MISCELLANEA 2003 2004 - Liceo Ginnasio Statale Orazio
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MISCELLANEA 2003 2004 - Liceo Ginnasio Statale Orazio
LICEO CLASSICO “ORAZIO” ROMA Miscellanea di Saggi e Ricerche D’AVINO - ARCURI - BALDANZA BLARZINO - CARINI - CRITELLI - DE LIGUORI FIERRO - JANKOWSKI - MARCHETTI a cura di Mario Carini N. 1 ANNO SCOLASTICO 2003-2004 Stampa: Tipolito Istituto Salesiano Pio XI Via Umbertide, 11 - 00181 Roma Tel. 06.7827819 - E-mail: [email protected] Finito di stampare: Febbraio 2005 INDICE Prefazione .............................................................................. 5 Introduzione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 7 Note biografiche sugli autori ....................................................... 11 GIUSEPPE D’AVINO, Sul metodo apologetico nella prima Apologia di S. Giustino . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 15 DONATELLA ARCURI, Il Giorno della memoria e gli anni dell’oblio ......... 30 GIAMBATTISTA BALDANZA, Il linguaggio come humanitas . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 35 ANDREA BLARZINO, Per un approccio alla letteratura latino-americana. Ernesto e Garabombo: due personaggi tra mito e storia . . . . . . . . . . . . . . . . . 39 MARIO CARINI, L’evoluzione dell’imperium dalla prima età repubblicana ad Augusto . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 50 MARIO CARINI, Incontri e scontri di civiltà tra antico e moderno . . . . . . . . . . . . 81 ∼θoς e Λóγoς nella riflessione greca dalMARIA GABRIELLA CRITELLI, Μυ l’età arcaica all’Ellenismo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 127 EDMONDO DE LIGUORI, “Spegnere il fuoco con il fuoco”: fenomenologia della vita e filosofia della tragedia . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 139 LICIA FIERRO, Note di varia umanità: le passioni, la trasgressione, l’utopia, i mirabilia . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 155 CLAUDIO JANKOWSKI, Fare teatro. Perché? ....................................... 163 GIOVANNI MARCHETTI, La società dei consumi: origini, evoluzione, aspettative . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 165 PREFAZIONE Nel presentare il primo volume della Miscellanea di studi e ricerche ci sembra opportuno cominciare questa breve prefazione rifacendoci all’etimologia del termine “miscellanea”: esso, com’è noto, viene dall’aggettivo latino miscellaneus (“misto, vario”) ed è impiegato (al femminile singolare) per indicare una raccolta di scritti di vario argomento, non legati da un tema conduttore. Tale potrebbe essere, prima facie, anche il carattere di questa raccolta di scritti, la prima edita dal nostro Istituto. In realtà la varietà dei contributi non è indice, a ben vedere, di frammentazione o di mancanza di organica sistematicità, giacché i lavori presentati sono articolazione di un progetto unitario. La pubblicazione, infatti, si configura nella poliedricità dei contributi come l’insieme delle tessere che nella loro composizione rivelano il ben progettato e definito disegno di un mosaico. Come le tessere di un mosaico svelano nel loro insieme il disegno progettato, così i vari lavori presentati si affacciano, ciascuno dal punto di vista del suo autore, da prospettive diverse nel medesimo orizzonte culturale e sono orientati verso uno stesso fine: la promozione della crescita integrale e della maturazione dell’alunno inteso come persona. Questa pubblicazione si rivolge anzitutto agli studenti, perché essi rivestono un ruolo di centralità in tutti i nostri processi didattici ed educativi. In questo senso non dubitiamo che gli alunni, troppo spesso lettori passivi o demotivati di testi legati allo svolgimento di programmi scolastici tradizionali, possano trarre motivo di interesse dalla ricchezza dell’offerta culturale presentata da questi lavori, che segna il superamento di certi stereotipi legati a una visione eccessivamente rigida e conseguentemente riduttiva dei saperi. La presente pubblicazione è, dunque, un invito rivolto agli studenti affinché si abituino a superare i confini ancora rigidamente attribuiti alle singole discipline per inoltrarsi in esperienze culturali nuove e significative. Molti dei lavori presentati nascono, infatti, da esperienze condotte in prima persona dai docenti. Ciò può offrire perciò la possibilità di instaurare, in modo diverso, un dialogo con il docente stesso, arricchendolo di nuovi significati, perché finalmente può essere superata la forzata e restrittiva identificazione del professore, della sua personalità e dei suoi interessi che si esplicano al di là della dimensione prettamente didattica, con il ristretto ambito della materia curricolare. Inoltre, anche i contributi più specialistici (ma tutti perfettamente fruibili da giovani lettori liceali) non possono essere meramente identificabili con la reduplicazione di una spiegazione scolastica, sia pur approfondita, ma offrono una significativa esemplificazione di quella che è la metodologia scientifica nel fare ricerca, la quale in questo caso si propone di sollecitare la curiositas dei giovani, stimolandone le domande e le riflessioni sui temi oggetto d’indagine. A maggior ragione, nella nostra società ormai orientata dalle ben note trasformazioni sociali in – 5 – senso di apertura multiculturale, sarebbe certamente anacronistico che l’alunno si limitasse a percepire la complessa fenomenologia della realtà soltanto dalla voce monocorde del proprio docente, senza poter fruire della ricchezza che nasce dal venire a contatto con una molteplicità di voci diverse, esistenti nella scuola ma non tutte note agli alunni. Riteniamo che anche per i docenti aver contribuito alla realizzazione di questo volume miscellaneo abbia dato loro più netta la percezione di essere impegnati nella realizzazione di una finalità comune. Questa finalità è la costruzione, attraverso la trasmissione di contenuti culturali, di una piattaforma di saperi in grado di abilitare l’alunno ad essere consapevole che lo sviluppo della propria politicità (termine che richiama la πóλις, quale comunità civilmente organizzata), ossia il raggiungimento del ruolo di cittadini attivi, si fonda sulla conoscenza, intesa come la capacità di interpretare il proprio tempo: attivare un processo ermeneutico di decodificazione della realtà attraverso l’individuazione delle ragioni dell’agire umano che permeano i fatti della vita. Questa pubblicazione, inoltre, ci spinge a considerare che come i singoli lavori rischierebbero di costituire un patrimonio isolato, disperso e talvolta misconosciuto, ma uniti in un volume unico sono la concreta e visibile realizzazione delle finalità comuni sopra elencate, così il lavoro dei docenti nella nostra scuola, se isolato e chiuso nell’ambito della propria classe, rischierebbe di affievolire l’efficacia formativa. È solo l’unione di tutti i contributi, intesa come la sinergia del lavoro e degli obiettivi dei docenti, che può consentire la circolazione e lo scambio costruttivo dei saperi. Infine un’ultima considerazione che è anche un augurio: come editare, ossia pubblicare, deriva dal verbo latino e-dere, che ha il doppio significato di “pubblicare” e “dare alla luce, far nascere”, ci auguriamo che questa pubblicazione, ultima nata nella nostra scuola, sia un’iniziativa destinata a durare nel tempo e ad essere conosciuta oltre i nostri “orizzonti oraziani”. Giuseppe D’Avino Preside del Liceo Classico “Orazio” – 6 – INTRODUZIONE Tra le varie iniziative che hanno caratterizzato la vita del nostro istituto in questi ultimi anni, il presente volume, che vede la luce dopo una lunga preparazione, non solo rappresenta una novità, ma si richiama anche ad una tradizione oggi forse eclissata dalle mode pedagogiche dei tempi, quella della pubblicazione degli annuari scolastici (anche se da essi si distacca in parte, perché non contiene notizie relative al personale dell’Istituto – docenti, non docenti, alunni – né alle attività svolte durante l’anno scolastico). Come il titolo Miscellanea di saggi e ricerche dichiara, si tratta, propriamente, di una raccolta di saggi di carattere scientifico, culturale, didattico e professionale, di contributi nati dalla riflessione e dall’esperienza dei Colleghi del Liceo “Orazio”. La pubblicazione si rivolge dunque a studenti e docenti, che potranno sperabilmente trovarvi spunti per ricerche, approfondimenti o aggiornamenti nella loro e nelle altre discipline. Non solo, ma dalla prospettiva stessa dei docenti, essa potrebbe essere considerata anche quale una delle molteplici forme di risposta, prodotta all’interno della scuola stessa, all’esigenza sempre più avvertita dagli insegnanti di una (auto-)formazione permanente.1 La miscellanea si apre con un articolo del Capo d’Istituto, Giuseppe D’Avino, un lavoro giovanile riguardante la prima Apologia di S. Giustino (110-165 circa): Appunti sul metodo apologetico nella prima Apologia di S. Giustino. L’autore presenta le sue osservazioni sullo stile apologetico, in particolare sulla tecnica difensiva seguita nell’opera, esaminando la struttura del contenuto e le argomentazioni addotte in ciascuna delle parti per confutare le accuse rivolte ai cristiani e per dimostrare la verità della fede in Cristo, ed insieme offre alcuni importanti elementi per inquadrare la personalità e l’opera del grande apologista greco. Va precisato che questo lavoro, rimasto provvisoriamente sviluppato in forma di appunti, è stato concepito come preliminare ad una ricerca più approfondita e completa dei necessari aggiornamenti nella problematica relativa al testo di Giustino e nella bibliografia. Segue l’articolo di Donatella Arcuri, Il Giorno della Memoria e gli anni dell’oblio: in esso l’autrice espone le sue riserve sulle modalità con cui nella scuola viene oggi svolta la commemorazione della Shoah, rilevando che la spettacolarizzazione mediatica ha ormai banalizzato i contenuti di questa giornata. La Giornata sembra pertanto essersi ridotta ad uno dei tanti eventi rituali che riempiono il palinsesto delle celebrazioni e commemorazioni dell’annata scolastica, con scarsa o nessuna incidenza effettiva nella coscienza dei nostri giovani studenti (proprio 1 Sulla necessità di una formazione permanente avvertita dai docenti, vd. Associazione TreeLLLe, Quali insegnanti per la scuola dell’autonomia?, Quaderno n. 4, luglio 2004, pp. 60-62. – 7 – mentre, aggiungiamo noi, accanto al diffondersi di tesi revisioniste o addirittura negazioniste sul genocidio degli Ebrei, sta risorgendo, in forme talora abilmente dissimulate, un nuovo, odioso antisemitismo).2 Lo scritto di Giambattista Baldanza (Concetto Marchesi: il linguaggio come humanitas) è, come dice il titolo, un ritratto commemorativo, condotto sul filo della memoria, del grande latinista catanese (1878-1957), la cui celebre Storia della letteratura latina ha formato generazioni di giovani studenti e di studiosi.3 Il ritratto che ne emerge non è tanto quello del critico geniale ma talvolta bizzarro (anche se la sua “minestra coi sassi di mare” potrebbe forse autorizzare questa immagine) quanto quella di un animo innamorato della semplicità e al contempo della raffinatezza, ed impegnato idealmente e civilmente nel senso più alto, contro l’ingiustizia e la menzogna.4 Nel suo articolo Per un approccio alla letteratura latino-americana. Ernesto e Garabombo: due personaggi in cerca d’autore, Andrea Blarzino traccia un’analisi di due personaggi della narrativa peruviana: il giovane Ernesto, protagonista de I fiumi profondi di José María Arguedas (1911-1969), e l’“invisibile” Garabombo (in Storia di Garabombo, l’Invisibile, di Manuel Scorza, 1928-1983), soprannome di Firmín Espinoza, leader, tra cronaca e leggenda, delle lotte dei campesinos per la riconquista delle loro terre nel Perù degli anni Cinquanta. Le vicende di entrambi i personaggi si dipanano sullo sfondo del rapporto conflittuale e spesso tragico tra mondo dei bianchi e mondo indigeno, in un contesto socio-culturale meticcio ricco di suggestioni magico-oniriche. Nella miscellanea sono presente con due lavori. Il primo (L’evoluzione dell’imperium dalla prima età repubblicana ad Augusto) è una ricerca di storia costituzionale romana sull’evoluzione del concetto di imperium dalle origini di Roma, 2 Sulle manifestazioni del nuovo antisemitismo, talvolta camuffato sotto la maschera del progressismo filoarabo, vd. la raccolta di articoli di FIAMMA NIRENSTEIN, L’abbandono. Come l’Occidente ha tradito gli ebrei, Rizzoli, Milano 2003. Impressionante è, poi, il numero delle manifestazioni antisemite (culminanti in vere e proprie aggressioni agli studenti ebrei), avvenute nelle scuole francesi, contenuto nel Rapporto sulla laicità della Commissione Stasi, che ha elaborato le indicazioni per la discussa legge Chirac sui simboli religiosi (più di 200 atti e 730 minacce antisemite registrate dal ministero dell’Interno nel 2002: vd. COMMISSIONE STASI, Rapporto sulla laicità. Velo islamico e simboli religiosi nella società europea, trad. di L. Cisbani e della redazione Libri Scheiwiller, Libri Scheiwiller, Milano 2004, pp. 62-63). 3 Un significativo giudizio, sia pur datato ma sempre valido, sulla Storia della letteratura latina di Concetto Marchesi, in riferimento alla tradizione della storiografia letteraria, è quello di FRANCESCO DELLA CORTE, Storie delle letterature classiche, in AA.VV., Introduzione allo studio della cultura classica, vol. I, Marzorati, Milano 1972, p. 10. 4 L’aspirazione alla giustizia ed insieme la compassione per i deboli e gli oppressi traspaiono soprattutto nelle pagine di quel piccolo capolavoro del Maestro catanese che è Il libro di Tersite (Mondadori, Milano 19503, pp. 11-16): si veda in apertura il ricordo della morte del gallo della piccola Maria e le conseguenti riflessioni. – 8 – quando esso significava il potere del supremo magistrato (che venne poi definito nei suoi limiti domi e militiae), fino ad Augusto, che lo trasformò, estendendone oltre misura i limiti e le competenze, nell’imperium proconsulare maius et infinitum, e lo rese così uno dei cardini del principato. Nel secondo lavoro (Incontri e scontri di civiltà tra antico e moderno), strutturato in due parti, si fissa l’attenzione su due provvedimenti legislativi, una costituzione imperiale e la recente legge Chirac, appartenenti ad epoche ben diverse (la tarda antichità e i nostri giorni), che hanno però ad oggetto un’analoga disposizione: il divieto di indossare uno specifico capo di abbigliamento, rispettivamente le bracae e il velo islamico. Prendendo l’avvio da queste disposizioni, si passa a trattare della complessa problematica (in termini di acculturazione e integrazione) suscitata dall’incontro tra le diverse civiltà, nell’un caso tra la Romanità e la Barbarie, nell’altro tra l’Occidente e l’Islam. Maria Gabriella Critelli, docente che ha insegnato nel nostro liceo nell’anno scolastico 2003/2004, ha contribuito alla Miscellanea con il suo articolo dal titolo Μυ∼θος e Λόγος nella riflessione greca dall’età arcaica all’Ellenismo. Attraverso la sua ricerca l’autrice mette in rilievo le caratteristiche dell’evoluzione del pensiero greco attorno ai grandi temi della realtà e dell’esistenza umana, imperniandone lo sviluppo nelle tre tappe fondamentali: l’origine del mito come prima forma di indagine sulla natura, l’origine della filosofia come riflessione razionale (nell’età classica), la differenziazione tra scienza e filosofia (nell’età ellenistica). Edmondo De Liguori affronta nel testo “Spegnere il fuoco con il fuoco”: fenomenologia della vita e filosofia della tragedia (oggetto di una relazione tenuta dall’autore al convegno internazionale dedicato a Michel Henry, Michel Henry: La philosophie et son histoire, svoltosi a Parigi, dal 20 al 22 novembre 2003, presso l’Université Paris IV Sorbonne) la complessa problematica relativa al pensiero di Michel Henry (1922-2002) uno dei maggiori pensatori francesi degli ultimi cinquant’anni, protagonista della cosiddetta “svolta teologica” della fenomenologia, secondo una prospettiva religiosa. L’autore prende in esame l’interpretazione henryiana della filosofia della tragedia di Nietzsche in funzione del problema del rapporto tra “vita” e rappresentazione, e rileva, attraverso l’opera d’arte tragica, il ruolo dell’esperienza estetica nella possibilità di rappresentazione della “vita” (tema peculiare del pensiero di Henry, che coniuga le istanze di Husserl con quelle dei mistici cristiani), condizione originaria dell’apparire, «pura affettività che sente se stessa nelle sue modalità più originarie che sono il godere e il soffrire». Licia Fierro propone in una serie di note sparse alcune riflessioni sulle passioni, sulla trasgressione e sull’utopia (Note di varia umanità: le passioni, la trasgressione, l’utopia, i mirabilia). Nelle prime due note (Discorso minimo sulle passioni e L’età della trasgressione) l’autrice, richiamandosi al pensiero di grandi maestri quali, fra gli altri, S. Agostino, Kant e Bergson, stigmatizza mode e comportamenti indotti dalla nostra società “meccanizzata e alienata”. Nella terza nota (... e se – 9 – morisse l’utopia?) la docente rileva i caratteri e i limiti delle costruzioni dei teorici dell’utopia, da Moro a Marcuse, per concludere individuando nell’impegno dei movimenti di lotta al sottosviluppo e all’emarginazione la possibilità di realizzare finalmente il sogno di una democrazia compiuta. La quarta e ultima nota, di carattere erudito-antiquario (Nel DNA dell’uomo ci sono anche i “mirabilia”?), solletica la curiositas del lettore, con la descrizione di quelle misteriose creature animali e vegetali, tratte dall’operetta pseudoaristotelica De mirabilibus auscultationibus, e confluite, poi, assieme ad altri monstra, nei Bestiarii medievali. Lo scritto di Claudio Jankowski (Fare teatro. Perché?) propone una riflessione, a partire dalla sua esperienza di regista teatrale, sulla validità della recitazione, dal punto di vista emozionale e affettivo, per le persone portatrici di handicap, che nell’interazione con gli altri ritrovano capacità vitali e affascinanti. La scena, secondo l’autore, si palesa dunque quale luogo ideale per un’azione liberatoria, terapeutica ed educativa. Alla società dei consumi fa riferimento il lavoro di Giovanni Marchetti (La società dei consumi: origini, evoluzioni, aspettative), per tracciarne la storia dalle origini alla post-modernità. L’autore ripercorre, in una narrazione che lega la storia dei consumi a determinate epoche e climi storico-culturali, le prime forme di circolazione delle merci di valore (il sale nell’antichità, il pepe e le spezie nel Medio Evo, il caffé e la cioccolata nel Seicento, riflesso l’uno della nordica ascesi protestante, l’altra della corporeità barocco-cattolica), l’ascesa della società borghese, l’affermarsi delle figure del mercante poliedrico e del banchiere contestualmente alla nascita del capitalismo, la diffusione dei consumi di massa nel Novecento. Chiudono il lavoro alcune riflessioni sull’azione deleteria delle odierne forme di pubblicità nella psiche giovanile, sull’illusorietà della corrispondenza tra aumento dei consumi e felicità, sulle prospettive di diffusione di una economia etica, che non abbia per fine il solo profitto, e sulle nuove forme di consumo equo e solidale. Concludendo questa breve introduzione, esprimo la più sincera gratitudine a tutti coloro che hanno aderito all’iniziativa e con i loro contributi hanno felicemente e generosamente collaborato (generosamente, vorrei ripetere, perché preparare un articolo per la Miscellanea significa un onere aggiunto ai normali obblighi scolastici) alla riuscita di questo volume, sperabilmente il primo di una serie. Soprattutto tengo a ringraziare il Capo d’Istituto, prof. D’Avino, che ha avuto due anni or sono l’idea di questa miscellanea e me ne ha affidato la realizzazione: senza i suoi costanti e benevoli incoraggiamenti mai avrei potuto portare a termine l’iniziativa. Infine un ultimo ringraziamento va al Sig. Pietro Vespa e alle maestranze della Tipografia dell’Istituto Salesiano Pio XI, che, con gentilezza e pazienza, hanno profuso particolare cura nella realizzazione del nostro volume. Roma, dicembre 2004 Mario Carini – 10 – NOTE BIOGRAFICHE SUGLI AUTORI 1 DONATELLA ARCURI: laureata in Filosofia e successivamente in Sociologia, presso l’Università “La Sapienza” di Roma, insegna da molti anni Storia e filosofia nei Licei. Autrice di saggi storici e filosofici (su Gramsci, Simone de Beauvoir, Heidegger e diverse tematiche storiche di attualità) apparsi su riviste specializzate, e vincitrice di numerosi premi letterari, ha pubblicato una raccolta di racconti brevi presso l’Editore Rubbettino (La melagrana di Persefone, 2001). Da un suo racconto, Suicidio – vincitore del Premio Energheia, 1996 – è stato tratto un cortometraggio, vincitore, a sua volta, di alcuni premi nazionali. È membro del Comitato scientifico della rivista semestrale Sud Contemporaneo, e dell’Istituto Ugo Arcuri per la storia dell’antifascismo e dell’Italia contemporanea (provincia di Reggio Calabria), presso il quale svolge attività didattica e di ricerca. Lavora attualmente a una seconda raccolta di racconti. GIAMBATTISTA BALDANZA: nato nel 1949 a Roma, docente di Lettere in un liceo della capitale, ha pubblicato due volumi di versi, nonché alcuni scritti di interesse letterario. Ha pubblicato uno scritto di interesse storico sul Liberalismo negli anni della crisi e vari articoli su riviste letterarie. Ha partecipato inoltre a diversi concorsi di poesia segnalandosi sempre. Con Sento crescere l’alba è stato unico finalista, per la Poesia, nel Premio letterario “Scopri l’autore” 1990 (presidente della giuria Gabriele La Porta). Nel 2000, con Il canto delle Effemeridi, si è segnalato all’attenzione del grande pubblico. ANDREA BLARZINO: laureato in lingue e letterature straniere moderne (Spagnolo, Portoghese, specializzazione in letteratura ispano-americana), ricercatore nel 1990 all’Archivio de Indias, Siviglia, con borsa di studio del Ministerio de Cultura de España, ha seguito nel 1991 il Corso di perfezionamento in Didattica delle Lingue Straniere (Università di Roma). Dall’anno scolastico 1988/89 è insegnante di Lingua e Civiltà spagnola presso gli istituti di istruzione secondaria. Ha pubblicato articoli concernenti tematiche culturali latinoamericane (sul quotidiano Il Manifesto e la rivista Letterature d’America), è redattore di voci enciclopediche (Treccani), di un capitolo della Storia della civiltà letteraria ispano-americana (UTET), di alcune voci del Dizionario dei personaggi letterari (UTET), di recensioni per la rivista L’Indice. Parallelamente all’attività di insegnante, dal 1988 lavora come regista di documentari e 1 Le informazioni ci sono state cortesemente fornite dagli autori (n.d.c.). – 11 – collabora con la RAI anche come autore di programmi televisivi. Tra i numerosi documentari realizzati ricordiamo: “Marocco: un paese senza età” (prod. Nouvelles Frontières); “Scoprire l’Alto Jonio” (prod. G.A.L. Alto Jonio Cosentino); “Il Pineto, un parco a più voci” (Ass. all’Ambiente del Comune di Roma); “Una specie di mi” (Back-stage concerto FAO e Serena Dandini a Cuba); “L’avventura di Sibari” (nell’ambito del Progetto Leader 2 della Comunità Europea, prod. G.A.L. Alto Jonio Cosentino); “Riciclare ad Arte” (formazione e didattica creativa sul tema dell’ambiente, per il Comune di Roma); “Episodi d’arte contemporanea” (per Rai Educational). Ha collaborato ai testi di numerosi programmi Rai ed è stato, fra l’altro, anche autore dei recenti programmi di Raidue “L’ottavo nano” (Serena Dandini - Corrado Guzzanti), “Chiambretti c’è” (Boncompagni - Chiambretti), e, per Raitre, “Il caso Scafroglia” (Corrado Guzzanti). MARIO CARINI: laureato in lettere antiche e in giurisprudenza, docente di materie letterarie, latino e greco presso i licei ginnasi statali, si occupa di tematiche storico-giuridiche riguardanti la tarda antichità. Ha pubblicato il volume Due città per un poeta, saggi su Magno Felice Ennodio, Tringale editore, Catania 1989 (onorevole menzione al XLII Certamen Capitolinum, anno 1991). Presso l’Istituto di Diritto Romano dell’Università “La Sapienza” ha svolto una ricerca sulle leggi romano-barbariche. Suoi scritti sono apparsi sulle riviste: “Quaderni Catanesi di Studi Classici e Medievali”, “Atene e Roma”, “Nuova Secondaria”, “Aufidus”, “Cultura e Scuola”, “Rassegna di Cultura e Vita Scolastica”, “Civiltà dei Licei”, “Abstracta”, “Linea Treno”, “Nuovi Studi Fanesi”, “Intersezioni”, “Annali del Liceo classico A. di Savoia”. MARIA GABRIELLA CRITELLI: laureata in Lettere con indirizzo di Filologia classica all’Università “La Sapienza” di Roma, è stata Cultore della materia presso la cattedra di Letteratura latina del prof. Coccia. Si è specializzata in Conservazione di Manoscritti presso la Scuola Speciale per Archivisti e Bibliotecari della medesima Università. Ha frequentato la Scuola Vaticana di Paleografia, Diplomatica e Archivistica, conseguendovi il relativo diploma post lauream. Ha collaborato con la Biblioteca Vaticana e con la Biblioteca Nazionale di Roma per la catalogazione di alcuni fondi e la realizzazione del Catalogo dei manoscritti classici latini della Biblioteca Nazionale Centrale di Roma (in corso di stampa); ha lavorato, come supporto didattico, alla mostra Seneca. Mostra bibliografica e iconografica (1999) e come membro del comitato scientifico alla mostra-convegno I Manoscritti dal VI all’XI secolo posseduti dalla Biblioteca Nazionale Centrale di Roma. Ha pubblicato: Il Vittorio Emanuele 1630 della Biblioteca Nazionale Centrale di Roma: tra – 12 – beneventana e carolina, in “Annali della Scuola Speciale per Archivisti e Bibliotecari”, a. XVI, 2002; Cani di pietra. L’epicedio canino nella poesia del Rinascimento, a c. di Cristiano Spila, con traduzioni di M.G. Critelli e C. Spila, Quiritta, 2002; L’Hercules furens di Seneca (vv. 245-342; 362-374) nel Palatino greco 366 della Biblioteca apostolica Vaticana: una nuova segnalazione, in “Appunti romani di filologia”, 1, 2001; Ideologia e simbologia della natura nella Phaedra di Seneca, in “Rivista di Cultura Classica e Medievale”, 2, 1999; L’Arcadia impossibile: elementi di un’età dell’oro nella Phaedra di Seneca, “Rivista di Cultura Classica e Medievale”, 1-2, 1998. EDMONDO DE LIGUORI: ha studiato alla facoltà di Filosofia dell’Università “La Sapienza” di Roma dove si è formato presso la scuola di Emilio Garroni con il quale si è laureato con una tesi dedicata ai problemi del trascendentalismo kantiano, pubblicata, su sollecitazione dello stesso Garroni, nel 1988 dall’editore Bulzoni di Roma con il titolo Il problema interno della filosofia in Pantaleo Carabellese. Dal 1987 al 1992 ha insegnato Storia e Filosofia nella scuola legalmente riconosciuta “Istituto San Gabriele” di Roma; dal 1992/93 è docente di ruolo delle stesse materie nelle scuole statali come vincitore di concorso ordinario. Parallelamente all’insegnamento ha continuato l’attività di studioso collaborando con la cattedra di Estetica della Facoltà di Filosofia dell’Università “La Sapienza” di Roma attraverso lo svolgimento di seminari e convegni di filosofia dedicati in particolare alla fenomenologia post-husserliana: in questo ambito ha tradotto la raccolta di saggi del fenomenologo francese Michel Henry, Fenomenologia materiale, pubblicata presso l’editore Guerini e Associati di Milano nel 2001. Su Michel Henry ha svolto una relazione alla Sorbonne di Parigi nel novembre 2003. I suoi interessi si concentrano essenzialmente sui rapporti tra la filosofia e l’esperienza estetica soprattutto nelle configurazioni che quest’ultima ha avuto nel XIX e XX secolo con particolare riferimento ad autori e correnti di pensiero come Kant, Nietzsche, Heidegger, la fenomenologia, Deleuze e la filosofia della differenza. LICIA FIERRO: laureatasi in filosofia all’Università di Napoli, sotto la guida di vari maestri tra cui Aldo Masullo, svolge da molti anni con passione l’insegnamento di storia e filosofia nei licei classici. Collabora a giornali locali con articoli su varie tematiche culturali. Nel nostro Istituto ha svolto molteplici attività di collaborazione con la Dirigenza, ricoprendo incarichi di funzioni previste dal vigente ordinamento. Ha organizzato i cicli di conferenze, su temi di approfondimento culturale (La globalizzazione, anno scolastico 2001/2002; La giustizia, anno scolastico 2002/2003; Fedi e ateismo nella civiltà contemporanea, anno scolastico 2003/2004), che hanno visto la partecipazione di prestigiosi esponenti della società civile quali i giuristi Pietro Rescigno, – 13 – Giovanni Conso (già ministro della Giustizia nel governo Ciampi e Presidente della Corte Costituzionale), Francesco Paolo Casavola (Presidente emerito della Corte Costituzionale), il giornalista Maurizio De Luca, il Procuratore Nazionale Antimafia Pier Luigi Vigna, il filosofo Paolo Flores d’Arcais, il leader del movimento No Global Vittorio Agnoletto, il fisico Carlo di Castro, il vice Direttore Generale della Banca d’Italia Pierluigi Ciocca. CLAUDIO JANKOWSKI: laureato in lettere, in pedagogia, nel D.U.E.C. (Roma Tre), ha studiato presso lo Studio di Arti sceniche di Alessandro Fersen nel biennio 1974/76. Ha lavorato in teatro come regista interessandosi di scenografia, pittura e costruzione di maschere e di effetti speciali, lavoro quest’ultimo che ha alternato costantemente alla sua attività alla quale ha dedicato seminari, corsi e mostre. È stato aiuto-regista di alcuni importanti registi italiani ed assistente degli scenografi Roberto Francia e Bruno Garofalo. Ha collaborato tra gli altri con: Footsbarn Travelling Theatre, Alexander Jodorowski, Lindsay Kemp, Klaus Kinski, il Teatro Stabile di Roma. È stato assistente del prof. Ferruccio Di Cori nei suoi corsi di psico-dramma. Svolge costantemente attività didattica e ha diretto corsi di teatro in Italia e in Belgio. Ha fondato nel 1993 il Teatro Studio Jankowski, che ha tra gli obiettivi quello di promuovere l’incontro del teatro e della drammaturgia italiana e polacca attraverso un lavoro di interscambio e ricerca. A partire dal 1973 ha curato in Italia la regia di numerosi spettacoli teatrali, da testi di Beckett (“Ultimo nastro di Krapp”, “Atto senza parole”, “Atto senza parole II”, “Di Joe”, “Giorni felici”, “Aspettando Godot”), Ionesco (“Delirio a due”, “Il re muore”), Euripide (“Medea”), Brecht (“Il mendicante”, “Quanto costa il ferro?”, “L’anima buona del Sezuan”), Goering (“Battaglia navale”), Racine (“Fedra”), Aristofane (“Gli uccelli”), Hoffmann (“La principessa Brambilla”), Gombrowicz (“Iwona principessa di Borgogna”), Shakespeare (“La tempesta”, “Sogno di una notte di mezza estate”), Gozzi (“La donna serpente”), Goldoni (“Arlecchino servitore di due padroni”), Jarry (“Ubu re”), Witkiewicz (“La nuova liberazione”), etc. Tra le ultime regie realizzate: “Giulio Cesare” di W. Shakespeare (Roma 2001, Laboratorio), “Operetta” di W. Gombrowicz (Roma 2002, Teatro Greco), “Ubu sulla collina” di A. Jarry (Roma 2002, Teatro Tordinona, Laboratorio). Ha inoltre scritto e messo in scena: “L’altra faccia di Samuel Beckett” (Roma 1974, Teatro dei Dioscuri), “Baba Yaga” (Marino 1976, Teatro V. Colonna). GIOVANNI MARCHETTI: laureato in giurisprudenza, ha maturato una significativa esperienza nell’ambito del commercio internazionale in qualità di quadro dei servizi esteri di una primaria banca italiana. Dagli anni Novanta è docente di diritto e di economia. – 14 – GIUSEPPE D’AVINO Sul metodo apologetico nella prima Apologia di S. Giustino 1 PARTE PRIMA L’APOLOGISTA L’uomo, il filosofo, il pagano, il cristiano. S. Giustino, figlio di Prisco,2 figlio di Bacchio, era nato a Flavia Neapolis,3 in Palestina, all’inizio del sec. II (100-110 d.C.). I suoi genitori erano pagani, immigrati probabilmente nel 72 4 e da essi fu iniziato all’approfondimento di questa religione. Egli stesso dice di essere un incirconciso.5 Non ebbe molte relazioni con la gente ebrea. Tuttavia è difficile credere che egli abbia interamente ignorato le idee giudaiche, il monoteismo, la morale giudaica.6 Egli però non era contento del paganesimo; cercava una filosofia che potesse dargli la certezza di possedere la verità. Apprende quindi la filosofia del suo tempo dallo Stoicismo al Peripatetismo, al Pitagorismo e infine al Platonismo. Il suo è il cammino verso la verità e infatti trova nel sistema platonico qualcosa che le si avvicina di molto. 1 Si pubblica qui un lavoro risalente a molti anni addietro, nato da alcune giovanili riflessioni dell’autore sulla prima Apologia di S. Giustino, avvertendo che si tratta essenzialmente di appunti piuttosto schematici, utili per un primo inquadramento dell’opera e del suo contenuto. L’autore sta attendendo ad un saggio di più ampio respiro, aggiornato nelle problematiche relative al testo dell’Apologia e nella bibliografia più recente. 2 Ap. cap. I. Cfr. Prologo del Dial. con Trifone. 3 Oggi Naplus o Nabulus, capoluogo della Samaria. 4 Dial. con Trif. XXVIII, 2. 5 Ibid. 6 Puech, Les apologistes grecs du II siècle de notre ére, 1912, p. 48. – 15 – Infine ecco la scoperta della verità eterna. Un giorno, trovandosi sulle rive del mare, un vegliardo l’avvicina. A lui Giustino apre il suo animo e comunica le sue ansie. Il vegliardo gli rivela il cristianesimo, offrendogli a leggere soprattutto i libri dei Profeti.7 Giustino finalmente può dire di aver trovato la “sola filosofia attendibile e giovevole”. Dopo la conversione, che si può fissare al 130, perché nel 132-135 lo troviamo ad Efeso, ove affronta la discussione con Trifone, riceve il battesimo, forse, nella medesima città. Se egli finora è stato il ricercatore della verità, ora ne diviene il difensore. Né abbandonerà il pallio, quale filosofo novello della verità. A Roma, ove sembra rimanere fino al termine della vita, eccetto alcuni intervalli, fonda una scuola. Dovrà anche lottare contro il cinismo di Crescenzio, come dice Taziano suo discepolo.8 Degli scritti citati da Eusebio 9 possediamo soltanto le due Apologie 10 e il Dialogo con Trifone,11 dal quale si traggono numerose notizie sulla vita del suo autore. La sua morte,12 come narra il Martyrium s. Iustini et sociorum, avvenne circa il 165. Alcuni pensano di spostarne la data al 167.13 A Roma con altri sei suoi discepoli, Caritone, Carito, Evelpistes, Ierace, Peone e Liberiano, fu condannato dal prefetto Giunio Rustico (163-167). Anima retta e sincera, con nobile ardore di vero maestro, una volta scoperta la verità si dà, come s. Paolo, a difenderla e a testimoniarla con la vita. La sua personalità spicca decisamente tra gli apologisti del suo tempo. Tertulliano lo chiama “filosofo e martire”. Il Tixeront di lui così afferma: «On a toujours admiré en saint Justin la chaleur des convinctions, la noblesse du caractère, la parfaite loyauté des procédés». E il Lagrange, infine, lo propone come «le patron des âmes sincères, des âmes vaillantes».14 Dial. con Trif. VIII. Or. XIX, 4. 9 Hist. Ecc. IV, 18. Le opere di S. Giustino che ci sono pervenute si trovano tutte nel Manoscritto Parisinum Graecum 450, datato 11 settembre 1364. 10 La prima scritta nell’a. 150; la seconda nell’a. 161 circa. 11 Scritto nell’a. 135. 12 P. Franchi de’ Cavalieri, Note agiografiche, Studi e testi, Roma, 1902. 13 DAC, III, 156. 7 8 – 16 – PARTE SECONDA LA PRIMA APOLOGIA L’Apologia in genere. Era necessario, prima di studiare l’opera, conoscere l’autore ed inquadrarlo nel suo tempo. Non ci siamo fermati a considerare il numero, il valore delle opere, la data di composizione ed altre simili questioni, per poter mettere in maggior risalto la personalità dell’apologeta. Come appare Giustino dopo la lettura della sua Apologia? Doveva essere un uomo coraggioso e deciso: non teme infatti di affrontare e abilmente risolvere questioni con argomenti anche forti. I cristiani, per esempio, sono condannati solo a nominarsi tali, egli lo sa, tanto è vero che li difende da questa accusa fondata sul nome, tuttavia grida forte: «rivolgo questa allocuzione e supplica in difesa degli uomini di ogni stirpe ingiustamente odiati e perseguitati; io uno di loro» (cap. I). Chiamarsi cristiano, sentirsi uno di quegli odiati e ingiustamente perseguitati, questo è il suo maggiore, anzi l’unico vanto. Sembra che in cuore abbia una fiamma che lo bruci: vuole convincere i pagani della verità della Verità e mentre si prefigge un modo di procedere sistematico, si fa prendere la mano dalla foga di scrivere. La dimostrazione la fa seguendo un metodo strettamente logico; si potrebbe più giustamente, spiegando anche la predilezione per l’esegesi simbolica, chiamarlo analogico. Egli ha fiducia nella ragione umana e nella sua possibilità: la giustizia è virtù conosciuta dai Romani, perché dunque non renderla anche ai cristiani? Quali sono i motivi di credibilità che offre all’esame del pagano? Tutti, potremmo dire. Non c’è argomento che egli non adoperi, purché sia adatto all’ambiente in cui scrive e alla formazione di coloro a cui si rivolge. Motivi esterni: da quelli estrinseci alla religione come sono le numerose citazioni di profezie (capp. XXX-LIII) a quelli intrinseci come quando presenta la sublimità della dottrina cristiana, la santità della vita dei fedeli. Motivi 14 Lagrange, Saint Justin, Coll. Les Saints, Paris, 1914. – 17 – interni come la dimostrazione dell’adempimento delle aspirazioni umane, possibile solo attraverso una Rivelazione. L’argomentazione è per lo più razionale, basantesi sulle credenze pagane, sulle analogie tra cristianesimo e paganesimo, sulle esigenze interne di ogni uomo. Vi è poi la presentazione della religione di Gesù, che viene ad essere dimostrata divina attraverso l’adempimento delle profezie in Gesù e nella Chiesa. Sapendo di rivolgersi a filosofi, dimostra che la filosofia presenta verità parziali, mentre la Rivelazione presenta la verità totale, eterna, universale. Il termine di apologia, nel suo significato etimologico, indica un discorso(-logia è dal gr. λóγος) difensivo (α’ πó) da un attacco qualsiasi. Per il cristianesimo l’attacco però è più specifico, ha come oggetto una verità, una persona, una istituzione cattolica. Quella di Giustino è una vera apologia, perché realizza in sé questo piano di discorso difensivo, che ha un duplice aspetto: uno negativo, difesa dei cristiani dalle accuse contro essi mosse, uno positivo, presentazione della dottrina da tutti respinta. Giustino si serve di alcuni argomenti contingenti e validi solo, o meglio, soprattutto per il mondo romano-pagano. Il cristianesimo da Giustino è annunziato non come retaggio di una sola nazione o di un solo popolo, ma come religione universale e obbligatoria per tutti, sotto pena di dannazione eterna; non come culto ad una sola divinità, conciliabile con altri culti, piuttosto come un sistema coordinato di dottrine e di leggi, in antitesi con le credenze e con la morale pagana; non come una filosofia religiosa, ma come una fede di autorità divina, fondata su di una rivelazione. Contro i pagani e i loro filosofi che accusano i cristiani di ogni sorta di crimini, in particolare di ateismo e d’immoralità, la difesa di Giustino è soprattutto pratica; tende sotto forma giuridica a giustificare i fedeli dalle imputazioni calunniose e a rivendicare per essi la libertà della loro fede. Se vi è preponderanza dell’argomento profetico, ciò si spiega storicamente e razionalmente, per la direzione presa dalla controversia stessa e per l’efficacia più grande che questa prova, presso i Romani, specialmente detiene. Se ad essi Giustino avesse presentato come argomento valido quello dei miracoli, Gesù sarebbe stato ritenuto un mago e forse gli sarebbe accaduto di fare di Lui nella mente dei pagani, uno dei tanti figli di Giove. – 18 – L’Apologia, insomma, è subordinata al tempo, all’accusa, all’accusatore, e alla tradizione giuridica e culturale di un intero popolo. È universale, pur essendo adatta agli uomini del suo tempo: universale perché i suoi argomenti, quelli almeno fondamentali, valgono per tutti i secoli e per tutte le genti; del tempo suo, perché, se no, verrebbe meno al suo scopo che è quello di convincere i contemporanei. Giustino con la sua Apologia avrà convinto qualcuno? È una domanda questa che merita di rimaner sospesa. Luogo e tempo. L’Apologia fu scritta a Roma, come risulta dal cap. XXVI ove scrive: «...faceva pratiche di magia nella vostra città di Roma e fu considerato come dio ed onorato da voi di una statua eretta sul fiume Tevere». Inoltre al cap. LVIII possiamo leggere: «Marcione dal Ponto, il quale tuttora insegna a negare Dio», e questi si trovava a Roma. Come si vede la nostra Apologia è prettamente “romana”. Il tempo della stesura dell’opera possiamo ridurlo all’anno 153; infatti nel cap. XLVI Giustino dice così: «noi affermiamo che Cristo è nato 150 anni fa». Gli altri dati confermano questa data. Infatti l’Apologia segnala Marcione come eretico dichiarato, come appare al cap. XXVI: «e un tale Marcione del Ponto che pur ora insegna ai discepoli di credere nell’esistenza di un altro Dio superiore all’artefice del mondo»; inoltre al cap. XXIX è detto: «sappiate che uno dei nostri presentò già in Alessandria una supplica al prefetto Felice». Qui si parla probabilmente di Munanzio Felice, governatore d’Egitto tra il 148 e il 154. Inoltre è dedicata a Marco Aurelio, il quale fu tribuno nel 147. Destinatario. Quella di Giustino, “principe degli apologisti”, come viene chiamato dal Prof. Vitale De Rosa, non è l’unico esempio di apologia diretta a persone di riguardo, particolarmente agli imperatori. Come la sua, così le apologie di Quadrato e di Aristide di Atene sono dirette la prima ad Adriano, la seconda ad Antonino, ambedue imperatori. In questa parte quello che più riguarda noi è un insieme di particolari. Giustino indirizza la sua difesa ad Antonino Pio, a Cesare Verissimo,15 a Lucio, figlio di Cesare,16 al Senato e al popolo romano. Le parole precise Verissimo è il futuro imperatore Marco Aurelio (161-180), figlio adottivo di Antonino Pio. Lucio Vero è l’altro figlio adottivo di Antonino Pio. Regnò accanto a Marco Aurelio dal 161 al 169. 15 16 – 19 – sono: «All’imperatore Tito Elio Adriano Antonino Pio Augusto e a Cesare Verissimo, suo figlio, e a Lucio, filosofo, figlio di Cesare per nascita e di Pio per adozione, amico della scienza, ed al sacro Senato e a tutto il popolo romano» (cap. I). È interessante notare come Giustino per tutta la sua vita ha cercato la verità, ha amato la scienza, è stato sincero filosofo; poi quando scrive fa, potremmo dire, la Apologia della Verità e la indirizza a Cesare ch’è filosofo, a Lucio, filosofo figlio di filosofo e amico della scienza, e al senato e al popolo che dappertutto sono stimati amanti della verità e della giustizia. Infatti dice, parlando con i destinatari della sua allocuzione: «È pur vero che da per tutto siete celebrati come pii e filosofi e custodi della giustizia e amanti della sapienza» (cap. II). A questo punto si potrebbero inserire alcune note sull’appello alla attuazione del “diritto”romano che Giustino continuamente lancia, ma le rimandiamo. Durante la composizione della sua argomentazione egli mai dimenticherà a chi si è rivolto: un popolo, che è romano, giurista e filosofo. Scopo. Altra domanda che sorge spontanea è perché scrive. Altri si erano rivolti agli imperatori, ma invano. Giustino lo sa pur tuttavia scrive. In realtà per lui è un comando della coscienza: «è dovere nostro offrire a tutti possibilità di esame sulla nostra vita e dottrina, onde non sottostare alle penose conseguenze degli errori commessi da chi ignora le nostre cose» (cap. III). Lo scopo principale è questo: difendere gli innocenti, i deboli, i perseguitati ingiustamente (cap. I). Chiarisce la sua intenzione con queste parole: «ci siamo rivolti a voi con questo scritto non per adularvi... ma per chiedervi che esercitiate la giustizia dopo accurata inchiesta ed esame» (cap. II). I cristiani però non si difendono per timore, perché ad essi la morte non fa spavento e perché nessuno può far del male allo spirito – «non ci è possibile soffrir male da parte di nessuno, se non siamo rei di iniquità o riconosciuti malfattori: è in poter vostro uccidere, ma nuocere no» (cap. II) – e perché credono nella immortalità dell’anima, che se finisse nell’insensibilità, sarebbe un vantaggio per gli ingiusti. Ma siccome ai trapassati rimane la sensibilità ed è destinata la punizione eterna (cap. XVIII), bisogna persuadersi della verità di queste parole. Inoltre attendono la resurrezione dei corpi: «siamo nell’attesa di riprendere i nostri corpi» (cap. XVIII). Infine il suo desiderio è questo: «se giungeremo a persuadere almeno qualcuno il guadagno da noi fatto sarà grandissimo» (cap. XLIV). – 20 – Studio del contenuto. Sembra che S. Giustino nel tracciare l’Apologia non abbia seguito uno schema; ma da un esame accurato dello scritto appare evidente una linearità di procedimento. Prima di studiare il contenuto della allocuzione, presento alcuni schemi di studiosi, i quali prima di darli hanno inteso dimostrare che erano soltanto soggettivi. Al contrario a me sembra che uno schema esista realmente e che Giustino lo abbia seguito. Mi rimetto comunque al giudizio di questi Maestri. Secondo il Cavré: Parte prima: Prima serie di pensieri (I-XX). Giustino tende direttamente a discolpare i cristiani dei crimini di cui vengono accusati. a) Giustino propone il suo lavoro (I-III). Argomento sul nome dei cristiani. b) Difesa dall’accusa di ateismo (V-IX). c) Onestà dei cristiani; insegnamenti morali di Gesù (X-XVII). d) Resurrezione dei corpi (XVIII-XX). Parte seconda: Seconda serie di pensieri (XXI-LX). Comparazione tra Cristianesimo e Paganesimo. a) Favole pagane (XXI-XXIX). b) Profezie messianiche (XXX-LII). c) Anteriorità del Cristianesimo (LIII-LX). Parte terza: Conclusione (LXI-LXVIII). Le pratiche religiose non hanno nulla di immorale. Rescritto di Adriano. Secondo l’Altaner: Parte prima: Difesa dei cristiani dalle accuse (tendenza negativa) (I-XX). Parte seconda: Esposizione e giustificazione del contenuto dottrinale del Cristianesimo (tendenza positiva) (XII-LXVIII). Secondo il Lagrange: 17 Parte prima: Confutazione delle calunnie mosse al Cristianesimo. Parte seconda: Eccellenza del Cristianesimo e sua supremazia sul Paganesimo. Parte terza: Origine divina del Cristianesimo. Tutta l’argomentazione di Giustino è intesa a concludere ciò: che «si facciano giudizi a riguardo nostro, mediante processo» (cap. LXVIII). Perciò riporta il rescritto di Adriano che sarebbe la vera conclusione della Apologia e non, come afferma il primo schema riportato, essere soltanto una aggiunta agli ultimi capitoli, intesi come conclusione. Gli ultimi capitoli si intendano come la parte terminale di una parabola. 17 Il Lagrange non studia l’Apologia in paricolare, ma parla dell’opera apologetica in genere, in S. Giustino. Cfr. Lagrange, De revelatione (vol. I). – 21 – Giustino dunque aggiunge il rescritto di Adriano per dimostrare la sua tesi, ma a me sembra che non realizzi l’intento. Infatti nel rescritto Adriano dice, rivolgendosi a Fundano: «se all’accusa si unisce la prova che essi commettono qualche trasgressione alla legge, sentenzia secondo la gravità del delitto». Forse Giustino dimentica che il solo dirsi cristiano è già contro la legge? E che la sentenza dunque sarebbe di morte e senza la necessità di un giudizio? Proprio cioè contro la tesi che egli vuol dimostrare. Se però questo fosse l’unico scopo sembrerebbe esagerato scrivere «una allocuzione ed un esposto». Ma in realtà ha un altro fine ancora: far conoscere il Cristianesimo che è combattuto senza essere conosciuto ed è spinto a ciò anche da un dovere di coscienza (cap. III). Però i Romani saranno obbligati ad accogliere, in seguito ad una esposizione così estesa, la dottrina cristiana, come unica vera dottrina, poiché «se dopo informati non praticherete la giustizia, non avrete più scusa davanti a Dio». Si può dire che Giustino descrive una parabola, che raggiunge il suo culmine nella dimostrazione della divinità di Cristo: è vero quello che dico, perché è Cristo, Figlio di Dio, che lo rivela. La si può vedere anche unendo in un unico esame i primi tre capitoli con l’ultimo, unito al rescritto di Adriano a Minucio Fundano. Più sopra dicevo che Giustino mentre si prefigge un modo di procedere sistematico, si fa poi prendere la mano dalla foga di scrivere. È questa, penso, la soluzione del problema: se Giustino abbia seguito uno schema oppure no. Dall’esame approfondito del testo appare che l’ha seguito. Infatti vediamo che vi è una continuità di argomentazione ed una interdipendenza di argomenti. D’altra parte Giustino, che era un filosofo, per la sua formazione razionale, non poteva gettarsi avanti in un lavoro senza prefiggersi non solo lo scopo, come abbiamo visto, e i mezzi, ma anche il modo di procedere. Né poteva dimenticarsi di rivolgersi ad intellettuali. Questa linea in lui c’è; si tratta solo di scoprirla e di disadornarla di quegli argomenti, direi, supplementari ed esplicativi. Inoltre se così non fosse, perché dire più volte «dimostreremo», oppure «vi preghiamo di fare attenzione, perché ora ve lo esponiamo» (cap. XIII), ed altre frasi simili? Colui che agisce non vuole solo il fine e i mezzi, ma anche il modo di usarli per raggiungere il fine. Per Giustino il modo è un metodo apologetico. – 22 – Esordio (I-III). Giustino inizia la sua apologia annunziando il suo scopo e indirizzandola. Alla luce di questi due punti sistematizza tutto il materiale: deve dimostrare l’ingiustizia di alcuni giudici nel condannare innocenti. Lo farà rilevando la santità della vita cristiana e della sua dottrina. Tanto più santa è l’una, quanto più s’adegua alla seconda, che viene da Dio. Non basta dimostrare innocenti gli accusati se i giudici non ne sono convinti e continuano ad errare, perciò si rivolge non solo all’imperatore e ai figli, ma al popolo intero che si erge a giudice dei cristiani. Egli sente il diritto di parlare, perché è cristiano, è uno degli innocenti; è un accusato (capp. I-III). Parte prima (IV-XVIII). A) La innocenza dei cristiani non si può provare senza prima discolparli dalla calunnia. Atenagora nella sua Legatio pro Christianis (cap. III) parla di tre accuse: «tria nobis affligunt: atheismum, thyesteas coenas, oedipeos concubitus». Giustino ne considera una quasi preliminare, fondata sul nome, poi confuta l’imputazione di ateismo. Per la prima volta usa un argomento, direi, etimologico: «il portare un nome non fa né buoni né cattivi, a prescindere dalle azioni in esso supposte. Del resto, stando al nome che ci si rinfaccia noi siamo “ottime” persone. Anzi rispetto al nome dovreste piuttosto punire i nostri accusatori». Per gustare questo argomento è necessario rifarsi al testo greco, poiché χρηστóς (chrestòs) in greco vuol dire “ottimo”. Infatti alcuni facevano derivare il nome dei cristiani da Cresto, pronunciando male Cristo. È la vita comunque che bisogna scrutare non il nome (cap. IV). Per la seconda volta dice: «noi siamo chiamati atei... ma non lo siamo rispetto al Dio verissimo... anzi è Lui che noi veneriamo e insieme a Lui adoriamo il Figlio che è venuto da Lui e ci ha dati questi insegnamenti» (cap. VI). La vita dei cristiani è santa, ma sempre si potrebbe trovare un cristiano colpevole; in tal caso «se è reo convinto sia punito come scellerato, ma non come cristiano. Però trovato un reo tra i fedeli, non si accusino tutti di indegnità» (cap. VII). Dio è causa del bene che i cristiani compiono, i demoni del male. Per essi «voi spinti da folle passione ed incalzati dagli spiriti cattivi ci punite alla cieca» (cap. V). B) Discolpati i cristiani, Giustino considera l’aspetto positivo dell’argomento: non sono colpevoli, anzi sono utili allo stato. Né i cristiani mentono – 23 – né lui, perché, dice, «noi non vogliamo vivere mentendo» (cap. VIII) credendo che esiste l’al di là ove, come riferisce anche Platone, c’è chi premia e chi castiga. Dunque i cristiani non solo volentieri e apertamente riconoscono di onorare Dio, ma sanno di adorare il vero Dio e non gli idoli che «sono cose inanimate e morte, e non hanno carattere di divinità»; né si forgiano gli dei secondo figura e natura umana (cap. IX). Essi riconoscono un dio «datore di ogni cosa», «rimuneratore, misericordioso, onniperfetto, creatore di tutte le cose dal nulla per amore». Non sono liberi di scegliere di esistere, ma «scegliere e seguire ciò che gli è caro» (cap. X). Sono tutti in attesa del suo regno che non è di questo mondo, ma dell’altro (cap. XI). I cristiani sono da stimarsi innocenti ed utili, insieme alla loro dottrina, al benessere dello stato (cap. XII). E ciò si prova proprio perché i cristiani non sono atei, perché in caso contrario non crederebbero che «è impossibile ad un malfattore o avaro o insidioso o ad un virtuoso occultarsi a Dio», mentre «è possibile sfuggire a voi che siete uomini». Giustino ironizza su questo argomento: «sembra – egli dice – temiate che tutti operino bene e non abbiate più chi punire» (cap. XII). D’altronde «il nostro maestro Gesù, il quale è Figlio e messo di Dio, ha predetto che sarebbero accadute tutte queste cose, per cui siamo sicuri di professare la verità, e ciò vediamo anche dall’adempimento delle profezie... poiché è proprio di Dio (aggiungerei del nostro Dio e non dei vostri dei) annunziare i fatti prima che avvengano, purché poi ci dimostri che si sono compiuti a seconda della predicazione» (cap. XII). I cristiani dunque non sono atei, credono nel vero Dio, e aggiunge che ad essi è stata rivelata la natura del mistero della SS.Trinità: «Lo adoriamo (Gesù) perché abbiamo conosciuto che è Figlio di Dio vero, e lo teniamo nel secondo grado (non di inferiorità) di onore, come nel terzo grado lo Spirito profetico» (cap. XIII). Per seguire Cristo bisogna conoscere la verità che è continuamente impugnata dai demoni. Contro questi i fedeli hanno dovuto combattere e per mezzo di Gesù sono ora «seguaci di Dio», il quale ha insegnato ad essi a praticare tutte le virtù come la castità, la carità, la pazienza, la lealtà, l’obbedienza a Dio e ai governanti (capp. XIV-XVII). Parte seconda (XVIII-LX). A) Proposta la santità di vita e di dottrina dei cristiani, passa a dimostrare quanto aveva già promesso: immortalità – 24 – dell’anima e resurrezione dei corpi: «Ai trapassati rimane la sensibilità ed è destinata la punizione eterna». E lo dimostra attraverso la negromanzia, la incorruzione del corpo di alcuni fanciulli, l’evocazione di anime umane, l’interpretazione dei sogni. Appare evidente che qui Giustino usa argomenti ad hominem, fondandosi sul sentimento di superstizione del popolo romano. Cita anche gli oracoli di Pizia, di Anfiloco, di Dodona, della Sibilla e la dottrina di Pitagora, Platone e Socrate (cap. XVIII). Annunziata la credenza nella resurrezione dei corpi («crediamo e siamo in attesa di riprendere i nostri corpi anche cadaveri e già dati alla terra perché confessiamo che nulla è impossibile a Dio»), la dimostra con un argomento di ragione e uno di scrittura. Il primo è interessante: «Se qualcuno, supposto che noi non fossimo tali e da tali nati, mostrandovi il seme umano, e una figura di uomo dipinta, affermasse che da quello può prodursi questa, lo credereste forse prima di vederlo nel fatto? No certamente. Allo stesso modo dunque c’è incredulità, perché non avete ancor visto un morto resuscitato» (cap. XIX). Il secondo si fonda sul passo evangelico di Lc. XVIII, 27, «Ciò che è impossibile agli uomini, è possibile a Dio», e di Mt. X,28, «Non temete quelli che vi uccidono e dopo ciò null’altro possono farvi, ma temete colui che dopo la morte vi può gettare anima e corpo nella Geenna». Altro argomento: anche i filosofi, p.es. gli stoici, conoscono questa verità: «che per via di trasformazioni il mondo rinascerà di nuovo» (cap. XIX). Come per la resurrezione dei corpi e l’immortalità dell’anima, così per le altre verità esistono delle analogie tra cristianesimo e paganesimo. E molte sono anche le divergenze. A dimostrare ciò Giustino impiega dal cap. XX al cap. XXIX. I cristiani ritengono Dio Padre, Padrone e Creatore di tutte le cose; i pagani hanno la medesima idea di Giove. Come si dice del Cristo, insegnano che anche Mercurio è messaggero di Dio, che molti figli di Giove soffrirono, che Esculapio compì grandissimi prodigi e ascese al cielo e così via (cap. XXI). Alla immoralità della vita dei pagani (capp. XVII e XXVI), oppone la santità della vita del Cristo, della sua dottrina e dei suoi seguaci (capp. XXIII-XXV). A costoro Dio, poiché «creò il genere umano ragionevole e capace di scegliere il vero e di operare il bene, sicché nessuno degli uomini può discolparsi davanti a Dio», ha riservato il fuoco eterno, come insegnò di satana, dicendo che sarebbe gettato nel fuoco, «col suo esercito e cogli uomini suoi seguaci, per esservi puniti nel secolo senza fine» (cap. XXVIII). – 25 – Né i cristiani espongono i bambini, il che sarebbe omicidio (cap. XXIX) e contro la morale cristiana che insegna che «esporre i neonati è azione da perversi» (cap. XXVII). B) Esposti i motivi che più potevano interessare e alla dimostrazione della sua tesi fondamentale (eccellenza del cristianesimo ex puritate vitae fidelium, ex puritate doctrinae, ex prophetiis) e alla curiosità dei pagani attratti da elementi interessanti, intraprende a dimostrare la divinità di Gesù. Ai miracoli i pagani avrebbero creduto poco, potendo ritenerli anche compiuti per arte magica; ma alle profezie, avveratesi, avrebbero più facilmente prestato fede. Su questo argomento Giustino si intrattiene dal cap. XXX al cap. LIII in cui dimostra che esistono libri profetici e che in essi si predice che «il nostro Cristo viene tra noi, nasce da una vergine, arriva all’età virile, guarisce malattie ed ogni languore, risuscita i morti, ed è odiato, misconosciuto, crocifisso e muore, risuscita, ascende nei cieli ed è chiamato Figlio di Dio ed alcuni sono inviati da Lui a tutto il genere umano e i gentili più facilmente credono in Lui» (cap. XXXI). Giustino in questi capitoli fa un lungo esame simbolico-tipico delle profezie messianiche. Si intrattiene anche a considerare la natura delle profezie. Per il tempo dice che «queste predizioni furono fatte talora 6000 anni prima che Egli nascesse, altre volte 3000, talaltra 2000, e qualche volta 800 anni, perché i diversi profeti sorsero nel succedersi delle generazioni» (cap. XXXI). Per il carisma nota: «che i profeti non siano da nessun altro divinamente ispirati, se non dal Verbo di Dio, anche voi, credo, lo ammetterete» (cap. XXXIII). E aggiunge che quando i profeti parlano come in persona propria, s’intende che le loro parole sono del Verbo. A tal proposito riporta alcuni esempi in cui parlano il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo. Queste profezie da tempo esistevano. Nè però i Giudei, per quanto le leggano, le comprendono (cap. XXXI), né i greci e tutte le genti a cui sono pervenute le credono a causa dei demoni che hanno spacciato menzogne. I poeti stessi imitano le profezie, pure per opera dei demoni. Tale contraffazione diabolica non è avvenuta sulla croce, di cui nulla si conosceva. Per Giustino la croce è il simbolo della potenza di Cristo ed egli la vede ovunque: nella vela, nell’aratro, negli strumenti di lavoro e nella stessa figura dell’uomo. Perfino le insegne romane e le immagini degli imperatori morti simboleggiano la croce (cap. LV). – 26 – C) Si può notare come Giustino dopo la esposizione di una verità giustifichi la presenza di errori, imputandoli ai demoni. Nei capp. LVI-LVIII fa appunto riflettere sul fatto che i demoni pervertono ogni cosa, non solo le profezie, che nascondono divulgando favole, ma incitano gli stessi uomini all’eresia e a odiare i cristiani. D) Ecco l’argomento dell’anteriorità del cristianesimo rispetto al platonismo e alla filosofia in genere. Platone attinse la sua dottrina sulla creazione del mondo da Mosé il quale è «primo fra tutti i profeti ed anteriore agli scrittori greci» (cap. LIX). Così l’asserzione «circa la natura del Figlio di Dio: Dio l’impresse a forma di X nell’universo» è stata da Platone presa dal racconto di Mosé, quando questi per difendere gli ebrei costruì una croce di bronzo collocandola sul tabernacolo (cap. LX). A tal proposito conclude che «non siamo noi ad avere le opinioni degli altri, ma sono gli altri che parlano contraffacendo le nostre» (cap. LX). Parte terza (LX-LXVIII). Giustino descrive ora alcuni riti cristiani, come il battesimo, l’Eucarestia e il sacrificio eucaristico. Precedentemente Giustino aveva detto che i cristiani venivano generati in Cristo, ora lo dimostra. Anche per i sacramenti i demoni si sono industriati a contraffarli. Con questi capitoli sull’Eucarestia Giustino difende implicitamente i cristiani dall’accusa delle cene tiestee (capp. LXI-LXVIII). In conclusione l’apologista riporta il rescritto di Adriano, nel quale l’imperatore dà istruzioni al proconsole d’Asia Minucio Fundano, sulla procedura da adottare contro i cristiani, avvertendolo di non dar seguito alle denunce calunniose e anche – mostrando una certa equanimità – di punire i calunniatori. Sistematizzazione della prima Apologia. La prima Apologia dunque segue un metodo e una sistematizzazione lineare che io così vedrei attuata: Esordio (I-III): Indirizzo dell’Apologia; Presentazione dell’autore; Scopo dello scritto. Parte prima: a) Aspetto negativo (IV-XI). Difesa dall’accusa fondata sul nome (IV-V). Difesa dall’accusa di ateismo e dottrina sul vero Dio (VI-XI). b) Parte positiva (XII-XVII). Religione e costumi cristiani. Utilità della religione allo stato (XII). Annunzio della dimostrazione degli elementi interessanti i pagani (XIII). Vittorie sul male per seguire Gesù e formazione dei cristiani alla virtù secondo l’insegnamento di Gesù (XIV-XVII). – 27 – Parte seconda: a) Dimostrazione di elementi interessanti i pagani (XVIII-XXIX). Immortalità dell’anima (XVIII). Resurrezione del corpo (XVIII-XX). Discordanze e analogie tra Cristianesimo e Paganesimo (XX-XXIII): 1) Sul Verbo Incarnato (XXIII-XXIV). 