PDF Opuscolo interno

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CARI aMICI Lettori,,
grandi e piccoli, giovani e meno giovani, bambini,
genitori, nonni e perché no anche zii, nel tentativo di offrire
una immagine viva dell’età medievale, in precedenti
calendari abbiamo parlato diffusamente di uomini e donne,
dei loro lavori e rapporti, delle città di terra e di mare,
di castelli, di luoghi religiosi come monasteri e conventi,
delle cattedrali, delle grandi mete di pellegrinaggio.
Quindi abbiamo visto diversi aspetti dell’età medievale
sempre nell’ottica antropocentrica… E gli animali?
Non sono anch’essi parte integrante del Creato esaltato da
san Francesco? Provvediamo subito!
Il calendario dell’Avvento di quest’anno s’incentra sugli
animali nel Medioevo, reali e immaginari, descritti
nei bestiari per le loro qualità simboliche ed allegoriche,
raffigurati nelle sedi più diverse.
Speriamo di farvi cosa gradita offrendovi aspetti del mondo
animale che ha accompagnato e condiviso il lavoro,
le fatiche, l’opera dell’uomo, che ne ha anche stimolato la
fantasia e l’immaginario.
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pre me ssa
U
na varietà di fonti scritte che vanno dai bestiari alle enciclopedie, dai
racconti di corte a quelli di viaggio, dalle favole alle narrazioni agiografiche fino ai libri di cucina passando per una quantità sterminata di fonti d’archivio (contratti, inventari, registri contabili…), rappresentazioni
iconografiche, pittoriche e scultoree, cui si possono aggiungere reperti di
scavi archeologici, mostrano chiaramente come gli animali fossero, nei
modi e nelle forme più diverse, “compagni” anche degli uomini e delle
donne medievali.
Animali domestici e selvatici! Ma attenzione! Tale scontata distinzione è
frutto dell’intervento dell’uomo che nel Medioevo continuò ad addomesticare, domare, addestrare alcuni animali selvatici e migliorò le tecniche
di caccia, di pesca, di allevamento.
Gli animali erano necessari e/o di supporto in ambiti fondamentali della vita dell’uomo: alimentazione (carni, pesci, grassi…), abbigliamento, lavoro… e talvolta perfino compagnia (gatto e cane). Come
avrebbe potuto vivere l’uomo medievale (ma non solo) senza questi insostituibili compagni del Creato? L’attenzione di Francesco d’Assisi, così come ci viene narrata dalle numerose fonti francescane, è
un segno di gratitudine rivolto al Creatore per la comune coesistenza.
Ma attenzione ancora! L’universo dell’uomo medievale era popolato non solo di animali reali, ma anche di una folla di animali immaginati/immaginari, e rientrava nella mentalità e nella cultura dell’uomo medievale “scaricare” su di essi significati simbolici e morali. A dimostrazione di quanto egli
fosse immerso in questa dimensione animalesco-simbolica, basti pensare alla ricchezza decorativa
che anima i nostri edifici, sia di culto sia civili, popolati in termini di sculture, bassorilievi, mosaici
e affreschi, dove gli animali che qui in breve illustreremo, reali o fantastici che siano, vivono talvolta
in splendide e dinamiche raffigurazioni, insieme alle raffinate e vivacemente colorate miniature che
adornano i codici conservati in archivi e biblioteche.
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L
a domesticazione è quel processo di avvicinamento tra uomini ed animali per cui questi ultimi vivono permanentemente con i primi, che li
nutrono, li proteggono, ne regolano la riproduzione e li utilizzano nelle
loro capacità di offrire aiuto, lavoro e prodotti vari. Circa 10.000 anni fa
popolazioni del Vicino Oriente cominciarono a coltivare vegetali e ad
allevare animali: era il remoto inizio dell’agricoltura e della domesticazione. Tale processo si sviluppò nel corso di millenni. Secondo alcuni
studi la domesticazione del bue avrebbe avuto luogo in Asia Minore circa
8.000 anni fa, almeno 4.000 anni dopo quella del cane, 2.000 anni dopo
della pecora e 2.500 anni prima del cavallo. Secondo alcuni studiosi i
processi di domesticazione si sarebbero conclusi nel III millennio a.C.
Nell’Alto Medioevo (secc. V-X)) l’allevamento ha svolto un ruolo di primo piano. Ad esempio fonti
legislative barbariche riconoscono ad alcune categorie di lavoratori, tra queste i pastori, un ruolo socialmente rilevante: l’uccisione di un magister porcarius,, infatti, nella normativa dell’Editto di Rotari
(643) prevedeva una pena molto alta. Nonostante la diffusione del pascolo suino, i costumi alimentari
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int rod uz ion e
La domesticazione degli animali
e l’allevamento
in epoca romana non si discostavano da quelli delle varie popolazioni mediterranee che privilegiavano l’allevamento e il consumo di ovini. Si deve alle modificazioni del paesaggio e al progressivo
assorbimento dei costumi propri delle popolazioni seminomadi, tra cui principalmente i Longobardi,
se nell’Alto Medioevo l’allevamento in genere, e quello dei suini in particolare, divenne una fonte economica predominante. In una società che si stava sempre più ruralizzando e che veniva a connotarsi
per il binomio colto/incolto, i pascoli naturali, le brughiere e il bosco erano realtà più diffuse. Anche gli
stessi campi, dopo il raccolto dei cereali, diventavano preziose fonti di sostentamento per il bestiame
allo stato brado, venendosi così a creare una sorta di circolarità tra l’allevamento e il sistema produttivo a base agricola. All’allevamento, dunque, è da riconoscersi un ruolo decisivo nell’ecosistema delle
società altomedievali, sia come fonte diretta di sostentamento alimentare (connessa con la produzione
di carne e quindi di proteine), sia come forma di sfruttamento intensivo delle capacità di forza-lavoro
o di trasporto di talune specie, come i bovini, i cavalli e gli asini. Si era soliti distinguere il bestiame in
due grandi categorie: alle bestie minute, soprattutto maiali e ovini, era destinata una prevalente funzione di carattere alimentare, mentre al bestiame grosso, bovini e cavalli, veniva attribuita una funzione
principale di sussidio alle attività agricole, artigianali o di trasporto. L’inventario dei beni del monastero
di Santa Giulia di Brescia ribadisce questa dualità e riferisce che il numero di maiali e ovini era di gran
lunga superiore a quello dei bovini e degli equini. Se suini e ovini appaiono privilegiati a fini alimentari, non si deve misconoscere che durante il Basso Medioevo si registra anche un alto consumo di
carne bovina (giovane). Nelle città fiorì l’arte dei
ANIMALI DOMESTICI/
macellai [cfr. Salaioli in Avvento 2006 e Mestieri
ANIMALI D’AFFEZIONE
alimentari in Avvento 2014] che macellavano e
vendevano carni varie. Con l’allevamento è conGli animali domestici sono moltissimi –
nesso il fenomeno della transumanza, in flessione
in età medievale come oggi – inquadrabili
nella Tarda Antichità e nell’Alto Medioevo, a monelle specie dei suini, ovini, bovini, equitivo della frammentazione politica ed amministrani, felini, canidi e pollame vario. Molti di
tiva del territorio; tuttavia la grande transumanza
questi ebbero una destinazione prevalennon scomparve del tutto, ma dovette sopravvivere
temente alimentare, ma attenzione: degli
convivendo con forme di allevamento stanziale.
animali non si buttava via niente! Ogni
Pastoralismo stanziale e pastoralismo transumanparte della bestia veniva utilizzata!
te costituiscono anche per il Medioevo le due principali forme di allevamento.
I Bestiari: che cosa erano?
un bestiario, infatti, non è studiare il mondo
naturale per capirne il funzionamento, ma
comprenderlo per l’edificazione dell’uomo:
Dio ha creato gli animali, gli uccelli e i pesci,
in modo che l’uomo possa vedere il mondo
dell’umanità riflesso nel regno naturale e imparare la via della redenzione dagli esempi
forniti dalle diverse creature. In altre parole
i bestiari rientrano nella concezione, tipica-
Un bestiario è un testo che descrive gli animali, o bestie. Nel Medioevo si trattava di un’opera didattica in cui venivano raccolte brevi
descrizioni di animali, reali o immaginari. Le
descrizioni – anche di quelli reali – non sono
che raramente basate sull’osservazione diretta, sull’esperienza di ogni giorno. Al contrario
esse derivano dalle auctoritates, cioè da scrittori riconosciuti come autorità. Lo scopo di
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mente medievale, della natura come ‘simbolo’
di verità più profonde, insegnate da Dio attraverso gli esseri che ha creato.
Modello dei bestiari è un trattato redatto forse
tra II e III secolo d.C. in greco, e denominato Il
Fisiologo (studioso della natura), dove si prendevano in considerazione circa cinquanta animali e li si associavano a citazioni scritturali.
L’opera era enormemente popolare: traduzioni de Il Fisiologo si ebbero in siriano, armeno, etiopico e naturalmente in latino. L’opera
è un tentativo di definire il mondo naturale in
chiave cristiana, attingendo dai filosofi greci
e latini, tra cui Aristotele, da naturalisti quali
Plinio il Vecchio e da autori minori, come il
poeta latino Lucano.
La tradizione avviata da Il Fisiologo in latino
penetrò profondamente nella cultura medievale e nel corso del Duecento si diffuse una
grande quantità di bestiari redatti nei vari
idiomi volgari. La “zoologia immaginaria” del
Medioevo non è affatto una congerie disordi-
nata di fantasie: ha un suo linguaggio, una sua
grammatica e una sua sintassi.
Entrare nella mentalità dell’uomo medievale
e tanto più nel suo immaginario allegoricosimbolico significa abbattere le barriere del
reale/non-reale. Ha scritto Cardini: “Non
serve a nulla osservare che i centauri e le sirene non sono esistite mentre il lupo e l’orso
sì. L’uomo medievale non ragionava secondo
categorie di questo tipo. In un certo senso,
il centauro e la sirena gli erano altrettanto
famigliari non solo del lupo e dell’orso, ma
anche del cane e del cavallo: nel senso, vogliamo dire, dell’uso allegorico che egli ne
faceva”. In questa dimensione i confini tra
mondo del “reale” e mondo dell’ “immaginario” sono fluidi e labili. In un’ottica caricata
di significati umani e religiosi anche l’animale fantastico diviene reale.
In questa nostra pubblicazione facciamo riferimento a due bestiari duecenteschi di area
inglese.
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an ima li del la quo tid ian ita
Il maiale
omestico per indole,
abituato all’uomo da
una lunga coabitazione, spesso il maiale si aggirava per
le case, consumava
le immondizie e i
cibi mal custoditi.
Fu tenuto in grande considerazione
nel Tardo Impero e
presso i popoli germanici, e comunque, per tutto
il Medioevo e non solo, il suo consumo a fini alimentari fu costante e persistente. Ne sono prova i
cicli raffiguranti i lavori dei mesi: dicembre/gennaio sono rappresentati dall’uccisione del maiale,
da cui si ricavavano grasso/lardo, carni salate ed
essiccate… una vera riserva di cibo.
Nel Medioevo i maiali avevano un aspetto assai
diverso da quelli odierni: venivano infatti allevati nei boschi allo stato brado, in spazi dove
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“Maiale” è il termine più usato in italiano; di
etimologia popolare, deriverebbe dal nome
della dea Maia (madre di Mercurio) alla
quale il nostro maiale sarebbe stato dedicato
in sacrificio. La stessa dea, associata alla fecondità e alla crescita, avrebbe dato il nome
al mese centrale della primavera: maggio.
potevano muoversi molto, rimanendo perciò
magri e snelli, con zampe lunghe e sottili. Abbastanza simili ai loro antenati, i cinghiali, con
i quali spesso si accoppiavano. Per questo, nella
letteratura dell’epoca, i cinghiali venivano chiamati Porci silvestres o Porci singulares (da cui il
francese sanglier e l’italiano cinghiale). Ma qual
è la differenza tra i maiali medievali e quelli dei
giorni nostri? Al di là del fatto che allora i porci venivano nutriti a ghiande, faggiole e frutti
del sottobosco, mentre oggi sono onnivori, basta osservare i dipinti del
XIII secolo per scorgere
le maggiori differenze con
le razze attuali: la testa
era più grande e lunga, il
grugno appuntito e non
a tappo, le orecchie corte ed erette, le setole ritte
sulla schiena. Dal muso
emergevano i canini che,
a differenza di quanto avviene oggi, non venivano
tagliati. Le miniature e
gli affreschi mostrano soprattutto bestie di colore
scuro, rosso o nerastro,
che sembrano prevalere
accanto a quelle dal pelo
chiaro. Secondo Michelangelo Tanaglia, autore
nel XV secolo di un trattato sull’agricoltura, i porci
migliori erano quelli rossi
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nelle regioni miti e quelli neri dove il clima era
più freddo. In ogni caso si trattava di bestie assai
più piccole e leggere di quelle attuali: nel Medioevo, infatti, non si facevano incrociare tra loro i
maiali e, a causa della mancanza dell’ingrassamento forzato, il peso della bestia andava da 30-
40 a 70-73 chili, inferiore di almeno tre volte alla
stazza dei maiali odierni. La domesticazione del
maiale seguì quella della pecora e del bue; il maiale produce cibo soltanto una volta che è stato
abbattuto, mentre pecora e bue durante tutta la
loro vita forniscono latte, lana, lavoro.
