprio cuore, come veramente sono. E da qui, corollario quasi
indispensabile, è venuta e si è aggiunta la risposta messa in bocca a lui,
per iscusarsi puerilmente con tepide attestazioni d'amore, o per dichiarare ignobilmente d'esser pentito di avere perso per lei il dolce mondo, ove
c'eran donne di lei più belle!
E ormai, preso l'aìre risolutamente, alla nova convenevole via non si
rinunzia più. E spunta Vernagallo, desolato e impaurito, che si nasconde,
veste la tonaca fratesca e fugge lontano a piangere e far penitenza (chè
a lui sono prestati i versi riguardanti il pentimento del paricida), immedesimandosi con la persone di quel suo cugino Don Vincenzo, cui la
286
vilenza dei due Baroni e la coatta adesione dei Vernagallo sostituì a lui
nel dramma.
Nel quale, sconvolti già i punti cardinali, anche la inventa e neocreata
Caterina dovea fatalmente entrare. E c'era entrata da un pezzo, più o
meno furtivamente, poichè il suo nome ricorre già nel dialogo infernale
tra' due amanti, nel secolo XVIII; ma stabilmente vi si inviscerò dopo
che un novo Caso, congenere e per certi aspetti conforme all'antico, venne a verificarsi proprio in un rampollo della stessa Casa della Baronessa,
e diede nascimento alla popolare Storia di Donna Catarina. Pericchè
questa Storia, pur sorvivendo indipendente, per opera del popolo stesso
che confuse e fuse le due Caterine, si infiltrò in parte nella Storia di la
Barunissa e le trasmise quasi integro il bello e orribile episodio del sogno, episodio che già fermo e sicuro troviamo in essa nel 18281.
Dovrei intrattenermi di altre modificazioni e alterazioni del testo, che
generarono equivoci ed errori; ma chi ha conscenza e pratica du studj
popolari potrà agevolmente vederle da sè e intenderle e rendersene ragione, e però me ne passo; ma una non posso trascurare, che ha capitale
importanza.
Buona parte dei testi (apocrifi quasi tutti) ci dànno la ucciosionedella
Baronessa soltanto, presentando il padre che la trapassa il core con un
primo colpo e poi comanda al Compagno che la finisca lui col secondo,
il colpo di grazia. Dicono, nella lezione più corretta2:
E comu dici st'amari palori,
mina la spata e càssacci lu cori.
- Tira, Cumpagnu miu, nun la garrari,
secunnu colpu la gràzia cci ha' dari!
Tira, Cumpagnu sicuru e fidili,
a lu secunnu spàccacci li rini! A primu colpu la donna cadiu,
a lu secunnu la vita finiu.
È chiaro, non restano dubbj. Ma, con gli elementi e conoscenze che
ora possediamo, mettiamo di fronte a questo apocrifo il testo genuino,
chìè il seguente:
1
2
Vedi: «Note illustrative e Documenti», XV, XXII e XXIV.
Come documento e come materiale poetico che ha singolari bellezze, il testo apocrifo lo
do tra le «Note illustrative e Documenti», XXIII, insieme a quello di Donna Caterina. E
cfr. «Varianti più notevoli».
287
E sùbitu ca dici sti palori,
mina la spata e càssacci lu cori.
A primu colpu la donna cadiu,
guardau a sò patri, e la vita finiu.
- Tira, Cumpagnu, e tu puru fa' fini,
a lu Cainu spàccacci li rini! Mettendo da parte alcune altre modifiche e variazioni dovute alla trasmissione orale del testo e che il lettore può riscontrare tra le «Varianti»,
restiamo alle due lezioni che abbiamo riferito.
E, confrontando, ci accorgiamo subito che, oltre alle alterazioni e allo
spostamento dei distici, si ha il raddoppiamento d'uno di essi, intanto che
nasce equivoco e conseguente errore per la inesatta interpretazione della
parola secunnu. Questa parola viene come adjettivo attribuita a colpu,
mentre in realtà non lo è, e non devesi pigliare che come sostantivo e
intendere con essa il secondo, cioè, l'altro colpevole, il Vernagallo.
E così, sol che nel testo apocrifo sostituiamo questa variante delo
secondo distico:
- Tira, Cumpagnu miu, nun lu garrari,
a lu secunnu la gràzia 'un cci dari; e mettiamo un e al posto dell'a, nell'ultimo verso, risulta che anche il testo apocrifo dice la verità sulla doppia uccisione; verità che fu fraintesa,
o a caso o ad arte, per cagione di quell'amante che a ogni modo si volle
assente dal Castello e fuggito dal Regno e pentito.
Alle alterazioni e agli equivoci e agli errori che si verificarono nel
poemetto, o accidentalmente o per arte procurata e agevolata dagli interessati, diè contributo e ajiuto l'autorità chiesiastica con la proibizione del
canto della Storia, nel lodevole intento di farla possibilmente obbliare
insieme al truce fatto; perocchè dovea saper male al clero che si esaltasse e celebrasse sì alto una donna che, data la sua condizione, era grande
esempio di scandalo. Ma il buon proposito, nello zelo dei religiosi, non
era il solo movente della proibizione; ce n'era un altro più grave, che più
completamente la spiega. Nel poemetto c'è messo alla gogna un Monaco
tristo, per un più tristo ufficio; e per giunte è poi ficcato in inferno con
la tonaca e il Breviario!... Ma c'è di più e peggio ancora: c'è ammesso «il
288
patto» col Diavolo, la preghiera a questo, la sommissione e dedizione, il
riconoscimento della sua potente Sovranità. È troppo! Questa è eresia.
Come volete che la Chiesa cattolica la tolleri, che la lasci non perseguita
e impunita?
11. Ho innanzi accennato, che il diligente esame e la cernita delle
varianti del poemetto mi ha condotto, oltrechè alla dimostrazione e identificazione del testo apocrifo, alla scoperta di un altro testo, il quale,
evidentemente nato autonomo, si confuse poi con l'altro più perfetto e
accetto, e per esso e in esso scomparve1.
Senza dubbio (poichè questo è fatto costante che vediamo anche ai
giorni nostri) la tragedia di Carini dovette dar nascimento e corso a parecchie Storie popolari. Le meno valide e meno vitali scomparvero e si
obbliarono, debellate dalle migliori, che con poco contrasto occuparono
il campo. Due, almeno, dovettero esser queste, e tuttedue si diffusero
per l'Isola indipendentemente, e indipendentemente dovettero coesistere
per qualche tempo. Ma finirono poi con l'incontrarsi, col fondersi e costituire una Storia sola; poichè, non difformi in sostanza nel metro, procedevano in accordo completo pel contenuto, avendo comuni e identici
i fatti e le particolari circostanze, gli apprezzamenti e i sentimenti su di
essi e su gli attori, apprezzamenti e sentimenti che erano quelli generali
del popolo.
I rottami superstiti, tratti di mezzo alle varianti e raccolti insieme,
chiero dimostrano la esistenza di quest'altro testo e ce ne raffigurano
pure la struttura e in certo qual modo la estensione e il valore. E dalla
distribuzione topografica e copia di essi ci è dato conoscere che quest'altra poesia, la quale presumibilmente si intitolò: Lu Casu di la Signura
di Carini, corse più specialmente nelle regioni orientali della Sicilia.
Risulta, ch'essa era rimata nella più comune forma di semplici canzuni;
e questo spiega la facile sua commistione con le canzuni allungati del
testo più eccellente e trionfante.
Cedendo alla Storia le sue ottave migliori, il Casu ne ha conservate
in proprio alcune, che completano e illustrano episodj e particolarità che
quellaaccenna appena o fa intravedere sbiaditamente. Così le gite del
Vernagallo al Castello, sul generoso corsiero; così lo affacciarsi della
Baronessa al balcone tutte le mattine, come consuetudine; così il lamento delle Prefiche nel palazzo del padre in Palermo, che se non ha valore
1
I sospetti di una seconda Storia poetica mi eran già venuti da antico tempo, e li espresi a
p. 116 del _ibro mio (2ª ediz.)
