Musa Tascabile - Orientexpress.na.it

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things that
quicken the heart
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Premessa
Il Corso di Storia delle religioni dell’anno accademico 2005-06
è stato diviso in due moduli.
Il primo, sul “problema del dolore” nella cultura occidentale,
con un libro di Salvatore Natoli come testo-base. Tra i temi
discussi: la metafisica del tragico, la teologia del patto, la grammatica del patire, le tecniche per controllare le emozioni. Qualche richiamo anche a Camus, ad alcuni aspetti pagani del suo
pensiero e del suo sentimento della vita. Ciò che era in gioco, in
ogni caso, era la forza del dolore, il suo potere di sconvolgimento delle nostre vite, e come ne ponga in questione il senso.
Nel secondo modulo – Interrogazione, condivisione, parola – si
è cercato di dialogare con Jabès, negli spazi bianchi della sua
scrittura, e di riscoprire insieme, pur parlando, il luogo possibile di una parola libera dalle costruzioni logiche, dalle sintassi
del senso. Un discorrere che sia anche silenzio: un silenzio di
apertura a un pensiero e a una scrittura che sappiano essere
erranti, nomadi.
Un corso di questo tipo non è un corso di “Storia delle religioni”
in senso stretto. Mira piuttosto a problematizzare l’esperienza
religiosa, le sue origini, le sue forme. È inevitabile, allora, porsi
in gioco con i propri dolori, ricordi, nostalgie, fratture. E non si
può sfuggire, in alcuni istanti, alla sensazione della voragine
che ci attende, a quell’esperienza del morire che non conosciamo se non come morte degli altri.
Siamo tutti un po’ sperduti su questa “terra degli uomini”. E tutti
abbiamo incontrato la “condizione umana”. Sempre in bilico, sempre in sospeso. Anime desolate come paesaggi lunari.
Se si potesse leggere nelle menti e nei cuori, si scoprirebbe l'impossibilità dell’indifferenza. L’amore della vita tormentato da
un nulla sottile e segreto.
È iniziato, così, uno scambio di email con gli studenti, dapprima
scarno, riservato. Qualche domanda, qualche osservazione. Poi
lettere ampie, e il delinearsi di una partecipazione sempre più
viva, diventata – dal 12 gennaio al 14 febbraio 2006 – un’esperienza di studio attento e appassionato, ma anche di forte coinvolgimento emotivo.
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Il volumetto è dedicato alle “assenze presenti” che ci accompagnano nello studio e nella vita, e che talvolta – improvvisamente – riemergono dal passato, prossimo o remoto, con una forza
particolare, e sanno trasmetterci il pathos di ciò che dura nonostante il tempo. Quelle “assenze presenti” che sono tenui,
impalpabili, soavemente insistenti e fedeli ... Quelle “assenze”
che possono essere più vere e più forti delle presenze d’ogni
giorno. Quelle “assenze” che ci fanno “ricordare, attendere,
sperare” sopra le rovine. Nonostante le rovine.
Napoli, 27 febbraio 2006.
F. De Sio Lazzari
In attesa della morte
Ivana Carandente
Se ha ragione Socrate nello scegliere la via della parola,
per ingannare il tempo nelle ore che lo separano dal nulla eterno, allora tutto il nostro affannarci nella vita, la
ricerca di un senso, il perseguimento di un obiettivo, tutto , insomma, si riduce a un tentativo di ingannare il tempo nell'attesa che la morte venga a raccoglierci...?
Se la si guarda secondo quest'ottica, la vita perde la sua
“preziosità”, diviene certo più realistica, ma dove cercare il suo senso...?
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Il respiro del mondo
Mirko Vamvakinos
Qualche considerazione su un paio di temi delle lezioni:
– La lucidità e la razionalità ci impediscono di vivere a
pieno il presente, su questo ho esperienza diretta. Quando riesco a godere i momenti che vivo, il passato e il futuro scompaiono.
– Il respiro del mondo, in Camus, è uno degli argomenti che
preferisco. Spesso mi fermo a osservare per strada un formicaio in piena attività o a ricercare la pace tra gli alberi
o ad alzare lo sguardo e rimirare stelle e luna o semplicemente le nuvole che passano. Immagino la mia città senza
palazzi che ostruiscano la vista dell’orizzonte e del cielo, e
vorrei fuggire su una spiaggia o in un bosco.
I tramonti e le albe sono eventi straordinari per me. Sento spesso un desiderio forte di fuggire dalla città (spenta
e artificiale), e fondermi con l’armonia del mondo. Quando riesco a trovare un angolo di pace (la reggia di Portici, l’orto botanico di Palermo) è come se ritrovassi me
stesso perché mi sento tutt’uno con l’aria, l’acqua, gli
alberi, gli animali, la terra.
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Hardware e software
Mirko Vamvakinos
Sa che sto leggendo l’elogio della follia di Erasmo da Rotterdam? Non è solo divertente ma è anche molto profondo.
È una parodia di un’opera classica ed è molto pungente
perché se la prende con tutti i “sapienti” che cercano la
saggezza nelle carte e non sanno che la vera sapienza si
trova nella vita, nelle passioni, nell’abbandono ai sensi. La
follia è la vera felicità: chi pensa troppo è infelice e non
gode il presente, preferisce pensare invece che agire,
ammonire invece che scherzare, intristire la gente invece
che intrattenerla e rallegrarla.
Credo di non sbagliare se collego Erasmo Epicuro Camus:
anche i primi due si possono chiamare pagani felici.
Stasera pensavo: l’uomo ha realizzato i computer a sua
immagine e somiglianza. L’hardware invisibile è il cuore pulsante, dà gli impulsi a tutto il corpo e nulla funzionerebbe senza di esso, contiene le informazioni e i
comandi basilari. Poi c’è lo schermo con il software Windows che media tra l’hardware e l’utente. Il software,
infatti, ordina tutto in cartelle belle ordinate e parla un
linguaggio convenzionale che tutti gli utenti possono
comprendere abbastanza facilmente. Dà un’immagine
ordinata e coerente del disordine interno.
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Alcuni interrogativi
Giovanni Armenio
Il libro di Natoli si incentra sul dolore, ma è possibile fare
lo stesso anche con l’amore? Ovvero l’accecamento amoroso è uguale o differisce dall’accecamento del dolore?
Il dolore accresce; e l’amore? Possiamo vederli come antitetici ed uguali?
Nel dolore si cresce e nell’amore ci si rafforza?
Altrimenti perché amore e morte, se puri, sono accomunati?
Perché si lotterebbe per amore?
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Il nomadismo
Rosaria Di Felice
Tra me e la mia coscienza c’è un abisso nel cui fondo invisibile scorre il rumore di un fiume lontano dai soli, il cui suono reale è cupo e freddo. In qualche punto del pensare, della nostra anima, freddo, scuro e incredibilmente vecchio, in
se stesso e non nella sua dichiarata apparenza.
Pessoa parla di un fiume lontano dai soli. Ricollegandomi a
Jabès ho pensato che il fiume siano i nostri pensieri. Quelli
più veri restano nell’ombra, quei pensieri che sono intimamente nostri e che sono inesprimibili. Mi riferisco a quanto
Lei ha detto, a lezione, sulla “cultura dell’ombra” e sul disagio di un uomo che viveva senza la sua ombra: la Storia
meravigliosa di Peter Schlemihl di Adalbert von Chamisso.
L’ascoltare si confonde con il vedere, uno scambio di sensi che spesso Jabès usa nei suoi scritti. Capire significa
utilizzare tutti i sensi, senza che ci siano confini fra loro.
A questo proposito penso anche a La lettre du voyant di
Rimbaud... Il rumore silenzioso del fiume libera il mio
pensiero dal potere del mio pensiero-sognare. Nel silenzio si comprende il rumore dei nostri pensieri, e nel
silenzio del deserto e del libro Jabès trova – ma solo
momentaneamente – la sua anima. Infatti, quando il libro finisce, il dissidio dell’io ricomincia...
Tutto fluttua, incessantemente cambia, e per ciò è impossibile imprigionare concetti con parole e tantomeno
possedere qualcosa. Per natura siamo migranti perché lo
sono i nostri pensieri e la nostra anima.
Dio, il Mistero, l’Io? Per Jabès sono concetti che non esistono concretamente, ma solo luoghi da raggiungere in
noi stessi. Per gli ebrei la terra promessa non è Israele,
ma il luogo dell’anima in cui le parole e il silenzio troveranno finalmente un’armonia.
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S’inserisce qui – in questa riflessione che muove da Pessoa, e ne fa interagire alcuni pensieri con quelli di Jabès –
il tema del nomadismo.
Ecco alcune citazioni da Chatwin, Le vie dei canti.
“La nostra natura consiste nel movimento, la quiete
assoluta è morte” (Pascal).
“Chi non viaggia non conosce il valore degli uomini”.
“La vita è un ospedale in cui ogni malato è posseduto dal
desiderio di cambiar letto. Uno vorrebbe soffrire accanto
alla stufa, l’altro crede che guarirebbe seduto vicino alla
finestra. A me sembra che sarei felice dove non sono e la
questione del cambiar dimora è tema di un dialogo incessante con la mia anima”.
“L’interna fiamma... la febbre di andare”. (Kalevala)
“Solvitur ambulando”.
“L’uomo dalle suole di vento”. (Verlaine su Rimbaud)
Le parole come autoinganno
La relazione, o meglio tensione, che c’è tra parola e silenzio non è la stessa che c’è tra vita e morte?
Le molte parole che usiamo per spiegare, chiarire, delimitare la realtà, non servono forse per appropriarci della vita?
Il nostro desiderio è di vivere. Le parole sono un autoinganno, ci danno l’illusione di sfuggire alla morte.
Il silenzio fa paura perché non ci dà nessuna speranza di
vita.
“La verità di Dio è nel silenzio”.
La parola allontana da Dio, dalla verità, impedisce di raccogliersi in se stessi.
“Il coraggio di raccogliersi in se stessi” di Wittgenstein,
che strappa dall’illusione di ciò che si vuole essere, per
vedere finalmente ciò che si è, si trova nel silenzio.
“La propaganda nazista sostenne che per zingari ed
ebrei – due popoli geneticamente portati al nomadismo –
in un Reich stabile non c’era posto. Gli orientali però,
mantengono vivo un concetto un tempo universale: che
la vita errabonda ristabilisce l’armonia originaria fra
uomo e universo”.
“La vita è un ponte, attraversalo, ma non costruirvi alcuna casa”.
“L’uomo non è stato creato per stare fermo, la storia delle malattie infettive è la storia di un gruppo di uomini
che si crogiolavano nella loro sporcizia”.
“In tibetano la parola per essere umano è agroba, ossia;
viandante, che fa migrazioni”.
“Un arabo beduino è un abitatore delle tende”.
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Nicoletta Fossa
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Il saggio è senza idee
Luca Moretti
Seguendo la lezione di ieri ho avuto due impressioni di
cui vorrei parlare.
La prima è sul tema “incomprensibile, impensabile, morte” nel Libro della condivisione.
Dal mio punto di vista Jabès inserisce la morte come
chiusura del climax perché è la fine della coscienza che
ognuno ha di sé. Infatti un concetto, per essere definito
incomprensibile o impensabile, deve essere fatto necessariamente passare per un processo logico mentale alla
fine del quale viene catalogato come inaccessibile a livello di pensiero consapevole. La concezione della morte,
ma secondo me anche quella di Dio, va al di là del pensabile razionale perché riguarda la coscienza diretta della
morte stessa che penso possa essere compresa solo in
punto di morte, quando si ha la sfortuna di una lenta agonia. Quando tentiamo di affrontare questo tema, la
nostra è – in definitiva – una conoscenza di seconda
mano che non ci permetterà mai di arrivare a una
“verità” assoluta.
L’altra considerazione che volevo fare riguarda la scrittura. Jabès crede nell’importanza degli spazi bianchi tra
le parole e nei vuoti che le grandi domande lasciano, in
modo che le risposte non possono essere trovate ma
devono essere cercate per creare altri vuoti.
Secondo me, in questo discorso c’è un’analogia con ciò
che scrive Jullien ne Il saggio è senza idee a proposito di
saggezza e filosofia. Il filosofo è colui che costruisce una
struttura logica per dimostrare una tesi e quindi arrivare ad una “verità” che però gli sfuggirà sempre, perché
impossibile da raggiungere, mentre il saggio non fa prevalere mai un’idea sulle altre perché predilige la giusta
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misura (che non è immobilità, ma la continua ricerca di
un mezzo tra diversi estremi).
Questa posizione d’incessante ricerca si può accomunare
al pensiero nomade di Jabès?
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La parola nuova
Valentina Punzi
Il tormento del libro, il tormento della parola, il tormento
del senso e quello della verità: quella distillata dal mare
dell’ esperienza, ricercata e agognata per non affrontare il
vuoto e il silenzio (perche “ci spaventano più” delle parole?) e legittimata da una sorta di superiore conoscenza
che trascende spazio e tempo per rappresentarsi in un
non meglio identificabile e definibile “oltre”.
Credo che la forza di una discussione conscia e avvertita
come necessaria sulle possibilità effettive di determinare una parola e un uso nuovo del linguaggio, maturato e
meditato nel silenzio, non possa lasciare indifferenti,
anche se devo riconoscere che a volte tutto sembra sfaldarsi tra parole che non fanno altro che sommarsi ad
altre parole che nel loro limitato potere comunicativo
tentano di spiegare e far luce, con il risultato, forse, di
complicare le cose.
Credo anche che la ricerca di una parola, di quella che ci
rappresenti davvero ponendoci in contrasto con le possibilità stesse di trasmetterla fuori da noi stessi agli altri
(ma non uso il linguaggio per darmi voce anche in riferimento a un contesto dove non sia e non mi senta sola o
meglio con l’ unica compagnia del mio ricchissimo ma
inattingibile e incondivisibile bagaglio emozionale e di
pensiero?) sia ricerca lunga e faticosa in cui frequenti si
verificheranno cadute nel ritorno al linguaggio codificato e predefinito del quotidiano.
Come ovviare al naturale rifluire di un linguaggio in forme nuove ma altrettanto codificate? Dovrebbero forse
esistere due piani di parole: uno di condivisione, sterile
ma funzionale alla comunicazione (langue saussuriana)
e uno della parola di solitudine e certezza, così nascosta
nella notte che a malapena è udibile da se stessa?
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Forse non sto riuscendo a centrare il problema (va centrato?).
La parola nuova è la parola aperta, libera di darsi e stimolare le più svariate letture e percezioni critiche ed
emozionali comprendendole tutte o meglio rendendole
tutte possibili su un piano dove non sia più rivendicata
La Verità e l’Interpretazione?
Ma in questo caso come ci capiremmo?
È vero che mai possiamo illuderci che il nostro messaggio giunga a destinazione con tutte le connotazioni, le
sfumature e il non detto che noi con tanta precisione e
cura affidiamo a parole selezionate come se fossero davvero uniche, ma mi sembra altrettanto vero che un linguaggio costantemente aperto a tutte le possibilità non
possa favorirci (...).
Mi sto perdendo tra le parole e il pensiero, che va di sicuro troppo veloce rispetto alla mia lentezza sulla tastiera.
Personalmente credo di volere un pensiero per immagini,
arricchite dal sole quando penso a un tramonto islandese
e illuminate dal blu di un cielo infinito quando mi viene in
mente il sorriso di un bimbo tibetano a 5000 m. o dal verde di una montagna che si specchia in un lago nel Sichuan:
a volte non c’è davvero bisogno di parole, ma solo di un
silenzio che non è loro assenza ma scelta.
Pensare per immagini mi sembra più bello e pieno che
pensare e parlare per nuove parole che riscivoleranno
negli stereotipi dell’ uso quotidiano e di contesto.
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Il gesto di Eva
Raffaella Iaconantonio
Rileggevo le parole che sono state oggetto della nostra
lezione di oggi (13/01/06) prestando più attenzione ad
alcune espressioni sulle quali lei ci ha invitato a riflettere. A pagina 33 c’è la seguente frase: “Nell’addentare la
mela Eva sapeva che stava divorando la sua anima?”
Jabès concepisce l’uomo con una forte componente...
debole. Nel gesto di Eva si può intravedere questa debolezza perché decide di cogliere e mangiare il frutto in
seguito ad un inganno del serpente(“Non morirete affatto! Anzi Dio sa che, quando voi ne mangiaste, si aprirebbero i vostri occhi e diventereste come Dio, conoscendo il
bene e il male”, Genesi).
Eva credeva di ottenere l’immortalità, ma in realtà proprio a partire da quel morso “ha cominciato a morire”.
Riaffiora qui il tema della precarietà della vita: “il bambino già dal concepimento comincia ad invecchiare”. Eva,
accecata dal desiderio di avere la verità, una verità che
non esiste, ha errato… / addentando la mela ha macchiato la sua anima inconsapevolmente (mela-anima). Molto
probabilmente il suo gesto è stato determinato anche dal
fatto di sentirsi senza protezione, senza conoscere un
passato che la rassicurasse né un futuro.
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Sarah Kane
Irene Tortorella
Riguardo ai libri che fanno rumore e i libri che esigono
silenzio, il primo autore che mi è venuto in mente è una
drammaturga inglese, Sarah Kane, nata nel 1971 e morta suicida nel 1999. I suoi testi hanno fatto molto rumore nella mia mente, ma hanno bloccato, insieme alle
parole, anche il respiro. I suoi libri esigono silenzio o urla
di paura, terrore, angoscia.
Ho letto Dannati, Febbre e La psicosi delle 4 e 48 in un periodo in cui avevo bisogno di molte parole che mi facessero
riflettere, più che darmi verità belle e impacchettate. Non so
se lei abbia letto le opere di Sarah, ma credo che benché giovane, sia riuscita a mettere sulla scena la realtà delle persone che hanno difficoltà di parola ed espressione.
Cate di Dannati, per esempio, balbetta. Mi viene in mente Grand de La peste di Camus che sto leggendo per il primo modulo, quando chiede a Rieux di spiegargli il perché
della sua difficoltà nel trovare le parole. Sarah eccede e
a volte manca di parole: “la lingua è uno strumento di
assoluta precisione e allo stesso tempo mezzo di sopraffazione e veicolo di ambiguità”.
Scrive lasciando lunghissimi spazi vuoti e spargendo
numeri e parole, a volte spezzate, sulla pagina, per far
leggere ciò che non scrive.
Ripete all’infinito verbi, domande o frasi: “Nessuna speranza Nessuna speranza Nessuna speranza Nessuna
speranza Nessuna speranza Nessuna speranza Nessuna
speranza”
“Come faccio a fermarmi?
Come faccio a fermarmi?
Come faccio a fermarmi?
Come faccio a fermarmi?
Come faccio a fermarmi?
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Come faccio a fermarmi?
Come faccio a fermarmi?
Come faccio a fermarmi?”
(La psicosi delle 4 e 48 - monologo)
Fa parlare i personaggi di Febbre, che rimandano ai 2 di
Aspettando Godot, in frammenti che sembrano non avere un
senso se non per chi li pronuncia, e quelli maschili sembrano
a volte parlare al femminile e viceversa, in un crescendo di
parole forti, lievi, tristi, felici, a volte in lingue diverse, ma
soprattutto angoscianti. Una frase-chiave: “E non dimenticare che la poesia è un linguaggio per sé e grazie a sé. Non
dimenticare, quando vengono sancite parole nuove, nuovi
altri atteggiamenti sono richiesti”.
Sarah Kane ha un modo di scrivere molto crudo, non so
se lei la riterrà come una di quei romantici che non sopporta, ma ho trovato che abbia qualche cosa in comune
con Jabès. Come lui scrive dell’incomprensibile, dell’impensabile, della morte. Credo che anche Sarah parli di
questo scrivendo nel monologo della Psicosi:
La ragazza probabilmente scrive durante l’internamento in un ospedale psichiatrico in cui trascorre gli ultimi
12 anni della sua vita, in preda alla follia.
Anche Sarah Kane racconta le sue paure, illusioni e solitudini attraverso il monologo di una ragazza che una notte
decide di suicidarsi alle 4 e 48 in punto (l’ora in cui, secondo le statistiche, c’è maggiore attrazione verso il suicidio).