Il maiale di sant’Antonio Abate
Dal pieno Medioevo l’animale, nell’iconografia, è compagno inseparabile di sant’Antonio
Abate, l’eremita egiziano all’origine del monachesimo orientale. Spesso si dice che il maialino, accucciato ai piedi del Santo, sia il simbolo delle tentazioni diaboliche che egli superò nel deserto, in realtà è l’emblema
degli allevamenti intrapresi dai frati
Antoniani (ordine che si ispirava alla
figura del santo eremita) per mantenere i loro ospedali; il grasso di maiale, per altro, era l’ingrediente fondamentale di medicamenti per il fuoco
di sant’Antonio (ergotismo).
Da un bestiario duecentesco di
area inglese [Oxford, Bodley
764, XII secolo, latino, d’ora in
poi solo bestiario duecentesco]:
Il maiale è così chiamato perché
dissoda il suo cibo: cioè sradica
il cibo dalla terra. Il porco è una
bestia sporca; aspira immondizia, sguazza nel fango e si rotola nella melma. Orazio chiama
il maiale ‘l’amante del fango’. I
maiali rappresentano i peccatori, gli impuri e gli eretici: è prescritto dalla legge dei Giudei che
la carne delle bestie con zoccolo
fesso che non ruminano non devono essere mangiate dal fedele
[...]. Gli eretici, infatti, non ruminano il cibo spirituale e sono
impuri.
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L’
ovini, ed in particolare
alla pecora, le utilità si
assommano!
Essa fornisce tutto: in
primo luogo la lana,
questa era la materia
prima per quella che,
in specie nell’avanzato
Medioevo, può essere
considerata una vera e
propria industria, cioè la
produzione di panni di
lana (in molte città l’arte
della lana s’impose tra
le principali [cfr. Arte
della Lana in Avvento
La pecora
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2006 e Il mondo della tessitura e dell’abbigliamento
in Avvento 2014]); latte (formaggi); pelle (cuoio,
vello, pelliccia… pergamene per scrivere); carne;
corna, ossa e budella dalle quali si potevano ricavare strumenti musicali. La pecora veniva allevata
ovunque: dal Mare del Nord e dal Baltico al Mediterraneo. Nel mondo iberico, a seguito dell’espansione islamica nei secoli VIII e IX, si selezionò la
celebre razza “merino” che nel Trecento raggiunse
anche l’Inghilterra, già da tempo attenta all’allevamento di questo pacifico animale.
inventario di S. Giulia
di Brescia mostra che
tra IX e X secolo l’allevamento delle pecore
non era uniformemente e capillarmente diffuso come quello dei
maiali. Mentre il maiale
aveva un ruolo prevalentemente alimentare,
quando si pensa agli
Il termine “pecunia” derivava da pěcus, ossia “bestiame” (“pecora”), perché anticamente gli
animali, e soprattutto il bestiame allevato, rappresentavano la ricchezza posseduta e scambiabile, tramite il baratto, dagli esseri umani. Le pecore, i polli etc., rappresentavano le banconote
di un tempo, in un periodo in cui ancora non vigeva l’uso delle monete.
Da un bestiario duecentesco: La pecora è un animale soffice ricoperto di lana, ha un corpo
indifeso e una natura pacifica; deriva il suo nome latino ‘ovis’ dalle parole ‘oblazioni’ e ‘offerte’, perché l’uomo antico quando faceva sacrifici non macellava tori ma pecore. All’inizio
dell’inverno le pecore mangiano voracemente, cogliendo l’erba insaziabilmente, in quanto
sentono l’arrivo dell’inverno [...]. La pecora tra i cristiani rappresenta l’innocente e il semplice e lo stesso Signore ha mostrato la mitezza e la pazienza della pecora [...]. La pecora nei
Vangeli è il fedele: ‘La pecora sente la Sua voce’ [Giovanni 10,3].
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T
i Bovini
ra gli animali reali di cui l’uomo ha
compreso l’utilità e
con i quali ha stabilito remoti contatti,
addomesticandoli e
allevandoli, anche i
bovini, come i suini
e gli ovini, rientrano tra gli animali
domestici più utili
all’uomo medievale e come gli ovini assom-
mano una pluralità di funzioni. Il bue d’età
medievale è più piccolo di quello romano: la
diminuzione delle sue dimensioni, in specie
durante l’Alto Medioevo, potrebbe essere diretta conseguenza di una selezione meno rigorosa negli accoppiamenti. Tuttavia era un
animale di media stazza, tarchiato, vigoroso
e muscoloso, perciò è stato una fondamentale
forza-lavoro per il dissodamento e la messa a
coltura delle terre. Diffusi ovunque in Europa,
essi offrivano all’uomo latte, formaggi, burro,
carne, pelle e pelo.
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Da un bestiario duecentesco: Il giovenco deriva il suo nome dal latino ‘iuvencus’, perché aiuta (iuvat) gli uomini ad arare il terreno, o perché i giovenchi sono sempre sacrificati a Giove
dai Gentili [...]. I tori hanno un duplice significato, uno buono e uno cattivo: quello buono si
trova nel Vangelo: ‘Ecco io ho preparato il mio pranzo; i miei buoi ed i miei animali ingrassati
sono ammazzati, e tutto è pronto’ [Matteo 22,4]; quello cattivo nei Salmi: ‘Grandi tori m’han
circondato’ [Salmi 22,12]. I buoi nella Scrittura possono significare molte cose: la pazzia di
quelli che conducono vite sensuali; la forza e il lavoro dei predicatori; l’umiltà degli Israeliti
[...]. La vacca ha talvolta un significato positivo, come nei Numeri [19,2] ‘una giovenca rossa
intiera, senza difetto, la quale non abbia ancora portato giogo’ [...]. Egli [il Cristo] è chiamato
giovenca rossa, perché la Sua natura umana è resa rossa dal sangue della passione.
C
IL Pollame
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on il termine pollame si indica l’insieme di quegli uccelli
domestici
oggetto
di allevamento, allo
scopo di produrre
carne, uova e talvolta piume, principalmente (ma non
esclusivamente) gallinacei. Polli, galline, capponi razzolavano sia nei cortili delle
famiglie contadine che nei terreni dei signori.
Storicamente il nome pollo deriva dal latino
pullus, cioè animale giovane; la sua presenza è
documentata dal 4000 a.C. nella piana dell’Indo, da cui (attraverso la Persia) è giunto in
Grecia e quindi in Europa.
I polli erano un bene prezioso ed il loro furto veniva punito. Nella Legge salica, composta presumibilmente ai tempi del re Clodoveo
(481-511), in cui vengono esaminati i vari casi
della vita dei Franchi, sono elencate le ammende per ogni tipo di reato, a cominciare dal
furto di un pollo fino al riscatto per l’uccisio- I polli erano sovente previsti tra i canoni in nane di una persona.
tura che il sottoposto doveva al signore.
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Il Cavallo e l’asino
E
quini! Cavalli, ma
non solo! Questi
animali sono stati di
primaria importanza
per le attività dell’uomo medievale. Se il
cavallo da guerra resta il più nobile tra
gli equini [vedi Cavalleria in Avvento
2014] non mancarono cavalli da soma e da tiro, atti a trainare carrette ed aratri, che cominciarono a diffondersi
nei secoli XII e XIII; la loro maggiore velocità
nel lavoro fece concorrenza alla lenta andatura
dei buoi. Muli ed asini furono mezzi di trasporto per merci e prodotti vari.
L’iconografia ce li propone sempre carichi di
basti e balle, ma furono anche buone cavalcature per gli uomini.
L’allevamento dei cavalli nel Medioevo è più
importante che mai; i cavalli venivano classificati per le loro finalità, infatti venivano allevati per la loro destinazione piuttosto che per
il patrimonio genetico: i cavalli spagnoli erano apprezzati in combattimento, mentre quelli
francesi un po’ meno.
I palfrey erano comunemente usati per la caccia, e il jennet (ginnetto), un cavallo più piccolo, era più comunemente usato dalle nobili
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reggiabile per il deserto, tanto
da essere normalmente impiegata dai re. Gesù sceglie proprio
un asino per entrare a Gerusalemme e la sua non è una scelta
di umiltà ma di continuità con i
capi delle tribù antiche, i Giudici di Israele.
L’asino nella cultura cristiana
acquista una valenza positiva
di pazienza ed umiltà: insieme
al bue è presente alla Nascita;
è cavalcatura di Maria per la
fuga in Egitto. L’asino è anche
simbolo di stoltezza e cocciutaggine nonché di indecisione,
come l’asino di Buridano: Un
asino affamato e assetato è accovacciato esattamente tra due
mucchi di fieno con, vicino a
donne e dalla cavalleria spagnola.
L’asino (e l’onagro) furono introdotti nel bacino mediterraneo in seguito
alla calata dei nomadi indoeuropei
dell’Asia centrale. Entrambi inizialmente servivano da cavalcatura ed in
parte tali rimasero, anche se questa
funzione fu loro sottratta dal cavallo.
La simbologia dell’asino è varia ed
ambigua. Nell’antico Egitto un asino
fulvo rappresenta Seth, fratello e uccisore di Osiride; il protagonista delle
Metamorfosi di Apuleio (II sec. d.C.)
è trasformato in asino e dovrà passare
per varie peripezie prima di riacquistare l’aspetto umano. Da Apuleio a
Pinocchio l’essere trasformato in asino è segno di ostinazione, d’ignoranza e di cattivi costumi.
Ma perché l’asino è arrivato ad avere questa cattiva fama? Una favola di
Fedro, rivisitata nel Medioevo, ci racconta di un asino che, trovata una lira
in un prato, la compiange perché lui
è del tutto inadatto a suonarla. Inadeguato, ovvero ignorante.
Al contrario, dovunque nel Vicino
Oriente antico è cavalcatura impa-
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Da un bestiario duecentesco: I cavalli prendono il nome latino di ‘equi’ perché quando sono
imbrigliati in un gruppo di quattro essi sono equamente abbinati a seconda delle dimensioni
e della falcata. Essi sono chiamati anche ‘caballus’, perché hanno il piede cavo [...] sentono
l’odore della battaglia e il suono della tromba li incita a combattere [...] sono sconsolati quando sono battuti e deliziati quando vincono. Alcuni di loro sentono l’odore dei nemici e cercano
di morderli. Molti riconoscono i propri padroni [...] altri si fanno cavalcare solo dal proprio
padrone [...] se il proprio padrone muore, il cavallo può piangere [...]. Si dice che solo i cavalli
piangono per gli uomini e solo loro provano dolore. Gli uomini che vanno a combattere possono prevedere il risultato della battaglia dall’irrequietezza dei loro cavalli.
ognuno, un secchio d’acqua, ma non c’è niente
che lo determini ad andare da una parte piuttosto che dall’altra. Perciò, resta fermo e muore.
[Omaggio all’asino, Calendario Frate Indovino
del 2012].
Da un bestiario duecentesco: L’asino deriva il suo nome dal fatto che l’uomo si siede
su di lui (a sedendo) [...] questa creatura
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porta pesi da ben prima che fossero addomesticati i cavalli [...] è una bestia lenta e
sciocca e può essere catturata facilmente
[...]. Il termine asino o asina talvolta indica l’inutilità del lascivo, talaltra la dolcezza
degli umili, e anche la follia dei pagani. In
termini spirituali l’asino, essendo una creatura brutale e lasciva, rappresenta il popolo
pagano sul quale il Signore presiede quando entra in Gerusalemme, rendendolo soggetto a Lui e guidandolo alla patria celeste.