2) Su Dio e gli dei (XXV). 3) Su eretici e cristiani (XXVI). 4) Sulla moralità cristiana e pagana (XXVI-XXIX). b) Prova dell’origine divina di Cristo, Rivelatore della dottrina esposta, mediante le profezie (XXXI-LIII). c) Contraffazioni demoniache della verità (LIV-LVIII). d) Anteriorità del Cristianesimo rispetto al paganesimo (LIX-LX). Parte terza: a) Riti cristiani (LX-LXVIII). Battesimo (LXI-LXII). Eucaristia (LXVI). Banchetto eucaristico (LXVII). Moralità dei riti. Conclusione: Rescritto di Adriano a Minucio Fundano. Le analogie esistenti tra Cristianesimo e paganesimo in S. Giustino. S. Giustino utilizza molto le analogie. Per lo più i suoi argomenti sono razionali e tradizionali. Richiama alla mente dei Romani motivi da loro conosciuti e con essi prova la sua tesi: se hanno creduto negli dei falsi e bugiardi, perché non credere nel vero Dio? Se hanno creduto che i figli di Giove hanno sofferto, sono venuti sulla terra, sono ascesi al cielo, perché non credere che ciò sia avvenuto anche per il Cristo? Giustino non solo fa notare le analogie esistenti, ma anche le discordanze; poiché sa di presentare una religione superiore, divina. Si potrebbe dare un quadro sinottico: CRISTIANESIMO Gesù, Figlio di dio, generato da Dio. Gesù viene crocefisso. Gesù nasce da una Vergine. Gesù compie dei prodigi. Gesù ascende al cielo. PAGANESIMO Mercurio, verbo e messaggero di Giove. I figli di Giove soffrirono.18 Perseo nasce da una vergine. Esculapio è operatore di prodigi. Dioniso, dopo essere stato dilaniato, ascende al cielo. 18 Nessuno tra i pagani poteva dire che furono crocefissi, perché questa morte non si immaginava neppure (cfr. cap. LV). – 28 – Gesù è maestro. Dio è padrone e creatore. Lo Spirito Santo fu detto muoversi sulle acque. Dio crea il mondo da Lui pensato mediante il Verbo. Consacrazione del pane e del vino. Esculapio è maestro. Giove è padrone e creatore. Proserpina fu posta presso le sorgenti d’acqua e considerata figlia di Giove. Minerva è detta prima concezione di Giove. Presentazione del pane e dell’acqua su cui si pronunciano delle formule nei misteri di Mitra. Si potrebbe ancora ampliare questo studio ed estenderlo alle discordanze. Conclusione. Lo studio sul metodo apologetico nella prima Apologia di S. Giustino meriterebbe un maggior approfondimento. Ho visto solo alcuni aspetti dell’Apologia e del suo metodo. Ora bisognerebbe completare il lavoro considerando come Giustino usa nella sua argomentazione le sue conoscenze filosofiche, mitologiche, giuridiche e scritturali. Purtroppo a questo punto debbo fermarmi, anche se potrà sembrare di aver considerato soltanto la superficie della questione metodologica. – 29 – DONATELLA ARCURI Il Giorno della memoria e gli anni dell’oblio C’è un prezzo da pagare – sembra – alla memoria dei più, alle retoriche correnti sul dovere della memoria, condivisa e inossidabile. I territori di riflessione sarebbero molteplici, ma mi limiterò a ciò che mi suggerisce, da vicino, la mia esperienza di insegnante. Essere critici nei confronti della Giornata della memoria e dei suoi moduli ormai consueti sembra un intollerabile snobismo: sono disposta a correre il rischio, perché penso che bisogna pure avanzare qualche dubbio sulla mole di iniziative che, a tre anni dall’istituzione per legge della Giornata della memoria, attraversano scuole, istituzioni, mass media. Beninteso, si tratta di lodevoli imprese. Le celebrazioni sono ispirate da sincera partecipazione, buona volontà, solidarietà reale e, a volte, buonismo endemico. La Shoà è infatti diventata parte fondamentale della memoria collettiva, e non appartiene più, per fortuna, soltanto agli Ebrei. Ma è imbarazzante, soprattutto per chi insegna, scoprire la mancanza di radici del sentimento popolare suscitato da questa giornata. Intanto le emozioni, il cordoglio, e il sincero affetto non implicano affatto che si sappia ricostruire il passato, né che si conoscano gli Ebrei. C’è nell’aria un’ebreomania che si esprime in una varietà multiforme e che è diventata ovviamente un fenomeno mediatico. Gli Schindler, i Perlasca, i Palatucci delle fiction televisive e cinematografiche possono certamente più, come scrive Marco Spagnoli su Shalom (n. 2, 2003) che cinquant’anni di scuola dell’obbligo. Le testimonianze raccolte da Spielberg “valgono” infinitamente più che tre tomi di fonti storiografiche. A questo aspetto della questione, tuttavia, si deve guardare con serenità e senza alcun sentimento apocalittico: dopo tutto, meglio questo, naturalmente, che il nulla dei decenni passati. Nel modo, però, in cui il contenuto mediatico viene “divorato” nel Giorno della memoria, intrecciandosi con altre forme di consumo e spettacolarizzazione, in questo comincia per la scuola – a me sembra – un cammino pieno di rischio. Due modelli, forse inconsapevoli di sé, si sono, secondo la mia esperienza di insegnante, combinati in questi anni nella costruzione delle Gior– 30 – nate della memoria: il primo è quello dell’inesprimibilità e inspiegabilità dell’orrore, che tuttavia prova ad esprimersi. Il secondo è quello dell’esprimibilità e spiegabilità dell’orrore, che tuttavia non riesce ad essere spiegato. Il primo caso coincide, di fatto, con la tesi di Primo Levi, quella secondo cui le consuete, “normali” categorie della conoscenza storica e dell’intellegibilità razionale si lasciano sfuggire il carattere tragicamente unico e singolare della Shoà, nell’elenco degli stermini e delle persecuzioni perpetrate nei secoli. La Shoà è stata un evento disumano, un’espressione di “male assoluto”, il cui carattere paradigmatico di esperienza estrema lo sottrae ad ogni possibilità di comprensione e di conoscenza. Non a caso Primo Levi esprimeva, poco prima di morire, la preoccupazione che molti non ascoltassero o, dopo aver ascoltato, dimenticassero o, peggio ancora, banalizzassero l’evento dello sterminio degli Ebrei. D’altra parte, “il rischio di apparire anacronistici, di non essere ascoltati...” gli sembrava quanto mai reale con le nuove generazioni. A questa tesi si combina però anche una seconda, e cioè quella della spiegabilità razionale della Shoà, della possibilità di rintracciarne le radici lontane e prossime, di modularla, di canalizzarla in modelli tradizionali e conoscibili. La Shoà non è stata, insomma, un’altra peste nera del ‘300, esplosa improvvisamente nella terra di Goethe, Kant, Einstein: è stata sì un evento estremo, ma avvenuto nel cuore di quell’Occidente dove avevano i loro fondamenti i principi della tolleranza, della libertà politica e religiosa, del valore della persona. Auschwitz è accaduto, non è stato un’inesplicabile e ineluttabile calamità naturale: ha a che fare, piuttosto, con i lati più oscuri e tenebrosi della storia, ma pur sempre, appunto, della storia. C’è – naturalmente – una parte di verità in entrambi i modelli, ciascuno dei quali, del resto, si costruisce le sue “prove”, e forse non ambisce affatto ad uno spazio esclusivo. I due modelli convivono tacitamente nella scuola, incontrandosi in un punto cruciale: la rinuncia – tendenzialmente inconsapevole – ad una vera didattica. Se la Shoà si colloca nello spazio dell’“oltre”, se nessun castello, palazzo o granaio (come direbbe Kierkegaard) è sufficiente ad accoglierla, non c’è altro modo che tentare di “raccontarla” per altre vie. Se invece la Shoà può essere spiegata razionalmente ed essere assunta come un evento tra gli altri – sia pure di inimmaginabile orrore – accaduti nella storia, la sua essenza non dovrebbe sfuggire, né trovarsi in un cono d’ombra inaccessibile, al di là dei sentieri interrotti della comunicazione normale. Pare, invece, che di fatto sia così, comunque la si pensi: anzi – 31 – il come la si pensa non ha di fatto più importanza. La Giornata della memoria accoglie in sè, ormai stabilmente, questo dilemma. Qualunque sia la nostra analisi della questione – ammesso che ce ne sia una nelle eroiche performances organizzative delle Commissioni docenti delegate – il risultato non cambia: lasciar fare allo spettacolo, lasciar parlare i testimoni, lasciar guardare gli studenti, sempre con un occhio al gradimento e al giusto dosaggio delle ricette. E che non siano, per carità, troppo faticose per le platee. In effetti lo spettacolo, comprendendo nel termine una vasta gamma di strumenti comunicativi, normalmente adottati nella Giornata della memoria e a volte di grande pregio, offre un’utile, onorevole e qualche volta insostituibile, via di uscita: è un’acqua misuratamente tranquilla, sulla quale imbarcarsi con giovani normalmente refrattari e con i nostri stessi limiti a dire. Nel caso si pensi che l’orrore sia incomprensibile, si accetta che la spettacolarizzazione (ottima, buona, mediocre e così via) comunque si incarichi di rappresentarlo. Nel caso in cui, invece, si pensi ad una possibile spiegazione, si accetta comunque che siano altri (dagli insegnanti) gli agenti e strumenti della spiegazione eventuale: ciò che è in questione, ovviamente, non è il rammarico “sindacale”, che siano altri, piuttosto che la scuola e i docenti a impegnarsi nel percorso di spiegazione, ma il sospetto – ben più grave – che questa delega sia nei fatti una rinuncia alla spiegazione stessa. Alla Giornata della memoria viene in effetti, spesso, delegata in toto la conoscenza della Shoà. Può accadere quindi che agli studenti restino sconosciute le forme antiche e moderne, non solo tedesche ovviamente, dell’antisemitismo, convergenti nello sterminio. Può accadere che essi non sappiano quasi nulla di molte altre cose che, se non sono comunque in grado di spiegare, sono però fondamentali elementi di radicamento, nel tempo e nello spazio, della Shoà, non immaginabile come un evento sospeso nel vuoto e nelle nebbie informi dell’indistinzione. I modi della rappresentazione sono numerosi e di essi, ovviamente si è impadronito il mercato: il business della memoria ha già prodotto i suoi pacchetti confezionati, da offrire alle scuole, e la memoria così mcdonaldizzata diventa di facile consumo, commestibile e digeribile velocemente, appunto nello spazio di una giornata, prima della quale e dopo la quale si distende l’indifferenza dell’oblio. Risarciti gli Ebrei con questa sorta di Kippur laico, di cerimonia riparatrice e catartica, succede qualche volta, a giovani e meno giovani, di trovare nuove occasioni e ragioni per rinnovare il pregiudizio. Ma – al di là di questo – la notte e le nebbie che stravolsero – 32 – l’Europa dei nostri padri rimangono insondate e senza storia, proprio come i mussulmani di cui parla Levi, che non hanno in effetti storia ma “hanno seguito il pendio fino in fondo, naturalmente, come i ruscelli che vanno al mare” (P. Levi). Dalle rappresentazioni dominanti la Shoà emerge come un evento inintellegibile, senza radici e senza cause, un evento “religioso”, come sembra segnalare lo stesso termine, del tutto improprio e inopportuno, di norma usato per indicarlo: Olocausto. Vi è poi l’uso dei testimoni, ebrei e no, con maggiore e minore significanza, e spesso con una imprendibile, caotica ricchezza idiografica. Si utilizza, si spreme, si tira da ogni parte questa fonte preziosissima: i testimoni, i sopravvissuti, le vittime ad ogni titolo della Shoà sono chiamati al dovere della memoria, a vantaggio delle nuove generazioni. In effetti le nuove generazioni ascoltano e sembrano sinceramente colpite, ma si tratta – nella media – di un ascolto facile, di una delle tante forme di facilismo che ha colpito la società e la scuola, di questi tempi. Diventate belli, ricchi e famosi in un momento; laureatevi, con i nostri servizi, senza sforzo; e adesso anche conoscete la storia senza inutili sgroppate sui libri; consumate la testimonianza, senza alcun impegno alla contestualizzazione. Insomma usate pure la memoria contro se stessa... Le forme della dimenticanza, come quelle della testimonianza, sono infinite. Lo spettacolo da un lato e l’uso e l’abuso di testimonianze dall’altro sono i due poli metodologici delle scolastiche Giornate della memoria. Lo spettacolo esprime l’inesprimibile: qualche volta lo fa in modo magistrale, qualche volta è indecente. È comunque eterno, infinitamente riproducibile e variabile: potremo attingere a questa fonte nei secoli dei secoli. La testimonianza “racconta”, è una memoria viva e contemporanea del dolore, trasforma il passato in un eterno presente, qualche volta è in grado di ricondurre il singolare all’universale, ma non è, in sé, né spiegazione né conoscenza. E comunque avrà un termine. Ci sarà un tempo in cui purtroppo non si potrà attingere a questa risorsa: ciò che la rende ancora più preziosa è proprio la sua finitezza. Vale la pena, dunque, di non “divorarla” e “bruciarla” come uno spettacolo; vale la pena di accompagnarla alla lunga e paziente fatica della conoscenza e contestualizzazione, nella quale il bandolo della matassa torna a chi deve ricordare, agli insegnanti e agli studenti, cioè all’improba, quotidiana, funzione della scuola. – 33 – Il voltare le spalle e camminare senza sapere cosa c’è dietro – a me sembra – non è molto diverso dal camminare guardando indietro senza vedere. Come insegnante di storia me ne rammarico molto: credo davvero che sulla didattica civile e, parallelamente, sull’ignoranza della storia, si misuri la deriva delle società democratiche. Non è un caso che tra le prime cure dei regimi ci sia quella di cancellare le tracce della storia scomoda e di riscriverne versioni addomesticate. Il ricordo – come osserva Claudio Vercelli (Shalom, n. 10, 2002) – non è solo un dovere: è prima di tutto un diritto, specialmente per le nuove generazioni, purtroppo così restie ad esercitarlo. Ri-orientare la Giornata della memoria, sottraendola – per quel che è possibile – alle più bieche forme di spettacolarizzazione e consumo veloce e distratto, mi sembra una sfida laboriosa, ma la sola onesta e praticabile nel futuro della scuola pubblica: prima che la rottamazione della Shoà, in qualche modo auspicata dai revisionismi e negazionismi in voga, abbia il tempo di produrre altre catastrofi. – 34 – GIAMBATTISTA BALDANZA Concetto Marchesi: il linguaggio come humanitas Racconta mio padre che zio Concetto amava molto la minestra coi sassi di mare, poca acqua bollita con questa natura marina e nulla più. Perché ricordo, nel dedicare questo mio scritto al caro zio, questo episodio che mi è stato più volte narrato come una stranezza d’artista? Forse perché sento che è un episodio emblematico della Sua personalità e della Sua opera. Marchesi amava la semplicità, l’essenzialità delle cose, delle parole, della vita, insomma. Non c’è pagina della Sua letteratura latina che non sia pervasa da questo spirito, anche nelle disquisizioni più dotte e raffinate. Un’opera, la Sua letteratura, che trascende la dottrina per arrivare all’anima. Questa la caratteristica più affascinante del Suo scrivere, ci si sente improvvisamente avvinti alle parole come se esse provengano dalla profondità della coscienza universale. Scrive Gaspare Campagna, uno dei Suoi più attenti studiosi: “Credo che della Letteratura latina del Marchesi si possa dire che essa è una storia della Letteratura e dei valori umani della vita nonché una storia del costume politico e sociale della Repubblica Senatoria di Roma e del Principato”. Parole che esprimono troppo bene l’opera del Marchesi per essere ulteriormente commentate. La Sua è una storia della Letteratura che è una storia dell’uomo, senza illusioni né pressappochismi ma alimentata da una incredibile certezza della giustizia come ineluttabilità storica. Egli stesso scriverà nel libro di Tersite: “Non è credibile che l’individuo umano possa sopprimere i suoi istinti di rapina e di violenza: ma credo fermamente che possa la legge sociale e l’interesse comune mettere gli uomini nella condizione di fare il minor male”. La tematica dell’impegno è sempre presente nel modo che Egli ha di sentire gli eventi ed i personaggi della Storia, l’impegno ad essere il più possibile fedele ad una traccia etico-sociale, ad uno sguardo complessivo dato alla luce della consapevolezza dell’umano sentire. – 35 – Anche se nell’interpretare la storia il Marchesi si ispira fortemente alla storiografia marxista, troviamo nelle sue parole una partecipazione ed una drammatizzazione che colpiscono come nel capitolo sui Gracchi: “Caio Gracco poggiò su due forze che, alleate per un momento nella breve coincidenza di una comune utilità politica, erano sostanzialmente nemiche per la inconciliabilità dei loro durevoli interessi. La borghesia può allearsi col proletariato contro la nobiltà perché diventi nobiltà anch’essa; e dopo i Gracchi, i cavalieri romani furono al fianco dell’ordine senatorio nella repressione dei moti popolari. L’opera dei Gracchi servì ad individuare delle forze e a precisare dei problemi e a dimostrare vistosamente, attraverso la sommossa ed il sangue, la vanità delle competizioni civili e legali di fronte a privilegi reali” (Letteratura latina, pag. 173). “Marchesi storicista – scrive Campagna – non ha miti. Egli guarda la storia dove sono vincitori e vinti, oppressori e oppressi, e si sente vicino agli umili o alla creatura umana che soffre, o a coloro che, vilipesi e caduti, siano simboli e momenti di una catastrofe storica”. In questo senso, forse, alcuni critici hanno potuto vedere una partecipazione partigiana agli eventi storici, ma come condannare chi ama i reietti ed esalta la giustizia? C’è un momento infatti in cui la critica storica si identifica con un senso della giustizia universale che indubbiamente esiste in ogni uomo e in ogni epoca. Ma la sua penna Lo porta ad innovazioni significative come quando, nella Storia, inserisce, Lui che cristiano certo non era, l’apologetica e la patristica cristiana. Scrive infatti ancora il Campagna: “Allo studio della Letteratura latina cristiana fu attratto perché nel Cristianesimo era l’impatto della fede e della ribellione, in nome del diritto a quella fede, ai poteri costituiti, contro i quali il Marchesi manifestava costante avversione. Storicamente valide e piene di una loro pugnace esaltazione sono le pagine nelle quali cerca di intendere le ragioni e la natura delle persecuzioni dello Stato Romano contro il Cristianesimo”. Il Cristianesimo si collega in Marchesi al problema di Dio, al quale, sino alla fine dei suoi giorni, rimarrà interessata fortemente la Sua anima. Aveva scritto infatti nel libro di Tersite, l’opera più rivelatrice del suo mondo interiore: “Ho tentato il mistero di Dio attraverso il mistero di tutte le cose; ho abbandonato ai silenzi l’anima mia aspettando le voci e le voci ignote. E sono sempre a un punto, e ho sempre l’ansietà di dover condurre a termine una ignota e strana faccenda; e nei momenti più sciagurati sento di – 36 – vivere come una lampada abbandonata in un tugurio, che si consuma senza far luce a nessuno”. Ma la religione di Marchesi era la religione degli umili, dei semplici, nei quali riusciva forse più di ogni altro a sentire il richiamo fortissimo del trascendente in una dimensione di laica spiritualità. A questo proposito aveva scritto: “Amo la casa povera e pulita: con l’ampio letto sempre rifatto e il ramo di ulivo benedetto sul capezzale: col canterano sempre spolverato e le poche sedie sempre ben disposte e i fiori finti offerti a Dio, giustamente perché di fiori veri ne ha tanti il Signore sulla Terra”. Quale dichiarazione più autentica di religiosità, che certo ci induce sinceramente a prescindere dalle voci circa una sua conversione poco prima di morire. Essa non ci interessa né ci riguarda, perché Marchesi aveva una spiritualità che poteva benissimo esulare dal campo più strettamente dogmatico per esprimersi, forse molto meglio, in questa ansia di trovare e di capire la parte dell’uomo nel tutto, sia che si chiamasse Dio o Semplicità o Riscatto dalle umane sofferenze. In questa chiave dobbiamo collocare l’etica marchesina, nello sviluppo cioè di un’introspezione tutta tesa al sovvertimento dello squallido vivere in una sintesi di felicità e di giustizia sociale. Scrive infatti il Campagna a questo proposito: “In Marchesi il rinnovamento della vita sociale si cala nel suo umanesimo, il quale perciò si spoglia del suo tradizionale retorismo e si vivifica raggiungendo una sua composta bellezza nel lievito di tutte le istanze di humanitas. Delle cose passate scrisse – come Egli diceva di Sallustio – in modo che apparissero sempre presenti allo spirito nostro; come in Sallustio, nella sua pagina non si annida la noia”. L’uomo e lo storico vivono in simbiosi, in armonia perfetta, sia quando ci rende partecipi del dramma cosmico di Lucrezio o di quello tutto passionale di Catullo o della voce rivelatrice e confortatrice di Seneca. “Marchesi – prosegue ancora Campagna – è uomo nella sua interezza: qualunque cosa egli guardi, attorno a questa cosa ci fa sentire la presenza dell’esperienza umana tutta”. Ed ancora il Valgimigli: “La poesia, l’arte, la bellezza non sono mai giudicate né valutate da una testa secca di filologo o da una testa molle di letterato. Il Marchesi ha interessi più umani e più vasti”. Ed ancora aggiunge il Valgimigli: “A questo storico spregiudicato l’anima di Roma appare sempre in tutta la sua grandezza luminosa e gloriosa, – 37 – nella Repubblica e nell’Impero, dai limiti brevi del Lazio ai confini più vasti del mondo orientale e occidentale; e la originalità della Letteratura di Roma gli si discopre sempre nel suo accento più genuino e più schietto”. Genuinità, schiettezza, questi i caratteri essenziali della sua personalità così ricca di significato. E queste stesse caratteristiche informano anche la sua figura di uomo politico impegnato a combattere per la libertà del suo Paese, avvolto nella penombra dell’avventura Fascista. E di questo suo modo di essere anche nella vita politica, rimane la testimonianza dell’appello rivolto agli studenti dell’Università di Padova quando si dimise dalla carica di Rettore dopo l’8 settembre 1943. Appello dal quale stralcio le parole più significative e con le quali concludo questo mio scritto sperando che sia valso a far meglio comprendere questo grande Maestro della Letteratura contemporanea: “Per la fede che vi illumina,per lo sdegno che vi accende, non lasciate che l’oppressore disponga ancora della vostra vita, fate risorgere i vostri battaglioni, liberate l’Italia dalla servitù e dalla ignominia, aggiungete al labaro della vostra Università la gloria di una nuova più grande decorazione in questa battaglia suprema per la Giustizia e per la pace nel Mondo”. – 38 – ANDREA BLARZINO Per un approccio alla letteratura latino-americana. Ernesto e Garabombo: due personaggi tra mito e storia PREMESSA Dopo lo sguardo quasi esclusivamente “paesaggistico” gettato sull’argomento da molti romanzieri delle epoche precedenti e mentre la narrativa delle decadi ‘20 e ‘30 si era avvicinata ancora troppo paternalisticamente agli indios, con autori quali Jorge Icaza, José Eustacio Rivera, Rómulo Gallegos, Ciro Alegría (per citare solo i nomi più rappresentativi), affrontando soltanto di sfuggita temi scottanti come l’oppressione sociale e l’emarginazione culturale incipienti nel mondo indigeno, il panorama della cosiddetta “letteratura indigenista” vede, a partire dagli stessi anni ‘30, l’affermarsi di alcuni autori che agiscono in chiave del tutto rifondatrice del “genere”. Entrambi peruviani, dissimili per quanto riguarda le rispettive traiettorie letterarie – fonti, procedimenti creativi, stili narrativi – nonché per le vicende che ne caratterizzano le vite, José María Arguedas e poi più tardi Manuel Scorza sono interpreti di una tendenza al superamento degli angusti ambiti formali e contenutistici in cui la narrativa cosiddetta indigenista aveva fino a quel momento confinato la società e le culture native. Equidistanti dall’esotismo idealizzante tardo-romantico e dallo schematismo “civiltà vs. barbarie” tanto caro alla prosa liberale e positivista, le opere dei due scrittori affrontano le storie del mondo indigeno proponendo una decifrazione ora realistica ora magica del contesto, trovando in questa alternanza e/o sovrapposizione di piani descrittivi forse l’unico territorio di ricerca letteraria che li accomuni. Nelle loro diversissime opere, pur nel manifesto tormento stilistico che le contraddistingue e nonostante il complesso gioco di influenze extratestuali ordite in miscele letterarie di non sempre facile lettura, sono individuabili dei percorsi diretti a ricreare in forma scritta i caratteri di un contesto socio-culturale meticcio quanto più possibile evocatore dell’originale. Si tratta di un approccio transculturale, di mediazione tra una cultura e l’altra, che nasce dall’urgenza di descrivere al mondo quanto la realtà peru– 39 – viana (ma l’esempio vale per l’intera America Latina) propone al popolo indigeno in termini di marginalità economica, sociale, politica e culturale, nonché di sopraffazione e sterminio fisico. I due scrittori operano, con esiti narrativi assai distanti tra loro, una rivisitazione completa del romanzo indigenista, individuando non solo nel linguaggio ma anche nella scelta dei temi, nella struttura, nel lessico e soprattutto nel fattore di permeabilità del racconto stesso alle istanze tradizionali, gli obbiettivi di un necessario rinnovamento. Insomma una ricerca “comune” che tuttavia percorre strade indipendenti, trovando nell’acculturazione meticcia di Arguedas la prima opportunità di contatto lirico-antropologico con l’intimo della coscienza indigena, e che si sviluppa con Scorza in una vena epico-sociale di deciso taglio politico che, anche al di là dello specifico letterario, ha il merito di avere divulgato un caso reale di ingiustizia, di aver scosso l’opinione pubblica nazionale e internazionale e di aver contribuito, come ricordano le cronache dell’epoca, a una sua almeno temporanea soluzione. ERNESTO Quando il lettore, alla prima pagina de I fiumi profondi (1958), del peruviano José María Arguedas (1911-1969), incontra Ernesto, lo incontra adulto, voce narrante di un romanzo che racconta vicende autobiografiche risalenti alla sua giovinezza. Colpisce il primo contatto con questo personaggio, che avviene (prima ancora di conoscerne la provenienza o anche soltanto il nome o l’età...) direttamente con la sua dimensione psicologica, con il protagonista colto in un momento di grande intensità emotiva, il cui significato appare da subito decisivo e fondante anche per il resto della narrazione: la sua prima visita a Cuzco. L’emozione di trovarsi finalmente a camminare per le strade dell’antica capitale dell’impero incaico travolge il giovane visitatore, trascinandolo verso una sorta di esaltazione sensoriale e psichica che giunge a preoccupare perfino il padre, compagno e guida del figlio in questa ricognizione notturna. Nell’oscurità, le geometrie inedite e perfette delle pietre con cui gli Incas costruivano le mura delle case gli appaiono intensamente vive, vibranti, premonitorie: per Ernesto la scoperta delle testimonianze del passato ormai mitico è un’esperienza che lo porta alle soglie del delirio, mentre l’aria intorno a lui è scossa dai rintocchi di una campana fusa con l’oro degli antichi dominatori delle Ande. – 40 – Ciò che inebria e allo stesso tempo lacera in tale modo la sensibilità di Ernesto (il lettore lo scoprirà nel corso della narrazione) è la consapevolezza di non appartenere, in un mondo suddiviso in dominanti e dominati, a nessuna di queste due categorie sociali. Ernesto, che per nascita apparterrebbe alla schiera dei dominanti, sta cominciando a prendere coscienza della condizione di meticciato (sociale ma anche e soprattutto culturale) che incarna. Per capire le ragioni viscerali che hanno portato Ernesto a questo punto critico, bisogna andarne a guardare il passato. E anche se all’epoca dei fatti, la vicenda si svolge presumibilmente a circa metà degli anni ‘20, Ernesto ha soltanto quattordici anni, il suo passato risulta, si può ben dire, “breve ma travagliato”. Orfano di madre, il padre ricercato per aver infastidito con la sua attività di avvocato qualche potentato economico-politico, Ernesto, un “bianco”, viene affidato da piccolissimo ad alcuni parenti “crudeli” (è lui stesso a definirli così) che, per ragioni di opportunità, lo escludono dal gruppo familiare e razziale di appartenenza. Vive quindi la sua infanzia tra la tenerezza delle cuoche indie della casa in cui è ospitato, le mamakunas, alimentandosi dell’accogliente natura indigena e imparando il quechua come lingua materna. Finché suo padre torna a prenderselo per portarlo con sé. Inizia al suo seguito un lungo periodo di peregrinazione durante il quale Ernesto visita più di duecento tra paesi e villaggi andini. Un tragitto forzato che lo strappa dal mondo dell’infanzia per condurlo verso l’età della fanciullezza: un passaggio che per il protagonista coincide con le prime scoperte della desolazione e dell’ingiustizia che governano la realtà sociale di cui, fatalmente, si scopre far parte. Sì perché Ernesto, lontano ormai dal ristretto nucleo in cui ha ricevuto la sua formazione culturale e spirituale, non riesce più a ricreare la familiarità conosciuta con gli indios adottivi ed inizia ad accorgersi del contrasto insanabile che vige tra il mondo degli oppressori e quello degli oppressi. Una frattura che proprio in lui, un ragazzo in cui si fondono istanze razziali e culturali degli uni e degli altri, condensa i suoi termini e di cui vive, con l’impeto che solo un adolescente può conoscere, anche tutto il peso simbolico. Con questo disagio nell’animo, Ernesto affronta il secondo distacco dal padre. Cuzco era infatti una delle ultime tappe del loro viaggio, che sta per concludersi ad Abancay, una piccola città dove Ernesto si fermerà per iniziare un periodo di “internato” e di studio nel collegio cattolico. Entrando nel vivo della narrazione, cioè nel racconto delle vicende che nell’arco di brevissimo tempo turberanno e devasteranno Abancay, frantu– 41 – mando anche il torbido contesto del collegio, nello stile asciutto e teso che caratterizza il modo di raccontare di Ernesto, si inseriscono frequenti “descrizioni” del “mondo andino”. I termini così virgolettati intendono alludere a un modo di descrivere un popolo, un territorio, una cultura (quella quechua) che non assomiglia a nessun precedente, almeno per quanto riguarda la letteratura cosiddetta “indigenista”, e che disorienta il lettore per lo spessore e la novità degli elementi che vi si intrecciano. Dalla speciale attenzione che il narratore presta ad ogni elemento dell’ambientazione, emerge forte la personalità del José María Arguedas non soltanto scrittore ma anche etnologo, autore di cospicui studi di riconosciuto valore scientifico sulla cultura e sulle tradizioni del meticciato peruviano. Ernesto è quindi un narratore in possesso di molte conoscenze specifiche ma soprattutto dimostra di possedere una prodigiosa facoltà di ricordare in ogni minimo dettaglio quel periodo della sua vita. Immagini, colori, musiche e canti, odori, persone, parole, sensazioni: nulla di quanto ha concorso a creare un ricordo nella sua memoria viene tralasciato e nulla è mai casuale nel suo mosaico narrativo, ordito in uno stile di scrittura che vale alla prosa di Arguedas la definizione di “lirico-antropologica”. Dopo anni di peregrinazioni in compagnia del padre, dunque, il protagonista affronta per la prima volta una situazione collettiva e presumibilmente stabile, la vita del collegio. È un Ernesto inquieto, ma anche lucido e controllato quello che fa il suo ingresso nella piccola comunità diretta da Padre Linares, carismatico parroco di Abancay. La sua attenzione è all’inizio rivolta a scoprire anche la più piccola possibilità di inserimento: da una posizione volutamente di secondo piano studia i comportamenti dei suoi coetanei, individua e avvicina tra i suoi compagni quelli che gli paiono più simili a lui, cercando riparo dalla prepotenza che governa i rapporti all’interno del collegio in alleanze strategiche e rassicuranti. Per sfuggire all’ambiente morboso e feroce del collegio, nei momenti di libertà Ernesto va in giro da solo per il paese avvicinando indios con i quali però risulta sempre più vano ogni tentativo di familiarizzazione. In cerca di un interlocutore in grado di infondergli il coraggio necessario ad affrontare i momenti più critici, incontra l’unico vero sostegno spirituale nel rapporto con gli elementi naturali e in special modo con il Pachachaca, il fiume che scorre nelle vicinanze di Abancay: “Pachachaca! Ponte sul mondo, significa questo nome”. Non diversamente da come aveva fatto a Cuzco con le pietre delle mura incaiche, Ernesto pone i suoi interrogativi al fiume e ne ricava risposte leggendole nell’impeto della sua corrente, decifrandone i fra– 42 – gori e i gemiti. Poi, rinfrancato, torna al collegio e all’atmosfera di scontro che va crescendo tra i suoi compagni. Nel gruppo di giovani di condizione privilegiata con i quali condivide il periodo di “internato”, sono in molti a considerarlo un ragazzo “strano”. Non per questo però Ernesto è solo, anzi tra i suoi compagni c’è chi si accorge della “diversità” del suo carattere e ne rispetta la forza. Tra sfide e provocazioni, insomma, c’è l’occasione per Ernesto di fare emergere la propria personalità. Un particolare momento di intesa con gli altri si sviluppa intorno alla sonorità e al movimento di una trottola che Ernesto possiede, da cui sembrano scaturire poteri magici: uno zumbayllu. Sulla parola che è la fusione del verbo spagnolo zumbar (fischiare), e della desinenza quechua yllu (piccole ali in volo, un’onomatopea che attribuisce maggiore intensità ad espressioni come fischio, ronzio, voce, suono, canto, ritmo epico, propagazione della luce e altro...), la voce di Ernesto/Arguedas sospende la progressione narrativa soffermandosi a spiegarne il significato. La prolungata digressione linguistica che apre il sesto capitolo, lungi da ogni pretestuosità e approssimazione, è in realtà la vera porta di accesso al romanzo, un incontro diretto con il materiale forse più vivo (la lingua) di quella cultura del meticciato che lo scrittore si proponeva di rappresentare. Subito dopo gli avvenimenti precipitano: a causa della mancanza di sale, ad Abancay scoppia improvvisamente una rivolta che vede protagoniste le donne della comunità capeggiate da una combattiva chichera, doña Felipa. Ernesto, inebriato dall’atmosfera di riscossa che anima le insorte, partecipa istintivamente alla sommossa che si conclude inizialmente con l’esproprio e la distribuzione delle scorte ma a cui fa seguito una repressione che di lì poco ristabilisce il diritto padronale e costringe doña Felipa ad abbandonare il paese. La calma imposta militarmente, però, non dissipa le tensioni che scuotono Abancay. Anche all’interno del collegio l’atmosfera è già quella della resa dei conti. Un altro punto di contatto tra Ernesto e i suoi compagni, la scoperta del fascino femminile e dei turbamenti ad essa collegati, diviene territorio di rivalità e scontro tra i gruppi. È il momento della narrazione in cui il lettore scopre un altro aspetto della personalità del giovane protagonista: Ernesto e i suoi coetanei sono degli adolescenti alle prese con i primi innamoramenti e che stanno muovendo i primi passi nel campo del corteggiamento. Territorio di conquista: le fanciulle di Abancay. Ernesto, in special modo, sembra più degli altri possedere un’idea poetica dell’universo femminile, tanto da guadagnarsi il ruolo di dispensatore di consigli ai suoi – 43 – compagni di collegio e di autore anonimo delle loro lettere d’amore (rivelando così doti di scrittore). Fa da contrappunto anche a questo momento di intimità e lirismo, l’atteggiamento perverso di alcuni collegiali che fanno oggetto di continui abusi sessuali la donna delle pulizie, doña Marcelina, una povera demente ospite del collegio, inconsapevole e incapace di difendersi. La resa dei conti annunciata piomba su Abancay sotto forma di un’epidemia di tifo che fa le sue vittime anche all’interno del collegio (la stessa demente, il “Lleras” uno dei suoi violentatori, uno dei frati...). È l’epilogo del romanzo, il caotico finale in cui Ernesto si ritrova solo e per di più prigioniero: tutti i suoi compagni lasciano immediatamente il collegio mentre lui viene rinchiuso per qualche giorno a causa delle sue continue stranezze. Al colmo della disperazione, il paese intero scende in strada per invocare insieme a Padre Linares una messa che risparmi Abancay dalla calamità. È il momento in cui Ernesto matura una volta di più la scelta di afferrarsi alla propria individualità, al proprio istinto. Soltanto in extremis ottiene il permesso di lasciare anche lui il paese ed è un addio, il suo, rapido e definitivo. Appena il tempo di lasciare un mazzo di fiori appeso alla finestra della sua prima musa ispiratrice, la giovane Salvinia, dallo sguardo dello stesso colore dello zumbayllu. È un gesto che serve a scacciare per un momento la paura della notte e dell’ignoto che ancora una volta aspettano Ernesto appena fuori dal paese. E così come era stato senza preamboli l’esordio del libro, ugualmente il romanzo si chiude, quasi in modo brutale, su di un Ernesto lucido e allo stesso tempo visionario, impegnato a pianificare il suo viaggio mentre lo sgomento che lo circonda assume ai suoi occhi i caratteri di un’ingiustizia da cui soltanto una morte purificatrice può liberare. “Corsi, attraversai la città. Avrei attraversato il fiume dal ponte sospeso di Auquibamba, di pomeriggio. Se i colonos, con le loro imprecazioni e i loro canti avevano annientato la febbre, forse, dall’alto del ponte, l’avrei vista passare, portata via dalla corrente, all’ombra degli alberi. Se ne sarebbe andata appesa ad un ramo di chachacomo o di ginestra, o galleggiando su un manto di fiori di pisonay che questi fiumi profondi trascinano sempre. Il fiume l’avrebbe portata alla Gran Selva, paese dei morti. Come il Lleras!” Con questi pensieri per la testa Ernesto sparisce, insieme ai suoi presagi, lasciando il lettore derubato per sempre del diritto di sapere che cosa ne sarà di lui. – 44 – Sono numerose le ragioni per le quali il giovane protagonista e voce narrante del romanzo I fiumi profondi, è considerato dalla critica (e dai lettori) un personaggio di tutto rilievo nel panorama della letteratura ispanoamericana. Tra queste, c’è chi, in primo luogo, ne mette in risalto le qualità “transculturali”, cioè la capacità di trasmettere a un lettore non per forza edotto sul mondo del meticciato un’immagine realistica e come “prodotta dall’interno” del contesto meticcio andino; poi c’è chi coglie nei connotati adolescenziali del protagonista i tratti di una vicenda soprattutto di “formazione”; c’è chi infine ne fa un interessante strumento di scavo nella personalità del grande scrittore, morto suicida nel 1969, in ragione delle tante analogie biografiche esistenti tra la storia di Ernesto e la giovinezza dello stesso Arguedas. Sono interpretazioni tutte suggestive, approfondite e ampiamente dimostrate dai tanti studi dedicati a I fiumi profondi e al suo autore e che, d’altra parte, in molti casi concordano nell’individuare proprio in quest’opera, oltre che il passaggio ad un “indigenismo” non più di maniera bensì maturo e consapevole, anche il punto più alto della narrativa lirico-antropologica di Arguedas. La Bibliografia critica: - CASTRO-KLAREN SARA, Crimen y castigo: sexualidad en J.M. Arguedas, in Revista Iberoamericana, n° 122 enero-marzo 1983. - ESCOBAR ALBERTO, José María Arguedas, el desmitificador del indio y del rito indigenista. In “Nova Americana” n. 3, (Torino, 1980). - HARSS LUIS, Los ríos profundos como retrato del artista, in Revista Iberoamericana, n° 122 enero 1983. - MONTALVO YOLANDA, Los ríos profundos un “bildungsroman” mestizo, in “Letterature d’America”, n. 29/30/31, 1985/86. - RAMA ANGEL, Los ríos profundos, ópera de pobres, in Revista Iberoamericana, n° 122 enero 1983. JOSÉ MARÍA ARGUEDAS Opera narrativa: - 1935 Agua; - 1941 Yawar Fiesta, (ed. it. Festa di sangue); - 1954 Diamantes y pedernales; – 45 – - 1958 Los ríos profundos, (ed. it. I fiumi profondi); - 1961 El Sexto, (ed. it. Il Sexto); - 1964 Todas las sangres, (ed.it. Tutte le stirpi); - 1971 El zorro de arriba y el zorro de abajo, (ed. it. La volpe di sopra e la volpe di sotto). Opera antropologica: - 1938 Canto Kechwa; - 1949 Canciones y cuentos del pueblo quechua; - 1949 Ollantay. Cantos y narraciones quechuas; - 1966 Dioses y hombres de Huarochirí; - 1975 Formación de una cultura nacional indoamericana, (ed. it. Arte popolare, religione e cultura degli indios andini) - 1976 Señores e Indios, (ed. it. Musica danze e riti degli indios del Perù). GARABOMBO Tra i leggendari protagonisti dei cinque romanzi dedicati da Manuel Scorza (1928-1983) alle lotte contro l’usurpazione delle terre che i contadini peruviani sostennero negli anni tra il 1950 e il 1962, Firmín Espinoza, meglio noto con il soprannome di Garabombo, è senz’altro quello che più di ogni altro è dotato di un potere straordinario, un dono che sembra derivare da qualcosa di soprannaturale. La ragione dell’invisibilità di Garabombo però è semplice e ha ben poco del miracoloso: Garabombo è invisibile perché le autorità fanno finta di non vederlo quando va a protestare a nome della comunità. In un primo tempo crede di essere vittima di qualche stregoneria e di essere diventato davvero trasparente, ma poi, quando i tempi per la lotta si fanno maturi e la repressione si fa sempre più violenta, capisce che la sua condizione può rappresentare un vantaggio: un uomo invisibile non può essere catturato e quindi è un perfetto agitatore. E proprio diffondendo il mito della sua “trasparenza”, Garabombo lavora tra i campesinos per organizzarne la seconda rivolta, assai più importante e cruenta di quella di Rancas. La sua azione di coordinamento delle comunità andine della zona di Cerro de Pasco, infatti, costituisce il nucleo narrativo intorno al quale Scorza imbastisce il secondo capitolo del suo ciclo epico. Se a Rancas (in: Rulli di tamburo per Rancas, 1970) si era consumata una tragedia isolata, – 46 – Storia di Garabombo, l’Invisibile (1972) racconta il passaggio ad una fase più collettiva della lotta. Migliaia di contadini parteciperanno, sotto la guida di Garabombo, ad un’invasione pacifica di terre, di cui posseggono peraltro tutti i regolari diritti di proprietà. È un momento di ribellione che spezza quel tempo “immobile”, lungo 400 anni, che schiaccia gli indios e la loro storia sin dai giorni della Conquista. Per annullare l’effetto di una realtà tanto opprimente e distorta, da sempre gli indios hanno sentito la necessità di tornare a un’epoca nella quale Mito e Storia coincidono, spesso cercando consolazione nella rievocazione nostalgica del passato. Agli occhi delle comunità andine, Mito e Storia coincidono ora nell’invisibilità di Garabombo e attraverso di lui gli indios tornano, come nel passato, ad agire magicamente sulla realtà. Ugualmente soprannaturale e, come per l’invisibilità, riflesso di problematiche sin troppo concrete, è un’altra rarissima facoltà-malattia che a Garabombo è toccata in sorte, quella di invecchiare vertiginosamente. Firmín Espinoza non compie anni, bensì decadi intere lo incalzano lungo il racconto scorrendo veloci sul suo incedere faticoso. È un fluire inarrestabile che non fa che confermare ciò che la secolare sottomissione ha provocato negli indios. L’ansia di un riscatto forse vicino e la frustrazione accumulata nelle centinaia di anni che sono scorse su intere generazioni, invecchiate reclamando senza che nulla cambiasse, si scaricano tutte insieme su Garabombo, l’uomo simbolo di questa rivolta. Al di là di queste due particolari virtù, Firmín Espinoza è anche un indio come tanti altri, probabilmente dall’aspetto anonimo, inoffensivo, a cui trenta mesi di carcere a Lima bastano però per prendere coscienza e capire che è arrivata l’ora di ribellarsi e che, soprattutto, quando torna al suo paese trova il coraggio di mettersi a capo di un inimmaginabile progetto di insurrezione. C’è chi lo odia perché grazie alla sua invisibilità Garabombo può dormire con le donne sposate, ma nessuno può fare a meno di ammirarlo mentre entra senza alcuna difficoltà nella sorvegliatissima Caserma della Guardia de Asalto, a rubare i piani predisposti dall’esercito per far fallire l’ormai prossima invasione dei comuneros. Quando tutte le comunità sono pronte ad agire Garabombo sa che il dono della trasparenza sta per estinguersi. Lo pone come condizione la stessa natura “burocratica” del sortilegio e ne va anche dell’esito della rivolta: se il reclamo questa volta non sarà “invisibile” la guarigione del comunero Espinoza sarà definitiva. Lo ha annunciato lui stesso ai suoi compagni: “Il giorno in cui non sarò più invisibile è il giorno in cui voi smette– 47 – rete di avere paura; il giorno in cui io sarò a capo della cavalleria comunera, il giorno della grande battaglia, quel giorno tornerò ad essere visibile.” Tutti, al vederlo parlamentare con le Autorità all’alba dell’invasione delle terre, tireranno un sospiro di sollievo. Garabombo per primo. Garabombo è una persona saggia, lo si capisce dai suoi discorsi semplici, dal suo modo di prendere decisioni, da come usa la sua intelligenza nei momenti critici della lotta. È anche dotato di un notevole coraggio, ma è soprattutto un testardo, un uomo che ha deciso di arrivare fino in fondo, costi quello che costi. Non stupisce quindi che la morte lo attenda al varco e lo colpisca a tradimento non durante le fasi più cruente della repressione ma per mano di un cecchino infallibile al soldo di un oscuro mandante. Scorza così rivive il momento in cui Garabombo viene giustiziato mentre procede a cavallo lungo un sentiero delle Ande: “L’Occhio premette il grilletto. E qualcosa come ottocento venerdì dopo il mezzogiorno in cui tornò dal servizio militare, fu raggiunto dal proiettile. Stupefatto, ma non la stupefazione finale, Garabombo aprì la bocca, ma non gridò: le cime vertiginose, il fiume che ondeggiava, il vestito macchiato, furono le ultime cose che guardò. Scivolò giù dal cavallo. Huracán sentì che le mani si allentavano e si fermò. Sembrò, un attimo, che l’uomo incrostato nelle staffe si curvasse per raccattare dal fiume, quindici metri più sotto, un fiore impossibile; poi si schiantò. Mentre stramazzava riuscì ancora a vedere le tavole marcite che gridavano l’incuria dei tenentigovernatori, l’ora in cui conobbe sua moglie, gli occhi spaventati del defunto Eusebio Cuellar, i pipistrelli di Jupaycanan, le reclute sotto il sole, il venditore di pane che si allontanava, Bustillos che reclamava, il bidonepisciatoio del dormitorio della prigione, i vecchi senza terra seduti nel crepuscolo, gli occhi azzurri di don Gastón, le bandiere della comunità che entravano baldanzosamente nella fazenda Chinche, la terza scuola di Chupán che si incendiava, e il piede che gli rimase impigliato, per un secondo, nella staffa, prima di scivolare verso la notte. Non udì il secondo sparo...” Com’è noto, tutte le ribellioni raccontate da Scorza nel ciclo dei cinque Cantares hanno un finale tragico e ripetitivo, il massacro dei contadini in rivolta. L’autore, quando iniziò a pubblicare i suoi romanzi, definì questa lunga stagione di lotte come il Vietnam delle Ande, con l’aggravante che oltre che sanguinosa si trattava di una guerra nascosta e dimenticata sia in Perù sia a livello internazionale. Ci furono migliaia di vittime: mai come in questo caso, dunque, potrebbe apparire ingiusto non ricordare i nomi di chi, insieme a Fermín Espi– 48 – noza, perse la vita in quelle battaglie. Ma i protagonisti dei cinque romanzi sono troppi e di ognuno meriterebbero di essere ricordate le gesta, ancora prima che il nome. Ne valga uno per tutti, allora, la cui invisibilità si fece metafora improvvisa e dolorosa davanti agli occhi di un vasto pubblico, nel 1972, quando la piccola leggenda quasi dimenticata di Garabombo divenne un libro di successo in tutto il mondo. La Bibliografia critica: - Mauro W. e Clementelli E., Manuel Scorza, in “La trappola e la nudità”, Rizzoli editore, 1974. - Pranzetti, Luisa, Élegía y rebelión en los cantares de Manuel Scorza, in Revista de Crítica Literaria Latinoamericana, N° 25, Lima, 1987. Suárez, Modesta, Manuel Scorza habla de su obra, in Socialismo y participación, N° 27, Lima, 1984. MANUEL SCORZA Opera narrativa: - 1970 Redoble por Rancas, (ed.it. Rulli di tamburo per Rancas); - 1972 Historia de Garabombo el invisible, (ed.it. Storia di Garabombo l’invisibile); - 1977 El jinete insomne, (ed.it. Il cavaliere insonne); - 1977 Cantar de Agapito Robles, (ed.it. Cantare di Agapito Robles); - 1979 La tumba del relámpago, (ed.it. La vampata); - 1983 La danza inmóvil, (ed.it. La danza immobile). Opera poetica: - 1955 Las imprecaciones; - 1960 Los adioses; - 1961 Desengaño del mago; - 1962 Réquiem para un gentilhombre; - 1970 El vals de los reptiles. – 49 – MARIO CARINI L’evoluzione dell’imperium dalla prima età repubblicana ad Augusto 1. È ben noto che la riflessione sul passaggio dal regime repubblicano al principato ha prodotto una vastissima messe di studi, tutti destinati a confrontarsi con la celebre tesi “diarchica” del Mommsen, per accettarla, rettificarla, integrarla o respingerla. Non vogliamo in questa sede, per evitare di ripetere il già detto e perché ciò esula dall’ambito del presente lavoro, ripercorrere un ampissimo itinerario di studi, quanto piuttosto mettere in chiaro alcune modalità della concentrazione di potere nelle mani di un singolo, il princeps, il quale alla fine di un travagliato ma preciso disegno politico venne, perciò, a sovrastare di fatto la comunità dei cives, pur professandosi formalmente deferente all’autorità del senato, l’organo più rappresentativo dei cives stessi.1 Com’è noto, il rispetto dell’autorità senatoria è motivo di elogio della figura di Augusto da parte degli storiografi antichi. Tuttavia non può negarsi che in varie occasioni Augusto (quand’era ancora Ottaviano, dunque giovanissimo) aveva mostrato verso il senato una determinazione fortissima a coartarne la volontà, in funzione del suo disegno politico, la premeditata scalata al potere: come quando, ad esempio, a fine luglio del 43 a.C. inviò una ambasceria non di pacifici messi, ma di 400 centurioni (armati) al senato, per chiedere un compenso per loro stessi e l’ammissione del loro comandante al consolato, in absentia, contro la lex Cornelia che stabiliva ben precisi limiti di età per le candidature e la lex Pompeia del 50 (che, frustrando gli intenti di Cesare, imponeva la presenza nell’urbe ai candidati alle pubbliche magistrature). È ciò un chiaro indizio che il figlio di Cesare nutriva pochissimi scrupoli di legalità costituzionale, quando voleva imporre le sue scelte (“strana ambasceria” la qualifica giustamente S. TONDO, Profilo di storia costituzionale romana, vol. II, Giuffrè, Milano 1993, p. 227, sulle orme di R. SYME, La rivoluzione romana, trad. di M. Manfredi, Einaudi, Torino 1974 (rist.), p. 186). Si ha un accenno di questo episodio in CIC. fam. 10,24,4-6 (lettera di Munazio Planco del 28 luglio 43 a.C.), in cui il corrispondente dell’Arpinate (ardente filorepubblicano, pronto però a salire sul carro del vincitore: si tratta dello stesso personaggio che nel 27 a.C. propose al senato il titolo di Augustus per Ottaviano) si mostra assai preoccupato perché Ottaviano pensa di chiedere il consolato per due mesi (consulatus bimestris): la giudica, sottovalutando le intenzioni del figlio di Cesare, una sciocca richiesta (insulsa efflagitatio) che però crea tanto terrore nel popolo (summo cum terrore hominum: a ragione, perché Ottaviano triumviro, qualche mese più tardi, fu corresponsabile, insieme col suo sodale Antonio, di efferate proscrizioni). Il 19 agosto del 43 a.C. Ottaviano, a dispetto della giovanissima età, riuscì comunque a farsi eleggere console insieme con Quinto Pedio, che l’anno prima era stato nominato coerede testamentario di Cesare. 