289
storico come ho detto, ha però valore etnico e ci documenta ancora una
volta la formola del rèpito nel cinquecento; così la pazzia del Barone
parricida, accolta in due ottave, che il popolo con tenacia conserva. E
meritamente: chè in esse, più e meglio che in quelle della Storia c'è impresso tal sentimento di alta giustizia e tale cognizione della psiche umana, in una forma che non potea essere più nobile e più peregrina, che si
resta ammirati: un uomo, che si reputa onnipotente e intangibile e spezza
violentemente due giovani vite, eccolo annientato dal Solo Potente, che
con due chiodi roventi infittigli nel cervello e una perenne visione di
sangue lo martoria, pur consevandogli la vita tra pena ineffabile infinita
continua!
Sono poi inestimabile giojello, nel Casu, i versi che con originale
efficacissima immagine comparative definiscono l'amore colposo e le
sue conseguenze, e quegli altri che in rapide pennellate figurano mirabilemnte la scannata bella Signora, che fa ora paura con le alterazioni
impressele dagli spasmi agonici.
I frammenti del Casu, tratte di mezzo al coacervo delle varianti, come
degno completamento della Storia e documento li allego in appendice
a essa.
E, seconda appendice, aggiungo La bella giùvina, una «Storia ad
Aria» in settenarj, che si riferisce alla stessa tragedia e che viva e fresca
circola fra il popolo. Deriva direttamente dalla Storia e dal Casu, senza accoglierne le speciali circostanze che avrebbero potuto ostacolarne
la libera recitazione e diffusione, e si limita al compianto della vittima
accennando lontanamente e ombratamente alle cause della repentina
morte della giovane in sul più bello dei godimenti dell'amore. Si direbbe
creata apposta per potersi cantare liberamente e altamente ovunque dai
Cantastorie, i quali dovevano essere più cauti e riguardosi per persone e
luoghi quando cantavano in pubblico.
La bella giùvina non è coeva, forse, all'avvenimento, e pare nata probabilmente varj anni appresso; ma a ogni modo, la sua antichità e diffusione ci è documentata dal testo che, alterato già, correva nel settecento
e dalle imitazioni che se ne trovano, e dalle lezioni che ancora sorviono
nel Continente, ove pur essa trasmigrò1.
12. La influenza predominante che il poemetto, sùbito diffuso e venuto in fama, esercutò sulla poesia siciliana adespota e nominale, ci ap1
290
Vedi: «Appendice», II.
paricsce evidente sol che mettiamo l'occhio sulla ricca produzione poetica dalla fine del XVI secolo ini poi. Troviamo, non solamente parziali
imitazioni e appropriazioni di versi e ottave de La Barunissa, ma perfino
Storie popolari che su di essa si modallano. sforzandosi di andarle dietro,
tanto per trarne qualche riflesso de' raggi luminosi e farne gala. Cito:
Lu stupendu et maravigliusu Successu di dui infilicí Amanti milanisi; Historia nova di la Vanarina galanti: lu malu fini chi l'imbattiu con lu
suo Innamuratu; - Eccessu, e lagrimusu chiantu di dui infilici Amanti
innamurati alla citatoi di Giurgenti; - La Donna di Calatafimi; - Capu
Fetu; - Li Cumpari di lu Còmisu; - Cuntrastu di la Morti e l'Ignuranti,
ecc. che ne dànno precisa dimostrazione; e, fatto di singolare importanza, provano che già sin dallo scorcio del cinquecento si ha sicuro indizio
della esistenza e diffusione del testo apocrifo del poemetto1.
La eccellenza e la nominanza de La Barunissa anche un altro fatto
genera: l'ambixzione che pervade varj poeti del popolo, di appropriarsi
la paternità di quella mirabile poesia. Questo è, del resto, fatto comune e
antico: quanti poerti non si sono attribuits disinvoltamente la proprietà di
parecchi de' più belli canti popolari tradizionali anonimi? La Barunissa
non è sfuggita a questa sorte. L'hanno procalamata creaziine propria:
in Palermo, Gioacchino Corrao; in Borgetto, Salvatore Munneddu;
in Capaci, Giuseppe Giammona; in Montelepre, Giovanni Troja; in
Salaparuta, Michele Aloisio; mentre in Caribìni se la sono disputata
Giacomo Randazzo e Giuseppe Gambino; ma tutti, peraltro, questi poeti
di popolo affermavano prudenti che l'aveano composta su l'ordito e su
le tracce di qualche «rima» che su l'argomento avevano sentito cantare
tra le canzuni antichi. Precisamente quello che confessa ingenuamente
Mariano Paolella, in Napoli, quando ambiziosetto raffazzona ed amplia
la Fenesta che lucive, frammento appunto della Storia nostra2.
Altra prova (ove occorresse) della trisecolare celebrità e valore de
La Barunissa ci è fornita dai travestimenti e dalle parodie. Si sa: questi
non li ottengono che le poesie celebri e universalmente apprezzate; e La
Barunissa ha appunto un travestimento sacro, e parecchie parodie delle
ottave più caratteristiche e diffuse. Gustose e spiritose sono le paridie,
che ritroviamo anche nel Continente; non così il travestimento, nato per
la condizione speciale de''ambiente religioso rigido e intollerante che incombeva nei secoli scorsi su le popolazioni. Dopo il Concilio di Trento,
1
2
Vedi: «Note illustrative e documenti», XXIV.
Vedi: «Note illustrative e documenti», XXVI.
291
si sa, ci fu tendenza e sforzo di rivolgere a intendimenti sacri le opere
profane di maggior grido della nostra letteratura. La Barunissa, famosa
e diffusissima, per le ragioni stesse per cui incorse nel divieto e nell'anatema, fu sottoposta anche al travestimento; certo per opera di zelante
chiesiastico, che nelle Fraterie e Congregazioni sperò valido ajuto perchè
quella sua Arma salvata acquistasse diffusione e credito. Ma, pur mostrando ingegnoso e abile lavoro, quel travestimento è riuscito alquanto
grottesco; ebbe misera fortuna, e solo presso qualche bigotta se n'è mantenuta l'eco fino al tempo nostro1.
13. Qui occorre anche ristare un po' frammentarie lezioni che della
Storia di la Barunissa sopravvivono presso il popolo del Continente.
È indubitato, che al pari delle altre poesie popolari nostre, e liriche e
narrative, la Storia abbia varcato lo stretto e corso le varie regioni d'Italia. In queste intanto non restano ai tempi nostri (almeno per quel che
conosciamo) che sei soli frammenti, per compenso estesamente diffusi2; ma è strano che nessun vestigio, fra essi, ci sia di quello che è più
essenziale e speciale e drammatico descrivente il parricidio. Ignoro le
ragioni dell'ostracismo o della facile oblivione; e le semplici congetture
non approderebbero, prive come sono di base. Bisogna dire che habent
sua fata anche le singole parti d'una poesia, per quanto eccellenti ugualmente; e l'ebbero quelle del nostro poemetto, il quale, quando passò nella
Penisola, intero al certo dovette passarvi, non a brandelli. Poichè nel
cinquecento la corrente emigratoria della poesia popolare isolana verso
il Continente, se non è più quella de' due secoli anteriori, perdura tuttavia
rilevante, come ce lo dimostrano le Storie nostre ivi stampate primamente o ristampate e tradotte e imitate, e con esse le raccolte manoscritte di
«Canzone siciliane» che numerose si trovano nelle Biblioteche d'Italia.
Guardando ai frammenti peninsulari de La Barunissa e alla loro
copia e distribuzione topografica, noi possiamo seguire anche oggi le
stabili e dimostrative tracce del cammino che il poemetto fece nella sua
trasmigrazione continentale. Le Calabrie, la Basilicata, la Campania, le
Puglie, il Molise, l'Abruzzo, presentano i frammenti in maggior nume1
2
292
Vedi, «Appendice», III.