I
Il Cane e il gatto
l cane e il gatto – oggi
animali di affezione
per eccellenza – nel
Medioevo hanno sorti diversificate. Il cane
è apprezzato come
fedele e valido compagno di caccia; la
dolce levriera riposa
accanto alle dame; vi
sono già cani che servono per essere accarezzati e cani da pastore
atti a difendere il gregge; compariranno nuove
6
razze. Il gatto era invece tenuto più a distanza, destinato a dar la caccia ai topi; caricato di
valenze negative: lubricità, notte, paganesimo,
stregoneria, sabba e diavolo.
Tuttavia non manca un’iconografia che ce lo
mostra all’interno di ambienti domestici ed
esistono documenti che attestano l’acquisto
di cibo specifico per i gatti e di oggetti loro
destinati: Isabella di Baviera (1370-1435),
moglie di Carlo VI, re di Francia, non mancò
di spendere una certa somma per far confezionare una coperta verde brillante per il suo
micio.
I gatti nel Medioevo:
perche’ erano tanto odiati?
Altro che adorabili gattini! Nel
Medioevo i gatti erano tanto
utili per la caccia ai topi quanto odiati: che fossero considerati manifestazioni del diavolo,
streghe trasformate o animali
“eretici”, per molti secoli i felini non hanno goduto di buona
fama. Per quale ragione erano
così disprezzati? E perché, al
contrario, il mondo islamico li
preferiva ai cani?
I gatti hanno sempre avuto un
ruolo importante nel Medioevo, dato che eliminavano una
delle più diffuse minacce per
la conservazione del cibo e per
la salute: catturavano i topi.
Eppure alcuni autori medievali davano all’attività felina per
eccellenza anche una lettura
negativa, equiparando il modo
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con cui i gatti catturano i topi a quello con cui il diavolo si impadronisce
delle anime.
Per esempio William Caxton, il primo tipografo inglese vissuto nel XV
secolo, scrisse: “Il diavolo spesso
gioca con il peccatore come il gatto
fa con il topo”. Nel XII secolo l’associazione gatto-diavolo era molto radicata. Intorno al 1180, Walter Map
(1135-1210) sosteneva che durante i
riti satanici “il diavolo scende come
un gatto nero davanti ai suoi devoti.
Gli adoratori spengono la luce e si avvicinano al luogo dove hanno visto il
loro maestro. Lo cercano nel buio e
quando lo hanno trovato lo baciano
sotto la coda”. Il riferimento all’empia venerazione dei felini si ritrova anche nelle carte
processuali: tra le accuse mosse a gruppi religiosi eretici come i Catari e i Valdesi vi era
anche quella di adorare i gatti, mentre durante il processo ai Templari, all’inizio del XIV
secolo, non mancava l’accusa di far partecipare i gatti alle cerimonie religiose e di pregare
per essi. Quanto alle streghe, si credeva che tra i loro artifici vi fosse quello di assumere
sembianze feline. Queste credenze erano così diffuse e radicate che papa Innocenzo VIII
nel 1484 arrivò a dichiarare solennemente: “il gatto è l’animale preferito del diavolo e
idolo di tutte le streghe”. All’origine di questa secolare avversione per il gatto vi potrebbe
essere la natura indipendente e libera dell’animale, soprattutto se paragonata all’indole
fedele del cane.
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Non tutti, però, nel Medioevo odiavano
i gatti: nel mondo islamico, ad esempio, i
gatti erano molto apprezzati, basti pensare
che nelle città del Medio Oriente esistevano
addirittura associazioni di beneficenza per
la cura dei gatti di strada. Una predilezione che affonda le sue radici nella tradizione
(secondo alcuni antichi racconti Maometto amava i gatti e li trattava bene), ma che
ha anche significati di carattere culturale e
simbolico (un animale attento alla pulizia
come il gatto non poteva che distinguersi
positivamente rispetto alle altre creature).
Un pellegrino europeo reduce da un viaggio nel Medio Oriente individuò nell’amore
per i gatti una delle differenze più profonde
tra musulmani e cristiani, affermando che
“a loro piacciono i gatti, a noi piacciono i
cani”. Benché le regole monastiche proibissero di far entrare gatti nei monasteri, essi
erano talvolta tenuti dalle monache come
animali da compagnia. Al contrario, secondo l’Ancrene Riwle (una duecentesca Regola per le recluse) l’unico animale ammesso
nella cella di una reclusa era proprio il gatto
[cfr. Reclusa nella celletta in Avvento 2010].
Santi e cani
cani santi
San Rocco, il santo protettore contro la
peste, è associato al cane. Egli fu cacciato
dalla città, perché malato di peste. Si ritirò
a vivere in una foresta. Ormai allo stremo
delle forze e affamato incontrò un cane
con un pezzo di pane in bocca. Il cane gli
offrì il pane e gli leccò le ferite e i bubboni. Il padrone del cane si accorse che l’animale aveva uno strano comportamento:
ogni giorno, infatti, si avvicinava al tavolo,
prendeva un tozzo di pane e si allontanava. Il padrone lo seguì e vide san Rocco
che mangiava il pane. Gli dette dunque da
mangiare e tutto ciò di cui aveva bisogno.
Quando la madre di san Domenico (11701221) era incinta sognò un cane bianco e
nero con in bocca una torcia ardente. La
storia simboleggia l’ordine dei Domenicani che ‘fanno la guardia’ contro i pericoli
dell’eresia: Domini canes.
Una storia simile è raccontata per san Bernardo di Chiaravalle (1090-1153): la madre
quando era incinta sognò un cane bianco
che abbaiava. Questo sogno prefigurava la
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vocazione di suo figlio come predicatore contro i nemici della Chiesa. Ildegarda di
Bingen (XII sec.) sosteneva che i cani erano in grado di conoscere il futuro: buono se
scodinzolano; pessimo se tengono bassa la coda. Ella ne elogia la fedeltà e la lealtà ai
padroni.
Nel XIII secolo Stefano di Bourbon
(1190/95-1261)
scoprì nella diocesi di Lione il culto
non ufficiale tributato a un cane di
razza greyhound di
nome Guinfort ritenuto santo e protettore dei bambini. Secondo la
tradizione il figlio
di un signore locale era stato lasciato
a casa da solo. Un
gigantesco serpente si avvicinò alla
culla, ma Guinfort
lo uccise.
Quando i genitori
tornarono videro
la culla vuota e il
cane ricoperto di
sangue. Il padrone credette che il
cane avesse ucciso il bambino, sguainò la spada e lo trafisse. Poco dopo, però, scoprì il
bambino che stava dormendo con accanto il serpente ucciso.
Tormentato dal rimorso per aver soppresso il fedele amico lo fece seppellire e fece
piantare tre alberi nel luogo in cui fu sepolto. Questo luogo divenne un santuario.
Da un bestiario duecentesco: Il termine deriva dal latino canis e dal greco cenos. Si
crede che il nome derivi dal suono (canore) del suo abbaiare; quando abbaia si dice
che canta (canere). Non esiste una creatura più intelligente di un cane: essi capiscono
molto di più di ogni altra bestia. Conoscono il proprio nome e amano il loro padrone.
I cani sono di vario tipo: alcuni inseguono la selvaggina nella foresta; altri fanno la
guardia alle pecore dagli attacchi dei lupi; altri fanno la guardia alle case e ai loro
padroni, per paura che siano svaligiati durante la notte e darebbero la vita per i loro
padroni. Essi vanno volentieri a caccia [...]. In breve la loro natura è tale che non può
vivere senza la compagnia umana.
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an ima li sel vat ici
la caccia
Nel Medioevo delle disuguaglianze [cfr. Avvento 2014] anche la caccia non fu uguale per tutti:
nella storia dell’Occidente, questa fu progressivamente limitata da una serie di divieti che ne
fecero un’attività riservata ai nobili, ai signori, ai guerrieri; tutti i re erano cacciatori; in specie la
caccia grossa era loro privilegio, ma per i ceti meno abbienti anche la caccia alla selvaggina minore poteva avere i suoi limiti.
Due erano i tipi di caccia: quella col cane e quella con il rapace. I cacciatori si muovevano, in
entrambi i casi, a cavallo. La
principale differenza consisteva nel fatto che la caccia
con il cane era dinamica,
mentre quella con i volatili
era statica. La caccia con i
cani si praticava principalmente nelle foreste e prendeva di mira soprattutto cervi, daini, caprioli e cinghiali,
che venivano braccati fino
allo sfinimento e poi finiti
con la spada o con uno spiedo. L’uso di trappole e di reti
era invece riservato a lepri e
conigli. Qualche volta si organizzavano vere e proprie
battute di caccia grossa in
cui i cacciatori, a piedi e allineati, dovevano tirare con
l’arco sugli animali spinti
avanti dai battitori. La caccia
con i volatili, invece, si praticava in zone aperte, talvolta
coltivate, dove i cani avevano
solo il compito di alzare la
selvaggina, in modo da permettere ai rapaci addestrati
di abbatterla. Questo tipo di
caccia era consentita anche
alle donne. Le prime attestazioni di caccia con il rapace in Occidente risalgono al V secolo. Da
quel momento in poi il falco divenne un animale molto pregiato. Si deve a Federico II uno dei più
noti manuali di falconeria del Medioevo, il De arte venandi cum avibus.
Il fronte degli animali selvatici nel Medioevo occidentale impone alcune “emergenze” identificabili nel lupo, nell’orso, nel cinghiale… Tutti oggetto di caccia…
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7
Il caso del lupo!
T
ra gli animali selvatici, il più temuto era il
lupo. Non solo assaltava greggi ed ovili, ma
aggrediva direttamente l’uomo, in specie
bambini, donne, malati. I lupi si aggiravano nei pressi delle città
e talvolta vi entravano;
uomini e lupi condividevano gli stessi gusti, mirando a uno stesso tipo
di selvaggina; la pecora per il lupo era
una preda facile ed
abbondante; tutto ciò
ingenerò rapporti di
rivalità. Il lupo, che
oggi è in gran parte
scomparso dallo scenario ambientale, ed
è addirittura un animale protetto, fu la
vera belva del nostro
Medioevo occidentale. Nell’813 una legge
di Carlo Magno prevede per ogni contea
la presenza di due
uomini specializzati
(luparii) nella caccia
ai lupi ed ai loro cuccioli; una vasta documentazione rivela un
po’ ovunque la caccia al lupo e premi per chi lo
ammazzava: questo ci dà il tono di quanto l’animale fosse temuto.
La celebre fiaba del lupo e dell’agnello è sì simbolica della prepotenza dei signori nei riguardi dei
sottoposti, ma riflette anche la concezione che si
aveva dell’animale, cattivo e spietato. Anche la
bella storia di san Francesco ed il lupo di Gubbio, al di là dei tanti significati possibili, è segno
dell’inveterato timore per questo predatore. Ha
scritto Delort: “Non vi è paragone tra il temibile
lupo e la lince o il gatto selvatico che si dileguano
fra gli alberi e fra i monti; e neppure con l’orso,
poco bellicoso, scarsamente prolifico, individualista, presto ricacciato indietro; né con la donnola
o la volpe, sorta di sottolupi che riescono a sgraffignare qualche pollo, a spaventare gli animali da
cortile, ma che, davanti al primo cagnolino, tagliano la corda”.
Il lupo ha percorso insieme all’uomo buona parte
del cammino evolutivo. Le sue doti di cacciatore
e combattente sono state apprezzate dai popoli di
cultura venatoria e
guerriera. Al contrario, dai popoli agricoltori e allevatori
è stato sempre visto
come una minaccia
per i loro armenti e,
per questo motivo,
combattuto con tutti
i mezzi. Ma curiosamente la storia della
domesticazione pare
abbia avuto inizio
con il lupo da cui è
derivato il cane.
Nell’Alto Medioevo
si assiste alla nascita del “lupo cattivo”:
si passa dal timore per il lupo, per
i danni che poteva
provocare, al terrore del lupo; si affaccia, alla ribalta della storia,
il lupo antropofago, il lupo mangiatore di uomini. Ma cos’è accaduto se il lupo era sempre
lo stesso animale? Quello che si era modificato,
con molta probabilità, era il rapporto tra uomo
e lupo. Quali le cause di questo cambiamento?