Ci parla della discesa progressiva nell’abisso della follia,
del ricovero in un ospedale psichiatrico, di cataloghi di
psicofarmaci di cui viene imbottita celando certamente,
dietro la finzione drammatica, la sua vicenda personale.
Sarah e Sarah, due donne che la sofferenza ha portato
all’isolamento, due esistenze sociali disintegrate, due
voci al margine. Entrambe condotte alla follia perché diverse. Sarah, ebrea in esilio e Sarah, depressa cronica. Il
Diario di Sarah e la Psicosi delle 4 e 48 sono testi dall’esplicita tessitura poetica, frammentati e scanditi da
affermazioni categoriche di emozioni molto vicine.
“così astratto da essere
spiacevole
inaccettabile
non ispirante
impenetrabile”
Spero di non essere andata troppo fuori dalla scatola che
contiene il tema effettivo del modulo e che anche lei trovi
significati negli spazi bianchi tra le parole di Sarah Kane.
(P.S. del 5.2.2006)
Il “Diario di Sarah” (dal Libro delle interrogazioni di
Jabès) e la Psicosi delle 4 e 48 di Sarah Kane.
Jabès racconta le sue paure, illusioni e solitudini attraverso il diario di un’ebrea scampata all’Olocausto, Sarah.
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Una poesia di Ungaretti
Ivana Carandente
Giorni e le Notti
suonano
in questi miei nervi d’arpa
Vivo
di questa gioia malata d’universo
e soffro
per non saperla accendere
nelle mie parole
(Ungaretti, “Poesie Disperse”)
Oggi ci ha chiesto di esporle i nostri pensieri a proposito
del silenzio e dell’impossibilità di comunicare appieno
attraverso le parole... beh, io le rispondo con una poesia!
È vero, il linguaggio usato in senso stretto comunica ben
poco; ma la poesia forse, grazie proprio al suo uso modo
originale di accostare le parole, grazie al valore connotativo ed evocativo che vi attribuisce si spinge un po’
oltre... in poche parole rompe il linguaggio e in questo
modo si spinge oltre esso!
Questa splendida poesia riesce ad esprimere in pochi
righi concetti di grande valore: il fluire incessante del
tempo e quindi delle cose; la poesia vista come desiderio
malato (nel senso di folle) di afferrare qualcosa di inaccessibile e, infine, il grande abisso che separa la verità
dalla parola!
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René Char
Rossella Di Felice
Sfogliando vecchi libri delle superiori ho trovato un poeta francese che credo avverta la stessa ambiguità del linguaggio di cui ci parla Jabès: René Char. Una delle sue
poesie si intitola A la santé du serpent.
Io canto il calore davanti al viso del nuovo nato, canto il
calore disperato. (canta pur sapendo che non servirà a
niente, perché le parole non lo esprimono).
Nella bocca di una rondine si forma una tempesta, si
costruisce un giardino. (Però è importante cantare/scrivere. Anche se dalla nostra bocca escono tempeste di
parole che non riusciamo a controllare, servono comunque a far crescere un giardino).
Poter camminare, senza uccidere l’uccello, dal cuore dell’albero all’estasi del frutto. (poter scrivere senza tradirsi, direbbe Jabès).
L’uomo non è che una tappa di un colore sul dorso tormentato della terra. (o del libro).
La poesia è di tutte le acque chiare, quelle che fanno
meno tardi a riflettere i loro ponti.
(Ho omesso delle parti che non sono riuscita a tradurre
molto bene...).
Ciò che posso notare è che anche per Char, l’espressione della verità è sotto la veste di aforismi. Anche per lui la poesia
non deve svelare il mistero, ma indagare l’ignoto senza mai
farlo cessare. Inoltre anche le sue poesie ci lasciano sempre
interrogazioni e – come per Jabès – la verità è in queste interrogazioni che ci fanno sempre deviare. Secondo me dopo le
guerre mondiali si era caduti nella monotonia delle parole e quindi il poeta si trova a dover gestire un ruolo mol29
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to delicato: usare le parole giuste, che non svelino qualcosa ma che interpretino il mondo, un mondo che per
troppo tempo si era nascosto dietro parole “apparenti”.
Questo è ciò che fa Jabès, ma allo stesso tempo sta sempre ben attento a non andare mai oltre le capacità della
parola, non attribuisce ad essa il ruolo di strumento portatore di verità. Questo disagio è dopotutto quello che
ritroviamo anche nel teatro dell’assurdo, che rifiuta il
valore comunicativo del linguaggio, che non è più un
mezzo che ci permette di comunicare con l’altro.
Ionesco dice: “Ho sempre avuto la sensazione dell’impossibilità di comunicare, di un isolamento... e io scrivo per
lottare contro tutto ciò. Scrivo anche per comunicare la
mia paura di morire, la mia umiliazione di fronte alla
morte. La maggior parte delle volte i miei personaggi
dicono delle frasi piatte e banali perché è dietro i clichés
che l’uomo si nasconde”.
Linguaggio e azione
Rossella Di Felice
Heidegger: “L’uomo è un uomo in quanto parla. Noi parliamo nella veglia e nel sonno. Parliamo sempre anche
quando non proferiamo parola, ma ascoltiamo o leggiamo soltanto, ci dedichiamo a un lavoro o ci perdiamo nell’ozio. Il parlare nasce da un particolare atto di volontà”.
Il parlare per Heidegger è un principio autonomo, e la
parola non è che una risposta a questo istinto. Il linguaggio è per Heidegger la “casa dell’essere” e per me è significativo come lui identifichi il linguaggio non come uno
strumento ma come un ambiente, proprio come Jabès
ritiene che il libro sia la sua dimora.
Nell’ultima lezione lei ci parlava delle grandi capacità
espressive del linguaggio, capacità che noi neanche
immaginiamo. A questo proposito mi viene in mente il
mio esame di filosofia del linguaggio: uno dei filosofi che
ho studiato è Wittgenstein, il quale parla di “giochi linguistici” e parla del linguaggio come forma di vita addirittura. Il concetto di gioco, infatti, rimanda a quello di regole
semantiche, regole condivise da una comunità umana, e
che quindi fanno parte della storia dell’uomo stesso.
“Il linguaggio è il multiforme strumento della prassi
umana”. Il linguaggio come ambiente storico, quindi, non
può ridursi a un unico modello, né per Wittgenstein né
per Heidegger, ma ammette sempre novità ed è questo il
senso del gioco. “Il nostro linguaggio può essere considerato come una vecchia città: un dedalo di stradine e piazze, di case vecchie e nuove, e di case con parti aggiunte in
tempi diversi: e il tutto circondato da una rete di nuovi
sobborghi con strade diritte e regolari, e case uniformi”.
Per quanto riguarda il cambiamento del concetto di filo-
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sofia a partire da Nietzsche in poi, è ciò che dice Foucault
discutendo della “sostituzione del linguaggio all’uomo”:
“Ai giorni nostri si afferma non tanto l’assenza o la morte di Dio, quanto la fine dell’uomo (quel sottile, impercettibile scarto, quell’arretramento nella forma dell’identità, che hanno portato la finitudine dell’uomo a convertirsi alla sua fine)... Più che la morte di Dio, il pensiero di
Nietzsche annuncia la fine del suo uccisore. Durante l’intero XIX sec. la fine della filosofia e la promessa d’una
cultura prossima coincidevano probabilmente con il pensiero della finitudine e l’apparizione dell’uomo nel sapere. Oggi, il fatto che la filosofia sia sempre e ancora fuori
di essa e contro di essa, nella letteratura come nella
riflessione formale, pone il problema del linguaggio,
dimostrando probabilmente che l’uomo stia sparendo”.
Foucault non ritiene l’uomo origine della verità, né il linguaggio. Quest’ultimo, infatti, per lui è semplice produzione di segni che si possono costruire ma anche decostruire facilmente.
Anche Hannah Arendt si pone il problema del rapporto fra
azione e parola. Secondo la Arendt ogni essere umano si
rivela al mondo come capace di azione, ma il senso delle
parole è sempre mediato dalle parole. Anzi ogni essere
umano è soggetto in quanto sa pronunciare parole. Il linguaggio quindi non può ridursi a una mera riproduzione di
segni. “Chi sei? Il rivelarsi del proprio essere è implicito
sia nelle parole che nelle azioni. Senza essere accompagnata dal discorso, non solo l’azione perderebbe il suo
carattere di rivelazione, ma anche il suo soggetto. Non
uomini che agiscono, ma robot che agiscono realizzerebbero ciò che, umanamente parlando, rimarrebbe incomprensibile. L’azione senza parola non sarebbe più azione perché non avrebbe più un attore, e l’attore - colui che compie
gli atti - è possibile solo se sa analizzare delle parole.
L’azione che egli inizia è rivelata agli uomini dalla parola, e anche se il suo gesto non può essere percepito nella
sua muta apparenza fisica senza accompagnamento verbale, acquista rilievo solo l’espressione verbale mediante
la quale egli identifica se stesso come attore, annunciando ciò che fa, che ha fatto o che intende fare... Il discorso
dal punto di vista della mera utilità, sembra un rozzo
sostituto del linguaggio dei segni”. Forse è ciò che Jabès
vede nella scrittura: agire potrebbe essere sostituito da
scrivere e quindi riconoscersi come soggetto significa
realizzarsi nell’atto dello scrivere...
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Per quanto riguarda il tema dell’assenza, ho trovato questa poesia di Valerio Magrelli:
Io sono ciò che manca
Io sono ciò che manca
dal mondo in cui vivo,
colui che tra tutti
non incontrerò mai.
Ruotando1 su me stesso ora coincido
con ciò che mi è sottratto2.
Io sono la mia eclissi3
la contumacia e la malinconia
l’oggetto geometrico4
di cui sempre dovrò fare a meno.
ruotare/camminare
ciò che mi è sottratto/ossia la verità
la mia eclissi/il mio vuoto prima del vuoto
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l’oggetto geometrico/la verità perfetta che non raggiungerò mai perché è porosa
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Una nuova forma di ascolto
Valentina Punzi
...Ma lo stormo pareva di sasso, tant’era impassibile.
“Non abbiamo più nulla in comune, noi e te” intonarono
in coro i gabbiani, e, con fare solenne, sordo alle sue proteste, gli voltarono tutti la schiena. E il gabbiano
Jonathan visse il resto dei suoi giorni esule e solo. Volò
oltre le scogliere remote, ben oltre. Il suo maggior dolore
non era la solitudine, era che gli altri gabbiani si rifiutassero di credere e aspirare alla gloria del volo. Si rifiutavano di aprire gli occhi per vedere...
...Da migliaia di anni i fiori fabbricano le spine.
Da migliaia di anni le pecore mangiano tuttavia i fiori.
E non è una cosa seria cercare di capire perché i fiori si danno tanto da fare per fabbricarsi delle spine che non servono
a niente? Non è importante la guerra tra le pecore e i fiori?...
La forza della scelta individuale in un contesto comunitario e gli scontri derivati da una forte appartenenza di
categoria che si propone nei termini di una lotta per la
sopravvivenza: quali e quante forme di comunicazione
sono possibili?
E se, ponendoci in ascolto, riscoprendo il silenzio di una
forma di attenzione non più a focalizzazione fissa ma
“fluttuante in immobilità”, ci rendessimo conto di quanta parola nuova ci si è offerta gratuitamente e noi abbiamo saputo solo relegarla in un angolo di emozioni fruibili e a portata di mano, svuotata ormai perché vittima di
troppo logori commenti (per parola nuova intendo qui gli
esempi forniti dai due passi che ho indicato, anche se più
che di parola parlerei di immagine)?
Se il punto non fosse in ciò che diciamo o nel silenzio che ci
sforziamo di osservare, bensì in una nuova forma di ascolto che abbiamo dimenticato e che non consideriamo più?
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Il dolore. La vita è adesso
Antonio Abbate
...Noi che soffrivamo, e soffriamo ancora, guardavamo
alla sofferenza del mondo per intenderla e comprendevamo il nostro soffrire come un momento della crudeltà
della vita. Il dolore così si faceva lutto ossia manifestazione e oggettivazione del sentimento della mancanza. Il
lutto, ossia la reazione alla perdita di una persona cara,
come sostiene Freud implica “un doloroso stato d’animo,
la perdita di interesse per il mondo esterno, la perdita
della capacità di scegliere un qualsiasi nuovo oggetto d’amore”. Questo nostro stato d’animo doloroso ha richiesto, e richiede ancora, un lungo e graduale processo di
elaborazione ossia un lento reinvestimento della progettualità nelle cose della vita quotidiana, accettando così
l’irreversibilità della morte e ritornando alle occupazioni della vita precedente.
Ogni uomo, se vuole avere una possibilità reale di lenire
le angosce esistenziali, deve impegnare la propria vita
nella realizzazione di se stesso e nella creazione dell’anima, dandosi progetti da raggiungere e valori reali da conquistare, dal momento che per il disagio esistenziale non
c’è altro medico al di fuori di se stesso.
Costruirsi come persona significa raggiungere uno stato
adulto dove l’uomo si ama, ama ed è amato nella libertà.
È nella realizzazione dei progetti che ognuno di noi può
fare della propria vita una vera e autentica opera d’arte.
Compiere della nostra esistenza un’opera d’arte significa
porsi come artista della propria vita, assumendo e accettando tutto ciò che ci appartiene e lavorando per una continua opera di fusione e superamento delle contraddizioni che sono presenti in ciascun essere umano.
Non è possibile amare gli altri se non amiamo noi stessi.
La frase cristiana: “Ama il prossimo tuo come te stesso”
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viene travisata molte volte. Ci si impegna ad amare gli
altri attraverso gesti di beneficenza o di mutuo soccorso,
senza sapere amare noi stessi ed è inutile dire che chi
non si ama non sa amare fino in fondo.
È un dato, alquanto triste, che buona parte della nostra
educazione venga svolta sottolineandoci gli errori che
compiamo, piuttosto che elogiando le cose buone che facciamo. È ovvio che in questo modo, più che essere “sostenitori” di noi stessi, diventiamo i nostri più acerrimi
nemici: ci critichiamo per ogni piccola cosa, non siamo
neppure in grado di riconoscerci tutte le piccole cose
positive che facciamo o abbiamo fatto: semplicemente le
svalutiamo con le scuse più futili... era mio dovere... era
una cosa che chiunque avrebbe saputo fare... era cosa
banale... ecc. Quando siamo così severi ed intransigenti
con noi stessi, tendiamo ad esserlo anche con gli altri, il
che non semplifica i rapporti, anzi tendiamo ad ergerci a
giudice di ciò che l’altro compie, seguendo esclusivamente i nostri parametri. Molti di noi, purtroppo, non sanno
volersi bene e perdonarsi per il fatto di essere imperfetti
e quindi diventano estremamente rigidi con se stessi:
non si danno mai una gratificazione, morale o materiale
che sia, sono sempre pronti a criticarsi anziché a sostenersi e darsi auto-appoggio.
La critica fine a se stessa, quella del “genitore interno”
(avresti potuto fare di più, meglio, avresti potuto stare
più attento) non è una critica costruttiva, ma porta solo
a un indebolimento dell’immagine del sé, ad una scarsa
autostima, e ciò non è utile né per la persona, né per chi
gli sta accanto. Volersi bene significa mettersi al primo
posto nella nostra scala di valori esistenziali: mettere al
primo posto i nostri bisogni rispetto a quelli degli altri ed
evitare inutili critiche, a meno che non siano costruttive. Volersi bene, mettersi al primo posto, non è indice di
egocentrismo o egoismo: è il primo passo per stare bene
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con se stessi e col mondo, è il primo passo per mantenere le nostre energie al massimo in modo tale da averne a
disposizione anche per gli altri...
Da una batteria scarica non si ricava niente, né per sé, né
per chi ci sta attorno... volersi bene, proteggersi e sostenersi è il primo grande passo che possiamo fare per potere essere di aiuto anche agli altri, per poterli amare nel
vero senso del termine.
Ogni mattina assaporo il succo della vita che sta nel piacere che si prova dopo che si è sofferto, perché il piacere è
direttamente proporzionale alla durata e all’intensità della sofferenza. Mi sveglio al mattino con la volontà e il desiderio di dare e basta, di non pretendere nulla, di non illudermi perché l’illusione porta all’esaltazione nei momenti
favorevoli e all’abbattimento nei momenti sfortunati.
Solo l’umiltà è il modo più giusto di vivere nel “panta
rei”(tutto scorre) perché ti permette di vivere il momento e di essere consapevole della relatività delle cose, della positività, del cambiamento continuo, e che quindi alla
sofferenza succederà la gioia e viceversa. Come ci insegnano gli antichi greci, è il pudore che consente all’uomo
di giocare la sua partita col dolore senza andare allo
sbando. La sobrietà del gesto che nasconde, testimonia
ancora della capacità di non concedersi facilmente alla
propria fine. Il pudore è possibile solo se esiste un’alta
concentrazione di forza, un soggetto umano ben formato
e quindi atto a reggere nel dolore senza spezzarsi. Il dolore insegna a commisurare le proprie azioni alle proprie
forze, insegna ad investirsi senza sprecarsi: il dolore
insegna agli uomini a saper durare nella precarietà e li
rende capaci di amministrare al meglio le forze disponibili. Il dolore educa al giusto mezzo e alla proporzione.
Non esistono i felici per natura. Bisogna far brillare la
felicità nel dolore: certo esistono i privilegiati, perché più
dotati o perché più fortunati, ma comunque tutti gli
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uomini fanno capo alla comune radice mortale. Gli uomini sono uguali nell’esposizione al caso che è prerogativa
di coloro che muoiono.
La felicità per gli uomini non è uno stato originario, ma
uno stato da conquistare. Reggere nel dolore significa dunque far fronte al caso trovando la giusta misura. Il pudore,
che è la capacità di contenersi nel limite, è lo stile di vita
che meglio corrisponde a chi ha trovato la propria misura.
È improbabile una esistenza senza dolore, ma poter trovare senso nella esistenza, nonostante il dolore, e quindi
scoprire il suo fondo di bellezza, questo è possibile. Nella
costruzione etica essere all’altezza della propria morte
vuol dire riuscire ad avere iniziativa di fronte alle strade
che si chiudono. L’uomo è un animale complesso, plurideterminato, non è orientato dall’istinto e quindi ha possibilità di reinvestirsi. Questo è un elemento che fa immaginare che, almeno in certe forme di dolore, alcune vie
d’uscita sono possibili.
vita intera. La lezione nicciana: non dobbiamo intendere
la felicità soltanto nei termini della fruizione edonistica,
ma anche nella dimensione della vittoria. Il superamento dell’ostacolo è un elemento della felicità, allora la felicità è contrassegnata dallo sforzo, dove c’è una fatica che
poi addiviene a una riuscita. Felicità non è solo fruire,
ma anche vincere.
Molte volte l’uomo è chiuso in se stesso e tra le cause di
questa chiusura c’è la presunzione che solo alcune cose
rendono felici e altre no. Ciò diminuisce l’attenzione e
sviluppa l’ossessione. Molte volte gli uomini sono infelici
perché non hanno questa capacità di entrare in contatto
con la vita intera. Sono incapaci di innocenza, di questa
dimensione fanciulla che si deve avere per accedere alla
felicità. Questa dimensione fanciulla non è ingenua, ma
qualcosa che l’uomo deve conquistare nel suo cammino.
L’uomo deve avere questa capacità di purificazione di sé.
Da qui la necessità di governo di sé, delle proprie passioni, di distacco anche. Il distacco è una dimensione per cui
non ti appiattisci su una cosa sola. In questa dimensione
la vita si arricchisce. Ecco allora il modello aristotelico:
felice è una vita intera. La felicità nell’attimo coinciderebbe inevitabilmente con la morte. Il tema del dolore
rientra in questa prospettiva di riuscita della propria
Nella società contemporanea abbiamo a che fare con un
paganesimo che si sviluppa attraverso la rimozione del
dolore. Lo scenario dell’epoca presente è governato da
un nuovo termine di mediazione: la tecnica. La dimensione scientifico-tecnologica costituisce oggi l’orizzonte
entro cui viene compresa la realtà del mondo. In questo
medesimo orizzonte si inscrive l’esperienza del dolore.