Corrispondono ai versi della Storia 119-124, 127-142, 143-154, 155-164, 165-176,
217-226. Si possono riscontrare sparsi nelle singole collezione di Canti popolari pubblicate in Italia, ma in gruppi ragguardevoli presso CASETTI e IMBRIANI, Canti delle provincie meridionali (Torino, E. Loescher, 1871); SALOMONE-MARINO, La Baronessa
di Carini, seconda ediz. cit.; e MOLINARO DEL CHIARO, Un canto del popolo napoletano con varianti e confronti (Napoli, Tip. Argenio, 1881).
ro, più conformi all'originario testo, meno guasti, con copiose varianti e
derivazioni; poi, in ordine gradatamente discendente, vengono il Lazio e
l'Umbria e la Toscana, ove le modificazioni e alterazioni si rendono più
evidenti, ma sempre minori e men radicali di quelle che troviamo nelle
Marche, nell'Emilia e nel Veneto; fino a che nell'Istria, in Lombardia,
nella Liguria e nel Piemonte il vestigio si scorge appena, raro e tenuissimo. E questo, parmi, scopre e documenta con la desiderabile evidenza
l'originario punto di mossa e la progressione itineraria del poemetto siciliano nella Penisola.
Tra' sei frammenti, che come canti isolati, autonomi sopravvivono
oggi in Italia, due ve ne hanno che si trovano già sin dal quattrocento notissimi e popolari in essa, nella regione mediana principalmente; sì che si
è sopsettato che l'autore de La Barunissa si fosse giovato, nel comporta,
anche di questi elementi tradizionali continentali1. Ciò è possibile e non
ha nulla di strano o insueto nel campo della poesia popolare, tanto più
se si tien conto che la importazione poetica italiana non mancava allora
in Sicilia, per quanto limitata; ma non si può escludere che quei canti,
originariamente siciliani, possano aver già trasmigrato in più antico tempo nel Continente come tanti altri dell'Isola; e pertanto, il Poeta non si
srviva per la sua Storia che di materiali indigeni affatto, che trovavansi
contemporaneamente nella Penisola, ma ch'egli avea ancora sottomano
con gli altri nella natia terra.
14. Il Caso, che sì caldamente eccitò l'anima poetica del popolo, doveva
pu allettare e ispirare i letterati e gli artisti. Ma l'argomento er scabroso
per essi, più assai che per il popolo; non lo toccarono perciò che tardivamente, quando le ondate tempestose erano rassettate e i navigatori potevano avventurarsi per entro al gran mare, sicuri anche da insidiosi scogli.
Notabile il fatto, e forse non casuale, che primo ad abbordare il soggetto fu Don Giuseppe Lanza Principe della Trabia, un diretto erede del
parricida, che compose alfierescamente una Tragedia nel 1804. E significativo è questo, che egli apponeva ad essa la oraziana epigrafe: Vestigia
graeca ausi deserere et celebrare domestica facta; e la storia della propria Casa ben la conosceva egli, storico ed erudito. E benchè, nelle poche
parole che premette alla Tragedia, egli faccia appello alle testimonianze
1
Vedi: RUBIERI, Storia della poesia popolare italiana, cit., P. I, c. XIV, p. 197; P. II, c.
VIII, pp. 341-343, e c. X, pp. 379-381; - e «Note illustrative e Documenti», XXIV. Il
RUBIERI ritiene il «canto infernale» probabile derivazione dantesca, ispirato dall'episodio di Francesca da Rimini.
293
dei Cronisti e del Villabianca (generatrici e alimentatrici del falso, dolosamente e prepotentemente voluto), pure, scartando la intrusa Caterina,
dà nella Tragedia alla protagonista il nome vero di Laura; e, attenendosi
al vero, dice morta da un pezzo la madre di questa; ammette che antiche
erano le relazioni intime di Laura col Vernagallo, iniziatesi in un festino nel palazzo stesso dei La Grua in Palermo, e che essa ha già il seno
fecondo... E quando il padre, conservandogli l'apocrifo nome di Pietro
(e qui il prudente riguardo si capisce), lo dipinge con esattezza iracondo,
imperioso e fiero, inesorabile cuore, tiranno «sotto mentito aspetto d'autorità paterna». La Tragedia di Don Giuseppe Lanza è fedele alla storia,
nei limiti naturalmente che allora potea consentirsi1.
Trentaquattro anni dopo il Lanza, Giovanni Ondes-Reggio metteva a
stampa: Roberto, ossia il Barone siciliano, romanzo storico, che attinge
affatto alla tradizione popolare. E tratta di peso da esso romanzo, segue
immediatamente la Tragedia di Paolo Morello, scrittore con subitaneo
entusiasmo, lasciata poi senza i necessarj ritocchi e finimenti.
Poi ritorna un periodo di silenzio, dovuto anche agli avvenimenti politici. Ma la stampa, nel libro mio, della ricomposta Leggenda poetica
popolare, insieme a generale ammirazione ed entusiasmo riaccende gli
estri e le fantasie.
Mario Villareale ne trae La Baronessa di Carini, leggenda in versi, e Giovanni Alfredo Cesareo Il Barone di Asturi. E mentre Carlo
Cicala e Giovan Battista Damiani arrischiano qualche tenue bozzetto,
e Francesco Sabatini ne traccia per sommi capi una notizia storico-tradizionale, Luigi Natoli ci intesse attorno una prima e poi una seconda
e una terza Novella, industriandosi di conciliare storia e tradizione, così
come può, mutando situazioni e svolgimenti dall'una all'altra. E niente
più che Novella, ritessuta su l'ordito popolare apocrifo, è la narrazione
che Pietro Barcellona-Passalacqua ha preteso di gabellare come storia, e
come tale facendola in sua fede accogliere a Francesco Nicotra.
Affascinati dal testo poetico originale, preclari intelletti hanno inteso
a farlo conoscere in altri idiomi. Giacomo Zanella inizia una versione
italiana, che però tosto abbandona, reputandosi inidoneo a rendere an1
294
L'A. si recò al castello Carinese e per conoscerlo e per osservare la tradizionale impronta
sanguigna; ma fu gita infruttuosa: il custude gli disse che la impronta esisteva di fatto, ma
non potea mostrargliela, sì perchè quella tale stanza era ingombra di orzo e altri cereali, sì
ancora perchè egli stesso, per levarsi di dosso i molti curiosi, che affluivano per lo stesso
motivo, l'avea ricoperta con uno strato di calce.
Per questa lel Lanza e per le altre produzioni letterarie e artistiche che passo in rassegna,
vedi, in fine: «Bibliografia della Baronessa di Carini».
che la minima parte di tante «bellezze di ordine superiore»; e così pur
fa Teodoro de Puymaigre, che lascia incompleta la versione francese che
mi aveva preannunziato. Ma il cimento affrontano e superano con bella
prova Giuseppe Vàglica nella magnifica lingua di Vergilio, Tommaso
Cannizzaro nella italiana, Martin Schneeklot nella danese e Arturo
Brehmer-Dornberg nella tedesca.
A gara co' letterati vengono attorno alla Baronessa gli artisti. E mentre Giuseppe Profeta, con sei acquerelli (oltre il frontispizio) di puro stile
cinquecentisco illustra figure ed episodj della Leggenda poetica, la quale
il Maestro Stefano Gentile riveste di note musicali; lo stesso Gentile
trova in essa ispirazione per un Dramma musicale, al quale appone le
note il Maestro Emanuele Morello; così come una Tragedia lirica scrive
a sua volta Francesco Paolo Mulè, che viene musicata dal fratello di lui,
il Maestro Giuseppe.
Che più? Anche il Cinematografo s'è impadronito dell'argomento: ma
la rappresentazione fattane in Brescia al 1910, insufficientemente preparata, non ebbe sèguito; e attende che le subentri una nuova, che già so che
si studia e prepara con la dovuta diligenza.
295
IV.
E ora è tempo di «calar le vele e raccogliere le sarte». Il poema, ch'è
vanto e gloria della Musa popolare siciliana, dopo quasi mezzo secolo
di paziente indefesso lavoro ho potuto dalle sprse membra riordinare
e reintegrare, e con illustrazione presumibilmente piena presentarlo al
pubblico colto. E questo, delibandolo per come esso merita, apprezzerà
con più sicura coscienza la mente e l'arte collettiva del popolo e ammirerà con sentita soddisfazione i fulgori e l'armonia con che il popolo ha
rivestito una storia truce, ma dalla cui mostruosità inaudita ha voluto
trarre una confortevole morale e un senso di giustizia capaci a rilevare
fidatamente le speranze e lo spirito in regioni più splendide e pure.