Un ruolo decisivo devono averlo giocato le trasformazioni ambientali avvenute nel passaggio
tra Antichità e Alto Medioevo. Al tempo delle
guerre greco-gotiche, che flagellarono la Peni-
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sola per una ventina d’anni, dal 535 al 553, la
dissoluzione dell’impero romano aveva portato
al decadimento delle pratiche agricole e quindi all’abbandono del territorio. Ciò comportò
un processo di inselvatichimento del paesaggio
naturale. Questo sconvolgimento ambientale
implicò una trasformazione dell’economia agricola, con un deciso incremento dell’attività di
allevamento soprattutto brado. La presenza di
tanto bestiame al pascolo favorì il lupo, perché
gli mise a disposizione prede facili da catturare,
verso le quali veniva spinto dalla diminuzione
delle sue prede naturali a seguito dell’aumentata attività venatoria da parte dell’uomo. Diventò
così inevitabile lo scontro tra due divoratori di
carne: il lupo e l’uomo.
san Francesco e il lupo
Il Cristianesimo che, da un lato, aveva fatto del lupo un nuovo demone, provvide anche a
fornire i necessari antidoti, eleggendo una schiera di santi e beati per contrastare la minaccia
dei lupi. Il più conosciuto, senza dubbio, è san Francesco d’Assisi, ma prima e dopo di lui ce
ne sono stati molti altri,
anche se meno famosi.
Molti racconti vertono
sul lupo ammansito che
viene utilizzato come
animale da lavoro in luogo di quelli che aveva divorato. Ad esempio san
Guglielmo (1085-1142),
fondatore dell’abbazia di
Montevergine, mentre
viveva da eremita sulle
montagne dell’Irpinia il
suo asino, unico e prezioso mezzo di trasporto,
fu ucciso da un lupo che
venne prodigiosamente
trasformato in un mansueto animale da soma.
Altri santi invece sono
rimasti famosi per aver
ammansito dei lupi feroci, proprio come san Francesco fece a Gubbio. Tra i più noti san Domenico di Sora che, intorno all’anno Mille, mentre cercava di raggiungere il territorio di Cocullo, assisté ad una scena
straziante: gente affannata che correva gridando dietro ad un lupo che teneva un neonato tra
le fauci, mentre una povera donna, sorretta da altre, piangeva disperatamente strappandosi i
capelli. A quella vista san Domenico alzò gli occhi al cielo e impose al lupo di tornare indietro.
Con stupore di tutti, a quel comando, la belva cessò di correre e, rifacendo la strada percorsa,
si diresse umilmente verso il Santo ai piedi del quale depose sano e salvo il bambino, che fu
subito restituito alla madre.
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È sempre nel Medioevo che torna in auge il mito classico dell’uomo-lupo, della licantropia. Le
leggende riguardanti gli uomini-lupo si moltiplicano in tutta Europa, in costante espansione
fino al Settecento, con punte di massima tra il Trecento e il Seicento, periodo in cui si intensificarono le caccie alle streghe. I roghi dell’Inquisizione sono stati molto spesso alimentati con
presunti lupi mannari. Dal XVIII secolo, il secolo dell’Illuminismo, si tenderà a sconfessare
la possibilità che un essere umano possa trasformarsi fisicamente in un lupo, e la licantropia
rimarrà contemplata solamente dalla psichiatria come affezione patologica. Anche se questa
credenza resterà invece ben radicata nel folklore locale.
Gli animali hanno ispirato molti modi di dire, a loro abbiamo spesso attribuito difetti tipicamente umani e, più raramente, qualità. Ciò dimostra, in modo eloquente, quanto la nostra
vita sia stata influenzata dal continuo contatto con gli animali. L’animale selvatico europeo
dotato della maggiore carica simbolica è, senza
alcun dubbio, il lupo. Chi di noi, da bambino,
non è stato minacciato con lo spauracchio del
lupo cattivo? Attento al lupo… Fai il bravo altrimenti chiamo il lupo... Una traccia evidente
la ritroviamo nei proverbi, risultato della sedimentazione secolare di saperi e di esperienze.
Quanti ve ne sono sul lupo!?!? Tanti. Tra proverbi e modi di dire, almeno un centinaio: dai
latini homo, homini lupus, lupus in fabula, ai
tradizionali il “lupo perde il pelo ma non il vizio”, “in bocca al lupo”, “chi pecora si fa, il lupo
se lo mangia”, “cacciarsi nella tana del lupo”,
“affidare le pecore al lupo”, “tenere il lupo per gli orecchi”, “la fame caccia il lupo dal bosco”,
“chi ha il lupo per vicino, si porti il cane sotto il mantello”, “chi ha paura del lupo non entri nel
bosco”, “mangiare come un lupo”, “lupo non mangia lupo”, “tempo da lupi” e così via.
Da un bestiario duecentesco: La parola latina per lupo deriva dal greco; lupus in latino
è likos in greco, che deriva dalla parola [dei Greci] per ‘mordace’, perché i lupi uccidono
ogni cosa che trovano quando sono affamati [...]. Il lupo è una bestia famelica e assetata di
sangue. La sua forza è nel petto e nella bocca, non nelle zampe [...] si dice che viva talvolta
nella tormenta, talvolta sulla terra e occasionalmente nel vento [...]. Se deve andare a caccia
di notte, sgattaiola nell’ovile come un cane zoppicante e per evitare che i cani sentano il suo
odore e sveglino il guardiano, cammina controvento [...]. Gli occhi del lupo scintillano nella
notte come lanterne; la sua natura è tale che vede un uomo prima ancora che egli lo scorga
[...] il lupo è il diavolo, sempre invidioso dell’uomo e si aggira di continuo attorno agli ovili
dei credenti.
22
P
L’orso
iù solitario, nascosto
in boschi e foreste,
goloso di miele, in
grado di ergersi sulle zampe posteriori e
di assumere una posizione eretta che lo
rende simile all’uomo, temuto, ma apprezzato per la sua
forza e coraggio,
l’orso è l’animale verso il quale l’uomo avverte
familiarità ed affinità, da un lato, estraneità ed
opposizione dall’altro. Prova di apprezzamento
per l’orso “guerriero” si ha nella sua raffigurazione in araldica, nel fiorire fin dall’età longobarda
e carolingia, di nomi quali Orso, Ursus, Ursula,
Ursicinus, ma anche Arturo ed Artù, che derivano da artos, il termine celtico usato per indicare
l’orso. Dominare un orso, come il leone e il lupo,
significa vincere le tentazioni e il peccato. Come
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il leone, l’orso, per la sua forza e maestosità, è
stato anche un simbolo di regalità. Secondo la
concezione, tràdita dai Bestiari, per cui l’orsa
plasmerebbe i suoi figli con la bocca, essa diventa il simbolo della Chiesa che forma il cristiano
per mezzo del battesimo.
santi e orsi
San Romedio (secc. IV-V) riuscì ad adibire un orso a cavalcatura; san Cerbone (sec. VI), venerato come patrono di Massa Marittima, venne accusato di proteggere i Bizantini e il re dei Goti,
Totila, comandò che Cerbone venisse condotto nel bosco e dato in pasto ad un orso. L’animale,
alla sua vista, invece di assalirlo, piegò il collo e, con la testa umilmente abbassata, iniziò a leccare i piedi di Cerbone. Totila, che aveva voluto assistere personalmente all’esecuzione del suo
ordine, dispose immediatamente la sua liberazione.
La Vita di san Colombano (secc.VI/VII - 615), redatta attorno al VII secolo, racconta diversi
episodi che pongono a contatto il santo monaco irlandese con gli orsi. Tra gli altri: scacciò, con
dolcezza, un orso dalla sua tana avendola scelta come proprio eremitaggio; condivise con un
orso le bacche selvatiche che erano il suo nutrimento; separò in due parti l’arbusto così che il
Santo e l’orso se ne nutrivano senza sconfinare.
Da un bestiario duecentesco: Il nome latino di orso è ‘ursus’, perché l’orsa dà forma (ordĭor,
ordīris, orsus sum, ordīri) ai suoi cuccioli con la bocca. Si dice che alla nascita siano grumi
informi di carne, che la madre modella con la lingua. Questo avviene, perché nascono im-
23
maturi: la nascita avviene, infatti, dopo trenta giorni dal concepimento. La testa dell’orso è
debole; la sua grande potenza risiede nelle zampe anteriori e nei lombi. Per questo motivo
essi camminano spesso in posizione eretta. Se sono gravemente feriti, si curano applicando
del verbasco sulle loro piaghe, che le guarisce immediatamente [...]. Attaccano gli alveari e
rubano i favi, perché non c’è niente di cui sono più golosi che il miele [...]. L’orso rappresenta
il diavolo, predatore del gregge di nostro Signore. Nel Libro dei Re, i fanciulli che schernirono
Eliseo furono divorati da due orse miracolosamente apparse nella foresta: esse sono il simbolo dei due imperatori romani, Vespasiano e Tito, che divorarono gli ebrei che schernirono
nostro Signore e lo crocifissero sul Calvario. Così anche Samuele [17,34]: Un leone o un orso
verranno a portar via una pecora di mezzo al gregge.
insetti e parassiti
Dagli animali dotati di una certa dimensione ci si poteva difendere e si poteva avere qualche
speranza di successo, ma diversi erano gli attacchi da parte di una folla di piccoli animali…
tutta la gamma degli insetti e dei parassiti. L’uomo medievale doveva difendersi da zanzare,
cavallette, api, pidocchi e pulci: poteva fare ricorso, ad esempio, a fumigazioni per zanzare,
vespe ed api; usuale era la prassi di spidocchiamento e spulciamento, divenuta una sorta di rito
coniugale, parentale, sociale.
Il caso dell’ape
L’ape è un insetto, ma che “simpatico” e utile insetto! Bottinatrice e fecondatrice dei fiori,
produttrice di miele e cera, essa
è un animale selvatico, capace
di vivere indipendentemente
da qualsiasi intervento umano.
Se il bosco è l’ambiente naturale delle api, l’uomo ha saputo
attrarle e prendersene cura; in
Occidente ciò ha inizio dall’antichità greco-romana quando
cominciò a prendere forma la
scienza dell’apicoltura.
24
P
Il cinghiale
resso Greci, Romani, Germani e Celti
la caccia al cinghiale
era molto apprezzata.
Durante il Medioevo,
la caccia al cinghiale
assunse i connotati
di semplice passatempo, attuabile però
solo dalla nobiltà. Il
signore locale era solito lasciare alla servitù ed ai cani il compito di
stanare l’animale e di fiaccarlo: a questo punto,
egli smontava da
cavallo, si avvicinava all’animale
inerme e lo finiva
con un affondo
di spada. Per un
maggiore divertimento, la caccia si
concentrava durante il periodo
degli amori, sì da
trovare animali
più aggressivi. La
caccia era tuttavia
un evento assai
rischioso: lo stesso re di Francia,
Filippo IV (12681314), morì in
seguito alle lesioni riportate a causa di una caduta da cavallo, provocata proprio dalla carica
di un cinghiale inferocito durante una battuta
di caccia. I cinghiali rimasero molto abbondanti
nelle foreste europee del Medioevo: lo dimostra
il fatto che spesso i tributi alla nobiltà ed al clero venivano pagati, in mancanza di denaro, con
cinghiali interi o parti di essi. Nel 1015, il doge
veneziano Ottone Orseolo stabilì che i piedi e la
testa di ciascun cinghiale ucciso nella sua zona
di influenza dovevano essere consegnati direttamente a lui o ai suoi successori.
9
Il cinghiale si configurò come selvaggina regale
per eccellenza, ma con l’avanzare del Medioevo
esso fu soppiantato dal cervo; declina cioè il prestigio della caccia al cinghiale, mentre si afferma
quella al cervo.
A differenza del cervo – che divenne una sorta di
animale cristologico –, il cinghiale, ammirato dai
cacciatori romani, dai druidi celtici, dai guerrieri
germanici, divenne una bestia impura e spaventosa, nemica del Bene, immagine dell’uomo peccatore, ribelle a Dio.
Il cinghiale, illustrando, con il suo modo di essere, il furore e la brutalità a cui nulla resiste, è stato
da sempre utilizzato nelle armi da
parte di un guerriero che era riuscito a ridurlo alla
sua mercé. Il cinghiale in araldica
ha però un’origine
ancora più antica
e mitica, perché
era stato utilizzato anche sulle
insegne di alcune
legioni romane,
per le quali rappresentava audacia unita alla ferocia.
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Da un bestiario duecentesco: Il cinghiale
è così chiamato per la sua selvatichezza: in
greco ‘siagros’, selvatico. Il cinghiale rappresenta la fierezza dei governanti di questo
mondo. Da qui il salmista scrive della vigna
del Signore [Salmi 80,14]: Il cinghiale del
bosco la devasta, e le bestie della campagna
ne fanno il loro pascolo. In senso spirituale
il cinghiale rappresenta il diavolo, per la sua
fierezza e per la sua forza.