Oggi la tecnica determina in larga parte le condizioni
entro cui gli uomini possono sperimentare il dolore. L’intenzione fondamentale secondo cui la tecnica si costituisce è quella del dominare. Proprio per questo il dolore è
oggi compreso come qualcosa che può e deve essere
dominato ed è affrontato come dominabile. La convinzione che la natura possa essere dominata, la volontà di
trattenerla nei limiti del progettare umano costituiscono
le modalità proprie con cui l’uomo contemporaneo abita
la terra, e sono perciò il presupposto per cui risulta abituale riferirsi alla tecnica come termine di soluzione dei
problemi umani.
L’umanità contemporanea, una volta espropriata delle
possibilità religiose della pietà, è costretta di contro alla
spietatezza. E poiché di contro a ciò che è spietato molto
spesso non si regge, allora o si fugge da esso o lo si occulta. Il progresso tecnico consente la fuga attraverso il
nascondimento. Le procedure terapeutiche sottraggono
il dolore ad ogni sguardo con la giustificazione di amministrarlo. Nella società contemporanea “il costo medio”
della sofferenza è sopportato in termini di danaro. Ma
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l’eco del dolore l’uomo contemporaneo se lo porta dentro,
lo vive nella forma dell’inquietudine, se lo tiene nel cuore come ansia. In sostanza , ciò che è venuto meno è il
rapporto diretto tra dolore e vita: la sofferenza non entra
immediatamente e continuativamente nella quotidianità
dell’esistenza. La tecnica circoscrive il dolore secondo
criteri di competenza e quindi predispone luoghi idonei
per soffrire, luoghi dove è legittimo che la sofferenza si
manifesti senza che tuttavia possa invadere la vita. Ma
esistono casi in cui la sofferenza dilaga, in cui la lacerazione è troppo grande per poter essere occultata, e allora l’esperienza di chi soffre è resa eterogenea rispetto a
chi temporaneamente è preservato attraverso la “spettacolarizzazione”. Lo spettacolo trasforma il disastro in
narrazione, rende gli uomini partecipi del dolore evitandone l’immedesimazione, limita la compassione attraverso l’ingordigia della curiosità e il piacere della notizia.
Lo spettacolo allontana il dolore poiché rappresentandolo ce lo fa sentire lontano da noi. Il dolore è di altri, noi
per fortuna ne siamo fuori, la morte che non ci colpisce
diviene in un certo senso godibile.
Noi uomini contemporanei non incontriamo più il dolore:
siamo sempre composti e civili.
La solitudine, la mancanza di solidarietà e di autentico dialogo tra gli individui, la rarefazione e la frammentazione
dei rapporti interpersonali, sempre più evidenti nella
società moderna, sono la conseguenza della subordinazione delle esigenze dell’individuo a quelle della produzione.
La società dei consumi non ha portato né felicità né
libertà. L’uomo si è trovato inserito in un congegno sociale in cui è programmato ogni istante della sua esistenza:
c’è il tempo del lavoro, c’è il tempo del riposo, quello da
dedicare alla famiglia, quello dello studio, delle vacanze,
del viaggio, del divertimento, ecc., tutto rigorosamente
modulato su “standard” diffusi dai mass-media.
La liberazione dell’uomo passa, a questo punto, attraverso
una radicale trasformazione della società, capace di porre
la tecnologia e la produzione al servizio dell’uomo stesso e
non considerare, viceversa, quest’ultimo un accessorio.
Bisogna fondare un nuovo umanesimo attraverso la cultura e la libera espressione di sé, restituendo all’uomo la sua
autenticità e la sua autonomia di giudizio.
Oggi si sente dire, anche da gente qualificata e di cultura,
che ”i giovani hanno tutto ciò che desiderano, non si capisce perché sono così inquieti, scontenti e infelici, cos’altro
vogliono? Abbiamo esaudito ogni loro richiesta; noi non
avevamo tutto ciò che loro hanno, eppure eravamo felici.
Forse abbiamo dato loro troppo”. E poi: “i giovani con le
autovetture a tutta velocità, o con altri comportamenti al
limite, vogliono sfidare la morte. È una caratteristica della loro età: si sentono immortali e non hanno il senso del
pericolo. Forse sono la noia e l’esuberanza giovanile che li
spingono a questi comportamenti dalle conseguenze tragiche”. E continuando: “i giovani agiscono con gesti e comportamenti plateali perché vogliono rendersi visibili, desiderano in ogni caso essere protagonisti, nel bene e (se non
ci riescono) anche nel male, perché non sopportano di
restare anonimi all’interno della società”. E chi ha fatto
credere ai giovani che se non emergono sono delle nullità?
Chi ha imposto loro i valori illusori ed effimeri come grandi mete da raggiungere costi quel che costi? La caratteristica principale della società occidentale, che ha contribuito più di ogni altra cosa a creare tanta alienazione, è il fatto che essa concentra ogni interesse e tutte le proprie
energie sul mondo esterno. La scuola, la formazione, la
professione sono importanti solo per quanto possano valere nella società. La nostra società è perfetta per allevare
gente senz’anima. Ma l’uomo dov’è? I suoi veri bisogni e la
sua essenza dove sono? Chi dà senso e significato alla vita
solo per mezzo di stimoli e interessi che gli vengono dalla
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realtà esterna, quando questi gli verranno a mancare e
non lo interesseranno più, si troverà dinanzi all’angoscia e
al vuoto esistenziale.
“I rumori assordanti” cui si sottopongono i giovani sono
un modo per tentare di soffocare o lenire il disagio che si
portano dentro. Lo stordimento, oltre che subìto, può
anche essere ricercato con altri mezzi quali la droga, l’alcool, la confusione e la sofferenza mentale e quant’altro.
Pure la “frenesia della vita” ha un significato molto preciso: il “tutto e subito” è un modo di porsi di fronte all’esistenza perché non c’è un progetto valido verso cui tendere per il futuro, e, cosa ancora più drammatica, qualche volta nemmeno la speranza. Ecco forse cosa spinge i
giovani a vivere una vita esagerata e spericolata.
Molti giovani hanno impegnato la vita e tutte le loro
energie per raggiungere i valori illusori ed effimeri di
questa società, identificandosi totalmente in questi: il
potere, la ricchezza, il successo ed altro. Tanti di loro
hanno raggiunto queste ambiziose mete per rendersi
conto, in seguito, che la conquista di una o più mete tanto desiderate non risolve, non può risolvere i bisogni
autentici dell’uomo, e il malessere esistenziale che li
accompagna nel frattempo si è fatto ancora più acuto.
I valori autentici su cui i giovani possono impegnarsi e
riservare le loro energie sono tanti: l’amicizia, la lealtà,
l’amore, la libertà, il coraggio e altri ancora che, se coltivati e realizzati in modo genuino, portano ad una trasformazione radicale della loro vita. I valori genuini non alimentano la sopraffazione, la competizione distruttiva,
l’invidia e altri sentimenti negativi che sono caratteristici della nostra società; semmai stimolano l’emulazione,
ossia lo sforzo di migliorarsi senza nuocere a nessuno.
Come dice Claudio Baglioni nella sua canzone la vita è
adesso:
sei tu che spingi avanti il
cuore ed il lavoro duro
di essere uomo e non sapere
cosa sarà il futuro
sei tu nel tempo che ci fa più grandi
e soli in mezzo al mondo
con l’ansia di cercare insieme
un bene più profondo
e un altro che ti dia respiro
e che si curvi verso te
con un’attesa di volersi di più
e non capir cos’è
e tu che mi ricambi gli occhi
in questo istante immenso
sopra il rumore della gente
dimmi se questo ha un senso
la vita è adesso...
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I giovani, a mio avviso, devono imparare a vedere dentro
di sé la luce interiore. Traspare dagli occhi dell’uomo che
soffre, dell’uomo che prega, dell’uomo che spera. La luce
interiore si trova nei fiori, si trova nel mare, si trova nel
cielo, si trova nel cuore.
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Il silenzio che esprime
Fabio Pariante
Mi chiedevo: l’uomo, cioè noi, vive nella falsità pur di
vivere?
Se così fosse, non è un specie di contraddizione/mancanza di rispetto, verso la propria religione e in un certo senso anche verso se stessi?
Il silenzio, a questo punto, è la via più corretta visto che,
essendo appunto un silenzio, esprime forse più di ogni
parola perché può essere più liberamente interpretato a
differenza delle parole, dove si hanno realtà oggettive e
soggettive a cui ci si aggrappa e da cui si è condizionati?!
La religione, secondo la mia opinione, è un’amara illusione a cui l’individuo si appoggia. Premetto che sono cattolico, ma vivo il mio essere religioso in modo molto personale. Credo in Dio ma non tanto nella Chiesa. Penso siano due mondi differenti.
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Gli haiku di Basho
Nicoletta Fossa
Basho con i suoi haiku riesce a dare testimonianza dell’esperienza del vuoto:
silenzio:
penetra la roccia
il canto delle cicale
Silenzio - rumore - silenzio, senza tregua si alternano.
Le parole di Basho si possono forse definire “silenziose”
perché non delimitano la realtà, ma traducono il valore
del vuoto. Le parole emergono dal silenzio, come le parole scritte da un foglio bianco.
Il vuoto è uno stato che supera le dimensioni del silenzio
e della parola e che nello stesso tempo le contiene.
“Più che al senso aggràppati al silenzio che ha modellato
la parola”.
Le parole della poesia sono modellate dal silenzio e questo
le rende inconsuete e piene di significato.
Le parole che usiamo nel linguaggio ordinario, indispensabili per dare un ordine alla realtà, hanno in sé il pericolo di farci perdere di vista il loro scopo, e rischiano di
far diventare sterile la realtà. Tutto ha una sua definizione ma niente designa.
La realtà, il mondo, non si può ridurre alla parola. Ecco
l’importanza del silenzio, e della parola che viene dal
silenzio, la poesia.
non pare
muoiano tra poco:
cantano le cicale.
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Condivisione e sentimenti
Letizia Di Mitrio
Ciò che sostiene Jabès è molto interessante.
Sarebbero tante le cose da dire in proposito, ma ciò che
secondo me emerge più di tutto è che secondo l’autore
“nulla è condividibile, perché nulla ci appartiene”. Allora
io mi domando: in ciò che non ci appartiene, come fanno
a rientrare anche i sentimenti? Dico questo perché
secondo me i sentimenti sono assolutamente personali,
altrimenti come farebbero ad essere anche diversi da
individuo a individuo? Essendo personali quindi sono
nostri: ci appartengono.
E c’è (sempre secondo me) anche una risposta al fatto che
sono condividibili. Sono condividibili perché vedere qualcuno che subisce una certa situazione, per esempio, ha
comunque un certo effetto anche su chi non vive la situazione in prima persona, da parte di chi osserva. Questo
non significa condividere, anche se indirettamente?
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Pensiero e linguaggio
Fiammetta Rutoli, un’amica docente
Un’educazione linguistica che renda consapevoli gli individui dei processi mentali che essi mettono in atto per “comunicare” non è funzionale soltanto al consolidamento e allo
sviluppo delle abilità linguistiche, ma collabora al potenziamento delle operazioni mentali e delle attività di pensiero.
Questa è almeno la convinzione di quei linguisti che,
oltre a considerare la lingua come condizione di trasmissibilità di pensiero, vedono in essa la condizione stessa di
realizzazione del pensiero.
“Noi pensiamo un universo che la nostra lingua ha già
modellato. Le varietà dell’esperienza filosofica o spirituale dipendono, senza che ne abbiamo coscienza, da una
classificazione che la lingua opera per il solo fatto che è
lingua e che simbolizza”.
Esiste certamente una stretta interrelazione tra pensiero
e linguaggio: parlare del linguaggio come di uno “strumento” del pensiero è riduttivo. Lo strumento è per noi qualcosa di passivo, di manovrato dall’uomo; il linguaggio, invece, retroagisce sul pensiero, gli consente di formularsi, di
articolarsi, di acquistare piena coscienza di se stesso.
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Identità di straniero
Nicoletta Fossa
Penso che Jabès si aggrappi al linguaggio, alla parola per
trovarci un rifugio.
Ne ha bisogno per fermare la sua identità di “straniero”
e allo stesso tempo per affermare questa identità.
“C’è in me – con me – chi tace quando io taccio.
C’è in me – con me – chi parla quando io parlo. È la stessa persona?”
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Esilio, morte, memoria
Roberta Lipari
Ho letto tutto d’un fiato l’ottimo lavoro di Tiziana Carlino
su Jabès. Mi ha colpito particolarmente l’attenzione
all’aspetto letterario, culturale che è alla base della sua
formazione condividendo pienamente che “la scrittura si
pone come necessità di ridefinire la propria alterità” ma
soprattutto la propria identità, in questo caso “instabile”,
complessa, talvolta problematica che demarca le traiettorie dell’originalità del Libro.
E poi il tema dell’esilio, esperienza devastante che rende
“stranieri”, un esilio non solo fisico ma anche e soprattutto interiore. Una vera e propria condizione di subalternità dettata dall’egemonia della sofferenza, una riduzione a quello che Spivak definì lo stato di “silenced
subaltern”, ma anche un desiderio o meglio una necessità di conquistare il silenzio, di conquistare quel deserto, “quell’oasi salvifica in mezzo al dolore della guerra e
al fragore delle armi”.
Un altro aspetto mi ha particolarmente colpita. La riflessione sul legame tra la morte e la memoria. L’affermazione “l’incisione permette che si mantenga intatto un
nome, la cui durata è affidata ad un supporto presumibilmente imperituro: la pietra” mi ha ricordato la splendida
ode oraziana “Exegi monumentum aere perennius”, nella quale il poeta esprime soddisfazione per l’opera portata a termine e la certezza della sua immortalità e che
“usque ego postera crescam laude recens”! L’importanza
della funzione eternatrice della poesia, o meglio dell’arte
in generale, è proprio quella di vincere la morte e tramandare parole, pensieri e valori, ma soprattutto “permette il ritorno letterario alle origini personali e al luogo
di nascita”, alle proprie origini nei momenti di smarrimento e di perdita identitaria.
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L’esperienza del dolore
Letizia De Mitrio
Natoli (ne L’esperienza del dolore) pone il problema del
dolore in diverse prospettive, senza per nulla tralasciare
la sfera dei sentimenti nei quali appunto rientra anche il
dolore stesso.
A proposito di ciò, vorrei aprire una piccola parentesi
facendo riferimento a Jabès il quale sostiene: “nulla è
condividibile perché nulla ci appartiene”.
Ciò per porre una domanda credo lecita: “come fa un sentimento come il dolore a non appartenerci e a non essere
quindi condividibile?”
Dico questo perché Jabès dice che nulla ci appartiene e
quindi si suppone che in questo “nulla” rientrino anche i
sentimenti.
Secondo me il dolore è un sentimento che appartiene fortemente a chi lo vive sulla propria pelle, ma al tempo
stesso, però, è un qualcosa di completamente condividibile: provare dolore fa scaturire una reazione anche in
coloro che assistono a questo dolore e quindi il solo fatto
che questa reazione si verifichi (positiva o negativa che
sia) rende partecipe appunto chi assiste. Ed essere partecipe secondo me significa anche condividere.
Il dolore quindi è un argomento che presenta varie sfaccettature, e - per quanto ampio sia - lascia ben intendere
il modo col quale è vissuto in determinati contesti.
Il dolore (come ben tutti sappiamo) è definito come un
sentimento di profonda infelicità, dovuto all’insoddisfazione dei bisogni, alla privazione di ciò che procura piacere, al verificarsi di sventure.
È proprio seguendo questa linea che mi piacerebbe discutere l’ argomento.
Quando si prova dolore si entra qualche volta, o forse
spesso, in una condizione di irrazionalità ed è proprio
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l’irrazionalità che porta poi a fare determinati gesti,
qualche volta anche estremi.
Con questo vorrei fare riferimento a Natoli quando
sostiene che l’individuo che prova dolore può reagire in
vari modi tra i quali:
isolarsi dal mondo circostante;
attirare l’attenzione per mostrare il proprio dolore, per esempio essendo violento verso gli altri
ecc…
A proposito di ciò, parlerei anche di Freud che come Natoli
(ma probabilmente in modo sostanzialmente diverso) mi
ha chiarito le idee e quindi ha dato risposta ai molti punti
interrogativi che avevo sull’argomento dolore, vita e morte. Ritengo quindi che Freud sia un completamento per la
comprensione di questi argomenti anche perché è importante comparare vari punti di vista ai fini di trarre le proprie conclusioni (almeno lo è stato per me).
A proposito di questa posizione, vorrei formulare queste
riflessioni:
Adattarsi alla realtà esterna potrebbe arrecare dolore,
perché non sempre ciò che ci circonda fa per noi oppure
non coincide perfettamente con quelle che sono le nostre
idee sul saper vivere in un determinato contesto.
Modificare la realtà esterna, invece, o per lo meno apportare modifiche che possano permetterci in qualche modo
di soddisfare i nostri bisogni, potrebbe comunque avere i
suoi lati negativi.
Mi spiego:
modificare significa mutare in parte o completamente e
quindi cambiare la natura di qualcosa. Ciò è (secondo il
mio punto di vista) sbagliato, perché anche se una cosa
può risultare negativa o comunque non piacevole dovrebbe restare tale. Anche dalla negatività qualche volta si possono trarre benefici o addirittura insegnamenti.
A proposito dell’insoddisfazione dei bisogni (quindi del
dolore) Freud dice:
gli istinti vogliono soddisfazione, cioè la produzione di
situazioni nelle quali i bisogni organici vengono appagati. L’abbassamento di tensione dei bisogni viene avvertito dalla coscienza come piacere, l’accentuazione di quella tensione viene invece subito sentita come dolore. Le
oscillazioni della tensione determinano dunque tutta
quella gamma di sensazioni di piacere e dolore, sulla quale l’intero apparato regola la propria attività.
Freud quindi parla di un “dominio del principio del piacere”.
Freud giunge alla conclusione che esistono due modi per
appagare i propri bisogni:
adattarsi alla realtà esterna;
modificare la realtà esterna producendo in essa
quelle condizioni che rendono l’appagamento
possibile.
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Le parole come maschere
Raffaella Iaconantonio
Le parole? Maschere.
Giù la maschera! Silenzio.
Danzano nell’ombra del testo
senza mai esser scoperte.
Le cogli? Le hai perdute.
Le leggi? Vuoto.
Scorrono fiumi di parole
Sbattono sulle rocce
dell’Incomprensibile
Sfociano nell’Essere estraneo.
Non sono un poeta, ma ho cercato in breve di darmi una
definizione di “parola”.
Quando parlo di maschera, mi riferisco al celarsi delle
parole, al loro non rivelarsi, a ciò che nascondono. Danzano perché si seguono una dopo l’altra in un incessante
movimento (parola come punto di fuga di un vertiginoso
discorrere) nel mistero del testo.
(Abbiamo parlato di una tematica anti-illuminista che
vede l’ombra come chiarore, come luce. Abbiamo bisogno
di vivere nell’ombra, di perdere i concetti, di spogliarci
dei nostri ruoli, di liberarci di false giustificazioni, di vivere ai margini, di preferire l’incertezza e l’inquietudine
alla sicurezza e alla tranquillità, la vita alla morte).
Quando crediamo di aver capito le parole, in realtà le
abbiamo perdute. Non dobbiamo fermarci al senso, ma
dobbiamo essere “veggenti”: vedere oltre, sentire ciò che
suscita in noi la parola, dobbiamo ascoltare quel silenzio
che si nasconde alle sue spalle perché è Lui a parlare –
non la parola.
“Sbattono sulle rocce dell’Incomprensibile”: mi riferisco
al dramma dello scrittore costretto a scegliere una parola che riesca ad esprimerlo compiutamente, ma che non
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sarà mai quella giusta perché l’Incomprensibile è qualcosa che egli stesso non sa e che non è fatto di parole.
Lo sfociare nell’Essere estraneo indica che le parole,
come fiumi, sfociano nel mare di colui (l’Essere) che legge e che è estraneo a ciò che legge perché non può capire
ma solo interpretare.
Alla fine della poesia con ”Essere” intendevo il “lettore”
che nella lettura, alla quale corrisponde l’azione dello
sfociare dei “fiumi di parole”, non può cogliere l’Incomprensibile, ovvero ciò che l’autore vuole esprimere, ma
che in realtà lui stesso non sa. Per questo parlo di estraneità dell’individuo nei confronti delle parole scritte.