Deponendo la penna, di questo io mi dico soddisfatto: che pur tramezzo a gravi studj ed esercizio di scienza, doveri pubblici e privati,
battaglie e dolori della vita, io ho potuto condurre in porto quest'opera;
la quale, iniziata sotto gli auspicj della venerata mia Mamma in momenti
che uscivo da sconforti e pericoli, mi è sommamente cara: nè mai l'ho
scordata o messa da parte. Quando la iniziai, mi spingeva e reggeva
la balda gioventù, l'audace entusiasmo, la incrollabile fede; ora, che la
consegno al pubblico con le ultime cure, mi accorgo che sono al declino
del mio giorno, che all'entusiasmo e subentrato il disgusto, alla fede lo
scetticismo. Però, se stanca è la carne, freddo il cuore e diffidente la ragione, saldo resta l'animo: saldo nella coscienza di aver adempiuto a un
dovere verso il popolo e gli studj e la patria, di aver speso non al tutto
invano tante fatiche.
Ma, meglio che delle elucubrazioni mie quali che esse siano, si beeranno gli studiosi de La Barunissa di Carini, di questa sublime inarrivabile poesia che, tra le congeneri, come sole tra gli astri minori spande
su tutte luce e calore e armonia e vita, e come l'Amore, che essa così
mirabilmente canta, tutto e tutti domina e vince e avvolge ne la sua ruota
ardente!
296
297
298
I.
Chianci Palermu, chianci Siragusa1,
Chianci Carini lu amaru Casu
chi fu petra di l'àriu dulusa,
fu dragunara arbòlica, marvasa,
A cuntalla, la Storia rispittusa, lu cori abbunna e lu sangu stravasa,
cà di tirruri la menti cunfusa,
e a cu' la senti resta l'arma 'nvasa;
e resta un gruppu, e resta 'na rancura:
Comu si persi sta bella Signura! Stidda lucenti, com'àppi sta fini?
Povira Barunissa di Carini!
1
5
10
II.
Lu Casu amaru successi a Carini.
'Ntra ddu Casteddu sò gudia lu beni
la Barunissa, ciuriddu d'aprili, e lu spannia l'oduri e lu meli.
Lu Vernagallu, di sangu gintili,
chi di la giuvintù l'onuri teni,
cci va d'attornu stinaci e suttili
comu la lapa abbramata di meli. E sicutivu veni e puntuali
supra un cavaddu chi vola senz'ali,
e meli cogghi, 'n menzu a li so' frunni,
cà lu ciuriddu pronti cci rispunni,
e prontu adduma e sfaidda d'arduri cà tuttu vinci e d'òmina l'Amuri.
1
15
20
25
Le necessarie note dichiarative del testo si trovano riunite in fine a esso.
299
L'Amuri dòmina e li cori vinci,
forti l'attacca a la sò ardenti rota
cu 'na catina chi li 'ngrana e strinci
e cci fa bàttiri la stissa mota; cu vita duci li tira e custrinci,
cu raj di suli la vista cci abbota,
e di filicità 'ntornu li pinci
cu stiddi d'oru e scocchi di rosa.
Ma l'oru fa la 'nvìdia a mala genti, la rosa odura frisca pri mumenti;
ma l'oru è scuma di praja marina,
la rosa sfògghia e resta la spina!
La scura sira tri uri sunava
e lu Baruni di càccia vinia, quannu a Palazzu si cci prisintava
un munacheddu chi 'n prèscia juncia.
Tutta la sira in segretu cci stava
sulu-suliddu cu sò Signuria;
a mezza notti, letu si nni java, ma lu Baruni smanìa e santìa...
Gesù - Maria! ca l'àriu si 'nfuscau,
lu jacobbu ddà 'mpressu cucculau!
Afferra lu Baroni spata e armu:
- Vola, cavaddu, fora di Palermu! E vu', fidili, sùbitu cu mia,
a la me' spadda tutt' 'a Cumpagnia! -
30
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50
III.
La prim'arbura 'ncarnata lucìa
e l'Ùstrica affacciava di lu mari;
la lònira massara ziulïa e s'àusa, lu suli a salutari;
ma lu spriveri cci rumpi la via,
forti a lu pettu la veni a 'ggranfari,
tempu 'un cci duna ch' a lu nidu scïa,
300
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tempu 'un cci duna d'ajutu circari, e cci stàgghia lu filici cantu
e si la porta cu tirruri e scantu.
Sìmuli scantu e sìmuli tirruri
àppi la Barunissa di Carini:
era affacciata cu lu sò Signuri pàlita e stanca di spassi e piaciri,
l'occhi a lu celu, a la stidda d'Amuri,
cà sàzii nun su' li so' disiri.
Vidi currente 'na Cavallaria:
- Ivì! me' Patri!... Addiu, vita mia!...- - Signuri Patri, chi vinistu a fari?
- Signura figghia, vi vinni a 'mmazzari.
- 'Na gràzia cheju, Patri e Signuri,
mi nettu l'arma cu lu cunfissuri...
- L'arma, tu, lìmpia l'avivi a sarvari! Gràzia è lu sangu, pri onuri lavari! E sùbitu ca dici sti palori,
mina la spata e càssacci lu cori.
A primu corpu la Donna cadiu,
guardau a sò patri, e la vita finiu. - Tira, Cumpagnu, e tu puru fa' fini,
a lu Cainu spàccacci li rini! Chiudiu la scena e lu cecu gudiri,
'stutò lu sangu dda ciamma vutura.
Ora curriti, genti di Carini, ora, ch'è morta la vostra Signura!
Ora curriti, monaci e parrini,
ma no pri accumpagnalla in sepultura!
Quannu gridau ajutu a lu muriri,
nuddu currìstivu, e ristau sula! Sula! e lu beni 'un cci potti giuvari:
o Carinisi, cci fùstivu Cani!
Cani cci fùstivu a l'amara Donna,
lassata 'ntra lu sangu e la virgogna!
60
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301
Tinta dda donna, chi lu nidu sconza e a lu dicembru timpistusu 'un penza!
tintu ddu cori, ch'è 'na sicca sponza
e assuppa ogn'acqua, e mai 'stuta l'ardenza!
Ma cc'è Cu' vìgghia, Cu' dirigi e conza,
li torti cosi li rimetti a lenza: supra li torti di lu munnu riu
camina la Giustizia di Diu;
firma camina, cu li passi uguali,
'nfallantimenti ripara lu mali.
95
100
IV.
La mala nova allura batti l'ali, tuttu lu Regnu l'ha misu a rumuri,
e 'ntra tutti li chiazzi e li stratali
la genti fa cuncùmiu e lapuni.
E 'ntra Palermu tutti universali
restanu spanti di pena e tirruri: - Chi mala morti! Chi morti firali!
Tuttu stu dannu, curpa malu amuri! E allura chi a Palazzu cci arrivau,
la mamma comu morta strangusciau;
li tri suruzzi, capiddi 'un avìanu; criati e baggi, gran chiantu facìanu;
siccaru li galòfari a li grasti,
e si chiùsiru tutti li finestri.
Su' chiusi li finestri, amaru mia,
dunni affacciava dda stidda adurata; quann'affacciava, ogni cosa chiarìa,
e ora cc' è lu scuru nni la strata!
e 'ntra l'arma 'na vuci pulìa:
- La bella, chi tu cerchi, è trapassata!
È trapassata, àppi mala sorti, senza la Cruci, a lu scuru, a la notti!
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Vaju di notti comu va la luna,
vidiri vògghiu a la galanti Dia;
pri strata mi scuntrau la Morti bruna,
senz'occhi e bucca guardava e dicìa e mi dissi: - Unni vai, cu sta primura?
- Cercu la Donna chi gràzii spannia,
cercu la rosa d'amuri odurata...
- Tardu cci arrivi! cà è suttirrata!
E si 'un mi cridi, a la Matrici vai, dintra lu zùbbiu, ddà, la truvirai:
china di vermi la gula sciacquata
dunni luceva la ricca ciannaca;
nidu di surci la sò capiddera
ca oru e perni cuncignata era; e rusicati li so' nichi manu,
sfunnatu l'occhiu gazzu jaculanu!
