Dark Horse - Nuovo Cineforum Rovereto

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Dark Horse - Nuovo Cineforum Rovereto
martedì 12 marzo 2013
Dark Horse
Todd Solondz, USA 2011, 84’
Dark Horse è con tutta probabilità il film più colorato e “libero”
(nella costruzione drammaturgica) mai diretto da Todd Solondz. E anche il più pessimista. Almeno in apparenza, infatti,
il regista sembra attenuare l’atrabile che impregnava il fondo
delle sue opere precedenti.
Scomparsi i padri di famiglia
pedofili, i bambini petulanti e
razzisti, i fanatici antiabortisti
e tutte le figure tanto care (?!)
all’universo narrativo del Nostro, rimane ben presente l’ineluttabile disperazione esistenziale dei suoi personaggi, da
sempre impegnati alla ricerca
(impossibile) della felicità. E’
il caso di Abe (Jordan Gelber),
ebreo ultratrentenne del New
Jersey, collezionista di giocattoli e memorabilia di 007, che
vive ancora con i genitori (suo
padre è un maestosamente keatoniano Cristopher Walken) e
lavora, di malavoglia, presso
l’azienda di famiglia. Ha un
fratello più giovane, Richard,
che fa il medico in California e
che rappresenta, ai suoi occhi
(e soprattutto a quelli dei suoi
genitori) tutto quello che lui non
è: bello, giudizioso, realizzato
nel lavoro. Quando però conosce Miranda (una bellissima e
tristissima Selma Blair), la sua
routine subisce un repentino
cambio di marcia: il sonno gli
si popola di strane premonizioni, la quotidianità rivela pieghe
sconosciute e inaspettate, il
mondo che credeva di conoscere così bene gli si sgretola
davanti agli occhi. E mentre la
suoneria del cellulare gli ricorda beffardamente la necessità
di “trasformare la propria vita”,
Abe va incontro al suo destino.
Rispetto alle calcolatissime architetture narrative cui Solondz
ci aveva abituati, il film sembra sviluppare un lato onirico
che, pur presente negli altri
film (chi non ricorda le buffe
reveries dello stesso Todd nel
primissimo Fear, Anxiety and
Depression, o i ben più inquietanti sogni di Dylan Baker
in Happiness?), in questo caso
deborda progressivamente fino
a rendere la vicenda reale e
quella sognata indistinguibili
fra loro. Ma ha senso chiedersi
dove stia la differenza, se la realtà ha la stessa (in)consistenza
di una sit-com o di uno spot?
Tanto più che la fuga nel sogno
non guarisce le frustrazioni né
dà voce ai desideri inappagati: la mamma (Mia Farrow),
con dolce crudeltà, ricorda al
povero Abe di non essere riuscito a soddisfare alcuna delle
scommesse che la famiglia aveva fiduciosamente riposto in lui;
Marie (Donna Murphy), l’appassita segretaria dell’ufficio
paterno, prima lo sconsiglia
caldamente di intraprendere
una relazione con Miranda, e
poi si rivela una sorta di milionaria mangiatrice di uomini;
Mahmoud (Aasif Mandvi), ex
fidanzato di Miranda, afferma
che in fondo, nella vita, i conti
non tornano mai e che nulla ha
senso. Per questo Walter Mitty
del XXI secolo non esistono consolazioni di nessun tipo (“L’umanità è una cloaca”, sentenzia
Abe con rabbia), nemmeno
quella dell’amore, visto che Miranda sembra interessarsi a lui
solo perché ritiene di non poter
meritare di meglio. Ecco quindi emergere il retrogusto allarmante dietro la vernice di stravagante brillantezza:
non c’è riscatto per i perdenti,
per i “dark horses” cui allude
il titolo, cioè i brocchi sui quali vale la pena di puntare per
puro amore del rischio. L’esito
disastroso della vicenda terrena
di Abe fa eco alle parole del
cugino Mark (Matthew Faber)
di Palindromes, secondo cui le
molteplici esperienze della vita
(che il film del 2004 visualizzava attraverso l’utilizzo di dieci
attrici/attori differenti per interpretare un’unica protagonista)
non possono modificare nella
sostanza la natura profonda di
un individuo. E tuttavia, come
in quel caso, il film si chiude
con una nota di paradossale
speranza, con la possibilità di
una vita felice, per quanto solo
immaginata, nella fantasticheria un po’ kitsch di una segretaria ormai sfiorita.
Se a livello tematico Dark Horse rimane quindi un po’ sospeso fra la coerenza (a rischio
di manierismo) con le opere
migliori del passato e la necessità di battere nuove strade, a
livello figurativo rivela una volta
di più la grandezza del regista
Solondz. Dopo il riuscitissimo
esperimento con l’alta definizione affidata, nel precedente Life
During Wartime, al grande Ed
Lachman, l’Autore prosegue
su questa linea accentuando
l’aspetto fumettistico dei personaggi (gli abiti variopinti) e delle ambientazioni (la cameretta
del protagonista, sorta di museo consacrato all’immaturità
perenne). Una stilizzazione che
ha il suo corrispettivo nelle inquadrature immobili, spesso ripetute uguali nel corso del film,
come in un qualsiasi cartoon di
Tex Avery o come le vignette
di tante strip a fumetti. Tuttavia,
lo stile apparentemente minimalista di Solondz è a suo agio
anche nei movimenti di macchina, perfettamente dosati e mai
gratuiti: si va dalla panoramica
laterale dell’inizio (la gag dei
due single al matrimonio) a
quella comicamente desolante
sulle famiglie di Abe e Miranda in salotto; dalla macchina
a mano che precede l’incidente automobilistico ai lenti
carrelli all’indietro del finale,
che inchiodano dolcemente i
personaggi alla loro solitudine.
Ma dietro l’eleganza dello stile
(aspetto peraltro sempre ignorato dalla critica più omologata, troppo impegnata a scandalizzarsi per i temi scottanti
che Solondz non ha mai avuto
paura di sollevare), dietro all’esasperazione comica di figure
e situazioni, stanno comunque
autentici esseri umani, mossi
da sentimenti comuni a tutti noi:
amore, odio, tristezza, rabbia.
Personaggi che Todd Solondz
sa guardare con la consueta
mistura di tenerezza e cattiveria, ben lontana dal cinico
disprezzo che gli è sempre stato (a torto) rimproverato. Uno
sguardo che fa di lui uno dei
maggiori registi statunitensi.
Gabriele Gimmelli
FilmIdee, settembre 2011