Non intendevo l’ Essere come condizione di vita perché
abbiamo parlato di quanto per Jabès sia fragile, infondato,
insensato il nostro Essere - e questa idea si concretizza nella figura di Adamo (pag. 33 del Libro della condivisione).
“L’individuo è una mancanza d’essere” (Sartre, ripreso
da Jabès).
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Pensiero e disegno
Martina Caschera
Davanti al testo di Jabès mi sono ricordata cosa significa
“vivere un testo”.
Vorrei fare, un secondo, una piccola parentesi prima di
scriverle i miei dubbi su alcune (molte, troppe) delle questioni che il libro mi ha posto (parlo del Libro della condivisione... che, per amor del vero, ammetto di non aver
terminato ancora di leggere...).
Volevo dirle che il quaderno degli appunti del suo corso è
strapieno di disegni. In ogni spazio vuoto ho messo un
disegno e questo non accade spesso, diciamo che non
accade mai.
Durante gli altri corsi lavoriamo come dattilografi; invece durante questo, in particolar modo durante il tempo
dedicato alla lettura di Jabès, ho avuto molto spazio in
cui far vagare la mia penna. Per me pensiero e disegno
sono, molto spesso, la stessa cosa.
Io penso che quest’esame sia prima di tutto una grossa
prova di sensibilità.
Mi sono chiesta più volte cosa significhi il Libro. Cosa sia,
per Jabès il libro. E cosa sia Dio. Parola, uomo. Silenzio,
dio. Quando leggeremo gli spazi bianchi avremo compreso il mistero divino?
Ciò che non siamo capaci di ascoltare (non ancora, ma
qualcuno, a quanto pare, sì) è il regno divino. Con la
parola, cerchiamo di tappare il buco dell’ignoto, della
morte, del vuoto e di Dio.
È Dio questo incomprensibile, questo impensabile? No. A
volte, tra queste pagine, Dio mi pare solo qualcosa di dispettoso, un contraltare, la stessa pietra che ci affonda. L’infinito che ci limita, che ci costringe al cammino. L’errare che
sta tra il libro ed il libro. Allora il libro cos’è? il percorso
stesso? la sfida a dio? o la nostra sconfitta suprema?
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Perché è vero, la parola ci schiaccia ma quei silenzi tra le
parole? Non siamo noi a crearli? Forse sì, ma non siamo
capaci di leggerli. Il Libro finisce per dominarci, il nostro
desiderio di scrivere ci spinge ad una lotta fino alla morte. È vero.
Ma è anche un cammino a ritroso, verso le radici tutte
umane. E per Jabès non può che essere un cammino verso il libro poiché il suo “popolo” è nato dal Libro, più di
ogni altro. È quindi un muoversi verso le origini, verso il
vuoto, passando per la negazione dell’eternità e della
condivisione (la parola).
Il Libro diviene la nostra unica domanda (perché di
risposte qui non ce ne sono).
Spero di essere stata chiara un minimo anche se la cosa
non penso sia poi così possibile dato che questa lettura
causa in me, più che lucide riflessioni, sprazzi di colore.
La scrittura e il deserto in Jabès
Rossella Di Felice
Merleau-Ponty, ne La fenomenologia della percezione,
scrive che l’uomo sin da quando nasce è condannato al
senso, ossia a conoscere attraverso il corpo e in risposta
all’ambiente.
Il “cogito” di Merleau-Ponty, quindi, è sempre relazionato agli altri e all’esterno: il corpo è la via di accesso privilegiata al mondo. Ma la percezione dell’essere è sempre
impossibile da attuare, perché rimane aperta ad altre
possibili percezioni.
Credo che questo modo di vedere la percezione dell’essere sia collegato alla crisi di identità di Jabès di cui si parla anche nel saggio che ci ha dato nell’ultima lezione.
Jabès non smette mai di cercarsi nel libro forse perché
ogni parola che scrive gli apre nuovi orizzonti e questi
nuovi orizzonti lo pongono di fronte a 1000 altre domande che, invece di ricostruire il suo essere, lo lacerano.
In fondo, per Jabès, la scrittura è il deserto, il luogo /
non-luogo in cui il silenzio ti lacera ma allo stesso tempo
ti ridona a te stesso come essere frammentato.
La ricerca non avrà mai fine, dunque, perché non ha mai
avuto neanche inizio.
“Parlare è un mezzo per esprimere se stessi agli altri,
ascoltare è un mezzo per accogliere gli altri in se stessi”.
Stavo leggendo questo pensiero di Wen tzu (saggio cinese) e pensavo che ciò che dice è proprio ciò che Jabès
vuole comunicarci attraverso il tema del silenzio.
Una parola che nasca dalla riflessione e dal silenzio ha
certo più valore di un discorso convenzionale. Ma ciò che
lacera Jabès, l’interrogazione principale che si pone, è
“come è possibile esprimere qualcosa di autentico, qualcosa di sé se si usano espressioni di comodo”. Non serve
a nulla, però, restare in silenzio se dentro di noi la parola
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continua a logorarci. Nietzsche (che, come avrà capito,
amo particolarmente) dice che, se si tace per un anno, si
impara a parlare e si disimpara a chiacchierare.
Spesso, secondo me, l’incapacità di ascoltare gli altri
deriva da un vincolo troppo forte che ci tiene legati al
nostro ego (ed è questo vincolo che Jabès vuole dissolvere attraverso le sue opere). Così, se mentre si ascolta l’altro si continua a pensare a cosa rispondere, la parola
non è che una barriera fra noi e l’altro (forse Jabès predilige la scrittura perché non ti obbliga a replicare subito... ma ti dà il tempo di avere bagliori di pensieri).
A volte mi capita di non riuscire a smettere di pensare
e mi sento intrappolata in una sorta di monologo interiore... il pensiero, le parole, le immagini si rischia di impazzire. A volte c’è bisogno di una pausa, di un silenzio nel
silenzio della mente, di una parola / non-parola he annulli tutte le altre, di un vuoto dentro cui abbandonarsi per
poi riemergere nella vita di tutti i giorni e poi... poi continuare a respirare fra i rumori del mondo, cercare di
ridare aria agli occhi guardando il cielo.
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Il silenzio dell’uomo
Valentina Punzi
Tu presti fede a quel che senti dire.
Ma dovresti credere
a quanto non vien detto:
il silenzio dell’uomo
si accosta alla verità
più della sua parola.
Kahlil Gibran
Jesus the Son of Man
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Perché il dolore?
Francesca Aufiero
Ieri abbiamo parlato della morte e del fatto che il corpo
muore e che la mente, talvolta, resiste integra anche in
un corpo che sta cedendo.
Camus invita a vivere la vita fino in fondo, a “bruciarci”,
a liberarci da convenzioni, da un linguaggio esterno.
Penso che non sia facile bruciare visto che si vive in un
mondo di convenzioni, regole sociali. Ho avuto rari momenti in cui ho vissuto intensamente un’emozione.
Quando penso a ciò, mi accorgo che non sto vivendo la
mia vita a pieno, la faccio vivere dagli altri e ho paura di
ciò perché penso che all’improvviso potrebbe arrivare la
morte o un dolore forte.
Il mio corpo mi abbandonerà e la mia mente? Riuscirà a
liberarsi fino in fondo? Può accadere che il dolore arrivi
e che si manifesti lentamente, deteriorare giorno dopo
giorno una persona che sente ancora di dover vivere, di
godere un po’ della vita, ma non può perché un male rode
pian piano il suo corpo fino alle ossa.
Perché tanta sofferenza? Ciò spesso anche a bambini che
hanno smesso di vivere perché un evento esterno (la forza della natura) li ha soffocati quasi distruggendoli.
Costoro non avevano ancora vissuto, non avevano scelto
tra il sì e il no di Camus.
Altri, uomini, vivono la quotidianità, si lasciano vivere,
ma il loro sguardo è vuoto! E allora torna la frase bellissima di Camus “i soli paradisi sono quelli perduti”.
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La vera ricchezza è la ricchezza del cuore
Antonio Abbate
Nella lezione di ieri, 20 gennaio, dedicata a Il libro dell’ospitalità di Jabès, ho capito che è importante non tanto
la parola, l’informazione dettagliata ma al contrario
poche parole, espressioni che smuovono te e forse (o quasi sicuramente) anche gli altri. Più il linguaggio si
restringe, più si arricchisce perché la ricchezza sta nell’utilità ma soprattutto nella rarità!
Il calore della parola è come l’acqua per le piante, è il sole della terra, il pane della vita. Il calore della parola è la musica
del cuore, vince il buio della notte, il dolore di chi soffre (...).
Mi sono reso conto che più di una volta avete ripetuto
che si trattava dell’ultima frase o racconto o dialogo, ma
tuttavia non si giungeva mai ad una conclusione. E questo lo posso ben capire, perché la spiegazione conclusiva
veniva continuamente interrotta da “things that quicken
the heart” (cose che accelerano il battito cardiaco) ossia
storie che entrano ed escono come onde dalle narrazioni
ufficiali, disturbando la loro logica.
Emerge una ferita aperta nelle nostre vite, che propone un
linguaggio che scaturisce dall’incertezza (eternità, infinito, nulla, morte). Queste parole (“inebriate di abisso, in
esse ci perdiamo”) di cui non possiamo dire nulla, mi hanno aperto però un nuovo immaginario (anche perché è con
i concetti di eternità, infinito, nulla, morte, che abbiamo il
senso del conoscibile). All’improvviso il mio sguardo volava lontano (...). Ho provato a immaginare l’eternità come
un momento in cui gli uomini si destano in una luce
immensa e non esiste il male, il peso, la misura, il tempo.
Un momento di musica eccelsa, di gioia pura, di occhi sinceri: senza il dubbio, la notte, la tempesta. Un momento in
cui non esistono tramonti e paure, lacrime e vecchiaia,
malattia e morte, spazio e confini.
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“Tu esisti perché io ti attendo”. “Il vero luogo è il desiderio di avere un luogo”. Sono queste le frasi, che più di tutte, mi hanno colpito. Mi hanno fatto riflettere sul fatto
che noi esistiamo solo nella misura in cui attendiamo,
desideriamo, amiamo. È il desiderio che ci fa amare e ci
fa capire la bellezza e l’essenza delle cose. Noi esistiamo
nell’attesa e nel desiderio ...
Vocazione di Abram
Raffaella Iaconantonio
Il Signore disse ad Abram:
“Vattene dal tuo paese, dalla tua patria
e dalla casa di tuo padre,
verso il paese che io ti indicherò”.
(Genesi 12:1)
La storia del popolo ebraico inizia con una migrazione e
continua di esodo in esodo con esili. Jabès in prima persona oltre ad essere un poeta è uno Straniero. “L’écrivain est un étranger” e in lui vediamo il combinarsi di
due figure: quella di ebreo e quella di scrittore.
Nel Libro delle interrogazioni, come afferma Derrida, c’è
un rapporto tra scrittura, ebraismo e sofferenza. Jabès
cerca, attraverso la tragica parabola di Sarah e Yukel
(vittime dell’Olocausto), di dar voce alla storia ebraica
ricca di dolore, angoscia e inquietudine. È lo stesso Jabès
ad affermare che i suoi libri sono autobiografici e a scrivere “Tu sei colui che scrive e che è scritto”. Il poeta è
dunque il soggetto del libro e il libro il soggetto del poeta
(Derrida).
Nel Libro c’è una nostalgia delle proprie origini, un ritorno alle proprie radici attraverso l’immagine del deserto
che rappresenta proprio il legame di Jabès con tutta una
tradizione (ebraica) a cui appartiene. “Le désert fut,
pour moi, le lieu privilégié de ma dépersonalisation”. Il
deserto diventa una dimora, una casa per lui che è straniero, esiliato, nomade, senza luogo (L’assenza di luogo è
il titolo di una poesia di Je batis ma demeure).
Tiziana Carlino parla di una similitudine tra il libro e il
deserto, proprio perché il libro diventa il suo deserto ed è
attraverso la scrittura che può riappropriarsi della sua
terra, può di nuovo toccare quella sabbia, può non sentir-
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si uno straniero. “Le retour au livre est retour aux sites
oubliés”. Il deserto è anche il luogo in cui Mosè riceve le
Tavole, quindi è il luogo del dialogo tra l’uomo e Dio e – nel
caso di Jabès – tra l’autore e la poesia.
Nel Libro di Jabès c’è un’assenza non solo del luogo, ma
anche dello scrittore. Derrida dice che scrivere vuol dire
ritrarsi dalla scrittura stessa. Essere poeta significa
lascia parlare da sola la parola. Questo si può vedere, ad
esempio, anche nel modo in cui scrive Jabès. Il Libro,
infatti, ha un aspetto frammentario e discontinuo (come
lo definisce Tiziana Carlino) e vi compaiono poesia e prosa, domande, risposte, brani di diari dei due protagonisti
e dell’autore stesso, citazioni inventate di rabbini immaginari. Le continue domande, e le risposte dissonanti con
le domande che le precedono, richiedono una perpetua
attenzione da parte del lettore.
Sono d’accordo con quanto scrivono Derrida e la Carlino.
Mi incuriosisce, ma soprattutto mi affascina il fatto di
considerare il libro come una casa.
È forse il desiderio di avere un luogo che spinge Jabès a
rifugiarsi nella scrittura perché sa che è l’unica possibilità per riappropriarsi delle sue radici.
È un po’ come il Foscolo che strappato alla terra madre,
Zante, ha nostalgia perché consapevole di non potervi
più tornare.
L’esiliato è colui che vive nel desiderio. Jabès dice “Chi
non ha un luogo fa del suo desiderio di avere il luogo il
suo luogo”.
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Il libro della sovversione non sospetta
(passi che “fanno venire la pelle d’oca”)
Ivana Carandente
La sovversione è il movimento stesso della scrittura: il
movimento della morte.
Folle è il mare per non poter morire con una sola onda.
Vivere è far propria la sovversione dell’istante, morire
far propria quella, irreversibile, dell’eternità.
Se la parola rischiara, il silenzio non oscura: rigenera.
Le immagini nell’inconscio s’offuscano, ma non si spengono: barlume d’oblio.
La distanza, qualunque essa sia, è pur sempre concepibile: se breve, è preda dello sguardo, se incommensurabile,
è preda dell’immaginazione.
C’è un solo cielo, come c’è un solo foglio.
L’interrogazione è d’ombra. La risposta un fuggevole
bagliore.
Credi di sognare il libro. Sei sognato da lui.
C’è sogno solo nell’oblio di una parola.
Dio s’offre in lettura, egli non legge.
Puoi contare soltanto i giorni che perdi.
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Che cos’è il dolore
Roberta Lipari
Per me il dolore è privazione e si trova nella vita in quanto
credo che il nostro vivere sia, come affermò Schopenhauer,
“come un pendolo che oscilla sempre tra dolore e noia”.
Perché dovremmo soffrire se non perché si vuole ciò che
non si ha, e della cui carenza si soffre? Tutta la vita si
sviluppa, quindi, tra l’illusione di felicità e la delusione
della vita stessa intesa come “sogno ingannevole”, una
visione – questa – condivisa da grandi pensatori dell’antichità e della modernità. Questi ultimi furono influenzati sicuramente da opere dell’età barocca come, ad esempio, quella del poeta e scrittore spagnolo Calderòn de la
Barca chiamata proprio La vida es sueño, nella quale si
mette in rilievo, attraverso la metafora del sogno, il
carattere illusorio dell’esistenza e l’inevitabile caducità
di tutto ciò che è terreno.
Ma da questo pessimismo cosmico dettato dal Sehnsucht,
ossia dal desiderio inappagato, ho tratto una mia personale conclusione. Dopo aver letto il libro di Salvatore Natoli
ritengo che, sebbene vivere equivalga a soffrire, il dolore
se accettato, interpretato, vissuto, può avere una valenza
positiva. Il titolo del libro di Natoli è emblema di questa
tematica esistenziale.
“Esperienza del dolore”: esperire il dolore, dunque.
“Temprarsi nel dolore” e “temperare il dolore” e ancora
“soffrire come esperienza sensata”. Credo che per quanto la sofferenza possa essere dura, atroce, agonica, essa
abbia una funzione formativa importantissima. È un
viaggio sperimentale nel proprio essere alla scoperta dei
propri limiti, ma anche della propria insostituibilità.
(Ma l’uomo moderno non è “paziente” come Giobbe, non
è forte abbastanza da reggere tale “onus”. Egli è solito
isolarsi lasciando vincere la passività).
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Il dolore, inoltre, può essere paragonato a un’anticipazione della morte la quale, secondo la lezione epicurea
“Media vita in morte sumus”, è un’esperienza chiave della nostra esistenza. Questa stessa esperienza ci fa capire
il vero senso della vita, e potenzia la nostra volontà di
vivere.
Ho letto un libro molto bello e intenso di Paulo Coelho dal
titolo Veronika decide di morire, nel quale una giovane,
fallito un tentativo di suicidio, viene rinchiusa in un
ospedale psichiatrico dove incontrerà il dottor Igor. Questi, attraverso una serie di colloqui, cerca di eliminare
“l’Amargura, l’Amarezza che la intossica privandola del
desiderio di vivere”.
Due aspetti mi hanno particolarmente colpita: come la
consapevolezza della morte spinga alla consapevolezza
della vita insegnando a “saper vivere ogni giorno come un
miracolo” e il rapporto della protagonista con il dottor
Igor, figura (a mio avviso) salvifica in quanto il dialogo che
instaura con la giovane malata rappresenta qualcosa di
diverso dal mutismo e dal solitario delirio.
Credo quindi che si debba toccare il fondo per poi risalire,
accettando il dolore in tutte le sue forme, carpendone il
senso e mostrandosi agli altri poiché reputo indispensabile uscire dal mutismo della modernità. E inoltre occorre
tener presente che il dolore è un mezzo per interrogarsi
sulla problematicità della propria esistenza e che, se si riesce a interpretarlo, ed a fronteggiarlo, esso può divenire
occasione di crescita e consolidamento di sé.
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Su Antonio
Nicoletta Fossa
Ho letto lo scritto di Antonio e mi è piaciuto molto.
Credo che i giovani dovrebbero essere più ascoltati.
Ciò che nessuno insegna è un’educazione ai sentimenti.
Mi rendo conto che non è una cosa semplice, per il semplice fatto che poche persone sono in grado di riconoscere i sentimenti, e sono d’accordo con Antonio quando
dice: “La nostra società è perfetta per allevare gente
senz’anima”.
Leggendo il libro di Corrado Pensa La tranquilla passione, mi ha colpito molto quando, parlando della meditazione, scrive che con la pratica della meditazione si
impara a coltivare la gentilezza.
Aprirsi con gentilezza ai nostri pensieri ed emozioni
insegnerà ad aprirci a tutte le persone che incontriamo
nel mondo e ad aprire le nostre menti e i nostri cuori.
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Jabès e la via
Rossella Di Felice
Rileggendo alcune pagine di Jabès mi sono soffermata su
alcuni passaggi che mi hanno colpito di più. L’uomo di cui
ci parla Jabès è un uomo sradicato dal suo essere, o
meglio, è semplicemente pura esistenza. Il suo esistere,
però, è un travaglio perché non è definito, l’uomo deve
progettarsi sempre (Da qui si spiega la grande importanza che Jabès attribuisce al futuro. Il presente infatti non
si restituisce a noi preso isolatamente).
Per riconoscersi (lavoro che Jabès cerca di fare in tutta
la sua riflessione) l’uomo ha due modi: può farlo rispecchiandosi nel mondo o in se stesso.
Nel primo caso egli scoprirà sicuramente un’esistenza inautentica, che non gli appartiene, nel secondo invece prende
coscienza di una cosa di importanza massima: la morte.
Comprenderci a partire dalla morte, però, ci provoca
angoscia: l’essere si ritrova solo di fronte al nulla (“uomo
di un pensiero estraneo, senza luce, né ombra, senza
cammino, incatenato al nulla”). Se è così, allora per dare
valore all’esistenza bisogna trasformarla in atto di
libertà (“nell’addentare la mela Eva sapeva che stava
divorando la sua anima?”). Eva, secondo me, lo sapeva
benissimo, ma ha voluto scegliere il significato della sua
esistenza nel mondo: anziché diventare un’anonima
“chiacchiera”, ha deciso di mutarsi in “parola di solitudine” e “immolarsi” con essa.