10
il popolo del cielo
G
uardate gli uccelli del
cielo: non seminano,
né mietono, né ammassano nei granai;
eppure il Padre vostro
celeste li nutre (Matteo 6,26). Così Gesù
invita i discepoli ad
affidarsi alla Provvidenza, senza affannarsi per il domani.
Esisteva nel Medioevo un particolare tipo di bestiario, l’aviario, che descriveva solo gli uccelli.
Airone
Alcione
nome
Aquila
Chioccia
Cicogna
Cigno
Civetta (gufo,
allocco, barbagianni)
Colomba
Corvo (cornacchia,
taccola, merlo)
Falco
Gallo
Gazza
Gru
Oca (anatra)
Pappagallo
Passero
Pavone
Pellicano
Pernice
Rondine
simbolo positivo
Silenzio
Chiesa
Forza messa al servizio dei deboli; Cristo; santi; trionfo
della luce sulle tenebre
Cristo; tenerezza materna di Dio
Pietà; amore filiale
Cristo salvatore delle anime
Gesù ha amato noi che giacevamo nelle tenebre
Soffio dello Spirito Santo; pace; amore
Gli ipocriti; gli orgogliosi
Chi non vuol vivere nella luce
del Risorto
Ombra del malaugurio
Uomo che comprende il Regno di Dio; rinnovamento
Araldo della luce; regalità; intelligenza; ravvedimento
spirituale; predicatori
Eloquenza
Vigilanza
Rinuncia a pettegolezzi e calunnie
Eloquenza; docilità
Umiltà
Vita eterna; speranza che non muore; rinascita; risurrezione
Cristo; dono di sé; emblema eucaristico; eremiti.
Speranza e peccatore penitente
Struzzo
Uomo saggio che si affida totalmente a Dio; sapienza
Tortora
Amore coniugale
Lussuria; passione sfrenata
Astuzia
Lo stolto “sapiente”; stupidità;
negligenza; pazzia
Malfattori; gli uomini che
continuamente si dilettano
nello squallore del peccato
Upupa
Usignolo
simbolo negativo
Satana
Anima santa che attende il Signore e lo accoglie con gioia;
Cristo annunciatore della buona novella; Verbo divino
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santi e uccelli
Nel Castello di Alviano, in Umbria, una cappella ricorda il miracolo di san Francesco d’Assisi
che predica agli uccelli. “Un giorno, recatosi ad Alviano a predicare e salito su un rialzo per
essere visto da tutti, chiese silenzio. Ma, mentre tutti tacevano in riverente attesa, molte rondini
garrivano, con grande strepito attorno a Francesco. Non riuscendo a farsi sentire dal popolo
per quel rumore, rivolto agli uccelli, disse: «Sorelle mie rondini, ora tocca a me parlare, perché
voi lo avete fatto già abbastanza; ascoltate la parola di Dio, zitte e quiete, finché il discorso sia
finito». Ed ecco subito obbedirono: tacquero e non si mossero fino a predica terminata” (Vita
prima di Tommaso da Celano, cap. XXI, 59).
I
Il cervo
l cervo è animale gradito a tutte le culture
che l’hanno conosciuto. Tutti hanno visto in
lui un simbolo di forza
positiva, vitale, benefica. Libero, ma non
selvaggio, creatura dei
boschi, ma
non delle
tenebre, un
tramite tra il mondo terreno e la sfera celeste, le stesse corna frastagliate si
innalzano come a toccare i raggi del
sole. La celebre espressione dei Salmi
“Come una cerva anela ai corsi d’acqua, così l’anima mia anela a te, o Dio”
ne ha fatto il simbolo di chiunque è
alla ricerca di Dio. Il Fisiologo afferma che il cervo è acerrimo nemico del
drago/serpente così è assurto a simboleggiare lo stesso Cristo. Nell’iconografia simbolica medievale il cervo
compare spesso aggredito e assaltato da vari predatori a significare che
11
l’anima del credente anela a Dio, ma la carne è
debole e può cadere preda del peccato e vittima
delle tentazioni.
La caccia al cervo è stata praticata per tutto il
Medioevo (e oltre) sia per la diffusa presenza
dell’animale in gran parte d’Europa sia perché la
sua mole garantiva un notevole approvvigionamento di carne. Nell’Alto Medioevo il cervo pote-
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va essere cacciato da tutti, in seguito tale caccia
venne riservata ai soli ceti aristocratici anche in
virtù dell’aura di nobiltà e regalità che lo circondava. La caccia al cervo avrebbe soppiantato in
prestigio quella al cinghiale.
Da un bestiario duecentesco: Il nome cervo
deriva dal greco ‘ceraton’, corna. I cervi sono
nemici dei serpenti. Se sentono che si stanno per ammalare, attirano i serpenti fuori
dalle loro tane con il respiro del loro naso, li
mangiano e guariscono, essendo più forti del
loro veleno [...]. I cervi per natura lasciano
le terre dove sono nati e cercano nuovi pascoli e si aiutano vicendevolmente durante il
viaggio [...]. Un’altra particolarità della loro
natura è che dopo aver mangiato un serpente si dirigono in fretta verso una sorgente
per bere: in questo modo tutti i segni della
vecchiaia svaniscono. La natura del cervo è
come quella dei membri della Santa Chiesa
che lasciano il mondo per i pascoli del Cielo
e si aiutano nel cammino. Se incontrano il
peccato ritornano in fretta a Cristo, fonte di
verità, si abbeverano dei suoi comandamenti, si confessano e sono rinnovati...
santi e cervi
Sant’Egidio (secc. VII-VIII), venuto in Gallia da Atene,
dopo una breve sosta in Provenza si era ritirato a vivere
come eremita, in compagnia soltanto di una cerva che
gli offriva il suo latte. Secondo la tradizione agiografica,
ispirata alla leggenda della conversione di sant’Eustachio
(secc. I-II), sant’Uberto (secc. VII-VIII), un Venerdì Santo, durante una battuta di caccia, avrebbe avuto la visione
di un crocifisso tra le corna di un cervo, che lo avrebbe invitato ad abbandonare la sua vita dissoluta e a convertirsi.
Un cervo durante una caccia predisse a san Giuliano
l’Ospitaliere (sec. IV) - il racconto agiografico ebbe successo nel Medioevo - che avrebbe ucciso inconsapevolmente
il padre e la madre. Giuliano sbigottito, affinché non si avverasse quello che il cervo aveva predetto, lasciò tutti i suoi
averi e si allontanò da casa. Giunse al castello di un principe dove si distinse nei servizi, tantoché il principe lo fece
cavaliere e gli diede la castellana in sposa con il castello
in dote. I genitori di Giuliano si misero in cerca del figlio
perduto e una sera giunsero al castello del quale Giuliano
era diventato signore. La moglie di Giuliano, quando comprese che i nuovi arrivati erano il padre
e la madre del marito, in assenza di lui, li fece coricare nel proprio letto e la mattina seguente andò
alla chiesa. Contemporaneamente Giuliano tornò e si avviò nella camera per svegliare la moglie.
Vedendo nel suo letto dormire due persone, pensò all’adulterio della sposa, estrasse la spada e li
trafisse. Di ritorno dalla chiesa la moglie disse al marito di aver messo nel proprio letto i suoi stanchi genitori. Giuliano si ricordò allora quello che il cervo gli aveva predetto, pianse amaramente.
Lasciò il castello, seguito dalla fedele sposa, e fondò un ospizio in vicinanza di un fiume per ospitare i pellegrini e i malati, e si mise a traghettare da una sponda all’altra i viandanti.
28
A
i topi
nimali reali avvertiti come pericolosi e
dannosi erano i topi,
in particolare nel Medioevo il topo nero
(quello grigio si diffonderà notevolmente
solo dal sec. XVIII). È
stata formulata l’ipotesi che il topo nero
12
sia stato introdotto in Europa a seguito delle crociate, ma non pare propriamente esatta. Forse la
sua presenza fu frenata da quella dei mustelidi
(faina, martora etc.), per poi riprendere vigore
nell’XI secolo. Il gatto medievale se la doveva
vedere con il topo nero, dannoso per le provviste alimentari e diffusore della peste provocata
da batteri trasportati dalle pulci appartenenti
alla specie Xenopsylla cheopis, che prospera nel
pelame di questi animali.
Da un bestiario duecentesco: Il topo è una
debole creatura che prende il suo nome dal
fatto che i topi nascono dall’umidità della
terra. Il loro fegato cresce con la luna piena
e diminuisce quando la luna cala [...] i topi
rappresentano gli uomini avidi che cercano
i beni terreni e fanno dei beni degli altri la
loro preda.
I
I pesci e la pesca
l pesce nel mondo
cristiano assunse una
particolare importanza; il termine greco
Ἰχθύς, (ichthýs), ‘pesce’
è un acrostico formato dalle iniziali delle
parole: “Gesù Cristo,
figlio di Dio, Salvatore” e quindi la raffigurazione del pesce divenne emblema di riconoscimento delle prime
13
comunità cristiane. Il pesce assunse una valenza
sacrale quand’anche si pensi che alcuni apostoli
erano pescatori, alla pesca miracolosa, alla moltiplicazione dei pani e dei pesci; inoltre nel mondo cristiano si affermarono periodi di astinenza
dalle carni (Avvento, Quaresima) e nell’ambito
del monachesimo, che rifiutava la carne, il pesce
ne prese il posto. Nel corso del Medioevo grande
successo ottenne l’aringa, salata e/o affumicata,
pescata nella Manica, nel Mare del Nord, nel
Baltico.
Già in epoca precristiana vi era l’usanza di rap-
29
presentare le anime umane come pesci che
nuotavano tra le onde del mare e nei corsi di
acqua dolce. È stato però con l’arte cristiana che
questa immagine è diventata più frequente in
ragione soprattutto del brano di Marco dove si
dice che Gesù fa dei suoi apostoli “pescatori di
uomini” (Marco 1,17-20). L’Antico Testamento,
inoltre, descrive il Messia come un “pescatore”
(Abacuc 1,14-16).
La pittura paleocristiana, in particolare, mostra
il pesce accanto a ceste di pane, con evidente riferimento al miracolo della moltiplicazione dei
pani e dei pesci, ed è un’immagine indubbiamente eucaristica.
santi e pesci
Anche i santi hanno a che fare con i pesci nella letteratura medievale. San Francesco e
sant’Antonio predicarono ai pesci. San Zeno (sec. IV), patrono di Verona, è spesso raffigurato con la canna in mano o mentre pesca nel fiume Adige. Di san Brendano (sec. VI) si narra
che nel corso della sua navigazione s’imbatté in un mostro marino così grande al punto da
essere scambiato per un’isola. Tra i grandi cetacei spicca la balena. Giona, profeta recalcitrante, che si era ribellato ai voleri divini, fuggendo in nave lontano dal Signore, fu inghiottito da una grande
creatura marina (una
balena o una pistrice)
e rimase nel suo ventre per tre giorni e tre
notti, dopo che era
stato gettato in mare
dai suoi stessi compagni per placare la
furia della tempesta.
Il Fisiologo mette in
guardia dalle sue insidie.
L’immonda
bestia, quando ha
fame, apre la bocca,
lasciando uscire ogni
profumo di aromi
per attirare i pesci
piccoli e inghiottirli.
Allo stesso modo fa
il demonio che con
30
la seduzione e l’inganno adesca i semplici e gli sprovveduti. Le fauci della balena sono
dunque viste come la bocca dell’inferno. Spesso, infatti, nelle raffigurazioni del Giudizio
Universale l’ingresso infernale è rappresentato come un’enorme mandibola che tritura i
dannati o come una gola abissale che inghiotte le anime perdute.
Al contrario, santa Ildegarda di Bingen (sec. XII), famosa per i suoi scritti profetici, sostiene che la balena è nemica del diavolo e degli spiriti malvagi. Bartolomeo Anglico, filosofo francescano vissuto nel Trecento e autore del trattato enciclopedico De proprietatibus
rerum, ritiene la balena un cetaceo generoso che inghiotte i propri piccoli per proteggerli
dalla tempesta, per risputarli quando il pericolo è passato (come accadde a Giona).
Ma per l’uomo medievale il vero re
della fauna marina è il delfino.
Regalità determinata dalla sua intelligenza, dalla generosità d’animo
e dalla sua socievolezza.