- Bon sagristanu chi stai a la Cura,
chi sipillisti a sta disgraziata,
e tu accordamillu un quartu d'ura quantu la vju a sta Signura amata
chi si scantava di durmiri sula
e or' è cu tanti morti, scunsulata!
Spinci la cciappa di la sepultura
ca iu cci calu 'na tòrcia addumata...- La tòrcia calu, e sùbitu s'astuta:
chistu è lu signu ca idda è pirduta;
pirduta è! a lu 'Nfernu pinìa,
ddà sempri resta, cà è chiusa ogni via!
- Diavulu, ca teni Signuria, fammi sta gràzia chi ti dumannu:
fammi parrari a la galanti Dia
e l'arma mia ti cedu a tò cumannu.Lu Serpi, prontu: - Lu pattu è pri mia!
Cavàrcami, e ti portu ddà vulannu.- E com'un fùlmini tàgghia la via,
pri l'àriu scuru mi porta cantannu,
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303
cà sicuru l'àvia lu guvernu
ddu Putenti Patruni di lu 'Nfernu.
Jìvi a lu 'Nfernu, a lu 'nfilici Statu, quant'armi persi! mancu cci capia!
Vju a Giuda munacheddu 'ngratu,
liggìa l'Offiziu e tradimenti urdia...
E po' cchiù sutta, 'ntra un focu svampatu,
chidda mischina, e lu cori s'ardìa, cà di cuntinu cci mina lu ciatu
criscennu vampi a la sò vampa ria.
Idda suspira: - Cori sciliratu,
st'orrenni peni pri tia li patu!
Sti frutti cogghi cu va a mala via, ddà picca godi, ccà eternu pinìa!
Ma cu' cci curpa!... Sta lingua 'un si stanca,
e ccà l'aspettu, a sta 'nfucata vanca!
Lu tempu veni, cà rota è lu munnu,
lu gran mari sicca e assurgi lu funnu!...- 165
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V.
Gran guaj cci sunnu, e lu tempu è curtu;
tempu chi aspett? vòtati cu Cristu;
Cristru diligi lu bonu e lu bruttu,
Cristu pirduna anchi a lu Cani tristu.
Li sònnura, ca scròpinu lu tuttu, chiddu ch'àvi a succèdiri hannu dittu:
cà di la terra, lagrimusu e 'ncuttu
junci un lamentu a li pedi di Cristu;
e a lu Casteddu, ch'ha chiusi li porti,
lu sangu grida vinnitta e morti; a lu Casteddu, di Spirdi 'nvasatu,
vinnitta e morti grida dispiratu.
E: - Morti! - scrami tu, sènziu smannatu;
la Morti fuj, pri nun ti dari ajutu.
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D'amici e di parenti abbandunatu, 195
peju di l'appistatu e lu sbannatu,
tampasiannu cu l'occhiu scasatu
pari un malumbra di la fossa 'sciutu;
un Spirdi nìuru hai sempri a lu latu
chi dici: - 'Un cc'è cchiù spranza! si' pirdutu! - 200
e 'n'àutru Spirdu, senza riventu:
- Pirdütu si'!... Turmëntu! Turmëntu! E chidda Morti, di li funni rua
l'eccu cci fa cu li scàccani sua.
Vòta la prua, cà l'unna è in fururi e la tò varca 'un cci pò cuntrastari,
cà lu marusu la batti a tutt'uri
e lu fragellu cci scinni firali.
O Cani patri, e chi cci dimuri?
chi cchiù nni speri di li cristiani? Sulu misiricordi è lu Signuri,
rifùgiu a lu sò portu poi truvari.
Rutta è la vila cu li palimenti,
senza timuni, 'n putiri a li venti,
si nun lu chiami a Diu, Nacheri spertu, la morti è 'mpressu, lu dannari è certu.
Ritìrati 'ntra un àspiru disertu
a mangiar'erba cu li bruti armali,
soini puncenti lu mìsaru lettu
e pri capizzu 'na petra puntali; po' cu 'na cuti ti batti lu pettu
fina chi l'occhi tua fannu ciumari,
fina chi lu cummovi a Diu dilettu
e ti fa gràzia di lu pirdunari:
puru a li Turchi ca pintuti sunnu li pirduna lu Patri di lu munnu.
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210
215
220
225
Stu munnu è un gurgu di dolu e fruduri,
ma lu distinu nni junci fatali;
e stu Casu ruinu d'attirruri
305
chi mai si 'ntisi 'ntra li Cristiani è sagrilègiu chi, senza pirduni,
lu chiancirannu lu zuccu e li rami.
Lu chiancirannu! Pinzati, pinzati,
cu' fa lu mali cu l'occhi cicati,
e caru teni l'onuri fallenti e la manu di Diu càlcula nenti!
O gran manu di Diu, ca tantu pisi,
cala, manu di Diu, fatti palisi! 306
230
235
238
NOTE 1
Versi 1-2.
Cioè piange tutta la Sicilia, rappresentata dalle due principali città che
stanno a due punti estremi di essa. carini è poi singolarmente ricordata
perchè in essa accadde il Caso.
vv. 15-16.
Indicano la fama che godeva la Baronessa per la bellezza e grazia e
beneficenza.
v. 23.
Le fronde, a cui sta in mezzo il fiore, significano la famiglia della
Baronessa.
v. 40.
Anche Don Cesare Lanza è un passionato della caccia, com'erano tutti i
Nobili massime allora, che accompagnavano e secondavano la frenesia
venatoria del Vicerè La Cerda.
vv. 42-45.
Nel diminutivo vezzeggiativo munacheddu c'è non soltanto la indicazione della piccola statura del monaco, ma anche una punta di sottile ironia
per quel ribaldo, che appariva lieto in viso dopo di aver compiuto il tristo
ufficio di spia.
vv. 55-56.
L'allodola è sempre mattiniera (massara) e nel momento che spicca il
volo emette un zirlo speciale (zìulu) più lungo di quello del tordo. Il saluto canoro degli uccelli al sole nascente, ricordato con frequenza nei canti
del popolo, si fa perchè il sole è immagine di Dio creatore
Quannu spunta, l'aveu a salutari
pirchì veru ritrattu iddu è di Diu,
1
Avverto, che queste note essenzialmente appartengono al popolo stesso, la più parte,
avendole io ricavate dai comenti e dalle osservazioni fattemi dalle persone che m'hanno
fornito la Storia.
307
dice una canzona popolare (VIGO, Raccolta amplissima, n. 3290, p.
508); e altrove, si fa dire al sole stesso (ID. ibid., n. 3482, p. 530):
Iu... sugnu di Diu spècchiu e splennuri.
v. 70.
Addiu, vita mia! è l'ultimo saluto alla vita propria, che si comprende
finita; ma può anche essere rivolto all'amante.
v. 79.
Qui, come pure in seguito, Donna non è solamente la donna, ma la
Domina, cioè la Signora, quale veramente era la Baronessa di Carini.
v. 80.
In questo sguardo della spirante Donna al padre uccisore, quanta verità
e profondo significato!
v. 91.
Lu beni: i beneficj largiti ai Carinesi, che la Baronessa sperò invano le
avessero a esserle utili, in quell'estremo frangente.
v. 94.
Allude (come spiega la radizione) al cadavere della trafitta buttato a vituperio su la via, con divieto del sepellimento.
v. 96.
Il decembre indica l'inverno ma forse intenzionalmente fu qui adoprato,
a lasciar preciso ricordo della catastrofe che accadde appunto in tale
mese. E per ciò ho anteposta questa variante alle altre equivalenti. Anche
nelle ottave de Lu Casu l'inverno è designato con la perifrasi di mese del
Natale, cioè, il decembre.
vv. 97-98.
I comenti niente benevoli delle massaje a questi due versi li lascio inediti
nei manoscritti de' testi poetici.
v. 113.
Cioè, la mala nova, che dopo invasa la città penetrò nel Palazzo gentilizio.
308
v. 128.
Dia, come pure stidda lucenti, ciuriddu d'aprili, rosa adurata e altri
epiteti, aggiunti, ipocorismi che troviamo qui e negli altri testi delle
«Varianti» e «Note illustrative e Documenti», sono di uso estesissimo
nella poesia popolare in lode delle donne amate, così come furono presso i poeti de' primi secoli della nostra lingua, che attinsero appunto alle
fonti poetiche del popolo.
v. 133.