Noi siamo in Dio e ci muoviamo in lui: siamo infatti viandanti. Il viandante prende tale nome, ed è viandante, per
la parola “via”. Se si domanda pertanto a un viandante,
che cammina e che si muove in una via infinita:
1) dove si trovi, risponderà: nella via;
2) e se gli si domanda dove si muova, la sua risposta
sarà: nella via;
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3) e se gli vien chiesto da che cosa muova, dirà: dalla via;
4) e se sarà interrogato circa la meta cui tende, affermerà: dalla via alla via.
In tal modo la via infinita viene designata come il luogo
del viandante, ed essa è Dio.
Quella via, al di fuori della quale non è dato trovare alcun
viandante, è dunque l’essere senza principio e fine, dal
quale il viandante ricava tutto ciò che è e ha onde essere
viandante.
Jabès e la Cabala mistica
Dario De Cesare
Scrivere un’introduzione alla Cabala mistica non è affatto facile, sia perché l’argomento è vastissimo (potenzialmente infinito) sia perché è materia estremamente complicata che richiede anni di pratica per essere padroneggiata (e a me questi anni di pratica mancano).
A ogni modo, dare uno sguardo al che cos’è può servire ad
interessare persone all’argomento e quindi aprire nuovi
orizzonti a tutti coloro i quali studiano per ottenere risultati nella vita che non siano solo bei voti a scuola.
Inoltre, essendo la Cabala un argomento fortemente caratterizzante della cultura ebraica, può fornire una serie
di delucidazioni su questo popolo altrimenti impossibili
da ottenere.
Qualora Jabès non avesse mai avuto a che fare con la
Cabala (e la faccio difficile al riguardo) egli rimane autore innegabilmente connesso alla tradizione ebraica che
di certo non prescinde dalla cabala stessa.
In sostanza, cerco di giustificare questo scritto a tutti
coloro (compreso me stesso) che di primo acchito potrebbero considerarlo poco utile ai fini della comprensione di
un autore complesso quanto Jabès.
Allora, cos’è la Cabala?
La Cabala è una delle tre dottrine principali che hanno
caratterizzato il pensiero ebraico (matrice di quello
europeo, ricordiamoci che Gesù e Paolo erano giudei).
In ordine abbiamo:
1) Le scritture che compongono il Vecchio Testamento
2) Il Talmud, raccolta dei più eruditi commentari riguardo al vecchio testamento
3) La Cabala, ovvero l’interpretazione mistica delle scritture
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In sostanza il Vecchio Testamento costituisce il corpo
attorno al quale si sviluppano le altre due discipline maggiori, Talmud e Cabala.
Gli antichi rabbini chiamavano questi ultimi due rispettivamente l’anima razionale e lo spirito immortale delle
scritture (ovvero del corpo).
La dottrina cabalistica si riassume in un glifo che, secondo i più rinomati studiosi della tradizione mistica occidentale, rappresenta il migliore e più completo simbolo di
meditazione di cui disponiamo: l’Albero della vita.
Studiare tale diagramma richiede molto tempo e dedizione, padroneggiarlo e ragionare in base ad esso significa
aver fatto propri gli insegnamenti cabalistici.
Il grafico, a livello macrocosmico rappresenta la storia
dell’evoluzione e della creazione in dieci passaggi rappresentati dai dieci santi Sephirot.
A livello microcosmico invece, esso rappresenta il funzionamento dell’uomo (fatto a immagine e somiglianza
del divino).
Insomma, il diagramma si propone di rappresentare in
maniera dettagliata e completa l’universo.
I rabbini avevano compreso che la coscienza, l’Io possiede una capacità di comprensione limitata, tale limite è
rappresentato dal linguaggio.
Ciò non vuol dire che la comprensione dei fenomeni sia ferma a livello del linguaggio, ma la loro spiegabilità lo è sicuramente. È possibile comprendere senza avere la possibilità linguistica di spiegare ciò che si è compreso. Un fenomeno troppo sublime per le parole può essere afferrato in altri
modi, ad esempio per aggregati emozionali.
I dieci passaggi che segnano lo sviluppo del grafico cabalista
prendono in considerazione anche quegli stadi di comprensione che vanno oltre il linguaggio, ma non solo quelli.
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La struttura della realtà, così come è rappresentata dall’Albero della vita, ha una natura frattale, e quindi ciclicamente si ripete a livelli di complessità maggiori o minori.
Se è contemplabile uno stadio di comprensione delle cose
in cui il linguaggio è superfluo e deve essere soppiantato
da aggregati emozionali, è deducibile che esistano altri
stadi in cui gli aggregati emozionali non basteranno più e
dovranno essere soppiantati da qualcos’altro.
Discutere di tali stadi inconcepibili è la cosa più inutile di
questo mondo, tuttavia, bisogna avere presente che questi esistono o possono esistere. Il punto appena spiegato,
l’Inconoscibile, viene rappresentato esternamente all’albero della vita (...). Questo è il Triplice velo di negatività,
ciò che segna il bordo, il confine di ciò che vale la pena
studiare.
Spero di essere stato sufficientemente chiaro su questo
punto: confine non significa fine, significa confine (...).
Allora, riassumendo, abbiamo parlato dei primi tre santi
Sephiroth, tre di dieci, ma non abbiamo ancora spiegato
come funzionano e come sono connessi tra loro. Per adesso, affrontare questi tre basta e avanza per comprendere il
cabalismo di Jabès, almeno a un livello superficiale (...).
I cabalisti che sono succeduti agli antichi rabbini ebrei e
che si sono appropriati della tradizione cabalistica, hanno implementato il sistema delle associazioni che la
Cabala suggeriva per i suoi sephirot e i suoi sentieri (le
22 lettere dell’alfabeto) attraverso l’utilizzo praticomeditativo che si è fatto della Cabala.
Sostanzialmente, meditare su un particolare sentiero
dell’Albero della vita significa pensare costantemente
alle associazioni suggerite da una lettera (o un Sephirah) e sopprimere tutte le idee non pertinenti che sorgono sulla soglia della coscienza.
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Con un po’ di pratica ci si accorgerà che il cervello inizierà
a lavorare automaticamente sulle immagini del sentiero
scelto e, molto probabilmente, attingendo dal suo bagaglio
emozionale-culturale, implementerà le visioni indotte
con alcune di completamente nuove e tuttavia pertinenti.
Il sistema cabalistico è a tutti gli effetti un sistema di
meditazione che alcuni importanti autori hanno giustamente definito come “Yoga dell’occidente”.
Tra i superni e gli altri sette Sephiroth esiste uno spazio
che nella Cabala è chiamato l’Abisso o il Deserto.
Tale spazio sarà poco più avanti motivo di discussione e
connessione con Jabès. (...)
Un occultista scomodo da citare (e che quindi non citerò)
paragonò molto intelligentemente la Cabala ad uno schedario.
Imparare a memoria le associazioni cabalistiche e come
le une siano connesse alle altre, significa piantare dei
semi nel nostro cervello e far germogliare in esso stesso
l’albero della vita.
Il risultato di tale operazione è semplicemente quello di
fornirgli le istruzioni, i simboli e i comandi necessari per
spingere il linguaggio a livello di aggregato emozionale
oltrepassando i limiti della parola.
Non si tratta di apportare modifiche al proprio pensiero,
si tratta semplicemente di acquisire un metodo per catalogarlo e quindi tenerlo sotto controllo (che è né più né
meno di quello che fanno gli Yogi) (...).
La Cabala si rivela quindi un pratico sistema di associazioni di idee: ogni idea appartiene a un campo riconducibile a qualche sentiero o sephirah dell’albero.
Sembra accertato in maniera più o meno nozionistica,
che Jabès si fosse dedicato un po’ alla Cabala.
Io ne sono praticamente convinto.
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Il capitolo più “cabalistico” che ho potuto scorgere nel
Libro della condivisione è intitolato Uso.
“Credi di aver guadagnato un libro. L’hai perduto per
sempre. Affidarsi al corpo per appagare le esigenze dell’erranza. Affidarsi allo spirito per spodestare l’oblio”.
Il libro è la forma materiale delle idee di un autore. Binah
insegna che legarsi a una forma apre tutta una serie di possibilità che permettono all’idea originaria di interagire con
il mondo materiale. L’unico contro a questa opportunità è
che, qualsiasi sia la forma prescelta, si è destinati a perire.
Scrivere un libro, una storia, una vita, significa dargli
forma materiale e quindi, paradossalmente, anziché guadagnarlo lo perdiamo.
Ma nella Cabala la forma non è il male. La forma è un
passaggio tanto necessario quanto lo è lo stadio che l’ha
preceduta, o quello che la seguirà.
L’incarnazione, la ricerca di una forma da parte dell’entità che non la possiede, sono comportamenti del tutto
naturali; lo spirito “erra” per dirla alla Jabès alla ricerca
di un corpo.
Il corpo, dal canto suo, inizia a morire dal momento in
cui nasce, ed è soggetto ad un sentimento di separazione
dal tutto che è definito Oblio.
“Dall’informe impensato, il pensiero trae la sua nuova
forma. così l’informe, forse, è soltanto l’immensa notte
ove ogni forma si dibatte. E il pensiero è il punto da cui si
irradia il giorno”.
L’informe impensato è il famoso triplice velo di negatività dal quale Kether scaturisce inspiegabilmente.
Kether e Chockmah stessi sono impensabili, in quanto
precedenti all’idea di forma nella scala dell’albero.
“Dalla lettera al vocabolo, fragile passerella che lega la
realtà del niente, l’irrealtà del tutto. E se questa passerel89
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la fosse l’arco appena abbozzato d’un sogno al di sopra dell’abisso? Vulnerabile più del tempo sarebbe l’eternità”.
(Il testo parte sparatissimo affermando “il tao che può
essere detto non è l’eterno tao”).
La fragile passerella che attraversa l’abisso cabalistico è
il sentiero Gimel, il cammello, che lega la realtà del niente di Kether all’irrealtà del tutto rappresentata da Tipharet, il famoso sephirah al di sotto dell’abisso (...).
Jabès ha dimostrato di sapere il fatto suo scrivendo una
cosa del tipo:
“La verità si offre a noi nuda. Noi la copriamo di veli.
L’abbagliamento non si addice all’uomo. La prova? Lo
acceca”.
Il processo di meditazione cabalistico conduce per mano
il praticante attraverso una serie di esperienze aldilà del
linguaggio e che gli permettono di oltrepassare i confini
entro cui esso ci delimita.
La differenza sostanziale che ho riscontrato tra il cabalismo e le forme di meditazione orientali più diffuse (e
maldestramente praticate) stanno proprio nella visione
del linguaggio che queste tradizioni offrono.
Per i cabalisti il linguaggio è una componente fondamentale. La scrittura è il simbolo di un’intera civiltà.
Lo Yogi, l’asceta, il taoista, di solito sono figure che disdegnano il linguaggio.
Per questo motivo, mi sentirei di sconsigliare fortemente
di associare Jabès alla mistica orientale. Jabès è associabile al taoismo nella misura in cui la Cabala è associabile
ad esso. Il che non vuol dire che non siano associabili.
Cabala e I-ching, testo fortemente impregnato dal taoismo, posseggono più cose in comune di quante ne avrei
volute trovare. Tuttavia esistono differenze nette ed evidenti, ergo cabalista non significa taoista.
Ciò che sicuramente accomuna la mistica in generale, è
un superamento delle barriere dell’Io che, non mi stancherò mai di ripetere, trae la sua forza dal linguaggio.
Pensavo che uno dei libri più illuminanti al riguardo fosse il Tao Te-ching, e non ho ancora cambiato idea.
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“L’io non è la posta in gioco, ma è il gioco imposto”.
Posta in gioco e gioco imposto? Ma siamo matti? Dopo
aver letto questa frase ho urlato al miracolo.
Per il modo diretto, sublime, eccelso e sintetico con cui
viene resa tutta una serie di dinamiche della mistica più
pura.
L’incredibile di questo testo, forse, è nel fatto che probabilmente Jabès è l’erede di una tradizione più vicina alla
nostra di quella cinese e per questo motivo, la frase sopra
citata ha avuto un effetto forte come e più delle varie
massime del libro di Lao Tze.
Non si può e non si deve prescindere né dalle parole né
dall’Io. Si devono saper mettere da parte in tutti i casi in
cui risultano superflui. Io e linguaggio rappresentano un
di più e un sovrappeso ogni qualvolta stiamo tentando di
nutrire la nostra anima, la nostra spiritualità.
I paradossi linguistici di Jabès e di tutti i più rinomati
testi di religione mistica hanno spesso la funzione di
insegnarci tutto questo.
Ma tali scritti sono solo un punto di partenza: imparare a
trascendere il linguaggio attraverso il linguaggio mi sembra una cosa molto stupida. (A pensarci bene forse non lo
è: esistono vie mistiche che seguono proprio questa procedura, per esempio le scuole Zen che iniziano gli allievi
attraverso i famosi paradossi linguistici chiamati Koan).
In conclusione, mi sembra di aver parlato troppo della
Cabala e troppo poco di Jabès. C’è anche da dire che molti passi di Jabès mi sembrano messi lì apposta per essere colti a un livello subliminale e quindi, non mi sembra
possibile spiegarli tutti a parole.
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La Cabala potrebbe essere però lo strumento necessario
per cogliere tali passi.
Se anche Jabès avesse scritto la sua roba di getto e mai
avesse davvero studiato le attribuzioni cabalistiche,
bisognerebbe comunque tenere in conto la Cabala in
quanto matrice della cultura di cui egli si è fatto continuatore.
Tutte queste cose vanno affiancate e non sostituite a ciò
che su Jabès si legge o si scrive.
La condivisione impossibile in Jabès
Fortuna Balzano
“Molto presto mi sono trovato di fronte all’incomprensibile, all’impensabile, alla morte”, a tutto quello di cui non
si può dire niente, cose che sfuggono al nostro intelletto
(e, prima ancora, alla nostra esperienza e al nostro controllo). Perché tutto quello che ci è immediatamente
chiaro e manifesto è esprimibile con le parole. Finestra.
Albero. Paura? Amore? Già queste parole pretendono di
essere più di quello che sono, racchiudono un universo
inafferrabile.
Leggo sul dizionario, è proprio qui sulla scrivania: “amore: sentimento di affetto vivo, trasporto dell’animo verso
una persona o una cosa, profonda tenerezza, devozione”.
Basta una parola a descrivere un turbinio di emozioni e
sensazioni? E quelle “farfalle nello stomaco”di quando ci
troviamo davanti la persona amata, come si definiscono? E la voglia allo stesso tempo di legarla a noi e che sia
libera, e felice anche senza di noi? Basta una parola a
dire questo (e molto di più)? “Amo le patatine”, dicevamo
in una lezione, non ricordo più a proposito di cosa…
Che cos’è una parola? È solo il più imperfetto dei simboli. Insomma, con queste seppur scarne premesse, figuriamoci cosa si possa dire della morte (la nostra), dell’inconoscibile, dell’impensabile (dal momento che il pensiero
è fatto proprio di parole)…
Mi sono interrogata spesso sul valore delle parole. Penso
che quando parlando con qualcuno vengono fuori solo
cose già dette e sentite, allora è tanto meglio starsene zitti a guardarsi le mani.
Perché il silenzio produce imbarazzo? Perché tutti sentono il bisogno continuo di muovere le proprie bocche?
Perché pensano che “dire niente” sia uguale a “essere
niente”? Queste domande me le pongo spesso.
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A volte (spesso) trovo che sia inutile parlare. Le parole
non aggiungerebbero niente. Ed ecco che Jabès mi parla
proprio di una parola non detta, una parola di silenzio,
che non è parola reale, non è fatta di lettere e congiunzioni e verbi…, ma è forse l’unica che significhi veramente
qualcosa. È quella parola che sta solo dentro di noi. Penso
che tutti la sentiamo, ma nessuno può averne coscienza.
Jabès allude (probabilmente) alla nostra “idea di fondo”,
non so come chiamarla, quella che guida tutto il nostro
essere e agire, e i nostri pensieri sul mondo e sulle cose.
Si riferisce a quella parola. Quella è l’unica vera e l’unica
che non si può esprimere.
Forse avevo già un certo sentore di questa parola, ma
non la vedevo chiara come ora grazie a Jabès (chiara, si
fa per dire, in realtà non è chiara per niente, è una figura con i contorni sfumati, che tuttavia riesco a distinguere “beh, anch’io mi sono trovata costretta a scegliere una
parola, e ho scelto la meno peggio, non ne ho trovate di
più pregnanti…”).
Ora capisco che il mio problema (ancora una parola che
non mi sembra dire quello che intendo) rispetto al linguaggio e allo scambiarsi parole (più o meno vuote) sta
nel fatto che noi non potremo mai comunicarci quell’unica parola che conta davvero, e che ci dice chi è l’altro.
Ma Jabès mi porta oltre: bisogna accettare questa incomunicabilità, questa condivisione impossibile. Anche se
non possiamo scambiarci nessuna verità (la Verità),
potremo darci l’un l’altro (anche - e soprattutto - senza
parole) dei pezzetti della nostra umanità. Non so come
spiegarlo. Forse sono proprio quei frammenti di verità.
Questi frammenti li trovo più spesso in persone di scarsa
cultura, che pensano e vivono in modo semplice, che stupiscono per la loro ingenuità, piuttosto che in coloro che
pretendono di insegnare, che sanno tutto del mondo senza sapere nulla di loro stessi. E penso che valga la pena
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di impegnarsi a cogliere questi cocci nascosti in ognuno
di noi, ben sapendo che il vaso è distrutto per sempre. E
il mondo ci piacerà un po’ di più.
Ecco, proprio la “vita come lettura”: ognuno di noi è un
libro, libro è il mondo, da leggere avidamente pagina per
pagina. Fino alla fine - la nostra - non quella del libro.
Proprio qualche notte fa si parlava con degli amici, tra
vino e sigarette fino a tardi, del “senso della vita” (parola grossa…), cercando di raggiungerlo un pezzo alla volta (la famiglia l’amore la religione… le parole… guardacaso) per poi ricomporre questo improbabile puzzle. E alla
fine, ovviamente (penso che lo sapessimo già tutti prima
di incominciare a discuterne), la risposta all’ultima
domanda, all’ultimo perché, era sempre “e chi lo sa”… Mi
sono ormai rassegnata a non trovare mai quella risposta,
ma ci sono tante piccole scoperte, tante domande più
semplici (sempre per modo di dire…) che aspettano una
risposta, e penso (ma questa è una cosa già sentita) che
davvero l’uomo - ogni uomo - abbia come ruolo quello di
porsi continuamente domande e cercare di rispondersi,
magari servendosi anche di quello che altri hanno già
scoperto e proposto, ma mai accettandolo acriticamente,
sempre comunque rielaborandolo dentro di sé, facendolo
proprio.
E pensare che volevo solo commentare una “paginetta”
di Jabès… non mi aspettavo una riflessione sulla vita.
Sono ancora all’inizio del libro, purtroppo sono riuscita a
procurarmelo solo ora, e la prima pagina mi ha colpito
molto, leggerlo di persona è diverso da sentirlo leggere. È
come se avesse acceso una candela nella mia testa. Fioca, incerta, ma pur sempre luce. Non so se sia un effetto
proprio della sua scrittura, ma mi sembra davvero che
non abbia fatto altro che dirmi qualcosa che già sapevo,
ma non riuscivo a esprimere e quindi a capire.
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Su “Jabès e la Cabala” di Dario De Cesare
Nicoletta Fossa
Molto bello il testo di Dario, interessantissimo. Conoscevo
la Cabala solo per sentito dire, è bello scoprire cose nuove.
Intrigante il coinvolgimento di Jabès con la Cabala!
Penso che è vero che “ciò che accomuna la mistica in generale è il superamento delle barriere dell’io, che trae la
sua forza dal linguaggio” ma anche che “si può imparare
a trascendere il linguaggio attraverso il linguaggio”.