1 – 50 – Gli studiosi hanno da tempo riconosciuto i cardini del potere di Augusto (a prescindere dalla questione, su cui più oltre ci soffermeremo, se si sia trattato di un potere di tipo costituzionale o carismatico) nell’imperium proconsulare maius et infinitum e nella tribunicia potestas. È grazie a questi due poteri (che l’ordinamento civico prevedeva, ma vedremo poi in che misura) che Ottaviano, insignito del titolo di Augusto nella seduta senatoria del 15 gennaio 27 a.C., su rogatio del fido Munazio Planco,2 perfeziona il suo potere personale, instaurandolo definitivamente nella forma del principato. Da quel momento la sua auctoritas, fin allora surrettiziamente introdotta con il crescere delle funzioni che Ottaviano veniva assumendo anno dopo anno, si manifesta chiaramente anche nel nome Augustus ed è destinata a valere a fronte di quella del senato. Ma la concentrazione di poteri che Augusto assommò nelle sue mani, e che si riflettono nell’imperium proconsulare maius et infinitum e nella tribunicia potestas, non sarebbe stata possibile se la sua superiore intelligenza politica non avesse trovato già pronti, a sua disposizione, per così dire, quei formidabili strumenti di potere, che il precedente corso di eventi storici (contrassegnato da quasi un secolo di lotte intestine, a partire dallo sfortunato esito del tentativo di riforme graccane per realizzare l’equo possesso dell’ager publicus) aveva elaborato, per l’azione incalzante del movimento popolare. 2. Limitando il nostro discorso a questo ambito, più che alla tribunicia potestas (che fu conferita ad Augusto più volte, ossia nel 36, dopo Nàuloco, nel 30 e nel 23 a.C., di volta in volta ampliata nelle sue attribuzioni, in particolare nell’estensione dello ius intercessionis a favore, da ultimo, di tutti i provinciali) guarderemo all’imperium proconsulare maius et infinitum. 2 Personaggio dalla ondivaga carriera politica (repubblicano e filoantoniano, prima di Azio), fu uno dei più valenti collaboratori, vero alter ego, di Augusto. Gli altri sono Mecenate e Marco Vipsanio Agrippa, che Augusto scelse come marito di sua figlia Giulia e su cui aveva riposto legittime speranze per la propria successione, conferendogli la tribunicia potestas (dal 18 a.C.) e l’imperium proconsulare (dal 13 a.C.): speranze troncate dall’improvvisa morte di Agrippa stesso (12 a.C.). Munazio Planco fu altresì amico di Orazio, che in Carm. 1,7,18 ne ricorda tristitiam vitaeque labores e, assieme alla nostalgia per Tivoli, l’attuale permanenza nei fulgentia signis castra (il “campo lucido d’insegne” è probabile allusione a una spedizione militare, non specificabile, anche se l’ode dovrebbe rimontare a tempi successivi alla battaglia di Azio, vd. nota cronologica di E. Mandruzzato al suo commento ad ORAZIO, Odi ed epodi, Rizzoli, Milano 1992 (IV ed.), p. 549). Su Munazio Planco: voce in D. BOWDER, Dizionario dei personaggi dell’antica Roma, trad. di C. Antonelli, Newton Compton, Roma 1990, p. 225. – 51 – Si trattava, anzitutto, di due poteri che avrebbero potuto essere usati in funzione complementare. La tribunicia potestas assicurava al princeps la primazia e la tutela della persona (tutela peraltro rafforzata dall’istituzione del corpo dei pretoriani, nel 9 a.C., sul modello di quello dei celeres operanti nel regime monarchico) all’interno dei confini dell’urbe, ossia entro il pomerium, il perimetro sacro corrente attorno alle mura (dove in teoria non sarebbero dovuti entrare eserciti in armi, se non nei giorni del triumphus concesso dal senato).3 Essa, da sola, però, non sarebbe potuta bastare a garantire né la persona né l’azione di Augusto. La tribunicia potestas assicurava a chi ne era insignito l’inviolabilità propria dei tribuni della plebe.4 Ma Cesare, pur insignito anch’egli della tribunicia potestas, non era perciò scampato ai pugnali dei congiurati nella curia, alle idi di marzo del 44 a.C., e, in seguito, un tribuno della plebe, Cinna, era stato fatto a pezzi dalla folla inferocita durante i disordini seguiti al funerale del dittatore. Senza considerare, poi, che se Augusto fosse realmente stato collega dei tribuni plebei, questi avrebbero potuto, usando il loro potere di veto, paralizzarne qualsiasi iniziativa, annichilendo così la sua azione politica (perciò Cassio Dione attesta che Augusto, pur dotato del potere dei tribuni, non volle mai assumerne il corrispondente titolo di tribunus – in greco δήµαρχος –, proprio per non essere in rapporto di collegialità con loro e sottrarsi così al loro ius veti). Occorreva perciò che la potestà tribunizia si integrasse con un altro potere, destinato a consolidare le garanzie e le tutele che dovevano necessariamente circondare il dispiegarsi dell’azione del princeps, la sua salda regia di creatore di un nuovo ordinamento statale, pena, in caso contrario, il degradare inevitabile del quadro politico nello sconvolgimento dell’anarchia e di una rinnovata guerra civile.5 Va ricordato che il pomerium divideva l’area cittadina (domi) da quella esterna (su cui si estendeva l’imperium militiae). Il console e il dittatore non potevano esercitare entro il pomerium, e dunque entro l’urbe, l’imperium militiae: ciò serviva a garantire i magistrati e il senato dai colpi di stato. 4 Inviolabilità sanzionata prima dalla sacertà (494 a.C.) e poi dalla pena di morte (plebiscito del trib. Publio Duillio, 449 a.C.) comminata al trasgressore. 5 Ossia il riconoscimento che l’azione del princeps potesse essere inficiata da un altro magistrato, a lui pari, avrebbe trasformato l’instauranda monarchia in una sorta di “poliarchia” (com’era di fatto stato il secondo triumvirato) e introdotto la questione (non pacificamente risolvibile, come quasi sempre avviene nella storia, soprattutto allorché si tratta di consolidare ordinamenti nuovi o di definire una successione al potere) a chi spettasse esercitare il supremo comando. Proprio perché la questione della supremazia non era stata risolta tra i secondi trium3 – 52 – Questo potere fu, appunto, l’imperium proconsulare, potere perfettamente previsto dal tradizionale ordinamento romano: Augusto non volle però assumere il normale potere militare dei proconsoli, bensì un potere, un imperium, che gli fosse assai superiore per intensità di attribuzioni e durata. Dunque, un imperium proconsulare non tradizionale, ma maius et infinitum. Soltanto che, e questo è un punto fondamentale del nostro discorso, Augusto non lo dovette creare ex novo, bensì lo trovò già pronto. Ciò che dovette fare fu assumerlo, quando gli venne concesso (dal senato, nella seduta del 13 gennaio del 27 a.C., appena precedente quella del 15, nella quale venne votato, su rogatio di Planco, il conferimento del titolo di Augustus ad Ottaviano, in riconoscimento del suo particolare carisma: 6 due sedute, non a caso, contigue), in modo che il potere non sembrasse richiesto ma soltanto concesso, e (questo spiega l’intelligenza politica del personaggio) gestirlo in misura che apparisse sempre moderata e responsabile, di fronte al senato stesso. In realtà Augusto camuffava dentro un “guanto di velluto” un potere che il senato, una volta concesso, non avrebbe osato revocare, senza correre il rischio di rinnovare una guerra civile appena conclusa e di certamente decretare con ciò la sua stessa fine. 3. Passiamo a vedere, ora, quale sia stata la genesi dell’imperium proconsulare maius et infinitum. Come potè un potere perfettamente previsto e soggetto a potenti mezzi di controllo preordinati dall’ordinamento stesso, crescere fino a travalicare i suoi stessi limiti costituzionali, per arrivare a diventare un formidabile “superpotere”, strumento incontrastabile di potenza, non nelle mani del magistrato al servizio del popolo, bensì in quelle del singolo, magari tentato da una visione personalistica della res publica, in termini di onori, prestigio e gloria, e perciò disposto a correre la via dell’avventurismo militare? Come già detto, questo potere divenuto, al tempo di Augusto, di eccezionale, smisurata ampiezza (come, del resto, indicato dai termini maius et infinitum, che esamineremo in seguito) non nasce certamente con Auviri, i quali ritenevano ciascuno di essere il capo tra i tre, il secondo triumvirato, per la sua intrinseca debolezza, aveva visto il rinnovarsi delle guerre civili, risolte definitivamente nella battaglia di Azio (1° settembre del 31 a.C.). Ottaviano, per consolidare il suo potere, aveva bisogno di essere riconosciuto come il capo indiscusso della comunità civica, ma nello stesso tempo di non travalicare, almeno formalmente, l’autorità del senato. 6 Augustus come equivalente del greco Σεβαστóς, a riconoscimento del carattere di venerabilità e oltrumanità della persona stessa del princeps (vedi l’accurata analisi del termine in TONDO, Profilo di storia, cit., p. 251). – 53 – gusto, ma è il risultato di una lunga evoluzione del concetto di imperium e delle sue attribuzioni, evoluzione che ha i suoi momenti più significativi nell’ultimo secolo della repubblica, periodo travagliato dalle guerre civili. Consideriamone i momenti iniziali. L’imperium nell’età repubblicana7, com’è noto, era il potere del magistrato, a carattere coercitivo, che il medesimo esercitava sui cives sia in pace (domi, ossia all’interno del pomerium) sia in guerra (militiae, all’esterno del pomerium). Questo imperium, che, nella forma militiae, comprendeva il potere di arruolare eserciti, di nominare ufficiali subalterni, di comminare sanzioni inappellabili sulla vita e sui beni dei soldati,8 di dirigere la guerra, di condurre trattative e stipulare accordi a termine o senza (indutiae e pax) col nemico,9 di distribuire ai soldati il bottino, i prigionieri e i territori strappati al nemico (previo riconoscimento da parte del senato), era stato diviso nelle molteplici attribuzioni civili (domi) e militari (militiae) da Silla, con la sua lex Cornelia de provinciis ordinandis (81 a.C.). Questa stabiliva, com’è noto, che il magistrato esercitasse il suo imperium nella forma civile prima, e militare poi, in due fasi temporali rigidamente scandite. Il console doveva 7 L’imperium del magistrato repubblicano, ossia del console, è diretta derivazione da quello del rex, che era supremo, vitalizio e unico. La novità introdotta dal regime repubblicano, e connessa alla cacciata del Superbo (509 a.C.), fu di rendere il potere supremo collegiale e annuale, proprio per evitare la possibile instaurazione d’una tirannide. Sull’imperium ragguagli di L. BOVE in “Novissimo Digesto Italiano”, vol. VIII, UTET, Torino 1982 (rist.), pp. 209-212: in senso tecnico, indicherebbe il potere che era attribuito ai soli magistrati supremi della res publica, ma va ricordato che i Romani, giuristi non giuristi e politici, non ci hanno lasciato una definizione di imperium (ibid., p. 210). 8 È noto che il potere di vita e di morte del comandante sui soldati era severissimo e praticamente assoluto, perché in via di principio era inattaccabile dalla provocatio, ossia il diritto di appellarsi al popolo contro le condanne nella persona o nei beni pronunciate da un magistrato. Tale diritto fu attribuito a tutti i cives, a seguito del famoso processo di Orazio, fin dall’età monarchica (il giudice competente in seconda istanza era l’assemblea centuriata). Invece i soldati ne erano esenti, anche se, con le tre leges Porciae (risalenti probabilmente alla fine del II secolo a.C.) furono introdotti vari temperamenti all’imperium militiae, tra cui il diritto di appello, ma per i soli reati comuni dei militari (invece la diserzione, il tradimento e l’abbandono del posto restarono sempre inappellabili: sul punto vd. V. ARANGIO-RUIZ, Storia del diritto romano, Jovene, Napoli 1953 (rist. VI ed.), pp. 171-172). 9 Tutte prerogative, queste, che saranno recepite come attribuzioni del princeps nella famosa formula d’investitura nota come lex de imperio Vespasiani (su cui vd. la dettagliata analisi delle clausole in TONDO, Profilo di storia, cit., pp. 300-308, che riconosce nel potere di normazione la prerogativa essenziale del princeps stesso, siccome quella che veniva a realizzare l’equazione tra lex e voluntas principis, premessa fondamentale all’autocrazia; è uno sviluppo chiaramente individuato nell’Enchiridion di Pomponio con le parole igitur constituto principe datum est ei ius, ut quod constituisset, ratum esset, in D.1,2,2,11). – 54 – così risiedere in Italia (i pretori furono addirittura vincolati a risiedere nell’urbe, sicché lo straniero, in caso di competenza del praetor peregrinus,10 doveva personalmente sobbarcarsi l’onere del viaggio a Roma, se voleva agire a tutela di un suo interesse), nell’anno di carica, esercitando funzioni civili (dunque senza eserciti alle dipendenze, se non in casi eccezionali): scaduto il quale, doveva esercitare l’imperium militare, dunque a capo di un esercito, nella provincia assegnatagli dal senato,11 nell’anno o in uno degli anni successivi al suo mandato consolare, come promagistrato (pro consule, ossia magistrato con imperium prorogato). L’imperium era assegnato ai promagistrati dal senato che nominava e destituiva proconsoli e propretori nelle province; dunque, anche per questo aspetto il senato esercitava, almeno in teoria, un rigoroso controllo sul governo delle province,12 e l’imperium era ad esso vincolato. Il senato stesso si trovava ad essere virtualmente a capo dell’apparato militare romano e i consoli e proconsoli erano il suo braccio armato. 4. Ma, in progresso di tempo, qualcosa intervenne a inceppare il delicato meccanismo. Sintomo che l’equilibrio tra gli organi dello stato si andava facendo instabile fu la proroga dell’imperium, un mezzo eccezionale per situazioni d’emergenza a cui i senatori ricorsero sempre più spesso, stravolgendone il senso e la portata, e soprattutto permettendo che singoli individui potessero avere a loro disposizione, per lunghi anni, in territori lontani da Roma eserciti, prestigio e potere, senza alcun controllo da parte del senato stesso. Il magistrato incaricato di esercitare la giurisdizione nelle cause tra Romani e stranieri (peregrini): fu istituito ufficialmente nel 242 a.C. 11 È noto che i territori conquistati da Roma (già nel III secolo d.C.: la prima provincia fu la Sicilia) furono ordinati in provinciae: tale ordinamento ebbe origine dal potere militare del magistrato romano esercitato sui popoli vinti, un potere che prima si estrinsecava nella zona di operazioni (chiamata, appunto, provincia) e, dopo la vittoria, sul territorio conquistato al nemico. La provincia, pertanto, rappresentò la trasformazione di tale potere in un permanente sistema di governo, finalizzato allo sfruttamento per conto del popolo romano (secondo il modello dell’“imperialismo di rapina”), come chiariscono assai bene le parole di Cicerone in II Verr. 2,3,7: quasi quaedam praedia populi Romani sunt vectigalia nostra et provinciae. In proposito vd. F. DE MARTINO, Storia della costituzione romana, vol. II, Jovene, Napoli 1960 (rist.), p. 281. 12 Ma ciò non valse ad evitare gli abusi dei promagistrati ai danni dei provinciali, abusi di cui fu un eclatante esempio il crimen repetundarum, la concussione: al punto che si dovette istituire un’apposita commissione permanente d’inchiesta (quaestio) per la persecuzione di quel reato così frequente, con la lex Calpurnia del 149 a.C. 10 – 55 – La proroga dell’imperium è un istituto assai risalente nella storia della costituzione romana.13 È noto che il magistrato, decaduto dalla carica ma ancora impegnato in guerra, poteva restare a capo dell’esercito, con potere prorogato, fino all’arrivo (che poteva anche essere ritardato, secondo la volontà del senato) del successore: egli esercitava dunque l’imperium pro consule o pro praetore, con una prosecuzione che, in decorso di tempo, raggiunse anche lunga durata. Naturalmente ciò fino all’arrivo del successore, che faceva decadere automaticamente il precedente titolare. Il primo caso di proroga dell’imperium si ha con il console Quinto Publilio Filone, nel 327 a.C., il quale cessò dalla carica mentre era impegnato contro Napoli: allora un decreto senatorio e un plebiscito gli rinnovarono il comando dell’esercito. Nel 295 a.C. venne concessa la proroga di un anno dell’imperium al console Lucio Volumnio, durante la terza guerra sannitica. Poi la proroga dell’imperium venne concessa soltanto per Senatus Consultum (= SCtum), e tale atto si considerò rientrare perfettamente nelle prerogative del senato, senza necessitare di alcun controllo da parte del concilio plebeo (se non di una semplice adesione formale). L’imperium prorogato era normalmente soggetto al termine perentorio annuale, e si estingueva all’atto dell’entrata del suo titolare entro il cerchio del pomerium, a meno che, in via del tutto eccezionale, il promagistrato non avesse rango eguale al magistrato: in tal caso egli esercitava l’imperium anche domi, ossia entro l’urbe. 5. I princìpi che regolavano la prorogatio imperii vennero però a soffrire, nel tempo, notevoli alterazioni, che furono tra le concause della crisi della res publica. Queste sono essenzialmente le seguenti: 1) anzitutto vennero concessi imperia di tipo promagistratuale a personaggi che non rivestivano una magistratura ordinaria di rango eguale (per esempio, a ex pretori fu concesso il proconsolato) o addirittura erano semplici privati: in tale caso si trattò di imperia attribuiti a privati al di fuori dell’ordo magistratuum, ossia di imperia extra ordinem (= extraordinaria); 2) vennero proposti imperia promagistratuali, con ampiezza di poteri sempre crescenti (fino a quello maius, che non doveva essere deposto né rinnovato, 13 Vd. F. DE MARTINO, Storia della costituzione romana, vol. II, cit., pp. 190-192. Succinte note sulla prorogatio imperii in F. DEL GIUDICE-S. BELTRANI, Dizionario giuridico romano, Simone, Napoli s.d. (II ed.), p. 437. – 56 – rispetto ai limiti del pomerium)14 e di durata sempre maggiore (dal termine annuale si giunse a quello quinquennale, per giunta rinnovabile, come fu per Cesare, Pompeo, i secondi triumviri e Augusto); 3) l’assegnazione dell’imperium proconsolare, nel I secolo a.C., durante le guerre civili e fino all’instaurazione del principato, fu spesso proposta dai tribuni della plebe, e concessa con plebisciti,15 talora anche senza la deliberazione del senato (e, dunque, anche contro la sua volontà). È importante soffermarci su questo punto, perché ciò vale a spiegare una delle ragioni più gravi della crisi della repubblica romana. Furono proprio i tribuni della plebe a premere perché, in determinate circostanze di pericolo per Roma, si concedessero poteri straordinari a singoli personaggi politici, magistrati o addirittura privati, non curando che, seppur il conferimento dell’imperium fosse stato in funzione risolutiva d’una guerra intrapresa, ad esempio, da un Mitridate in Asia, esso non avrebbe mancato di proiettare il titolare ai vertici della politica e, in virtù del conseguito prestigio, della popolarità e del rafforzato legame coi suoi soldati, avrebbe certamente ispirato aspettative (più o meno legittime) di acquisizione del potere supremo. Sicché era il generale vittorioso a voler aspirare al potere politico: e, per conseguenza, il privatus che volesse percorrere tutti i gradi del cursus honorum, doveva necessariamente mettere nel conto una o più fortunate imprese militari. Perché proprio i tribuni vollero agire in modo da rafforzare le posizioni di potere dei singoli privati o magistrati? Ciò si spiega con l’intento originario del tribunato, giammai nascosto ma sempre perseguito con pertinace coerenza dai tribuni, almeno da quelli rimasti fedeli allo spirito popolare e democratico che animò i grandi movimenti della plebe. Si ricordi che il tribunato era nato (nel 494 a.C.) in radicale opposizione al potere consolare: i magistrati plebei avevano il compito di difendere la plebe dagli abusi dei consoli, usando il loro ius intercessionis (che dapprima fu una vera e pro- 14 Ordinariamente l’imperium promagistratuale era aequum, ossia di misura pari per tutti i governatori provinciali: un governatore non aveva perciò maggior potere di un altro, e tanto valeva ad escludere interferenze reciproche. Fu Silla, con la lex Cornelia de maiestate (81 a.C.), a sanzionare gli abusi dei governatori provinciali, relativi ad inziative militari non autorizzate: exire de provincia, educere exercitum, bellum sua sponte gerere, in regnum iniussu populi ac senatus accedere. 15 I quali, dopo la lex Hortensia del 287 a.C. (ma questa veniva soltanto a modificare la portata della prima delle leges Valeriae Horatiae del 449 a.C. e della lex Publilia Philonis del 338), erano divenuti perfettamente equiparati alle leges. – 57 – pria interposizione fisica tra il magistrato prevaricatore e il plebeo), che annullava l’atto di quelli. La plebe aveva trovato perciò i suoi coraggiosi difensori, protetti peraltro, nella loro persona, dalla garanzia dell’inviolabilità (a cui era connessa la terribile sanzione della sacertà). Ma il senato, consapevole di poter difficilmente aver ragione di quel mezzo di difesa degli interessi della plebe, s’era dato a corrompere i tribuni stessi o a far eleggere tribuni personaggi addirittura provenienti dalle file del patriziato, fidando di poter vanificare, in questo modo, l’operato del singolo tribuno stesso, soprattutto quando avesse avuto una chiara finalità riformatrice. Era stato proprio questo il caso del veto opposto dal tribuno Marco Ottavio, che agiva per conto del senato, alla rogatio del collega Tiberio Gracco, nel 133 a.C., con cui questi voleva introdurre la celebre riforma agraria. Da allora i tribuni, consapevoli di non poter più agire da soli per frenare il predominio dell’oligarchia senatoria (incontrastata, soprattutto al tempo di Silla), presero ad agire per creare posizioni di potere, anche per mezzo del conferimento di ampissimi poteri militari, in chi, privato o magistrato, fosse ritenuto capace di assumere la guida del movimento popolare. Senza calcolare, però, che la consapevolezza di poter contare sempre su un fedele esercito,16 avrebbe presto indotto nei titolati di imperia straordinari la tentazione di agire con veri e propri colpi di stato per rovesciare l’ordinamento e confermare definitivamente il proprio dominio personale. Quindi il disegno dei tribuni di creare un capo fortissimo, all’interno del movimento popolare, da opporre al senato in funzione di vindice della plebe, determinò alla lunga il suicidio del movimento popolare e della stessa res publica. Ricordiamo da ultimo un altro punto, che concorse a sovvertire le regole dell’imperium: 4) l’imperium proconsolare venne conferito a personaggi che detenevano anche altre cariche, in modo da realizzare viepiù una concentrazione abnorme di poteri in capo allo stesso soggetto: un console in carica, per esempio, si vide offrire il proconsolato in provincia, e viceConsapevolezza rafforzata dalla riforma mariana, che permise l’ingresso nell’esercito, come volontari, dei proletarii e dei capite censi, ossia degli infimi tra i cittadini della VI classe serviana, fin allora praticamente militesenti: questi si abituarono a legare il proprio destino a quello del loro comandante, e quest’ultimo a considerare le sue milizie come una massa di manovra, pronta all’impiego sul campo, in funzione politica. Il primo impiego dei nullatenenti da parte di Mario avvenne in Africa, contro Giugurta, nel 106 a.C. (SALL. Jug. 86, dà menzione del fatto e riporta le critiche dei contemporanei, che attribuivano la riforma alla inopia bonorum o alla ambitio consulis). 16 – 58 – versa.17 Esempi di alterazioni, in questo senso, furono: la proroga dell’imperium (con la qualifica proconsulare) a Marco Claudio Marcello, che era pretore, per mezzo di una legge comiziale nel 215 a.C., e quella dell’imperium a Caio Aurunculeio, pretore in Sardegna, conferita soltanto con plebiscito, nel 208. Ma un caso più eclatante (che ricade sotto il primo punto) è il conferimento, con legge comiziale nel 211, dell’imperium proconsulare per la Spagna a Cornelio Scipione (il famoso Africano), che non era console, aveva 24 anni ed era stato, fino a quel tempo, soltanto edile curule. Non può sfuggire l’abnormità di questo fatto: un giovane politico “rampante”, ma inesperto, si vide dai suoi concittadini messo a capo di un potente esercito, da semplice privatus, sia pur per mezzo di una legge comiziale (che implicava un consenso certamente più vasto che il plebiscito).18 Nel caso di Scipione, però, faceva altresì ingresso il principio che l’imperium potesse essere slegato dalla magistratura corrispondente (pretura, consolato o proconsolato): tale principio, gravido di conseguenze, si affermò durante le guerre civili e fu assunto programmaticamente da Ottaviano, portando in breve all’instaurazione del principato. 6. Nel I secolo a.C. si assiste alla crescita dell’imperium in termini di attribuzioni e al suo conferimento in via straordinaria, contro ogni principio di legalità repubblicana. Così, il tribuno Servio Sulpicio Rufo, nell’88 a.C., propose di assegnare un imperium militare, con il comando delle legioni impegnate contro Mitridate in Asia, a Mario, ch’era allora un semplice privatus. Soltanto che quel comando era già stato deciso dal senato per Silla, il console in carica. Si trattò dunque di uno storno del comando, inammissibile sotto il profilo costituzionale, che Sulpicio Rufo poté attuare forte dei È il caso di Pompeo che, già proconsole in Spagna per cinque anni (lex Trebonia del 55 a.C.), dopo il suo consolato del 55 (con Crasso), fu nominato consul sine collega nel 52. Il senato sperava in questo modo di frenare i disordini per la morte di Clodio, senza calcolare (o, forse, con meditata intenzione) di attribuire all’ex amico di Cesare un potere enorme che avrebbe potuto mettere in pericolo lo stato. Naturalmente il conferimento non avvenne senza violazione della legalità (com’era nel costume del tempo), poiché, oltre al fatto che il consolato doveva essere collegiale, la lex Cornelia de iure magistratuum stabiliva un intervallo almeno decennale tra una carica e l’altra, mentre il plebiscito del 342 aveva posto il divieto di cumulo delle cariche e una vigente norma delle XII Tavole vietava l’approvazione di leggi a vantaggio di un singolo cittadino (privilegia ne inroganto, in XII Tab. 9,1). 18 In quanto la lex, per la celebre definizione gaiana (GAIUS Inst. 1,3), è lo iussum populi, mentre il plebiscito è la deliberazione della sola plebe. 17 – 59 – 3000 armati e 600 cavalieri con cui in precedenza aveva occupato Roma. In questo caso la decisione fu imposta con la forza delle armi e ottenuta con una legge, ma senza l’avallo del senato, sicché poté giustificarsi la reazione di Silla, il quale da Capua marciò alla testa dei suoi soldati a Roma, rovesciando la situazione e facendo abrogare le leges Sulpiciae. Altri ulteriori, clamorosi casi di conferimento di poteri straordinari erano poi destinati a verificarsi nella vita politica: conferimenti votati per iniziativa dei tribuni della plebe, la cui funzione si era trasformata, come già detto, in un autentico sostegno politico garantito a coloro che ambissero ad essere capi militari, contro la volontà dell’oligarchia senatoria. Come scrive Velleio Patercolo (VELL. 2,33,1), tribuni come Manilio (che fece votare nel 66 a.C. il conferimento dell’imperium a Pompeo per la rinnovata guerra contro Mitridate)19 erano divenuti ministri alienae potentiae, servi dell’altrui potenza (o, meglio, aspirazione al potere). Si escogitò un imperium infinitum, non limitato all’ambito territoriale della provincia, ma esteso a tutte: il comandante, impegnato o meno in campagne militari, poteva così portare le sue truppe al di fuori dei confini del territorio di stretta competenza, e aveva facoltà di coordinare la sua azione con quella degli altri colleghi, quando necessario. Altrimenti avrebbe potuto agire anche da solo, ma sempre informandone il collega governatore della provincia contigua. Inoltre questo tipo di potere militare non soffriva il limite del pomerio dell’urbe, e dunque non doveva essere deposto all’ingresso del comandante in Roma. 7. L’imperium infinitum ha il suo precedente nella curatio infinita totius orae maritimae (VELL. 2,31,3; Ps.Asc. in Verr. 2,2,8 ed. Stangl p. 259), che fu assegnata per decreto senatorio al pretore Marco Antonio nel 74 a.C., in assenza dei due consoli, perché agisse contro i pirati che infestavano le coste del Mediterraneo. Ma, a dispetto dei poteri garantiti da questo “proconsolato universale”,20 Antonio non riuscì a combinare molto, e si dovette pensare ad altra iniziativa. Vi provvide il tribuno Aulo Gabinio, che nel 67 a.C. propose la lex de uno imperatore contra praedones constituendo, per assegnare a Pompeo poteri straordinari contro i pirati. Si trattò di un imperium extra ordinem (straordinario, in quanto assegnato a un non 19 Silla aveva concluso con il re del Ponto la pace di Dardano (85 a.C.), che in sostanza aveva lasciato la situazione delle province d’Asia immutata, sotto la minaccia di Mitridate. 20 Così il TONDO, Profilo di storia, cit., p. 153. – 60 – magistrato, perché Pompeo era un semplice cittadino), non proconsolare, in quanto non connesso a una provincia (non era perciò proroga di un precedente imperium consulare). All’approvazione della lex di Gabinio seguì la nomina dell’imperator (il comandante supremo),21 nella persona di Pompeo, che ebbe a ottenere, pertanto, un potere davvero eccezionale per intensità e attribuzioni: un imperium infinitum, esteso a tutto il Mediterraneo e alle coste, fino a 400 stadi (8 chilometri) entro la terraferma, una dotazione ingente di truppe (compresa una flotta di 200 navi) e mezzi finanziari (6000 talenti), la facoltà di nominare 15 legati attribuendo a ciascuno una precisa zona di operazioni.22 Tale imperium era però aequum, ossia pari, non superiore, rispetto a quello dei proconsoli nelle singole province, con i quali l’azione di Pompeo avrebbe dovuto necessariamente coordinarsi. Questo imperium, però, cessava automaticamente qualora l’imperator varcasse il cerchio del pomerium. La straordinarietà del potere concesso a Pompeo si vide anche nella durata, triennale, non prevista dall’ordinamento della res publica. Si può a ragione ritenere che il termine andasse inteso come non perentorio, ma meramente programmatico (com’era stato per il decemvirato di Appio Claudio): dunque se Pompeo fosse stato ancora impegnato contro i pirati, sarebbe stato automaticamente prorogato nei suoi poteri fino all’assolvimento della missione (ma il grande condottiero riuscì a far piazza pulita dei pirati del Mediterraneo nel tempo insolitamente breve di sei mesi). Già emergono, nel caso dell’imperium concepito dalla lex Gabinia, le caratteristiche strutturali che avrebbero portato ad una abnorme estensione per durata e intensità dell’imperium stesso: la necessità di estenderlo oltre i limiti costituzionali della singola provincia e di dotare il titolare dell’impe- 21 È da notare che questa legge, a differenza di quella, celebre, presentata nell’82 a.C. dall’interrex Lucio Valerio Flacco per il conferimento della dittatura a Silla (lex Valeria de Sulla dictatore legibus scribundis et rei publicae constituendae), non conteneva la designazione nominativa della persona che sarebbe stata insignita della carica con il connesso potere (lex de uno imperatore…), sicché fu necessario un decreto di nomina ulteriore per la persona di Pompeo. Ciò, evidentemente, per lasciare nell’apparente incertezza la questione di chi sarebbe stato il “beneficiato” dalla legge di Gabinio, il quale, invece, perseguiva un preciso progetto e non voleva allarmare gli ottimati. I quali, però, furono rassicurati da Pompeo stesso, che improvvidamente optò di stare dalla loro parte, sciogliendo le truppe e accontentandosi di vaghe promesse, all’indomani del trionfale ritorno dall’Oriente. 22 Le testimonianze storiche sono univoche nel sottolineare la novità e l’ampiezza dei poteri concessi a Pompeo: PLUT. Pomp. 27,7-11; VELL. 2,31,3; CASS.DIO 36,23,4; 36,34,1; 37,36,1). – 61 – rium di un corpo di subordinati, legati ovviamente da stretti vincoli di fedeltà, che intervenissero in sua vece e per suo conto sui vari teatri delle operazioni, nella prospettiva di unificare l’esercizio dell’imperium domi e di quello militiae, ossia di rendere l’imperium maius, rispetto a quello degli altri proconsoli, per conferirlo allo stesso soggetto. Così il futuro imperator avrebbe potuto varcare le porte di Roma con l’esercito, certo di agire in ossequio alla costituzione. Era questo lo scopo a cui tendeva, da ultimo, il movimento popolare, per mezzo dei suoi tribuni: avere un capo politico ed insieme militare pronto ad agire con la sua armata contro l’odiata oligarchia senatoria, nella piena legalità (così come aveva fatto, qualche decennio prima, Silla, restaurando il potere degli optimates, contro i democratici). Sul piano politico già l’imperium straordinario, infinitum ma non ancora maius, di Pompeo, anticipando quello di Ottaviano, segnava la decadenza della res publica e la palese tendenza al costituirsi di un regime personale,23 fondato sull’attribuzione al singolo di un potere enorme, oltre i limiti della collegialità e della annualità. È noto che Gabinio riuscì a far approvare la legge, contro chi voleva riportare il potere da conferire entro il limite costituzionale della collegialità (proposta, respinta, del tribuno Lucio Roscio Otone di conferire l’imperium congiuntamente a due persone),24 addirittura con il potenziamento delle attribuzioni (facoltà di nominare 24 legati e 2 questori, vd. PLUT. Pomp. 26,2). Attribuzioni che erano destinate a raggiungere ulteriori dimensioni con la successiva lex Manilia, proposta nel 66 a.C. dal tribuno della plebe Caio Manilio, per stornare da Licinio Lucullo a Pompeo, reduce dal trionfo contro i pirati, il comando della guerra mitridatica.25 Si trattò, in questo secondo caso, di un imperium infinitum, pluriennale La relazione tra il potere di Pompeo e quello di Ottaviano, in termini di anticipazione, è stata messa in luce da R. SYME, La rivoluzione romana, cit., p. 31. 24 È evidente che Lucio Roscio Otone agiva di concerto con i patres, ostili all’idea di assegnare il potere militare a un singolo e per di più tanto benvoluto dal popolo. L’approvazione della lex Gabinia fu del resto travagliata: il tribuno dovette superare, oltre alle manovre dilatorie dei senatori, il veto del suo collega Lucio Trebellio (veto prontamente ritirato di fronte alla minaccia di Gabinio, sulle orme del famoso esempio di Tiberio Gracco, di chiedere la deposizione dello stesso Trebellio al concilio plebeo). In proposito vd. J. CARCOPINO, Giulio Cesare, trad. di Anna Rosso Cattabiani, Rusconi, Milano 1981 (IV ed.), pp. 97-98. 25 Va notato in proposito il comportamento di Cicerone: l’Arpinate appoggiò la proposta di Manilio con la sua orazione de imperio Cn. Pompei, salvo condannarla, in seguito, quando si erse a difensore della legalità repubblicana contro Antonio (Phil.11,17-18: Nam extraordina23 – 62 – (per atto iniziale, dunque senza necessità di proroga annuale)26 e superiore a quello dei governatori pro praetore delle province. Pompeo si trovava allora in Spagna: aggiungendo il comando sull’Asia minore a quello sul Mediterraneo venne a realizzare una concentrazione di poteri quale mai nessuno aveva ottenuto dalla nascita di Roma.27 Il suo esempio avrebbe aperto la strada all’assolutismo cesariano, che si giovò anch’esso dell’opera dei tribuni della plebe. 8. Modellata, appunto, sulla lex Gabinia per Pompeo è la lex Vatinia de imperio C.Caesaris, presentata dal tribuno Publio Vatinio nel 59 a.C. e appoggiata da Pompeo e Crasso, che avevano stretto col futuro dittatore l’accordo politico noto come primo triumvirato. Con questa legge si assegnava a Cesare, in prosecuzione del suo consolato, un imperium di durata quinquennale sulla Gallia Cisalpina e l’Illirico, con dotazione di tre legioni: l’imperium fu poi esteso alla Gallia Transalpina, con l’aggiunta di una quarta legione.28 La novità segnata dalla lex Vatinia, che i più accorti contemporanei di stampo conservatore, come Catone (il futuro Uticense), avvertirono essere lo strumento per imporre una vera e propria “tirannide” mal camuffata da forme legali, è nella previsione della durata quinquennale dell’imperium, durata che verrà poi canonicamente pretesa dai successivi capi politici-militari.29 rium imperium populare atque ventosum est, minime nostrae gravitatis minime huius ordinis). Cicerone però mise in campo la sua influenza per far ottenere al giovanissimo Ottaviano proprio quei poteri straordinari (tra cui anche la facoltà di candidarsi al consolato prima del termine stabilito, 42 anni, dalla lex Cornelia) che aveva così aspramente criticato (Phil. 5,17,48). 26 I poteri concessi a Pompeo sarebbero dunque durati fino al termine della guerra contro Mitridate: tra questi era compresa anche la facoltà di stipulare la pace, salvo ratifica del senato. L’eccezionalità della durata era giustificata dalla necessità di non mutare il comandante nel corso della campagna militare contro un nemico insidiosissimo e dal fatto che Pompeo andava ad operare in una zona, quale l’Asia Minore, piuttosto marginale rispetto alla capitale. 27 T. MOMMSEN, Storia di Roma, vol. II, trad. di S. Bellu e P.A. Gironi, Curcio, Roma 1965 (V ed.), p. 1087. 28 Eloquente il giudizio del Carcopino sull’enorme potere militare fatto votare per Cesare: un “pericolo monarchico implicito in quel nuovo comando straordinario” (J. CARCOPINO, Giulio Cesare, cit., p. 231). 29 Ci riferiamo, naturalmente, ai secondi triumviri. E ci vien fatto di osservare, purtroppo solo marginalmente perché le complesse implicazioni dell’argomento richederebbero ben altro spazio, una singolare coincidenza tra il progressivo mutamento della categoria politica dell’imperium e la scelta lessicale che un testimone di quei travagliosi momenti, il poeta Lucrezio impiega nel De rerum natura 1,41: patriai tempore iniquo. Sarebbe corretto scorgere in questa espressione una raffinata allusione alla distorsione dell’essenza dell’imperium, che da aequum – 63 – 9. Un imperium proconsolare quinquennale fu, appunto, quello attribuito nel 55 a.C. per plebiscito (promosso ancora da un compiacente tribuno della plebe, Caio Trebonio) ai due sodali di Cesare, Crasso e Pompeo (consoli dell’anno, secondo gli accordi di Lucca). Il primo lo ebbe in Siria (ove sperava di emulare contro i Parti i successi cesariani in Gallia), il secondo in Spagna. Pompeo però preferì acquartierarsi presso Roma, invece di raggiungere la destinazione, determinando così la situazione straordinaria del proconsul ad urbem (in patente violazione della lex Cornelia che proibiva ai promagistrati la permanenza nel territorio dell’ager Romanus). Da parte loro, in ottemperanza agli accordi di Lucca, Crasso e Pompeo con apposita legge consolare (lex Licinia Pompeia) provvidero al prolungamento per altri cinque anni dell’imperium di Cesare nell’Illirico e nelle Gallie. Oltre all’accresciuta durata quinquennale dell’imperium, negli ultimi, insanguinati, anni della repubblica si verificò il fenomeno dell’accumulo delle cariche in capo al medesimo soggetto: nel 52 a.C. a Pompeo, già proconsole (sia pure ad urbem) venne assegnato, a causa dei disordini che avevano portato a violenze gravissime entro l’urbe,30 il consolato unico, formalmente su proposta del consolare Marco Calpurnio Bibulo, in realtà per ispirazione di Catone.31 Era il segno che ormai soltanto in Pompeo si vedeva colui che avrebbe potuto validamente contrastare, nei suoi progetti di autocrazia, Cesare. Ma la scelta del consolato unico fu votata consapevolveniva, a seguito di calcolati interventi politici, ad essere snaturato in maius (dunque iniquum), determinando uno squilibrato e alla fine incontrollato accumulo di potere, causa non ultima dei “tristi tempi della patria” lamentati dal grande poeta epicureo? Non possiamo rispondere in una breve nota, ma ci ripromettiamo di approfondire questo aspetto con una ulteriore ricerca. D’altra parte nota acutamente il Machiavelli che “la prolungazione degli imperii fece serva Roma” (Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio, 3,24), dandoci la miglior chiave di lettura per comprendere appieno le ragioni del trapasso al regime del principato. Va anche ricordato, a margine del nostro discorso, il parallelo ampliarsi del potere nella sfera civile, tendenza che procedeva con il concrescere dei poteri militari. È il caso della suprema potestas rei frumentariae toto orbe terrarum, che attribuiva il completo controllo dei rifornimenti di grano, concessa a Pompeo per cinque anni, dal 57 a.C.: potestas solennemente qualificata, pur nella sfera civile (dunque senza dotazione di esercito), suprema (per la prima volta) ed estesa a tutte le province. Sarebbe stata questa nuova, pericolosa attribuzione fatta al suo rivale, a spingere Cesare a promuovere l’incontro di Lucca l’anno successivo (come osserva il TONDO, Profilo di storia, cit., pp. 171-172), per consolidare l’amicizia e gli impegni reciproci fra i tre sodali. 30 All’assassinio del tribuno Clodio Pulcro, il braccio destro di Cesare a Roma, da parte dei sicari di Milone, erano seguiti tumulti dei clodiani culminati con l’incendio della curia stessa. Sui fatti ampia narrazione in R. SYME, La rivoluzione romana, cit., pp. 41-42. 31 PLUT. Cato minor 47,3. Calpurnio Bibulo, peraltro, era stato collega di Cesare nel consolato del 59 a.C. – 64 – mente dal senato, nella considerazione che era preferibile introdurre una soluzione straordinaria ma provvisoria alla straordinarietà del potere cesariano (ben sapendo che la novità di un consul sine collega violava ripetutamente l’ordinamento),32 piuttosto che nominare lo stesso Pompeo dittatore, come richiesto dalla plebe tumultuante, dopo i riti funebri per Clodio. Il medesimo Pompeo riuscì poi ad ottenere dal senato, che dopo aver contribuito a minare, per suo conto, l’edificio costituzionale si era ormai rassegnato a vivere da passivo spettatore la contesa per il potere tra due formidabili rivali, il prolungamento del suo proconsolato in Spagna per altri cinque anni. 10. La tendenza all’ampliamento e al prolungamento dell’imperium, prima dell’avvento di Augusto, tocca il suo momento più alto nella sequenza delle dittature di Cesare. Queste, giova ricordarlo, non furono concepite in funzione costituente, come quella sillana (ossia a Cesare venne conferita la dittatura ma senza poteri normativi, che invece traeva dal rivestire contemporaneamente il consolato), ma ebbero crescente durata, ben oltre il limite temporale dei sei mesi. Dapprima Cesare fu nominato dictator (comitiorum habendorum causa)33 nell’ottobre del 49 a.C., con decreto del senato e nomina del pretore Marco Emilio Lepido (in assenza dei consoli in carica Lucio Lentulo e Caio Marcello il Giovane, fuggiti da Roma perché pompeiani), ma abdicò dopo soli 11 giorni. Quindi ricevette la dittatura rei gerendae causa (per il governo provvisorio dello stato), dopo la vittoria di Farsalo (48 a.C.), con durata annuale, insieme al consolato per cinque anni. La terza dittatura gli fu assegnata dopo la vittoria di Tapso nel 46 a.C. (è facile notare come ad ogni vittoria il senato rispondesse con nuovi e più estesi omaggi, calpestando ogni parvenza costituzionale), rei gerendae causa e per una durata decennale. Infine, già console unico per il 45, fu nominato, dopo aver vinto le ultime forze pompeiane in Spagna (a Munda, marzo del 45 a.C.), dictator perpetuus, con l’aggiunta dei titoli di imperator34 e pater patriae, nonché l’attribuzione della tribunicia potestas a vita. Nei principi della collegialità del potere supremo, del divieto di cumulo delle cariche (sancito anzitutto dal plebiscito del 342 a.C.: ne quis… duos magistratus uno anno gereret) e del divieto di privilegia, ossia di leges aventi a oggetto il singolo civis (divieto solennemente sancito nelle XII Tavole). 33 Ossia per l’indizione dei comizi elettorali per il 48: è ben noto che il dittatore poteva essere nominato dal console (su decreto senatorio) anche per il compimento di un singolo atto. 34 Deriva etimologicamente da imperium il termine imperator, attribuito nella repubblica al comandante vittorioso. A Cesare fu attribuito come appellativo perpetuo e trasmissibile agli 32 – 65 – La crisi della repubblica, come si è fin qui visto, fu determinata sostanzialmente dal consolidarsi dell’imperium in forme di durata e ampiezza sempre più crescenti, procurate alle ambizioni dei capi politici da una calcolata strategia dei tribuni della plebe, che intesero in questo modo creare posizioni di potere personali da opporre all’oligarchia senatoria (in questo senso il tribunato venne svolgendo, viepiù nel corso del I secolo a.C., la sua opera di “rivoluzione permanente”, per vie legalitarie, fino al sovvertimento della res publica). L’imperium straordinario, accompagnato poi da altri poteri (come la tribunicia potestas), concessi a un unico soggetto, crebbe fino alla forma della dictatura perpetua, che rese Cesare virtualmente un monarca senza corona (ma che segnò anche tragicamente la fine della sua esperienza umana e politica, suscitando l’idealistica reazione dei congiurati alle idi di marzo del 44). 11. Il contemporaneo conferimento a più individui dell’imperium proconsulare maius (superiore, ricordiamolo, a quello dei singoli governatori delle province) segna la prosecuzione delle guerre civili dopo l’assassinio di Cesare (15 marzo del 44 a.C.): ma è nient’altro che il riconoscimento formale, da parte del senato, di un potere militare di fatto che ormai sfuggiva a qualsiasi controllo da parte del supremo organo dello stato. Le sorti della res publica erano ormai nelle mani di autentici “signori della guerra”. Le fonti ricordano il clima di quei giorni come segnato da episodi di particolare, efferata violenza, che non risparmiarono neppure chi doveva essere maggiormente protetto dalle garanzie costituzionali: al termine dei funerali di Cesare, un tribuno della plebe, Cinna, fu linciato dalla folla inferocita e istigata dal discorso di Antonio. Poco prima della guerra di Modena (aprile del 43 a.C.), fu concesso a Bruto con decreto senatorio, su pressante proposta di Cicerone (Phil. 10,2526; PLUT. Brut. 27), allora impegnato nella sua ultima battaglia contro Antonio, l’imperium proconsulare maius a tutela delle province di Macedonia, Acaia e Illirico, un imperium concesso a un privato cittadino e comprendente dotazione di truppe, diritto alle esazioni in denaro e alle requisizioni di frumento. Si trattò, in questo caso, della legalizzazione del comando mieredi (ciò che ha fatto sospettare ad alcuni studiosi che il condottiero si proponesse mire dinastiche), stante a significare che la sua personalità era perennemente in comunione con il dio (Iuppiter Capitolino) e capace sempre, per l’insita virtù, di ottenerne il favore. Non a caso il titolo fu poi attribuito perennemente al princeps (anche se le implicazioni divine erano meglio sottolineate da quello di Augustus). – 66 – litare usurpato col consenso del proconsole uscente, Quinto Ortensio, figlio del grande oratore. Dopo l’esito vittorioso, per la parte repubblicana, della guerra di Modena e la fuga di Antonio nella Gallia Transalpina, il senato decretò l’imperium proconsulare maius per Decimo Bruto, il governatore della Cisalpina che si era opposto al fedele cesariano, l’imperium proconsulare maius per Marco Giunio Bruto e Cassio Longino (il quale di fatto deteneva la Siria), e l’imperium su tutto il Mediterraneo con il comando della flotta romana per Sesto Pompeo (CASS.DIO 46,40,3). Ma tali concessioni tradivano ormai un’evidente debolezza politica del senato.35 12. Il secondo triumvirato, che a differenza del primo fu una vera e propria istituzione formale (novembre del 43 a.C.),36 comportò la spartizione tra Ottaviano, Antonio e Lepido37 di un potere supremo e arbitrario, di durata quinquennale (è incerto se il termine sia da considerarsi assoluto, come riteneva il Wilcken, o relativo, ossia implicante soltanto un impegno morale a portare a termine la rifondazione dello stato, secondo la più accreditata tesi del Mommsen).38 Le attribuzioni erano ampissime e, soprattutto per il potere costituente, tutte ricalcate sul modello sillano (non per caso Sullae discipuli, “allievi di Silla”, chiamerà Giovenale i secondi triumviri):39 comando su eserciti e province (ad Antonio la Gallia Cisalpina e la Comata, a Lepido la Gallia Narbonense e la Spagna, ad Ottaviano l’Africa e le grandi 35 L’atteggiamento del senato era ormai improntato a un “trombonismo puro”, come ha acutamente osservato il TONDO, Profilo di storia, cit., p. 226. Sconcertante, poi, il conferimento dell’imperium a Sesto Pompeo, che da privato avventuriero si trovò proiettato al grado di comandante in capo della flotta romana (TONDO, ibid.). 36 Movendosi sull’esempio sillano, i tre sodali si fecero eleggere triumviri dal popolo, con la lex Titia de triumviris rei publicae constituendae, proposta dal tribuno Publio Tizio: si può dire che questa legge rappresentò l’ultimo colpo all’agonizzante regime repubblicano. Anche questa volta si verificarono notevoli irregolarità: la rogatio del tribuno Tizio fu approvata senza il previo parere del senato, nonostante prospettasse l’istituzione di una nuova magistratura cum imperio e con poteri costituenti, e la legge entrò in vigore subito, senza l’osservanza del trinundinum (periodo di 24 giorni intercorrente tra l’approvazione e l’inizio della vigenza). 37 Già riabilitati, questi ultimi due, in virtù della lex Pedia, fortemente voluta da Ottaviano e proposta dal suo collega al consolato per il 43 Quinto Pedio: la legge aveva determinato la messa in stato d’accusa, con apposita quaestio, dei cesaricidi, e quindi la loro conseguente condanna e il bando, con l’abrogazione dei rispettivi imperia. 38 Riassunto della questione in P. DE FRANCISCI, La costituzione augustea, in AA.VV., Augustus, studi in occasione del Bimillenario augusteo, R. Accademia Nazionale dei Lincei, Roma 1938, pp. 66-67, che propende per il termine relativo. 39 IUV. 2,28. – 67 – isole, Sicilia, Sardegna e Corsica), facoltà di indire leve, di esigere imposte, di emanare leggi, di nominare magistrati e senatori, di ratificare gli atti già compiuti prima della nomina a triumviri.40 Si trattò di fatto dell’instaurazione di una triplice dittatura, ma non collegiale, bensì nella forma di una triarchia, perché i tre contitolari potevano soltanto di fatto condizionarsi, in quanto tutti e tre convinti di avere un potere supremo e assoluto.41 13. Ripercorriamo ora le tappe della vicenda politica che porta Ottaviano ad assumere una somma di poteri quale nessuno aveva avuto prima di lui, venendo così a fondare un regime autocratico, pur nella formale osservanza dell’autorità senatoria. Com’è noto Ottaviano, poco prima di Azio (2 settembre del 31 a.C.) e in vista della battaglia finale contro Antonio e Cleopatra (va ricordato che la guerra venne dichiarata soltanto alla regina d’Egitto, da Ottaviano stesso in veste di feziale, onde evitare, almeno formalmente, un ennesimo bellum civile), depose la carica di triumviro e i poteri connessi.42 Ma in cambio della rinuncia definitiva al potere triumvirale,43 Ottaviano ottenne un giuramento che vincolò tutti i cives d’Italia e poi i provinciali d’Occidente, alla fedeltà verso la sua persona: in virtù di tale giuramento, al termine delle guerre civili, ossia con la vittoria di Azio, i cives gli consegnarono un potere pressoché assoluto, in forma plebiscitaria (dunque al di fuori del concorso delTali facoltà e attribuzioni sono in sostanza quelle che costituiscono il contenuto del potere assoluto nell’età del principato: esse verranno recepite nelle clausole della formula d’investitura del sovrano, quale ci è pervenuta con la lex de imperio Vespasiani (il celebre testo inciso sulla tabula aenea, letto in San Giovanni in Laterano da Cola di Rienzo, il 20 maggio 1347: puntuale analisi in TONDO, Profilo di storia, cit., pp. 300-308). 41 Eloquenti le parole di Cassio Dione, sottolineanti che ciascuno dei tre riteneva di possede∼ν τò κράτος ε’´ξων. ’ καὶ αυ ’ τòς ε ’´καστος πα re il potere supremo: CASS.DIO 47,1,1 γνώµη δὲ ως ' Il potere triumvirale è inteso come triplice dittatura da storici come M.P. CHARLESWORTH, in L’impero di Augusto (vol. X 1 della Storia Antica dell’Università di Cambridge), trad. di A. Gallina e E. Lattanzi, Il Saggiatore, Milano 1968, p. 36; che la triarchia, comportante un’assoluta pienezza d’imperio per ciascuno dei tre “condittatori” fosse destinata a mantenere la sua identità di base (i triumviri mantennero titolo e poteri anche quando furono ridotti a due, per la progressiva emarginazione di Lepido), è messo in rilievo dal TONDO, Profilo di storia, cit., pp. 237-241. 42 Ch’erano già stati rinnovati con l’accordo di Taranto del 37 a.C. per altri cinque anni (scadenza al 31 dicembre del 32). 