Canned Heat - Sound and Music

Transcript

Canned Heat - Sound and Music
MUSICA IN VINILE
Canned Heat
Quarantasette: tanti i componenti transitati per le fila di un gruppo appena entrato nel quarantasettesimo anno di vita, che è vero che è dal 2007
che non pubblica più dischi ma in fondo non ha necessità di farlo. A garantirgli quanti concerti desidera provvedono il prestigio del brand e un
repertorio vastissimo con al centro due brani che chiunque conosce (sebbene non necessariamente dagli artefici). E potrà parere discutibile che la
sigla continui a vivere portata in giro principalmente da due membri che
in senso stretto non possono essere definiti “originali”, ma i Canned Heat
ebbero sin da subito una storia talmente complicata che non ha molto senso appiccicare l’etichetta suddetta a gente il cui passaggio nei ranghi fu
fulmineo. Né mettersi a disquisire se bisogna considerare come prima formazione legittimata a dirsi fondatrice
quella che nel 1966 registrò un album prodotto da Johnny Otis e rimasto inedito fino al ’70 o piuttosto quella che, l’anno dopo, pubblicò infine su Liberty l’omonimo
esordio a 33 giri. Per tutti i fan “i” Canned
Heat sono i cinque che fra ottobre e novembre sempre del 1967 mettevano mano
al secondo ed epocale album, “Boogie
With”, che raggiungeva i negozi, sempre
griffato Liberty, nel gennaio ’68: Bob “The
Bear” Hite alla voce, Alan “Blind Owl”
Wilson all’armonica e alla slide, Henry
“Sunflower” Vestine alla chitarra solista,
Larry “The Mole” Taylor al basso, l’ultimo
arrivato Adolfo “Fito” de la Parra alla batteria. Blind Owl sarà il primo ad andarsene, il 3 settembre 1970, ventisettenne, e a
oggi non si sa se l’overdose di pasticche
che lo stroncava fu accidentale o un suicidio (più plausibile la seconda, considerando la depressione che notoriamente lo affliggeva pure all’apice delle sue fortune di
rockstar e due precedenti tentativi di togliersi la vita). The Bear lo seguirà il 5 ottobre 1981, trentottenne, ed era un infarto
(comunque probabilmente propiziato da
certe cattive abitudini) a portarselo via. Era un collasso cardiopolmonare a uccidere il 20 ottobre 1997 Sunflower, a poche
settimane dal suo cinquantatreesimo compleanno. E dunque qualcuno può dire qualcosa ai due attempati ragazzi della
sezione ritmica se sono loro oggi a gestire la gloriosa ragione sociale? Nessuno può vantare su di essa più diritti e in ogni
caso la squadra attuale schiera anche un terzo componente, vale a dire il chitarrista Harvey “The Snake” Mandel, che frequenta la compagnia non da ieri: dal festival di Woodstock, addirittura, cui partecipava in sostituzione di Vestine e che
marcava per i Canned Heat l’apice di una popolarità non solo nordamericana. La loro “Going Up The Country”, che nel
film che immortala la tre giorni primigenia di pace, amore e musica svolge funzione di tema conduttore, pochi mesi prima era stata undicesima nella graduatoria USA dei singoli e numero uno in venticinque-dicasi-venticinque altri paesi.
Tratta dal terzo lavoro dei Nostri, il monumentale in tutti i sensi “Living The Blues”.