La sua disinteressata amicizia nei
confronti dell’uomo e la sua prontezza nel prestargli soccorso fanno
di questo pesce il vero Pesce che è
Cristo, salvatore di uomini nel mare
del peccato. L’immagine del delfino
come simbolo cristologico è però
poco presente in epoca medievale.
Da un bestiario duecentesco: I
pesci (pisces) derivano il proprio
nome, come le pecore (pecus) dal
verbo pascere. Essi sono rettili che
nuotano, e sono detti rettili perché
hanno lo stesso aspetto e natura.
Sebbene essi possano immergersi in profondità, quando nuotano
essi si muovono come se strisciassero. Per questa ragione David dice: Ecco il mare, grande e spazioso, che brulica di innumerevoli creature [Salmi 104,25]. Alcuni pesci sono
anfibi, cioè possono camminare sulla terra e nuotare nel mare. Poiché gli uomini hanno
imparato a poco a poco i diversi tipi di pesce gli hanno dato dei nomi a seconda delle loro
somiglianze con gli animali terrestri, come le rane, i vitelli, i leoni, i merli e i pavoni, i
tordi [...]. Altri pesci sono stati così chiamati per il loro comportamento simile a quello
delle creature sulla terra: il pescecane è stato così chiamato, perché come i cani morde
[...] altri derivano il loro nome dai colori [...] altri dalla loro forma: la sogliola (solea) è
così chiamata perché è simile alla suola di una scarpa (sola).
31
la pesca
A partire dal pieno Medioevo (secc. XI-XV) la caccia cominciò a delinearsi come privilegio
destinato ai re e agli aristocratici, un fenomeno che divenne sempre più evidente e marcato
nell’età moderna. La pesca, invece, si mantenne libera da vincoli eccessivamente restrittivi per
molti secoli ancora. Solamente a partire dal periodo comunale (sec. XI) si ebbero provvedimenti legislativi intesi a salvaguardare il patrimonio ittico, minacciato dall’aumento demografico,
senza per questo negare ad alcuno la possibilità di cibarsi di pesce: si cercò, infatti, di regolare
l’entità della cattura, di vietare la pesca durante i periodi di riproduzione e di promuovere la costruzione di peschiere per l’allevamento. Durante il Medioevo il pesce rappresentava un bene
largamente diffuso e fortemente utilizzato dalla popolazione nel suo
complesso.
Mentre oggi il pesce
maggiormente consumato è quello di mare,
nel Medioevo i documenti sono ricchi di
indicazioni relative al
pesce d’acqua dolce, pescato in abbondanza nei
fiumi, nei laghi e nelle
paludi.
Il pesce generalmente
veniva consumato fresco
oppure conservato in
modi differenti: marinato, essiccato, affumicato
e soprattutto salato.
Le tecniche di cattura
prevedevano l’impiego
di reti, quali la paranza,
la rete a sacco, la nassa di
vimini o di giunco etc.
Oltre alle reti venivano
utilizzati la fiocina e il
tridente, i galleggianti e
le lenze. A volte si realizzavano opere complesse che prevedevano la partecipazione di più persone: si trattava di recinti
posizionati sotto il bordo dell’acqua, costruiti con pali e graticci che costringevano i pesci ad
entrare in un luogo chiuso per poi essere catturati con il retino o con i lacci: solitamente queste
strutture non venivano realizzate direttamente nei corsi d’acqua principali, ma all’interno di
canali appositamente creati, allo scopo di non intralciare la navigazione.
32
an ima li imm agi na ri
LL’
L’Unicorno
unicorno, o liocorno,
è un animale immaginario raffigurato come
un cavallo bianco dotato di attributi magici, con un unico lungo
corno avvolto a torciglione sulla fronte.
Alcune descrizioni
attribuiscono all’unicorno anche una barbetta caprina, una coda da leone e degli zoccoli
bipartiti. Una delle più antiche rappresentazioni
di un liocorno si trova nelle Grotte di Lascaux
(Francia, Paleolitico
superiore). L’animale, dotato di un corno lunghissimo sulla
testa e pelame sotto il
muso, è disegnato insieme ad altri animali.
Nella tradizione medievale, il corno a spirale è detto alicorno e
gli veniva attribuita la
capacità di neutralizzare i veleni. Si credeva che se il corno fosse
stato rimosso, l’animale sarebbe morto. La
pratica dell’uso antivenefico dei corni di unicorno avrà una certa
diffusione nell’Europa
medievale. Nell’inventario del tesoro papale
di papa Bonifacio VIII
del 1295, si ha la menzione di quattro corne di unicorni, lunghe e contorte [utilizzate per] fare l’assaggio di tutto ciò che era presentato al papa.
papa Una fonte di ispirazione per la leggenda dell’unicorno
può essere stato il rinoceronte. Marco Polo, per
esempio, sostenne di aver visto un “unicorno”
a Giava, ma la sua descrizione è chiaramente
14
quella di un rinoceronte. A supporto di questa
teoria anche un bestiario duecentesco in cui è
detto che il liocorno può anche essere chiamato ‘rinoceronte’.
Alcuni hanno visto nell’unicorno Cristo, altri il
diavolo. Nello specifico sant’Ambrogio ha scritto: “Chi è l’unicorno, se non l’unigenito figlio di
Dio, l’unico Verbo di Dio, che era in principio
presso il Padre?”. Il Libellus de natura animalium sentenziava “l’alicornus indica il diavolo,
in quanto così terribile e malvagio da non poter
essere catturato se non dall’odore della verginità, cioè dalle buone opere e dalle virtù”.
L’unicorno viene spesso rappresentato nell’arte
come simbolo di purezza e verginità. Celebri
il ciclo di arazzi fiamminghi La dama e il liocorno (fine sec. XV) conservato a Parigi presso
il Museo di Cluny, e il dipinto a olio su tela di
Raffaello Sanzio La dama col liocorno (15051506), conservato presso la Galleria Borghese
a Roma.
33
dove abita il liocorno e deve essere lasciata
lì sola nella foresta. Non appena l’unicorno
la vedrà le salterà in grembo e le dormirà
accanto. Il cacciatore potrà quindi catturarlo. Nostro Signore Gesù Cristo è il liocorno
spirituale. L’unico corno sulla testa del liocorno significa, in accordo con l’apostolo: Io
e mio Padre siamo Uno [Giovanni 10,30].
È detto molto veloce, perché né i Principati,
né le Potenze, né i Troni, né le Dominazioni
possono catturarLo.
Da un bestiario duecentesco: L’unicorno
che è anche chiamato in greco Rhinoceros
ha questa natura: è una piccola bestia, non
dissimile ad una capra ed estremamente veloce. Ha un corno in mezzo al sopracciglio.
Nessun cacciatore può catturarlo. Può essere
catturato solo in questo modo: una fanciulla
che sia vergine deve essere portata nel luogo
15
I
Il grifone
l grifone è una creatura leggendaria con
il corpo di leone e la
testa e le ali d’aquila.
Il grifone è la combinazione di due nature
supreme, è la somma
degli attributi del re
degli animali e della
regina dell’aria. Fu raf-
figurato fin dall’antichità in Egitto e soprattutto
in Mesopotamia, presente in miti greci nonché,
ad esempio, nel mondo etrusco. Nell’ambito
della simbologia cristiana pervenne a significare lo stesso Cristo: “Cristo è leone perché
regna e ha la forza; aquila perché dopo la resurrezione sale al cielo” (Isidoro di Siviglia secc.
VI-VII). In talune raffigurazioni il grifone lotta con i serpenti e i draghi e custodisce il calice dell’Eucaristia; in altre assale le pecore ed
i bovini; quindi anche il grifone ha
una duplice valenza simbolica, positiva e negativa; per Rabano Mauro
(secc. VIII-IX) è simbolo di coloro
che perseguitano i cristiani.
Per essere emblema di forze supreme, la raffigurazione del grifone ebbe successo in blasoni nobiliari e militari ed anche in stemmi
civici.
Da un bestiario duecentesco:
Vive nel Sud e sulle montagne;
odia profondamente i cavalli e
se si trova faccia a faccia con un
uomo, lo attacca.
34
t
Il drago
ra gli animali immaginari il drago a
tutt’oggi ha una sua
attualità: basti pensare al FortunaDrago de
La Storia Infinita, al
drago femmina (Saphira) di Eragon, alla
Madre dei Draghi de
Il Trono di Spade e al
feroce drago Smaug
del romanzo Lo Hobbit. Figura esito di elaborazione di una profonda
mitica ancestralità, di
cui era costellata già la
mitologia greco-romana, Isidoro di Siviglia
nella sua enciclopedia
Etimologie così lo descrive: “è il più grande
di tutti serpenti, e di
tutti gli animali della
terra”, sotterraneo ed
aereo, con forza concentrata sulla coda.
Ma quanti draghi!!! In
epoca medievale, pur
nella cornice delineata
da Isidoro, non sembra esserci una descrizione uguale all’altra!
La lingua biforcuta, l’alito pestilenziale, corna
micidiali, occhi fiammeggianti, denti affilati,
scaglie dure come pietre, artigli come d’acciaio,
due o quattro zampe elefantiache, coda da serpente o da coccodrillo o da balena, ali d’aquila
o di pipistrello, insomma, un essere polimorfo.
Presso diversi casati nobiliari il drago fu preso a simbolo di valore militare, prevalendo in
questo caso il ruolo mitologico di custodia, vigilanza e potenza.
L’enorme drago che appare nell’Apocalisse
(13,3-4) è Satana, incarnazione stessa del male.
Lo sconfigge, a capo di una schiera di angeli,
16
l’arcangelo Michele (“chi è come Dio”); l’iconografia dell’Arcangelo guerriero che uccide
il drago è notevolissima, e diffuso il suo culto
ovunque in Oriente ed in Occidente [cfr. Pellegrinaggi in Avvento 2012].
Ma oltre all’Arcangelo, vari santi hanno avuto a
che fare con i draghi. Celeberrimo è san Giorgio, originario della Cappadocia, di cui storicamente poco si sa, ma stando alla leggenda si
narra che in una città chiamata Selem, in Libia,
vi fosse un grande stagno, tale da poter nascondere un drago, che, avvicinandosi alla città, uccideva con il fiato tutte
le persone che incontrava. Gli abitanti gli
offrivano per placarlo
due pecore al giorno,
ma quando queste cominciarono a scarseggiare furono costretti
a offrirgli una pecora e
un giovane tirato a sorte. Un giorno fu estratta la giovane figlia del
re, la principessa Silene. Il re, terrorizzato,
offrì il suo patrimonio
e metà del regno, ma la
popolazione si ribellò,
avendo visto morire
tanti suoi figli. Dopo
otto giorni di tentativi, il re alla fine dovette cedere e la giovane si avviò verso lo stagno per essere offerta al drago. In quel momento passò di
lì il giovane cavaliere Giorgio, il quale, saputo
dell’imminente sacrificio, tranquillizzò la principessa, promettendole il suo intervento per
evitarle la brutale morte. Poi disse alla principessa Silene di non aver timore e di avvolgere la sua cintura al collo del drago, che prese a
seguirla docilmente verso la città. Gli abitanti
erano atterriti nel vedere il drago avvicinarsi,
ma Giorgio li tranquillizzò dicendo loro di non
aver timore poiché «Iddio mi ha mandato a voi
35
per liberarvi dal drago: se abbraccerete la fede
in Cristo, riceverete il battesimo e io ucciderò il
mostro». Allora il re e la popolazione si convertirono, il cavaliere
uccise il drago e
lo fece portare
fuori dalla città trascinato da
quattro paia di
buoi. Nel Medioevo la lotta
di san Giorgio
contro il drago
diviene il simbolo della lotta
del Bene contro il Male e per
questo il mondo
della cavalleria
vi vide incarnati
i suoi ideali.
R apidamente
egli divenne un
santo tra i più
venerati in ogni
parte del mondo
cristiano, protettore dei militari in genere,
dei cavalieri in
particolare, dei
crociati, di intere nazioni come
l’Inghilterra. La leggendaria uccisione del drago
da parte di Giorgio e/o racconti simili racchiudono varie comunicazioni simboliche: la perenne lotta del bene contro il male; la progressiva
cristianizzazione di territori ancora pagani; la
“conquista” da parte del consorzio civile di zone
selvagge ed ostili, guadagnate così alla coltivazione.
San Giorgio non è l’unico santo che ha avuto a
che fare con un drago.