Come si vede, questa rosa d'amuri odurata non è che la rosa fresca
aulentissima di GIULLO D'ALCAMO, pur sempre viva nel nostro canzoniere popolare; ma, più di una massaja mi ha spiegato, che in questa
espressione laudativa c'è allusione ironica al corteggiamento esteso che
la Baronessa consentiva ai Cavalieri...
v. 92.
Cani, si sa, erano i Turchi, gl'Infedeli, allora i peggiori e più feroci e disastrosi nemici della Cristianità. E più innanzi (ai vv. 184 e 209) il Poeta
dà del Cane al parricida, e a ragione.
vv. 143-144.
La tradizione unanime, e in prosa e in versi, fa merito al buon sagrestano
nel pietoso ufficio del sepellimento, ch'egli effettui a mezzanotte, solo,
pur paventando per la propria vita.
vv. 146-148.
I comenti, che i popolani fanno qui, constatano che una fine ironia si
mesce alla espressione di pietà: la Signora, amata, che per... paura non
voleva restar mai sola nel letto, ora, ne la fossa, non trova consólo che in
brutti numerosi morti!
v. 159.
Serpe biblicamente è chiamato il Diavolo non qui solamente, ma in molte poesie popolari e popolareggianti, e n'ho larga serie di esempj dal
secolo XIV in poi; ma è superfluo riportarli.
v. 184.
Vedi la nota al verso 92.
309
vv. 185-186.
Facendo saper qui il Poeta, che quanto ha visto ed ha udito in inferno
non è stata che visione sognata rivelatrice del futuro, viene indirettamente a scusarsi della supposta proghiera e dedizione al Diavolo; e intanto,
a dimostra meglio il suo sentimento cristiano, con zelo e calore incita al
pentimento e alla penitenza il parricida.
v. 196.
Basta dare un'occhiata alle Cronache del tempo per conoscere quanta
paura incutessero allora gli appestati e i banditi e come fossero sfuggiti.
vv. 199-202.
Questi due Spiriti neri, che straziano con tormento ineffabile il parricida, sono le due anime degli amanti ammazzati, rimaste vagolanti per le
ragioni già dette a pag. 151.
v. 215.
Dio, come Nocchiero e Timoniero esperto a cui solo si può ricorrere nelle tempeste pericolose della vita, in cui solo si può avere speranza e fiducia per attingere il porto, è ricordato sovente nei canti popolari siciliani.
v. 218.
Non basta aver detto armali, che in siciliano ha sempre significato di
bestia, ma il Poeta vi aggiunge l'addiettivo bruti (brutali, feroci) per dare
al parricida compagni di lui degni.
310
VARIANTI PIÙ NOTEVOLI. 1
Versi 1-12:
Palermu cu Missina e Siragusa
chiàncinu tutti casa pri casa:
sintennu sta tragèdia dulurusa
càgghia lu sangu e resta l'arma 'nvasa.
Oh gran petra di l'àriu dulusa
ca ruinau 'na culonna di casa!
E s'astutau la stidda zaffini,
la bella Barunissa di Carini!
--Chianci Palermu, Tràpani e Sirausa,
Carini chianci cchiù a la sò Signura,
ora la chianci afflitta e peurusa
ca cci scuppò sta sàbita mal'ura.
La Storia vi la dicu rispittusa
e ognunu che la senti si rancura:
comu si persi e àppi mala la fini
la galanti Signura di Carini!
E Carini la persi la culonna,
la persi la curuna cu la palma;
e ora nni pàrranu di tinta donna
ca lu persi lu corpu e puru l'alma!
---
1
Riporto solo quelle che precisano o chiariscono meglio le circostanze del dramma, o recano situazioni nuove, o rifulgono per mirabile forma. Con rammarico debbo sagrificare,
anche qui nelle Varianti, quei brani sovranamente belli per magistero d'arte e squisitezza e
potenza di sentimento, che tolsi dal poemetto, o perchè intrusi o perchè ne rompevano la
rapida efficace intà d'azione e passione.
311
Chianci Palermu, Missina è cunfusa,
Carini trèmanu a ogni casa:
sta mala nova sùbitu orrurusa
oh Diu chi vinni caina e marvasa!
Sta giùvina, com'àppi sta svintura?
Idda cci curpa, la bella Signra:
fu idda pròpria la stidda surtili,
si persi la luci di tutta Carini!
--Chianci Palermu cu pena e tirruri
cà stu Casu cainu e firaci,
Belluvidiri cu Dainasturi,
tutta Carini pèrsiru la paci;
cà sta saitta ca vinni a fururi
li stirminau li Genti e li Casi1;
nun s'aspittava stu malu distinu
la Barunissa a lu filici nidu!
--Vv. 13-26:
E fu a lu Casteddu di Carini;
ddà si persi sta Donna 'nnamureri
cu tanti pompi e cu tanti fistini,
quannu spannìa li gràzii e lu meli;
la bella camina 'ntra un tàgghiu suttili,
amara quannu cci sbota lu pedi!
amara quannu s'incenni d'arduri
e cedi sùggica a lu cecu Amuri!
---
1
Vernagallu era giuvini gintili,
era lu ciuri di li Cavaleri,
312
Qui (spiega il popolo) si allude alle nobili Case travolte dal tragico avvenimento e ai loro
vassalli.
mastru d'amuri stinaci e suttili
cci java attornu cu milli maneri;
cci java attornu e tutta la cunfunni
a chidda rosa 'ntra li virdi frunni,
cà sfaiddannu gran vampi d'arduri,
pri sempri vinci triunfa l'Amuri.
--Supra d'un baju chi vola senz'ali
'na bella matinata cci cumpari,
e supra ddu Casteddu di valuri
spinci bannera lu dòminu Amuri.
--Lu ciuriddu, ammugghiatu a li so' frunni,
forti disïa, ma trema e 'un rispunni:
ma batti petra ca sfaidda arduri,
la stissa petra s'adduma d'amuri.
--Vv. 27-38:
Amuri è dòminu e ogni munnu vinci
quannu chi la firrìa la sò rota,
filici la firrìa e mai la 'mpinci
tutta parata di oru e di rosa;
ma dd'oru squàgghia come l'acquazzina
e di la rosa nni resta la spina.
--Amuri è vita e ogni vita vinci,
iddu li movi lu fusu e la rota,
tutti li cori li 'ngàgghia e li strinci
e cci fa bàttiri la duci mota;
313
li raj filici d'attornu cci cinci
e 'ntra lu menzu un buttuni di rosa;
ma dipo' junci lu ventu chi abbinci
e guasta e abbatti e strudi ogni cosa,
e 'ntra tantu stirminiu e ruina
sulu chi resta a li cori la spina!
--Amuri, Amuri, ca lu tuttu vinci
e t'assetti a lu culmu di la rota,
Amuri, tu li cori li custrinci,
ti li 'ncatini a la viloci rota,
'ntra 'na strata filici curri e spinci
'mmenzu du' belli filara di rosa;
Ma lu tò carru porta a la ruina
e si l'agghiutti la trumma marina!
--Vv. 39-52:
Un munacheddu di mala razzina
a lu palazzu a cursa cci juncia
e a lu Baruni pri tutta la sira
sigreta cunfidenza cci tinia;
la porta a menza notti si grapiva,
lu munacheddu niscennu ridia...
Ma lu Baruni smanìa e santìa
ca mancu cchiù di l'occhi cci vidia:
e afferra sùbitu la spata e l'ermu
e vola pri Carini a fari 'nfernu,
e com'un lampu a Carini juncia
cu tutta la fidili Cumpagnia.
---
314
- Signur Baruni, la cuscenza sgravu
pri lu rispettu di Vossignuria,
cà 'n Palermu àvi sempri a passiari
lu cchiù primu cu l'àuta Signuria.
--Vv. 56-62:
Mentri spuntava la prima chiarìa
e arrusicava l'Ùstrica a lu mari,
Catarinella a 'ffacciari vinia
cà a lu suli idda voli salutari;
la lonaredda lu cantu facìa
ca l'alma cci facìa ricriari,
cci lu facìa lu filici cantu
cà idda era 'nnamurata tantu!