43 Che si sia trattato di rinuncia definitiva a titolo e poteri lo mostrano le parole di Tacito in Ann. 1,2,1 posito triumviri nomine. Ottaviano non fa esplicito accenno alla rinuncia al potere triumvirale, ma nelle sue Res gestae (7,1) ammette che fu triumviro per continuos annos decem, dunque dal 43 al 32 a.C. 40 – 68 – l’assemblea comiziale e del senato). Vi sono da fare, al riguardo, alcune considerazioni. Evidente, anzitutto, la strategia politica dell’ex triumviro: l’apparente rinuncia al potere doveva comportare, nell’astuto calcolo del futuro princeps, l’acquisto, per compenso, di un potere equivalente, se non anche più solido, da gestire in proprio. Ma Ottaviano cade in una contraddizione, a proposito dell’ottenimento di questo nuovo potere, allorquando, ormai divenuto da decenni, con la sua autorità di Augusto, il signore dello stato romano e ricordando i fatti salienti del suo principato, ne fa menzione nelle Res gestae (25,2).44 Presentatosi poco prima nel testo (25,1) quale difensore della legalità, essendosi vantato di aver debellato i praedones del mare,45 il Nostro non specifica meglio il valore, se formale o sostanziale (dunque con gli effetti obbligatori di una lex), di questo giuramento: esso comunque non ebbe forma costituzionale, in quanto non fu seguito da legge. Mancando dunque una legge nella quale recepire il contenuto del giuramento, fu il giuramento stesso ad impegnare formalmente i cives che lo avevano prestato: per conseguenza risulta che l’imperium militare, che comprendeva ovviamente il comando della guerra contro la regina d’Egitto, venne concesso a Ottaviano in difetto di legalità (al di fuori di qualsiasi concorso di senato e/o assemblea comiziale, com’era invece sempre avvenuto nei casi precedenti di conferimento dell’imperium). Ma Ottaviano poteva ben agire al di fuori dell’osservanza delle vecchie forme costituzionali, perché il difetto di legalità (che avrebbe prospettato, alla stregua dell’ordinamento, un fatto di usurpazione) era compensato, se non sanato, dal vastissimo consenso, pressoché unanime, rappresentato dal giuramento di tutta l’Italia e delle province d’Occidente (Gallie, Spagna, Africa, Sicilia, Sardegna).46 Poteva questo consenso “plebiscitario” avere forza equivalente a 44 Così si esprime in proposito Augusto nel resoconto delle sue opere, composto nel 14 d.C., intitolato Res gestae divi Augusti, noto anche come Monumentum Ancyranum (dal nome della località, Ancyra, od. Ankara, ove nel 1861 venne rinvenuta la celebre iscrizione bilingue: tra le edizioni moderne ricordiamo quelle di Enrica Malcovati, Augusta Taurinorum 1948 (III ed.); Antonio Guarino, Giuffrè, Milano 1968 (II ed.); Luca Canali, Editori Riuniti, Roma 1982; Francesco Guizzi, Salerno, Roma 1999), al § 25,2: Iuravit in mea verba tota Italia sponte sua et me belli, quo vici ad Actium, ducem depoposcit. 45 Così chiama, con sottile perfidia, Sesto Pompeo, il figlio di Pompeo Magno (che pur aveva distrutto la flotta piratesca nel 67 a.C.), che era comandante in capo della flotta romana. Ottaviano lo vinse a Nauloco nel 36 a.C. 46 Non giurarono ovviamente, per la loro situazione di soggezione ad Antonio e Cleopatra, le province orientali, che dovettero però prestarlo successivamente alla vittoria di Azio e singolarmente: sappiamo da Plinio il Giovane, che fu governatore della Bitinia, che il giuramento di fedeltà era rinnovato ogni anno dai militari e dai sudditi provinciali (PLIN. Ep. 10,52). – 69 – quelle dello iussum populi e del decreto senatorio? Le posizioni degli studiosi non sono affatto concordi su questo delicato punto, e la questione appare destinata a far discutere ancora. Certo è che Ottaviano, anche mercé questa manovra spregiudicata, perseguiva con freddo calcolo il suo progetto di smantellamento del vecchio edificio costituzionale e di rifondazione dello stato.47 14. Di fondamentale importanza nella prospettiva dell’adeguamento dell’imperium all’istanza autocratica di Ottaviano, in parallelo al graduale consolidamento del principato, risultano essere le due sedute senatorie del 13 e del 15 gennaio del 27 a.C. Dietro l’ossequio formale tutto era già stato accortamente predisposto. Alla seduta del 13 gennaio (secondo il Parain “una grande commedia politica”)48 Ottaviano pervenne dopo essersi consultato con i suoi più fidati collaboratori, Agrippa e Mecenate: da quest’ultimo sarebbe stato convinto ad adottare la politica del dispotismo illuminato, tenendo conto però dell’aristocrazia senatoria, invece di procedere alla restaurazione pura e semplice della repubblica, come richiestogli da Agrippa.49 In quella seduta egli compì un gesto fondamentale per il definitivo stabilirsi del principato, procedendo alla solenne restituzione dei poteri ricevuti cinque anni prima, ossia dell’imperium conferitogli col giuramento d’Italia e d’Occidente. Il fatto peculiare è narrato con accenti solenni nelle Res gestae 34,1: In consulatu sexto et septimo (ossia nel 27 a.C.), postquam bella civilia exstinxeram, per consensum universorum potitus rerum omnium, rem 47 Per riassumere le posizioni degli studiosi, ricordiamo che il De Francisci (La costituzione augustea, cit., p. 67), sulle orme del Siber, nega che la coniuratio totius Italiae potesse valere a conferire a Ottaviano un imperium militare, perché il suo conferimento era di pertinenza dei comizi, e sarebbe pertanto occorsa una legge comiziale. Invece per il Tondo (Profilo di storia, cit., p. 244) il giuramento ebbe una portata ancor più legittimativa, data la vastità del consenso che esso rifletteva. Diverso sarebbe stato se i poteri fossero stati conferiti a Ottaviano per via legale, perché il consenso in questo caso si sarebbe ridotto a quello dei soli partecipanti all’assemblea nel comitium dell’urbe (e l’auctoritas senatoria avrebbe potuto mancare del tutto, com’era stato per la legge istitutiva del secondo triumvirato). 48 C. PARAIN, Augusto, la nascita di un potere personale, trad. di P. Roversi, Editori Riuniti, Roma 1993 (II ed.), p. 131. 49 Nella elaborazione del progetto politico di Ottaviano dovettero comunque confluire, fino a giocare un ruolo primario, sia la teoria ciceroniana del princeps (esposta nei libri De re publica) come supremo moderatore dello stato, sia, con maggior impronta (secondo il DE MARTINO, Storia della costituzione romana, vol. IV 1, Jovene, Napoli 1974, p. 52), gli ideali ellenistici configuranti il sovrano come dotato di qualità soprannaturali e religiose, ideali che avevano profondamente pervaso la mentalità romana, anche a seguito dell’afflusso di ricchezze quale si verificò dal II sec. a.C. – 70 – publicam ex mea potestate in senatus populique Romani arbitrium transtuli (“Nel mio sesto e settimo consolato, dopo che ebbi estinto le guerre civili, assunto per universale consenso il controllo di tutti gli affari di Stato, trasmisi il governo della repubblica dal mio potere alla libera volontà del senato e del popolo romano”, trad. di L.Canali, in CESARE OTTAVIANO AUGUSTO, Res gestae divi Augusti, Editori Riuniti, Roma 1982, p. 97). La solenne scansione del periodo riveste, per la verità, fatti diversi, citati senza alcun ordine cronologico: In consulatu septimo è riferito all’anno 27 a.C.; postquam bella civilia exstinxeram allude alla vittoria finale di Azio (31 a.C.); il consensus universorum non può non essere quello che ottenne, mercé il giuramento in verba sua (ossia sulla formula recitata personalmente da Ottaviano), dagli abitanti d’Italia e delle province occidentali, nel 32 a.C., e che trasmise nelle sue mani il supremo potere (potitus rerum omnium);50 infine rem publicam…transtuli indica la restituzione del potere supremo al senato e al popolo. Dalla lettura delle Res gestae appare dunque che Ottaviano, nella seduta del 13 gennaio, intese restituire formalmente (e finalmente) al senato e al popolo romano, che ne erano originariamente titolari, la sovranità (potitus rerum omnium). Restituzione, però, che fu ben lungi dal comportare una restaurazione pura e semplice del vecchio ordinamento (col rischio quanto meno dell’accendersi di nuove turbolenze civili, se non di gravi rischi persoPer il Canali (Res gestae, cit., p. 96) il consensus universorum, sulla base del quale Ottaviano avrebbe ricevuto ed esercitato il potere assoluto (potitus rerum omnium), prendendo in mano le redini dello stato, coincide con la coniuratio totius Italiae, ma servirebbe a coprire un vuoto di potere nel quale il Nostro avrebbe continuato a governare dal 32 (restituzione dei poteri triumvirali) al 27 a.C. Sarebbe stata sufficiente a legittimare il governo di Ottaviano, secondo lo studioso, la sua personale auctoritas. Osserviamo, però, che l’auctoritas (ch’era, ricordiamolo, la tradizionale prerogativa dei patres fin dal regime monarchico) venne in lui istituzionalizzata soltanto con il conferimento, dietro proposta di Munazio Planco, del titolo di Augustus, nella successiva seduta del 15 gennaio del 27 a.C. E, poi, vuoto di potere in realtà non sembra esservi stato, perché Ottaviano governava con l’imperium ricevuto per il famoso giuramento totius Italiae, che lo poneva al vertice dello stato, da solo e sia pur per la sola parte occidentale (ovviamente prima della vittoria aziaca). Secondo la nota tesi del Premerstein, che non possiamo non tener presente, il giuramento valse anzi a costituire una sorta di rapporto di patronato tra Ottaviano e i popoli d’Occidente, che vollero affidarsi a lui quasi fossero suoi clienti (A. VON PREMERSTEIN, Vom Werden und Wesen des Prinzipats, München 1937, p. 13 e ss.). Resta comunque il fatto che la giustificazione di tale potere supremo e universale con il giuramento prestato, è la confessione, al di là di ogni interessata reticenza di cui l’autore delle Res gestae dà prova, del carattere autenticamente rivoluzionario di questo potere, che non si richiamava ad alcuna forma legale del diritto repubblicano (così, sulle orme del Premerstein, il FREZZA, Corso di storia del diritto romano, Studium, Roma 1968 (II ed.), p. 294). Tale potere, ancora generico ma assoluto, è l’embrione del potere del princeps. 50 – 71 – nali per il figlio di Cesare) anche se il Nostro tiene a precisare, qualche riga dopo (34,4),: Post id tempus (ossia dopo la restituzione del potere sovrano) auctoritate omnibus praestiti, potestatis autem nihilo amplius habui quam ceteri qui mihi quoque in magistratu conlegae fuerunt (“Da allora in poi fui superiore a tutti in autorità, sebbene non avessi maggior potere di tutti gli altri che furono miei colleghi in ciascuna magistratura”, trad. di L.Canali, cit., p. 97). Queste righe vanno lette insieme con quelle di Res gestae 34,1 per far luce, oltre il velo dell’interessata reticenza, sul profondo, diremmo radicale, mutamento istituzionale operato da Ottaviano in quelle due sedute senatorie. Si tace, anzitutto, di ogni accenno all’imperium (pur detenuto da Ottaviano, se non altro perché era il comandante dell’esercito) e si introduce un nuovo elemento istituzionale, l’auctoritas del sovrano, destinato a giocare un ruolo primario nella fondazione del principato. Sull’auctoritas ci soffermeremo più oltre: per ora basterà ricordare che questa gli venne concessa, in forma istituzionale, con il conferimento del titolo (destinato ufficialmente a far parte del nome del princeps e a designare i successori) di Augustus da parte del senato, su proposta di Munazio Planco, nella seduta del 15 gennaio del 27 a.C. Quanto al silenzio sul suo imperium e alla potestas, che secondo Ottaviano non sarebbe stata superiore a quella dei colleghi magistrati, dobbiamo tornare alla precedente seduta del 13 gennaio, per vedere quanto sia poco rispondente al vero l’affermazione contenuta nelle Res gestae. Coerente con l’idea che ogni restituzione di poteri dovesse essere compensata con la trasmissione di altri maggiori, Ottaviano (che nel 27 rivestiva il consolato) nella seduta del 13 gennaio si fece conferire dal senato un imperium consulare maius di carattere militare (ossia tale da non dover essere deposto né riacquistato in relazione ai limiti del pomerium, ossia all’ingresso e all’uscita dal territorio dell’urbe), con comando esclusivo dell’esercito (tale comando fu in sostanza una riconferma) e facoltà di nominare i luogotenenti. Questo nuovo imperium si estendeva anche sul territorio di dodici province, munite di eserciti perché non pacificate: la Spagna Tarraconese, la Lusitania, le Gallie (Narbonense, Lugdunense, Aquitania, Belgica), le Germanie (Superiore e Inferiore), la Cilicia, Cipro, la Celesiria, la Fenicia e l’Egitto,51 a cui si aggiunse, dal 22 in poi, invece della Gallia Narbonense e di Cipro, restituite al senato, l’Illirico. Tale imperium di tipo consolare (essendo, appunto, 51 Territorio che godette di una particolare autonomia amministrativa (vi furono conservati titoli e funzioni vigenti al tempo dei Tolomei) e fu governato, su mandato del sovrano, da un prefetto tratto dall’ordine equestre. – 72 – Ottaviano console nel 27 a.C.) ebbe durata decennale, fu conferito al Nostro da un SCtum, seguito da una apposita lex de imperio, e gli fu continuamente rinnovato usque ad exitum. Questo imperium, che poteva apparire più limitato rispetto a quello di cui Ottaviano godeva prima del 27 (quello conferitogli con il giuramento del 32), perché più specifico, aveva però competenze vastissime, oltre al prolungato limite di tempo decennale: comprendeva il comando degli eserciti e il governo delle province assegnate, con la facoltà di esigere imposte (i tributa) destinate alla speciale cassa del sovrano (il fiscus), di esercitarvi la giurisdizione, di nominare governatori dipendenti, i legati Augusti pro praetore. Questo imperium di tipo militare-consolare non corrisponde però al tradizionale imperium consolare repubblicano, per le seguenti ragioni. Anzitutto viola i principi della collegialità e della annualità delle cariche, perché Ottaviano aveva come collega al consolato per il 27 Vipsanio Agrippa, ma i senatori nella seduta del 13 conferirono a lui soltanto l’imperium militare sulle province. Poi l’imperium attribuisce ad Ottaviano console l’amministrazione delle province che erano invece nella competenza dei proconsoli là inviati dal senato: si consideri che se il governo della provincia fosse stato incluso nelle competenze del console, Ottaviano, che era appunto già console, non avrebbe avuto bisogno di riceverlo attraverso una apposita lex de imperio (previo SCtum). Dunque questo nuovo imperium è di tipo consolare ma esteso alle province, e valido per dieci anni (novità istituzionale). Non è neppure, però, un vero e proprio imperium proconsolare per queste altre ragioni. Anzitutto fu esteso a più province e non a una sola; le province, poi, non vennero sorteggiate dal senato, ma assegnate in ragione dell’essere periferiche e soggette allo stato di guerra; inoltre l’imperium superava il termine dell’annualità; infine, il conferimento di un imperium proconsolare avrebbe violato il tradizionale divieto di cumulo delle magistrature (Ottaviano sarebbe stato console e proconsole nello stesso tempo).52 15. Quanto abbiamo detto finora pone in rapporto, in termini di un vero e proprio legame genetico, il nuovo imperium conferito ad Ottaviano nella seduta del 13 gennaio del 27 a.C., con gli imperia straordinari, comprendenti il governo di più province, che vennero conferiti di volta in volta ai protagonisti delle guerre civili. Per sottolineare la somma di poteri di cui godette 52 Com’era stato Pompeo, allorché rivestì il consolato unico, ma in una situazione resa eccezionale dall’urgere della guerra civile. – 73 – alla fine di quella seduta, va, poi, ricordato che assieme a questo imperium ‘ secondo CASS.DIO 53,12,1) fu conferita un’altra particolare (ηγεµονία, competenza a Ottaviano, riferita dallo storico Cassio Dione con le seguenti ∼ν κοινω ∼ν parole (53,12,1): τὴν µὲν φροντίδα τὴν τε προστασίαν τω ∼σαν. πα Si tratta, come ha individuato il Betti,53 di una competenza concorrente col senato e generale, consistente nel diritto di alta sorveglianza sulle finanze (προστασία) e sugli affari pubblici (φροντίς), vale a dire di tutta l’amministrazione, al cui controllo tradizionalmente era preposto il senato.54 Dunque il princeps, in virtù di questo ulteriore affidamento, che faceva il paio con quello delle province esterne (che vennero perciò dette provinciae Caesaris, per contrapporle alle senatorie, le provinciae populi Romani), poté ingerirsi in tutte gli aspetti e le questioni dell’amministrazione finanziaria, per tradizione di competenza del senato, in forza del suo diritto di controllo. Tale προστασία (dal gr. προίστηµι, “controllo, dirigo”) Ottaviano esercitò per mezzo di appositi funzionari, i procuratores. Il termine decennale, assegnato a questi nuovi poteri, valse a Ottaviano per evitare il sospetto di voler instaurare un regime monarchico, mostrando invece di mantenere una parvenza di repubblica (CASS.DIO 53,12: ∼, ‘ δηµοτικòς τις ειναι δóξαι). Di fatto si trattava di Βουληθείς δὲ δὴ καί ὼς un regime personale, perché l’imperium militare era concentrato, in via esclusiva, nelle sue mani e il collega non aveva la possibilità di usarlo. Né ebbero la possibilità di usarlo i governatori delle province rimaste sotto il controllo del senato, tutti proconsoli ma senza poteri militari. Va tenuto presente che, comunque fosse configurato, l’imperium militare provinciale, concepito per una durata decennale, era collegato a una carica, quella consolare (rivestita da Ottaviano, ormai divenuto Augusto), limitata dalla collegialità e dall’annualità. Deponendo il consolato nel giugno del 23 a.C.,55 Augusto provvide a superare anche questi ultimi residui limitanti, trasformando il suo imperium da consolare in proconsulare maius et infinitum56 e detenendolo di fatto a vita, per via di continue rinnovazioni.57 E. BETTI, Il carattere giuridico del principato di Augusto, Città di Castello 1915, p. 6. Dovette trattarsi di un controllo effettivo, non meramente politico, come invece asserito da F. ROHR VIO, comm. a CASSIO DIONE, Storia romana libri LII-LVI, vol. V. Rizzoli, Milano 1998, p. 185 n. 69. 55 Il 30 giugno del 23 a.C., per il BETTI, cit., p. 21. 56 CASS. DIO 53,25,5: α ’ ρχὴ α ’ νθύπατος ο α ’ νθυπατικὴ ε’ ξουσία. Il Betti (cit., p. 22) ha giustamente configurato questo potere (ε’ ξουσία) come sostituente in toto l’imperium conso53 54 – 74 – 16. È, appunto, dal 23 a.C. che il principato assume la sua forma costituzionale definitiva, venendo i poteri del princeps Augusto e dei suoi successori a fondarsi su questi due pilastri costituzionali: l’imperium proconsulare maius et infinitum e la tribunicia potestas (assunta, quest’ultima, il I luglio del 23 a.C., con significativa quasi-coincidenza rispetto all’imperium proconsulare). Queste le attribuzioni dell’imperium proconsulare maius et infinitum di Augusto: comando militare su tutte le province, comando del mare, delle coste e dei porti, diritto alla scorta di una guardia armata a disposizione del sovrano per qualsiasi luogo, diritto alla nomina dei propri luogotenenti, diritto di decidere della pace e della guerra, diritto di leva, diritto di imposizione dei tributi (confluenti nel fiscus) nelle provinciae Caesaris, diritto di facere foedus, ossia di stringere accordi vincolanti con le altre nazioni in rappresentanza dello stato romano, facoltà di presentare al senato, verso cui Augusto si considerava mandatario, relationes sulla politica estera.58 Tutte queste attribuzioni, poteri e facoltà verranno riconosciuti ai successori di Augusto. V’è ancora da dire che, in rafforzamento del suo imperium, Augusto verrà dichiarato dal senato, al principio del 24, legibus solutus, ossia sottratto al vincolo delle leggi: tale esenzione diverrà poi canonica, tra le facoltà concesse al sovrano, e sarà formalmente prevista in una clausola della legge d’investitura.59 Nella dispensa dalle leggi prevista per il sovrano si attua (“è cristallizzata”, secondo la suggestiva espressione del Betti, cit., p. 19) quella emancipazione dell’imperium magistratuale dalle leggi, e dunque dalla costituzione repubblicana, che i proconsoli avevano prima preteso per sé, erigendosi a controllori di se stessi. Ma va aggiunto che il superamento della costituzione repubblicana è segnato altresì dalla riunilare, con la medesima caratterizzazione militare, contro la tesi del Karlowa (O. KARLOWA, Römische Rechtsgeschichte, vol. II 1, Leipzig 1901), che riteneva coesistere in Augusto l’imperium proconsulare e quello consulare, ristretto alla forma domi. 57 Dopo il primo decennio 27-18 a.C., lo assumerà per il quinquennio 17-12, per il 12-7, per il 7-2 d.C., per il 3-12, e dal 12 fino alla fine. 58 CASS. DIO 54,9,1. 59 Si tratta della facoltà di cui alla settima clausola della famosa lex de imperio Vespasiani: sulla cui portata effettiva si veda la penetrante analisi in TONDO, Profilo di storia, cit., pp. 305308. Proprio la previsione di questa facoltà porterebbe a rifiutare la celebre interpretazione del Mommsen (T. MOMMSEN, Römisches Staatsrecht, Zweiter Band, II Abteilung, Leipzig 1875, p. 709) del principato come diarchia di princeps e senatus: in virtù di essa il princeps avrebbe potuto sottrarre un qualunque suo atto, nell’esercizio dell’imperium, al controllo del senato (ch’era, non va dimenticato, l’organo supremo di controllo della legalità repubblicana). Non poteva dunque darsi una signoria bipartita, se uno dei due organi era in una posizione superiorem non recognoscens. – 75 – ficazione dell’imperium, nelle sue attribuzioni domi e militiae, in capo a uno stesso soggetto, il princeps, allorché la res publica era garantita, nella sua forma tradizionale, dalla separazione funzionale e territoriale dell’imperium nelle due sfere di competenza, domi e militiae. Ciò significa che entro l’urbs l’imperium era allo stato latente: Augusto non lo esercitò mai, ma tale possibilità fu praticata dai Severi (acquartieratosi ad Alba, Settimio Severo invase la città e il senato di suoi legionari, per farsi proclamare imperatore) e dai loro successori, nel periodo dell’anarchia militare (235-268). 17. La cumulazione nella persona del princeps di un imperium unico, tale che non dovesse essere deposto o rinnovato rispetto ai limiti del pomerium, è il risultato a cui tende l’operato politico dei consoli-proconsoli rivoluzionari della tarda repubblica, che entrano in Roma con le loro truppe (Mario, Silla, Cinna, Cesare, Ottaviano), in spregio della legalità, ma col pretesto di ripristinare quella legalità che essi assumevano offesa dai loro nemici. Ed emanazione di questa nuova concezione dell’imperium, riunito e sottratto al controllo costituzionale, nonché separato dalla magistratura corrispondente, è il nomen imperatoris assunto da Ottaviano (non ancora Augusto) nel 29 a.C., nome che assumeranno i suoi successori dopo essere stati acclamati imperatores dai pretoriani (caso di Claudio) o dall’esercito (caso di Galba). Ottaviano era stato acclamato più volte imperator dai soldati già durante la guerra civile contro Bruto e Cassio; ora, assunto formalmente nel 29, questo titolo (ch’era prerogativa del comandante vittorioso durante la repubblica), assieme ai nomi Caesar (indicativo di colui che l’aveva adottato) e Augustus (nome conferitogli nel 27 a.C.), entra a far parte della titolatura ufficiale per la designazione del princeps, con la funzione di praenomen, nella formula onomastica Imperator Caesar Augustus. Tale titolo è strettamente connesso alla titolarità e all’esercizio del potere sovrano, dell’imperium, sicché non è ipotizzabile una dismissione del titolo (e nome) di imperator senza una contestuale dismissione del potere sovrano. L’assunzione del titolo (e nome) di imperator, a seguito dell’acclamazione delle truppe o del senato,60 era celebrata nel dies imperii, una volta l’anno: tale acclamazione, da parte dell’esercito e del senato, poteva Il titolo di imperator poteva essere concesso anche dal senato, così come era il senato che durante la repubblica nominava i promagistrati nelle province, conferendo loro l’imperium, fino a che non intervennero con apposite leggi i tribuni della plebe, per conferire imperia straordinari. 60 – 76 – essere contestuale o no (nel corso della storia si vide che l’esercito ebbe la tendenza a precedere, ma non a sostituire, il consesso senatorio), e in questo secondo caso alcuni imperatori celebrarono due distinti dies imperii, a ricordo dell’acclamazione militare e di quella senatoria. 18. Ancora qualche conclusiva osservazione. Ci siamo soffermati prima sulla seduta del 13 gennaio del 27 a.C., come fondamentale per l’attribuzione a Ottaviano di quello che poi (dal successivo 23) si sarebbe configurato come uno dei due pilastri del potere augusteo, l’imperium proconsulare maius et infinitum. Va ora ricordato che nella immediatamente successiva seduta del 15 gennaio, Ottaviano riceve, su proposta di Munazio Planco, il titolo di Augustus, titolo che assumerà d’ora in avanti ufficialmente e adotterà come nome nei documenti e atti legislativi (è, dunque, proprio a partire da questo giorno che Ottaviano verrà chiamato Augusto). Varie e discusse sono state le interpretazioni che del nome hanno fornito gli studiosi, tutte, però, poste in relazione con termini come augeo, “accresco”, augmentum, “accrescimento”, augurium (termine della sfera religiosa con varie implicazioni semantiche), a rimarcare comunque un’idea di superiorità carismatica rispetto all’umano.61 Una superiorità, com’è stato 61 Dando sommariamente conto delle posizioni degli studiosi, ricordiamo che per il Mazzarino (S. MAZZARINO, L’impero romano, vol. I, Laterza, Roma-Bari 1976, p. 72) il termine Augustus ha il significato, analogo al greco σεβαστóς, di “venerato”. Il Levi (M.A. LEVI, Augusto e il suo tempo, Rusconi, Milano 1994, p. 266), che erroneamente pone al 13 gennaio il conferimento del titolo di Augustus, richiama i precedenti di Silla Felix (a rimarcare la particolare benevolenza divina di cui era oggetto) e di Pompeo Magnus (termine indicativo del sommo prestigio acquisito per i meriti militari): va osservato, però, che questi titoli, a differenza di Augustus, non sembrano implicare una particolare idea di “venerabilità” e, d’altronde, né Silla né Pompeo ebbero mai onori divini. A livello semantico il termine Augustus rimanda, con stretta etimologia, all’auspicio augurale (come attestato in FEST. 2,1 augustus locus sanctus ab avium gestu; si ricordi anche il verso enniano augusto augurio postquam incluta Roma est, fr.417 ed.Traglia, Torino 1986, p. 510), e specialmente a quello, carico di felice presagio per l’avvenire, ottenuto per la fondazione di Roma, quasi che Augusto abbia inteso qualificare se stesso come un novello Romolo, optimi status auctor (così in SUET. Aug. 28,2). È un punto fermo, dunque, che, pur senza avere necessariamente implicazioni divine (come invece ritiene il PARAIN, cit., p. 132), la valenza ideologica del termine comprenda l’idea di “oltreumanità”, connessa a quella di venerabilità, nel segno dell’attribuzione alla persona del princeps di una incomparabile superiorità rispetto agli altri individui (TONDO, Profilo di storia, cit., p. 251). Altra è invece la prospettiva da cui muove il Sirago (V.A. SIRAGO, Principato di Augusto, Dedalo, Bari 1978, p. 20), il quale connette il nome Augustus (“il cresciuto”, da augeo) a una crescita effettiva di potere materiale, politico (ma questa semmai sarebbe riflessa nel termine imperator) ed economico (è noto che nelle mani del princeps si venne accumulando una ingentis- – 77 – osservato, che assomma in sé i caratteri della “oltreumanità” (ma non ancora divinità)62 e della venerabilità, e che appare in forte connessione con la personale e ufficializzata auctoritas del sovrano, quasi che questa fosse il frutto di quel titolo. Augusto tenne sempre a dare particolare rilievo alla sua auctoritas (com’è attestato dalle stesse Res gestae 34,3: Post id tempus auctoritate omnibus prestiti,…), in virtù della quale praticamente nessun atto gli era precluso, anche di fronte al senato stesso: così estese d’autorità alla provincia d’Africa, ch’era sotto il controllo del senato, gli effetti del SCtum Calvisianum (nel 4 a.C.), che innovava in materia di procedura de repetundis,63 e concesse lo ius respondendi ex auctoritate principis, che conferiva particolare autorevolezza, quale sorta di “garanzia” rilasciata dal sovrano, ai responsi dei giuristi che l’avevano ottenuta. sima ricchezza fondiaria, soprattutto dopo le proscrizioni: nel saggio del Sirago l’impressionante elenco delle proprietà di Augusto disseminate tra Italia e province, occupa ben 17 pagine), tale che egli non temeva più alcuna concorrenza. Ma se il termine fosse indice soltanto di un’accresciuta potenza materiale, non avrebbe senso la connessione con l’idea di venerabilità, a cui senza dubbio rimanda il corrispondente greco σεβαστóς. Scarsamente plausibile, da ultimo, è l’interpretazione che di Augustus dà il Jones (A.H.M. JONES, Augusto, trad. di F. Totaro, Laterza, Roma-Bari 1974, p. 60), per il quale esso sarebbe stato conferito a Ottaviano in riconoscenza dell’aver restaurato la repubblica nella sua antica forma (ben altro, come abbiamo visto, fu il disegno politico del figlio di Cesare e non si può dar troppo credito, come invece fa lo studioso, all’espressione prisca et antiqua rei publicae forma revocata di Velleio Patercolo 2,89). Non va da ultimo dimenticato che anche Carlo Magno, incoronato imperatore da papa Leone III la notte di Natale dell’800, assunse il titolo di Augusto, a rimarcare la continuità del suo impero con quello romano (Eginardo, Vita Karoli 28). 62 Augusto, com’è noto, non pretese mai onori divini dai cives e volle sempre che il culto a lui riservato nelle province fosse associato a quello della dea Roma. Per converso, tenendo alla valorizzazione massima, in senso cultuale, della gens in cui era entrato a seguito dell’adrogatio, procurò di far divinizzare con apposita legge (lex Rufrena, 42 a.C.) il padre adottivo, cosicché poté presto chiamarsi Divi filius. 63 Il testo del SCtum Calvisianum (emanato sotto i consoli Calvisio Sabino e Passieno Rufo) è contenuto nel quinto degli editti di Cirene (editti rinvenuti su una stele di marmo dell’α’ γορά di Cirene nel 1926: testo in Fontes Iuris Romani Anteiustiniani, pars prima Leges, a cura di Salvatore Riccobono, Florentiae 1941 (II ed.), pp. 403-414). Vi si stabiliva, tra l’altro, che l’accusa nella procedura de repetundis potesse essere sostenuta direttamente dai provinciali, dinanzi ai giudici, senza l’assistenza del patrono (in proposito F. SERRAO, Classi, partiti e legge nella Repubblica Romana, Pacini, Pisa 1974, p. 223): una concessione che viepiù configura Augusto quale vindice dei provinciali. Anche il concetto di auctoritas, in relazione all’ideologia augustea, è stato variamente inteso dagli studiosi. Secondo l’Arangio-Ruiz (V. ARANGIO-RUIZ, Storia del diritto romano, cit., pp. 220-221) nel pensiero di Augusto essa implica un’attività protettiva esplicata da lui nei confronti degli organi costituzionali ormai inadatti a svolgere le loro funzioni, attività qualificante il principato nel senso di un “protettorato”. Le province senatorie, i promagistrati, di nomina senatoria, l’erario, sarebbero stati gli elementi propri del vecchio ordinamento repubblicano, lo stato- – 78 – 19. Le due sedute senatorie del 27 a.C. e i connessi provvedimenti preludono alla grande innovazione costituzionale, che viene completata nel 23, nel senso di un pieno e definitivo consolidamento del principato. Augusto riveste dal 27 al 23, annualmente, il consolato. Verso la fine di giugno del 23, lo depone: per conseguenza il suo imperium diviene proconsulare, maius et infinitum, ossia senza il vincolo di dismissione ed esteso anche alle province senatorie. Ma, ciò che va ben chiarito, l’imperium proconsulare di Augusto ha caratteristiche ben diverse da quegli imperia straordinari, ad esso precedenti, conferiti durante le guerre civili (che erano comunque rimasti nell’ambito di vere e proprie soluzioni di necessità, a cui ricorrere per fronteggiare situazioni eccezionali). Questi i punti da tener presenti, per chiarire il termine dell’evoluzione a cui, con Augusto, giunge l’istituto dell’imperium nella sua realtà sostanziale: 1) Augusto non assume il titolo di proconsole, ed esercita l’imperium anche sulle province senatorie, connesso a poteri di controllo sulle finanze e l’amministrazione; 2) il suo imperium non cessa quando egli varca il pomerium e perciò non deve essere riassunto; 3) l’imperium è maius, perciò, rispetto a quello degli altri governatori provinciali e senza limite né delle province né del pomerium (infinitum); 4) per conseguenza questo nuovo imperium determina il mutamento del tradizionale concetto di provincia, quale territorio delimitante la competenza del promagistrato (con Augusto le provinciae divengono grandi unità territoriali solo formalmente divise tra senato e princeps); 5) rispetto al suo esercizio da parte di Augusto, scompare la distinzione tra imperium domi e imperium militiae; 6) infine, esso è praticamente concesso a vita al sovrano, mediante rinnovi quinquennali. Il concetto di imperium, che introduce la nuova costituzione augustea, è dunque assolutamente diverso da quello repubblicano: oltre alle caratteristiche prima elencate, provvede a renderlo peculiarmente nuovo il fatto che si tratta di un imperium detenuto a vita dal sovrano e disgiunto dal titolo magistratuale, perché Augusto non è più console (dopo il 30 giugno del 23 protetto, mentre le province imperiali, i legati Augusti pro praetore, il fisco, avrebbero caratterizzato il nuovo ordinamento del principato, lo stato-protettore. È comunque indubbio che anche sull’auctoritas principis, ad integrazione dei due poteri-cardine assunti dal sovrano, ossia l’imperium proconsulare maius e la tribunicia potestas, doveva fondarsi il nuovo regime: fondamento istituzionale e fondamento carismatico (rispetto ai quali, osserva da ultimo A. FRASCHETTI, Augusto, Laterza, Roma-Bari 1998, p. 56, non è possibile scegliere quale sia stato quello determinante) operavano assieme nel consolidamento di un regime “molto ambiguo in quanto esso, benché autocratico, non era dichiaratamente monarchico” (A. FRASCHETTI, ibid.). – 79 – a.C.) e neppure proconsole (se lo fosse, non sarebbero giustificabili né il controllo delle province senatorie né il mantenimento dell’imperium entro l’urbe). L’imperium di Augusto è, in definitiva, un potere unitario, illimitato e opposto ai principi della costituzione repubblicana: l’ideale base su cui erigere la costruzione dell’autocrazia legalizzata che, per secoli, tenne in pugno il destino di Roma. – 80 – MARIO CARINI Incontri e scontri di civiltà tra antico e moderno 1. La vita quotidiana spesso presenta continue e inaspettate occasioni di confronto tra usi e comportamenti provenienti da culture (oggi è invalso l’uso generalizzato del termine “civiltà”) diverse. Può accadere che il comportamento individuale, proprio di una cultura minoritaria, non sia accettato dalla cultura egemone, in nome del principio che impone di trattare gli esseri umani in modo uniforme, senza tener conto delle reciproche differenze. Nel caso sorga un conflitto tra l’individuo e la collettività, la legge è chiamata a doverosamente esercitare la sua funzione regolatrice nei rapporti tra gli individui, onde evitare conflitti sociali che mettano a repentaglio la convivenza civile. Ma il fragile equilibrio imposto dalla soluzione legislativa, allorché il conflitto è particolarmente acuito perché implica giudizi di valore su culture che si confrontano, è sempre temporaneo, difficilmente contempera equamente gli opposti interessi degli individui che si richiamano a diversi modi di sentire, e talora appare destinato a essere superato dalla forza degli eventi. Senza considerare che un intervento del legislatore in senso repressivo, limitando la libera determinazione dell’individuo che intende mostrare la sua appartenenza a un gruppo o la sua fedeltà a una tradizione, appare non rispettoso di chi è portatore di una identità minoritaria e può lasciare spazio ad accuse di discriminazione da parte della cultura egemone. La storia è stata e continua ad essere il terreno degli incontri tra culture e, in senso più ampio, civiltà, che lasciano spesso il posto a scontri. Le cronache più recenti, registrando i molteplici cambiamenti sociali che caratterizzano l’Europa e, nello specifico, il nostro Paese all’alba del terzo millennio, ci hanno presentato episodi in cui sono venuti a contrasto costumi e tradizioni provenienti da culture diverse. La più eclatante di tutte è stata, a nostro giudizio, la questione del velo islamico e della sua liceità all’interno delle scuole pubbliche. La questione si è posta con tutta evidenza in Italia e in Francia, ha interessato studentesse provenienti da paesi di religione islamica, ha chiamato in causa il principio della laicità dello stato ed è stata risolta per via legislativa in un modo che ha dato adito a forti polemiche. – 81 – Ma anche il passato ci offre innumerevoli esempi di scontri fra principi e tradizioni propri di civiltà diverse, soprattutto in momenti cruciali che hanno rappresentato ponti di passaggio tra differenti epoche storiche. Un altro capo di abbigliamento, come le bracae, fu oggetto addirittura di un provvedimento degli imperatori, perché l’uso ne fosse ufficialmente vietato. La legge va inquadrata nell’età tardoantica, un periodo tumultuoso che comportò mutamenti fondamentali nel mondo romano, chiudendo la classicità e preparando l’avvento del medioevo. I due casi, il divieto del velo islamico e quello delle bracae, presentano analogie sotto vari aspetti. Prendiamo l’avvio dalla legge sulle bracae. 2. Una delle fasi storiche più delicate nella storia d’Europa, perché chiuse definitivamente l’epoca della classicità e aprì il medioevo è quella dell’antichità tarda. Richiamando l’attenzione a questa epoca, caratterizzata dall’incontro tra la romanità e il mondo barbarico, prendiamo in esame una disposizione legislativa ad essa risalente. Si tratta di una legge emanata dagli imperatori Arcadio e Onorio nel 397, forse il 7 aprile, e conservata nel Codex Theodosianus, la raccolta ufficiale delle leggi imperiali pubblicata dall’imperatore bizantino Teodosio II.1 Ne citiamo il testo, secondo l’ed. Mommsen-Krüger (T. MOMMSEN-P. KRÜGER, Theodosiani libri XVI, vol. I 2, Berolini 1999, rist. I ed. 1904, p. 788): C.Th.14,10,2 (397 Apr. 7?) IMPP. ARCAD(IUS) ET HONOR(IUS) AA. AD POPULUM. Usum tzangarum adque bracarum intra urbem venerabilem nemini liceat usurpare. Si quis autem contra hanc sanctionem venire temptaverit, sententia viri in(lustris) p(rae)f(ecti) spoliatum eum omnibus facultatibus tradi in perpetuum exilium praecipimus. ET CETERA. DAT. P(RO)P(OSITA) ROMAE IN FORO DIVI TRAIANI CAESARIO ET ATTICO CONSS. («A nessuno sia permesso fare uso delle zanghe e delle brache all’interno dell’urbe venerabile. Se qualcuno tenterà di contravvenire a questa solenne disposizione, ordiniamo che per sentenza del prefetto2 sia privato di tutti i suoi beni e sia cacciato in perpetuo esilio»). 1 2 La costituzione è nel libro XVI sotto il titolo II De habitu, quo uti oportet intra urbem. Si tratta del praefectus urbi. – 82 – La solenne disposizione, diretta a tutto il popolo di Roma, come risulta dalla inscriptio,3 vietava dunque l’uso nel territorio della città di Roma delle zanghe (tzangae) e delle brache (bracae), promettendo ai trasgressori la pena non certo lieve dell’esilio perpetuo con la confisca dei beni. Due osservazioni immediate. La disposizione fu certamente di peculiare importanza, nel senso che essa era diretta al popolo di Roma e ad esso fu fatta conoscere tramite l’affissione nel foro di Traiano. Si disponeva il divieto di indossare le zanghe e le brache, non soltanto nei luoghi pubblici ma in tutto il territorio all’interno della città. La seconda osservazione è che la durissima sanzione appare sproporzionata rispetto all’entità della colpa, ossia l’essersi fatti vedere in pubblico con le zanghe e le brache. Se ricordiamo che la pena dell’esilio nella legislazione del tardo impero era prevista per gravi reati,4 non possiamo non considerare l’eccezionale, e a prima vista inspiegabile, severità di questa legge imperiale. Quali le sue ragioni? 3 L’inscriptio è la parte iniziale del testo, che contiene generalmente il nome dell’imperatore (o degli imperatori, come in questo caso) emittente e quello del destinatario della costituzione. Sulla tipologia e le modalità di pubblicazione delle costituzioni imperiali vd. PIETRO DE FRANCISCI, Sintesi storica del diritto romano, Bulzoni, Roma 1968, pp. 554-559. 4 La pena dell’esilio nell’ordinamento romano conobbe una varia applicazione. In età repubblicana l’esilio volontario era un mezzo per sfuggire alla condanna capitale, prima che fosse stata pronunciata. All’espatrio seguiva il formale provvedimento dell’aqua et igni interdictio, con la confisca dei beni e la perdita della cittadinanza (vd. BERNARDO SANTALUCIA, Diritto e processo penale nell’antica Roma, Giuffrè, Milano 1989, p. 55). Negli ultimi anni della repubblica, a partire dalla lex Tullia de ambitu del 63 a.C., fu comminato l’esilio come pena autonoma, alternativa alla pena di morte (entrambe poenae capitales). Dall’età di Traiano all’aquae et igni interdictio furono sostituite la deportatio, confino perpetuo in un’isola o in un’oasi del deserto, e la relegatio, confino temporaneo o domicilio coatto che non comportava, a differenza della prima, perdita della cittadinanza e dei beni (vd. BERNARDO SANTALUCIA, Diritto e processo penale nell’antica Roma, cit., pp. 116-117). Il tardo impero, dall’età di Costantino, vede un inasprimento generale del sistema penale romano (sui criteri della repressione criminale nel dominato: VINCENZO GIUFFRÈ, La repressione criminale nell’esperienza romana, Jovene, Napoli 19984, pp. 155-156), nel cui ambito trova larga applicazione la pena della deportatio, prevista in alternativa all’esecuzione capitale per gli honestiores, i cittadini di rango elevato. La Mosaicarum et Romanarum legum collatio, anonima raccolta di iura et leges composta tra il 390 e il 438, ci fa conoscere i casi in cui si applicava la deportatio, limitatamente agli honestiores: ai rei di omicidio volontario e veneficio (Coll. 1,2,2), di falsa testimonianza (Coll. 8,5,1), agli incendiarî (Coll. 12,5,1), ai rei di riduzione in schiavitù (Coll. 14,2,2). Altri casi di applicazione della deportatio, testimoniati dalle costituzioni imperiali: per l’illegittimo ripudio del marito da parte della moglie (C.Th.3,16,1 del 331), per la corruzione di un funzionario imperiale (C.Th.9,26,1del 397), per la violenza commessa dal tutore sulla pupilla (C.Th.9,8,1 del 326), per la pratica di arti magiche (C.Th.9,16,12 del 409), per i falsari (C.Th.9,19,2 del 326), per il ratto di una vergine consacrata a Dio (C.Th.9,25,3 del 420), per il lenocinio (THEOD.Nov. 18 del 439), etc. La sanzione dell’esilio applicata al trasgressore della prescrizione imperiale sulle bracae ci fa comprendere che l’uso di esse, all’interno di Roma, doveva essere considerato un crimine gravissimo, quasi una sorta di sacrilegio. – 83 – Le zanghe e le brache erano ben note ai romani, e aveva poco senso vietarne in modo imperativo l’uso. Le zanghe (tsangae) erano calzature di pelle, a forma di stivale, che andavano fino al polpaccio.5 La loro origine era orientale, forse persiana, e nel tardo impero si diffusero notevolmente, come mostra l’iconografia del tempo. Le brache (bracae), le antenate dei moderni pantaloni, erano un tipico indumento di origine barbarica.6 Le prime testimonianze delle brache, che nel mondo orientale erano chiamate α’ ναξυρίδες, risalgono ad Erodoto (1,71), che le attribuisce ai Persiani; esse erano anche usate dai Frigi, dai Parti e dagli Assiri, e nelle regioni settentrionali d’Europa, dai Celti, dai Sarmati e dai Germani, popolazioni a cui quell’indumento tornava comodo per resistere ai rigori del durissimo clima invernale. Gli abitanti della Gallia tra il Rodano e i Pirenei, corrispondente all’Aquitania, erano talmente abituati ad usare le brache che le consideravano parte del costume nazionale, e bracata era l’appellativo riservato, per antonomasia, alla Gallia Narbonense, secondo la testimonianza di Plinio il Vecchio (Nat.hist. 3,5,31). Del resto, già nel I secolo a.C. il termine bracati designava comunemente i Galli e, più in generale, i Barbari, mentre cognatio bracata era l’espressione usata per indicare una parentela con individui della Gallia Narbonense.7 Le brache erano abitualmente ricavate dalle pelli conciate degli animali, ma, durante l’impero, poterono anche essere tessute di lana: larghe o aderenti, potevano arrivare al ginocchio o alla caviglia, potevano anche coprire il piede ed essere collegate con una staffa alla calzatura, e potevano anche essere strette alla vita con una cintura, come le portavano i Galli. I Romani impararono l’uso delle brache venendo a contatto con le popolazioni nordiche, quando furono costretti a soggiornare nelle fredde 5 Tsanga deriva dal greco tardo τζάγγη, «scarpa, sandalo», da cui τζάγγιον, «stivale», e τζαγγάριος, «ciabattino». Da tsanga derivano, per il lat. med. zanca, i termini reg. zanca e cianca, «gamba, spec. difettosa». MANLIO CORTELAZZO-PAOLO ZOLLI (Dizionario Etimologico della Lingua Italiana, Zanichelli, Bologna 2002², rist., p. 335) collegano l’incerta etimologia di cianca al longob. zanka, «tenaglia». 6 Il termine braca è di origine celtica, e fu accolto nel latino perché designava un capo di vestiario sconosciuto ai Romani (vd. CARLO TAGLIAVINI, Le origini delle lingue neolatine, Patron, Bologna 19996, rist., p. 273). Ricaviamo le notizie sulle bracae da GRAZIA SETTE, L’abbigliamento (Vita e costumi dei Romani antichi, n. 22), Edizioni Quasar, Roma 2000, pp. 45-46. Sull’abbigliamento dei barbari notizie e iconografia in LUDMILA KYBALOVÀ-OLGA HERBENOVÀ-MILENA LAMAROVÀ, Enciclopedia illustrata del costume, trad. di M. Kunzle, Edizioni Accademia, Milano 1977, pp. 95-99; sui calzoni: ibid., pp. 527-533. 7 CIC. Pis. 53. – 84 – regioni invernali durante le campagne contro i barbari nel I e soprattutto nel II secolo d.C., sotto gli imperatori Antonini (guerre di Traiano contro i Daci e di Marco Aurelio contro i Quadi e i Marcomanni). I rilievi delle colonne Traiana e Antonina, raffiguranti in una sorta di lunga sequenza tortile le campagne dei due imperatori,8 ci presentano barbari e soldati romani provvisti di brache. Ma anche i mercanti e i coloni romani che si stanziarono nelle terre danubiane conobbero l’uso delle brache e le fecero conoscere ai Romani. Nel III secolo, con l’avvento di imperatori di origine non italica, come i Severi, l’uso delle brache si generalizzò sempre di più non solo tra i soldati, ormai tratti integralmente (tranne che per il corpo dei pretoriani) dalle province, ma anche tra i civili. Bassiano, un nipote di Settimio Severo proveniente da Hemesa, in Siria,9 sacerdote del dio Sole (Elagabal), quando fu elevato al trono imperiale, dopo l’assassinio di Caracalla, assunse il nome di Antonino Eliogabalo (218-222) e fu solito celebrare i riti del dio Sole vestendo brache ornate di porpora e d’oro (testimonianza di Erodiano 5,3,6), nonostante le raccomandazioni della nonna, Giulia Mesa, di presentarsi in costume romano davanti al senato e al popolo di Roma, perché il suo abbigliamento barbarico (βαρβαρóν σχη∼µα) avrebbe suscitato scandalo in un pubblico non abituato. Vediamo da questa testimonianza che le brache erano, nell’immaginario dei Romani, secondo la testimonianza del greco Erodiano, strettamente connesse al mondo barbarico, essendone uno degli oggetti più rappresentativi, e che a Roma esse non erano diffuse al punto che se ne ammettesse l’uso da parte della più eminente autorità, quale l’imperatore. Le parole della previdente Mesa, che al di là dell’uso della toga volevano richiamare alla mente del bizzarro nipote l’austerità e la morigeratezza proprie dei Romani antichi, restarono però inascoltate, ed Eliogabalo nei suoi quattro anni di regno diede un triste spettacolo di sé, al punto da terminare la sua vita, tra la soddisfazione generale, nella tragedia e nel disonore. Anche Severo Alessandro (218235), il cugino e successore, usava portare brache, ma di color bianco (HIST.Aug. 18,40,11). Nel III e nel IV secolo le brache si generalizzarono 8 Sulla rappresentazione dei barbari bracati in questo genere di arte celebrativa (che include le colonne di Teodosio e di Arcadio a Costantinopoli) vd. SABATINO MOSCATI, Il volto del potere, Newton Compton, Roma 1978, pp. 137-153. 9 Era figlio di Giulia Soemia, figlia a sua volta di Giulia Mesa cognata di Settimio Severo. Voci maligne attribuivano la paternità di Antonino Bassiano a Caracalla, così come quella del cugino Severo Alessandro; peraltro la stessa Giulia Soemia e sua madre si sarebbero vantate di questo supposto stupro (HIST. Aug. 15,9,4 e 17,2,1). – 85 – e furono ammesse normalmente nell’uso quotidiano, come testimoniano anche documenti ufficiali. I soldati romani avevano ormai nel loro equipaggiamento le brache e la cotta di maglie di ferro. L’arco di Galerio (292311) a Salonicco mostra legionari con le brache. Il celebre Edictum de pretiis, che Diocleziano emanò nel 301 per calmierare i prezzi dei generi alimentari e fissare i salari e gli onorari, contiene, al titolo VII (De mercediis oper[arior]um)10 alcune voci relative ai compensi dei bracarii: così erano chiamati gli artigiani specializzati nel confezionare brache e altri indumenti.11 A seconda della loro specializzazione ricevevano compensi distinti: 60 denari12 i bracarii esperti nel taglio e l’ornatura dei birri primae qualitatis (DIOCL. Ed. de pret. 7,44), ossia mantelli con cappuccio, 40 denari per i birri secundae qualitatis (Ed. de pret. 7,45), 25 denari per la confezionatura della caracalla maior (Ed. de pret. 7,46), un particolare tipo di mantello usato dai militari, 20 denari per quella della caracalla minor (Ed. de pret. 7,47), altrettanti per la confezionatura delle bracae (Ed. de pret. 7,48), 4 per quella degli udones (Ed. de pret. 7,49), una calzatura di pelo di capra. 3. Dunque, allorché sopraggiunse il divieto di Arcadio e Onorio, le brache erano comunemente diffuse e gli artigiani esperti nella lavorazione delle brache e di altri capi di abbigliamento erano distinti come bracarii, anche se probabilmente non dovevano formare una vera e propria corporazione. Brache e bracarii dovevano essere evidentemente diffusi anche a Roma, la capitale dell’impero. La ragione del divieto sta assai probabilmente nel desiderio di riaffermare l’immagine di Roma quale centro della romanità e dei suoi valori, attraverso l’obbligo, imposto per legge e dal- Per il testo dell’Edictum de pretiis facciamo riferimento alla versione elettronica di Ulrich Harsch (Bibliotheca Augusta, 1997), consultabile al seguente sito: www. fh-augsburg. de/~harsch/dio_f. html 11 Sugli artigiani vd. la voce Artigiano in KARL-WILHELM WEEBER, Vita quotidiana nell’antica Roma, trad. di F. Ricci, Newton Compton, Roma 2003, pp. 43-48. Sulle corporazioni di artigiani a Roma vd. ALBERTO PAOLO TORRI, Le corporazioni romane. Cenno storico, giuridico, economico, Edizioni Settimo Sigillo, s. l. e d. (I ed. 1941): nell’elenco delle corporazioni artigiane esistenti a Roma durante l’impero, alle pp. 102-105, mancano i bracarii, che dovevano perciò essere una corporazione più recente o, forse, erano compresi in quella dei sutores. 12 Si tratta, per tutte queste voci, di paghe giornaliere corrisposte all’artigiano dal committente. 10 – 86 – l’alto, di limitare alla toga (e a tutti gli altri abiti consentiti)13 l’abbigliamento di tutti coloro, residenti e non, che si trovassero all’interno dell’urbe,14 quasi che la toga fosse la veste ufficiale della romanità. E poiché le bracae erano strettamente legate al mondo barbarico, anzi nell’immaginario romano erano diretto segno di appartenenza alla Barbaritas, potremmo scorgere nella disposizione imperiale di Arcadio e Onorio non tanto un segno di anacronistica stravaganza quanto il riflesso di quella politica antigermanica che animò più che questi due imperatori (ancora troppo giovani, nel 397, per governare con sufficiente consapevolezza e autonomia) soprattutto i loro ministri, in particolare quel Flavio Rufino, ministro di Arcadio, e il suo successore Eutropio, che tanto si adoperarono, soprattutto il secondo, contro il valoroso Stilicone,15 il fedele generale di Teodosio e, alla morte di questi, equanime tutore dei suoi due figli Arcadio e Onorio. Il divieto di portare le bracae a Roma e a Costantinopoli, le due sedi imperiali, potrebbe essere stato ispirato proprio da Eutropio, l’intrigante praepositus sacri cubiculi (sorta di gran ciambellano preposto agli addetti alla persona del sovrano, i cubicularii) di Arcadio. Sull’abbigliamento dei Romani, in generale: CARLO FUMAGALLI, La vita domestica e pubblica dei greci e dei romani, Messaggerie Pontremolesi, Milano 1989 (rist. anast. dell’ed. 1893), pp. 81-88; W. KNOPP-N. MORESCHI, Antichità private dei Romani, CisalpinoGoliardica, Milano 1986 (rist. anast. della III ed. Hoepli, 1902), pp. 44-55; voci tunica, toga, mantello e calzature in JEAN-CLAUDE FREDOUILLE, Dizionario della civiltà romana, trad. di R. Vallone Bourdin, Gremese editore, Roma 1990; JÉRÔME CARCOPINO, La vita quotidiana a Roma, trad. di E. Omodeo Zona, Laterza, Roma-Bari 19916, pp. 178-181; UGO ENRICO PAOLI, Vita romana, Mondadori, Milano 1997, rist., pp. 90-96. 14 Tutti cittadini romani, in quanto il celebre Editto di Caracalla (212) aveva esteso la cittadinanza a tutti gli abitanti dell’impero, tranne gli schiavi e i dediticii (le popolazioni barbariche volontariamente sottomessesi all’autorità romana). Ma la costituzione C.Th.14,10,2 sembra estendere il divieto dell’uso delle bracae a tutti coloro, Romani e Barbari, liberi e schiavi, che si trovassero all’interno dell’urbe. Naturalmente il divieto valse anche per gli abitanti di Costantinopoli, residenza di Arcadio, allorché la medesima costituzione fu pubblicata anche in quella sede. 15 Suscitando le invettive di Claudiano (In Rufinum I e II, In Eutropium), tanto acre nel bollare con accenti sdegnati la figura e l’opera dei due potenti ministri di Arcadio (ad esempio, immagina che Rufino sia venuto dalle viscere dell’Inferno per la rovina del mondo, vd. CLAUD. Ruf. 1,74-105, su cui BRUNO LUISELLI, Aspetti della situazione linguistica latina nel passaggio dall’antichità all’alto medio evo, «Romanobarbarica», 2, 1977, pp. 72-73) quanto solerte nell’esaltare il suo patrono Stilicone. La rovina di entrambi fu decisa dai comandanti barbarici: quella di Rufino fu opera di Gainas e Stilicone (con la connivenza, forse, di Eutropio) nel 395 (alla complicità di Stilicone accenna CLAUD. Ruf. 2,402-403), quella di Eutropio nel 399 fu provocata da Tribigildo, Gainas e forse Stilicone. 13 – 87 – Riferendo questo provvedimento al più generale indirizzo politico seguito dai successori di Teodosio verso i Barbari, possiamo scorgere singolari coincidenze con altri provvedimenti che ebbero conseguenze determinanti nell’affrettare la rovina della parte occidentale dell’impero.16 Da ricordare, anzitutto, che già lo stesso Teodosio, pochi anni prima, con il famoso Editto di Tessalonica (380),17 aveva provveduto ad elevare la religione cristiana, nella sua confessione cattolica, a religione ufficiale dell’impero. L’ufficializzazione del cristianesimo cattolico non poté non introdurre elementi di accesa ostilità tra Romani e Barbari, che nella stragrande maggioranza erano, com’è noto, di confessione ariana. Il ritardo o addirittura il rifiuto del pagamento del tributo annuo da parte dell’imperatore scatenò l’ira delle tribù di foederati germanici al di qua e al di là della frontiera: nell’inverno tra 406 e 407 orde di Vandali, Burgundi, Alani, e Svevi attraversarono in massa il Reno ghiacciato e sciamarono in Gallia e in 16 Dopo la morte di Teodosio furono differiti o cessarono del tutto i pagamenti dei donativi ai Goti stanziati come foederati ai confini dell’impero (come lamenta Jordanes, Get. 29), ciò che scatenò la rivolta di questi e delle altre popolazioni germaniche. Qualche mese dopo la morte di Teodosio, nel 395, i Goti, a causa del mancato pagamento del tributo annuo, superarono il Danubio ghiacciato (il grande storico Edward Gibbon ha lasciato una ancor suggestiva descrizione dell’episodio, vd. EDWARD GIBBON, Decadenza e caduta dell’impero romano, trad. di P. Angarano e C. Balducci, vol. III, Newton Compton, Roma 1973, pp. 161-162). Vandali, Alani e Svevi all’inizio del 407 attraversarono il Reno ghiacciato e irruppero in Gallia e in Spagna (sollecitati da Silicone, secondo la tendenziosa versione accolta da Orosio, 7,40,3). Per un quadro storico delle invasioni barbariche e dell’ultimo secolo dell’impero d’Occidente, si vedano: ROBERTO PARIBENI, Da Diocleziano alla caduta dell’impero d’Occidente, Cappelli, Bologna 1941; WILLIAM SESTON, Il declino dell’Impero Romano d’Occidente. Le invasioni barbariche, trad. di F. Solinas, in I propilei, grande storia universale Mondadori, a cura di Golo Mann e Alfred Heuss, vol. IV, Mondadori, Milano 1969², pp. 557-687; FRANZ GEORG MAIER, Il mondo mediterraneo tra l’Antichità e il Medioevo, trad. di R. Isenburg, Feltrinelli, Milano 1970, pp. 21-187; PAOLO BREZZI, L’urto delle civiltà nell’Alto Medio Evo, Istituto di Cultura Nova Civitas, Roma 1971, pp. 15-93; SANTO MAZZARINO, L’impero romano, vol. III, Laterza, Roma-Bari 1976²; GABRIELE PEPE, Il Medio Evo barbarico d’Italia, Einaudi, Torino 19776, pp. 9-105 (sui regni di Odoacre e Teodorico); ARMANDO SAITTA, 2000 anni di storia, vol. II Dall’impero di Roma a Bisanzio, Laterza, Roma-Bari 1979, pp. 513-599; LUDOVICO GATTO, Le invasioni barbariche, Newton Compton, Roma 1997. 