La leggenda di santa Marta compare solo nel
XII secolo. Essa narra che Lazzaro, Marta, Maria Maddalena ed altri sarebbero stati caricati
dagli infedeli su di una imbarcazione senza vele
né remi, né timone, né provviste. Fu così che approdarono a Marsiglia. Santa Marta, “molto elo-
quente ed amabile con tutti”, operò delle conversioni. Liberò dalla terribile Tarasca la città, che si
sarebbe chiamata Tarascona, e fece molti miracoli. La leggenda
racconta che
nei tempi in
cui santa Marta evangelizzava la Provenza,
un terribile dragone, la Tarasca, devastava
le fertili pianure della valle
del Rodano ed
impediva agli
uomini di vivere tranquilli in
quei luoghi. La
Santa venuta a
conoscenza del
fatto, inseguì la
bestia nelle profondità dei boschi e la domò
cospargendola
di acqua benedetta e segnandola col segno
della croce. Infine, mansueta
ed addomesticata, la legò alla
sua cintura e la portò nella città di Tarascona,
che dal drago aveva derivato il suo nome.
36
Da un bestiario duecentesco: Il dragone
è più grande di tutti gli altri serpenti e di
tutti gli altri animali del mondo. I greci lo
chiamano ‘dracontam’ e da qui deriva il
nome ‘draco’. Si dice che egli spesso tenta
di uscire dalle caverne e che l’aria è da lui
scossa. Ha una cresta, una bocca piccola
da cui tira fuori la lingua e strette narici, attraverso le quali respira. La sua forza
non è nei denti, ma nella coda. Fa più danni con i colpi che sferza che con la forza
dell’urto. Non possiede un veleno dannoso,
ma si dice che non abbia bisogno di veleni
per uccidere, perché uccide qualsiasi cosa
che afferra. Neppure l’elefante può stare al
sicuro. Vive in Etiopia e in India dove è
sempre caldo. Il dragone è come il diavolo, il più bello di tutti i serpenti [...] che si
s
trasforma nell’angelo della luce, ingannando gli sciocchi con speranze di vanagloria
e piaceri terreni. Il dragone ha la cresta,
perché il diavolo è il re della superbia; la
sua forza non sta nei denti, ma nella coda,
perché avendo perso il potere, il diavolo
può solo ingannare con le bugie.
Il basilisco
17
e il grifone può van- Mefitico e venefico, l’accezione del basilisco è ritare una duplice va- masta negativa come re degli inferi.
lenza, il basilisco no!
Questo rettile-uccello, sorta di drago, è il
Da un bestiario duecentesco: Il nome basire dei serpenti come il
lisco in greco significa piccolo re, perché egli
diavolo è il re dei deè il re delle creature striscianti. Quelli che lo
moni (Sant’Agostino).
vedono fuggono, perché il suo odore può ucPlinio il Vecchio ne
ciderli e può uccidere un uomo semplicemenparla nella Storia Nate guardandolo. Nessun uccello che lo vede
turale: c’è una base repuò rimanere illeso: sarà bruciato a distanale? Poteva vivere davvero un animale del geneza dal suo fiato ardente e quindi inghiottito;
re nel deserto del nord-Africa?
ma può essere sconfitto da una donnola ed è
Certo è che nell’ottica degli scrittori cristiani
per questa ragione che gli uomini mettono le
esso assunse significati assolutamente negativi.
donnole nei buchi dove vive il basilisco [...]
Beda (secc. VII-VIII) fu il primo ad attestare la
il basilisco è lungo mezzo piede con bianche
leggenda di come il basilisco nascerebbe da un
macchie. Vive in luoghi asciutti, come uno
uovo deposto di tanto in tanto da un gallo anziascorpione. Se vieno (altri autori hanno
ne a contatto con
aggiunto di sette anni
l’acqua la avvelena
quando la stella Sirio
e quelli che la bersia ascendente). L’uoranno diverranno
vo deve essere sferico
idrofobi [...] il bae deve essere covato
silisco significa il
da un serpente o da
diavolo, che uccide
un rospo, processo,
con il suo veleno i
questo, che poteva
disattenti peccatoimpiegare fino a nove
ri, ma egli stesso è
anni. Secondo l’encisconfitto come le
clopedia di Rabano
altre creature danMauro sarebbe lungo
nose dai soldati di
mezzo piede e striato
Cristo.
da macchie chiare.
37
18
L
Le sirene
e sirene (dal latino tardo sirēna) erano in origine delle figure mitologiche greche dalle
forme ornitomorfe e
caratterizzate da un
seducente richiamo.
Successivamente tali
entità mitologico-religiose verranno trasferite nella tradizione
della Roma antica. Queste sirene dell’antichità
viganti con il loro bellissimo aspetto ed allettandoli col canto; e dal capo e fino all’ombelico hanno il corpo di vergine e sono in tutto simili alla
specie umana; ma hanno squamose code di pesce
che celano sempre nei gorghi».
Dall’antichità greca all’epoca cristiana le sirene
permangono come mortifere ammaliatrici, incantatrici subdole e corruttrici, invitanti al peccato. Data la loro duplice natura, sono simbolo
d’inganno e d’impostura.
Nell’ambito delle fiabe, assai famosa è La sirenetta di Hans Christian Andersen, dalla quale è
stato tratto l’omonimo
film Disney del 1989;
la sirena protagonista
della fiaba è divenuta
il simbolo della città di
Copenaghen, e le è stata dedicata anche una
statua.
classica si sovrappongono spesso, nella denominazione in lingua italiana, a differenti figure
leggendarie.
Figura mista, la cui iconografia medievale fu fissata in base al Liber monstrorum (sec. VIII). In
esso le sirene afferenti all’antichità classica vengono descritte, per la prima volta, con la parte
inferiore del corpo a forma di coda di pesce: «Le
sirene sono fanciulle marine che ingannano i na-
38
Da un bestiario duecentesco: Le sirene
sono creature mortifere, che dalla testa
fino all’ombelico sono
umani, ma nelle parti basse fino ai piedi
sono come pesci. La
loro musica è una
canzone con la più
dolce delle melodie,
così che se un marinaio la ode da lontano, abbandona la rotta
e si dirige verso le sirene. La dolcezza del loro
canto incanta le orecchie e i sensi e lo culla.
Non appena si addormenta, le sirene lo attaccano e divorano la sua carne, e così il richiamo delle loro voci conduce l’uomo ignorante e
imprudente alla morte. Allo stesso modo chi
è attirato dalle delizie di questo mondo [...]
diventerà rapidamente preda dei suoi nemici.
altri animali immaginari
I centauri condividono le nature
di uomini e cavalli. Il centauro è
un animale mitologico, con dorso umano e posteriore equino.
Si credeva che i centauri vivessero sui monti della Tessaglia.
Essi erano ritenuti discendenti
di Centauro, nato dall’unione di
Issione, re dei Lapiti, e Nefele.
Da Centauro e dalle giumente
dei pascoli della Magnesia nacquero i centauri. Alcuni di essi
erano autori di imprese malvagie e brutali, mentre altri, come
Chirone, erano saggi e benevoli,
vivevano nei boschi, conoscevano le piante e le stelle ed erano
considerati fedeli amici degli
uomini e degli dei. Nell’antichità
univano l’intelligenza dell’uomo
alla forza e alla velocità del cavallo. Il cristianesimo fece del centauro il simbolo delle passioni più basse, espressione di
bestialità, tanto da identificarlo con Satana. In particolare la testa umana dei centauri era
simbolo di orgoglio, il busto di lussuria, le mani di cupidigia. Esso fu, invece, talvolta visto
anche come l’allegoria della doppia natura di Cristo: l’umana e la divina.
Il paganesimo ha fatto della pistrice un essere favoloso che presenta allo stesso tempo
somiglianze e differenze essenziali con l’ippocampo (cavalluccio marino): il suo compor-
39
tamento tra i flutti è
fondamentalmente
lo stesso. La pistrice
citata da Plinio e da
Virgilio aveva testa
di dragone e lunghe
pinne palmate. Spesso viene confusa con
l’ippocampo, ma se
quest’ultimo è sempre
stato visto come un
genio protettore e benefattore, la pistrice,
al contrario, è considerata un essere maligno e detestabile. Essa
rappresenta il mostro
infernale del mare e
compare spesso nelle scene di naufragio, di cataclismi e di luoghi maledetti.
La nostra cultura considera la chimera
il simbolo dell’impossibile. La simbologia cristiana la guarda con sospetto
in quanto animale mostruoso frutto
dell’incrocio fra tre animali: il leone, la
capra e il serpente sovente presi – specie
gli ultimi due – a simbolo demoniaco.
La chimera figura tra gli animali elencati nel Liber monstrorum, che così la
presenta: «I Greci scrivono della chimera che essa era una belva terribile e
mostruosamente ripugnante per il suo
triplice corpo, in quanto dicono fosse
armata di fiamme che vomitava dalle
sue tre teste». A partire, dunque, dall’età
carolingia la rappresentazione “classica”
della chimera cede il passo a quella di
un essere dalle tre teste corrispondenti ai tre animali in questione. Una delle
poche immagini medievali della chimera è nel mosaico pavimentale del coro
della cattedrale di Aosta (sec. XIII).
La fenice è emblema e simbolo della
resurrezione.
40
an ima li sim bol ici
animali simbolici
Da un bestiario duecentesco: Si sa che la fenice vive in qualche posto in Arabia e che vive
per cinquecento anni. Quando sa che sta arrivando la fine della sua vita, costruisce un
bozzolo di incenso e mirra dove si rinchiude e muore. Dalla sua carne nasce un verme che
crescendo prende le forme del precedente uccello. Questo uccello con il suo esempio ci insegna a credere nella Resurrezione [...]. La fenice ha tutti i segni della Resurrezione.
il leone e la pantera 19
m
entre il lupo e l’orso
erano le belve realmente presenti nell’Europa
occidentale e con le
quali l’uomo medievale
poteva effettivamente
misurarsi di frequente, il leone è lontano e
come tale acquisì una
complessità valoriale
che oscillava tra una percezione negativa ed una
positiva. Il leone è un simbolo ambivalente: da un
lato è segno di regalità, di forza, di coraggio (RicCuor di Leone), dall’altro, per la sua ferocia
cardo Cu
nel catturare e divorare le vittime, è emblema del
male (peccato e tentazioni) e quindi del diavolo.
La criniera fulvo-dorata ne ha fatto il simbolo del
sole (nello Zodiaco il leone è il segno della piena
estate). Il Fisiologo ne evidenzia “tre nature” e ne fa
un simbolo cristologico.
Da un bestiario duecentesco: Il nome leone deriva
dal greco ‘leon’. Poiché leone in greco significa ‘re’, è
così chiamato, perché è il re delle bestie [...]. I naturalisti dicono che il leone ha tre caratteristiche principali. La prima è quella che ama vagare sulle cime delle
montagne. Se accade che i cacciatori vanno a dargli la
caccia, egli sente l’odore dei cacciatori e cancella le sue
tracce con la coda per timore che lo seguano, trovino
la sua tana e lo catturino. Così il nostro Redentore, il
leone spirituale della tribù di Giuda, [...] ha nascosto
le tracce del suo amore in paradiso fino a quando non
fu mandato dal Padre. La seconda caratteristica è che
sembra tenere gli occhi aperti quando dorme. Così
nostro Signore, che sembrava addormentato nel corpo
sulla Croce e fu seppellito, mentre la Sua divinità era
vigile, come è detto nel Cantico dei Cantici [5,2]: ‘Io
dormo, ma il mio cuore veglia’. La terza caratteristica
è questa: quando la leonessa partorisce, i suoi cuccioli
vengono al mondo morti. Essa li sorveglia per tre giorni, finché il terzo giorno non arriva il padre, che soffia
sui loro musi e li riporta in vita. Nello stesso modo il
Padre risvegliò nostro Signore Gesù Cristo dalla morte
il terzo giorno, come dice Giacobbe [Genesi 49,9]: ‘Si
accovaccia come un leone; chi lo farà levare?’.
41
santi e leoni
Anche il leone ha il suo santo: san Girolamo (secc. IVV) è spesso raffigurato con
un leone ai suoi piedi e ciò
perché si racconta che il Santo, nel monastero di Betlemme, avrebbe accolto e curato
un leone azzoppato facendoselo così amico.
San Macario (sec. IV) allevò due cuccioli di leone, che
liberò una volta cresciuti.
Condannato ad essere dato
in pasto ai leoni per la sua
fede, fu invece riconosciuto proprio da quei due leoni
che aveva allevato, che gli si
accucciarono accanto.