Mi è venuto in mente il mantra (...): si può usare la parola, causa di allontanamento dalla verità degli esseri umani, invertendone il ruolo per far sì che diventi strumento
di avvicinamento alla verità ultima, l’essere.
È interessante vedere come ogni religione e relativa
mistica abbia affrontato il problema del superamento
dell’essere.
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Su “Jabès e la Cabala” di Dario De Cesare
Tiziana Carlino,
ebraista, laureata all’Orientale
La Cabala, via mistica dell’ebraismo complessa e non
riassumibile in alcun semplice schema (o glifo), prevede
che il mistico raggiunga l’estasi attraverso la meditazione sulla parola (o attraverso la ripetizione continua di
una data parola/formula). Ovvio che la parola in questione debba essere in ebraico.
Jabès non conosceva la lingua della Torah (eccezion fatta
per qualche parola). Il suo interesse per la Cabala (non
così forte come potrebbe sembrare) nasce all’interno di un
più vasto interesse per i testi sapienziali ebraici (Mishnah
e Talmud che costituiscono la codificazione scritta della
legge orale). Jabès lesse queste opere in traduzione – francese – in un particolare periodo della sua vita, cioè dopo
l’esilio (1957, un anno dopo la guerra di Suez) che costrinse lui (come molti altri ebrei) a prendere coscienza di una
certa ebraicità da cui non si poteva rifuggire (l’inevitabilità dell’esodo, il ripetersi della diaspora).
Il riavvicinamento alla cultura ebraica nella sua accezione più tradizionale (ma anche più ampia) costituiva un
passo verso la comprensione, la conoscenza, di una componente della propria identità di singolo e non. Ciò detto,
va sottolineato che Jabès non era un religioso ortodosso
e osservante (fu lui a parlare di un judaisme après Dieu).
Riprende la struttura interrogativa dei testi della tradizione rabbinica in maniera assolutamente ‘creativa’ e
postmoderna. La forma è un mezzo… e qui sono pertinenti le osservazioni di Derrida, secondo cui Le Livre des
Questions e tutti i libri seguenti) danno voce ad un’inquietudine ebraica e, aggiungo io, assolutamente contemporanea e attuale (nella forma e nella sostanza).
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Riporto qui di seguito le parole dello stesso autore tratte
da Du désert au livre:
“Je crois avoir retrouvé une certaine tradition dans la
mesure où je me suis abondamment plongé dans la Cabale et le Talmud. J’ai lu beaucoup, aussi, autour de ces
livres car ce sont évidemment des ouvrages qu’on ne
peut, d’entrée, aborder seul. J’ai lu aussi, en traduction
naturellement, la plupart des maîtres spirituels juifs...
Ces lectures rejoignaient tout à fait mes préoccupations
d’écrivain. Elles me semblaient non seulement exciter
ma propre interrogation mais la prolonger dans un passé immémorial”.
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Il silenzio
Raffaella Iaconantonio
Il tema del silenzio è uno di quelli a cui sono più legata,
forse perché nella mia anima sono più gli spazi bianchi
che quelli neri.
Il Silenzio è un linguaggio completo: puoi ascoltare la sua
voce perché ti parla, puoi vedere immagini perché ti
regala il dono dell’immaginazione, puoi quasi sentirlo se
diventi tutt’uno con esso.
Quella in cui viviamo è una dimensione comune, che ci
tiene legati in gabbie imposteci dalla società, siamo vittime di un processo che ci ha reso deboli (antropologia della debolezza).
Per questo motivo dobbiamo “liberarci” di tutto questo,”trasferirci” in un’altra dimensione, ma soprattutto
cercarla (nomadismo: ricerca infinita).
La strada del silenzio non è forse sicura come quella della parola (“segno”), ma è quella della vita, dell’essere
nomadi alla continua ricerca del vuoto.
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La tentazione nel giardino dell’Eden
Fortuna Balzano
E Dio creò Adamo, un uomo che non è uomo, perché orfano del suo passato. E l’uomo è nulla senza passato, perché
non è come una pietra sempre uguale a sé stessa. Senza
ogni singolo istante vissuto finora, non saremmo quello
che siamo. Senza i no, senza i baci della mamma, senza le
porte sbattute in faccia, senza le lettere non scritte.
Senza i saggi consigli inascoltati... Eva nasce dal sonno di
Adamo. Eva è diversa da lui. Eva passa le sue giornate
(sì, le immagino anch’io abbastanza noiose) seduta sotto
quel melo:
- Eppure sembra così dolce e succosa…
Perché ci hanno detto che non si può?
Cosa ci sarà di così tremendo…?
Quasi quasi la provo….
Ed è così che Eva scopre che tutto è possibile, così conquista la sua umanità. Nella trasgressione, nel desiderio
di sentire le cose sulla propria pelle. Fuori dall’Eden! E
allora? Adesso è libera. Libera di scegliere, di pensare, di
crearsi giorno per giorno. L’uomo non è nulla senza passato, ma è molto poco senza libertà, perché solo nella
libertà può realizzarsi pienamente. La libertà non è un
dono dell’Onnipotente, ma va conquistata scalciando, e il
prezzo da pagare è il rischio: la mia scelta potrebbe essere quella sbagliata.
La conseguenza del mio errore sarà la sofferenza. Ma se
non provo, se per una volta non esco dai binari, se non mi
rifiuto di seguire il modello sul quale cercano di plasmarmi, non lo saprò mai. Perderò la possibilità di assaggiare
i frutti più dolci. Non sarò uomo, sarò come quella pietra.
Sono passati millenni da quel giorno che sancì contemporaneamente la nostra condanna e la nostra possibilità di
riscatto, ma il serpente lo portiamo ancora con noi. Il
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serpente è l’assenza, l’angoscia, il bisogno di sapere, di
superare i confini. È lo stesso serpente che convinse Prometeo a rubare il fuoco agli dei, salvando l’umanità (...).
Avevo scritto queste cose tempo fa, sotto la spinta di
tutt’altra ispirazione. Il serpente a cui pensavo è tutto
quello che tentano di sopprimere dentro di noi, tutto ciò
che abbiamo di diverso, di “non conforme”… tutto ciò che
vorrebbero farci odiare di noi, e che è in realtà la cosa più
preziosa che abbiamo. Vogliono farcelo ricacciare nell’oscuro della nostra anima. È figlio dell’altro serpente,
quello che Eva ascoltò in quel fatidico giorno di sedizione,
dolore, libertà. Vogliono farci credere che il serpente sia
male, ma io penso che Dio (se è davvero così buono come
dicono) l’avesse messo lì apposta, perché lo seguissimo,
perché potesse insegnarci che l’Eden non è un punto di
partenza, ma un arrivo, e solo se ci rendiamo liberi e
usiamo questa infinita libertà in modo giusto potremo
vivere un paradiso sulla terra (la strada è lunga e tortuosa, e non è detto che abbia fine).
Sta a ognuno cercare il significato di quella parola: giusto. Ma questa è un’altra storia.
Jabès – saggezza nascosta, da scovare nella potenza così
dolce delle sue parole – ci dice tutto questo. E lo fa nel
senso che lascia aperte tutte queste buste vuote dietro di
sé, e ognuno vi legge quello che avrebbe desiderato scrivere a sé medesimo, servendosi della mano del suo corrispondente. Mi rendo conto che è proprio quello che sto
facendo. Ho questa mania di leggere un insegnamento di
vita in ogni pagina. Raccolgo frammenti di verità. La
ricerca continua…
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Silenzio, parole, scrittura
Martina Caschera
La cultura del grido, il recupero del silenzio.
All’assurdo i tragici greci rispondevano col grido e col
pudore. Il grido, senza controllo, il pudore, massimo sfoggio di volontà e forza virile.
Il greco conviveva col dolore, la sua dimensione naturale.
Dal punto di vista musicale la società moderna, le ultime
generazioni in particolare, reagiscono in maniera contraddittorie e tutte interessanti.
Parziali verità, singhiozzanti tentativi di sopravvivere.
La voce straziata di Janis Joplin che sembra scoppiare,
corde vocali straziate.
La lotta tra il grido ed il silenzio è vecchia quanto l’uomo e
forse anche di più: Dio non avrebbe creato l’uomo se non
fosse stato stanco del silenzio e del nulla. L’uomo nasce da
questo nulla e la sua morte è lì che lo riporterà: il grido ed
il pudore, le risposte al cammino nel deserto.
Lo stesso cammino è come affogare e riemergere nel mare
delle parole che ci affondano e, nel silenzio, ci tirano su.
Il punto per Jabès è proprio questo: la parola ha senso
perché circondata dallo spazio bianco o, viceversa, è lo
spazio bianco ad assumere valore grazie alla limitazione
della parola? Come l’alfabeto morse, come Dio che crea
l’uomo e lo costringe all’angoscia, all’assurdo...
E questo dovrebbe essere l’amore, la condanna a non
comprendere mai il Libro, a riscriverlo e a tradirlo nel
tentativo di riemergere dall’acqua.
L’intera storia della società può essere letta, a mio avviso, come un oscillazione, un arrampicarsi affondando
nelle dune di questo deserto spazzato dal vento. Ed eccoci qua, umanità, che dalla culla del tragico – i greci – è
arrivata al secolo dei media. Più che mai la parola perde
il suo valore, il grido perde la sua funzione espressiva.
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Pasolini già parlava di società di massa, di grigiore del
singolo confuso in ciò che viene detto.
Il discorso si dirama nella sociopsicologia, nella politica,
nella filosofia, nella letteratura: ognuno ha dato una sua
interpretazione all’affogare della parola nella linea, sempre
più lontana dal silenzio e dalla comunicazione: “un giorno
arriveremo a leggere gli spazi bianchi”.
Proviamoci.
Nel frattempo anche la musica risponde e risponde recuperando alcune delle esperienze del corpo. Viene ritrovata l’esigenza di annullare la richiesta di risposte e affogarla nella percezione e nei sensi. L’assurdo è quanto
mai sentito nelle ultime generazioni. (Potrei approfondire questo argomento e portarle esempi di testi di canzoni. Un solo esempio: Sigur Ros, The nothing song).
Ecco una poesia di Eugenio Montale, a parer mio totalmente appropriata:
non chiederci la parola
non chiederci la parola che squadri da ogni lato
l’animo nostro informe e a lettere di fuoco
lo dichiari e risplenda come un croco
perduto in mezzo a un polveroso prato.
ah l’uomo che se ne va sicuro
agli altri e a se stesso amico
e l’ombra sua non cura che la canicola
stampa sopra uno scalcinato muro!
non domandarci la formula
che mondi possa aprirti
sì. qualche storta sillaba e secca come un ramo.
codesto solo oggi possiamo dirti
ciò che non siamo, ciò che non vogliamo.
(Ossi di seppia, Eugenio Montale)
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È vero: il silenzio spaventa perché lì dentro covano le
parole, lì dentro può esserci proprio quella parola che
non va detta, che non deve essere detta. Quella che
aspettiamo da sempre. Oppure non c’è nessuna parola,
c’è solo la morte.
Nel silenzio c’è la dimostrazione della nostra vittoria e
quella della nostra sconfitta ed è per questo che il silenzio
è il luogo della disperazione e dell’amore più assoluto.
Ogni persona che condivide con noi il suo silenzio ci apparterrà e ci cambierà per sempre. Basta solo capire che così
ci consegna il suo frammento di verità, e noi avremmo tra
le mani la cosa più preziosa che esiste: non avevamo mai
visto, prima, cosa bella quanto la verità del silenzio.
“La verità si offre noi nuda”, un po’ come l’arida e irriguardosa bellezza dei paesaggi in cui si immerge Camus
nell’Estate. La verità, nuda, viene ricoperta di veli che
possono essere le parole. Quando cade il loro schermo,
quando viene percepita l’inutilità, l’assurdità delle parole, percepiamo che non può esserci condivisione se non
nella nudità del silenzio.
No, non è vero che nulla ci appartiene. Nonostante l’incomprensibile e l’impensabile e la morte, c’è qualcosa
che davvero ci appartiene: questi piccoli spazi bianchi
della nostra vita, gioielli preziosi.
Vorrei appunto soffermarmi su questa frase di Jabès:
“Molto presto mi sono trovato di fronte all’incomprensibile, all’impensabile, alla morte”.
Ecco: per me l’accostamento dei primi due concetti al
terzo non ha nulla di traumatico: sono le nostre barriere,
i luoghi di fronte a cui dobbiamo fermarci, dentro cui
dobbiamo perderci.
I primi ci lasciano forse una speranza, si possono aggirare. L’ultimo no, ma forse proprio per questo ci offre la
possibilità più bella: la vita stessa.
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Mi colpisce, in particolar modo, la figura dello scrittore
che, pur sapendo, pur essendo il primo a sapere, non può
evitare di costringere la sua vita e i suoi pensieri nella
forma delle parole.
Deve tagliare, piegare, tentare fino alla morte del senso.
Deve arrendersi all’infinito spazio bianco tra due parole!
Ma a quel punto la sua rinascita: nelle bocche, nelle menti, nelle vite altrui, i suoi spazi così sudati e guadagnati
prendono altre forme.
Silenzio e parole
Fortuna Balzano
Il silenzio è la forza del linguaggio. Se il compito del linguaggio è comunicare, il silenzio è la forma più alta di linguaggio. In silenzio possiamo ascoltare noi stessi. In silenzio, uno sguardo può dirci ciò che mille parole non riuscirebbero nemmeno a farci intuire. Il silenzio è il tempo della riflessione, la parola (detta) è disgiunta dal pensiero.
Mentre si parla, non si pensa. Semmai si pensa prima di
parlare. In silenzio, appunto. Il silenzio delle parole ci fa
sentire il mormorio del mondo, il suo respiro. Gandhi passava giornate intere senza dire una parola…
Il silenzio è più forte. La parola lo ignora, è debole, lo
teme. Ha paura che si possa avvertire tutto il non detto.
Il rumore, come la parola, è sordo. Impedisce l’espressione. Non ascolta, non accoglie, è chiuso a chiave, è impenetrabile. Non si ha la sensazione quasi di non esserci, di
sparire in mezzo a tanto rumore?
La parola più forte è quella scritta. Si scrive in silenzio,
si ascoltano i sussulti dell’animo. Siamo nel buio, la vera
vista è preclusa ai più. Scrivere è vedere nitidamente.
Impossessarsi del linguaggio, e trasformarlo in qualcosa
che va oltre il linguaggio: in musica, immagini, emozioni.
Un gabbiano che vola nella stanza. Un dizionario è pieno
di parole, ma trasmette anche solo una scintilla di vita?
Una parola in sé e per sé non dice niente. Lo scrittore è
una cosa sola col libro: il libro è la sua voce, e parla in
silenzio, urla in silenzio, geme e piange in silenzio. Ride
silenziosamente. Il silenzio amplifica ogni cosa.
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Tutto questo forse il mondo inconsciamente l’ha capito, e
ha orrore del silenzio.
Perché bisogna imporre se stessi, anziché ascoltare l’altro. Perché lui è peggiore di noi. E se non riusciamo a zittirlo, penserà di essere migliore…
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Perché bisogna essere sempre “attivi”, bisogna correre
continuamente (chi si ferma è perduto!), e la parola è più
veloce del pensiero.
Perché se ci fermiamo un attimo, e guardiamo, e ogni
rumore tace, vedremo quanto sia infame e triste e infermo e vuoto questo mondo con i suoi abitanti di plastica.
Perché pensano di stordirci con le loro parole morte.
Perché il silenzio è gratis…
La crisi del linguaggio e il silenzio
Francesca Aufiero
“Il silenzio non è debolezza del linguaggio. È al contrario
forza. La debolezza della parola è ignorarlo. Più che al
senso aggràppati al silenzio che ha modellato la parola. Il
silenzio è universo di solitudine”.
Mi ritorna in mente una frase “Ci capiamo in quanto ci
capiamo poco”, siamo abituati a scambiarci parole senza
significato e troppo povere.
Hugo von Hofmannsthal nella Lettera di Lord Chandos,
scrivendo a un destinatario immaginario, si accorge dell’arbitrarietà delle parole e osserva che: “mentre tento di
parlare, le parole si disfano in bocca”. Non riesce più a
parlare, in altri termini.
Dal canto suo, Jabès invita al silenzio, agli spazi bianchi:
“Un giorno arriveremo a leggere gli spazi bianchi tra le
parole, grazie ai quali soltanto possiamo avvicinarle”.
Non è facile arrivare a ciò, vista l’epoca in cui viviamo!
Oggi si dà importanza all’io, alle parole, e nessuno sarebbe in grado di concepire un mondo senza parole. Siamo
troppo presi dal linguaggio, utilizziamo parole che non
sono nostre. Sono parole, ma già utilizzate.
Credo che ci siano poche persone come il personaggio di
Sheckley (La decima vittima, 1954), che tenta di imparare il linguaggio dell’amore. Il protagonista del racconto lo fa in maniera “scientifica”, ma è comunque apprezzabile che si sia accorto che le parole che usa per esprimere i suoi sentimenti non sono idonee (...).
Oggi non siamo capaci né di vedere le cose, né di pensare
senza le parole che abbiamo appreso. Come dice Camus,
non siamo capaci di percepire la voce del mondo, la sua
bellezza. Camus fa capire che il mondo sospira verso di
noi, e invita a cogliere il miracolo di tale sospiro. Jabès,
invece, fa leva sul silenzio per riflettere sulla vita:
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“Diventare a nostra volta silenziosi nella speranza di
fonderci con essa. Ma non possiamo prenderne coscienza che attraverso la parola. E questa, purtroppo, ogni
volta ci allontana dalla meta”.
Parola detta e parola cantata
Annapaola Mazzoccoli
Vorrei sottolineare la grande differenza che intercorre
tra una parola cantata e una pronunciata. La parola cantata, infatti, esprime sensazioni emozioni... a differenza
di una parola pronunciata. Ecco parole di Janis Joplin:
When I’m there,
I’m not here. I
can’t talk about
my singing: I’m
inside it. How can
you describe
something you’re
inside of?
(Quando sono lì
non sono qui.
Non posso parlare
del mio cantare: io sono
dentro di esso.
Come puoi
descrivere
qualcosa in cui
tu sei dentro).
Mi sono molto piaciute queste poche parole, perché
esprimono la difficoltà ad usare le parole per esprimere
ciò che si ha dentro...
Ho scelto Janis Joplin perché è una di quelle persone che
ha bruciato: “chi non brucia non incendia” . Lei sì che ha
vissuto ogni istante come se fosse l’ultimo!
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“La peste” di Camus
Ivana Carandente
(...) Per tutti arriva un momento in cui il dolore stanca
e sfinisce a tal punto che si desidera la fine, qualunque
essa sia.
E c’è poi la paura del contagio. Perché la peste è nel cuore anche di coloro che non ne sono infetti (...).
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Il Libro delle interrogazioni
Alessandra Bruno e Chiara Minieri
Il problema posto da Edmond Jabès affonda le radici nel
concetto di lingua come comunicazione. A suo avviso le
regole della comunicazione si ergono su false basi: le
parole, i vocaboli, non sono sufficienti, anzi, sono codici
completamente sbagliati per comunicare. C’è bisogno di
un radicale cambiamento, di un’innovazione che individui i suoi orizzonti nel silenzio. Si tratta di riappropriarsi della libertà alla quale si giunge attraverso le interrogazioni, le domande che – sottolinea l’autore più volte –
assicurano la vita.
L’assenza della parola consuma lo scrittore, che sa di
non poterla mai trovare, che sa di essere obbligato alla
falsità. Forse, colui che si libera da questa falsa comunicazione è il poeta, che riesce a trovare la parola giusta,
una parola che sia per metà silenzio. Il poeta avvolge
d’ombra le parole, offusca la loro luce.
La verità, per Jabes, è proprio lì, al buio, nel silenzio. Dio
stesso è silenzio, l’autenticità nel mutismo. Quando si
tace, nell’imbarazzo delle bocche chiuse si avvertono
frammenti di verità, che si allontanano non appena si
ricorre di nuovo alle parole. Lo spazio di silenzio è anche
quello della penombra. È un ragionamento che contrasta
fortemente con quanto si ritiene comunemente. Nella
penombra ci si può muovere, lentamente, ma pur sempre
muovere.