17 Di Graziano, Valentiniano II e Teodosio, pubblicato il 27 febbraio 380 (C.Th.16,1,2). Da ricordare che l’Editto non soltanto dichiarava la religione cattolica quale ufficialmente e obbligatoriamente professata nell’impero (Hanc legem sequentes Christianorum catholicorum nomen iubemus amplecti), ma prometteva anche la punizione per i seguaci di altre dottrine cristiane o religioni (reliquos vero dementes vesanosque iudicantes haeretici dogmatis infamiam sustinere..., divina primum vindicta, post etiam motus nostri, quem ex caelesti arbitrio sumpserimus, ultione plectendos). – 88 – Spagna.18 La diffidenza di Onorio,19 istigata dagli ambienti antigermanici della corte ravennate, portò alla condanna e al supplizio dell’innocente Stilicone (408), l’ultima autentica difesa dello stato romano ormai alla mercé dei Barbari, come, dopo appena due anni, dimostrò il sacco di Roma compiuto da Alarico. Tuttavia né divieti anacronistici come quello dell’uso delle bracae né la politica imperiale antiariana e ostile ai Barbari, perseguita soprattutto a Costantinopoli,20 poterono impedire la diffusione dei Barbari stessi, romanizzati o meno che fossero, nelle strutture dell’impero e perfino nei gradi più alti di esso, attraverso l’esercito. Conseguenza della politica di arruolamento dei Barbari nell’esercito, perseguita a partire dai Severi e accentuata sotto Costantino,21 e della trasformazione dell’esercito da compagine italico-provinciale a compagine provinciale-barbarica,22 elementi d’origine barbarica, romanizzati o semiromanizzati o, addirittura, del tutto alieni dalla civiltà romana, come avvenne nel V secolo, giunsero ai gradi più alti dell’esercito, fino a diventare comandanti in capo e ad influenzare direttaStorici come Paolo Diacono e Zosimo affermano che le tribù barbare furono allettate ad invadere l’impero da Stilicone, tradendo una tendenza ideologica ostile alla figura del valoroso generale, il quale invece perseguì vanamente una politica di contenimento dell’elemento barbarico. Accusato di collusione con i Barbari, per non essere riuscito o non aver voluto debellare definitivamente Alarico, Stilicone fu condannato e giustiziato nel 408 da Onorio, che si privò così dell’ultimo baluardo rimastogli per contenere i Barbari. Sulla vita di Stilicone succinte notizie in Dizionario dei personaggi dell’antica Roma, a cura di Diana Bowder, trad. di C. Antonelli, Newton Compton, Roma 1990, pp. 271-272; vd. anche ANDREA FREDIANI, Gli ultimi condottieri di Roma, Newton Compton, Roma 2001, pp. 48-128. 19 L’insipiente erede del grande Teodosio era dedito più alle cure del pollame che agli affari di stato. Procopio (De bellis 3,2) narra che quando Onorio, a Ravenna, fu avvertito che Roma era stata annientata da Alarico, temette per la sua gallina, a cui aveva dato il nome della città. 20 I principali rappresentanti del partito antigermanico sostenuto dall’imperatrice Eudossia, proclamata Augusta il 9 gennaio 400, erano Aureliano, Saturnino e Giovanni, su cui vd. ZOS. 5,18,7-8. 21 Sicché vennero creati contingenti di soldati barbarici dirette da ufficiali barbari anch’essi. Accanto a questi bisogna menzionare i Laeti e i Gentiles, popolazioni barbariche da cui l’esercito ricavava le nuove reclute, soprattutto a partire dal IV secolo: in cambio del servizio militare ottenevano, in possesso ereditario e immune dai tributi, estensioni di terre pubbliche in località strategicamente significative. Sul fenomeno dell’imbarbarimento dell’esercito vd. LELLIA CRACCO RUGGINI, I barbari in Italia nei secoli dell’impero, in AA.VV., Magistra Barbaritas, Libri Scheiwiller, Milano 1984, pp. 17-48. 22 Va ricordato che addirittura un barbaro semiromanizzato, Massimino il Trace (con cui si apre il periodo della cosiddetta “anarchia militare”), aveva percorso i gradi della carriera militare esclusivamente per merito della sua prestanza fisica, finendo per essere proclamato imperatore dalle legioni del Reno, come informa la Historia Augusta (vd. HIST. Aug. 19,6 sulla forza fisica di Massimino e HIST. Aug. 19,8 sulla proclamazione di Massimino e sul suo complesso di inferiorità, quale semibarbarus, verso il senato di Roma). 18 – 89 – mente la politica imperiale ponendo pesanti ipoteche sul trono. Una schiera di dittatori militari domina gli ultimi tempi dell’impero d’Occidente. Oltre al già citato Stilicone, un vandalo romanizzato (che, a rimarcare meglio la sua distanza anche ideologica dalla Barbaritas, assunse il prenome romano Flavio), già magister militum sotto Teodosio e poi magister utriusque militiae (comandante in capo dell’esercito) sotto Onorio, di cui fu tutore, possiamo ricordare, tra i più significativi, il germanico Agilone, tribunus stabuli (sovrintendente delle scuderie imperiali) sotto Costanzo II,23 il franco Malarico, rector gentilium (comandante dei contingenti barbari), e il germanico Scudilone, tribunus scutariorum (comandante delle guardie armate di scudo) sotto il medesimo imperatore,24 il germanico Nevitta, magister equitum (comandante della cavalleria) dal 361 al 364 e console25 nel 362 sotto Giuliano (361-363), il gallo Dagalaifo,26 comes domesticorum (comandante della guardia personale) tra il 361 e il 363, sotto il medesimo imperatore, e magister peditum (comandante della fanteria) tra il 364 e il 366, sotto Valentiniano I (364-375), il germanico Merobaude, comandante supremo dell’esercito sotto il medesimo imperatore,27 il franco Ricomere, comes domesticorum di Graziano (377-378) e magister utriusque militiae dell’Oriente dal 388 al 393,28 suo nipote Arbogaste, magister militum di Valentiniano II (375392), il mauro Gildone, magister utriusque militiae per l’Africa dal 386 al 398, il goto Gainas, comandante delle truppe d’Oriente sotto Arcadio,29 il goto Tribigildo, magister equitum dei contingenti barbarici in Frigia sotto Arcadio, il goto Fravitta, magister militum tra il 395 e il 400 sotto Arcadio, Gennerido,30 comandante delle truppe della Dalmazia, della Pannonia, del Norico e della Rezia sotto Onorio, il franco Allobich, comes domesticorum Vd. AMM. 14,10,8. Per il primo vd. AMM. 15,5,6, per il secondo AMM. 14,10,8 e ZOS. 2,48 e 2,50,2-3. 25 Il consolato durante l’impero era scaduto a carica pressoché onorifica, concessa dall’imperatore, e con modesti compiti amministrativi. Su Nevitta vd. ZOS. 3,21,4. 26 Anche se la Gallia da secoli era romanizzata, il nome, di origine non latina, lo dichiara Barbaro. 27 Su cui vd. ZOS. 4,17,1. 28 Su cui vd. ZOS. 4,54,1. Anche Ricomere aveva assunto il prenome Flavio. 29 Gainas, che tentava di porre Arcadio sotto la sua influenza come aveva fatto Stilicone in Occidente con suo fratello Onorio, fu dichiarato hostis publicus e cacciato da Costantinopoli il 12 luglio del 400. Con la sua cacciata la corte d’Oriente si liberò dell’ingombrante presenza dei comandanti barbari e potè svolgere una politica autonoma (vd. ANDREA FREDIANI, Gli ultimi condottieri di Roma, cit., pp. 83-84). 30 Forse di origine unna. 23 24 – 90 – equitum (comandante delle guardie a cavallo) di Onorio, lo svevo Ricimero, magister militum sotto l’imperatore Avito e i suoi successori, che per sedici anni tenne in mano le sorti dell’Occidente, nominando gli ultimi imperatori fantocci,31 Oreste,32 magister utriusque militiae e patricius sotto Giulio Nepote nonché padre dell’ultimo imperatore d’Occidente, Romolo Augustolo. Il caso di Alarico, re dei Visigoti, e di suo fratello Ataulfo è particolare: l’espugnatore di Roma, nel 410, non volle impadronirsi del trono imperiale ma accettò la designazione di un nuovo imperatore, il pagano Attalo, da parte del senato, preferendo ricevere la carica di magister utriusque militiae per sé e quella di comes domesticorum per suo fratello. Di origine germanica fu anche l’usurpatore Flavio Magnenzio che, dopo una brillante carriera nell’esercito, assunse la porpora il 18 gennaio 350.33 L’acculturazione romana dei Barbari si fa più evidente nei regni romano-barbarici, le nuove entità che presero il posto del tramontato impero romano d’Occidente. I sovrani romano-barbarici vollero accreditarsi di fronte ai loro sudditi (che comprendevano non solo le popolazioni d’origine ma anche i provinciali Romani) come i legittimi rappresentanti dell’unico imperatore rimasto, quello bizantino. Nelle forme e nella rappresentazione del potere ricalcarono, perciò, le tradizioni e i costumi imperiali. Odoacre, dopo aver deposto Romolo Augustolo, rimandando le insegne imperiali a Costantinopoli, volle accreditarsi quale governatore della diocesi italica alle dipendenze dell’imperatore d’Oriente Zenone (che gli conferì il titolo di patricius). A sua volta Teoderico, vinto e fatto giustiziare Odoacre, volle governare l’Italia per conto dello stesso Zenone. Va ricordato che Teoderico, pur illetterato e parlante appena il latino,34 dopo 31 Ricimero, magister militum e patricius, per sedici anni governò di fatto per interposta persona, provvedendo, dopo aver deposto Avito, ad insediare sul trono imperiale, Antemio, Maggioriano, Libio Severo, Olibrio: tutte comparse, eccettuato il valente ed energico Maggioriano, che tentò di attuare una politica autonoma rispetto al suo potente comandante dell’esercito, ma da questi fu vinto e ucciso. Sulla vita di Ricimero notizie in Dizionario dei personaggi dell’antica Roma, cit., pp. 246-247; vd. anche ANDREA FREDIANI, Gli ultimi condottieri di Roma, cit., pp. 220-265. 32 Di origine pannonica, aveva fatto parte della corte di Attila re degli Unni. 33 ZOS. 2,43,3-54. 34 Secondo la tendenziosa testimonianza dell’Anonimo Salesiano (ANON. VAL. 24). Invece Ennodio, prodigo di lodi verso il sovrano nel suo panegirico, ne ricorda la formazione culturale a Costantinopoli (Educavit te in gremio civilitatis Graecia praesaga venturi, in ENNOD. CCLXII (Opusc. 1) 3,11, in Monumenta Germaniae Historica, Auctores antiquissimi, vol. VII Ennodi opera recensuit Fridericus Vogel, Berolini 1885, p. 204). – 91 – esser stato proclamato re dai Goti, era stato adottato come figlio d’armi dall’imperatore Zenone e aveva ottenuto l’onore del trionfo e una statua equestre davanti al palazzo regio di Costantinopoli. Poi, vinto Odoacre, rivestì la porpora regale quasi iam Gothorum Romanorumque regnator. L’immagine di Teoderico è raffigurata sul recto di un medaglione aureo, conservato al Museo della Civiltà Romana (Roma), con la legenda Rex Theodericus pius princis (= princeps), mentre il verso ha la Vittoria alata e la legenda Rex Theodericus victor gentium. Un sigillo in pietra, conservato al Kunsthistorisches Museum di Vienna, rappresenta l’effigie di Alarico II re dei Visigoti (484-507), con la legenda Alaricus rex Gothorum, che ricalca quella dei sigilli imperiali. Il re franco Clodoveo, dopo la vittoria sui Visigoti a Vouillé (Campus Vogladensis), nella primavera del 507, ricevette il titolo di console dall’imperatore d’Oriente Anastasio ed entrò nella basilica di San Martino a Tours indossando una tunica di porpora e una clamide,35 con la testa coronata da un diadema, alla maniera dei condottieri romani (GREG.TUR. Franc. 2,38). Innumerevoli testimonianze ci dicono, poi, che tra gli strati più alti delle popolazioni barbariche, affascinati da una civiltà che essi sentivano superiore,36 si diffusero i lussi propri dei Romani ed anche la cultura: le nobili famiglie dei Vandali, ad esempio, fecero impartire ai loro figli un’istruzione classica da retori romani. Fiorì nelle corti dei re barbari una cultura che, anche in forme originali, determinò la sopravvivenza della latinità nel medioevo e, 35 La clamide, ampio mantello sostenuto da una fibbia sulla spalla, aveva origine greca. I Romani la usavano soprattutto nell’esercito e la clamide color porpora era il manto da parata del comandante supremo. Vd. in proposito GRAZIA SETTE, L’abbigliamento, cit., pp. 36-37. 36 Sul processo di acculturazione romana nei regni romano-barbarici vd. PIERRE RICHÉ, Educazione e cultura nell’Occidente barbarico dal sesto all’ottavo secolo, ed. it. a cura di G. Giraldi, Armando, Roma 1966, pp. 51-73; BRUNO LUISELLI, Storia culturale dei rapporti tra mondo romano e mondo germanico, Herder, Roma 1992, pp. 515-819; ID., La formazione della cultura europea occidentale, Herder, Roma 2003 (sull’intersecazione della cultura classica e delle tradizioni culturali celtico-germaniche con il cristianesimo quali radici della cultura europea occidentale). Il caso di Ataulfo, il cognato e successore di Alarico, è emblematico: riferisce Orosio, citando indirettamente una testimonianza di San Girolamo, che Ataulfo aspirò a cancellare la civiltà romana, ma, essendosi poi persuaso che le leggi sono essenziali per mantenere uno stato organizzato, e che i Goti erano incapaci di sottomettersi alle leggi e ad un governo civile, si propose di conservare e accrescere la prosperità dell’impero romano (OROS. Hist. 7,43). Secondo il Luiselli, Storia culturale dei rapporti tra mondo romano e mondo germanico, cit., pp. 557-564, l’episodio sarebbe una diceria nata in ambienti che sostenevano l’opportunità di una collaborazione tra Romani e Visigoti, all’indomani del matrimonio tra Ataulfo e Galla Placidia, sorella di Onorio. – 92 – intersecandosi con il Cristianesimo, costituì il fondamento della cultura europea.37 4. La promulgazione delle leggi romano-barbariche è probabilmente il segno più evidente dell’acculturazione in senso romano delle popolazioni barbariche e, quindi, del riconoscimento della superiore civiltà romana. Emanando le leggi romano-barbariche e adottando gli stessi modelli formali della cancelleria imperiale, i re barbari intesero non solo ottenere il consenso della componente romana dei regnicoli, che ad essi guardava con malcelata diffidenza in quanto ariani, ma anche, allorché pubblicarono leggi vigenti per entrambi i popoli del regno (criterio della territorialità della legge), vollero consapevolmente fondere Romani e Barbari in un’unica comunità, imprimendo un forte impulso al processo di osmosi di civiltà diverse. Il merito principale di queste leggi è, però, l’aver assicurato la sopravvivenza del diritto romano in Occidente, dopo il tramonto dell’impero e prima della grande codificazione giustinianea. Prive di carattere innovativo (i loro compilatori si limitarono ad “assemblare” fonti giuridiche preesistenti del periodo post-classico) esse rivestono peculiare importanza quali fonti di cognizione della legislazione del periodo postclassico, nonché quale documento della condizione giuridica dei sudditi romani nei regni barbarici d’Occidente. Queste leggi sono la L’acculturazione romana dei Barbari è testimoniata da numerosi elementi, tra cui ricordiamo: la coniazione di monete con legenda in latino dei re vandali (su cui LUISELLI, cit., p. 539), la ricerca e l’imitazione dei lussi dei Romani da parte dei re e nobili Vandali (Luiselli, cit., pp. 539-540), la conoscenza del latino da parte dei Visigoti, come mostra Sidonio Apollinare ricordando il discorso tenuto dal giovane Avito, non ancora imperatore, ai notabili di quel popolo (SIDON. carm. 7,460-486, su cui Luiselli, cit., p. 568), la conversione del re visigoto Reccaredo al cattolicesimo nel 587 (Luiselli, cit., p. 584), gli spiccati interessi culturali del re e poeta visigoto Sisebuto (612-621: Luiselli, cit., pp. 585-586), la legislazione del re burgundo Gundobado (Luiselli, cit., p. 606), la conversione del re dei Franchi Clodoveo al cattolicesimo nel 497 o 498 (Luiselli, cit., pp. 617-618), l’educazione culturale impartita ai giovani franchi Ado, Dado e Rado, e al futuro abate Ermenlando (Luiselli, cit., pp. 626-627), etc. Per quanto riguarda l’Italia (di cui non può tacersi la rinascita culturale ed economica avvenuta sotto Teoderico: vd. in proposito BIAGIO SAITTA, La civilitas di Teodorico. Rigore amministrativo, “tolleranza” religiosa e recupero dell’antico nell’Italia ostrogota, L’Erma di Bretschneider, Roma 1993), a meglio sottolineare il contributo che vi recarono i Barbari, significative ci sembrano le parole di GIOVANNI PUGLIESE CARRATELLI (dalla Premessa a AA.VV., Magistra Barbaritas, cit.): «L’irruzione dei Barbari in Italia non è stata solo distruttiva; e accanto all’eredità della cultura classica si deve tener conto di ciò che i ‘Barbari’, stimolati dalla civiltà con cui venivano a contatto e a cui spesso reagivano originalmente, hanno dato come loro proprio contributo alla formazione di un mondo nuovo». 37 – 93 – Lex Romana Visigothorum, l’Edictum Theodorici e la Lex Romana Burgundionum.38 La più importante delle leggi romano-barbariche è la Lex Romana Visigothorum, promulgata nel 506 da Alarico II re dei Visigoti (e perciò chiamata anche Breviarium Alaricianum), per i sudditi romani del suo regno (che inglobava Francia meridionale e Spagna). Ampia compilazione, essa raccoglie in un unico corpus di leges (le costituzioni imperiali) e iura (gli scritti giurisprudenziali) le seguenti opere, tutte d’età precedente (IV e V secolo): il Codice Teodosiano,39 le Novelle post-teodosiane,40 l’Epitome Gai,41 le Pauli sententiae,42 alcune costituzioni tratte dai Codici Gregoriano ed Ermogeniano,43 un unico frammento tratto dai Libri responsorum di Emilio Papiniano, il grande giurista dell’età Severiana. Tutti i testi, tranne l’Epitome Gai, furono seguiti da un commentario esegetico, tradizionalmente indicato come Interpretatio Visigothica. Si trattò di un lavoro di redazione complesso ed eseguito con notevole celerità, ad opera di una commissione di prudentes, esperti di diritto (che non dovevano mancare alla corte 38 Sulle leggi romano-barbariche in generale: GUIDO ASTUTI, Lezioni di storia del diritto italiano, Le fonti, Età romano-barbarica, CEDAM, Padova 1953, pp. 29-48; FRANCESCO CALASSO, Medio Evo del diritto, vol. I Le fonti, Giuffré, Milano 1954, pp. 72-77; ANTONIO GUARINO, L’esegesi delle fonti del diritto romano, vol. I, Jovene, Napoli 1982, pp. 472-480; Lineamenti di storia del diritto romano, a cura di MARIO TALAMANCA, Milano 1989², pp. 623-626; MARIO BRETONE, Storia del diritto romano, Laterza, Roma-Bari 20018, pp. 376-380. Tra le leggi romano-barbariche non abbiamo considerato il Codice Euriciano (Codex Eurici), in quanto di minore importanza rispetto agli altri tre testi. Pubblicata intorno al 475 dal re visigoto Eurico, la compilazione, contenente principi e norme ricavate in modo grossolano dalle leggi imperiali e dagli scritti dei giuristi, è stata giudicata dagli studiosi “assai rudimentale nella forma e nella sostanza” (così ANTONIO GUARINO, L’esegesi delle fonti del diritto romano, cit., p. 474). 39 Il Codice Teodosiano è la prima raccolta ufficiale di costituzioni imperiali. Fu pubblicata dall’imperatore d’Oriente Teodosio II nel 438. Diviso in sedici libri, il Breviario Alariciano lo contiene in forma decurtata (delle 3400 costituzioni del Teodosiano sono state trasfuse nel Breviario solo 398). 40 Si tratta delle costituzioni che emanarono gli imperatori Teodosio II e i suoi successori in Oriente e Occidente: Valentiniano III, Marciano, Maggioriano, Libio Severo. 41 È un compendio in due libri delle famose Institutiones di Gaio, il maestro di diritto vissuto nell’età degli Antonini. 42 Una raccolta in cinque libri di massime apocrife attribuite tradizionalmente al giurista Giulio Paolo (III sec. d.C.). 43 I Codici Gregoriano ed Ermogeniano sono le prime raccolte private di costituzioni imperiali, datate alla fine del III secolo d.C. Non ci sono pervenuti in via integrale, ma parte delle loro costituzioni furono trasfuse nelle leggi romano-barbariche e nelle tarde compilazioni di iura et leges. – 94 – del re), chierici e laici, presieduta dal goto Goiarico: la migliore intelligencija romana e barbarica del regno. L’Edictum Theodorici, pubblicato, secondo la tradizione, da Teoderico re degli Ostrogoti e signore d’Italia (489-526),44 è composto da 154 articoli, desunti da testi di leges e di iura. La codificazione del sovrano ostrogoto, risalente ai primi anni del VI secolo, prende il nome di edictum (così si chiamava la legge generale pubblicata dai governatori delle province, vigente l’impero) invece che lex (l’emanazione della quale era esclusivo diritto dell’imperatore), in quanto egli si considerava amministratore d’Italia per conto dell’imperatore d’Oriente. Fonti dell’Editto di Teoderico sono le costituzioni dei Codici Gregoriano, Ermogeniano, Teodosiano, le Novelle post-teodosiane, le Pauli sententiae, i libri De officio proconsulis di Ulpiano, le Istituzioni di Gaio. L’Editto era indirizzato sia ai Romani che ai Goti, segno che Teoderico si proponeva di fondere le due popolazioni sottoponendole al medesimo regime giuridico. La Lex Romana Burgundionum si deve al re burgundo Gundobado (474-516), che la promulgò all’inizio del VI secolo per i soli sudditi romani del regno (comprendente l’Alta Savoia), ad integrazione di una precedente Lex Burgundionum (o Lex Gundobada), pubblicata dal medesimo re. Per redigere il testo i giuristi della corte burgunda, anch’essi esperti di diritto romano, utilizzarono le medesime fonti dell’Editto di Teoderico. 5. Se le leggi romano-barbariche possono essere considerate un esempio di quella collaborazione tra la componente dei Romani filogermanica e quella, ad essa speculare, dei Barbari filoromani (e che dette frutti notevoli soprattutto in Italia durante il regno di Teoderico), non dovette mancare, però, un certo disagio nei rapporti tra le due comunità. Era certamente non semplice promuovere un’accettabile coesistenza tra i singoli: vi ostava anzitutto il pregiudizio “razziale” che allignava nel modo di percepirsi gli uni e gli altri, e poi quello religioso. È bene evitare fuorvianti generalizzazioni, tuttavia l’impressione che i Romani dovevano ricevere dai Barbari, giudicati, il più delle volte, selvaggi e chiassosi, non doveva essere positiva. Né d’altra parte i Barbari potevano stimare quel popolo imbelle e corrotto che non sapeva scendere in campo per Sulla paternità teodericiana dell’Editto si sono avanzati forti dubbi: un’autorevole tesi (sostenuta da GIOVANNI VISMARA, Edictum Theodorici, Giuffré, Milano 1967, p. 190) attribuisce la legge non al re d’Italia, Teoderico l’Amalo, ma a Teoderico II re dei Visigoti (426-466), il padre di Eurico. 44 – 95 – difendere il suo impero, ma chiamava di volta in volta Visigoti, Alani, Burgundi e perfino gli Unni, concedendo ai loro capi titoli, ricchezze e terre. Il penoso disagio di trovarsi a vivere tra i Barbari, di dover tollerare il loro chiassoso comportamento e le loro rozze costumanze, che dovevano riuscire repellenti soprattutto ai più colti e raffinati Romani, si può cogliere, al di là dell’accento scherzoso, in questi versi composti da Sidonio Apollinare (430479 circa), vescovo della Gallia (Clermont-Ferrand) e letterato, indirizzati al suo amico il senatore Catullino (SIDON. Carm. 12,1-11, testo in SIDONIUS, Poems and letters, with an english translation, introduction and notes by W.B. Handerson, vol. I, Loeb Classical Library, London 1980, repr., p. 212):45 Quid me, etsi valeam, parare Carmen / Fescenninicolae iubes Diones / inter crinigeras situm catervas / et Germanica verba sustinentem, / laudantem tetrico subinde vultu / quod Burgundio cantat esculentus, / infundens acido comam butyro? / Vis dicam tibi, quid poema frangat? / Ex hoc barbaricis abacta plectris / spernit senipedem stilum Thalia, / ex quo septipedes videt patronos. («Ammesso che ne sia capace, perché mi inviti a produrre un carme dedicato a Venere amante dei versi fescennini, mentre mi trovo in mezzo a orde di barbari chiomati, dovendo sopportare la lingua germanica e spesso lodare con volto accigliato i canti dei Burgundi ghiottoni, che si ungono la chioma di burro rancido? Vuoi che ti dica che cosa distrugge la poesia? La Musa è stata cacciata via dai canti barbarici e sdegna di comporre versi a sei piedi, da quando vede padroni alti sette piedi.46») Al senatore Catullino, che gli ha chiesto l’invio di un carme fescennino ovvero un epitalamio, Sidonio Apollinare dà questa risposta in versi, in cui mostra il suo fastidioso disagio per la presenza, prepotente e imponente, dei chiassosi e primitivi Burgundi. La risposta però tradisce non tanto la rassegnata constatazione della decadenza della romanità, oppressa da una barbarie che suscita un malcelato disgusto (trasparente nel cenno all’uso del burro rancido come una sorta di “gel” ante litteram),47 quanto le preoc- Si tratta di endecasillabi falecei. Ossia alti m. 2,07, equivalendo il piede romano a m. 0,296. Dovevano certamente apparire imponenti ai Romani, la cui altezza media era di circa m. 1,60. 47 I Germani usavano il burro come unguento medicinale per uomini e cavalli, le donne come lozione per la crescita dei capelli (vd. S. FISCHER-FABIAN, I germani, trad. di A. Ciancianaini, Garzanti, Milano 1985, p. 204). 45 46 – 96 – cupazioni di un uomo di Chiesa che deve difendere la sua comunità dalle prepotenti pretese di Barbari ariani. Un analogo disagio mostra l’anonimo autore di due versi della coeva Anthologia Latina, che proprio con il carme di Sidonio Apollinare sono stati posti in relazione, per l’affinità di contenuto.48 Ne riferiamo il testo (ANTH. 285,1-2 in A. RIESE, Anthologia Latina, vol. I 1, Lipsiae 1894²): Inter eils Gothicum scapia matzia ia drincan / Non audet quisquam dignos edicere versus. («In mezzo al gotico salute, dispensiere, mangiare e bere nessuno osa produrre versi degni»). Anche in questo distico traspare la medesima rassegnazione di fronte alla chiassosa invadenza del vincitore, rappresentato nei suoi aspetti rozzi e primitivi con l’allusione al mangiare e bere, così come Sidonio dipingeva il Burgundo esculentus, e con i suoni ormai familiari ma duri e gutturali, quasi belluini, delle parole gotiche, quali dovevano sembrare a chi era abituato al melodioso ritmo del latino. Sembra dirci, con una sommessa protesta, l’autore di questi versi, il quale certamente doveva essere un uomo colto, che tra le urla dei Goti che gozzovigliano (e comandano) è impossibile trovare la concentrazione e l’ispirazione necessarie per fare poesia.49 Tra gli epigrammi di Ennodio (474-521), vescovo di Pavia, poeta e prosatore vissuto al tempo di Teoderico, ve ne sono tre indirizzati a un suo conoscente, un certo Gioviniano, il quale andava in giro portando la barba In proposito vd. BRUNO LUISELLI, Storia culturale dei rapporti tra mondo romano e mondo germanico, cit., pp. 579-580 n. 206. 49 I versi dell’Anthologia Latina (versi che “molto commuovono” perché segnano la fine di una civiltà: così GIULIANO BONFANTE, Latini e Germani in Italia, Pàtron, Bologna 1977, pp. 17-18 n. 9) contengono termini gotici trascritti quali li doveva sentire un Romano: eils, «salute» (cfr. ted. heil), scapia «dispensiere» (LUISELLI, cit., p. 579 n. 206; ma potrebbe intendersi scapia(n) come «fare», cfr. ted. schaffen, schöpfen, ingl. shape: così Bonfante, cit., p. 17 n. 9), matzia(n) < got. matjan, «mangiare», ia < got. jah, «e», drincan < got. drigkan, «bere», cfr. ted. trinken, ingl. drink. Il Bonfante (che vede fenomeni di “italianismi” nel passaggio tj > tz e nella caduta di -h e -n finali) non esclude che il testo, databile non oltre il 450, possa provenire dall’Africa vandalica, il Luiselli lo attribuisce invece all’area ostrogotica o visigotica, perché il termine Gothicum non sarebbe inquadrabile in quell’area. Sugli elementi germanici entrati nel lessico italiano vd. BRUNO MIGLIORINI, Storia della lingua italiana, Sansoni, Firenze 19714, pp. 72-81; MAX PFISTER, I prestiti linguistici di origine germanica fra Tardo Antico e Alto Medioevo, in La cultura in Italia fra Tardo Antico e Alto Medioevo, Atti del convegno C.N.R., Roma 12-16 novembre 1979, vol. I, Herder, Roma 1981, pp. 261-283. 48 – 97 – all’uso gotico e indossando la lacerna, un mantello con cappuccio assai diffuso tra i Romani. Citiamo i versi (ENNOD. CLXXXII (Carm. 2,57), CLXXXIIa (2,58), CLXXXIIb (2,59),50 ed. Vogel in Monumenta Germaniae Historica, Auctores antiquissimi, vol. VII Magni Felicis Ennodi opera recensuit Fridericus Vogel, Berolini 1885, p. 157): Barbaricam faciem Romanos sumere cultus / Miror et inmodico distinctas corpore gentes. («Mi stupisco che un volto di barbaro e genti che si distinguono per l’enorme corporatura adottino l’eleganza dei Romani») Romuleam tegetem nox oris nubila fuscat, / Oppressit vestes tenebroso tegmine vultus. («La tenebrosa oscurità del volto disonora il mantello romano, il volto coperto dalla tenebra ha rovinato l’abito») Nobilibus tollis genium, male compte, lacernis, / Discordes miscens inimico foedere proles. («Togli l’eleganza alle nobili lacerne, o mal agghindato, mischiando con una stridente unione stirpi discordi») L’occasione che ha spinto il poeta a comporre questi epigrammi è il caso opposto a quello della costituzione C.Th.14,10,2: qui si tratta di un Barbaro, probabilmente un Goto, che va in giro con la barba lunga e indossando la lacerna, detta Romuleam tegetem (a significare che il mantello, pur di lontana origine gallica, era divenuto un capo di vestiario tipicamente romano),51 e il poeta non perde l’occasione, trascinato dalla sua facile vena, per schernire quello che a lui appare l’inconsueto mélange di stile romano-barbarico. Il poeta, secondo il suo gusto preziosistico, coglie il contrasto tra la barba e la veste indossata, in questo caso la lacerna.52 La barba, incolta e foltissima come quella dei Goti, deturpa l’eleganza della lacerna, che peraltro era un 50 Il titolo, che la tradizione manoscritta ha riservato ai tre epigrammi, è Versus de Ioviniano qui cum haberet barbam Gothicam lacerna vestitus processit ex tempore factos. 51 Sulla lacerna vd. GRAZIA SETTE, L’abbigliamento, cit., p. 38. 52 Contrasto cromatico che comunque, al di là dell’ostentata ricerca stilistica dell’ossimoro da parte del poeta, doveva risultare evidente nell’accostamento tra la barba scura e il mantello, dato che la lacerna più comunemente usata era di stoffa bianca. Vd. GRAZIA SETTE, L’abbigliamento, cit., ibid. – 98 – modesto capo di abbigliamento, ma che Ennodio esalta, chiamando le lacernae nobiles, in quanto abito dei Romani, e dunque simbolo della Romanità. Anche in questi versi composti per schernire l’abbigliamento di questo personaggio, Gioviniano,53 appare l’immagine dei Barbari secondo la visione ormai consueta e tradizionale: la rozzezza (che nei Barbari più pretenziosi diventa cattivo gusto e goffaggine, anche quando si vestono come i Romani, come rimarca il poeta nel secondo epigramma), la folta barba e capigliatura e l’enorme corporatura,54 come nel carme di Sidonio, sono i tratti distintivi di questi stranieri che invano cercano di confondersi, di mimetizzarsi tra i 53 Anche se il nome dichiara l’origine romana, non si può escludere affatto che si tratti di un Barbaro, sia pur romanizzato, e tale appare per la barba lunga e l’alta statura. D’altra parte, se il personaggio fosse un Romano che portava la barba all’uso gotico, ossia foltissima e non curata, risalterebbe ancor più il suo singolare anticonformismo (data la cura che i Romani avevano nel radersi), che se fosse, come ci sembra più probabile, un Goto indossante la lacerna. È vero che i Germani adulti portavano solitamente una barbetta a punta (S. FISCHER-FABIAN, I germani, cit., p. 166), ma quella di Gioviniano, che Ennodio chiama Gothica, doveva essere necessariamente assai scura, folta e ben appariscente, altrimenti il poeta non avrebbe avuto ragione di rappresentarla con le metafore iperboliche della nox oris nubila (il volto nero come la notte) e del tenebrosum tegmen (la copertura di tenebra), allusive ad uno spiccato cromatismo bianco-nero, né costruire l’antitesi con la lacerna (che doveva essere di candida stoffa, secondo il modello più in uso). Sull’uso della barba a Roma, che era riservato ai filosofi e ai soldati, e sulla moda che ne vide la diffusione nel II secolo d.C., sull’esempio delle barbe ricciolute degli Antonini, vd. PAOLA VIRGILI, Acconciature e maquillage (Vita e costumi dei Romani antichi, n. 7), Edizioni Quasar, Roma 1989, pp. 63-72; vd. anche la voce barba in KARL-WILHELM WEEBER, Vita quotidiana nell’antica Roma, cit., pp. 71-73. 54 L’uso dei capelli lunghi fino alle spalle era nei Germani generalizzato, quale segno di libertà e virilità (vd. S. FISCHER-FABIAN, I germani, cit., p. 165). Le notizie che gli scrittori antichi ci hanno lasciato sui Germani depongono tutte a favore di una statura notevolissima: Tacito menziona i magna corpora dei Germani in Germ. 4, Velleio Patercolo ricorda la iuventus corporibus immensa dei Cauci (VELL. 106,1) e il gigantesco Maroboduo, corpore praevalens, principe dei Marcomanni al tempo di Tiberio (VELL. 108,2), Ammiano Marcellino descrive il colossale re degli Alamanni Corodomario, immanis equo spumante sublimior, alla battaglia di Argentorato del 357 (AMM. 16,12,24), e menziona gli Alani alti e biondi (AMM. 31,2,21), la Historia Augusta ricorda il gigantesco imperatore Massimino il Trace (a dispetto del nome, figlio di un Goto e di un’Alana, HIST. Aug. 19,1,5), la cui altezza arrivava a otto piedi, circa m. 2,40 (HIST. Aug. 19,6,8), Jordanes cita le gentes della Scanzia (Scandinavia), da cui provenivano i Goti, come Romanis corpore, et animo grandiores (JORD. Get. 3). Di Odoacre Eugippio dice che dovette chinarsi per non battere la testa nel soffitto della cella del monaco Severino (EUGIPP. Vita S. Severini 7). Ennodio (che peraltro cita l’immodicum corpus dei Barbari nell’epigramma per Gioviniano, riportato nel testo) elogiando Teoderico nel suo panegirico, ne ricorda l’alta statura quae resignet prolixitate regnantem, ENNOD. CCLXIII (Opusc. 1) 21,90 ed. Vogel in Monumenta Germaniae Historica, vol. VII Auctores antiquissimi, cit., p. 214. Secondo S. FISCHERFABIAN, I germani, cit., p. 160, la statura media dei Germani era di m. 1,72, comunque ragguardevole rispetto a quella dei Romani che era all’incirca di m. 1,60. – 99 – Romani. Vi aggiungiamo anche il gusto per la gozzoviglia, rimarcato dal termine esculentus, che Sidonio riserva ai Burgundi ghiottoni (e allusivamente contenuto anche nella citazione delle parole gotiche matzia ia drincan dell’epigramma dell’Anthologia Latina), nonché la mancanza di gusto musicale (allusiva, più in generale, della mancanza di gusto per lo studio e la cultura), dato che le cetre dei Burgundi hanno cacciato via la Musa, come si legge in Sidonio. Rozzi e goffi, ignoranti,55 giganteschi, crapuloni: questi erano i nuovi padroni per i Romani, che dovevano guardarli con aria di malcelata superiorità mista a timoroso ossequio. Romani e Barbari restarono, dunque, almeno fino alla riconquista dell’Italia da parte dell’armata di Giustiniano, discordes gentes, come scrive Ennodio, che pure fu testimone della generosa politica di integrazione perseguita dal barbaro e ariano Teodorico, esaltato con iperbolici encomi nel panegirico da lui composto. Ma, ciononostante, come fu dimostrato dal sostanziale fallimento di quel progetto (che terminò nella tragica condanna di Simmaco, Albino, Boezio e nell’allontanamento, poco dopo, di Cassiodoro) Romani e Barbari restavano popoli destinati a non integrarsi, se non attraverso un lento processo di assimilazione che durò secoli. 6. A distanza di secoli, all’inizio del terzo millennio l’incontro tra civiltà diverse si ripresenta in forma di polemica, anche aspra, sorta dall’occasione quotidiana. Il confronto, che peraltro ha radici storiche risalenti,56 è Tuttavia il goto Jordanes, scrivendo la storia della sua gente e rivendicandone la dignità nazionale, esalta gli antichi saggi barbari, degni di figurare accanto ai filosofi greci, come Zeuta, Zalmoxes e Dicineo, quest’ultimo il primo legislatore dei Goti (JORD. Get. 5 e 11). 56 In termini, purtroppo, di un plurisecolare affrontamento militare. Sulla storia degli scontri bellici tra Occidente e Islam vd. PETER PARTNER, Il Dio degli eserciti. Islam e Cristianesimo, trad. di V. Prosperi, Einaudi, Torino 1997. Le tragiche vicende dei cristiani testimoni col sangue della loro fede in partibus infidelium sono narrate da CAMILLE EID, A morte in nome di Allah, Edizioni Piemme, Casale Monferrato 2004. Dopo il tragico 11 settembre 2001 il confronto tra Islam e Occidente ha preso la forma di una guerra globale che le organizzazioni terroristiche dei fondamentalisti islamici (la più famosa delle quali è Al Qaida) hanno dichiarato al mondo occidentale. Sul fondamentalismo e il terrorismo islamico la letteratura è oggi divenuta sterminata. Ricordiamo qualche titolo, per una prima informazione: ELENA DONI, I guerrieri di Dio, Rizzoli, Milano 1995; ANTONIO ELORZA, La religione politica, i fondamentalismi, trad. di p. Marangoni, Editori Riuniti, Roma 1996; La guerra del terrore, suppl. a «Limes», n. 4, 2001 (con articoli di Mini, Fubini, Jean, etc.); CHRISTOPH REUTER, La mia vita è un’arma. Storia e psicologia del terrorismo suicida, trad. di U. Gandini, Longanesi, Milano 2002; Progetto Jiha-d, «Limes», n. 1, 2004 (con articoli di Hamam, Trombetta, etc.); ENZO PACE, Perché le religioni scendono in guerra?, Laterza, Roma-Bari 2004; MASSIMO INTROVIGNE, Fondamentalismi, i diversi volti dell’intransigenza religiosa, Edizioni Piemme, Casale Monferrato 2004. 55 – 100 – oggi tra la società occidentale e le folte comunità islamiche create dall’immigrazione in questi ultimi anni. Le cronache più recenti, infatti, hanno portato agli occhi dell’opinione pubblica una questione, che tante discussioni e prese di posizione ha suscitato, legata all’uso di un indumento, il velo islamico.57 Una questione che presto ha comportato una più generale riflessione sulla laicità dello stato e sulla liceità dell’esposizione/ostensione nei luoghi pubblici dei segni religiosi,58 ma che ha anche contribuito a disorientare ancor più la nostra società che, mentre assiste alla graduale scomparsa del sacro e discute sulla liceità della presenza dei simboli religiosi propri, vede affermarsi sempre più, e con costante e ininterrotta diffusione, quelli altrui. Alcune studentesse islamiche nelle scuole francesi hanno dovuto subire gravi provvedimenti disciplinari perché in classe portavano il velo, secondo i dettami della loro religione (come le due sorelle Lila e Halma Lévy,59 espulse dal liceo di Aubervilliers, presso Parigi, come la dodicenne Hilal, espulsa dal suo istituto nella cittadina alsaziana di Thann, sia per il rifiuto di togliersi il velo sia perché accusata di “proselitismo aggravato”).60 Il fatto ha suscitato accese polemiche, a seguito delle quali è stata creata dal presidente Jacques Chirac nel luglio 2003 una Commissione, presieduta dall’ex ministro democristiano Bernard Stasi e composta 57 Il velo islamico presenta varietà distinte per tradizioni e territorio. Tra i tipi più diffusi ricordiamo: il burqa, imposto dai talebani alle donne afghane, è una copertura totale che lascia solo uno schermo davanti agli occhi; il chador, utilizzato dalle donne in Iran, lascia scoperto il volto; lo hijab, preferito dalle generazioni più giovani, serve a coprire il capo, il volto e le spalle; il nikab copre il naso, le guance e la fronte. 58 Da chiarire che con esposizione intendiamo l’esibizione di immagini e simboli visibili da tutti, come ad esempio l’affissione alle pareti del Crocifisso, con ostensione il porto personale di immagini e simboli devozionali. Le due fattispecie sono state trattate diversamente dalla normativa adottata, per esempio, in Francia. 59 Provenienti da una famiglia laica e di sinistra, figlie di un avvocato di origine ebraica, le due sorelle Lila e Alma Lévy, di 18 e 16 anni, convertitesi alla religione musulmana, sono state espulse il 10 ottobre 2003 dal liceo di Aubervilliers, presso Parigi, perché continuavano a presentarsi in classe indossando il velo, «un abbigliamento proselitistico e dunque contrario allo spirito di laicità che va difeso nella scuola pubblica» (dalle motivazioni del provvedimento). Sul caso, che ha fatto sorgere ampie discussioni, vd. MASSIMO NAVA, Velo: due ragazze scuotono Parigi, in «Corriere della Sera», 14 ottobre 2003; vd. anche i commenti di ROSSANA CAMPO, Lila e Alma ribelli col velo, in «Il Secolo XIX», 22 novembre 2003, e di JACOPO SCARAMUZZI, La Francia inciampa nel velo, in «Confronti», febbraio 2004, testo disponibile su internet all’indirizzo http: //www. confronti. net/archivio/feb04_03. htm 60 Vd. su questo caso GIAMPIERO MARTINOTTI, Francia, cacciata da scuola perché porta il velo in classe, in «La Repubblica», 28 novembre 2003. – 101 – da venti “saggi”, incaricata di studiare il problema ai fini di una proposta legislativa che, regolando il fenomeno, definisse il principio di laicità dello stato. L’indicazione della Commissione Stasi, quale è emersa nel documento da essa elaborato Laïcite et Republique,61 è stata quella di vietare nelle scuole pubbliche tutti i simboli religiosi che manifestino in modo evidente e propagandistico (segni ostensibles) l’appartenenza a una religione, e di permettere invece i piccoli segni (medagliette, manine di Fatima, piccoli Crocifissi e stelle di Davide) di fede privata.62 La preoccupazione che ha mosso la Commissione a dare questa indicazione, assieme ad 61 Lungi dal limitarsi alla problematica dei segni religiosi nelle scuole pubbliche, il testo elaborato dalla Commissione Stasi, per l’ampiezza delle questioni affrontate, è «uno dei più interessanti documenti apparsi in Europa, in questi ultimi anni, sullo Stato moderno» (così Sergio Romano). Il testo è disponibile in italiano: COMMISSIONE STASI, Rapporto sulla laicità. Velo islamico e simboli religiosi nella società europea, trad. di L. Cisbani e della redazione Libri Scheiwiller, Libri Scheiwiller, Milano 2004 (con prefazione di Sergio Romano, da cui sono tratte le parole supra citate). 62 Dal testo della COMMISSIONE STASI, Rapporto sulla laicità, cit. : «L’abbigliamento e i segni religiosi vietati sono quelli ostentatori, vale a dire le grandi croci, il velo islamico e la kippà. Non vengono ritenuti segni che rendono manifesta un’appartenenza religiosa segni discreti quali medaglie, piccole croci, stelle di David, mani di Fatima o piccoli Corani» (pp. 75-76). «L’obiettivo è di garantire ad ognuno la propria libertà nel rispetto della regola comune, l’eguaglianza delle possibilità qualsiasi siano origini, convinzioni religiose e sesso»: così il prof. Bernard Stasi nell’articolo di MASSIMO NAVA, «Vietato ostentare i simboli religiosi», in «Corriere della Sera», 12 dicembre 2003, p. 9. Lo storico cattolico René Rémond, Accademico di Francia e membro dell’équipe della Stasi, ha difeso le proposte della Commissione come capaci di favorire il dialogo tra le religioni, negando che la laicità francese sia contro il fattore religioso (è, invece, una «laicità non ‘dogmatica’ che spalanca la porta al dialogo», così il Rémond nell’intervista di ULDERICO MUNZI, «Il nostro lavoro ha aperto molte strade per il dialogo», in «Corriere della Sera», 13 dicembre 2003). Analoghe affermazioni da parte del sociologo Alain Touraine, anch’egli membro della commissione, per il quale la legge può favorire il dialogo tra le religioni, evitando il pericolo del “comunitarismo”, ossia la costituzione di gruppi chiusi in seno alla società, con regole e tradizioni proprie (vd. l’intervista al Touraine di DARIO FERTILIO, «Laici alla francese, senza veli o kippà», in «Corriere della Sera», 20 maggio 2004). Le indicazioni della Commissione Stasi hanno comunque provocato una forte lacerazione nella società francese, sollevando un vespaio di critiche e dubbi, alimentate anche dall’iniziativa di alcuni deputati di centrodestra per vietare nelle scuole anche l’ostentazione dei simboli politici (vd. MASSIMO NAVA, Francia, dopo velo e kippah al bando anche Che Guevara, in «Corriere della Sera», 8 gennaio 2004). Né la legge appare al momento, anche se è prematuro stilare giudizi, capace di risolvere, essa sola, la gravissima situazione di abbandono e degrado sociale in cui versano le periferie delle grandi città francesi, ridotte a ghetti d’immigrati contrassegnati da diverse regole di vita, propri linguaggi e tradizioni, economia sommersa, dominio delle bande giovanili e propria identità, di gruppo, etnica e religiosa (il trionfo del repli communautaire, tanto avversato dalla cultura francese della laicità e dell’integrazione: vd. l’analisi dei nuovi ghetti in MASSIMO NAVA, Razzismo e integralismo: bandiere di periferie perdute, in «Corriere della Sera», 12 luglio 2004. – 102 – altre intese soprattutto a preservare i servizi pubblici e in specie la scuola,63 è stata quella di tutelare il patto sociale quale legame primario tra i cittadini, le cui fondamenta appaiono gravemente compromesse dal ripiegamento comunitario, soprattutto nei quartieri periferici, «per la minaccia che pesa sulle libertà individuali e per lo sviluppo delle discriminazioni fondate sul sesso o sulle origini».64 Accogliendo pienamente le indicazioni etiche della Commissione Stasi, il presidente Chirac65 ha dato l’avallo alla nuova legge sulla laicità, approvata il 10 febbraio 2004 dall’Assemblea Nazionale, con un voto bipartisan dei deputati,66 e il 3 marzo successivo dal Senato. Il testo recita all’art. 1, che inserisce nel codice dell’educazione l’art. L.141-5-1: Dans les écoles, les collèges et les lycées publics, le port de signes ou tenues par lesquels les élèves manifestent ostensiblement une appartenance religieuse est interdit. Le règlement intérieur rappelle que la mise en oeuvre d’une procédure disciplinaire est précédée d’un dialogue avec l’élève («Nelle scuole elementari, nelle scuole medie e nei licei pubblici lo sfoggio di segni o abiti con i quali gli alunni manifestano ostensibilmente un’appartenenza religiosa è proibito. Il regolamento interno ricorda che l’inizio di una procedura disciplinare è preceduto da un dialogo con l’alunno»).67 Statuendo rigidamente la proibizione, nelle scuole francesi, di portare addosso segni o abiti dichiaranti una evidente appartenenza religiosa, la legge prevede altresì una procedura disciplinare a carico del trasgressore, da avviare però soltanto dopo che una richiesta di “ravvedimento”, ossia la dismissione del segno o dell’abito religioso, non abbia sortito effetto alcuno. Ha così commentato il sociologo Alain Touraine: «Questa legge dice che la Francia resta una terra d’accoglienza e dialogo, ma non vuole essere travolta dai fanatismi e da derive confessionali (...). Oggi si può dire che la 63 Risulta impressionante il triste catalogo delle tensioni e delle manifestazioni di razzismo e xenofobia che avvengono negli istituti scolastici, luoghi che dovrebbero essere deputati alla serena trasmissione del sapere, e che ha mosso i “saggi” francesi ad elaborare il loro rapporto (vd. COMMISSIONE STASI, Rapporto sulla laicità, cit., pp. 55-56 e 62-63). 64 Così nel testo della COMMISSIONE STASI, Rapporto sulla laicità, cit., p. 59. 65 Sua l’affermazione programmatica «La laicità non è negoziabile»: vd. l’articolo di MASSIMO NAVA, «A scuola non si ostentano i simboli religiosi», in «Corriere della Sera», 18 dicembre 2003, p. 12. 66 494 sì su 561 presenti: sul voto dettagli in MASSIMO NAVA, Il Parlamento francese vieta il velo, in «Corriere della Sera», 11 febbraio 2004. 67 Testo e traduzione in COMMISSIONE STASI, Rapporto sulla laicità, cit., p. 88. – 103 – Francia è più cosciente e più matura sulla strada della convivenza».68 Anche lo scrittore nigeriano Wole Soyinka, premio Nobel 1986, denunciando la crescita dell’intolleranza nella società moderna («il genio è uscito dalla bottiglia e la bestia dell’intolleranza, del sospetto e della divisione corre per le strade») si è espresso contro l’ostentazione dei simboli di fede nelle scuole, per l’esigenza di non creare motivi di diversità tra le giovani generazioni di studenti.69 Il provvedimento di Chirac rischia, invece, di approfondire la divisione identitaria tra i giovani, con il conseguente ripiegamento verso le più tolleranti scuole confessionali, secondo Francesco Margiotta Broglio.70 Critica la legge sul velo anche il filosofo Massimo Cacciari, in nome del rispetto che ogni abitudine o regola culturale richiede, contro ogni pretesa di credersi portatori di valori civili superiori.71 La nuova legge francese, com’era prevedibile, ha suscitato infine la protesta del papa, che ha ammonito i governanti d’oltralpe a non confondere la laicità, che sempre tutela la libertà del credente, con il laicismo.72 Non tollerando il principio eccezione alcuna, è così caduto sotto i rigori della legge sulla laicità anche un religioso cattolico, cappellano presso un liceo di Tolone, invitato a non presentarsi in tonaca durante l’orario di servizio.73 7. Le numerose interviste rilasciate a quotidiani e riviste mostrano viepiù l’attaccamento delle donne islamiche, che risiedono stabilmente in 68 Vd. l’art. «È la sola soluzione per vivere insieme con le nostre differenze», in «Corriere della Sera», 11 febbraio 2004, p. 14. 69 WOLE SOYINKA, A scuola in divisa, ma non religiosa, in «Corriere della Sera», 16 gennaio 2004, p. 35. 70 Cari francesi, ecco i difetti di quella legge sul velo, in «Corriere della Sera», 7 febbraio 2004, p. 13. 71 «La cosa fondamentale è smettere di pensare alle culture diverse dalla nostra come a delle minoranze. Questa è una visione da cretinismo leghista. A livello planetario quelle che chiamiamo minoranze non lo sono affatto»: dichiarazione di Massimo Cacciari in MARINA TERRAGNI, Chi ha paura del velo, in «Io Donna», suppl. «Corriere della Sera», n. 43, 2003, p. 70. 72 Vd. BRUNO BARTOLONI, Il Pontefice critica la Francia: i simboli religiosi non minacciano lo Stato, in «Corriere della Sera», 28 febbraio 2004 (“È contrario alla vera libertà cercare di cancellare una dimensione importante nella vita della gente”). 73 Vd. sul fatto MASSIMO NAVA, Dopo il velo la Francia vieta la tonaca per i preti a scuola, in «Corriere della Sera», 8 ottobre 2004. Sarebbe stato cacciato dalla sede scolastica il sacerdote, secondo la versione di ALBERTO TOSCANO, Prete cacciato dal liceo perché indossa la tonaca, in «Il Giornale», 8 ottobre 2004 (che stigmatizza la “crociata laica” della Francia). – 104 – Occidente, al velo, quale simbolo di riconoscimento nella comune appartenenza all’Islam.74 Possiamo citare, fra un ampissimo materiale, le interviste a Fatima Mouayche, educatrice di prima infanzia, che non ha potuto svolgere il tirocinio all’asilo di Samone (Ivrea), perché la donna, di origine marocchina, indossava il velo.75 Fatima, che considera il velo non un simbolo, quanto piuttosto un dovere, nega che esso sia un’imposizione, essendo l’islam «una religione di grande libertà».76 Inchieste giornalistiche mettono in luce la fierezza delle donne musulmane nel portare il chador.77 La 24enne Romina Fauser, nata a Parigi da padre polacco e madre italiana, convertita all’Islam, è impegnata a sostenere le rivendicazioni delle ragazze musulmane e rifiuta l’idea che indossare il velo sia frutto di un’imposizione («Per noi è una questione di pudore. Quale uomo andrebbe in giro senza indossare i pantaloni?»).78 La rivendicazione e l’ostentazione del velo non di rado si legano allo sfoggio di orgoglio culturale e morale sull’Occidente corrotto, come si legge nella testimonianza di Ferdinando Camon.79 L’attaccamento al velo, secondo il filosofo René Girard, è un tentativo di difesa dall’Occidente che arrogantemente impone le sue norme etiche, il consumismo, l’inquinamento, la pornocrazia a universi che le subiscono dall’esterno, e che contrattaccano in forme violente, come il terrorismo.80 Profondo stupore suscita, poi, quello che appare un vero e proprio scontro generazionale: l’assunzione del velo da parte di ragazze islamiche, che appartengono a famiglie ormai emancipate e integrate nella società francese. La scelta delle giovani figlie di tornare alla tradizione, scegliendo il velo, 74 Vd. LUCE IRIGARAY, Velo. La sfida nascosta dietro le religioni, in «La Repubblica», 24 gennaio 2004. 75 Vd. l’intervista a Fatima Mouayche di FRANCESCO ALBERTI, «Il mio velo? Come quello delle vostre nonne», in «Corriere della Sera», 25 marzo 2004. 76 Così nell’intervista di NICCOLÒ ZANCAN, “Ringrazio Pisanu per l’aiuto, ora andrò in aula col velo”, in «La Repubblica », 25 marzo 2004. 77 Vd., ad esempio, PAOLO RUMIZ, Vivere in Italia con il chador. “Quel foulard è la mia bandiera”, in «La Repubblica», 11 novembre 2003. Vd. anche AGNESE BERTELLO, Velata attrazione, in «Io Donna», suppl. «Corriere della Sera», n. 43, 2003, p. 74. 78 Dando anche assistenza giuridica contro le sanzioni previste dalla legge. La giovane, che ha fondato una sua associazione, «Gfaim2savoir», prevede che molte ragazze usciranno dal circuito dell’integrazione, sentendosi respinte dalla Repubblica, vd. STEFANO MONTEFIORI, «Togliermi il velo è come strapparmi il cuore», in «Corriere della Sera», 1° settembre 2004. 79 FERDINANDO CAMON, Turchia: intervista col burqa, in «Avvenire», 13 gennaio 2004. 80 Vd. l’intervista a René Girard di LEONETTA BENTIVOGLIO, Quel simbolo antico che non ci dà tregua, in «La Repubblica», 24 gennaio 2004. – 105 – incrina le certezze di molte donne musulmane.81 Appare allora emblematico segno di equilibrio e modernità, di fronte al ritorno alla tradizione che deliberatamente sperimentano molte giovani musulmane, la voce discorde di Tahr Ben Jelloun, per il quale, anche se il velo è un pretesto per esprimere il malessere e la frustrazione di una generazione dimenticata dall’Europa, bisogna toglierlo quando si entra in una scuola o in un ospedale: «toglierlo non significa smettere di essere musulmani: l’islam è nei cuori, non nelle apparenze».82 8. Alle polemiche sull’uso del velo si è aggiunta, qui in Italia, la spinosa questione dell’esposizione del Crocifisso, il simbolo per eccellenza della religione cristiana, negli edifici pubblici, in specie nelle scuole. Anche in questo caso le polemiche hanno coinvolto l’interpretazione del principio di laicità dello stato. La vicenda ha preso inizio dall’istanza presentata da Adel Smith, cittadino italiano e presidente dell’Unione Musulmani d’Italia, al Tribunale dell’Aquila per chiedere la rimozione d’urgenza del Crocifisso dalla scuola frequentata dalle figlie. Il 26 ottobre 2003 il giudice dell’Aquila ha emesso l’ordinanza che accoglie le tesi presentate da Smith e ha disposto l’immediata rimozione del Crocifisso. La decisione ha naturalmente suscitato (oltre alla prevedibile reazione della CEI, espressa dal card. Camillo Ruini)83 scalpore, perplessità e indignazione, non soltanto tra i cattolici,84 ma 81 Come Aicha, algerina trapiantata da decenni a Parigi, la cui figlia 17enne Nawal ha scelto di portare il velo: vd. MASSIMO NAVA, Figlia quel velo non ti appartiene, in «Io Donna», suppl. «Corriere della Sera», n. 41, 2004. La sua vicenda ha ispirato alla giornalista Leila Djitli il libro Lettre à ma fille qui veut porter le voile. 82 TAHAR BEN JELLOUN, La libertà e le nostre vere paure, in «La Repubblica», 24 gennaio 2004. Aggiungiamo anche la testimonianza della 17enne Kahina Selmouni, la miglior studentessa francese (primo premio in filosofia al Concorso generale 2004 dell’Educazione Nazionale), musulmana: anche se la legge sul velo è in sostanza sbagliata, non bisogna dare importanza ai simboli (STEFANO MONTEFIORI, «È sbagliato ridurre l’Islam a un pezzo di stoffa», in «Corriere della Sera», 31 agosto 2004). 83 Vd. le dichiarazioni del card. Ruini a MASSIMO SCAFI, La Chiesa insorge: «È inaccettabile», in «Il Giornale», 27 ottobre 2003. 