Ecco… pochi bianchi hanno vissuto il blues con la passione, con l’intensità brucianti di Alan Wilson e Bob Hite, musicologi prima che musicisti, accaniti collezionisti di dischi (in una celebre apparizione televisiva del novembre 1969 il secondo dichiarava di possedere oltre quindicimila 78 giri) che a un certo punto si mettevano a fare dischi loro più che
per cercare gloria per sé per propagandare l’opera di spesso dimenticati eroi. Tant’è che il debutto “Canned Heat” era
composto esclusivamente da cover: di Muddy Waters e Willie Dixon, Robert Johnson via Elmore James e Guitar Slim,
Sonny Boy Williamson II e Floyd Jones, Tommy Johnson, William Harris e Robert Petway. Ma si fossero fermati a quello i Canned Heat non sarebbero stati il grandissimo gruppo che furono per tre anni e almeno altrettanti album e insomma fino alla prematura dipartita di colui che un genio di norma avaro di complimenti quale John Lee Hooker definì “un
bravo chitarrista ma soprattutto il migliore armonicista ch’io abbia mai sentito”. Non di Chicago, come si sarebbe potuto scommettere ascoltando il primo LP, bensì californiani, i Canned Heat non potevano non restare influenzati da quanto andava accadendo loro intorno, in primis dalla fitta rete di contatti con la scena psichedelica e i suoi immediati dintorni (Vestine arrivava dalle Mothers Of Invention, Stuart Brotman era uno di loro prima di entrare nei Kaleidoscope,
idem Mark Andes prima di finire negli Spirit). Già in “Boogie With” il modo di approcciare le dodici battute risultava sì
rispettoso della tradizione ma nel contempo ardito, progressivo. Se sotto “My Crime” potrebbe esserci scritto “Muddy
Waters” ed era invece la prima composizione originale ad apparire in un disco dei Nostri, la “Evil Woman” (da Larry
Weiss) che la precede ha mordente hard, così come “World In A Jug” o una squillante e affilata, autobiografica oltre che
autografa, “Amphetamine Annie”. Se “An Owl Song” si guarda indietro corteggiando il vaudeville, lampi aciduli screziano una caracollante “Turpentine Moan”, una “Whiskey Headed Woman No.2” dal borbogliante al fragoroso e la
lunga (oltre undici minuti) e apposta a suggello “Fried Hockey Boogie”. Ma è questo innanzitutto l’album di “On The
Road Again” e devo forse raccontarvela? Era la canzone che spalancava al blues le porte del mercato del pop e per una
volta il diavolo oltre alla pentola faceva il coperchio.
“Boogie With” è da poco disponibile in una “limited edition” marchiata Pure Pleasure e distributa in Italia, come il resto
del catalogo della casa britannica, dalla toscana Sound & Music. È un’ottima stampa, dal vinile così silenzioso da farsi
immateriale e dalle sonorità limpide e terrigne insieme, di un’asciuttezza che non degenera in aridità.
Eddy Cilìa
100
AUDIOREVIEW n. 321 aprile 2011
Classica
LUDVIG VAN BEETHOVEN Concerto triplo (Hi-Q/Sound & Music)
Questo Concerto di Beethoven è “triplo” nel senso in cui prevede tre solisti, violino, violoncello
e pianoforte. Si tratta quindi di una configurazione, quella del trio con pianoforte e orchestra,
praticamente unica, che tuttavia ha radici nella “sinfonia concertante”, una sorta di concerto
con più di un solista (vedi il caso di Mozart con la sua sublime pagina per violino, viola e orchestra) abbastanza diffusa nel periodo classico. La fortunata serie “Hi-Q” ripropone in vinile
di alta qualità la più celebre tra le esecuzioni di questo Concerto in una storica incisione del
1969 che ancora oggi rimane una pietra miliare della discografia di qualità per la straordinaria
valenza degli interpreti. David Oistrakh, Mstislav Rostropovich e Sviatoslav Richter appartengono infatti all’Olimpo musicale della seconda metà del Novecento, interpreti ciascuno dotato
di forte personalità, qui riuniti in un’incisione targata EMI sotto la direzione di Karajan. Di pari
eccelso livello l’orchestra di “accompagnamento”, una Filarmonica di Berlino che suona al migliore standard di quegli anni, con uno smalto oggi inarrivabile così come documentato da decine di registrazioni di quel periodo.
Le nuove pubblicazioni classiche su disco nero hanno una marcia in più, nel senso di poter andare a scegliere il meglio di un repertorio davvero vasto. Le incisioni degli anni Sessanta e Settanta che più volte abbiamo raccontato in queste pagine, lungi dal rappresentare soltanto una chicca per pochi audiofili appassionati di vinile, entrano di diritto in una discografia classica fondamentale. Sono esecuzioni “distillate” dal tempo, grazie a decenni che hanno filtrato il mediocre per lasciar posto alle cose davvero importanti. In questo senso parlare di vinile,
oltre ad offrire una sorgente di alto profilo sonoro al proprio impianto, costituisce soprattutto un mezzo per avvicinarsi (o riavvicinarsi, se del caso) alla produzione discografica di quell’era “d’oro” in cui c’erano da un lato i grandi interpreti, dall’altro le case discografiche in grado di realizzare importanti incisioni, curate sotto ogni dettaglio.