--Vv. 63-82:
Era affacciata a lu finistruni
la galanti Signura di Carini
abbrazzatedda cu lu caru Amuri
ca mai era sàzia di gudiri,
e sùbitu àvi gran scantu e tirruri
ca 'na Cavallaria currenti vidi:
- Ivì! finiu! Addiu, stidda d'Amuri!
Chistu è me' patri che mi veni a ocidi!
--Stava 'ffacciata cu lu sò Baruni
la facci stanca di spassi e piaciri,
pri salutari la stidda d'Amuri
cà sulu Amuri chiama e suspira;
ma lu spriveri cci scoppa a fururi,
315
di supra e sutta aggranfata si vidi:
- O patri, ivì! e chi vuliti fari?
- Figghia, iu pròpria ti vinni a 'mmazzari.
Tu m'allutasti la Casa e l'Onuri,
cu lu tò sangu cci dugnu sblennuri!
e 'ntra Palermu lu Baruni fari,
tornu tra li Baruni a triunfari! --- 'Spittati un pocu, Patri e Signuri,
mi nettu l'alma ch'ha fattu l'erruri.
- Trentatrì anni chi nun cerchi a Diu!
L'alma tò, ora, ti la nettu iu!
--A ddu gran colpu la Donna cadìu,
fici un lamentu e la vita finìu.
- Tira, Cumpagnu! A la razza caini
lu smagghiaturi azzìccacci a li rini! --- Mina, Cumpagnu! La Donna finìu,
e tu finìscilu a lu judìu!
Mina a li rini, lu cuteddu mina,
lèvala tunnu la razza caina! --Vv. 83-94:
E fineru li spassi e li piaciri!
Sangu li porti e sangu su' li mura;
sangu, chi tinci la facci a Carini
cà 'un desi ajutu a la sò Signura:
'nterra a li cani lassau crudili
316
comu nun fussi umana criatura!
La 'urvicaru cu 'na cruda sorti
senza la Cruci, a lu scuru, di notti!
--Vv. 89-92:
Ma nun currìstivu e nuddu la 'ntisi
quannu gridau: - Ajutu, Carinisi! e: - Cani, Carinisi! - àppi a gridari
l'ultima vuci a puntu di spirari.
--Vv. 131-142:
E mi dissi: - Unni vai, mesta pirsuna?
- Cercu a cu' tantu di beni facìa,
cercu dda rosa ulienti spumpata...
- Nun la circari! È 'nterra spampinata!
Si vôi vidirla, a la Matrici vai,
cerca la fossa e ddà la truvirai
cu tanti morti 'ntra la fossa lata
pocu chhiù sutta dunn'è la Biata;
e cci la vidi la sò bianca gula
ch'àvi di vermi 'na ricca cuddura,
tutta vermi la biunna capiddera
ca perni e ciuri cchiù prima luceva,
e vermi trovi a la nicuzza manu,
puru a l'ucchiuzzi lucenti e baggianu.
--Vv. 159-164:
Lu Serpi, prontu, cà sempri cudìa:
- Cavàrcami, cà sugnu a tò cumannu. 317
Sùbitu sprêmu a 'na scurusa via,
nun sàcciu dunni nè comu nè quannu,
cà navicava dominu supernu
lu Cìfaru, Patruni di lu 'Nfernu.
--Vv. 165-168:
Iìvi a lu 'Nfernu, a lu malu Statu
chi a l'arrmi mali li cògghi e castja:
ccìera lu Giuda mònacu malnatu,
'mparissi ca l'Offiziu si liggìa
e cu tutta la tònaca, abbirsatu,
puru a ddu 'Nfernu tradïa e ridïa!...
--Cc'era Fra Nùnziu, lu Giuda scurzatu,
lu libru in manu e li tràjni urdìa...
--Vv. 177-180:
Me' patri fu!... Filici ora campa,
com'ora èni putenti la sò vampa:
ma puru si stuta lu suli a lu munnu,
e lu gran mari sicca di tunnu!
--Vv. 193-204:
Comu la frasca ali venti purtatu,
nun trova posa cchiù, nun trova ajutu,
e pari un pazzu, di tutti scanzatu,
pari un suspettu, di tutti fujutu,
318
Tampasiannu comu lu 'ntamatu,
comu un malumbra pri l'àriu mutu,
di dui Spirdi si vidi assicutatu
chi dicinu: - 'Un cc'è sprânza! si' pirdutu! e sicutivu lu longu lamentu:
- Turmentu sempri! Turmentu! Turmentu! E po' la Morti, di luntani rua,
cci fa lu leccu e li scàccani sua.
--Vv. 227-232:
Làssati, o munnu, li toi fruduri,
lassàtila la zòria, genti mali,
cà la vència li passi l'ha sicuri
e lu distinu agghiunci fatali;
nun cc'è Casteddu, no, nè bastiuni
chi a lu gran mali lu pò riparari:
e stu sagrilègiu, cu giusta ragiuni
porta a ruina lu zuccu e li rami.
Porta ruina! Pinzati, pinzati,
vu' chi lu mali faciti cicati,
e la cara tiniti glurienti
facennu offisa a Diu 'nnipotenti!
Diu 'nnipotenti, chi nun timi offisi,
la forti manu tua falla palisi!
319
320
APPENDICE
I.
Lu Casu di la Signura di Carini.
Una, li dui, li pochi palori,
l'amaru casu nun si pò cuntari:
tanta è la pena ca trema lu cori
e l'occhi abbùndanu comu du' ciumari.
Amuri e 'ngannu e tràppula di cori,
varca senza timuni a menzu mari
chi nni lu freu si sprufunna e mori
cu tantu dannu e ruina eternali1.
Bon Cristiani, chiancìti la sditta:
cci curpa Amuri, chi li cori appretta,
la vita cci la fa duci e giujtta
e dipo' feli e vilenu cci jetta:
chidda filicità è 'na saitta
ca mancu la stiss'ùmmira nni resta!
resta lu sangu chi grida vinnitta,
vinnitta grida a la donna chi pecca!
Bedda era la Signura di Carini,
ca, si affacciava, pareva la luna
quannu spicchïa supra li marini
ca alligrizza a li cori duna;
arristurava tutti li mischini,
arriparava la mala furtuna,
tutti li genti luntani e vicini
l'amavanu di cori a la Signura.
A lu Casteddu facennu dimura,
cci va e veni un bellu Cavaleri,
lu Vernagallu cu tanta primura
ca sempri l'occhi a dda finestra teni;
1
Var.: Tutta Carini si rancura e doli
cà a lu sangu nun cci fu ripari,
l'hannu scannatu a du' filici cori...
Cc'è lu trabuccu e nun si pò parrari.
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comu ch'annarba e po' quannu scura
supra un cavaddu falbu cci riveni,
e cci dimustra galana pirsuna
cu ddu cavaddu ch'in'aria si teni.
Tintu a cu' fida, cridennu a lu beni!
lu malu amuri porta sempri mali;
è manganeddu chi gira e mai teni
e 'mbròggia li fila e li rumpi fatali;
la rosa spumpa e odura a primaveri,
la spina sula cci trovi a Natali;
donna chi fa l'amuri e 'un si cunteni,
lu vermi dintra di tunnu la radi.
...
Lu sènziu lu persi cci smanìa
cà sempri ha 'nnanti la bella figura;
ogni matina a la finestra jìa,
'sennu 'nciammata, circava friscura...
Spunta ddà sutta 'na Cavallaria,
com'un spriveri sò patri a fururi:
- Addiu, Amuri! finiu, vita mia! cci allintaru li gammi di tirruri.
- Pirchì vinistu, Patri e Signuri?...
- Signura figgia, vi vinni a 'mmazzari.
- Dàtimi gràzia di lu cunfissuri
ca li piccati mi vògghiu lavari...
- Chista 'un è ura cchiù di cunfissuri
nè mancu di Diu pirdunu spirari!...
E, 'mmesti un colpu di tantu fururi,
lu cori in dui cci vosi spaccari.
...
E senza nudd'ajutu àppi a finiri
cà a nuddu si truvau a la mal'ura!