Il leone è il simbolo dell’evangelista Marco.
un altro felino simbolo di Cristo
Ne parla un bestiario duecentesco: Esiste un animale chiamato pantera, che è brillantemente colorato, molto bello e mansueto. I naturalisti dicono che è solo nemico del
dragone. Quando ha mangiato ed è sazia, si nasconde nella sua tana e dorme. Dopo tre
giorni si sveglia ed emette un gran ruggito e fuori dalla sua bocca esce un dolce odore
che sembra contenere ogni tipo di profumo. Quando gli altri animali odono la sua voce
si raccolgono da ogni parte e la seguono ovunque essa vada a causa della dolcezza del
suo respiro. Solo il dragone, udendo la sua voce, si nasconde per il terrore nelle viscere
della terra [...] così il nostro Signore Gesù Cristo, la vera pantera, scende dal Cielo e ci
salva dal potere del diavolo [...]. Egli cade morto e rimane nella tomba e discende nell’oltretomba, dove incatena il grande dragone. Il terzo giorno resuscita, piange ad alta voce
e mostra la sua dolcezza, come dice Davide [Salmi 78,65]: ‘Poi il Signore si risvegliò
come uno che dormisse, come un prode che grida eccitato dal vino’ [...]. Le sue parole
furono trasportate fino alla fine della terra e come il dolce alito della pantera riunisce
gli animali e la seguono, così i Giudei [...] lo udirono e lo seguirono.
42
L’
l’ermellino
ermellino deriva il
suo nome dal latino
medievale mus armerinus (topo dell’Armenia). La sua bianca pelliccia invernale
venne utilizzata come
fodera dei mantelli di
re, principi e imperatori, nonché come
risvolto del copricapo papale. Anche mestieri di prestigio quali, ad
esempio, medici e giuristi potevano
fregiarsi, della pelliccia di questo
animale. Il candido manto dell’ermellino è simbolo di purezza e castità: la tradizione vuole che il piccolo
roditore preferisca morire piuttosto
che macchiare il suo pelo. Celebre in
tal senso il dipinto di Leonardo La
Dama con l’ermellino (1488-1490).
L’ermellino nei bestiari medievali
rappresenta anche l’intelligenza, la
pacatezza e l’equilibrio, virtù che
I
fanno di questo animale l’emblema della moderazione: «L’ermellino per la sua moderanza non
mangia se non una sola volta al dì».
L’ordine dell’Ermellino, dedicato a San Michele Arcangelo, era la più alta onorificenza degli
Aragonesi di Napoli e fu fondato da Ferrante I
nel 1465, con lo scopo di autorappresentare la
propria identità dinastica.
il serpente
l serpente è uno dei
simboli più importanti dell’immaginario collettivo. È
l’animale che si presta ad una vastissima gamma di interpretazioni e di ruoli.
Le antiche religioni
orientali considera-
20
21
vano i serpenti come divinità o come geni del
bene e del male. Il cambiamento di pelle, cui
è soggetto il serpente ogni anno, fu considerato presso gli antichi l’immagine simbolica
delle felici trasformazioni spirituali e fisiche
dell’uomo. Nel cristianesimo prevale la tendenza a considerarlo, a partire dall’interpretazione simbolica della Genesi, come personificazione di Satana e della malvagità, spesso
associato al peccato di lussuria.
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La seconda caratteristica del serpente è questa: quando si avvicina ad un fiume per bere
acqua, non porta il suo veleno con sé, ma lo
scarica in un pozzo. Quando ci riuniamo in
chiesa, per ascoltare la parola celeste di Dio,
l’acqua eterna della vita, anche noi dovremmo liberarci del nostro veleno terreno e dei
desideri malvagi.
La terza caratteristica del serpente è questa:
se vede un uomo nudo, ne ha paura; se lo
vede vestito, lo attacca.
Infatti quando Adamo era nudo in Paradiso,
il serpente non poteva attaccarlo, ma dopo
che fu vestito il serpente lo attaccò.
Da un bestiario duecentesco [Aberdeen, 24,
secc. XII-XIII]: Il serpente ha tre caratteristiche.
La prima è che quando invecchia se vuole riconquistare la sua giovinezza, digiuna per molti
giorni fino a quando cresce sotto la vecchia la
sua nuova pelle; poi cerca una stretta fessura in
una roccia, vi entra, e si graffia attraversandola
in modo da eliminare la vecchia pelle. Cerchiamo, anche noi, attraverso molte afflizioni e astinenze di cambiare abito in nome di Cristo, la
roccia spirituale, e di trovare la stretta fessura,
che è ‘la porta stretta’ [Matteo 7,13].
IL SERPENTE EMBLEMA DI SATANA PER I CRISTIANI
Sin dalla nascita dell’arte cristiana il serpente, a causa del suo ruolo di seduttore, di agente del
male e di istigatore al peccato nel racconto della Genesi, rappresenta Satana. Su di un vaso a
vernice rossa scoperto ad Orléans, del primo millennio cristiano, si vede il Cristo in piedi con
la Croce in mano che calpesta il serpente. Ritroviamo il rettile infernale ai piedi del labaro
imperiale di Costantino convertitosi al cristianesimo. Le lampade cristiane di quest’epoca a
Roma, a Cartagine, in Egitto, molto spesso sono decorate con lo stesso soggetto. Il Medioevo
ce lo mostra mentre spira ai piedi della Croce.
Nel suo ruolo di furbo seduttore, il serpente è qualche volta rappresentato attorcigliato sotto una
rosa, altre volte sull’erba fiorita, da cui la frase corrente Anguis in herba (il serpente sta nascosto
fra l’erba) che incita alla
prudenza.
I bestiari medievali di
solito designano con il
nome di aspide il serpente nel suo ruolo nefasto di trascinatore verso
il male, a causa del testo
sacro che pone il rettile
sotto i piedi del Cristo
vincitore: Camminerai
su aspidi e vipere (Salmi
91,13), cosa che fa comprendere ai cristiani che
il rettile infernale può
essere vinto attraverso la
grazia di colui che ne è il
dominatore.
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t
l’aquila
utte le culture compresa quella giudaicocristiana hanno assegnato all’aquila, regina
degli uccelli, un’importanza straordinaria. Essa è considerata
una creatura costantemente in contatto con
la divinità, della quale appare messaggera
quando non addirittura incarnazione. Gli edifici
sacri medievali sono i luoghi
terrestri in cui
l’aquila trova
una sua precisa
collocazione in
altari, amboni,
colonne e pinnacoli. L’acutezza della vista dell’aquila,
la sua rapidità
nel l’att a c c o,
la sua forza
senza pari ne
hanno fatto un
simbolo perfetto da porre
alla testa di un
esercito.
I romani usarono, infatti,
l’aquila come
insegna militare. Carlo Magno, quando fu incoronato imperatore (Natale dell’800), volle
fregiarsi dell’aquila per ribadire la continuità
del suo impero, “sacro romano”, con l’impero
romano. L’aquila fu il vessillo dei ghibellini
al tempo della lotta per le investiture, ma anche dei Guelfi per concessione di papa Clemente IV.
Il cristianesimo ama dell’aquila soprattutto la
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sua forza messa al servizio dei deboli, che nella
Bibbia diventa la paterna sollecitudine di Dio
a difesa del popolo eletto. I Padri della Chiesa
vedono nell’aquila il simbolo di Cristo: «Come
l’aquila abbandona i luoghi bassi, punta verso
l’alto e arriva vicino al cielo, così anche il Salvatore ha abbandonato le bassezze dell’inferno, per volare verso l’alto del paradiso».
Poiché l’aquila, secondo le antiche credenze, ha
la possibilità di poter fissare gli occhi nel sole
senza rimanere accecata, così i credenti sono
chiamati a rivolgere il proprio sguardo al Sole
che è Cristo.
La lotta fra
l’aquila e il
serpente rappresenta la vittoria di Cristo
su Satana, del
bene sul male.
L’aquila è anche l’attributo
di san Giovanni evangelista. La natura dell’aquila
resta comunque quella del
rapace, essa è
talvolta vista
come simbolo
di Satana che
cerca di assalire la Chiesa,
ma solo raramente questo aspetto negativo viene tradotto
nell’arte medievale.
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Da un bestiario duecentesco: La sua vista
è così acuta che può planare sul mare, al di
là dell’umana comprensione e da una così
grande altezza può vedere i pesci che nuo-
fontana e si immerge per tre volte: in un attimo le sue ali riacquistano la primitiva forza
e i suoi occhi la precedente luminosità. Così
tu uomo, i cui vestiti sono vecchi e gli occhi
del cuore offuscati, dovresti cercare la fontana spirituale del Signore e alzare gli occhi
della mente a Dio, che è la fonte di giustizia.
tano nel mare. Si getta in picchiata come un
fulmine, cattura la preda e la porta a terra.
Con la vecchiaia le sue ali diventano pesanti e i suoi occhi si annebbiano. Allora cerca
una fontana e poi vola in alto nell’atmosfera
del sole; lì le sue ali prendono fuoco e l’ombra
dai suoi occhi è bruciata. Cade quindi nella
23
L’
l’AGNELLO
agnello è il simbolo
cristiano per eccellenza. Di più, esso è simbolo di Cristo: «Ecco
l’agnello di Dio che
toglie i peccati del
mondo» (GioGiovanni 1,29). Soprattutto l’idea
sacrificale ha
portato ad accostare il simbolo dell’agnello alla figura di Cristo. Le più antiche raffigurazioni
dell’agnello cristico si trovano nelle catacombe, ma la forza di questo simbolo è tale
che l’agnello-Cristo continua ad essere rappresentato per tutto il Medioevo, e oltre. Esso
è rappresentato frequentemente sui timpani
delle chiese romaniche.
tri agnelli [...]. L’agnello è il simbolo della
persona del nostro mistico Salvatore, la
cui morte innocente ha salvato l’umanità
[...]. L’agnello è anche ciascuno dei fedeli,
la cui vita è irreprensibile e che ubbidisce
alla Madre Chiesa, riconoscendo la sua
voce e le sta al fianco e ubbidisce ai suoi
comandamenti. Gli agnelli sono benedetti
nel Vangelo: ‘Nutri i miei agnelli’ [Giovanni 21,15].
Da un bestiario duecentesco: L’agnello è
chiamato in latino agnus, sia dalla parola greca per ‘pio’, sia dal latino agnoscere,
riconoscere, perché è l’unico animale tra
tutti che è capace di riconoscere la madre,
tanto che nel mezzo del gregge, non appena
la madre bela, egli riconosce la sua voce e
si affretta a raggiungerla, cercando la fonte
familiare del latte materno.
E la madre lo trova tra migliaia di al-
46
La “sacralizzazione” 24
dell’asino e del bue
nella NativitA di GesU
L’
immagine del bue e
dell’asino che vegliano
sul Bambino Gesù è
presente nella maggior
parte delle raffigurazioni della Natività.
Tuttavia i Vangeli canonici nulla dicono
riguardo alla presenza
di questi due animali.
Ne parla invece
un Vangelo apocrifo chiamato nel Medioevo Libro sulla nascita della beata Vergine e
sull’infanzia del Salvatore (Pseudo-Matteo):
«Tre giorni dopo la nascita del Signore nostro Gesù Cristo, la beatissima Maria uscì
dalla grotta ed entrò in una stalla, depose
il bambino in una mangiatoia, ove il bue e
l’asino l’adorarono». Sant’Agostino, nel discorso sull’Epifania del Signore, ci aiuta a
capirne il profondo significato simbolico.
Egli così scrive: «Il bue adombra i Giudei,
l’asino i Gentili. Ambedue vennero alla
mangiatoia e trovarono il cibo del Verbo».
La pia tradizione del bue e dell’asino poggia sul testo biblico di Isaia 1,3: «Il bue
conosce il proprietario e l’asino la greppia
del padrone, ma Israele non conosce e il
mio popolo non comprende». L’iconogra-
fia cristiana ben presto accolse questo motivo.
Già in un antico sarcofago del IV secolo, ritrovato a Boville Ernica (Frosinone) si trova la raffigurazione dei due animali. Sulla linea di questa
tradizione, Francesco d’Assisi, la notte di Natale
del 1223, a Greccio volle «rappresentare il Bambino nato a Betlemme [...], come fu adagiato in
una greppia e come giaceva sul fieno tra il bue e
l’asinello», così ricorda Tommaso da Celano nella Vita prima di san Francesco.
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