84 Valga per tutti l’editoriale di BEPPE DEL COLLE, Una sentenza che nega secoli di storia, in «Famiglia Cristiana», 44, 2003, p. 23. Vd. anche le amare considerazioni sul “mese crocifiggente” (ottobre 2003) e sulla scristianizzazione in atto nel paese, di FILIPPO MANONI, Ordine di sfratto, in «Il Bollettino Salesiano», n. 3, marzo 2004. Sulla vicenda del Crocifisso di Ofena: LIVIO FANZAGA (con Alessandro Gnocchi e Mario Palmaro), Il Crocifisso scomodo, Piemme, Casale Monferrato 2003; RINALDO PAGANELLI, Questione di Crocifisso, Edizioni Dehoniane, Bologna 2003. – 106 – anche tra gli esponenti laici e di sinistra,85 e perfino tra gli islamici.86 Il magistrato autore del discusso provvedimento si è difeso affermando di aver deciso soltanto in base al diritto. Peraltro un eminente giurista come Francesco Paolo Casavola, Presidente emerito della Corte Costituzionale, aveva chiarito, in occasione di precedenti polemiche legate sempre alla presenza del Crocifisso nelle scuole, che l’esposizione di esso nei luoghi pubblici non viola il principio di laicità dello stato, in quanto rappresenta e indica la natura storica della civiltà europea fondata sul Cristianesimo, da cui provengono principi civili di libertà morale e di eguaglianza.87 Forti critiche sono state, quindi, rivolte dal Presidente Casavola alla sentenza del Tribunale dell’Aquila, in nome di una concezione liberale della laicità e della difesa delle radici culturali della nazione.88 Dopo la sospensione dell’ordinanza ha espresso cupe previsioni sul futuro della scuola laica nella società multiculturale, per il modo in cui è stata affrontata questa vicenda, il prof. Angelo Panebianco, noto opinionista.89 85 Vd. l’intervista all’on. Livia Turco (Ds) di GIANNI PENNACCHI, «Così l’Italia non riuscirà ad amare l’Islam», in «Il Giornale», 27 ottobre 2003; altre dichiarazioni di politici nell’art. di GIANNA FREGONARA, Crocifisso vietato, i Poli uniti contro la sentenza, in «Corriere della Sera», 27 ottobre 2003. 86 Opinioni raccolte da MAGDI ALLAM, I musulmani: «Usa l’Islam per farsi pubblicità», in «Corriere della Sera», 27 ottobre 2003. 87 Dichiarazione di FRANCESCO PAOLO CASAVOLA, Crocifisso: “Nessun contrasto con la laicità dello Stato”, all’Agenzia SIR, 20/9/2002, testo reperibile via Internet all’indirizzo: www. passionisti. org/mlp/amici/crocifissosino. htm. Già l’editoriale Via il crocifisso dalle scuole italiane?, in «La Civiltà Cattolica», 3309, 7 maggio 1988, pp. 209-215, argomentava (piuttosto profeticamente, alla luce delle vicende di quindici anni dopo) che la “laicità” dello stato non significa che esso debba ignorare il fatto religioso. 88 “Il Crocifisso non è infatti un simbolo dello Stato, non lo è mai stato, né può esprimere indirettamente, oggi che lo Stato è laico, una confessione religiosa con rilevanza politica (...). Vietare la presenza del Crocifisso in una scuola equivale a negare che la nazione italiana sia identificabile culturalmente”, FRANCESCO PAOLO CASAVOLA, Questa non è una lite tra privati, in «Il Messaggero», 27 ottobre 2003. 89 “...l’Italia non disporrà di alcuna arma, nei prossimi anni, per impedire la trasformazione della scuola pubblica in un bazar multireligioso, in cui l’Islam organizzato, soprattutto, entrerà in forze pretendendo visibilità, spazi, la sua parte di «bottino». Allora sì che ci saranno seri problemi per la laicità dello stato”, questa l’allarmata profezia di ANGELO PANEBIANCO, La scuola laica e il Corano, in «Corriere della Sera», 3 novembre 2003. La questione dell’ostentazione dei simboli religiosi e, in specie, del Crocifisso nella scuola pubblica italiana è esaminata nel suo complesso e controverso profilo giuridico (confliggono, in particolare, il parere del Consiglio di Stato, Sez. II, par. n. 63 del 27/4/1988, che ritiene vigente in materia la vecchia normativa del 1926 – all’epoca lo Statuto Albertino proclamava la religione cattolica quale religione ufficiale dello stato –, e la sentenza della Corte di Cassazione, IV Sezione penale, n. 439/2000, – 107 – 9. Può svilupparsi un dialogo tra Islam e Occidente? Anzitutto è necessario superare le prospettive catastrofistiche di chi prevede un inevitabile scontro tra civiltà, come il politologo Samuel Huntington,90 le cui tesi sono state recentemente riaffacciate dal Presidente del Senato, Marcello Pera, pensatore laico, secondo il quale tutta la nostra civiltà occidentale sarebbe oggi in pericolo, sotto i colpi del terrorismo fondamentalista. Inevitabilmente sono sorte le polemiche e le discussioni, di fronte ad una interpretazione di episodi e dati che non si prestano ad una lettura univoca e perciò condivisa. È stata proprio un’altra voce laica, quella del filosofo Massimo Cacciari, a respingere l’appello del presidente del Senato Marcello Pera, a creare un patto di solidarietà dell’Occidente contro l’estremiche, in nome del principio della laicità dello Stato, ritiene abrogate le vecchie norme sull’esposizione del Crocifisso negli uffici pubblici) in LUISA PREDEN, Il Crocifisso tra norme e principi, in «Nuova Secondaria», 5, 15 gennaio 2003, pp. 110-112. 90 Le ormai celebri e assai discusse tesi sullo “scontro delle civiltà” sono esposte in SAMUEL HUNTINGTON, Lo scontro delle civiltà e il nuovo ordine mondiale, trad. di Sergio Minucci, Garzanti, Milano 2004, rist. : non solo lo studioso ritiene che la coscienza dell’appartenenza a una precisa identità culturale renda inevitabili l’esplosione degli odi etnico-religiosi e le “guerre di faglia”, ma giunge ad affermare che “i confini dell’Islam grondano sangue, perché sanguinario è chi vive al loro interno” (p. 383). Assumendo un simile punto di vista, è evidente come ogni prospettiva di dialogo risulti impossibile. D’altra parte, le tesi di Huntington hanno avuto in Italia seguaci anche tra insospettabili esponenti dell’intellettualità liberal, come Oriana Fallaci, i cui pamphlets La rabbia e l’orgoglio (Rizzoli, Milano 20027) e La forza della ragione (Rizzoli, Milano 20044), gonfi di veementi e umorali invettive antiislamiche, hanno goduto di grande (pubblicità e) popolarità (l’autrice ha ribadito le sue argomentazioni, da ultimo, in Oriana Fallaci intervista Oriana Fallaci, I libri del Corriere della Sera, Milano 2004). Un’analoga invettiva antiislamica, sul piano teologico, è quella di GIANNI BAGET BOZZO, Di fronte all’Islam. Il grande conflitto, Marietti 1820, Genova 2001 (l’autore stigmatizza la presunta cedevolezza del Papa di fronte agli islamici anche nel suo intervento La fallibilità del Papa, in «Panorama», 11 ottobre 2001). Alla Fallaci hanno risposto, ricordando l’atteggiamento del Santo di Assisi verso il sultano d’Egitto (la leggendaria conversione del sultano Melek-El-Kamel, o Al-Kamil, ottenuta da S. Francesco mentre i crociati assediavano il porto di Damietta, nel 1219, è narrata nei Fioretti, cap. XXIV; per una ricostruzione storica dell’episodio vd. ADRIAN HOUSE, San Francesco d’Assisi, trad. di Francesca Ricci, Fabbri editori, Milano 2004, pp. 183-197), TIZIANO TERZANI, Il Sultano e San Francesco, in «Corriere della Sera», 4 febbraio 2001, e DACIA MARAINI, Ma il dolore non ha una bandiera, in «Corriere della Sera», 5 ottobre 2001. A Baget Bozzo ha risposto LUIGI ACCATTOLI, L’islam di fronte. Baget Bozzo dice guerra, il papa chiama i musulmani fratelli, in «Il Regno», n. 18, 2001, p. 646 e ss., respingendo la visione di un Islam intollerante e “genocida dei cristiani” (il testo di Accattoli è disponibile sul sito Internet: www. ilregno. it). Huntington ha ultimamente lanciato un altro allarme contro l’afflusso di immigrati ispanici (che non si integrano nella cultura predominante e rifiutano i valori anglo-protestanti) negli Stati Uniti, vd. SAMUEL HUNTINGTON, Estados Unidos de América, in «Global Foreign Policy», n. 2, maggio-giugno 2004, pp. 28-43. – 108 – smo islamico. 91 Questo potrebbe anche ammettersi, secondo Cacciari, ma solo se si cambia politica, perché sarebbe in realtà il principio della guerra preventiva, affermato dalla presidenza Bush, ad alimentare il terrorismo.92 L’idea di un inevitabile scontro di civiltà metterebbe a repentaglio la nostra stessa società, di fatto ormai segnata dalla compresenza di comunità portatrici di tradizioni e culture diverse dalla nostra, evolutasi storicamente in senso democratico e liberale. È proprio il valore della tolleranza, che è alla base del nostro essere laici, ciò che comporta il riconoscimento dell’altro come individuo avente diritto a dignità e rispetto, in quanto persona. Ma la costruzione di una società multiculturale, quale quella teorizzata da pensatori come Charles Taylor (basata sul principio del reciproco riconoscimento delle tradizioni culturali diverse, quale riconoscimento della dignità della persona umana),93 si mostra di ardua realizzazione, allorché gli altri sono portatori di tradizioni che stridono con la nostra mentalità e con le nostre leggi. Fino a che punto il diritto del singolo a praticare le proprie tradizioni, in nome del rispetto dovuto alla propria identità, può trovare un limite nell’interesse collettivo a bandire ciò che appare, alla mentalità occidentale e allo stato moderno e laico, come moralmente (se non penalmente) illecito?94 91 Il presidente del Senato Marcello Pera, nell’intervista di LUIGI CONTU, «Attaccano la nostra civiltà, fermiamo i fondamentalisti», in «La Repubblica», 30 agosto 2004, si era appellato ai paesi democratici per indurli a sottoscrivere un grande “patto di solidarietà dell’Occidente”, contro il terrorismo islamico, determinato a distruggere la nostra civiltà, quella della libertà, delle istituzioni democratiche e della tolleranza. 92 Significative, e tipico caposaldo polemico della sinistra, le parole con cui Cacciari imputa alla politica degli USA le responsabilità del terrorismo islamico: «La verità è che l’attuale amministrazione americana agisce in maniera controproducente, alimentando il terrorismo. È come un chirurgo pazzo che opera seminando metastasi. (...) Comunque è vero che ci vorrebbe unità ma le divisioni sono di sostanza. Bush ha impresso una trasformazione autentica, direi rivoluzionaria, il principio della guerra preventiva travolge i paletti della destra di Reagan e Bush senior. Se dobbiamo fare un patto sulla base di questa politica avremo una guerra infinita. Il tempio di Giano non chiuderà mai le porte. Dopo l’Iraq ci sarà la Siria, l’Iran...» (dall’intervista a Massimo Cacciari di ALESSANDRA LONGO, “Non c’è nessuno scontro di civiltà ma con Bush sarà guerra infinita”, in «La Repubblica», 31 agosto 2004). 93 Vd. in particolare CHARLES TAYLOR, Multiculturalismo. La politica del riconoscimento, trad. di Gianni Rigamonti, Anabasi, Milano 1993, pp. 44-51. 94 Non v’è convivenza possibile tra popoli portatori di culture diverse, secondo l’antropologa Ida Magli («Possiamo confrontarci con la cultura islamica solo da turisti. Non dico che devono cambiare. Rispetto i loro valori finché restano a casa loro. Non voglio convertire nessuno, non voglio invadere. Ma non voglio neanche essere invasa», in LUISA PRONZATO, Ma questo velo è una minaccia?, in «Sette», suppl. «Corriere della Sera», n. 10, 2002, pp. 40-41). – 109 – È giusto rispettare le culture, ma non fino al punto di tollerare inaccettabili atti di crudeltà come l’escissione sulle bambine africane o la macellazione rituale degli Ebrei, secondo Dacia Maraini, per la quale è importante stabilire regole uguali per tutti, perché su di esse si basa la convivenza civile.95 Anche l’europarlamentare radicale Emma Bonino, già commissario europeo a Bruxelles, che nella sua attività politica ha sempre avuto a cuore i diritti umani, distingue fra tradizioni religiose culturali accettabili o meno: così indossare il saari (il velo indiano) è lecito, mentre il burqa va vietato.96 È inevitabile, d’altra parte, constatare come il mondo islamico, nel suo complesso, sia segnato da una grave carenza di democrazia e di laicità. Manca del tutto la distinzione tra religione, da una parte, e stato e società dall’altra. I regimi politici nei paesi islamici oscillano tra la dittatura e la teocrazia, ma tutti, nelle loro costituzioni, non sembrano dare soverchia importanza al concetto di persona. La stessa religione islamica, che peraltro impegna e vincola in modo esclusivo i suoi appartenenti (al punto che l’apostasia non solo non è permessa, ma è sanzionata col carcere e talvolta anche con la morte),97 giustifica la condizione della disuguaglianza: disuguaglianza tra il credente e il non credente (con pesanti discriminazioni a carico di questo), tra l’uomo e la donna, tra il marito e la moglie. Proprio la condizione della donna è lo specchio dell’arretratezza delle società islamiche, fondate sul tribalismo e sul patriarcato. 10. Se è vero che il progresso di un qualsiasi Paese si misura esattamente sulla questione femminile, su come considera e tratta concretamente la donna, come ha affermato lo scrittore Tahar Ben Jelloun,98 i paesi islamici in questo senso devono ancora compiere un lungo percorso.99 La sostanziale subalternità della donna, fondata sul Corano, è ancor oggi un pregiudizio difficile da rimuovere anche tra gli islamici apparentemente integrati nella 95 DACIA MARAINI, Giusto rispettare le culture. Ma fino a quale punto?, in «Corriere della Sera», 8 ottobre 2004. 96 Vd. l’intervista a Emma Bonino di MARIO AJELLO, «Il burqa? Fanno bene a vietarlo», in «Il Messaggero», 5 agosto 2004. 97 Vd. DINA NASCETTI, Non avrai altro Allah, in «L’Espresso», 11 dicembre 2003. 98 Nell’intervista di PAOLO PERAZZOLO, Islam senza veli, in «Famiglia Cristiana», n. 15, 2004, p. 61. 99 Nonostante i tentativi di importare i diritti civili nei Paesi del Terzo Mondo stiano dando qualche frutto, come afferma EMMA BONINO, I primi frutti dei diritti civili, in «Corriere della Sera», 12 settembre 2004. – 110 – società occidentale.100 Anche se in molti paesi musulmani è ampio il consenso per un sistema politico democratico, proprio sul terreno dei pari diritti e opportunità per le donne il divario culturale tra Islam e Occidente «si trasforma in un abisso».101 Lapidate perché fedifraghe, in balia della violenza di padri e mariti: sono le “donne senza volto” dell’Islam.102 E letteralmente senza volto è rimasta la giovane giordana Suad, appartenente a una famiglia di pastori della Cisgiordania, cosparsa d’acido e bruciata a quindici anni dal padre e dal cognato perché incinta.103 Alcune giovani attrici egiziane sono state denunciate quali apostate da un avvocato del Cairo, per aver smesso di indossare il velo ed essere tornate a recitare.104 La condizione di sostanziale subalternità (se non peggio) della donna all’uomo è stata drammaticamente sperimentata anche da quelle occidentali che hanno contratto matrimonio con Scalpore in tal senso hanno suscitato le recenti dichiarazioni dell’imam di Lione, Abdelkader Bouziane, residente in Francia da quasi 30 anni, il quale aveva affermato pubblicamente che è lecito picchiare la moglie, se si comporta male, e addirittura lapidarla, se colpevole di adulterio. Per evitare l’espulsione, l’imam ha ritrattato (sul caso vd. MASSIMO NAVA, L’imam di Lione. «Smentita islamica» per non essere espulso, in «Magazine», suppl. «Corriere della Sera», n. 17, 2004, pp. 48-49). 101 Come mette in chiaro l’inchiesta di RONALD INGLEHART-PIPPA NORRIS, Il vero scontro di civiltà, in «Global Foreign Policy», n. 3, luglio-agosto 2004, pp. 30-38. Ad esempio, alla domanda se gli uomini siano leader politici migliori delle donne hanno risposto sì l’82% dei cittadini di paesi musulmani e il 55% di quelli occidentali. Il grafico elaborato dal World Values Survey (riportato a p. 34 dell’inchiesta citata) dimostra che nei paesi a più alto livelli di democrazia si riscontra anche una maggiore eguaglianza tra i sessi: al vertice dei paesi più avanzati figurano quindi Svezia, Norvegia, Canada, Stati Uniti, Nuova Zelanda, a quello opposto Armenia, Georgia, Azerbaijan, Iran, Egitto (questi tre ultimi, non a caso paesi musulmani). 102 Come titola un reportage sulla condizione femminile nell’Islam, di STELLA PENDE, Donne senza volto, in «Panorama», 11 ottobre 2001, pp. 78-82. Vd. anche l’ampia inchiesta sulle donne nell’Islam di FARIAN SABAHI SEYED, Figlie di Allah, in «Specchio della Stampa», suppl. «La Stampa», n. 111, 1998. Il difficile percorso per affermare i diritti delle donne e la loro condizione attuale sono analizzati riguardo ai paesi del Maghreb, in Una cittadinanza in disordine. I diritti delle donne nei paesi del Maghreb, a cura di Maria Grazia Ruggerini, Ediesse, Roma 2003. 103 In esecuzione di una terribile sentenza emessa tra le pareti domestiche, senza che fosse data alla ragazza la minima possibilità di difendersi. «Non conosco il perdono e la vendetta – ha così commentato il suo dramma Suad –, è più importante far sapere che la mia tragedia non è un caso limite né una casuale disgrazia. Appartiene a un modo di concepire i rapporti familiari, alle gerarchie di valori e sensibilità, soprattutto al posto che devono occupare le donne, fin dalla nascita, in questa gerarchia. » Vd. MASSIMO NAVA, Suad rinata nel fuoco, in «Io Donna», suppl. «Corriere della Sera», n. 8, 2004, pp. 102-104. La giordana Suad, che oggi, sposata e con due figlie, vive a Parigi, ha raccontato la sua drammatica vicenda nel libro autobiografico Bruciata viva (Edizioni Piemme, Casale Monferrato 2004). 104 Vd. MAGDI ALLAM, Attrici “apostate” per aver smesso il velo, in «La Repubblica», 5 giugno 2003. 100 – 111 – musulmani e hanno seguito i mariti nella loro terra d’origine, come attesta un ormai ampio filone memorialistico incentrato sulle tristi e angosciose vicende delle coppie di religione mista.105 Sul dialogo tra Islam e Occidente pesa, però, il ricatto del fanatismo terrorista, che ora pretende di ingerirsi nella vita stessa degli Stati, fino a tentare di imporre condizionamenti sulle scelte legislative dopo aver ipotecato il controllo delle comunità musulmane.106 I rapitori dei due giornalisti francesi in Iraq, Christian Chesnot e Georges Malbrunot (nelle mani dei loro sequestratori dal 20 agosto), hanno richiesto alla Francia di abrogare la legge sul velo, cosa che ha suscitato unanime sdegno (citiamo per tutti, a rimarcare l’ovvia irricevibilità della richiesta, le parole del filosofo André Glucksmann: «Ricordiamo che la legge francese proibisce di portare il velo solo nelle scuole primarie e secondarie, e non certo per strada. Niente di più totalitario della pretesa di decidere il regolamento interno di licei e collegi delle banlieues francesi attraverso una cattura di ostaggi in Iraq! E perché non intervenire, allora, anche sul menu delle mense scolastiche? E la promiscuità nelle piscine? Il terrorismo senza frontiere, né scrupoli, né tabù, è una spada di Damocle sospesa su tutte le democrazie d’Europa. Spetta a chi assassina i giornalisti, a chi lapida le donne, alle bombe umane, di decretare come deve vivere, insegnare e divertirsi chi abita a Roma, Londra, Parigi?»)107 e condanna anche da parte dei settori islamici.108 105 Sono sempre le donne, tra cui anche e soprattutto le occidentali ex mogli di musulmani, a denunciare implacabilmente le umiliazioni e le vessazioni subite, anche dalla famiglia del marito, una volta messo piede in un paese islamico. Donde situazioni di violenza e ricatto, e una guerra perenne soprattutto per ottenere l’affidamento dei figli: vd., ad esempio, le vicende autobiografiche narrate da PAMELA GREEN, Figli miei rapiti (Dear Children, 1994), trad. di O. Crosio, Sonzogno, Milano 1994; TEHMINA DURRANI, Schiava di mio marito (My feudal Lord, 1994), trad. di E. Romano, Fabbri editori, Milano 2004; BETTY MAHMOODY con WILLIAM HOFFER, Mai senza mia figlia (Not without my Daughter, 1987), trad. di E. Malossini Fumero, Fabbri editori, Milano 2004. 106 La grande partita del terrorismo islamico ha per posta proprio il controllo delle folte comunità islamiche in Europa, il “popolo delle moschee”, come ha notato Magdi Allam (e in questa prospettiva il rapimento dei due giornalisti francesi Chesnot e Malbrunot segna un salto di qualità nella strategia del terrore globalizzato: MAGDI ALLAM, Attacco all’Europa, in «Corriere della Sera», 29 agosto 2004). 107 ANDRÉ GLUCKSMANN, L’Occidente in ostaggio, in «Corriere della Sera», 30 agosto 2004: il filosofo ricorda opportunamente che la guerra condotta dall’islamismo radicale è cominciata con la vittoriosa rivoluzione del 1979 che portò al potere in Iran l’ayatollah Khomeini. 108 Di “odioso ricatto” ha parlato anche il rettore della moschea di Parigi, Dalil Boubaker (vd. STEFANO MONTEFIORI, Lo choc dei musulmani di Francia: «Una sfida anche per noi», in «Corriere della Sera», 29 agosto 2004). Eloquenti le riflessioni di MARIO CERVI, L’orribile ricatto, in «Il Giornale», 30 agosto 2004, per il quale l’imposizione dei rapitori «è il tentativo di – 112 – 11. Le tanto auspicate voci di apertura dell’Islam ai valori della libertà e della democrazia rimangono, dunque, ancora sporadiche. Manca una decisa presa di posizione da parte dell’intellettualità islamica nel suo insieme, manca il consapevole risveglio di una società civile e delle coscienze critiche dall’oppressivo e torpido conformismo religioso. Solo alcune voci isolate si levano coraggiose, come quella dello scrittore Tahar Ben Jelloun, il quale rimarca la mistificazione dell’insegnamento dell’Islam quale causa del fondamentalismo;109 quella di Tariq Ramadan, professore di Religione e Polemologia all’università di Notre Dame (a South Bend, Indiana), il quale propugna l’autentico significato del Corano, interpretandone il testo con spirito critico.110 Imbevuto di cultura europea e assertore di un Islam secolarizzato, alieno dalla teocrazia e dal comunitarismo estremista,111 suo è l’appello ai musulmani ad accettare una società aperta (ciò che non significa tradire i principi del Corano: «Lo stato laico rende possibile la convivenza, è la condizione indispensabile alla pratica della libertà religiosa»), rifiutando la visione del mondo avvelenata dalle contrapposizioni religiose.112 Però un notevole passo avanti è stato fatto dalla dichiarazione di solidarietà (e conseguente manifestaimpedire che la cultura occidentale preservi, nei Paesi dove è sorta e dove sopravvive, le sue caratteristiche e la sua identità, e infiltrare invece in partibus infidelium (infedeli e cristiani) i dettami dell’Islam. Che è un modello religioso militante e – nelle sue origini e nell’interpretazione moderna di alcuni capi – un modello da esportare». Il presidente francese Chirac il 29 agosto ha lanciato un appello ufficiale ai rapitori per la liberazione dei due ostaggi, interpretando il sentimento di unità del Paese, «perché sono in gioco le vite di due francesi, la difesa della libertà di espressione, i valori della nostra Repubblica» (STEFANO MONTEFIORI, Chirac: «Io chiedo la libertà dei reporter», in «Corriere della Sera», 30 agosto 2004). 109 Vd. l’intervista a Tahar Ben Jelloun di PAOLO PERAZZOLO, L’Islam senza veli, cit., pp. 60-61. Dello scrittore marocchino, noto anche da noi per i suoi commenti agli avvenimenti internazionali, ricordiamo in particolare Il razzismo spiegato a mia figlia (trad. di E. Volterrani, Bompiani, Milano 1999, rist.). 110 Il che procura al suo autore prese di posizione anticonformiste, allorché consiglia alle giovani musulmane francesi di attenersi alla legge sul velo, ma anche talune ambiguità, riguardo, ad esempio, alle stragi di Hamas in Israele, che sembrerebbe giustificare, vd. l’intervista al filosofo di GUIDO RAMPOLDI, Noi, musulmani d’Occidente, in «La Repubblica», 28 settembre 2004. 111 Si veda l’intervista di Tariq Ramadan a cura di ANTONELLA CARUSO, Un islam a misura di Europa, in Il nostro islam, «Limes», n. 3, 2004, pp. 23-31. Un ulteriore, forte invito ai musulmani a riflettere criticamente su se stessi e la propria cultura, per operare il risveglio della coscienza civica, il rifiuto della violenza, l’apertura di spazi alla partecipazione dei cittadini, è rivolto dal filosofo musulmano in TARIQ RAMADAN, Islam e democrazia, in «Corriere della Sera», 11 settembre 2004. 112 Vd. NATHAN GARDELS, «Musulmani, non facciamoci dividere tra “noi e loro”», in «Corriere della Sera», 1° settembre 2004. – 113 – zione l’11 settembre 2004) delle associazioni islamiche d’Italia, durante i giorni del sequestro in Iraq delle due giovani operatrici dell’associazione non governativa «Un ponte per...», Simona Pari e Simona Torretta.113 Significative aperture da parte dell’Islam si registrano anche nella sfera più squisitamente privata. Dopo una lunga battaglia, la tunisina Sallouha Khalfallah ha ottenuto di poter sposare l’uomo che amava, un anziano malato terminale, senza dover esigere la sua conversione all’Islam, come impongono la legge tunisina e quelle degli altri paesi musulmani. Concedendo il nulla osta al matrimonio della donna sulla base di una nuova e non tradizionale interpretazione del diritto islamico, l’ambasciatore tunisino Mohamed Jegham ha operato «un fatto senza precedenti in Italia, che afferma la vittoria della cultura della tolleranza e della libertà di fede sulla rigida applicazione dei testi religiosi».114 12. Tentativi di dialogo procedono di pari passo alternati a chiusure dall’una e dall’altra parte.115 Anzitutto, dialogo con chi? Con l’Islam moderato, che è quello principalmente impegnato contro il terrorismo, come afferma Paolo Mieli, riconoscendo gli errori commessi dall’Occidente nell’appoggiare movimenti che hanno creato regimi fondamentalisti, come quello degli ayatollah in Iran, contro dittature militari laiche.116 I frequenti, dram- 113 Sequestro concluso da un fortunato lieto fine: le due giovani sono state rilasciate nei pressi di Baghdad il 28 settembre 2004, dopo ventuno giorni di prigionia e il probabile pagamento di un riscatto (fatto smentito, però, dal governo). Rimangono ancora nelle mani dei rapitori, al momento in cui scriviamo, i due giornalisti francesi Georges Malbrunot e Christian Chesnot, rapiti il 20 agosto. 114 Così MAGDI ALLAM, «Sposo la donna che amo. Senza conversione all’Islam», in «Corriere della Sera», 1 agosto 2004. 115 Tra le manifestazioni di difesa della laicità, e contestuale chiusura alla diversità, dobbiamo registrare la recente sentenza della Corte Suprema di Londra che, seguendo l’esempio della legge francese sul velo, ha respinto la richiesta della 15enne Shabina Begum, di indossare in classe lo jilbab, abito tradizionale musulmano che copre tutto il corpo. Per la Corte l’abbigliamento della ragazza sarebbe apparso discriminante nei confronti dei compagni, facendo apparire Shabina come “più osservante” degli altri: vd. No all’abito musulmano in classe. La Corte: discrimina i compagni, in «La Repubblica», 15 giugno 2004. 116 In risposta a un lettore che chiedeva come individuare l’Islam moderato, vd. PAOLO MIELI, Islam moderato? È quello impegnato contro il terrorismo, in «Corriere della Sera», 13 settembre 2004. Già il ministro dell’Interno tedesco Otto Schily, in una intervista a Repubblica, aveva espresso la necessità che i musulmani moderati si distanziassero dai predicatori d’odio e dagli integralisti, se volevano l’integrazione in Europa (vd. ANDREA TARQUINI, “Contro i predicatori dell’odio l’Europa scelga la linea dura”, in «La Repubblica», 1 giugno 2004). Il problema di stabilire una coerente politica del dialogo e di identificare i regimi arabi moderati, in paesi in cui l’«Islam liberale» è ridotto al silenzio o in galera, è stato posto da Angelo Pane- – 114 – matici episodi creati dalla difficile situazione internazionale sembrano agevolare significativi gesti di apertura e di dialogo. Durante i giorni del rapimento in Iraq dei due giornalisti francesi Christian Chesnot e Georges Malbrunot (i cui rapitori hanno intimato al governo francese l’abrogazione della legge sul velo), il ministro dell’Interno Dominique de Villepin si è recato a visitare la moschea di Parigi, accoltovi dal rettore e presidente del Conseil Français du Culte Musulman (Cfcm) Dalil Boubaker.117 Lo stesso ministro aveva in precedenza proposto di istituire una facoltà di teologia musulmana, finanziata parzialmente dallo stato, per istruire predicatori «moderati, preparati e affidabili».118 E proprio mentre la guerra del terrore islamico toccava il suo apice con il sequestro nella scuola di Beslan, nell’Ossezia settentrionale, di centinaia di piccoli allievi, dei loro genitori e degli insegnanti, è giunto dalle associazioni islamiche che operano in Italia il «Manifesto contro il terrorismo e per la vita», emblema di una società civile musulmana che, sia pur faticosamente, si sta costituendo anche nel nostro Paese. In esso non solo i musulmani affermano inequivocabilmente di essere schierati dalla parte dello Stato italiano nella lotta contro il terrorismo islamico, ma ribadiscono anche, con parole e accenti nuovi, la loro fede nel valore della sacralità della vita, contro ogni interpretazione coranica che possa giustificare l’uccisione di sé e degli altri in nome di un frainteso “martirio”. Vale la pena di riportare le parole del Manifesto, per la loro carica di dirompente novità: «Noi musulmane e musulmani d’Italia affermiamo in modo forte, inequivocabile e deciso la nostra fede nel valore della sacralità della vita di tutti gli esseri umani indipendentemente dalla nazionalità e dal credo. Per noi la sacralità della vita è il principio discriminante tra la comune civiltà dell’uomo e la barbarie di quanti predicano e perseguono la cultura della morte. Siamo consapevoli che la sacralità della vita o vale per tutti o, qualora venisse violata, si ritorce contro tutti. Solo l’abbraccio comune alla cultura della vita consente la salvezza, la pace e il benessere dell’umabianco, attento nel denunciare le ambiguità di taluni governi europei (come la Francia, per esempio, che difende la laicità con la legge sul velo e «dialoga» con Hamas): vd. ANGELO PANEBIANCO, Islam, dialogo senza ipocrisie, in «Corriere della Sera», 6 settembre 2004. Sulle ambiguità di un Islam moderato, incline a chiudere un occhio o addirittura giustificare l’estremismo, ma anche sulla necessità del dialogo con questo, ha posto l’accento SERGIO ROMANO, Fondamentalismi dietro le spalle, in «Corriere della Sera», 25 settembre 2004. 117 Vd. STEFANO MONTEFIORI, Il ministro Villepin va a pregare in moschea, in «Corriere della Sera», 1° settembre 2004. 118 ALESSANDRA COPPOLA, Parigi vuole una scuola per gli imam, in «Corriere della Sera», 13 maggio 2004. – 115 – nità».119 È un’apertura significativa e, diremmo, rivoluzionaria: porre l’accento sulla sacralità della vita è un atto che porta non lontano dal riconoscimento del fondamentale valore della dignità della persona umana, contro ogni pretesa di limitarne dall’esterno, soprattutto in nome di malcerte interpretazioni fondamentaliste del verbo coranico, le legittime e libere aspirazioni e determinazioni. Senza considerare, poi, che il valore della vita è uno dei valori fondamentali a cui è ancorata la democrazia.120 Una circolare del ministro dell’Interno ai prefetti ha dato loro incarico di avviare in ogni provincia tavoli di lavoro, forum, osservatori o altre iniziative a carattere permanente, con il coinvolgimento degli organismi statali, regionali e degli enti locali, al fine di creare un tessuto di dialogo con le comunità islamiche: tale iniziativa va nella prospettiva della creazione di una Consulta islamica nazionale, quale interlocutore ufficiale dello Stato italiano.121 Anche durante il sequestro delle due giovani operatrici umani119 Il testo del documento (sottoscritto, tra gli altri, da Mario Scialoja, direttore della sezione italiana della Lega musulmana mondiale, Abdellah Redouane, segretario generale del Centro culturale islamico d’Italia, Mahmoud Ibrahim Sheweita, imam della Moschea di Roma, Gabriele Mandel Khan, Gran maestro per l’Italia della confraternita turca Jerrahi-Halveti) è in «Corriere della Sera», 2 settembre 2004 (Isoliamo i fanatici, per un Paese più giusto e più sicuro). Esso è valso agli islamici il plauso del ministro dell’Interno Pisanu, convinto che su queste basi si possa costruire un «Islam italiano», inteso come una comunità religiosa di cittadini consapevoli, titolari di eguali diritti e doveri, in una società aperta e pluralista (GIUSEPPE PISANU, «Atto di pace», in «Corriere della Sera», 2 settembre 2004). Anche il Presidente della Repubblica Ciampi ha espresso la sua soddisfazione, certo che «un rapporto fra Europa e Islam, basato sul rispetto reciproco e sulla capacità e volontà di vivere insieme, è alla nostra portata» (vd. LORENZO SALVIA, Ciampi: giusto l’appello dei musulmani moderati, in «Corriere della Sera», 3 settembre 2004). Il Presidente Ciampi, nei giorni del sequestro in Iraq delle due operatrici umanitarie Simona Pari e Simona Torretta, ha poi ricevuto per la prima volta al Quirinale una delegazione di musulmani d’Italia, venuti a manifestare solidarietà (vd. il commento di MAGDI ALLAM, L’incontro storico con l’Islam italiano, in «Corriere della Sera», 11 settembre 2004). Sui firmatari del «Manifesto contro il terrorismo e per la vita», tutti esponenti della maggioranza silenziosa dell’Islam moderato, vd. l’articolo di RAFFAELE ORIANI, Ridateci il nostro Islam, in «Io Donna», suppl. «Corriere della Sera», n. 38, 2004, pp. 75-78. 120 Sul rapporto tra valore della vita e democrazia, inteso quale uno dei valori imperituri «che la salvino anche nei grandi scenari della deterritorializzazione del potere, delle unioni sopranazionali, delle egemonie transnazionali, insomma di quelle forme inedite che andrà assumendo la globalizzazione», vd. le riflessioni svolte da FRANCESCO PAOLO CASAVOLA, Il valore della democrazia, prolusione alla 44ª Settimana Sociale dei Cattolici Italiani, Convegno su: La Democrazia: nuovi scenari, nuovi poteri (Bologna, 7-10 ottobre 2004), testo disponibile in Internet al seguente indirizzo: www.db.agenziasir.it/sir/fromsir/settimane/casavola.doc 121 Al fine di precludere ogni spazio di proselitismo al fanatismo integralista religioso: vd. MARCO POLITI, “Dialogo con l’Islam, no ai fanatici”, in «Corriere della Sera», 28 settembre 2004. – 116 – tarie dell’associazione «Un ponte per...», Simona Pari e Simona Torretta, le associazioni islamiche in Italia hanno preso posizione con manifestazioni di condanna del gesto e di solidarietà al nostro Paese. La Chiesa cattolica, da parte sua, persegue coerentemente e instancabilmente la via del dialogo con gli islamici, anche quando nei paesi musulmani le comunità cristiane sono fatte oggetto di violenze122 o quando in talune moschee d’Italia gli imam istigano alla guerra santa.123 Per il card. Dionigi Tettamanzi va favorita, attraverso il coraggio del dialogo, la conoscenza reciproca tra le due religioni, anche se difficoltosa: «ma alla fine si manifesta un coraggio cauto e deciso, capace di isolare il fondamentalismo e di realizzare un reciproco rispetto delle identità».124 Ricordando che nessuna religione ha nel suo cuore la distruzione dell’altro, mons. Vincenzo Paglia, vescovo di Terni, teologo, esorta alla necessità di intavolare un rapporto tra le diverse religioni, a maggior ragione ora che la globalizzazione ha cancellato i mondi separati: l’Islam può essere utilmente affrontato sul piano religioso Vd. sulle aperture di papa Wojtyla rispetto alle chiusure del mondo islamico il commento di GASPARE BARBIELLINI AMIDEI, Il dolore e la fatica di dar ragione al Papa, in «Corriere della Sera», 29 ottobre 2001. Sul dialogo tra vescovi europei e comunità musulmane, rafforzatosi durante gli ultimi avvenimenti anche in ragione del rifiuto del Vaticano di “teologizzare” la guerra preventiva di Bush, vd. ALBERTO MELLONI, Eurovescovi ed euroislam, in Il nostro islam, «Limes», n. 3, 2004, pp. 75-85 (ma cfr. anche quanto l’autore afferma alle pp. 8081 a proposito di certe posizioni marginali nella Chiesa cattolica, paventanti una “islamizzazione” dell’Europa e perciò pregiudizialmente ostili a ogni tipo di dialogo con l’Islam: una di queste è quella dell’arcivescovo di Bologna Giacomo Biffi, si veda il suo intervento al Seminario della Fondazione Migrantes, 30 settembre 2000, L’europa o sarà cristiana o sarà musulmana, testo disponibile in Internet all’indirizzo: www. internetica. it/Europa-Biffi. htm#top). 123 Com’è avvenuto l’8 dicembre 2003 nella moschea di Cremona, durante la predica (intercettata da microspie ivi nascoste dalla Digos) del marocchino Najib Rouass: vd. GIUSEPPE GUASTELLA, «Gli imam menti della cellula eversiva», in «Corriere della Sera», 26 febbraio 2004. Mentre in quel caso gli esponenti locali della Lega hanno chiesto la chiusura definitiva della moschea, la Curia cremonese ha emesso un comunicato in cui si sosteneva, contro le facili e indiscriminate criminalizzazioni, la necessità del proseguimento del dialogo tra i credenti delle diverse religioni (vd. MARCO IMARISIO, Il vescovo insiste: «Sì al dialogo, non vanno criminalizzati», in «Corriere della Sera», 26 febbraio 2004). 124 Vd. GASPARE BARBIELLINI AMIDEI, Il cardinale, l’Islam e il cauto coraggio, in «Corriere della Sera», 10 luglio 2004. Posizione ribadita dal cardinale alla vigilia del convegno internazionale «Religioni e culture: il coraggio di un nuovo umanesimo», svoltosi a Milano dal 5 al 7 settembre 2004: «Ed è con il coraggio di questo dialogo che può sorgere un nuovo umanesimo. Può fiorire, cioè, in ogni angolo della terra una nuova civiltà – quella della verità, della giustizia, dell’amore e della libertà – che mette al centro la persona umana nella sua dignità assoluta e inviolabile. E sarà, questa, la civiltà della pace!» (Card. DIONIGI TETTAMANZI, Adesso il vero coraggio è riuscire a vincere la paura, in «Corriere della Sera», 3 settembre 2004). 122 – 117 – e su quello giurisprudenziale.125 In nome del dialogo interreligioso il tunisino e musulmano Habib lavora come sacrestano nella parrocchia del Suffragio, a Milano, ivi assunto dal vescovo monsignor De Scalzi.126 È tuttavia significativo della prudenza con cui il dialogo è portato avanti, che la recente Istruzione Erga migrantes caritas Christi del Pontificio Consiglio della Pastorale per i Migranti e gli Itineranti contenga precise avvertenze agli Operatori pastorali impegnati nell’assistenza agli immigrati non cristiani, in specie musulmani, onde evitare fraintendimenti e confusioni.127 Casi di chiusura, però, non sono mancati e non mancano neanche nel nostro paese. A Bologna, qualche anno fa, una donna è stata respinta dal conducente di un autobus cittadino perché indossava il velo.128 Più recentemente, in una piscina pubblica di Bolzano due donne musulmane, entrate in acqua vestite, sono state invitate a uscire dal bagnino dopo le proteste degli altri bagnanti.129 Il sindaco leghista di Drezzo (Como) ha vietato con un’ordinanza l’uso dei «veli che coprono il volto, atti a rendere difficoltoso il riconoscimento della persona»:130 in virtù della disposizione Sabrina Varroni, 34enne convertita all’Islam, è stata multata due volte in due giorni in questo comune per aver indossato il burqa.131 Ma anche l’integrazione di islamici compie comunque qualche significativo passo avanti, come nel caso delle sorelle Mahmoud, Marua e Mona, nate e cresciute a Milano, ormai lontane dalla lingua e dalle tradizioni dei genitori, arrivati in Italia da Alessandria 125 Vd. l’intervista a mons. Paglia di CESARE FIUMI, Occidente e Islam imparino dal fraticello di Assisi e dal sultano, in «Sette», suppl. «Corriere della Sera», n. 18, 2004, pp. 32-36. 126 Vd. LUIGI ACCATTOLI, Habib, l’islamico che fa il sacrestano, in «Corriere della Sera», 24 agosto 2004. 127 Si prescrive, ad esempio, di non mettere a disposizione dei non cristiani luoghi di culto e locali annessi (PONTIFICIO CONSIGLIO DELLA PASTORALE PER I MIGRANTI E GLI ITINERANTI, La carità di Cristo verso i migranti, Edizioni Paoline, Milano 2004, § 61 p. 68), di preparare accuratamente la fidanzata cattolica di un musulmano sulle profonde diversità culturali e religiose da affrontare (ibid., § 67 p. 72), di sostenere la donna, parte meno tutelata nella famiglia musulmana, nel perseguire i propri diritti e nell’educazione dei figli in senso cattolico (ibid., § 67 p. 73), di porre attenzione alla richiesta di Battesimo da parte dei musulmani adulti, per la natura particolare della religione islamica e le conseguenze che ne potrebbero derivare per il neoconvertito (ibid., § 68 p. 73). 128 Vd. “Respinta dall’autobus perché portavo il velo”, in «La Repubblica», 26 ottobre 2001. 129 Vd. ROBERTO BIANCHIN, “In piscina niente bagno col chador”, in «La Repubblica», 8 settembre 2004. 130 P. MO., E il sindaco del Carroccio vieta il burqa, in «Corriere della Sera», 13 luglio 2004. 131 Ogni ammenda costa alla donna 41,32 euro: vd. ARIANNA RAVELLI, Italiana con il burqa, una multa al giorno, in «Corriere della Sera», 20 settembre 2004. – 118 – d’Egitto.132 La migliore studentessa di Francia in filosofia è una ragazza 17enne di origine algerina, Kahina Selmouni: parla nove lingue, ha ottenuto il baccalauréat (la maturità francese) con la media record di 19,53 su 20.133 Una ricerca del Centro Studi Edoardo Agnelli ha mostrato che i giovani musulmani, nati e formatisi nel nostro paese, hanno un rapporto conflittuale con l’islam dei padri e non si riconoscono nel popolo delle moschee, preferendo piuttosto esprimere se stessi nell’associazionismo: sono tendenze da noi in embrione (la ricerca è stata condotta su un campione di 140-160 mila giovani), ma una realtà sociale di peso nel resto d’Europa.134 Ma il desiderio nelle giovani musulmane di emanciparsi dagli oppressivi legami familiari e religiosi, di godere delle libertà riservate ai coetanei occidentali, può provocare cupe tragedie familiari, com’è accaduto alla 19enne marocchina Koutar, massacrata dal padre perché non voleva sposare l’uomo che questi, secondo il costume tradizionale, aveva scelto per lei.135 Si assiste al contempo all’introduzione di tradizioni e usi islamici nel nostro paese. L’intesa raggiunta tra il sindacato e un’azienda milanese ha permesso ai dipendenti musulmani di fruire di pause retribuite durante l’orario di lavoro, 30 minuti ogni 6 ore, per praticare la preghiera.136 Da poco si è presa consapevolezza della difficile e delicata situazione in cui il matrimonio poligamico, consentito dal Corano ma non riconosciuto dal nostro ordinamento, fa vivere le donne musulmane anche nel nostro Paese.137 Ma è la scuola, come ha lucidamente avvertito il politologo Giovanni Sartori, il terreno in cui si gioca la partita dell’integrazione, che nel caso dell’islamico è decisiva, anche perché tra i giovani nati in Europa l’osservanza Nessuna delle due porta il velo, però Marua osserva il digiuno del Ramadan, per rispetto nei confronti dei genitori, vd. ALESSANDRA COPPOLA, «Noi, arabe cresciute a Milano uguali a tutti i ragazzi d’Italia», in «Corriere della Sera», 7 febbraio 2004. 133 STEFANO MONTEFIORI, Francia, una ragazza algerina è la studentessa più brava, in «Corriere della Sera», 13 agosto 2004. 134 Vd. ALESSANDRA COPPOLA, Moderati e disponibili al dialogo. Ecco i giovani musulmani d’Italia, in «Corriere della Sera», 11 giugno 2004. 135 Fatto avvenuto a Grantorto (Padova), vd. LUCIO PIVA, «Non vestirti come le altre». E l’uccide, in «Corriere della Sera», 26 settembre 2004; MARIO PORQUEDDU, «Uccisa perché promessa in sposa», in «Corriere della Sera», 27 settembre 2004. 136 Si tratta dell’accordo siglato tra la Fit Cisl e la cooperativa di spedizioni Essevi di Milano, che impiega 160 operai, di cui 90 di religione islamica. Sull’accordo, che segna una svolta nei rapporti di lavoro all’interno della società multietnica, vd. CARLO BRAMBILLA, Musulmani, la pausa preghiera entra nel contratto di lavoro, in «La Repubblica», 30 marzo 2004. 137 Vd. EMANUELA ZUCCALÀ, Le mogli inesistenti, in «Io Donna», suppl. «Corriere della Sera», n. 40, 2004. 132 – 119 – religiosa si attenua.138 Dunque la scuola educando ai valori di libertà e tolleranza, tipici della nostra democrazia liberale potrebbe risolvere il problema dell’integrazione dei figli degli immigrati. Purtroppo si adottano soluzioni spesso controverse nell’ansia di attuare l’integrazione scolastica. Anzitutto è nella scuola che l’adesione al proprio credo religioso è talora costretta a fare i conti con le chiusure di una laicità intollerante, forse più simile al laicismo. Polemiche sono sorte nel caso di un’educatrice di prima infanzia, la marocchina Fatima Mouayche, che si è presentata col velo per iniziare il tirocinio all’asilo di Samone, presso Ivrea.139 L’egiziana Grahm Mohamed, musulmana praticante, vive e lavora a Milano da anni, come insegnante elementare: in classe non si toglie mai il velo, ma una volta una collega ha preteso che lo facesse.140 Talune misure che si è tentato di introdurre sembrano contraddire alla cultura dell’accoglienza. A Brescia il dirigente scolastico provinciale Giuseppe Colosio, in accordo con la Prefettura e con i presidi, ha proposto un protocollo d’intesa sulla presenza dei figli degli immigrati nella scuola dell’obbligo, prevedendo di accettare gli studenti stranieri entro il limite di “quote” per classe.141 Ma si registrano anche significativi tentativi di aperture, non privi comunque di strascichi polemici. È recente il caso del sindaco ulivista di Bari, il magistrato Michele Emiliano, che 138 Mostrando, però, al contempo anche un certo pessimismo sulla capacità di formare della nostra scuola, a sua detta ridotta allo sfascio, vd. GIOVANNI SARTORI, Pluralismo multiculturalismo e estranei. Saggio sulla società multietnica, Rizzoli, Milano 2002², pp. 132-133. 139 L’insegnante ha poi potuto regolarmente svolgere il suo tirocinio, per interessamento del ministro dell’Interno Pisanu, ma presso il nido d’infanzia “Olivetti” di Ivrea, vd. MEO PONTE, Fatima, primo giorno di scuola “Il mio velo non mi spaventa”, in «Corriere della Sera», 30 marzo 2004. 140 Vd. AGOSTINO GRAMIGNA-ROBERTO RIZZO, Noi maestre musulmane in Italia e quel velo di razzismo, in «Sette», suppl. «Corriere della Sera», n. 14, 2004, pp. 41-42. 141 Vd. GRAZIA MARIA MOTTOLA, «Quote per gli extracomunitari nelle classi», in «Corriere della Sera», 10 settembre 2004. La proposta, che solleva indubbiamente il problema della mancanza di mediatori culturali e linguistici a fronte di un numero ormai rilevante (oggi circa 300 mila, destinati al raddoppio nei prossimi dieci anni) di bambini di etnie diverse nelle nostre scuole (in quelle della provincia di Brescia costituiscono il 7,18%), è stata però respinta dal ministero della Pubblica istruzione, vd. MARIOLINA IOSSA, «Immigrati, no alle quote in classe», in «Corriere della Sera», 11 settembre 2004. Di fronte al problema del crescente aumento della presenza di alunni stranieri nelle classi italiane (fenomeno che ha visto diverse soluzioni: in una scuola media di Milano sono state di fatto create “classi-ghetto”, in una primaria di Udine si è optato per la creazione di classi miste, con gruppi omogenei all’interno di esse, sulla base dei livelli di partenza dei bambini), il ministro dell’Istruzione ha convocato una conferenza dei direttori scolastici regionali al fine di coordinare gli interventi per la piena integrazione degli studenti figli di immigrati, vd. GIULIO BENEDETTI, Alunni stranieri in classe. Convocati i provveditori, in «Corriere della Sera», 16 settembre 2004. – 120 – ha proposto di introdurre lo studio del Corano a scuola per gli studenti esonerati da religione.142 Una delibera, proposta dall’assessore alla Formazione della Regione Campania, Adriana Buffardi, dava facoltà agli istituti di quella regione di sospendere l’attività didattica in occasione della festività islamica del Ramadan, del Capodanno cinese (la “festa di Primavera”) e della Pesah, la Pasqua ebraica.143 È stata prevista per la metà di ottobre l’inaugurazione a Vimodrone, alle porte di Milano, della prima scuola elementare musulmana («ma aperta a tutti», precisano gli organizzatori), la «Orizzonte», fondata dall’associazione interculturale «Alba».144 Il liceo privato “Vittoria” di Ivrea ha deciso di assumere due professori maghrebini per curare l’integrazione 142 Vd. ROBERTO RIZZO, Apriamo il dibattito: introdurre o no l’ora di islamismo, in «Magazine», suppl. «Corriere della Sera», n. 23, 2004. 143 Vd. FULVIO BUFI, «Le scuole possono chiudere per il Ramadan», in «Corriere della Sera», 7 luglio 2004. L’iniziativa dell’assessore ha sollevato accese proteste da parte del Moige, Movimento Italiano Genitori («Permettere che le ricorrenze religiose di ognuno diventino un pretesto per interrompere l’attività didattica non serve né all’integrazione interetnica né alla qualità della scuola», dichiarazione di Bruno Iadaresta, coordinatore dell’Osservatorio scuole del Moige, in GABRIELLA JACOMELLA, «Scuole chiuse nelle feste etniche? No, non serve all’integrazione», in «Corriere della Sera», 8 luglio 2004), a cui si è associato il clero napoletano, vd. E. D’E., Scuola, i preti di Napoli «No alle feste etniche», in «Corriere della Sera», 9 luglio 2004. L’assessore Buffardi ha difeso la sua iniziativa (una mera proposta alle singole comunità scolastiche della Campania, regione che vede largamente presenti nelle scuole figli/e di immigrati cinesi e maghrebini), ricordando sia che essa si inquadra in una politica di accoglienza, sviluppatasi in molteplici iniziative tese a migliorare le condizioni materiali degli immigrati e il loro inserimento sociale, sia che nell’odierna fase di globalizzazione è importante il rapporto con altre culture, storie e tradizioni, e che il compito della scuola laica è anche quello di favorire il confronto e lo scambio, in nome del riconoscimento e della valorizzazione reciproca tra le culture (L’iniziativa di Napoli, le culture, il confronto, lettera di Adriana Buffardi al «Corriere della Sera», 8 luglio 2004). Alle argomentazione della Buffardi ribatte Paolo Macry, ricordando che la scuola italiana deve avere come referente, approntando un iter di acculturazione, la civiltà occidentale e i suoi valori storici, e deve insegnare cosa significhi l’appartenenza a quei valori, senza operare alcuna equiparazione tra culture diverse e i loro grandi simboli di appartenenza, come le festività (PAOLO MACRY, I nostri simboli di appartenenza, in «Corriere della Sera», 8 luglio 2004). Interviene sulla vicenda, notando i paradossi del politicamente corretto, ERNESTO GALLI DELLA LOGGIA, Il pregiudizio multiculturale, in «Corriere della Sera», 9 luglio 2004. Come si vede, il dibattito rischia davvero, nei prossimi anni, di farsi lacerante, per i modi opposti di intendere l’integrazione di comunità straniere, portatrici di valori diversi ma comunque “forti”, nella civiltà occidentale che invece sconta la crisi dei suoi propri valori. 144 Vd. ANNACHIARA SACCHI, Nasce a Milano la prima elementare musulmana, in «Corriere della Sera», 1° settembre 2004. Sulle preoccupazioni del mondo cattolico riguardo al rischio dell’irrigidimento dei diaframmi culturali causato anche dalle «classi-ghetto», vd. PAOLO CONTI, Il no del mondo cattolico:«Costruiamo ponti, non isole», in «Corriere della Sera», 12 luglio 2004 (con dichiarazioni di esponenti cattolici come Enzo Bianchi, priore della – 121 – dei nuovi iscritti di origine nordafricana.145 L’obiettivo deve comunque essere quello di evitare la ghettizzazione. Così ben si comprendono le polemiche suscitate dall’iniziativa di un gruppo di genitori islamici che ha chiesto al liceo milanese “Gaetana Agnesi” l’istituzione di una classe speciale per i propri figli. Questi genitori desideravano far proseguire gli studi ai propri figli, ma a condizione che non fossero riuniti con gli altri studenti. Il collegio dei docenti aveva approvato per il nuovo anno scolastico l’istituzione di una nuova sezione islamica, con un corpo docente italiano e programmi ministeriali identici a quelli delle altre classi (con l’aggiunta di lezioni di lingua araba), ma l’iniziativa che già aveva suscitato aspre critiche a livello politico per i suoi aspetti di pericolosa ambiguità,146 è stata definitivamente bloccata dal ministero dell’Istruzione in quanto «contrasterebbe con i principi e i valori costituzionali tesi a superare ogni forma di discriminazione e a valorizzare occasioni di integrazione e di dialogo fra culture».147 La comunità musulmana di Milano ha quindi chiesto di aprire istituti privati parificati alla scuola pubblica, ma anche «rispettosi della tradizione islamica»: il provveditore milanese, Antonio Zenga, si è dichiarato disposto a collaborare, suscitando però le perplessità di psicologi ed esperti di problematiche giovacomunità di Bose, Andrea Riccardi, della comunità di Sant’Egidio, e altri, tutti fortemente critici sul progetto dell’istituto Agnesi). È intervenuto sulla questione lo scrittore e saggista CLAUDIO MAGRIS, Gli autosegregati nella scuola di tutti, in «Corriere della Sera», 12 luglio 2004, il quale, mentre definisce la «richiesta di chiudersi in un ghetto» come «un’offesa a tutti, anche e in primo luogo all’Islam, che rischia così, ancora una volta, di esere identificato con le sue più basse degenerazioni», puntualizza il compito educativo della scuola laica («La scuola non ha da insegnare a credere in Cristo o in Maometto, ma dovrebbe contribuire a formare un individuo capace di accostarsi liberamente e spiritualmente ai grandi interrogativi dell’esistenza e alle risposte date loro dalle grandi religioni e filosofie. La scuola non può non essere laica, perché laico non significa, come tanti ignoranti continuano a ripetere, non-credente o non-praticante, bensì indica colui che, credente o ateo, sa distinguere ciò che compete alla fede e ciò che compete alla ragione, ciò che riguarda la Chiesa e ciò che riguarda lo Stato»), funzionale allo stabilirsi di una società multietnica e pluralista, che esige dialogo, confronto e discussione. 145 P. B., Ivrea, due prof maghrebini per favorire l’inserimento, in «Corriere della Sera», 10 settembre 2004. 146 Vd. GIULIO BENEDETTI, Una classe tutta islamica. No da Lega e Rifondazione, in «Corriere della Sera», 11 luglio 2004. 147 GIULIO BENEDETTI, Il ministero boccia la classe islamica di Milano, in «Corriere della Sera», 14 luglio 2004. Sull’iniziativa della classe «endogamica», «stravaganza ambigua di scuole statali riservate a un gruppo chiuso», ha speso forti critiche Gaspare Barbiellini Amidei, ricordando però anche che, mentre lo studio dell’italiano è l’esperienza unificante delle varie zone contenutistiche dell’apprendimento, il nostro Paese si trova impreparato nella costruzione di un ponte linguistico verso i nuovi abitanti immigrati (GASPARE BARBIELLINI AMIDEI, Meglio l’italiano per tutti, in «Corriere della Sera», 14 luglio 2004). – 122 – nili e innescando ulteriori polemiche.148 D’altra parte l’esperimento di scuole nel nostro Paese con componente studentesca esclusivamente allogena, come la scuola tunisina di Mazara del Vallo (Trapani), fondata nel 1981 e dipendente dal ministero dell’Istruzione di Tunisi, ha registrato il fallimento, rispetto all’obiettivo di integrare gli alunni frequentanti.149 Non infrequenti sono altresì i casi di conversioni all’Islam,150 anche se, data la relativa semplicità della cerimonia,151 vanno distinte quelle frutto di convinzione personale dalle altre (e non sarebbero poche) meramente fittizie: c’è chi si è convertito all’Islam soltanto per poter sposare la fidanzata, appartenente a quella religione.152 13. Il problema è sforzarsi di comprendersi reciprocamente. Da parte nostra, occorre comprendere i valori, la cultura e la civiltà di chi appartiene a un Paese che non è il nostro; ma anche gli islamici immigrati devono sforzarsi di non guardare in modo ostile, conflittuale, alla nostra cultura e alle nostre tradizioni. Vengono a proposito qui le parole di Casavola, giurista e Presidente emerito della Corte Costituzionale, per il quale «il rispetto delle culture dei paesi ospitanti è il contraccambio del rispetto richiesto per le Cfr. le opinioni fortemente critiche di Fulvio Scaparro, Silvia Vegetti Finzi e altri, in ANNARITA CHIARA, «Scuole solo per islamici». Milano divisa, in «Corriere della Sera», 19 luglio 2004. Riportiamo in proposito il giudizio emblematico, un vero e proprio allarme, di Barbiellini Amidei: «La via dell’autosegregazione è civilmente disastrosa per un Paese che affida agli immigrati la propria sopravvivenza demografica. Ma che cosa facciamo, vogliamo allevare centinaia di migliaia di giovani esclusi dal metabolismo nazionale? (...) Una scuola paritaria confessionale finisce per negare ai ragazzi il confronto con il pensiero altrui, il colloquio con coetanei di altre culture e fedi. (...) Incoraggiarne la creazione è autolesionistico, perché favorisce l’isolamento, penalizza la via maggioritaria percorsa dalla parte integrata degli immigrati, offre una sponda alle tentazioni fondamentaliste» (in GASPARE BARBIELLINI AMIDEI, Scuole per tutti senza barriere, in «Corriere della Sera», 19 luglio 2004). 