Nun la sintistu, o genti di Carini,
e ora la chianciti a la Signura!
Quanni vi facìa beni senza fini,
'un si cridia ch'arristava sula!
e senza di li mònaci e parrini
sula si la purtaru in sepultura!
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Sula a la sepultura comu cani,
senza la Cruci, di notti, a lu scuru,
cà nuddu cci fu a l'accumpagnari,
lu sagristanu, e si scantava puru1.
Oh Diu! comu si vitti strafurmari!
dda bianca facci divintau scura,
dda vucca fina, storta cumpari,
e dd'occhiu gazzu, ora, fa paura!
...
Quannu si 'ntisi l'orribuli riu,
tutta la genti cu pena tramau.
Comu la nova a palazzu cci jiu,
la mamma cascò 'n terra e assincupau;
Donna Linora cu Donna Maria
tutti li so' capiddi si pilau;
la stissa terra macari chiancìa,
e lu rèpitu allura cuminzau:
- Oimè! la bella giùvina finiu!
Oimè! la terra la patruniau!
Oimè! l'occhiu brillanti cci murìu!
Oimè! lu russu labbru aggiarniau!
Oimè! cchiù nun la sentu e nun la vju,
passò la Morti e lu ciuri siccau!
- Figghia, ca eri comu 'na culonna,
ca eri lu triunfu e la giurlanna!
eri 'na palummedda senza lonna,
eri 'mpastata di zùccaru e manna2!
E ora finisci comu tinta donna,
lu pirdisti lu corpu e puru l'arma!
Figghia, chista è scurìa ca cchiù 'un agghiorna
e lu Celu e lu munnu ti cundanna!
- Oh figghia Catarina di stu cori,
malu distinu chi avisti a passari!
E cu' lu senti, com'è ca nun mori?
tirruri nn'hannu li Cristiani!
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Var.: cà nuddu la purtau a 'urvicari,
sulu lu sagristanu cu paura.
Ver.: eri 'na palummedda bianca e biunna
cu lu pittuzzu di meli e di manna!
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'Na nègghia scura m'accupa lu cori,
sta nègghia scura vinni di lu mari!...
Mi mancanu li vuci e li palori,
mi nesci l'arma, nun pozzu ciatari! ...
A lu Casteddu cc'è li Spirdi mali,
si 'ntrattennu d'arrassu li pirsuni,
cà scuri sunnu li mura macari
e fannu vutu li so' finistruni:
chianci e fa vutu chiddu perru cani,
ddu malu brutu, ìmpiu Baruni1.
'Ntra scuri vaddi, 'ntra vòscura funni
va circannu la figghia ca murìu,
e si vota a lu mari e spja all'unni:
- Dunn'è la figghia mia, lu beni miu? E lu pròpriu mari cci rispunni:
- Pazzu! chi cerchi? Pri sempri finìu! ...
Cu' fa lu mali, lu Celu l'arriva:
tintu cu' a malu caminu si trova!
cà lu sò cori mai paci lu civa
e un minutu d'abbentu mai lu prova.
Va comu 'na malumbra chi 'un è viva,
ch'àvi 'na pena chi sempri arrinova,
'na pena turmintusa sicutiva
di spini vilinusi e ardenti chiova.
Du' chiova cci arzïanu la ragiuni,
sempri àvi all'occhi 'na manta di sangu,
e sempri ca ruina a valancuni
e mai vidi fini a l'eternu malannu.
Stu sagrilègiu 'u chianci lu Baruni,
tutti li rami soi lu chiancirannu:
la putinzìa perdi lu sò valuri,
Diu sulu poti, Diu sulu ha cumannu!
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Var.: puru fa vutu dd'omu bistiali,
ddu malu patri, cainu Baruni.
La bella giùvina.
Oh Diu! la bella giùvina
com'àppi sta sbintura!
li vermi si la màngianu,
la terra nn'è patruna!
Dicìtimi, dicìtimi,
ccà cu' cci vinni a stari?
La Morti e lu Silènziu
cci vinni ad abitari.
Sagristaneddu amabuli,
grapi sta sepultura,
pigghia 'na tòrcia e addumala,
quantu la chìanciu un'ura.
Si tu l'avissia a vìdiri
di quantu è rispittusa,
puru ti metti a chiànciri,
cu mia scinni ddà jusu.
Vi pregu, surci e càmuli,
vermi, nun li mangiati
sta gula tutta gràzia,
sti labbra 'nzuccarati:
vi pregu, surci e càmuli,
guardati sti billizzi,
st'occhi spaccati e nìuri,
sti longhi e biummi trizzi.
Supra la fridda lapidi
cci formu 'na scrittura:
cu' passa, 'mpinci a leggiri
chista 'ngrata sbintura:
Oh Diu, la bella giùvina
si persi pri mala sorti!
Rosa ulineti amabuli,
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feti ora cu li morti!
Morti, chi fusti barbara!
Morti, chi fusti cruda!
cà 'ntra lu mègghiu gòdiri
l'amanti è 'n sepultura!
NOTA. ha molte varianti e aggiunte e imitazioni. Col titolo meno comune:
L'amanti morta correva già in uno scorretto foglietto volante del slito stampatore
Mauro (Palermo, 1861, 1864), e fu ripubblicata nella mia Baronessa di Carini
(1870 e 1873) e nella Biblioteca delle tradizioni popolari siciliane (II, 1871 e
1891). Ma che fosse antica e abbastanza diffusa anche nel Continente lo dimostrano due lezioni che sono a stampa, una di Roma (SABATINI, Saggio di canti popolari romani, IV, 1878), l'altra di Acri, fusa e confusa con la Cecilia, (A. JULIA, in
«Archivio per lo studio per le tradiz. popol.», VI, p. 243; 1887) e una terza inedita
di Campochiaro (Campobasso) che ne segnava la lettera (12 febbr. 1893) il D.r
EMILIO PITTARELLI.
Un'«Aria» di Acireale che ha il VIGO (Racc. amplissima, N, 1367, p. 307) non
è che derivazione de La bella giuvina; ma da un'altra, che subito si fa riconoscere
per derivazione più diretta e più vicina, apprendiamo la esistenza e diffusione
di essa nel secolo XVII presso il popolo. Riporto integralmente questo interessante e utile testo, che leggesi alle pp. 113-114 delle Arie e Canzonette, ms. della
Comunale di Palermo, segnato 2Qq.B.104.
Mi criju di nun ci essiri
omu (cchiù) disgraziatu,
chi 'ntra stu munnu barbaru
nun c'è, nè ci n'è statu.
Mi viju già tra l'ultimi,
lu munnu m'ha stuffatu:
oh Morti, veni subitu
e tirati lu sciatu1.
Mentri staju pri mòriri,
mi veni 'n fantasia
chi tu fusti la causa
di dari morti a mia.
La sèggia sta pri vèniri2,
la Cruci è priparata,
lu beccamortu è in ordini
chi spingi la balata;
unni, fazzu 'na làpidi
cu un ringu di scrittura,
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Cioè, il fiato mio: ammazzami.
La speciale seggetta in cui si trasportavano i cadaveri.
ch'ognunu avissi a leggiri
la me' ria svintura,
lassannu pri proverbiu
a tutti li picciotti:
Di non amari a fimmini,
vi portanu a la morti.
Si penzu poi cui passa
supra di la balata...
Ci passa chidda perfida
chi mi fu 'nnamurata!
Dintra st'oscura fossa
di vermi iu mangiatu,
ohimè! su' ccà 'ntra l'ùmitu
ca tanti morti a latu.
Si partu1 di stu latu,
osservu testi ed ossa;
già mi cunfirmu e dicu:
Su' veru 'ntra la fossa.
Si guardu l'àutru latu,
iu viju 'ntra un tabbutu
ddi surci chi trastullanu
c'un mortu scarfirutu.
È veru ch'àvi' a mòriri
comu tu ancora sai,
ma si 'un amava a Fillidi
avi' a campari assai.
E lassu pri proverbiu
a tutti li picciotti:
Di non amari a fimmini,
vi portanu a la morti!
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Forse volea scrivere guardu, in rispondenza all'altra strofa; ma anche parlu può stare.
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