La luce è per antonomasia rappresentata da Dio, e quindi,
inizialmente, il ragionamento porterebbe a credere che,
secondo Jabès, Iddio non detenga la verità. Invece, pare
cambi semplicemente la maniera di concepire il Signore,
costantemente invocato dall’autore, e sempre chiamato in
causa. In Lui, nella Sua lingua, nel Suo silenzio, v’è la vera
comunicazione, le autentiche parole di verità.
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Dio è costantemente chiamato in causa, ma è diverso l’atteggiamento nei suoi confronti rispetto a quello adottato
nel Libro della condivisione. Nel Libro delle interrogazioni
c’è un’intimità maggiore, un rapporto a due, si parla con
Dio, lo si definisce, lo si tira giù per parlare di Lui.
È indubbiamente difficile da capire, bisogna leggerlo e
rileggerlo, lo si comprende in frammenti, ma iniziamo a
chiederci se l’obiettivo finale di chi l’ha scritto non fosse
proprio questo.
È affrontato anche il problema dell’essere ebrei, un problema portato all’estremo con la strage dei campi di concentramento. Essere ebrei è un fardello, fonte di sofferenza, e umanamente non può non essere capito.
Ci ha profondamente colpito la breve frase pronunciata
da uno dei tanti rabbini immaginari che parla di un
sogno in cui lui non era più ebreo, e il dolore lancinante
nello scoprire, al suo risveglio, che lo era ancora.
Perché è evidente che essere ebrei è una condizione di
vita, che trascende la religione, che condiziona tutti gli
aspetti dell’esistenza, e scivola anche nella ricerca.
Un filo sottile pare collegare l’ebraismo e la ricerca della
terra promessa (terra di libertà) con la ricerca della
verità, di Dio nel suo silenzio. La terra degli ebrei non è
mai qui, non è mai circoscritta in termini formali, è un
continuo errare, un continuo sondare il terreno, proprio
come l’estenuante ricerca del verbo perfetto, della parola di silenzio Sembrano proprio la stessa cosa.
È un popolo eletto, eletto da Dio, ma anche dalla sofferenza, dall’inquietudine.
È bellissima la canzone che parla delle razze, dei colori.
Un continuo riferimento al viaggio, al vagabondare.
Yukel nasce e muore tante volte per parlare della terra
di Dio, di Sarah, di come è morto lui, di come muore lei.
Tutti gli elementi sono presi in considerazione e guardati sotto una luce diversa, nella penombra divina.
Continue manifestazioni di Dio, del suo volto senza
nome.
La morte è presente nel libro, così come è presente il cielo, e l’acqua, e gli astri.
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L’esperienza del dolore
Lina D’Angelo
Il dolore si conosce per esperienza, un po’ come un oggetto strano con il quale ti ritrovi a giocare all’improvviso,
una forma particolare che giri e rigiri e non sai come prenderlo, come quei cubi colorati che devi mettere a posto. Io
stessa non avrei mai potuto capire cosa fosse il dolore se
non lo avessi affrontato guardandolo negli occhi.
Arriva improvviso e subdolo, sconvolgendo il ritmo abituale dell’esistenza. All’improvviso ti accorgi che tutto è
diverso da come ti è sempre apparso, perfino lo spuntare
del sole ha un sapore diverso perché sei cosciente che
quella potrebbe essere la tua ultima alba. Si soffre tanto
poiché c’è l’egoismo di vivere. Solo attraverso l’esperienza
del dolore si può assaporare l’anticipo di quella che sarà la
morte, non è tanto essa che spaventa ma la sua attesa.
Presa coscienza della propria sofferenza, non resta che
indossare una “maschera”, unico modo per dire la sofferenza.
Si cerca di confrontare il proprio dolore con quello altrui,
e so bene che l’unico oggetto di conversazione di una sala
d’ospedale in cui tutti attendono, o meglio, prendono
coscienza di quello che li attendeva, è il proprio dolore. Si
cerca di parlare, per quel poco che è possibile, con la forza che resta, quasi come un atleta stanco verso il traguardo. Quando il dolore fa parte del tuo essere, quando
ti è dentro e non puoi sentirti che una mela bacata, è l’unico argomento delle tue conversazioni. Ripensando a
Giobbe: “Ma, se io parlo, il mio dolore non si lenisce, e se
taccio, non se ne và via da me…” Estranei al mondo in cui
si è sempre appartenuti, sappiamo d’illuderci poiché il
dolore non è scambiabile con gli altri. Ci si confronta, si
scambiano false speranze… Secondo Natoli, le persone
sofferenti cercano di condividere il proprio dolore con gli
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altri: non c’è cosa più vera. È anche vero che le parole
non servono a chi soffre, ma quando ti ritrovi con un
caos mentale che ti assale, quando vorresti dire molte
cose, e rischieresti di sbagliare e di non esprimere davvero ciò che senti, ecco che c'è ... la poesia. È come se non
scrivessi più con la mano e con un semplice oggetto qual
è la penna, ma con una forza che ti parte dal petto, incontrollabile e smisurata che non puoi fermare con la razionalità.
Di alcune persone, spesso non resta altro che il risuonare delle loro parole nella mente, soprattutto quando dopo
una settimana si ritorna nell’ospedale e da una sedia
vuota s’innalza un denso fumo di ricordi e suoni, mentre
il corpo è svanito...
Ne ho udito molto spesso di simili cose:
consolatori molesti siete voi tutti.
Avranno mai fine queste parole di vento?
La cosa peggiore è che non ti senti padrone del tuo corpo,
un po’ come quando ti si addormenta una mano: tu la
vedi è lì, è tua… ma non la senti. È in quei momenti che il
dolore diventa tragedia.
Il dolore c’è, ci sarà sempre, ma il segreto sta nel saperlo
affrontare. Ci sono giorni in cui inizi a “soffrire” appena
apri gli occhi al mattino, e magari vorresti un risveglio
diverso, sereno con l’odore del caffè che viene dalla cucina, una carezza che ti fa iniziare meglio la giornata, e
magari invece ti trovi a far fronte alle situazioni più
assurde e sconfortanti, ma non bisogna affliggersi.
Convivere con il dolore, farlo entrare a far parte della tua
esistenza ma sapendolo affrontare… tenendolo al guinzaglio come una tigre, sapendo che in qualsiasi momento
potrà azzannarti una gamba, un braccio… e la tua forza
sta nell’asciugarti le ferite senza troppi capricci. Continuare a camminare per andare verso la luce che ti chiama, verso l’obiettivo della tua giornata.
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Al mondo non c’è cosa più bella di vivere la vita, senza
attendere nulla dopo di essa, immergendosi nella natura,
nelle cose più semplici… sposandosi con il mondo. Nozze
di Camus potrebbe essere un valido vademecum per iniziare a guardare la vita con occhi diversi.
Amo questa vita con abbandono e voglio parlarne liberamente: essa mi dà l’orgoglio della mia condizione di
uomo. Pure, spesso mi è stato detto: non esiste nulla di cui
essere fiero. Sì, qualcosa c’è: questo sole, questo mare, il
mio cuore che balza di giovinezza.
Solo quando si è coscienti che la vita può esserci strappata da un momento all’altro, che tutto ciò che facciamo
verrà preso dalla morte, si può capire e vedere la semplicità nelle cose: un sorriso sembra più luminoso, il volo di
un uccello sembra farci librare in aria con lui, il cibo ha
un sapore diverso, i colori sono più vivi e… le persone,
beh… immaginando di poterle perdere s’impara ad
apprezzare anche i loro difetti, e a lasciarsi persuadere
da un senso di reale amore per il prossimo.
L’idea della morte, del dolore che non ci abbandona, non
deve portare a rinchiudersi in un pessimismo radicale, e
lasciarsi sopraffare dall’angoscia, ma a vivere attimo per
attimo, un po’ come il carpe diem oraziano: Sii saggia,
mesci il vino – breve è la vita – rinuncia a speranze lontane. Parliamo, e fugge il tempo geloso: cogli l'attimo, non
pensare a domani.
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Passione e autonomia nella scrittura
di Jabès
Maiko Siano
La scrittura è intesa come nascita e passione: nascita, perché il linguaggio viene considerato come una radice ferita, e
i rami, le foglie, i fiori di questa radice sono le parole (nascita perché nascita delle parole); passione, perché questo processo non è visto come qualcosa di banale, ma come un iter
doloroso che parte da una ferita (la lingua) e che prosegue
con la scelta, che a sua volta è sottomissione.
Siamo abituati a vedere nella scelta uno dei gesti che più e
meglio riassumono, e rappresentano, il nostro modo di
concepire la libertà intesa come libero agire. Qui tale visione viene completamente rovesciata: scegliere comporta
un bivio, un aut aut che ci costringe a scegliere una cosa
piuttosto che un’altra. Non siamo noi a scegliere liberamente, ma è la scelta stessa che ci impone di scegliere ed è
in virtù di questa imposizione che l’uomo è sottomesso.
Detto questo sarebbe troppo facile dire che per Jabès il
poeta non è libero o che la libertà non esiste. Non è così.
La libertà esiste solo in funzione di quello che è il processo di creazione di un’opera da parte dello scrittore, anzi
(molto di più) è qualcosa che fa parte di questo processo.
La libertà come la intendiamo noi non esiste di fronte
alla scelta, eppure la libertà ci porta alla scelta. La
libertà concepita in questa maniera diventa autonomia.
Per Jabès è l’autonomia a diventare libertà, un’autonomia che si compie in questa passione.
Penso che l’autonomia sia rappresentata da Jabès come
una libertà parziale. È impossibile essere totalmente liberi,
la nostra vita è sottoposta a una continua scelta. Dal
momento in cui ci svegliamo, il nostro io, la nostra anima,
ma soprattutto la nostra mente sono vittime di una serie
impressionante di scelte e del nostro autolesionismo.
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È l’autonomia a salvarci dalla completa sottomissione e
dalla follia.
È impossibile essere totalmente liberi, ma è altrettanto
impossibile essere completamente sottomessi.
Autonomia come processo interno alla passione.
In quanto tale, essa non è qualcosa di predeterminato,
ma una conquista che lo scrittore acquisisce gradualmente. Dice Jabès: “La libertà è uguale allo stelo della
rosa. La spina annuncia il petalo”. Non solo l’autonomia
si acquisisce, ma comporta una serie di ostacoli e perdite. La libertà è qualcosa di cui sentiamo di non poter fare
almeno ma che ha un costo.
Penso a Yukel e penso a chi come lui ha vissuto nei campi
di sterminio di massa tedeschi, penso a Primo Levi. Una
frase emblematica è quella di Gabriella Sobrino che, parlando con lui, gli disse: “non sei mai uscito da Auschwitz”.
Yukel, come Levi, trova la sua soluzione nel suicidio.
Questo ci induce a pensare ai nostri dolori: sono paragonabili a quelli di Levi? Il nostro modo di sentire la morte
può avvicinarsi a quello di Yukel?
Di fronte a tutto ciò reputo i miei dolori infinitamente
piccoli. Di fronte a queste domande credo che l’ unica
risposta possibile sia, né si né no, ma semplicemente
ricordare e non pensare.
Quando Jabès parla della libertà in questi termini, il mio
pensiero non può fare a meno di allargarsi alla concezione della vita. In fondo credo che la libertà non sia altro
che un aspetto di un sistema più grande, cioè la
vita. Oggi più di ieri e ogni giorno ancor di più, la vita è
fatta per la maggior parte di dolore e morte, e questa
nostra consapevolezza aumenta se ai nostri piccoli dolori aggiungiamo una situazione mondiale che non parla
d’altro che di guerre e carestie.
A questo proposito mi chiedo se di fronte a grandi tragedie come quelle di oggi o del passato si possa dire qualcosa. Quello della scelta, a mio avviso, è un discorso da
non sottovalutare perché la travagliata nascita della
parola comporta un rischio, cioè il non detto, l’indicibile
che incombe di fronte alle grandi tragedie della vita
come la morte: “Non c’è parola, in nessun linguaggio
umano, capace di consolare le cavie che non sanno il perché della loro morte” (sopravvissuto di Hiroshima).
Sembra quasi che in questi frasi siano implicite le domande che si pone Jabès. Inoltre, è interessante vedere come
che chi ha visto la morte vera, chi ha vissuto la morte
come pane quotidiano, non possa trovare altra soluzione
dal suicidio e questo è ciò che capita a Yukel.
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Osservazioni su Maiko Siano
Tiziana Carlino
Dal discorso di Maiko emergono due dimensioni importanti del Libro. Sono osservazioni ben formulate (scrivo
le mie in margine proprio in omaggio a Jabès – anche gli
studenti stanno in fondo scrivendo un altro Livre des
marges).
C’è una cosa che viene fuori molto rilevante. Jabès non
aveva conosciuto l’Olocausto e dunque non era un
sopravvissuto. Ma, come per i reduci e gli ebrei europei
vittime dell’antisemitismo, arrivò a percepire che per la
razza uscita dal libro (questa è la definizione di Derrida)
la libertà forse non esisteva o che comunque era una
cosa ‘difficile’.
Jabès non poté scegliere di restare in Egitto, non fu libero di vivere dove era nato. Da qui e dalla dolorosa esperienza dell’esilio rinnovato scaturisce Il Libro. Di fronte
al dramma della Shoah credo che sia rimasto sconvolto
(come molti ebrei ‘orientali’ che non immaginavano le
proporzioni della tragedia) e il suo Yukel che sceglie il
suicidio (come molti scampati di cui abbiamo parlato),
sceglie, in fondo, il silenzio.
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Il Libro della sovversione non sospetta
Irene Tortorella
Leggendo il capitolo “Pagine bruciate” del Libro della
condivisione mi sono venute in mente alcune poesie di
Federico Fiumani, un poeta e chitarrista di un gruppo
dark rock decadente della scena new wave fiorentina
degli anni ‘80. Una di queste è senza titolo:
Davanti al libro che desidero
mi fermo e penso:
se lo leggo l’amerò così tanto
che i miei pensieri
saranno uguali ai suoi,
perderò la retta via,
non nasceranno i fiori
che con tanta cura
ho innaffiato d’inverno.
Mi fa quasi sorridere la sua paura di “condividere appieno” un libro. Per fortuna, e in questo sono pienamente
d’accordo con Jabès, “non si condivide mai un libro, non
foss’altro che per la diversità dei modi di accostarci che
suscita”. Fiumani si accosta alla lettura dopo un inverno
di cure amorose ai suoi fiori, una metafora che non mi
spingo a tradurre ma di cui percepisco il senso. Ognuno
di noi, in ogni momento della nostra vita, si avvicina alla
lettura con stati d’animo differenti. A volte credo che
alcuni libri ci capitino sottomano in libreria perché fremono per essere letti, perché quello è il momento giusto
non per condividerne la morale o il significato, ma per
uno scambio equo in cui “avremo tenuto tutto per noi o
concesso tutto senza contropartita”.
Le parole che scambiamo con gli altri sono usurate. Sicuramente questa comunicazione ci aiuta a vivere ma mette a disagio il poeta che sente dentro di sé qualcosa pre131
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mere per venir fuori: “una parola più forte di tutte le
altre - più personale anche. Parola di solitudine e di certezza, così nascosta nella notte che a malapena è udibile
da se stessa”. È la parola che non si può condividere. È
ciò che resta celato anche nei discorsi più ampli. È fuori
dalle parole.
Nel Libro della sovversione non sospetta, tutto ciò che
sconvolge l’ordine precostituito è sovversivo: il risveglio
interrompe il sonno, il pensiero vince sul nulla, la parola
rompe il silenzio e la lettura mette in questione lo scritto. La vita stessa è sovversiva, si erge contro la morte
spontaneamente perché è così che la sconfigge, senza
sforzarsi di farlo ma in un clima di non sospetto, con un
comportamento assolutamente naturale.
Anche il pensiero è ribelle quando si pone in contrasto
con l’impensato, così come il libro che si scrive si pone
contro il libro già scritto. Per trovare un equilibrio interiore di fronte a questi infiniti atti di sovversione dobbiamo impegnarci a vivere senza sforzarci di farlo, con
naturalezza, accogliendo la nostra lenta evoluzione. E
soprattutto dobbiamo affrontare la vita, il pensiero e la
scrittura, luoghi conflittuali. Provando a diradare i conflitti possiamo tentare la via del dialogo, che non è quella della condivisione ma ricerca della verità, del silenzio
dietro alle parole, nonostante esso non sia percepibile. È
forse questo che può dare un senso alla vita: non arrivare alla verità ma cercare di avvicinarla per quanto ci è
possibile. È una piccola ancora di salvezza, “una fessura
da cui sgorga la vita”.
Disponibilità e ospitalità
Luca Moretti
Due riflessioni formulate leggendo il libro di Jullien Il saggio è senza idee.
La prima riguarda il concetto di verità. Per i filosofi la
verità è una meta da raggiungere tramite un processo logico che parte dall’idea e che poi si trasforma in una tesi da
dimostrare. La saggezza invece vuole intraprendere un
cammino che sicuramente non porterà ad una verità, perché è al di fuori della nostra comprensione, ma è necessario per non rimanere rigidi nel proprio pensiero.
“Al contrario della filosofia, che può essere esposta metodicamente, la saggezza dà luogo non a progressione ma a
variazione”.
Questa frase racchiude l’essenza della saggezza, perché
fa capire come la cosa fondamentale sia la ricerca continua di un giusto mezzo (variazione) e non tanto una
conoscenza raggiunta attraverso la dimostrazione di
un’idea di base (progressione).
Il pensiero taoista ha sintetizzato fin dall’antichità ciò
che per noi occidentali, a causa del retaggio culturale, è
molto difficile da comprendere: non esistono grandi
verità a cui possiamo arrivare perché, anche se ci fossero risposte alle domande fondamentali della nostra esistenza, probabilmente non potremmo capirle.
Non abbiamo, infatti, una visione esterna del nostro
mondo. La cosa importante è cercare di fondersi il più
possibile con la “via” di modo che noi stessi entriamo a
far parte dell’esistenza del mondo.
La seconda è scaturita dalla discussione in aula sul pensiero di Jabès a proposito dell’ospitalità e dalla lettura di
questa frase: “la disponibilità non è solo l’assenza di ogni
posizione fissa, irrigidita nella sua verità, ma è, più radi-
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calmente, la cancellazione di ogni posizione, sia essa dell’altro o di sé”.
Mi sembra che i concetti di ospitalità e disponibilità siano quantomeno simili perché tutti e due sottintendono
un’apertura dell’individuo verso l’esistenza nella sua
totalità, in modo da non rimanere legati ad una singola
concezione.
Venendo a mancare un punto di partenza, si ha la libertà
necessaria a percorrere, e quindi essere, la via.
Dolore, compassione, e altri temi
Giovanna Sodano
Ripensando al concetto secondo cui osservare il dolore
altrui produrrebbe dolore nell’osservatore per il semplice fatto che quest’ultimo vi vede riflesso ciò che potrebbe colpirlo (Natoli), mi sembra che non si sia presa in
considerazione la “compassione”.
Se mi capita di percepire o, peggio ancora, di vedere sul
volto di una persona cara l’ombra del dolore, non ho mai
pensato che la sofferenza che si proietta su di me sia dettata dalla paura di poter provare lo stesso, in un futuro più
o meno prossimo, ma dalla semplice tendenza a condividere (com-patire) la situazione di questa persona.
La compassione di cui parlo non ricalca il concetto di
matrice religiosa ebraico-cristiana, che definirei, piuttosto, “pietà”, ma si riferisce ad un sentimento più ampio,
che credo sia presente nella stessa natura umana. Non
credo che “tutti gli uomini siano buoni”, ma ciò che chiamo compassione può fungere da molla che spinge un essere umano normale alla scelta del volontariato in ambienti disadattati o a partire, lasciando affetti e sicurezze, per
una terra sconosciuta messa in ginocchio da guerra e
povertà o, ancora (e più semplicemente) a slanci di umanità e commozione di fronte ad immagini di sofferenza
infantile… Forse sbaglio, ma credo (o almeno spero!) che
ciò non implichi un condizionamento religioso, magari
dettato dalla speranza del “premio”, ma dalla consapevolezza di esistere, tutti, “sotto lo stesso cielo”.
In merito al testo prodotto con gli interventi relativi alla
seconda parte del corso.