149 I quali uscivano da quella scuola senza aver appreso una parola d’italiano. Vd. ALFIO SCIACCA, Un istituto tunisino? Fallisce l’esperimento di Mazara, in «Corriere della Sera», 13 luglio 2004. 150 Vd. ALESSANDRA BADUEL, Contro Bin Laden io scelgo Allah, in La Repubblica delle Donne, suppl. La Repubblica, n. 397, 2001. 151 La semplice pronuncia, davanti a uno o più testimoni musulmani, della formula: Ashhadu an la Ilaha illa Allah, Ashhadu anna Muhammad rasulu Allah («Attesto che non vi è altro Dio all’infuori di Allah, Attesto che Mohammad è l’inviato di Dio»). 152 Sul caso di tale Roberto, che nonostante la conversione, accettata per sposare la fidanzata Fatima, continua a sentirsi intimamente cattolico, e sul carattere fittizio di tali conversioni vd. MAGDI ALLAM, «Io, convertito all’islam per amore (e per finta)», in «Corriere della Sera», 13 luglio 2004. Allam riferisce che ogni anno sarebbero circa trecento o quattrocento le conversioni di italiani all’islam. 148 – 123 – culture delle minoranze ospitate».153 L’equivoco e il malinteso sono sempre in agguato, ma con molta buona volontà d’ambo le parti, si possono superare. Occorre impadronirsi dei codici altrui, dei sistemi di valori e principi. E va detto che anche tra i giovani italiani si sta diffondendo, sia pur lentamente, il desiderio di accostarsi alla lingua e alla cultura degli altri: è recente la notizia che cinque studentesse italiane del liceo linguistico di Maddaloni (Caserta) hanno portato arabo all’esame di maturità.154 Ma anche i paesi islamici devono compiere un necessario, poderoso sforzo verso la via dello stato di diritto,155 devono in qualche misura aprirsi alla laicità,156 promuovere e tutelare i diritti inviolabili della persona e la pari dignità tra uomo e donna, condividere quei valori di libertà, democrazia e tolleranza, che sono i nostri valori, i valori dell’Occidente.157 Accadrà, allora, di non equivocare più quello che, nelle intenzioni di chi lo fa, dovrebbe essere un gesto cortese e rispettoso di saluto scambiandolo per un atto di arroganza.158 Un’ultima riflessione prima di concludere. Abbiamo voluto trattare in questo lavoro di due testi legislativi risalenti ad epoche ben diverse, ma presentanti un analogo problema: quello del rapporto tra l’individuo, con il suo modo di esplicare la persona, e lo stato, un rapporto svolto in termini di conflitto. Entrambe le soluzioni adottate prevedono che lo stato riaffermi i suoi diritti di fronte alla richiesta dell’individuo di manifestare con atti concreti e segni visibili, indossando un capo di vestiario, il suo attaccamento alle tradizioni della propria comunità, ossia di manifestare la sua identità. Le bracae erano un capo proprio dei barbari, il velo è tipico delle donne FRANCESCO PAOLO CASAVOLA, Questa non è una lite tra privati, cit. Vd. ENZO D’ERRICO, Arabo alla maturità, la sfida di 5 ragazze, in «Corriere della Sera», 27 maggio 2004. 155 Alla domanda Si può esportare lo stato di diritto nel mondo musulmano? risponde con moderato ottimismo PAOLO MIELI, in «Corriere della Sera», 6 gennaio 2004. 156 Come sta avvenendo in Tunisia (l’unico paese del mondo islamico in cui le donne non sono discriminate dalla legge) ove le donne hanno accesso anche a posti di responsabilità, vd. CRISTINA LACAVA, Le laiche signore dell’Islam, in «Io Donna», suppl. «Corriere della Sera», n. 23, 2004, pp. 68-71. 157 In questo senso va l’appello ai musulmani del filosofo siriano Bassam Tibi, a far propri i cinque elementi irrinunciabili dell’identità europea: la laicità, la democrazia, i diritti umani individuali, la società civile e il pluralismo culturale (vd. l’intervista a Bassam Tibi di CLAUDIA HASSAN, Islam chiama Europa, in «L’espresso», 9 ottobre 2003, pp. 127-128). 158 Un’esperienza tratta dalla vita militare, a proposito del saluto apparentemente “non convenzionale” di un ufficiale di marina egiziano ospite dell’Accademia Navale, come ricorda LORENZO GRECO, I gesti dei militari: forma del saluto, «I quaderni del ramo d’oro», 1, 1996, p. 159. 153 154 – 124 – musulmane. Ma questa manifestazione della propria identità fu ed è giudicata incompatibile con l’interesse della collettività, perché riflesso di valori ritenuti diversi e propri di una minoranza. Lo stato intervenne e interviene, oggi come allora, in senso repressivo, con appositi divieti: si fece visibile allora con la constitutio imperiale, leva la sua voce oggi con la legge francese sul velo. Nel primo caso, la legge di divieto delle bracae fu il puntello della declinante romanità, a tutela di essa dalla barbaritas (che comunque si era già ben insinuata nelle strutture statali e, trionfando pochi decenni dopo, avrebbe finito per dissolvere la compagine imperiale); nel secondo caso, la legge sul velo è il puntello di una vacillante laicità, una laicità che, pur messa nello spazio pubblico a dura prova dalla nuova barbarie che minaccia la convivenza civile, l’estremismo di matrice religiosa, ha però bisogno di limitare le manifestazioni di attaccamento degli individui ai loro segni di fede, siano il velo o il Crocifisso. Ma non possono bastare soluzioni legislative di tipo repressivo, perché possono dare spazio alla percezione, da parte dei soggetti colpiti dai divieti, di subire un’ingiusta discriminazione. In tempi quali quelli attuali, in cui è più che mai urgente la realizzazione della finalità dell’integrazione dei cittadini portatori di culture diverse (ossia delle varie comunità in una superiore comunità, lo stato, comunità delle comunità, fondata su principi e valori comuni e da tutti riconosciuti),159 lo stato deve intervenire perché si promuova, nel reciproco riconoscimento e sulla base dell’accettazione di principi comuni inderogabili, la pacifica convivenza tra le culture e le religioni, pena lo scadere della società civile nel comunitarismo160 o peggio nella ghettizzazione se non nel tribalismo.161 Solo La vera, grande sfida che impegna gli stati oggi è la difficile ricerca di un contemperamento tra il principio di eguaglianza dei cittadini e il riconoscimento e la tutela dell’identità collettiva delle comunità di immigrati, come ha osservato il Casavola in Il valore della democrazia, cit. Già l’autore aveva avvertito che, fermo il principio che l’integrazione di gruppi provenienti da Paesi extraeuropei non può intendersi come acculturazione imposta dalla popolazione dominante alle collettività sopravvenute, «la via dell’educazione alla conoscenza reciproca è la via necessaria per una giusta integrazione»(FRANCESCO PAOLO CASAVOLA, Il diritto alle identità, in Custodia del tempo, Roma 2004, p. 102, art. apparso su «Il Mattino», 22 ottobre 2000). 160 Sui rischi del comunitarismo, spesso associato alla xenofobia, per la stabilità democratica vd. ALAIN TOURAINE, Libertà, uguaglianza, diversità, trad. di R. Salvadori, Il Saggiatore, Milano 2002², pp. 177-180. La rottura dell’unità comunitaria, con la vanificazione del tentativo di creare una cultura forzatamente omogenea, imposta da una maggioranza alle minoranze, è una condizione indispensabile della modernità (così il Touraine, cit., p. 178). 161 Sulla tribalizzazione dell’urbanesimo, fenomeno verificatosi anzitutto in Olanda ma ormai presente in buona parte dell’Europa occidentale, vd. COMMISSIONE STASI, Rapporto sulla laicità, cit., p. 48. 159 – 125 – così gli uomini sapranno superare la logica di morte, che avvince oggi tanta parte del nostro pianeta e minaccia anche il mondo occidentale,162 e avviarsi verso la via della pace e della comprensione reciproca. 162 Vogliamo qui richiamarci alle parole conclusive di Bijan Zarmandili, applaudito ospite del nostro istituto, nella sua relazione Religione e politica nella dimensione medio-orientale, tenuta il 29 marzo 2004, nell’ambito del ciclo di conferenze su Fedi e ateismo nella civiltà contemporanea, tema di approfondimento culturale per l’a. s. 2003/2004. Le cronache dei rapporti tra mondo islamico e mondo occidentale, legati all’andamento della situazione di crisi nell’area mediorientale, sono in continuo e rapidissimo divenire, un divenire, purtroppo, costellato di violenze, stragi terroristiche, rapimenti di ostaggi innocenti (anche donne, in totale dispregio dei principi religiosi a cui si ispirano gli stessi terroristi: vd. MAGDI ALLAM, Ma per l’Islam infierire sulle donne è un sacrilegio, in «Corriere della Sera», 24 settembre 2004) e macabre uccisioni (anche nella forma, particolarmente orribile perché amplificata dalla potenza mediatica, della decapitazione degli ostaggi). L’articolo, che cerca di ripercorrere le cronache di questi tempi così travagliati, è pertanto aggiornato fino all’8 ottobre 2004 (al momento in cui scriviamo, rimangono ancora nelle mani dei loro rapitori i due giornalisti francesi Christian Chesnot e Georges Malbrunot, rapiti il 20 agosto). Ci perdoni il lettore se siamo incorsi in qualche non voluta dimenticanza. – 126 – MARIA GABRIELLA CRITELLI ∼ θoς e Λóγoς nella riflessione greca Μυ dall’età arcaica all’Ellenismo L’indagine della natura, intesa nel senso più ampio, ha da sempre affascinato l’uomo e rappresentato un campo di analisi privilegiato, vagliato – a seconda dei tempi – con una chiave interpretativa mitica o, piuttosto, razionale. All’interno della riflessione esistenziale del mondo greco antico, Mito e Filosofia hanno costituito due poli: le due vie possibili tramite cui gli antichi fornivano risposte agli interrogativi posti dalla Natura (quesiti sulle cause dei fenomeni naturali) e dal vivere stesso (meditazione intorno all’es∼θoς e Λóγoς hanno, dunque, fornito risposte diverse agli stessi insere). Μυ terrogativi esistenziali, in un percorso diacronico in cui si possono individuare tre momenti fondamentali: la nascita dell’indagine sulla natura come mitizzazione di fenomeni naturali (in età arcaica); la nascita della filosofia come riflessione razionale (in età classica); la differenziazione tra scienza e filosofia (in età ellenistica). Il mito nasce dal bisogno di spiegare la realtà, di risolvere gli interrogativi della natura; rappresenta la struttura delle credenze di un ε’´θνος, di un gruppo, nella forma di una trama che si snoda tramite personaggi in azione. Il mito stricto sensu è un racconto, che si riferisce ad un ordine del mondo anteriore a quello attuale, destinato a dare non una spiegazione particolare e limitata (è questa la funzione della semplice leggenda eziologica), ma una legge organica della natura delle cose e dell’ordine del mondo.1 Questa ripugnanza verso l’accidentale spiega la sua fortuna nel pensiero greco, avido di penetrare e spiegare le leggi eterne, e in particolare presso Platone, che, pur condannando le invenzioni immorali di Omero, servendosi del carattere simbolico del mito, creò personalmente tanti miti per veicolare le sue innovative teorie. Il mito è un racconto fantastico e trasfigurativo per interpretare la realtà o risolvere un problema e, in quanto tale, è stato utilizzato dalla religione greca, creatrice di storie, allegorie e simboli. 1 Diverse dal mito vero e proprio sono l’allegoria filosofica (come la cosmogonia esiodea), gli aneddoti, le favole o i racconti popolari, l’episodio storico arricchito di elementi favolistici, i cicli eroici. – 127 – Aristotele nel primo libro della Metafisica, testo che può essere considerato la prima storia della filosofia, operando una disamina del pensiero ∼ ’´νθρωποι του filosofico a lui precedente, parte dalla premessa che «πάντες α ’ ειδέναι ο’ ρέγονται φύσει».2 Da questa considerazione scaturiscono e si sviluppano i punti nodali della sua riflessione filosofica: il sapere è proprio della divinità, mentre proprio dell’uomo è l’aspirazione, la tensione ad esso nella consapevolezza di non sapere. Il desiderio di spiegare i fenomeni e il mondo porta a formulare ipotesi e, nelle epoche primitive, l’ignoranza fa vedere prodigi: nascono così miti e favole, prime forme di religione. All’alba della storia, l’uomo esprime l’essenza degli oggetti percepiti attraverso i sensi: mitologizza, attribuisce a tutta la natura una vita reale. La meraviglia (τó θαυµάζειν) risulta essere caratteristica essenziale dell’uomo di fronte all’essere e ineliminabile è il bisogno umano di soddisfare questa meraviglia. Di meraviglia parla Platone: «È proprio del filosofo questo [...] di essere pieno di meraviglia; né altro cominciamento ha il filosofare che questo»,3 ossia, appunto, la meraviglia. Aristotele riprende questo concetto: «gli uomini hanno cominciato a filosofare, ora come in origine, a causa della meraviglia: mentre da principio restavano meravigliati di fronte alle difficoltà più semplici, in seguito, progredendo a poco a poco, giunsero a porre problemi sempre maggiori, come i problemi riguardanti i fenomeni della luna e quelli del sole e degli astri e i problemi riguardanti l’origine dell’intero universo».4 La meraviglia, dunque, riguarda dapprima i fenomeni più elementari, poi i fenomeni celesti (ciò che spinge lo scienziato a ricercare), e infine l’origine dell’universo – e questa è la meraviglia del filosofo. Proprio la riflessione sull’origine dell’essere è la radice della filosofia e, in particolare, della metafisica, che mira alla contemplazione pura della verità, perseguendo uno scopo puramente teoretico, cioè conoscitivo – a differenza delle scienze particolari, che invece sono solitamente dirette all’attuazione di scopi empirici e alla realizzazione di fini pratici. Nella Metafisica, dunque, 2 Cfr. Metafisica, I 980a. Aristotele si rifà ai filosofi a lui precedenti per vedere in che misura abbiano contribuito a chiarire nella comune ricerca della verità quale sia la natura della sapienza e delle cause prime. Il primo libro è dunque un’introduzione storico-critica alla Metafisica, in quanto l’autore espone storicamente le dottrine dei suoi predecessori, ma al tempo stesso le critica al fine di far prevalere la propria dottrina; l’indagine non è dunque di carattere storico, ma prevalentemente teoretico. Come edizione di riferimento vd. Aristotele, Metafisica, a cura di G. Reale, Milano 1994. 3 Teeteto, 155d. Cfr. Platone, Cratilo, Teeteto, Sofista, Politico, Bari 1966. 4 Metafisica, I, 982b 12-17. – 128 – Aristotele espone quella che egli designa come filosofia prima, cioè la scienza che ricerca i principi o le cause prime dell’essere in quanto essere. Il fatto che l’uomo possa solo aspirare alla filosofia indica chiaramente che egli non possiede la sapienza: σοφóς infatti è solo il dio e la σοφία è solo di natura divina. Esistono tuttavia alcuni σοφοί – profeti, veggenti, poeti, iniziati – che la possiedono in quanto ispirati dalla divinità o in contatto privilegiato con essa. Si tratta di personaggi leggendari e semileggendari, dotati di una superiore sapienza concessa loro da un dio, come Orfeo (fondatore di misteri, profeta, poeta di Inni, Cosmogonie, Lithikà) o Museo (fondatore dei misteri eleusini, poeta di Inni e Cosmogonie), che tradizioni di diverse età collocano agli albori della cultura greca. La filosofia, dunque, platonicamente intesa come amore della sapienza, si configura come discendente ed erede di quella più antica primigenia σοφία divina, rivelata da profeti, veggenti e poeti. Proprio questa comune discendenza da tale primigenia sapienza spiega quella che Platone in un celebre passo della Repubblica (X, 607b) chiama «l’antica contesa» (παλαιά διαφορά) tra poesia e filosofia, cioè la contesa tra poeti e filosofi riguardo alla superiorità del proprio sapere e per il primato nella funzione di educatori della πóλις. Fin dall’inizio infatti i filosofi si presentano come successori degli antichi sapienti, in particolare dei poeti, e ad essi intendono sostituirsi nella loro funzione educativa5. La nascita della filosofia in Grecia nel VI secolo è stata vista spesso come un evento improvviso e miracoloso, ma in realtà essa è preceduta da una lunga fase di formazione ed elaborazione del mito che comincia in età micenea e culmina con Omero ed Esiodo. Aristotele si sofferma sul rapporto tra φιλóµυθος (tra cui annovera Omero, Esiodo, Orfeo, Museo, definiti anche antichi teologi) e φιλóσοφος, non tra mito e filosofia, ma tra chi ama il mito e chi ama la filosofia. La «meraviglia», nata dalla consapevolezza della propria ignoranza, è amore o aspirazione verso qualcosa che può essere appagata tramite il mito – ovvero la fantasia – o la sapienza – ovvero la razionalità. «Chi è nell’incertezza o nella meraviglia crede di essere nell’ignoranza (perciò anche chi ama il mito è in un certo qual modo filosofo, giacché il mito è costituito di cose meravigliose); e quindi se è vero che gli uomini si diedero a filosofare con lo scopo di sfuggire all’ignoranza, è evidente che essi perseguivano la 5 Si pensi alla lingua poetica usata dai primi filosofi, alle critiche di Senofane contro la visione antropomorfica degli dei di Omero ed Esiodo, alla condanna di Platone di tutta la tradizione poetica greca, da Omero alla tragedia del V secolo. – 129 – scienza col puro scopo di sapere e non per qualche utilità pratica».6 Aristotele stabilisce dunque un rapporto analogico tra colui che ama il mito e il filosofo, giocando sull’etimologia delle parole: essi sono accomunati dalla φιλία, ovvero dall’amore verso qualcosa, ma si differenziano proprio per quel qualcosa a cui tendono, che in un caso è il mito, nell’altro la sapienza. Il punto di partenza è dunque il medesimo, la «meraviglia» e la consapevolezza della propria ignoranza, ma profondamente diverso il punto di arrivo, giacché nel caso del mito la risposta è fantastica, nel caso della sapienza è posta nella razionalità. Aristotele dimostra dunque come, di fronte ai problemi suscitati dalla natura, queste siano le soluzioni avanzate in due diversi momenti della cultura greca, successivi l’uno all’altro, rispettivamente dai poeti e dai filosofi: quando la sapienza viene cercata in luogo del mito come risposta alla meraviglia nasce la filosofia.7 Nel primo libro della Metafisica, Aristotele, per introdurre la nascita della filosofia, illustra come i “teologi” 8 abbiano ritenuto di poter risolvere gli interrogativi posti dalla natura non filosofando, ovvero ricercando la causa prima mediante argomenti razionali, ma teologizzando, ricorrendo al mito, divinizzando la natura e facendo coincidere i vari aspetti di essa con varie divinità. Platone, nel Cratilo e nel Teeteto, aveva affermato che Eraclito e i suoi predecessori avevano derivato le loro filosofie da Omero, Esiodo, Orfeo; nel terzo capitolo, Aristotele riferisce che, secondo «alcuni», la concezione della natura elaborata da Talete sarebbe stata professata già prima di lui dagli antichi teologi, in particolare da Omero, che, ponendo Oceano e Teti come genitori del divenire, avrebbe concepito la natura essenzialmente come acqua. Sospende tuttavia il giudizio su quelli che vedevano in Omero, Esiodo e Orfeo i predecessori di Talete 9 e afferma che Metafisica, I 982 b 17-21. Metafisica, I 983a. 8 Aristotele identificava con questo termine (θεολογήσαντας), da intendersi in senso razionale-filosofico e non dogmatico, chi ricerca le cause prime dell’essere in enti che trascendono la natura e dunque sono divini: la teologia individua nel divino una delle cause prime dell’essere che l’ontologia ricerca. 9 Cfr. Omero, Il., XIV, 201ss ed Esiodo, Theog., 115ss. In Omero, Oceano è detto “genesi” degli dei e sua moglie Teti è chiamata madre. La Teogonia esiodea, la più antica giunta fino a noi, è teogonia e cosmogonia insieme: tutti gli elementi del mondo naturale sono dei; vi troviamo delineata anche la forma di questa successione: la genealogia. Elementi naturali (come la terra, il cielo, il mare), forze o sentimenti (come l’amore, la discordia, il biasimo), potenze normative (come la giustizia), stati che toccano i viventi (come la morte, la pace) sono legati e intrecciati tra loro grazie alla genealogia e la loro comparsa nel mondo si delinea in una succes6 7 – 130 – prima di lui tutto è insicuro: è Talete l’iniziatore dell’indagine filosofica perché per primo si chiese quale fosse il principio di tutte le cose determinandone la natura e intendendola come acqua in base all’osservazione e al ragionamento10 – benché la terminologia usata da Aristotele per introdurla non consenta di stabilire in quale misura questi ne fosse consapevole.11 Talete, da sempre considerato l’iniziatore del pensiero filosofico, costituisce un momento di transizione nella storia del pensiero antico: viene già considerato filosofo (nonché matematico e astronomo), ma alcuni elementi legati alla sua personalità sono ancora “mitici”.12 Aristotele sottolinea come i filosofi arcaici generalmente compongono un’opera sola (poi intitolata περὶ φύσεως) nella quale è concentrata tutta la loro visione del mondo e che intende trasmettere una conoscenza globale intorno all’essenza della realtà e ai suoi principi. Il sapere che il filosofo arcaico rivela, sebbene sostenuto da prove di vario genere, è una verità intuita e proclamata più che una conoscenza raggiunta dopo lunga riflessione e dimostrata o dedotta per mezzo di rigorose argomentazioni. Comunque, Aristotele pone i primi filosofi in posizione differente rispetto alla mitologia dei cosiddetti poeti-teologi: distingue nettamente tra poeti, “teologi” e “filosofi” (all’inizio “fisiologi”),13 relegando i primi nel passato remoto e sione temporale scandita dalla nascita dell’uno dall’altro. Si noti inoltre che anche una teogonia orfica aveva posto come principio primo l’acqua. 10 Il verbo utilizzato da Aristotele è οράω: ’ il sapere è in fondo un vedere, non sensibile ma intellettivo. Talete ritenne che l’acqua, su cui la terra galleggiava, fosse il principio poiché l’umido costituisce il nutrimento di tutte le cose (è dunque ciò che garantisce la vita) e perché i semi di tutte le cose hanno natura umida (il cui principio è l’acqua). 11 Aristotele usa a questo proposito l’avverbio ’ι´σως, che avrebbe la valenza di “forse”, “probabilmente”. 12 Notizie biografiche ci vengono fornite da Erodoto (I, 74), che ricorda come Talete, di nobili origini fenicie (Diogene Laerzio ce ne fornisce la genealogia), partecipò alla vicende politiche di Mileto e predisse un’eclissi di sole, poi identificata con quella del 585 a.C., che ha permesso di fissarne la cronologia; Apollodoro (II a.C.) dice che in quell’anno si colloca l’akmè del filosofo, che si ipotizza dunque sia nato intorno al 625, mentre la sua data di morte viene fatta coincidere con la caduta del regno di Lidia e di Sardi (545). Gli si attribuiscono teoremi di geometria (iscrizione di un triangolo rettangolo in un cerchio, studio delle figure, poligoni e triangoli, linee), la scoperta dell’Orsa minore, lo studio dei solstizi e della grandezza del sole, la spiegazione delle inondazioni del Nilo, la divisione del mese in giorni. Secondo alcuni non lasciò nessuna opera, secondo altri scrisse due trattati: Sul solstizio e Sull’equinozio. 13 La σοφία è caratteristica del filosofo ma anche del poeta; non esiste tuttavia una terminologia differente per individuare il filosofo e lo scienziato (designati φιλóσοφος, σοφιστής o φυσικóς), che si identificano in colui che studia i fenomeni naturali, tanto scienza e filosofia sono inizialmente commiste; definizione più recente è µαθηµατικóς, che indica colui che si specializza nelle scienze esatte. – 131 – facendo iniziare i secondi da Talete, il primo a cercare di capire la natura senza far ricorso agli dei. Talete viene quindi identificato come l’iniziatore della filosofia di coloro che ponevano solo principi di tipo materiale (materia e sostrato).14 Diversa è invece la visione di Diogene Laerzio, esposta nelle Vite dei Filosofi:15 nel proemio, questi inserisce Talete tra i Sette Sapienti e attribuisce l’inizio storico della filosofia ad Anassimandro, discepolo di Talete, e Pitagora.16 Diverso è anche l’approccio dei due autori: mentre l’ottica aristotelica è essenzialmente critica e teoretica, quella di Diogene Laerzio risponde a un’impostazione prettamente aneddotica e dossografica e le opinioni dei filosofi sono riportate senza alcun interesse per le cause. Diogene risente altrettanto della impostazione biografica di ascendenza aristotelica, che, per il tramite di Teofrasto, prendeva piede in questo periodo: in questa prospettiva, la biografia era strettamente connessa all’etica e scopo del biografo era ricostruire l’ε’´θος del personaggio, sicché essa si qualificava come laudativa o denigratoria, spesso sulla base di numerosi aneddoti, per lo più inventati. Talete è dunque in Diogene annoverato tra i Sette Sapienti,17 generalmente identificati con reggitori di Stato, legislatori e giudici; a loro veniva attribuita la qualifica di σοφóς, saggio, come agli antichi sapienti Orfeo, Museo: erano saggi nel senso di esperti, che avevano saputo guidare in porto la propria vita. A questo riguardo, tradizioni antiche attribuivano a Talete detti ispirati a ideali di moderazione e massime di buon senso, che consigliavano prudenza e misura e invitavano alla conoscenza di sé e dei limiti dell’uomo di fronte alle divinità.18 I racconti e gli aneddoti di cui i Sapienti erano protagonisti costituivano la cornice che faceva da sfondo alla 14 I primi filosofi hanno in comune la concezione dei principi primi come di tipo materiale, pur differenziandosi relativamente al numero (principio unico o molteplice) e alla natura di esso (aria, fuoco, acqua, terra, semi, omeomerie): avevano cioè affermato che elemento e principio degli enti è ciò di cui questi sono fatti (la materia di cui è fatta una cosa, sostrato che accoglie la forma che lo struttura), da cui si generano e in cui vanno a finire, perché la sostanza (ουσία) non muta, pur cambiando nei suoi aspetti. Cfr. I presocratici: testimonianze e frammenti, introduzione di G. Giannantoni, Roma-Bari 1993 (trad. da H. Diels - W. Kranz, Die Fragmente der Vorsokratiker); vd. anche H. G. Gadamer, Il cammino della filosofia. Il mistero delle origini, in Enciclopedia Multimediale delle Scienze Filosofiche, Rai Educational (www.emsf.rai.it/gadamer/pagine/intro.htm). 15 Cfr. Diogenes Laertius, Vitae Philosopharum, ed. H. S. Long, Oxford 1964. 16 Nel proemio Diogene discute dell’origine della filosofia, legata al mondo orientale, della distinzione tra filosofia e σοφία, delle linee principali della filosofia greca. 17 Tra i Sette Sapienti lo includeva anche Platone in Protagora 343. 18 Cfr. I presocratici..., op. cit., p. 74. – 132 – massima o al detto pronunciato. Il più famoso, riportato da Diogene, è quello del tripode trovato nel mare di Cos e destinato dalla Pizia all’uomo più sapiente: inviato dapprima a Talete, fu da questi mandato da uno ritenuto da lui più sapiente, che a sua volta lo inviò ad altri, finché al termine di un lungo giro tornò a Talete, che lo consacrò ad Apollo. Altri aneddoti ridicolizzano invece la sua inclinazione filosofica, in particolare quello secondo il quale un giorno Talete, tutto assorto nella contemplazione delle stelle, cadde in un pozzo, suscitando l’ironia di una servetta tracia.19 Ma a tale immagine sembra replicare un altro aneddoto secondo cui Talete, avendo previsto per mezzo di osservazione degli astri un abbondante raccolto di olive, si accaparrò tutti i frantoi di Mileto e di Chio, che affittò poi ad alto prezzo ricavandone un gran guadagno.20 Secondo Aristotele solo dopo aver usato la conoscenza per soddisfare le necessità materiali (cioè la φρóνησις) e il desiderio del piacere gli uomini cercano la σοφία, che è conoscenza delle cause prime, dunque scienza speculativa, non produttiva. L’uomo alza, allora, il livello della sua «meraviglia» da ciò che fa meraviglia al senso comune verso problemi sempre più difficili, fino alla meraviglia totale, all’origine del tutto, dunque alla ricerca dei principi primi della realtà. Tra VI e V secolo a.C. lo studio della natura (fisica, astronomia) e le scienze matematiche costituirono parte integrante della riflessione filosofica.21 La pretesa aristotelica che la ragione cogliesse le supreme cause e i supremi principi fu invece abbandonata già dai primi discepoli di Aristotele e poi dagli scienziati alessandrini, che pur si mossero in direzioni diverse; essi accantonarono la pretesa all’assoluto, dimostrando dialetticamente le ragioni della sua insufficienza e puntarono invece sulla capacità umana a costituire il proprio mondo.22 La scienza nasce nel mondo greco con la civiltà ellenistica e con le conquiste di Alessandro Magno per il nuovo tipo di relazioni instauratesi tra la civiltà greca e le antiche civiltà 19 Questo aneddoto fu narrato anche da Platone (Teeteto 174a), che di Talete fa il simbolo stesso del filosofo dedito esclusivamente all’indagine e alla riflessione. 20 Cfr. anche Aristotele, Politica I, 11, 1259a. 21 Una delle caratteristiche della scienza antica è l’unità di tutta la scienza esatta, strutturata essenzialmente come un insieme di teorie scientifiche, all’interno del quale una, la matematica euclidea, aveva un ruolo privilegiato (non esisteva ancora la divisione tra matematica e fisica). 22 La tradizionale collocazione delle scienze esatte nel campo della filosofia fu certamente di grande ostacolo allo sfruttamento pratico delle scoperte che venivano fatte nei vari settori poiché la scienza applicata fu sempre vista in una posizione ancillare (Platone era contrario a ogni applicazione pratica della matematica) e la meccanica fu sfruttata praticamente solo per scopi militari. – 133 – egiziana e mesopotamica, in possesso di conoscenze empiriche e di un livello tecnologico sicuramente superiore. Non a caso l’inizio della matematica ellenica era attribuito a Talete o a Pitagora, di entrambi i quali si diceva che fossero nati in Egitto, e di Pitagora anche in Oriente. Ciò che cambia rispetto al passato è che la scienza della natura viene basata su teorie assiomatiche-deduttive e diventa quantitativa e sperimentale. Rispetto all’approccio universalistico e alla ricerca delle cause ultime che hanno caratterizzato le prime fasi del pensiero greco, la scienza ellenistica diventa specialistica; tuttavia, scienza e filosofia non diventano dottrine isolate e cristallizzate nelle loro particolarità, ma fonti di sapere e livelli di consapevolezza nei quali, storicamente, il punto di approdo non è separabile dalle procedure per raggiungerli: la filosofia è quindi intrinseca al procedimento scientifico e viceversa.23 Nello sviluppo del pensiero greco e nel passaggio dall’epoca classica a quella alessandrina, tramite la mediazione di Teofrasto, è la φρóνησις a imporsi con decisione sulla filosofia naturale fino a diventare scienza esatta, scienza “sperimentale”, basata su un metodo scientifico-dimostrativo.24 La cultura ellenistica si nutre dell’apporto degli scienziati per i quali Alessandria diventa punto di riferimento costante con l’istituzione del Museo, luogo eletto degli studi dotti e specialistici e luogo cosmopolita, dove si svolge in ambiti diversi – sia filologico che scientifico – la ricerca di un metodo rigoroso. Presso la corte alessandrina il ruolo svolto dagli scienziati è di particolare rilevanza: c’è affinità e convergenza tra gli orientamenti della scienza e quelli generali della cultura.25 L’influsso politico esercitato sulla scienza è indubbio: i dinasti intrattenevano rapporti personali, diretti ed epistolari, con i vari studiosi e fitti erano anche i rapporti tra gli studiosi stessi. Il complesso processo di unificazione politico-economico-culturale ingloba nella cultura greca anche l’apporto delle culture sottomesse, egiziana e babilonese soprattutto. A questo riguardo, Russo parla di «rivoluzione dimenticata», soste23 Si pensi alla filosofia peripatetica, che abbandona la concezione gerarchica delle scienza, teorizzata da Platone, per una concezione che insiste sul carattere di autonomia di ogni singola scienza, definita dalla specificità dei suoi principi e dalla determinatezza del suo oggetto ’ tra scienze particolari e scienza universale). (cfr. rapporto tra τέχνη ed επιστήµη, 24 Per questo concetto cfr. L. Russo, La rivoluzione dimenticata. Il pensiero scientifico greco e la scienza moderna, Milano 1996, passim. 25 Cfr. G. Giannantoni, Su alcuni problemi circa i rapporti tra scienza e filosofia nell’età ellenistica, in La scienza ellenistica. Atti delle tre giornate di studio tenutesi a Pavia dal 14 al 16 aprile 1982, Napoli 1984; vd. anche F. Adorno, La cultura ellenistica: filosofia, scienza e letteratura, vol. 9 di Storia e Civiltà dei Greci, a cura di R. Bianchi Bandinelli, Milano 1991. – 134 – nendo che la nascita della scienza moderna affonda le sue radici nel pensiero scientifico greco e va pertanto retrodatata fino al IV secolo a.C.26 Con Euclide, sistematizzatore del pensiero matematico precedente, si formalizza un metodo scientifico e un linguaggio matematico codificato, nasce il metodo sperimentale. Le sue teorie scientifiche non riguardano oggetti concreti ma enti astratti: gli enti (cerchi, angoli, rette) sono definiti a priori e sulla base di questi si attivano le dimostrazioni.27 La teoria assume dunque una struttura deduttiva, basata su assiomi, che fornisce metodi generali per risolvere attraverso dimostrazioni e calcoli un numero indeterminato di problemi. Euclide e Archimede non furono isolati e incerti precursori di una forma di pensiero che si sarebbe sviluppata solo nel XVII secolo, furono bensì esponenti di spicco di una vasta schiera di raffinati scienziati di cui facevano parte Aristarco di Samo, ideatore dell’astronomia eliocentrica, Ipparco, anticipatore della teoria della gravitazione, Eratostene di Cirene, che fu in grado di fornire una misura straordinariamente precisa della lunghezza del meridiano terrestre.28 La personalità di quest’ultimo è particolarmente L. Russo, op. cit., passim Nella matematica pre-ellenica l’astrazione era assente e i concetti si basavano sui soli oggetti concreti (cfr. idea del rettangolo/tavolo); con Talete si ha l’inizio della speculazione geometrico-matematica e la “liberazione dalla materia” (nascono i primi enti geometrici astratti, come il punto senza dimensioni, la linea senza lunghezza); con Pitagora si perfeziona la geometria e si concepiscono grandezze incommensurabili. Platone rappresenta un momento di transizione, in quanto non riesce a dimostrare ciò che intuisce (cfr. l’incommensurabilità del lato e della diagonale del quadrato e l’intuizione dell’esistenza di numeri irrazionali, affrontata in Menone 82b9-e6). La concezione platonico-aristotelica privilegiava il ragionamento astratto, per cui l’Idea o la Monade (esprimendo il concetto matematico dell’unità) rappresentavano un essere astratto perfetto da cui si procedeva poi verso la descrizione della realtà; Euclide, invece, sottrae agli Enti in quanto tali una propria realtà oggettiva: l’ente ideale esiste solo in funzione dell’operazione concreta e reale che lo “costruisce”. In questo passaggio, importante fu il ruolo di Eudosso di Cnido, che svolse una funzione di collegamento tra la matematica dell’Accademia ed Euclide stesso. Per questi concetti cfr. A. Frajese, Attraverso la storia della matematica, Firenze 1971, pp. 5ss; E. Berti, L’analisi euclidea e l’analitica aristotelica, in La scienza ellenistica. Atti delle tre giornate di studio tenutesi a Pavia dal 14 al 16 aprile 1982, Napoli 1984; G. Cambiano, Il metodo ipotetico e le origini della sistemazione euclidea della geometria, in “Rivista di filosofia”, LVII, 1967, pp. 115-119; Ch. Mugler Dictionnaire historique de la terminologie géométrique des Grecs, Paris 1958. 28 Aristotele aveva dimostrato che la terra fosse sferica (pare lo avesse già sostenuto Pitagora), mentre un suo discepolo, Dicearco, aveva fissato una linea di latitudine fondamentale (determinata in base all’ombra proiettata da pali) da Gibilterra all’Himalaya; Eratostene fissò un meridiano, passante per Alessandria, che usò per compiere il suo famoso calcolo (misurazione angolare) della circonferenza terrestre, che espose nell’opera Sulla misurazione della terra, per noi perduta ma di cui ci è giunto un resoconto tramite Cleomede (I secolo d.C.), in Caelestia, I, 7, 49ss (cfr. Cleomede, Caelestia, ed. Todd, Leipzig, 1990). In generale vd. L’astronomie dans l’antiquité classique, Actes du Colloque tenu à l’Université de Toulouse - Le Miralil, 21-23 octobre 1977. 26 27 – 135 – significativa, in quanto Eratostene non fu solo uno scienziato, bensì una figura poliedrica, frutto della complessità del sistema culturale alessandrino: fu uno studioso molto versatile e per la vastità e la disparità dei suoi interessi e delle sue ricerche fu soprannominato πένταθλος (eclettico) e, dai ∼τα poiché era secondo dopo lo specialista (α’´ λφα) in ogni mapiù critici, βη teria. Da φιλολογία egli coniò per sé il termine φιλóλογος (studioso di fatti culturali); fu allo stesso tempo filosofo, matematico, geografo, astronomo, grammatico, poeta.29 Altra figura emblematica di scienziato è quella di Archimede, i cui tratti caratteristici vengono descritti da Plutarco nella Vita di Marcello.30 In maniera aneddotica e a volte quasi ironica vengono ricordate le più importanti invenzioni dello scienziato: le macchine belliche felicemente utilizzate dai siracusani contro i romani; l’invenzione della leva, che si racconta avvenuta quasi casualmente, un giorno in cui Archimede al cospetto del re si sostituì 29 Mentre molti furono i letterati alessandrini che affiancarono alla poesia il lavoro dotto (Filita, Callimaco, Apollonio Rodio), Eratostene fu soprattutto un dotto e uno scienziato, che non disdegnò di realizzare anche qualche opera poetica, pur sempre intrisa del suo gusto per l’erudizione e l’eziologia, in uno stile ricercato, ma piuttosto freddo, che l’Anonimo del Sublime definiva negativamente «irreprensibile». Allievo di Callimaco ad Alessandria, proseguì poi gli studi ad Atene, dedicandosi soprattutto alla filosofia accademica e stoica, ritornando ad Alessandria nel 245, richiamato da Tolomeo III Evergete in qualità di successore di Apollonio Rodio nella direzione della Biblioteca e di precettore per il figlio, il futuro Tolomeo IV Filopatore. Nulla sopravvive della sua opera, di carattere sia poetico che scientifico, se non citazioni sparse. Della sua produzione scientifica, oltre alla Misurazione della terra, si hanno testimonianze indirette delle seguenti opere: le Cronografie, in 9 libri, che presentavano in forma di tavole un sistema cronologico ragionevolmente chiaro e accurato della storia greca, a prescindere dal mito, che cominciava con la caduta di Troia (che lui datava al 1184 a.C.) e terminava con la morte di Alessandro Magno (323); la Geografia, in tre libri, prima descrizione completa del mondo abitato, che spaziava nei riferimenti da Omero all’epoca a lui coeva; l’opera era completata da un mappamondo relativamente accurato sul quale egli proiettò le proprie misure e che forse comprendeva due assi fondamentali di longitudine e latitudine. Tra le opere poetiche si ricordano: l’epillio Hermes, che narrava la nascita e le avventure del dio, in particolare, la sua ascesa al cielo forniva un’occasione per una descrizione della struttura del cosmo; l’Herigone, in distici elegiaci, è un racconto di una celebre saga attiva cui si intrecciano motivi eziologici. Tra le opere in prosa di carattere non scientifico si ricordano: i Catasterismi ovvero le Trasformazioni in astri, un’opera in prosa dove erano esposte leggende sull’origine delle costellazioni. Si tratta dell’unico scritto giunto a noi sotto il suo nome, tuttavia tramandato in una tarda rielaborazione, che altera la stesura originale con drastiche modificazioni; Sulle virtù e sui vizi e Sulla ricchezza e sulla povertà, due saggi di morale; Sulle scuole filosofiche, di impostazione storica. Un’opera di carattere letterario: il trattato Sulla commedia antica, in 12 libri, dove si discutevano problemi linguistici, testuali, cronologici, antiquari, opera di valore per la documentazione che ci fornisce. 30 Cfr. Vita di Marcello, 19. Per l’edizione cfr. Plutarco, Vite Parallele, Milano 1988. – 136 – da solo ad un equipaggio che non riusciva ad ammarare una nave, riuscendovi con la sola forza di una mano.31 Di Archimede si ricordano anche le bizzarre abitudini e le caratteristiche caratteriali, legate all’ε’´θος del “personaggio”: il disegnare in continuazione figure, «nelle terme, mentre i servi lo ungevano, tracciava con l’olio figure sul suo corpo»; la distrazione “filosofica” che lo portò alla morte, come già era successo a Talete. Da Plutarco ci viene dunque rappresentato un personaggio stravagante ideatore di stravaganti invenzioni;32 non si parla invece della sua attività speculativa,33 se non tramite l’aneddotico riferimento alle figure geometriche rappresentate per sua volontà sulla sua tomba.34 I rapporti che intercorsero tra Archimede ed Eratostene, di pochi anni più giovane, permettono inoltre di riflettere sulle modalità sociali dei rapporti tra gli eruditi in età alessandrina. Archimede dedica all’amico due opere: Il metodo e Il problema dei buoi.35 La prima, che contiene un sincero elogio di Eratostene, viene a questi inviata con lo scopo di confrontare i risultati dei propri esperimenti con quelli del dotto amico; in quest’opera Archimede enuncia il proprio metodo di ricerca scientifica, che nasce da un’intuizione “fisica” del fenomeno, che solo in un secondo momento viene verificato sulla base di un ragionamento assiomatico-deduttivo, tramite costruzioni meccaniche pratiche – procedendo quindi alla dimostrazione geometrica con il ragionamento scientifico. Il problema dei buoi rappresenta invece un παίγνιον, uno scherzo letterario: si tratta di un epigramma di ventidue distici in cui, con un raffinato gioco intellettuale, Eratostene è chiamato alla sfida rappresentata da un difficile quesito, la soluIl principio della leva elaborato da Archimede, per il quale con opportuni dispositivi è dato sia alzare un peso che spostarlo verso una direzione specifica, ha assoluta valenza scientifica, basandosi sul calcolo preciso del rapporto peso/forza (P/F). Cfr. L. Russo, op. cit., pp. 91 ss. 32 L’aneddotica coagulata intorno alla sua figura, congiunta alla scarsissima diffusione delle sue opere, accomunano Archimede più ai personaggi del mito o della leggenda che ad altri pensatori. Il risultato è di ricordarlo come un personaggio leggendario, al di fuori della storia, respingendolo nell’aneddotica. Russo, in op. cit. nota inoltre come non sia un caso che Archimede sia il nome italiano del personaggio di Walt Disney amico di Paperino, che correva gridando “eureka”. 33 Si ricordino per la matematica e la geometria le opere Conoidi e sferoidi e Sulla sfera e il cilindro; per la fisica i trattati Sull’equilibrio dei piani e Sui corpi galleggianti (l’idrostatica nasce proprio con quest’opera di Archimede). Il suo è un metodo scientifico, che si avvale di argomentazioni rigorosamente geometriche, sulla base dei postulati di Euclide. 34 Cfr. Cicerone, Tusc. V, 64-66, dove l’autore latino afferma di aver trovato la tomba di Archimede, ai tempi della sua questura in Sicilia, proprio grazie a questa indicazione. 35 Cfr. Archimède, Le methode, Le probleme des boeufs, ed. Ch. Mugler, Paris 1971. 31 – 137 – zione del problema sul calcolo delle mandrie del Sole, citate da Omero nell’Odissea.36 Un altro gioco intellettuale tra mito e “scienza” viene fornito dall’epigramma 418 del libro IX dell’Anthologia Palatina, in cui un mulino ad acqua, opera dell’ingegno umano, con il suo movimento automatico, permette alle donne di riposarsi e di non girare la macina. Esso, nella sua tecnica perfezione, viene mitizzato come dono di Demetra: la natura non è più divinizzata in quanto incomprensibile per l’uomo, piuttosto la capacità tecnica dell’uomo si è talmente evoluta che la sua perfezione fa pensare a qualcosa di divino: 37 , ∼ ∼ ´Ισχετε χειρα µυλαινον, α’ λετρίδες, ευ‘´δετε µακρά ∼ρυς α’ λεκτρυóνων. κη’´ν ο’´ρθρον προλέγη γη ∼ν ε’ πετείλατο µóχθους⋅ ∆ηὼ γὰρ Νύµφαισι χερω αι‘ δὲ κατ′α’ κροτάτην α‘ λλóµεναι τροχιὴν ∼ ’ α´ξονα δινεύουσιν, ο‘´ δ′α’ κτίνεσσιν ε‘ λικταις ∼ Νισυρίων κοι∼λα βάρη µυλάκων. στρωφα ' Γευóµεθ′αρχαίου βιóτου πάλιν, ει’ δίχα µóχθου ∼ς ε’´ργα διδασκóµεθα. δαίνυσθαι ∆ηου 36 Cfr. Od. XII, 127 Il quesito è posto con raffinata attenzione agli aspetti linguistico-let∼ν, σοφίης, αι’´δρις. terari: viene infatti utilizzato un linguaggio “omerico”: cfr. ’Ηλίοιο Βοω L’enigma è peraltro rimasto irrisolto fino alla fine dell’800, quando un’équipe di matematici tedeschi riuscì ad impostare le sette equazioni lineari ad otto incognite, che portarono alla soluzione. 37 Cfr. come edizione di riferimento: Anthologie grecque. Première partie. Anthologie Palatine, tome VIII, ed. P. Waltz - G. Soury, Paris 1974. – 138 – EDMONDO DE LIGUORI “Spegnere il fuoco con il fuoco”: fenomenologia della vita e filosofia della tragedia * A tutti i miei studenti dell’Orazio Ogni grande epoca storica è stata contrassegnata dal primato di un particolare movimento di pensiero con il quale in qualche modo si è identificata o tendiamo a identificarla: così l’idealismo tedesco, per esempio, è l’Ottocento, l’empirismo inglese il Settecento, il razionalismo cartesiano il XVII secolo, Tommaso d’Aquino il XIII secolo, Platone e Aristotele il mondo antico e così via. Questa operazione tuttavia sembra problematica, se non impossibile, riguardo il Novecento, secolo in cui l’estrema moltiplicazione e frammentazione dei saperi ha investito anche la riflessione filosofica (ammesso che si sappia realmente di cosa quest’ultima sia propriamente un sapere): è sufficiente infatti anche solo aprire un qualsiasi testo di storia della filosofia (compresi i manuali scolastici) alle pagine dedicate al XX secolo per venire letteralmente sommersi da un’estrema quantità di nomi, indirizzi e scuole di pensiero e loro applicazioni, in larga parte tutt’altro che irrilevanti o poco significativi e spessissimo in radicale contrasto tra loro; e in questo magma può capitare spesso di incontrare interi capitoli dedicati alle più varie scienze umane (dalla sociologia all’etnologia, dall’antropologia alla linguistica) nelle quali la filosofia sembra essere risolta senza che più nulla giustifichi il fatto di continuare a chiamarla con questo nome. Sembrerebbe allora estremamente difficile ricondurre a una qualche unità un materiale così intricato ed eterogeneo a meno di scelte drastiche e inevitabilmente unilaterali (come ben sanno gli insegnanti di questa disciplina nelle classi terminali della scuola secondaria superiore quando si accingono alla programmazione della propria didattica). E * Ripropongo con aggiunte e modifiche il testo che ho presentato al convegno internazionale dedicato a Michel Henry Michel Henry: La philosophie et son histoire svoltosi a Parigi dal 20 al 22 novembre 2003 all’Université Paris IV Sorbonne e i cui Atti sono in corso di pubblicazione, in lingua francese, presso le edizioni Beauchesnes. Ringrazio il collega Prof. Mario Carini per l’invito che mi ha rivolto a pubblicarlo in questa miscellanea di studi da lui curata. L’espressione “spegnere il fuoco con il fuoco”, che sarà chiarita nel corso del testo, proviene da un artista e poeta mio amico Piero (Paolo) Missigoi che ringrazio affettuosamente. – 139 – tuttavia questa esigenza di unità resta ineludibile se anzitutto vogliamo continuare a parlare di “filosofia” senza usare questa parola in base a un riflesso condizionato, solo per ossequio o nostalgia di una tradizione venerabile ma finita per sempre anche se probabilmente questo sforzo risulta praticabile esclusivamente sul piano di un ideale puramente regolativo della conoscenza e della ricerca. Un possibile modo di soddisfare questa esigenza è innanzitutto quello di individuare i problemi, le domande essenziali sottese a posizioni filosofiche anche molto diverse e apparentemente incongruenti; in secondo luogo quello di selezionare un autore o uno stile di pensiero in base alla portata della influenza che ha esercitato anche al di fuori dell’ambito filosofico (che non coincide necessariamente con la sua notorietà). Con questo nostro lavoro vorremmo fornire un esempio di applicazione di questa metodologia fornendo allo stesso tempo un contributo all’orientamento nel vasto panorama della filosofia del Novecento attraverso il chiarimento di una questione che attraversa il più importante pensiero contemporaneo e cioè il problema della crisi della rappresentazione all’interno di uno dei più significativi indirizzi del pensiero moderno cioè la fenomenologia nella speciale versione che ne ha dato uno dei più importanti e misconosciuti filosofi francesi del Novecento, Michel Henry. Dei grandi fenomenologi francesi del XX secolo (Merleau-Ponty, Lévinas, Ricoeur) Henry è sicuramente, e non solo in Italia, il più sconosciuto. Nato in Vietnam nel 1922, studia filosofia a Parigi, insegna quindi presso l’università di Montpellier e pubblica molteplici opere dedicate ai temi della corporeità e della soggettività, dell’incarnazione e dell’affettività le più importanti delle quali sono indubbiamente L’essence de la manifestation del 1963 e Philosophie et phénoménologie du corps del 1965, testi nei quali viene articolato il progetto della cosiddetta “fenomenologia materiale” con la quale si consuma la presa di distanza dalla fenomenologia di matrice husserliana. Ha inoltre sviluppato i risultati della sua riflessione applicandola a vari ambiti, dal marxismo alla pittura di Kandinsky, dalla storia della filosofia alla psicoanalisi, dal cristianesimo alla crisi dei regimi comunisti dell’est europeo fino alla più bruciante attualità sullo stato della cultura nell’Occidente contemporaneo. È stato anche autore di romanzi alcuni dei quali hanno vinto importanti premi letterari. Michel Henry è morto nel luglio 2002.1 1 Per notizie più dettagliate sulla biografia e le opere di Michel Henry si può consultare il sito internet www.michelhenry.com che contiene anche una dettagliata presentazione di alcune delle sue opere principali. Per notizie sulle edizioni italiane rimandiamo all’Appendice alla fine del saggio. – 140 – La scelta della fenomenologia in Henry è dettata innanzitutto dalla radicalità con cui questa, in una fase storica caratterizzata dallo scientismo e dalla minaccia per la filosofia di essere assorbita all’interno delle cosiddette scienze umane ha riproposto il tema fondamentale della filosofia, la domanda che ne giustifica la ragion d’essere: cos’è l’apparire? Vale a dire: oggetto della fenomenologia non sono fenomeni o classi di fenomeni oggettivi ma il modo con cui sono dati i fenomeni, le condizioni per cui possiamo parlare di qualcosa come un fenomeno per noi. Ogni oggetto della nostra esperienza dalla semplice percezione sensibile a una complessa operazione intellettuale, da uno stato d’animo a una intensa emozione estetica, hanno in comune il fatto che qualcosa ci è “dato”, offerto come contenuto in una apparizione che si differenzia radicalmente da ciò che appare in essa (come l’atto del vedere in se stesso si differenzia dal vedere qualche cosa) e che in se stessa a sua volta non appare: ora, la domanda della fenomenologia investe proprio questo “apparire puro”, questo “come” dell’apparire, non dunque un oggetto determinato ma come sosteneva Husserl in un testo continuamente ricordato da Henry, gli “oggetti nel come” (“Gegenstände im Wie”),2 quel “come” che Henry definisce la fenomenalità del fenomeno. Merito assoluto della fenomenologia di Husserl è stato quello di aver riattivato nella cultura del Novecento questa istanza filosofica fondamentale che definisce la stessa identità della riflessione filosofica. Tuttavia, secondo Henry, lo stesso Husserl non si è mantenuto all’altezza, per così dire, di questa domanda poiché ha travisato radicalmente il senso dell’apparire puro: cerchiamo di chiarire questo punto fondamentale perché è qui che emerge il tratto peculiare della pratica fenomenologica di Henry. L’apparire dell’apparire, l’apparire puro, la “fenomenalità del fenomeno” coincide in Husserl con la rappresentazione: il “come” dell’apparire dei fenomeni è infatti identificato nella coscienza intenzionale, la “coscienza-di”, da non confondere assolutamente con la coscienza empirica ma che sta piuttosto rispetto a questa come la sua condizione di possibilità; in altre parole, secondo Husserl l’intenzionalità della coscienza è il luogo che conferisce senso ai fenomeni e costituisce così l’orizzonte che dà visibilità ai fenomeni nelle loro differenti configurazioni (percettive, intellettuali, psichiche, estetiche e così via). Un qualcosa diventa fenomeno per noi, cioè “appare”, in quanto intenzionato dalla coscienza, mirato in un “vedere”. La 2 Edmund Husserl, Per la fenomenologia della coscienza interna del tempo, a cura di A. Marini, Franco Angeli ed. Milano, 1981, p. 142. – 141 – coscienza intenzionale è la condizione trascendentale di possibilità dell’esperienza dell’apparire. Husserl dunque, nell’interpretazione che ne dà Henry continua a pensare l’apparire sempre come l’apparire “di” qualcosa “per” qualcuno, l’apparire si configura come l’esser-posto-davanti di un fenomeno che è tale in quanto “visto-da”, oggetto di una visione nel senso più ampio del termine (sensibile o intellettuale), l’apparire è ciò che è “presentato-davanti” come indica con molta chiarezza il termine tedesco “rappresentare” (vor-stellen, appunto “porre-davanti”). Questo concetto dell’apparire (che è anche, e soprattutto, un concetto ontologico se è vero il principio della fenomenologia “tanto apparire, altrettanto essere”) domina secondo Henry tutta la filosofia occidentale dai Greci al pensiero moderno e la fenomenologia husserliana ne rappresenta il compimento.3 Ma la forma rappresentativa, “trascendente” o “e-statica” come la chiama Henry dell’apparire puro, del “come” dell’apparire, è un risultato, un prodotto derivato che suppone una rivelazione, una condizione dell’apparire più originaria alla quale la filosofia deve risalire se vuole davvero aderire alla sua domanda fondamentale. Questa condizione originaria è definita da Henry la vita. La “vita” di cui parla Henry non è né la vita nel senso biologico, né la vita nel senso esistenziale o vitalista del termine: la vita è pura affettività che sente se stessa nelle sue modalità più originarie che sono il godere e il soffrire; una pura gioia e al contempo una pura sofferenza hanno secondo Henry questo senso profondo, quello innanzitutto di rivelarci se stesse e in questo modo di rivelare noi stessi nella nostra assoluta individualità a noi medesimi (per questo Henry parla di vita anche come “soggettività assoluta”); ma questa manifestazione ha questo carattere fondamentale: di sfuggire ad ogni forma di rappresentazione, di non essere oggettivabile in nessun “fuori”, in nessuna trascendenza, di essere assolutamente immanente nel senso più radicale del termine, come scrive continuamente Henry “nessuno ha mai visto il proprio dolore o la propria gioia” eppure gioia e dolore ci accompagnano in ogni atto della nostra esistenza. Via d’accesso a questo senso dell’affettività è innanzitutto l’esperienza che noi facciamo del nostro corpo: riprendendo e approfondendo un tema di Schopenhauer Henry afferma che il nostro corpo appare a se stesso in due modi, da un lato come oggetto nel mondo della Per un confronto diretto tra Henry e Husserl si veda il volume Michel Henry, Fenomenologia materiale, Edizioni Angelo Guerini e Associati, Milano, 2001 (ed. or., Phénoménologie matérielle, Presses Universitaires de France, Paris, 1990) che contiene anche una nostra Postfazione alla quale ci permettiamo di rinviare per un ulteriore chiarimento del rapporto tra Husserl e Henry. 