Il Concerto Triplo viene pubblicato nel 1807 con il titolo di “Grande Concerto Concertante”, ma la sua stesura risale
a qualche anno prima (1803-1804), coevo di una pagina decisiva come la Sinfonia “Eroica”. Si tratta molto probabilmente di una pagina scritta su commissione, per mettere in risalto l’abilità al pianoforte di un illustre allievo di
Beethoven, l’arciduca Rodolfo d’Austria. Meno frequentato rispetto ad altre più celebri pagine del genio di Bonn,
risulta tuttavia di immediata piacevolezza, richiedendo tre solisti d’eccezione, con particolare riguardo alla parte
del violoncello. Brillante ed estroverso, il “Triplo” si conclude con un incisivo “Rondò alla Polacca”, dal carattere
esuberante, musica socialmente garbata di alto “intrattenimento” che pur non rivoluzionaria appartiene pur sempre al grande Beethoven. Al tempo della registrazione, ciascuno dei protagonisti di questa edizione era già un solista di fama internazionale. Si intuisce in questa “riunione di stelle” anche l’intento commerciale di questa pubblicazione, con Karajan sempre attento imprenditore musicale. È un concerto di solisti supportato da un’orchestra inarrivabile, con la regia di un Karajan che in quegli anni era al massimo dello splendore. Si potrà discutere (e infatti se
ne discute) sull’intesa tra gli interpreti, su presunte rivalità, su un suono sin troppo levigato e curato che sembra di
origine sovrumana. Bazzecole. È una pagina da non mancare che in questa stampa è resa con la trasparente lucentezza delle migliori occasioni. L’incisione del settembre 1969 è stata effettuata nella Jesus-Christus Kirche di
Berlino, luogo mitico di alcune grandi registrazioni di Karajan. Da ascoltare senza riserve.
Per dovere di cronaca non possiamo non dire dell’unica attendibile alternativa, anch’essa una storica lettura dei primi anni Sessanta realizzata in casa Deutsche Grammophon con la direzione del grande direttore ungherese Ferenc
Fricsay, la cui morte nel 1963 a soli quarantotto anni privò il mondo musicale di un esecutore formidabile. Anche in
questo caso un terzetto formidabile di solisti con Schneiderhan al violino, Fournier al violoncello, Anda al pianoforte. Anche di questa edizione è disponibile la ristampa in vinile 180 grammi.
Marco Cicogna
Jazz
NINA SIMONE Newport (Doxy/Goodfellas); At Carnegie Hall (Pure Pleasure/Sound & Music)
Non si sa mai dove collocarla Nina Simone. Di solito nelle enciclopedie la catalogano alla voce
“jazz”, io negli scaffali di casa l’ho sistemata nel settore del soul e lei, che artisticamente era nata
come concertista di musica classica, detestava entrambe le etichette. Salvo poi suonare e cantare
con grande disinvoltura il folk e il blues come il gospel o lo spiritual o l’errebì, o inventarsi una
perfetta canzone pop. Pianista sublime e ultima di una serie di grandi voci femminili che ha incluso Billie Holiday, Ella Fitzgerald, Dinah Washington, la donna nata nel 1933 come Eunice
Kathleen Waymon e scomparsa nel 2003 sapeva confrontarsi con la medesima disinvoltura con
Kurt Weill e i Bee Gees, Jacques Brel e Screamin’ Jay Hawkins, è stata coverizzata dagli Animals,
campionata da mezza nazione hip hop, idolatrata da Jeff Buckley che da lei (si confrontino le due
“Lilac Wine”) imparava forse più che dal padre.
In una discografia che comprende svariate decine di titoli (la signora pubblicava il suo primo
album nel 1958, l’ultimo di inediti nel ’93) impressiona la percentuale dei live: oltre un terzo
del totale e naturalmente, non trattandosi di rock, non è con banali raccolte di successi che si
ha a che fare e anche quando certi brani ritornano è sempre in interpretazioni che differiscono
grandemente l’una dalle altre. Freschissimo di ripubblicazione a venti euro da parte della
DOXY (che acclude alla confezione a prezzo invariato anche una versione in CD che può far
comodo volendoselo portare a spasso) “At Newport” usciva nel 1960 ed era formalmente il secondo LP dal vivo della Simone. In realtà in senso stretto il primo, visto che nel precedente “At
Town Hall” diverse canzoni erano state rencise in studio. È una delle collezioni della nostra
eroina più festose e dense di blues, con al centro il guizzo afro di “Flo Me La”. Tre anni dopo e
abbastanza prevedibilmente visto il luogo dove veniva registrato, “At Carnegie Hall” (pur’esso appena ristampato e che di eurelli ve ne costerà trentacinque) preferiva all’esuberanza la
raffinatezza, rasentando la cameristica in “Theme From Samson And Delilah” e (per una rara
volta) l’oleografia in “Theme From Sayonara”. Ammesso ci fosse qualcosa da farsi perdonare,
provvede una favolosa esecuzione in medley di “The Other Woman” e “Cotton Eyed Joe” in
transito dall’accorato al favolistico. Incisioni ottime per l’epoca.
Eddy Cilìa
AUDIOREVIEW n. 321 aprile 2011
101