Non ho ancora letto il libro di Jabès, con le sue riflessioni sulle parole e sul silenzio, ma, mentre riflettevo sulle
impressioni e i commenti ad esso riferiti, mi è venuta subito in mente una considerazione che, tra l’altro, ho poi
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riscontrato in alcuni dei miei “colleghi”: che cosa c’è di più
espressivo e, al tempo stesso, arcano delle scritture ideografiche, ancora oggi in uso presso alcune civiltà orientali?
Io studio giapponese, una lingua che, le assicuro, sembra
aver dischiuso davanti a me un’infinità di mondi nuovi.
Ripenso ai primi approcci, non certo semplici, con una lingua ed una cultura estremamente complesse e raffinate.
In particolare, le primissime volte che ho avuto a che fare
con quei misteriosi caratteri, confesso di averli trovati
piuttosto inconsueti, a volte addirittura inutili...
Poi ne ho subito il fascino innegabile e ora trovo che la
semplice riproduzione di un solo kanji su un foglio bianco lo riempia, come una nota isolata riempie un silenzio
assoluto. Per non parlare, poi, della poesia haikai: quando ne ho studiato le forme e apprezzato i contenuti, ho
riscontrato la stessa ricerca o, meglio, tensione verso
l’infinito che ravvisavo nell’Ermetismo europeo: questi
brevi versi, incastonati in supporti di silenzio, riescono
ad esprimere concetti celati che la “prosa” farebbe fatica a raccontare in un’intera collana di volumi.
A tal proposito, volevo proporre un concetto, che esprimerò tramite l’esposizione di un mito d’origine persiana,
il quale ha colpito la mia immaginazione a causa della
sua originalità, e ha anche suscitato la mia ammirazione
per quel che considero come un forte esempio di lucidità.
Stanchi della propria esistenza mediocre e inutile, gli
uccelli si lanciano alla ricerca del loro re mitico, Simorgh.
La maggior parte di loro, spossata, delusa, o sedotta dalle
sorprese del viaggio e dagli idoli che incontra, si ferma per
strada. Un piccolo gruppo di uccelli ostinati, guidati dall’upupa, attraversano il deserto e le sette valli dell’incanto e
del terrore. Esausti, con le ali bruciate, giungono infine
alla presenza dell’uccello-re. Cento tende si scostano, una
viva luce brilla, ma essi non vedono che uno specchio. Una
voce dice loro che questo specchio è la sola verità. Questo
Simorgh che hanno cercato, è loro stessi. Non bisogna
attendere altro. La voce aggiunge: “Avete compiuto un lungo viaggio per giungere al viandante”.
Credo che anche Camus, in qualche modo, abbia potuto
compiere questo lungo viaggio.
“Kare eta ni / karasu no tomaritaru ya / aki no kure
“(Matsuo Basho) (ramo essiccato/un corvo si adagia/tramonto d’autunno)
Soldati
“Si sta come / d’autunno / sugli alberi / le foglie”
(G. Ungaretti)
Sfogliavo gli appunti relativi alle sue lezioni e, tra gli
altri, sono stata particolarmente colpita da un passo
riguardante la scelta “radicale” (che personalmente trovo meravigliosa, eccezionalmente coraggiosa e senza
fronzoli banali!) di Camus e del suo Straniero che, pur
sapendo di dover morire l’indomani, rifiuta l’inganno
estremo della religione per godere della meravigliosa
sera d’Algeria.
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La cultura mediterranea nel “Libro delle
interrogazioni” di Jabès
Irene Tortorella
Nel Libro delle interrogazioni Jabès mostra una predisposizione verso la cultura mediterranea tipica di Camus.
Yukel, soggiogato dalla sua storia di esiliato, cerca rifugio
nella vista del mar Mediterraneo. Dopo la morte di Sarah,
infatti, sente il desiderio di partire verso Sud, per “rivedere il Mediterraneo, ascoltare le lezioni del mare che, con
ogni tempo, conserva il suo sale e i suoi colori”.
Più avanti Jabès aggiunge: “Nel libro, i colori del mare
passano dall'avorio dell'assenza al nero dell'inchiostro. Il
mare bagna le rive che i miei passi ritrovano. Nelle conchiglie, ho sentito gemere l’eco del mio nome. Il Mediterraneo ha rigenerato gli sguardi che hanno preceduto il
mio; per questo ho voluto che il mare, nel libro, fosse il
legame mobile, millenario, e per questo anche i miei
sogni, in un mondo straziato dalle partenze, hanno il
senso di un salvataggio”.
Basi di sale che l'onda non può lambire, il Mar Morto è
l'immagine del mare sprofondato.
Nessuna affinità con il Mediterraneo: mare mattutino,
impulsivo ma distratto e immaginativo; mare amoroso,
intenerito; mare della scia e del nuoto.
La scrittura di Jabès è pervasa della cultura mediterranea. Egli infatti era nato in Egitto, luogo dal quale era
partita la sua diaspora fisica e spirituale. Il deserto, nell’esegesi di Jacques Derrida, è il terreno indefinito in cui
sono radicate le radici di Jabès. I suoi luoghi d'origine
assediano la sua poesia: “Il poeta – o l'Ebreo – protegge il
deserto che protegge la sua parola la quale non può parlare se non nel deserto; che protegge la sua scrittura la
quale può lasciare una traccia solo nel deserto” (J. Derrida, La scrittura e la differenza, p. 87).
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Il Mediterraneo, contrapposto al deserto, è il luogo dell'armonia dell'uomo, della vita, del sole e della salute. La cultura di questo mare si oppone agli abusi, alle morti, alle conquiste brutali, alle condanne. È ciò che fa anche Jabès: si
lascia alle spalle il deserto, l’Olocausto, la condanna del suo
popolo ad essere per sempre nomade; non dimentica il passato, ma cerca una patria nuova in cui fermarsi ad ammirare i colori del mondo e della vita. “All'impossibilità d'essere Ebreo che da due millenni dilania il popolo di questo
nome, lo scrittore sceglie di scrivere e l'Ebreo di sopravvivere. (Quaderno di Yukel)".
Ogni giorno sarà un giorno in più da vivere, con la memoria costante del passato tragico del popolo ebraico.
"E fu un mattino, poco dopo l'aurora, che Elohim morì
della morte del Suo popolo. Il deserto contò le rughe, e
l'aquila e il falcone sparsero subito la notizia. Da allora,
per dodici ore, il giorno porta il lutto del giorno”.
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Caducità e dolore
Angelica Cionini
Sin dall’antica Grecia la vita è stata sempre vista come connubio di crudeltà e felicità e nei vari secoli a venire religioni
e filosofie si sono sempre sviluppate intorno al tema del dolore fino ad approdare alla negazione nietzschiana di Dio e alla
consapevolezza dell’uomo di non poter essere felice.
Da una lettura recente di “Aforismi sulla saggezza del
vivere” ho constatato che Schopenhauer considera l’uomo come un pendolo che oscilla tra il dolore e la felicità
ed egli considera la felicità stessa come un momento della nostra esistenza caratterizzato dall’assenza di dolore.
La sua è una posizione che mi ha affascinato, se questo
filosofo arriva addirittura a dire che la peggior cosa che
due esseri umani possono fare è generare un figlio e che
simbolo della venuta al mondo è il pianto: dunque è
meglio essere nati o non nascere affatto?
Il pensiero di Schopenhauer mi affascina. Credo che si
avvicini leggermente a quella degli epicurei per i quali la
felicità consiste nel non avere dolore, aponìa, e nella
mancanza di turbamento dell’anima, atarassìa.
E Schopenhauer negli aforismi:
“Quindi riconosceremo che quanto di meglio questo ha da
offrire è un’esistenza senza dolori, tranquilla, sopportabile e limiteremo le nostre pretese a questo, per realizzarlo tanto più sicuramente. Infatti per non cadere nell’estrema infelicità il mezzo più sicuro è non desiderare
una grande felicità. […] – Questo è il punto di contatto
con l’epicureismo, credo –. È quindi consigliabile ridurre
a una misura assai moderata le proprie pretese ai godimenti, agli averi, al rango, agli onori ecc.; perché proprio
l’aspirazione alla felicità e il competere per essa, le ambizioni al lustro e la brama di piaceri provocano le più
grandi disgrazie”.
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Tuttavia per Schopenhauer l’intera nostra esistenza è
qualcosa che sarebbe meglio che non ci fosse. La suprema saggezza sta nel negarla e rifiutarla. Schopenhauer
stesso cita la frase di Platone: “Nessuna cosa umana è
degna di soverchio zelo” (Oute ti ton anthropìnon àxion
megàles spudès) (Rep. X, 604).
Epicuro, dal canto suo, propone come soluzione il Tetrafarmakon, le quattro medicine:
il timore per l’aldilà e la paura degli dei sono vani;
la paura della morte è assurda, perché la morte è nulla;
il piacere è possibile per tutti;
il male, o è breve, o è sopportabile.
Bisogna, dunque, sfrondare i nostri desideri e ridurli al
primo nucleo essenziale. Per procurarci questi piaceri
noi bastiamo a noi stessi, e in questo bastare-a-noi-stessi
(autarchia) stanno la più grande ricchezza e felicità.
I filosofi greci hanno sempre considerato l’esistenza come
predestinata al dolore, concetto di destino ineluttabile ed
invariabile. Basti pensare infatti a Edipo che cercò in tutti i modi di sfuggire alla profezia che lo condannava a
commettere prima parricidio e poi incesto con Giocasta.
Non vi riuscì e giunto a Colono afferma: “tutto è bene”.
Egli è cieco (fisicamente), ma vede attraverso l’occhio
della mente e finalmente ha preso coscienza che il patire
è nelle mani del destino. Senza addentrarmi eccessivamente nell’analizzare tragedie greche, potrei affermare
che il dolore si subisce, ma può essere affrontato. Come?
Il mondo romano guarda al dolore da differenti posizioni.
Seneca, per esempio, propone nelle Epistulae morales ad
Lucilium un atteggiamento di serena accettazione: “Fac
itaque tibi iucundam vitam omnem pro illa sollicitudinem deponendo” (Lett. 4 par. 6); “Renditi dunque serena
la vita lasciando da parte ogni angoscia”. Ma già Orazio,
nelle sue Odi, appariva consapevole del fatto che la vita è
dolore e la felicità non può esistere.
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Ho notato punti di contatto tra la nostra concezione occidentale del dolore e la poetica giapponese dell’epoca
Heian. Capisco bene che tra le due vi sono notevoli differenze, ma in questo caso, se si pensa alla cultura giapponese, credo che la concezione occidentale a cui far riferimento sia quella pagana. Studio giapponese e l’anno
scorso ho incontrato, nella preparazione all’esame di letteratura, un autore, Kamo no Chomei, che con la sua opera Hojoki, Ricordi di un eremo, affronta il problema esistenziale e lo risolve fuggendo dal mondo.
La prima e istintiva fuga dalla capitale fu per Kamo no
Chomei un’impennata di orgoglio per le continue frustrazioni sociali subite. Successivamente egli si ritirerà in
montagna e da lì contemplerà la città assediata dai mali
che contaminano le esistenze degli abitanti (il mappō, le
lordure).
È allora che Kamo no Chomei decide di voltare le spalle
al mondo, come strategia per risvegliare la verità della
fede (hosshin) e ricercare da solo la pace interiore che gli
avrebbe aperto le porte del paradiso di Amida.
La caducità, la precarietà e la triste fragilità dell’essere
umano, il mujo, l’inconsistenza delle cose portano i temi
della letteratura giapponese verso un lento cambiamento:
c’è uno spostamento d’accento dall’intrinseca bellezza dei
motivi fondamentali della poesia nipponica (“la luna, la
neve, i fiori di ciliegio”) ai “fiori sparsi e foglie che cadono”.
È stata una sorte di presa di coscienza, lenta ma inesorabile, che ha portato allo squarcio del velo che non permetteva di vedere il nostro destino di effimeri.
Fuggire è negare il dolore, ma anche evitare la vita. Non
dico che quello di Chomei sia stato un atto di viltà, ma
forse non è il modo migliore per affrontare il dolore.
Il dolore nasce da noi stessi, si subisce dall’esterno, e credo che si debba affrontare la vita con la consapevolezza
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che soltanto estraniandosi e fuggendo da questo mondo è
possibile giungere – quanto meno – ad una pace interiore,
condizione di serenità, ma non di felicità.
Questa soluzione, in fondo, è una condanna, poiché noi
amiamo profondamente la vita, come ogni essere vivente che anche nelle situazioni più disperate non cede mai
e lotta fino allo stremo delle forze.
Un accenno, infine, a Jabès. L’impatto coi suoi testi mi ha
lasciata attonita: la sua scrittura è davvero complessa,
ma (al tempo stesso) abbacinante.
Ciò che mi ha colpita di più sono le immagini icastiche,
laconiche e anche piene di bellezza struggente che credo
derivino dal dolore per il suo stato di straniero. Dal punto di vista strutturale, trovo originalissime le pagine
bianche tra un aforisma e l’altro: quasi un atollo per permettere di riposare e riflettere sui pensieri che la scrittura del poeta ebreo d’Egitto suscitano al lettore.
Mi sono sentita impotente di fronte al suo linguaggio, e
forse ho compreso la tematica dell’incomunicabilità della parola: la parola è massima espressione della solitudine dell’uomo.
Dolore e reazione al dolore
Fabio Pariante
Il dolore nasce, vive e muore in noi stessi, in me. La vita non
è vita se esso non è presente. Il dolore, tema complesso e forte… Avendolo vissuto sulla mia pelle (come giusto che sia
per l’umanità intera!), adesso ‘posso credere’ di aver trovato il mio equilibrio interiore rispetto al dolore esistenziale.
La consapevolezza di vivere con esso è tale che negli attimi di felicità, che durano troppo nel tempo, avverto quasi nostalgia del ‘mio soffrire’. Può sembrare un paradosso, ma la verità vera è che nel dolore si imparano cose
che servono anche nei momenti di felicità. Il dolore fa
riflettere. Il dolore dà vita.
L’essere abituato al dolore nelle piccole cose quotidiane anche se in maniera molto lieve - fa sì, talvolta, che si sia
più spronati a vivere davvero. Ovvio che la reazione che
si ha in tale circostanza è soggettiva, ma nel mio caso dà
carica, forza e gioia di vivere.
C’è chi si abbatte lungo il proprio cammino anche per
avvenimenti futili, al primo ostacolo, magari senza porsi
il problema del perché del proprio stato. Forse così ero
anch’io un tempo… Ma oggi credo che ciascuno di noi
debba cercare - dentro - la vera essenza di sé, mettersi
alla prova nei momenti di inquietudine.
Ecco perché spesso si dice: gli esami non finiscono mai.
Lo diceva Eduardo De Filippo, che ammiro sin da piccolo
per la veridicità dei temi che ha saputo sempre trattare
con maestria: temi che riguardano soprattutto il dolore
nelle sue mille facce, quel dolore così diretto e così familiare che oggi più che mai è presente nella nostra società,
nelle famiglie, negli occhi, nella vita di ciascuno di noi,
dentro di noi, e che a volte nascondiamo pur di andare
avanti a modo nostro.
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Questo è per me il ‘vincere e convivere’ col dolore. Non è
una rassegnazione dell’essere, ma la consapevolezza che
bisogna giostrare e pesare nel modo giusto per poi riemergere con coraggio, senza aver paura della propria
condizione.
La cultura greca è all’origine della concezione del dolore
(pathos) con la cultura eroica, considerandolo come centro della vita. Per il greco la sofferenza non ha giustificazione, ma l’uomo deve reagire ad essa, vincerla con la
consapevolezza della sua esistenza, l’Aretè. Le virtù che,
secondo Socrate, l’uomo deve avere, sono la razionalità e
la conoscenza di sé, della fiducia nella ragione.
Nelle credenze ebraico-cristiane, invece, il dolore è inteso come una sorte di evento tragico, che ha - come unica
forza per andare avanti - la speranza, sentimento di rinascita dal male nel quale ci si trova.
Secondo me, occorre avere il coraggio di riconoscere alcune sensazioni, e accendere la candela che c’è in noi e
lasciarla sciogliere, ‘farla bruciare’ più lentamente o veloce
possibile; ma che bruci… Tutti abbiamo commesso errori e
pagato le conseguenze soffrendo, ma ciò non significa che
si è condannati a sopravvivere in una forma di vita che non
ci si addice indossando una maschera. Come affermava
Luigi Pirandello, quella maschera che schiaccia la vera personalità, che non dà libertà di essere.
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Poi sul molo è silenzio
In merito al silenzio, una poesia di Emily Dickinson, ispirata e dominata dal silenzio, è stata suggerita da Tiziana
Carlino.
Where Ships of Purple – gently toss –
On Seas of Daffodil –
Fantastic Sailors – mingle –
And then - the Wharf is still!
Dove navi di porpora oscillano – dolcemente –
Su mari di giunchiglia –
Dei marinai fantastici – si aggirano –
Poi - sul molo è silenzio!
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Indice
Premessa
Condivisione e sentimenti
Pensiero e linguaggio
3
In attesa della morte
Ivana Carandente
5
Il respiro del mondo
Mirko Vamvakinos
7
Hardware e software
Alcuni interrogativi
Il nomadismo
Mirko Vamvakinos
Giovanni Armenio
Il saggio è senza idee
La parola nuova
Il gesto di Eva
Sarah Kane
René Char
Nicoletta Fossa
Luca Moretti
Valentina Punzi
Raffaella Iaconantonio
Ivana Carandente
Rossella Di Felice
Una nuova forma di ascolto
Il dolore. La vita è adesso
Il silenzio che esprime
Gli haiku di Basho
17
19
21
27
29
Rossella Di Felice
Linguaggio e azione
15
23
Irene Tortorella
Una poesia di Ungaretti
11
13
Rossella Di Felice
Le parole come autoinganno
9
Valentina Punzi
Antonio Abbate
Fabio Pariante
Nicoletta Fossa
31
35
37
47
49
Identità di straniero
53
Fiammetta Rutoli
55
Nicoletta Fossa
Esilio, morte, memoria
Raffaella Iaconantonio
Rossella Di Felice
69
Francesca Aufiero
71
Vocazione di Abram
Che cos’è il dolore
Antonio Abbate
Ivana Carandente
77
79
Roberta Lipari
81
Nicoletta Fossa
83
Rossella Di Felice
Jabès e la Cabala mistica
73
75
Raffaella Iaconantonio
Il libro della sovversione non sospetta
Jabès e la via
67
Valentina Punzi
La vera ricchezza è la ricchezza del cuore
Su Antonio
63
65
Martina Caschera
La scrittura e il deserto in Jabès
Il silenzio dell’uomo
59
Letizia Di Mitrio
Le parole come maschere
Pensiero e disegno
57
Roberta Lipari
L’esperienza del dolore
Perché il dolore?
51
Letizia Di Mitrio
85
Dario De Cesare
La condivisione impossibile di Jabès
Fortuna Balzano
Su “Jabès e la Cabala” di Dario De Cesare
Su “Jabès e la Cabala” di Dario
93
Nicoletta Fossa 97
Tiziana Carlino
99
BUONO
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Il silenzio
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Pagina 150
101
Raffaella Iaconantonio
La tentazione nel giardino dell’Eden
Silenzio, parole, scrittura
Silenzio e parole
Fortuna Balzano
Martina Caschera
Francesca Aufiero
111
Annaapaola Mazzoccoli
113
La crisi del linguaggio e il silenzio
“La peste” di Camus
115
Ivana Carandente
Il Libro delle interrogazioni
L’esperienza del dolore
105
109
Fortuna Balzano
Parola detta e parola cantata
103
Alessandra Bruno e Chiara Minieri
117
121
Lina D’Angelo
Passione e autonomia nella scrittura di Jabès Maiko Siano 125
Osservazioni su Maiko Siano
Tiziana Carlino
Il Libro della sovversione non sospetta
Disponibilità e ospitalità
Irene Tortorella
Luca Moretti
Dolore, compassione, e altri temi
Giovanna Sodano
129
131
133
135
La cultura mediterranea nel “Libro delle
interrogazioni” di Jabès
Caducità e dolore
Irene Tortorella
Angelica Cionini
Dolore e reazione al dolore
Poi sul molo è silenzio
Fabio Pariante
139
141
145
147