3 – 142 – rappresentazione (vedo le mie mani, il mio volto nel riflesso del mio specchio, posso addirittura vedere i miei organi in una radiografia clinica) ma d’altro lato il corpo appare a se stesso senza vedersi, nel sentire, dall’interno, nel desiderio, negli affetti, nella sofferenza, nell’angoscia, in quello che appunto Schopenhauer chiamava il “voler vivere”, la volontà di vivere. Le affezioni, il sentimento, non sono allora “colorazioni” psichiche, giustapposizioni accidentali della vita interiore come pensa una secolare tradizione intellettualistica, ma dando se stesse senza oggettivarsi hanno il potere di manifestarci a noi stessi in quanto sentire, “auto-affezione”, “sentire di sentire”, hanno il potere di rivelarci come vita. Ora è quest’affettività profonda che fonda l’apparizione del mondo, l’apparizione dei fenomeni del/nel mondo. In altre parole, le “cose” si danno a noi in due modi di rivelazione radicalmente opposti, come “oggetti” nel mondo e come affetti nella vita come è attestato dall’esperienza della nostra carne, e sono gli affetti a rendere possibile l’esperienza dei fenomeni come oggetti. Come dice Henry, ogni rapporto col mondo è in primo luogo affettivo e solo come tale è possibile. Ma come pensare questo rapporto se la rappresentazione è caratterizzata da una fenomenalità, da un modo di apparire che è l’opposto di quello della vita, la fenomenalità estatica, trascendente, basata sull’“esserposto-davanti” del fenomeno, sul “riferirsi-a” del pensiero, assolutamente eterogenea rispetto alla fenomenalità immanente, affettiva, non oggettivabile, non separata da sé della vita? Come può dunque la rappresentazione rinviare alla vita come al suo principio, alla sua “condizione trascendentale di possibilità” (espressione kantiana usata con frequenza da Henry)? Come possono queste due dimensioni coabitare nello stesso ente, nell’uomo? L’uomo è forse quell’ente che è incompatibile con se stesso? La questione è centrale a nostro avviso per la discussione di quella che qualcuno ha ritenuto di rilevare come un’impasse fondamentale del pensiero di Henry e cioè la questione della possibilità di dire la vita stessa: infatti descritta la vita come immanenza, assoluta coincidenza con sé, e quindi venuta meno l’apertura spazio-temporale degli enti, diventerebbe difficile, secondo questa critica, anche la sola pronuncia della differenza che permette almeno di riconoscere nella loro autonomia e non coincidenza la vita e l’individuo, il sé che da essa nascerebbe. In altre parole l’immanenza della vita renderebbe impossibile la pronunciabilità dell’immanenza stessa possibile solo secondo le condizioni della conoscenza estatica. Henry probabilmente avrebbe risposto a queste obiezioni rovesciandone l’argomentazione: il problema, l’enigma non è come si possa parlare della vita nella sua assoluta immanenza – 143 – ma proprio come possa darsi qualcosa come il pensiero, la trascendenza, l’apparire di un mondo cioè la rappresentazione. Ora, l’analisi henryiana del pensiero di Nietzsche ci sembra possa fornire un percorso, una traccia per affrontare questo delicatissimo problema. “Con Nietzsche ha inizio la situazione filosofica decisiva in cui la congiunzione dei due mondi, quello del giorno e quello della notte, cessa di costituire un enigma, poiché il primo trova il suo principio nel secondo, e questo principio è divenuto, nel modo che gli è proprio, fonte di intelligibilità, cioè un naturante fenomenologico” 4 Nietzsche ha affrontato il problema lasciato aperto da Schopenhauer, cioè il problema del rapporto tra vita e rappresentazione ponendo nella vita cioè nell’affettività e nel pathos il principio primo della rappresentazione. Henry vede chiaramente in Nietzsche non solo colui che assieme a Schopenhauer ha “salvato la vita” contro la metafisica della rappresentazione ma colui che, al di là dello stesso Schopenhauer, ha formulato un nuovo concetto della rappresentazione il cui potere, inesplicato in Schopenhauer, viene ricondotto da Nietzsche all’affettività cioè, nel linguaggio di Nietzsche, alla “volontà di potenza”. Ora, noi vogliamo mettere in evidenza nella elaborazione di questo tema il ruolo essenziale dell’esperienza estetica nella sua duplice dimensione, intesa cioè sia come produzione dell’opera d’arte sia come contemplazione, “fruizione” di essa: in altre parole l’opera d’arte è esemplare del processo di produzione della rappresentazione da parte della vita cioè dell’affettività: “... la pro-duzione della rappresentazione e la sua determinazione radicale ad opera dell’affettività è ciò che ogni forma d’arte, e l’arte dionisiaca per eccellenza, porta all’evidenza” 5 scrive Henry e aggiunge che “ogni processo di creazione artistica è virtualmente presente in ogni processo di rappresentazione”.6 Questo però significa che nell’arte vengono a trovare conciliazione dialettica, l’unità dei contrari, i due poli irriducibili della vita e della rappresentazione? La funzione salvifica dell’arte, evocata da Nietzsche e Henry, consisterebbe nella risoluzione di quell’incompatibilità originaria di rivelazione immanente e apparizione trascendente che abita l’essere del- 4 Michel Henry, Genealogia della psicoanalisi. Il cominciamento perduto. Edizione italiana a cura di Valeria Zini (ed. or., PUF, Paris, 1985), Ponte alle Grazie, Firenze, 1990, pp. 245-246. L’interpretazione henryiana di Nietzsche è condensata in due saggi contenuti in questa raccolta: Vita e affettività secondo Nietzsche e Gli dei nascono e muoiono insieme. 5 Ibid., p. 247, sott. nostre 6 Ibid., p. 239, sott. nostre – 144 – l’uomo? Ma qui a rigore non si tratta di qualunque opera d’arte ma in particolare di quelle opere in cui la rappresentazione è esplicitamente messa in questione, fatta “vacillare” come direbbe Henry, per “esibire” (altro termine kantiano) in questo intimo “scuotimento” la sua condizione irrappresentabile: la rappresentazione non riassorbe nella sua fenomenalità la vita ma rinvia al contrario nella sua “catastrofe” alla rivelazione originaria dell’immanenza affettiva nel suo stesso seno; come scriveva Kafka, è solo nella casa in fiamme che diventa visibile il suo progetto architettonico fondamentale, il quale tuttavia, aggiungiamo noi, deve essere a sua volta dato alle fiamme per essere “visto” fino in fondo. È questo il senso profondo dell’opera d’arte tragica per Nietzsche nell’interpretazione henryiana: la Nascita della tragedia è infatti l’opera di Nietzsche in cui questo problema trova la sua configurazione più ricca di potenzialità e come tale essa è stata oggetto di particolare attenzione da parte di Henry. Come scriverà lo stesso Nietzsche nel Tentativo di autocritica, nella Nascita della tragedia si trattava di “vedere la scienza dal punto di vista dell’artista, l’arte però da quello della vita” 7 dove per “scienza” bisogna intendere proprio la conoscenza estatica e per vita il pathos, la volontà di potenza. Noi cercheremo di ricostruire la trama di questa interpretazione in funzione del problema del rapporto tra vita e rappresentazione esplicitandone aspetti anche a volte solo accennati e non ulteriormente sviluppati dallo stesso Henry che però permetteranno di comprendere, crediamo, in modo più pieno il problema, lo ripetiamo, in Nietzsche e nello stesso Henry. “Il primo nome della Volontà di potenza nell’opera di Nietzsche è Dioniso”.8 Volontà di potenza è, sulla traccia di Schopenhauer, per Nietzsche il nome della vita: essa significa, come era già stato messo in evidenza da Heidegger, non “volere la potenza” ma “potenza della volontà” 9 cioè, secondo Henry, “iperpotenza” anteriore ad ogni potenza reale del mondo, forma di ogni energia possibile, di ogni “potere” di cui la volontà designa l’auto-movimento. Ma già attraverso Dioniso, la figura principale del pensiero del giovane Nietzsche, vengono alla luce, in una forma tale che segna il distacco da Schopenhauer, le tonalità affettive fondamentali attraverso le quali la vita come potenza accede a se stessa, i costituenti essenziali del suo apparire a sé: Friedrich Nietzsche, La nascita della tragedia. Traduzione di Umberto Fadini. Cura di Vincenzo Vitiello e Ettore Fagiuoli. Edizioni Scolastiche Bruno Mondadori, Milano, 1996, p. 30. 8 Henry, op. cit., p. 210. 9 Ibid., p. 195. 7 – 145 – la sofferenza e la gioia. Gioia e sofferenza in Schopenhauer apparivano subordinati alla volontà, effetti del suo compimento sia nell’appagamento del desiderio che nel suo fallimento: il desiderio infatti in Schopenhauer è ciò che nel suo movimento insensato (perché non riducibile a un oggetto determinato) è assolutamente originario e dunque le affezioni fondamentali del soffrire e del gioire sono legate alla possibilità di realizzarsi o meno di questa mancanza essenziale. Nietzsche rovescia questa situazione: la vita appare a se stessa non come un vuoto, una mancanza, una indigenza ma al contrario come una pienezza originaria, una sovrabbondanza (come ricorda Henry, il pensiero di Nietzsche “è un pensiero della pienezza” 10) che è piuttosto condizione del sorgere del desiderio non un suo esito: il desiderio nasce dalla pienezza proprio perché la vita è già pervenuta a sé (ed in questo Henry ravvisa i futuri sviluppi in Nietzsche del concetto di amor fati) e il modo della vita di giungere a sé è dato dalla sofferenza e dalla gioia che sono proprio i costituenti di questa pienezza. Sofferenza e gioia non sono da Nietzsche semplicemente giustapposte ma viste nella loro intima connessione: l’essenza del dionisiaco sta proprio in questo vertiginoso convertirsi, confluire del soffrire nel gioire e il contrario. Ma come pensare questa unità se a) non si tratta di un’unità dialettica per cui questi due affetti sono dati come originariamente separati ed opposti e quindi sulla base di questa opposizione riunificati come complementari; b) non si tratta di un’unità vista come coesistenza in uno stesso individuo di due affetti esteriori l’uno all’altro, posti l’uno di fronte all’altro staticamente e messi in relazione grazie al legame intenzionale della coscienza che li unisce (è la posizione di Scheler) e li fa coabitare? In realtà sia l’unità dialettica che quella della coscienza intenzionale riposano entrambe sull’unità originaria della sofferenza e della gioia nella vita a cui Nietzsche dà il nome di dionisiaco, unità per cui la sofferenza produce il piacere e si converte in gioia, voluttà: il pathos. Secondo Henry Nietzsche si è limitato a constatare questa unità presagendone tuttavia il senso profondo: il pathos è innanzitutto il soffrire se stessa della vita che permette alla vita di mantenersi in sé, il soffrire è infatti innanzitutto l’impossibilità di uscire da sé della vita, nella sofferenza ciò che innanzitutto sperimentiamo è l’impotenza, il sentimento dell’impotenza (Nietzsche infatti lega sempre potenza e impotenza al sentimento di esse) a poter essere altro da questo soffrire; è il senso della terribile saggezza di Sileno, il precettore e il compagno inseparabile di 10 Ibid., p. 225. – 146 – Dioniso, “la cosa migliore è [per l’uomo] totalmente irraggiungibile: non essere nato, non essere; essere niente”.11 Ma questo soffrire originario contiene in sé un doppio movimento: da un lato è ciò che trascina la vita irresistibilmente a sé, ma dall’altro è anche ciò che la spinge verso un oltre di sé all’interno di sé; la sofferenza infatti è ciò che costituisce la possibilità per la vita di auto-sentirsi e così di incrementarsi e apparire a sé ed è in questo incremento che si dà la gioia come godimento di questo incremento immanente che costituisce la potenza. La potenza della vita infatti non è qualcosa che si dà indipendentemente dall’affettività, l’affettività non è qualcosa che si aggiunge alla potenza dall’esterno e sofferenza e gioia a loro volta non sono due “proprietà” dell’affettività: l’affettività, la possibilità di essere affetto, si risolve in nient’altro che in questa circolarità di sofferenza e gioia nel cui gioco inesauribile consiste il pathos come piacere del soffrire, l’“ebbrezza” di Dioniso che si manifesta per Nietzsche nell’intensità della musica “gioco delle tonalità affettive fondamentali nella loro modulazione indefinita” 12 poiché “la relazione del soffrire e del gioire non è una relazione statica” e “l’eccesso dell’una è la sovrabbondanza dell’altra”.13 Questa determinazione del pathos come gioco di sofferenza e gioia è l’intuizione decisiva di Nietzsche secondo Henry ed è ciò che permette ora di comprendere la possibilità della rappresentazione a partire tuttavia da un rilievo essenziale e cioè che nell’interpretazione henryiana di Nietzsche la sofferenza riveste un doppio ruolo per così dire, quello di andare verso la vita per sottoporre la vita alla prova di se stessa e così potenziarne il sentire, e quello, radicalmente opposto, ma altrettanto potente di allontanare la vita da sé portandola all’autodistruzione: l’esperienza estetica, o meglio una particolare dimensione di questa, è particolarmente significativa nella prima direzione mentre tutte le forme di rappresentazione che sottraggono alla affettività originaria il potere della manifestazione si collocano sul versante opposto, quello cioè della negazione della immanenza della vita e dell’affermazione del primato della conoscenza estatica (ed è a quest’ambito che Henry riconduce la famosa distinzione nicciana tra forti e deboli e l’esperienza del nichilismo che nasce innanzitutto dall’odio per la sofferenza). Potremmo dire che nella Nascita della tragedia Apollo e Socrate sono i due nomi di questa duplice dimensione della rappresentazione: in entrambi è essenziale il legame col pathos. Nietzsche, op. cit., p. 75. Henry, op. cit., p. 237. 13 Ibid., p. 222. 11 12 – 147 – Oggetto principale della Nascita della tragedia è l’opera prodotta dall’azione congiunta di Dioniso e Apollo e “la relazione Dioniso-Apollo non è che il modo in cui Nietzsche interpreta la relazione schopenhaueriana della volontà e della rappresentazione, divenuta in lui quella dell’affettività e della rappresentazione”.14 Nella relazione Apollo-Dioniso sono essenziali tanto gli elementi che li oppongono quanto quelli che li uniscono: cominciamo da questi ultimi. Apollo è l’impulso (Trieb) rappresentativo, infatti nella Nascita della tragedia Nietzsche riconduce esplicitamente la rappresentazione alla sfera degli impulsi, degli istinti: questi ultimi vanno intesi secondo la prospettiva di Schopenhauer come viene chiarita da Henry, “la volontà senza la ragione, l’azione senza la rappresentazione, è [per Schopenhauer] l’istinto”;15 la rappresentazione viene dunque ricondotta ad un’azione nella quale essa è assente, apollineo e dionisiaco sono fenomeni fisiologici, “impulsi artistici della natura”,16 non designano l’uno il caos irrazionale della pulsionalità e l’altro l’ordine luminoso della razionalità ma procedono entrambi da una condizione originaria che nel giovane Nietzsche è ancora designata come la “natura” ma che nell’opera della maturità verrà esplicitamente individuata nell’ebbrezza cioè nella vita (per esempio nel Crepuscolo degli idoli si dirà che i concetti di apollineo e dionisiaco sono entrambi “intesi come specie dell’ebbrezza” 17); dunque già nella caratterizzazione preliminare di Apollo come immagine divina della rappresentazione, dell’occhio, della visione emerge questo suo radicarsi nella “fisiologia” cioè nella sfera del corpo soggettivo (uno studioso italiano di Nietzsche, Ferruccio Masini, ha parlato della Nascita della tragedia come di una “fisiologia trascendentale”). Ora, Nietzsche lega immediatamente l’apollineo come fenomeno “fisiologico”, a un determinato impulso, quello onirico. Tutte le modalità con le quali l’apollineo si manifesta nel mondo greco (dall’arte plastica all’epica omerica) sono da Nietzsche ricondotte al sogno. Nel rapportarsi al sogno ciò che appare immediatamente evidente è il riferimento all’ambito dell’immaginazione: infatti Henry parla esplicitamente di Apollo come “immaginazione trascendentale”.18 Il tratto fondamentale del Ibid., p. 245. Ibid., p. 163. 16 Nietzsche, op. cit., p. 66, sott. nostre. 17 F. Nietzsche, Crepuscolo degli idoli, Opere di Friedrich Nietzsche, vol. 6, t. 3, ediz. Adelphi, Milano, 1970, p. 113. 18 Henry, op. cit., p. 235 e 245. 14 15 – 148 – mondo onirico è che esso è un mondo di immagini, di apparenze e di forme illusorie percepite come tali e accompagnate dal piacere di questa illusione; non solo, nel sogno viviamo le immagini, del sogno siamo allo stesso tempo attori e spettatori, coinvolti e distaccati. Nella Nascita della tragedia sono questi gli aspetti dell’esperienza del sogno maggiormente evidenziati da Nietzsche, il risolversi della coscienza in questo fluttuare di immagini che è il sogno che è tuttavia sempre congiunto al sentimento della sua “apparenza” e al piacere che questo produce; nel sogno si manifesta quel “potente desiderio di immagini illusorie”, quel “piacere dell’illusione” simboleggiato da Apollo e manifestato nell’arte plastica. Ma perché questo piacere, perché questo desiderio di immagini e qual è il suo legame col pathos con Dioniso che è per Nietzsche dio della musica definita preliminarmente secondo modalità opposte a quelle dell’arte apollinea cioè come un’arte essenzialmente aniconica? Nella Nascita della tragedia Nietzsche sembra apparentemente riprendere l’idea di Schopenhauer dell’arte apollinea come liberazione, affrancamento e trasfigurazione dei terrori di Dioniso partendo proprio dall’esigenza intrinseca alla volontà di liberarsi di sé, scaricarsi: il soffrire se stessa della vita ha in sé infatti qualcosa di intollerabile che scaturisce proprio dall’insopprimibilità del legame della vita con sé nel soffrire: “la non-libertà, l’impossibilità di non essere sé è l’essenza che regge la relazione della vita a se stessa” 19 sottolinea Henry; questa insopportabilità è all’origine della volontà della vita di disfarsi di sé. In altre parole c’è un soffrire che vuole distruggere se stesso che significa per Henry spezzare l’immanenza della vita “scaricandosi” di sé; la bella apparenza dell’immagine apollinea avrebbe la funzione di soddisfare e placare questo desiderio. Ma che significa scaricarsi? Chi si scarica? Il punto è proprio questo: se la vita è ciò che “sorregge se stessa” 20 nello scaricarsi dalla sofferenza non c’è dualismo tra chi scarica e ciò che viene scaricato, da qui l’impossibilità dello scaricare in sé e nello stesso tempo la possibilità per la vita, mantenendosi in sé di auto-impressionarsi ininterrottamente. Questa impossibilità tuttavia non elimina il bisogno di liberarsi di sé ma in qualche modo sembra alimentarlo ed è da questo contro-movimento che sorge l’immagine, l’attività dell’immaginazione trascendentale: l’immagine nasce dall’impossibilità della vita di uscire da sé di oggettivare nell’esteriorità il dolore, di poter 19 20 Ibid., p. 199. Ibid., p. 238. – 149 – “vedere davanti” la propria affettività, non è “l’affettività a oggettivarsi ma solo la sua immagine”;21 l’affetto resta sempre invisibile ma è per la sua invisibilità essenziale che si produce l’immagine che Henry caratterizza rispetto alla oggettività come “la forma dell’irrealtà”.22 Ma anche l’immagine abita la dimensione dell’esteriorità e in che cosa allora questa si differenzierebbe dall’esteriorità dell’oggettivazione, della rappresentazione? È qui che interviene l’esperienza del sogno: nel sogno l’immagine si configura come “apparenza dell’apparenza”, scrive infatti Nietzsche: “Se dunque prescindiamo per un attimo dalla nostra propria “realtà”, se afferriamo la nostra esistenza empirica e quella del mondo in generale, come una rappresentazione prodotta ad ogni istante dall’uno originario, allora il sogno dovrà essere da noi considerato come l’apparenza dell’apparenza [Schein des Scheins], quindi come un ancor più alto appagamento dell’originario desiderio d’apparenza” 23 Cosa significa apparenza? Nietzsche utilizza i termini “apparenza” (Erscheinung), “parvenza” o “illusione” (Schein), “fenomeno” (Phänomen), “rappresentazione” (Vorstellung) in modo sostanzialmente equivalente: essi alludono sempre all’ambito della rappresentazione, al dominio dell’occhio, all’impulso visivo. L’immagine come sogno cioè come apparenza dell’apparenza come “apparire dell’apparire” “illusione dell’illusione” è ciò che permette di denunciare la rappresentazione come un apparire che non ha il suo fondamento in se stesso ma è prodotto da un potere di apparizione che a sua volta non si dà in ciò che appare. Il sogno mostra, esibisce l’apparire come tale per così dire portando la rappresentazione al di là di se stessa manifestandola come “irreale”. Siamo dunque al di là di Schopenhauer per il quale l’ambito fenomenico-rappresentativo può essere equiparabile al sogno proprio perché rappresenta il momento di redenzione e liberazione dalla vorticosa pressione della Volontà che si manifesta, anche nel suo caso, nell’esperienza esemplare dell’arte. Per Nietzsche al contrario l’apparenza dell’apparenza, il sogno del sogno non rappresenta più un momento di fuga: l’originario desiderio d’apparenza non si configura più come fuga da una condizione di sofferenza perché questo desiderio è impossibile ma è proprio in questa sua impossibilità che l’impulso all’immagine, che l’immaginazione trascendentale trova il suo incremento per divenire non il superamento di una condizione bensì l’occasione del godimento potenziaId. Id. 23 F. Nietzsche, La nascita della tragedia, cit., p. 88. 21 22 – 150 – mento e incremento della condizione stessa, cioè della vita che in questa impossibilità può continuare ad auto-impressionarsi. Non c’è insomma superamento ma accettazione, amor fati. L’impulso non può andare al di là di sé, non può trascendersi, può solo godere di sé può solo potenziare al massimo ciò che è nell’“apparenza dell’apparenza” nella quale la rappresentazione si dà come un pro-dotto. Ma il potere che rende possibile la rappresentazione come “apparenza dell’apparenza” non potrebbe darsi come tale se non mostrasse i limiti dell’apparenza stessa, se non fosse anche ciò che la annienta: è questo che Henry mette in evidenza in modo implicito riguardo al problema del rapporto tra musica, immagine e parola. A questo riguardo è noto che Nietzsche indica due fenomeni per spiegare l’unione dell’apollineo come immagine e del dionisiaco come musica: la lirica e la tragedia. Prendendo le mosse dall’identità nella poesia antica tra il lirico e il musicista Nietzsche osserva che “egli [il poeta] è divenuto completamente, come artista dionisiaco, una cosa sola con l’uno originario, col suo dolore e la sua contraddizione [sott. nostre], e genera la riproduzione di questo uno originario come musica [...], ma poi, sotto l’effetto apollineo del sogno, questa musica gli diviene di nuovo visibile come in un’immagine di sogno simbolica”.24 Già nella lirica antica emerge questo legame di subordinazione della parola alla musica25 che sarà ulteriormente approfondito nella tragedia attica che per Nietzsche, come è noto, nasce dal coro cioè l’equivalente dello stato di eccitazione dionisiaca (“autorispecchiamento dell’uomo dionisiaco” 26) di cui il dramma, l’azione non sono nient’altro che una visione che traduce in immagini di sogno apollinee questa condizione. Ora, sia nella lirica che nella tragedia è in atto “un processo di scarica della musica in immagini”:27 Henry osserva che Nietzsche utilizza la stessa parola (Entladung, entladen, scarica, scaricare) per indicare sia il rapporto tra musica e immagini sia il desiderio di liberazione della vita dalla sofferenza,28 ma in questo caso non è il versante dell’origine dell’immagine ad essere sottolineato quanto quello Nietzsche, op. cit., p. 97. Nietzsche svilupperà questi temi in una serie di scritti inediti del 1870-73 dedicati al problema della genealogia del linguaggio e alla sua origine nella metafora e nel suono anzi nel “grido” come è stato messo in evidenza da B. Pautrat nel testo Versions du Soleil. Figures et systéme de Nietzsche, Editions du Seuil, Paris, 1971. 26 Nietzsche, op. cit., p. 120. 27 Ibid., p. 102. 28 Henry, op. cit., p. 237. 24 25 – 151 – della sua negazione inseparabile tuttavia dal primo. Infatti come “la musica non ha bisogno dell’immagine e del concetto, ma li tollera soltanto accanto a sé” 29 tuttavia “la musica stimola all’intuizione simbolica dell’universalità dionisiaca” dando all’immagine simbolica “una suprema significatività”:30 la musica non muove mai dall’immagine tuttavia dà sempre luogo a figure nelle quali non è mai risolvibile ma alle quali fornisce la più potente intelligibilità mantenendo la sua totale autonomia rispetto ad esse. È quanto emerge dall’analisi della “presenza” di Dioniso sulla scena: il primato del coro, il fatto che tutto quanto accada sulla scena sia soltanto una sua “visione” significa il primato dell’ascolto sull’azione, del pathos sul dràn,31 della musica sulla parola, del soffrire sul vedere dell’apparenza e cioè il sottrarsi di Dioniso e della musica dall’immagine apollinea che cerca di dar forma alla sua sofferenza, al suo pathos, (“Dioniso,[...] non appare mai lui stesso sulla scena” ricorda frequentemente Henry32) ma in questo sottrarsi Dioniso compie una duplice azione: da un lato potenzia al massimo la “visibilità” della scena alla quale viene donata una evidenza rappresentativa superiore come dice Nietzsche a qualunque dramma parlato, ma dall’altro lato questa potenza visiva cede il posto, viene soverchiata da quello stesso potere che la sosteneva che la risucchia in se stessa e la eccede, cioè dal potere della musica in cui le immagini si inabissano per riemergere di nuovo continuamente. Nietzsche ha descritto questa fondamentale esperienza dell’arte tragica nei capitoli 21, 22 e 24 della Nascita della tragedia sia dal punto di vista dello spettatore che dal punto di vista del creatore. Infatti nello spiegare la genesi del mito tragico e nel commentare il terzo atto del Tristano e Isotta di Wagner Nietzsche mette in evidenza la coesistenza nello spettatore di un duplice sentimento per cui egli da un lato sente di “dover guardare e insieme anelare ad andare oltre lo stesso vedere”,33 è cioè fascinato irresistibilmente dalle immagini ma queste gli appaiono tuttavia insufficienti così come nell’esperienza della dissonanza musicale accade di Nietzsche, op. cit., p. 103. Ibid., p. 183. 31 Nelle lezioni introduttive al corso sull’Edipo re di Sofocle, svolto da Nietzsche all’università di Basilea nel 1870, e pubblicate in edizione italiana a cura di Gherardo Ugolini col titolo Sulla storia della tragedia greca, Cronopio, Napoli, 1994, Nietzsche scrive: “[...] poiché si voleva ascoltare il páthos e non vedere il drán, [...] il drán aveva luogo solo in quanto spiegava il páthos” (ibid., p. 45, sott. nostre). 32 Henry, op. cit., p. 246. 33 Nietzsche, op. cit., p. 233. 29 30 – 152 – “volere udire e insieme un bramare di oltrepassare lo stesso udire”.34 Allo stesso modo grazie alla musica lo spettatore è portato al presentimento di una “gioia superiore” 35 a cui lo conduce proprio la rovina e la negazione dell’eroe tragico: anche nella contemplazione della vicenda tragica la musica produce sempre un duplice effetto cioè un piacere e una gioia che nascono dalla catastrofe del personaggio dall’“annientamento dell’eroe, dei suoi sforzi, dei suoi progetti [...] identico a quello del mondo fenomenico, il mondo del desiderio”.36 Lo stesso processo è riscontrabile forse con maggior forza nella creazione artistica: il poeta “condivide con la sfera artistica apollinea il pieno piacere per l’apparenza e per la contemplazione, e contemporaneamente nega questo piacere e trova un appagamento ancora maggiore nella distruzione del mondo visibile dell’apparenza”.37 Nell’artista è all’opera una potenza allo stesso tempo formatrice e distruttrice,38 un’intensità del sentire che fa e disfa immagini nella quale possiamo riconoscere “un fenomeno dionisiaco, il quale ci rivela sempre di nuovo il gioco di costruzione e distruzione del mondo individuale come l’efflusso di un piacere originario”.39 Questo gioco è il pathos, è il movimento della vita che nell’intensità del soffrire se stessa non può uscire da sé e tuttavia nel cercare di farlo proietta fuori di sé un mondo di immagini continuamente travolto per riaffermare l’adesione incondizionata a sé della vita stessa e continuamente riaffiorante in una circolarità vertiginosa tra sofferenza/gioia (la musica), immagine, suo inabissarsi e riaffiorare che l’arte manifesta in modo esemplare come un gioco in cui “il fuoco si spegne attraverso un altro fuoco” in cui la vita può continuare incessantemente a sentirsi al di fuori e all’interno della rappresentazione in cui come scrive Henry non si tratta di Ibid., p. 235. Ibid., p. 215. 36 Henry, op. cit., p. 211. 37 Nietzsche, op. cit., pp. 233-234 (sott. nostre). 38 Ancora, nello scritto La visione dionisiaca del mondo del 1870 (rimasto inedito fino al 1928) Nietzsche scriveva: “Se dunque l’ebbrezza è il giuoco della natura con l’uomo, la creazione dell’artista dionisiaco è allora il giuoco con l’ebbrezza. Questo stato, se non lo si è sperimentato personalmente, lo si può intendere solo simbolicamente: è qualcosa di simile a quando si sogna e al tempo stesso si avverte che il sogno è appunto un sogno. Il seguace di Dioniso deve così trovarsi nell’ebbrezza e al tempo stesso stare fuori di sé come un osservatore in agguato. La maestria artistica dionisiaca non si rivela in un’alternanza di assennatezza e di ebbrezza, bensì nella loro coesistenza.”(cfr. F. Nietzsche, La filosofia nell’epoca tragica dei Greci e Scritti dal 1870 al 1873, Adelphi edizioni, Milano, 1973, pp. 51-52, sott. nostre). 39 Nietzsche, La nascita della tragedia, cit., p. 235. 34 35 – 153 – “chiedere la salvezza alla sola “magia risanatrice di Apollo” ma di abbandonarsi invece alla potenza invisibile che lo produce e al suo gioco”.40 Questa potenza invisibile che parla attraverso Apollo è l’affettività, è la fenomenalità dell’affettività che si dissimula come l’ombra nella rappresentazione ma la agisce dall’interno oscurandone la luce estatica per far emergere come scrive Nietzsche “un nuovo mondo più chiaro, più comprensibile ed afferrabile [...] e tuttavia più simile alle ombre”.41 APPENDICE Diamo qui una bibliografia delle edizioni italiane delle opere di Michel Henry ad uso di coloro che volessero approfondire la conoscenza di questo autore. - Genealogia della psicoanalisi, Ponte alle Grazie, Firenze, 1990. - Vedere l’invisibile. Saggio su Kandinskij, Edizioni Angelo Guerini e Associati, Milano, 1996. - Io sono la verità. Per una filosofia del cristianesimo, Editrice Queriniana, Brescia, 1997. - Fenomenologia materiale, Edizioni Angelo Guerini e Associati, Milano, 2001. - Incarnazione. Una filosofia della carne, SEI - Società Editrice Internazionale, Torino, 2001. La rivista di filosofia Aut Aut n. 310-311 luglio-ottobre 2002, contiene un’intervista a Michel Henry a cura di Sergio Benvenuto che costituisce una buona presentazione dei temi essenziali del suo pensiero. 40 41 Henry, op. cit., p. 239. Nietzsche, op. cit., p. 124 (sott. nostre). – 154 – LICIA FIERRO Note di varia umanità: le passioni, la trasgressione, l’utopia, i mirabilia DISCORSO MINIMO SULLE PASSIONI Passione viene dal greco pàthos che significa emozione. Passione è dunque ogni stato d’animo che, in quanto scatenato da eventi esterni, si manifesta come ira, piacere, dolore, gioia, tristezza, odio ecc... Secondo gli antichi queste reazioni travolgenti impediscono di fatto alla volontà una scelta, essa le subisce (in latino pati = subire). Da secoli sussiste la vexata quaestio dell’etica: se le passioni debbano essere considerate naturali, se esse siano utili, quale sia il rapporto tra passione e ragione e quale il ruolo della volontà. Senza l’impulso, senza quella che Aristotele definisce la parte appetitiva dell’anima nessuna azione sarebbe possibile: nessuno di noi risponderebbe mai alle sollecitazioni esterne, cioè praticamente l’uomo sarebbe privo di reazioni. E tuttavia se la ragione non guidasse le nostre emozioni, noi ne saremmo le prime vittime. Non credo sia per tutti praticabile l’apatia (la completa inibizione delle passioni) così cara agli stoici, né mi pare accettabile la condanna delle passioni in quanto considerate in toto come irrazionali e quindi di impedimento all’uomo nella realizzazione del suo fine superiore (così teorizzava una parte non esigua della filosofia medioevale). Mi appello a S. Agostino il quale non disdegna nulla dell’uomo in quanto creatura di Dio, tanto meno la corporeità e non crede perciò che le passioni siano il frutto cattivo del corpo. Nel “De civitate Dei” così scrive: «...la volontà si trova in tutte le nostre emozioni, anzi esse non sono altro che atti di volontà. Cosa sono il desiderio e la gioia se non atti della volontà di assenso a ciò che vogliamo? E il timore e la tristezza se non atti dissenzienti da ciò che non vogliamo?». Siamo dunque noi a decidere dell’uso delle passioni che in sé stesse non sono né buone né cattive. Non posso giustificarmi affermando che è naturale l’odio nei confronti del nemico e perciò mi abbandono ad esso senza limite. Non posso desiderare tutti gli onori e le ricchezze utilizzando ogni mezzo per raggiungerli compresi quelli che, ahimè, trovo pubblicizzati o peggio ancora inseriti in vademecum dell’uomo di successo venduti come bestsellers. In questi casi, ormai, è diventato raro il rossore o la vergogna che pure sono affezioni dell’anima. Per esem– 155 – pio Bruno Vespa che sponsorizza il suo ultimo prodigioso parto presentandolo come frutto della sua passione politica è un segno funesto dei tempi e davvero scuote concetti e significati in nome di santa opportunità (che è una santa molto potente e perciò invocata al di là delle appartenenze di campanile). Qualcuno adesso mi accuserà di moralismo, ma per parare il colpo aggiungo che molte passioni “negative” sono anche il frutto indotto anzi eterodiretto della civiltà post-industriale avanzata che ha prodotto un solco sempre più profondo tra le componenti emotive autonome della personalità e i bisogni “costruiti”, ma presentati come naturali (in questo campo la scuola di Francoforte e in essa soprattutto Marcuse e Fromm hanno spaziato in lavori bellissimi e, secondo me, sempre più attuali). Tutte le passioni devono comunque essere conosciute perché possiamo indirizzarle, orientarle in senso costruttivo. Amo con trasporto, mi impegno nel lavoro con passione, curo i miei interessi e ne traggo soddisfazione: questa è una persona appassionata che agisce con mente pura e perciò è veramente libera. Ne conoscete di uomini e donne così? Non dico i santi sugli altari, dico gli uomini di questo tempo, quelli pochi o tanti che si lasciano consumare dalla passione per quello in cui credono. Le persone malate nel corpo eppure travolgenti nelle azioni, i medici che operano in zone abbandonate e lontane senza smania di successo, gli uomini di Dio che percorrono ogni giorno chilometri a piedi o con mezzi di fortuna per raggiungere altri esseri umani bisognosi di conforto. Che cosa li spinge se non l’impulso, il desiderio di rispondere che se di per sé è immediato, emotivo, poi diventa sempre più scelta scelta consapevole illuminata dalla ragione. E così la volontà non è più una facoltà astratta ma diventa, come dice S. Agostino, lo strumento che indirizza l’azione verso la giustizia: «rattristarsi con un afflitto per sollevarlo, temere di qualcuno in pericolo per non lasciarlo perire...». A questo proposito in una discussione fra amici non molte sere fa c’era chi sosteneva che le forti passioni, anche quelle degli uomini più giusti, sono l’espressione nobilitata dell’amor proprio o peggio ancora del narcisismo. Per quanto io sia consapevole del pericolo, al di là delle generalizzazioni o dei facili psicologismi, mi piace ripetere con F. De La Rochefoucauld: «non si desidera mai ardentemente ciò che si desidera solo con la ragione!». L’ETÀ DELLA TRASGRESSIONE Solo il bambino non conosce obblighi, è per dirla con Freud un essere amorale le cui azioni sono esclusivamente volte al soddisfacimento dei suoi – 156 – bisogni. È l’intervento degli adulti, dei genitori a produrre le regole, sono loro che esercitano una tutela morale sulla sua condotta. Quando il bambino recalcitra e non si adegua si dice che è disobbediente, se troppo spesso viola le regole si dice che comincia presto a manifestare atteggiamenti trasgressivi. Sì, perché trasgredire significa passare al di là, travalicare, oltrepassare il campo delle obbligazioni, delle regole, dei comandi qualunque sia la loro natura. Da questo punto di vista si intuisce senza discorsi troppo complicati che una qualsiasi società organizzata lo è solo nella misura in cui diventa stato di diritto, stato in cui tutti i cittadini rispettano le leggi ed esse sono uguali per tutti. In tale contesto ogni trasgressione richiama la sanzione e il cerchio si chiude. Ma non si esaurisce il discorso sugli aspetti direi eticopsicologici della questione. Che cosa ci obbliga interiormente e che cosa ci spinge oltre? Kant affermava che l’imperativo categorico non ci obbliga con la forza, ma la volontà che accetta il “costringimento” della ragione, solo essa è capace di compiere il dovere puro, il dovere per sé stesso; in caso contrario le nostre azioni sono orientate verso il conseguimento di fini particolari a seconda dei moventi soggettivi. Ci sono, però, anche obbligazioni morali che sono il frutto di determinate abitudini, come avviene in quel tipo di società chiusa così ben delineata dallo spiritualista francese H. Bergson. Nella società chiusa vige “l’abitudine di contrarre abitudini” e il sistema radicato delle abitudini corrisponde ai bisogni della collettività. Qui l’individuo agisce come parte del tutto, che sia questo la famiglia, il club, la nazione. A questa morale ossequiosa e conformista Bergson contrappone una morale aperta, di uomini liberi e creativi, slegati dagli stereotipi, dalla fissità degli schemi precostituiti. E come si può intraprendere questa strada se oggi il massimo della trasgressione rispetto alle abitudini sociali condivise è un rapporto on line consumato nella massima comodità ad orari prestabiliti? Si parla spesso di “gusto della trasgressione” e il riferimento è quasi sempre alla sfera della sessualità vissuta in modo morboso, complicata da riti (vedi lo scambio delle coppie) e iniziative che nulla hanno che fare con l’esuberanza limpida e serena del corpo e della mente. Il fatto è che nella società meccanizzata e alienata queste forme sono il contrassegno di nuove oppressioni, sono manifestazioni neppure tanto larvate di coscienze profondamente infelici. Mi si potrebbe obiettare che non è così, che il gusto del proibito appartiene all’uomo già dai primordi, già dal comando divino “non mangerai il frutto dell’albero”. E va bene, c’è pure qualcosa in noi che solletica la possibilità di potere, di sapere, di dominare e certo non va demonizzata o semplicisticamente risolta nella categoria del “peccato”. Se fos– 157 – simo davvero liberi dall’ignoranza e dalla paura dovremmo considerare oggi trasgressivo più che mai disobbedire al conformismo, non accendere le TV Berluschine e in genere le TV per un periodo ragionevole, ritrovarci sempre più spesso insieme per discutere e prendere decisioni, perché facce troppo allegre non le prendano per noi. Pensate ad una società civile così dinamica da ottimizzare il lavoro e le energie non più solo per volare in posti lontanissimi a prendere il sole (che tanto ne abbiamo di sole caldo e stupendo sulle nostre coste), ma anche per investire il denaro in quelle attività umane che ci facciano riscoprire il senso comune dell’appartenenza a questa terra. Adesso mi direte che vaneggio ed esco fuori tema, ma trovo follemente trasgressivo non fare e non dire quello che i più si aspetterebbero per vincerle sulla sorpresa queste cosiddette anime belle che si paludano solo all’esterno delle loro virtù. A questo punto sarebbe necessario un pensiero corrosivo, almeno quanto quello nietzscheiano per una “trasmutazione dell’esistente” perché anche la cultura, per quelli che ne hanno la responsabilità, possa essere qualcosa d’altro che semplice “decorazione della vita”. Uno spirito è veramente trasgressivo se, come afferma Nietzsche, “odia tutte le abitudini e regole, tutto ciò che è durevole e definitivo, perciò lacera sempre di nuovo, con dolore, la rete intorno a sé: benché in conseguenza di ciò sia destinato a soffrire di numerose, piccole e grandi ferite, giacché quei fili egli li deve strappare da sé, dal proprio corpo”. E ci vuole proprio tanto coraggio per essere trasgressivi in questa maniera! ...E SE MORISSE L’UTOPIA? Molti già sanno che il termine utopia che letteralmente equivale a “NON LUOGO” (ou tòpos) fu inventato in età moderna da Tommaso Moro il quale se ne servì per indicare e descrivere un’isola immaginaria, appunto Utopia, il luogo che non c’è. Nell’isola che Moro tratteggia gli uomini sono felici perché vivono in pace in una comunità tollerante, dove tutto è improntato ai valori del bene e della giustizia, dove nessuno soffre la fame e perciò non esiste l’invidia e la prevaricazione. Quando Moro sottolinea l’assetto istituzionale di Utopia come repubblica aristocratica egli riconosce esplicitamente come punto di riferimento la Repubblica di Platone, il testo originario cui tutti gli utopisti hanno attinto per costruire modelli ideali di Stato. C’è da dire che Platone era convinto che lo Stato ideale e perfetto non è mai esistito, forse non esisterà mai e tuttavia è necessario inseguirlo, tendere ad – 158 – esso, essere attivi nel promuovere la trasformazione, guardare la realtà non sub specie temporis, ma sub specie aeternitatis. Quest’idea della perfettibilità è connaturata alla letteratura utopica quasi in tutti i tempi. E se in alcuni momenti della storia sono risultate prevalenti le trattazioni esclusivamente teoriche, costruite dagli addetti ai lavori senza immediate finalità pratiche, è pur vero che già a partire dalla metà del ‘700 con l’affermarsi della concezione progressista della storia, l’utopia assume la valenza di pensiero rivoluzionario. Per tutti basti pensare all’esempio di Babeuf e alla Congiura degli Eguali in cui emergono i motivi ispiratori di gran parte dei movimenti rivoluzionari del secolo successivo. L’Ottocento, mi si potrebbe obiettare, è stato per la questione che ci interessa un secolo bifronte: da un lato i grandi tentativi dei filantropi di costruire in luoghi precisi comunità di vita e di lavoro (si guardi a R. Owen e al suo esperimento di New Lanark in America), dall’altro la critica feroce ai caratteri oppressivi di queste stesse comunità ideali. In sostanza se ne attaccavano i fondatori considerati o megalomani, o schiavi delle loro illusioni, o nuovi oppressori di uomini schiacciati da modelli rigidi, da coazioni a ripetere. Dunque già nell’Ottocento si palesavano i limiti delle costruzioni teoriche e Marx riconobbe in tal senso il valore negativo delle astrattezze ideologiche di quei socialisti utopisti assolutamente incapaci di un’analisi scientifica delle condizioni reali delle società esistenti e perciò incapaci di individuare gli strumenti idonei a modificarle. Certo anche a Marx non fu estranea l’idea della progettazione per il futuro, anche lui che è stato il filosofo della prassi rivoluzionaria ha poi delineato i caratteri di una società post-rivoluzionaria. Voglio significare che l’utopia in quanto progetto costruttivo non è una fantasticheria vuota. Dico spesso ai miei studenti: che nessuno uccida le vostre utopie, coltivate l’utopia perché senza impegnarsi per modificare in meglio il mondo, non c’è futuro per nessuno. Io credo nella spinta propulsiva dell’azione trasformatrice, anche se temo, anzi ho terrore di ogni modello assoluto che si presenti come un sistema chiuso dove tutto è regolato in modo rigido perché si presume che qualcuno o pochi possiedano il segreto della perfezione. In questo senso faccio mia la lezione di K. Popper in La società aperta e i suoi nemici, un testo scritto nel 1944/45, eppure mai come oggi tanto attuale proprio perché l’autore rifiuta gli schemi rigidi, i sistemi pre-costruiti, in una parola gli archetipi. E forse proprio perché mi sono nutrita di questi pensieri guardo con dolore alla società in cui vivo, una società aperta solo in apparenza, un mondo in cui si afferma la legge del più forte come se fosse la più naturale delle soluzioni, in cui la sopraffazione e l’ingiustizia producono guerre e – 159 – lutti senza fine. Esistono certo intellettuali, uomini comuni, gente di buona volontà che si interroga non per proporre nuovi disegni di civiltà e di società, ma per promuovere un’analisi critica dell’esistente, per vedere se ci siano o si debbano ricostruire le condizioni di una perfettibilità, se sia possibile un progresso senza l’emarginazione dei più. Mi torna alla mente il concetto di “fine dell’utopia” così come lo aveva proposto H. Marcuse negli anni ‘60. Si trattava, allora, per il filosofo francofortese di dare forza e concretezza ai movimenti giovanili. Oggi, forse, si tratta di trasformare in azione politica concreta le istanze che provengono non solo dai giovani consapevoli, ma da tutti quei movimenti che pongono al centro delle rivendicazioni i problemi reali del sottosviluppo e dell’emarginazione. La storia, diceva Salvemini, è fatta dalle minoranze consapevoli ed attive che smuovono le moltitudini inerti e le costringono ad agire. Che queste benedette minoranze siano davvero il sale del mondo, che diventino maggioranze coraggiose senza pretendere mai di possedere o predicare verità assolute cosicché non sia utopistico coltivare ed alimentare in questa direzione il sogno di una democrazia compiuta. NEL DNA DELL’UOMO CI SONO ANCHE I “MIRABILIA”? Secondo molti storici del pensiero il gusto per il meraviglioso è antico quanto i greci. Sta di fatto che nel secondo libro delle sue storie, Erodoto giustifica la sua accurata descrizione dell’Egitto poiché secondo lui questo paese, «possiede moltissime caratteristiche meravigliose»; e nel corso della narrazione lo storiografo non manca di riferire molte notizie curiose. Già prima di Erodoto era stato forte presso i greci l’interesse per il meraviglioso (thaumasion) o paradossale (paradoxon), o per ciò che presenta proprietà peculiari (idion). Omero aveva nell’Odissea descritto fatti e personaggi meravigliosi; egli era riuscito a costruire un personaggio che per sua volontà o perché costretto dal fato si misura con realtà paradossali: Odisseo è diventato nei secoli il paradigma vivente della curiosità umana. Questo gusto per il paradossale si trasformò in un genere letterario quando nacque la scuola peripatetica. Da quel momento in poi molti si dedicarono a raccogliere il materiale più vario e a selezionarlo. La curiosità e le conoscenze del “meraviglioso” aumentarono sempre di più con la conquista di Alessandro Magno che ampliò a dismisura i confini del mondo greco non solo in senso geografico. C’è un’opera, il “De mirabilibus auscultationibus”, at– 160 – tribuita ad Aristotele, ma scritta sicuramente a più mani e in periodi diversi, in cui sono raccolti in 178 capitoli mirabilia e paradoxa senza limiti di ambientazione territoriale dall’India alle colonne d’Ercole. Proprio per tale ragione i più sono convinti che l’autore o meglio gli autori dell’opera sono vissuti dopo Alessandro Magno perché solo allora potevano circolare conoscenze così diverse per argomento e... luogo di nascita. Siete diventati un po’ curiosi?... «Narrano che presso gli Sciti detti Geloni vi sia un animale di insolita grandezza, difficile da cacciare sia per questo, sia per la mutazione del colore del pelo; esso si chiama tarandro. Si dice che cambi colore del pelo a seconda dei luoghi in cui si trova; e infatti assume il colore degli alberi e dei luoghi e di tutto ciò presso cui si aggira. Il cambiamento del colore del pelo è estremamente mirabile. Infatti i restanti animali, come il polipo e il camaleonte cambiano la pelle...». E ancora: «Nel Pantheon c’è un olivo che si chiama callistefano. Tutte le foglie nascono al contrario rispetto a quelle degli altri olivi; infatti sono verdi all’esterno, nere all’interno. I ramoscelli spuntano come nel mirto simmetricamente a corona. Eracle prese un virgulto di quest’olivo, lo piantò a Olimpia: da questa pianta si ottengono le corone per gli atleti». Oltre a questi ed altri argomenti che potremo definire in senso lato naturalistici, vale a dire zoologici e botanici, ci sono poi capitoli che riportano notizie meravigliose riguardo le fonti e i fiumi: «Si dice che a Tiana ci sia un’acqua sacra a Giove custode dei giuramenti, la chiamano Asbamea; il suo fiotto sgorga sempre gelido ma ribolle come i lebeti. Con chi giura il vero essa risulta dolce e benigna, per gli spergiuri la giustizia arriva immediata». Non meno affascinanti sono i mirabilia di tipo mitografico: «Dicono che le isole delle Sirene si trovino in Italia nel braccio di mare che giace di fronte allo stesso promontorio. Il luogo è sporgente e separa i due golfi, quello in cui si trova Cuma e quello che comprende la città chiamata Posidonia. Qui si trova anche un tempio delle Sirene, che sono sommamente venerate dagli abitanti del luogo con riti sacri e solenni. Ne ricordano anche i nomi chiamandole Partenope, Leucosia e la terza Ligeia...». Al prodigioso spesso si accompagna il timore: «In una delle sette isole dette di Eolo, che si chiama Lipari, narrano che sia una tomba, a proposito della quale circolano molte dicerie, anche fantasiose, ma tutti sono concordi nell’ammettere che non ci si può avvicinare a quel luogo di notte; infatti si sente in forma distinta un’eco di timpani e di cimbali e un riso con strepiti strani e suoni di nacchere...». Spesso mi chiedo leggendo questo libro così strano e avvincente se, a parte i prodigi della natura, siano atemporali le – 161 – espressioni della creatività umana; quale il confine tra realtà e fantasia; se il prodigioso appartenga ad una dimensione metareale o se invece più semplicemente in tutti i momenti della sua storia l’uomo abbia mescolato neppure troppo inconsciamente i due piani. Come al solito non ho risposte, pongo solo problemi, anzi mi piace provocare la curiositas mia e degli altri e fra poco giuro... mi sollevo a mezz’aria almeno di trenta metri come il colosso di Rodi! – 162 – CLAUDIO JANKOWSKI Fare teatro. Perché? La scena è il luogo ideale per un’azione liberatoria, terapeutica ed educativa. Attraverso l’immedesimazione o il ricoprire un ruolo o un personaggio, il ragazzo handicappato utilizza in condizioni controllate la spontaneità delle reazioni alle situazioni della sua vita tutti i giorni. Tutto ciò arricchisce la personalità del “novello” attore dal punto di vista individuale e sociale, oltre che artistico. Egli nello spazio scenico dà libero sfogo alle sue possibilità e capacità espressive acquistando, nell’esibirsi, sicurezza e forza in sé, e riesce a fare cose e a realizzare situazioni e azioni che nel quotidiano non riuscirebbe a fare. Nello scrivere queste righe mi rifaccio a tante esperienze già svolte nel settore e, fra le tante, voglio citare quella emblematica svolta dal regista Bob Wilson che è partito, nel suo teatro di ricerca, proprio dall’esperienza acquisita nel lavorare con persone dotate di gravi handicap che riuscivano ad esibirsi in quadri costituenti spettacoli di straordinaria bellezza e fascino. Il teatro magnifica l’esperienza del singolo e la proietta in un campo senza limiti né di spazio né di tempo lasciandolo libero di essere totalmente sé stesso e creatore, con il suo mondo finalmente esibito, di un sé più ricco, originale e senza i confini arbitrariamente, tante volte, messi dalla società così poco comprensiva e ricettiva della persona. Personalmente ho visto individui fortemente limitati nella vita quotidiana liberarsi e addirittura superare completamente certi handicap per poi riprenderli alla fine della scena. L’incredibile Orlando, cieco da anni, danza nella Lindsay Kemp Company, altri attori di cui non posso fare nomi recitano correttamente pur afflitti nel quotidiano da menomazioni che farebbero pensare come impensabile un loro lavoro professionale nel teatro. La persona in situazione di handicap trova nel gruppo di lavoro la rivisitazione di altri momenti del suo vissuto e nell’interazione con gli altri ritrova capacità vitali ed affascinanti. Il rapporto emotivo che si stabilisce fra gli attori ed il pubblico, fra gli attori e gli animatori, diventa capace di infinita forza vitale che riesce a rendere impensabilmente creativa e libera la persona che vive questa esperienza. – 163 – L’azione scenica e il teatro sono grandemente utili per ogni forma di recupero di handicap ed hanno in loro germi di straordinaria valenza in cui tutti dovrebbero credere. – 164 – GIOVANNI MARCHETTI La società dei consumi: origini, evoluzione, prospettive La nostra, è stato più volte affermato con toni di denuncia, è una società contrassegnata dal consumo. Ma cosa c’è in realtà dietro questa ambigua etichetta? Possiamo considerarla tale perché in essa la soddisfazione dei bisogni quotidiani avviene per via capitalistica, cioè attraverso l’acquisto e l’utilizzo di merci sul mercato? Oppure “consumare” è anche una pratica culturale complessa ed implica molto più che soddisfare i propri bisogni quotidiani attraverso l’acquisto di merci e servizi? Che cosa ha significato il consumo di certe merci in passato, come ha condizionato il nascere di “certe culture”? La società dei consumi è nata solo in questi ultimi decenni o è figlia dell’età moderna? Ed in più che ruolo hanno le emozioni nel condizionare il nascere delle mode e delle tendenze soprattutto giovanili? Come la società attuale ed in particolare gli adolescenti possono difendersi dai cosiddetti bisogni indotti? E, per finire, c’è un’alternativa a questa deriva consumistica? Su questi interrogativi si cercherà di riflettere mettendo a confronto alcuni studi più recenti fatti da economisti, sociologi e psicologi dell’economia. IL CONSUMO NELLA STORIA L’uomo, fina dalla nascita ha consumato beni per soddisfare i propri bisogni; lo stesso consumo di oggetti era presente già nelle antichissime società tribali. Ma se vogliamo collegare il termine “consumo” a quello di “produzione” dobbiamo senz’altro riferirci a quel periodo che oramai gli storici fissano nel neolitico (tra il 10.000 ed il 9.000 a.C.). A questo periodo si fa risalire, infatti, la nascita del villaggio a cui si associa la nascita dell’agricoltura, dell’allevamento, della ceramica, della tessitura delle fibre sia vegetali (lino) che animali (lana), della levigatura delle pietre dure per fabbricare utensili. Mentre, sicuramente, l’attività economica del villaggio si basava sull’autoconsumo, con la nascita delle prime città si può decisamente parlare dell’inizio degli scambi commerciali. Fulgida testimonianza – 165 – la città di Gerico situata in Palestina ad ovest del Giordano, considerata la più antica città della storia (VIII millennio circa a.C.). I ritrovamenti attestano che oltre all’economia agricola era presente un commercio del sale, dello zolfo e del bitume nonché dei prodotti tessili. Da allora, in tutte le epoche successive, furono prodotti oggetti che oltre ad attestare un certo livello di produzione e di consumo raggiunto, avevano lo scopo di tramandare quella particolare cultura di riferimento oltre i confini del gruppo che ne era originariamente depositario (pensiamo alla civiltà egizia, greca e romana). Nella ricerca di quei generi di consumo che hanno avuto un certo peso nello sviluppo culturale umano possiamo sicuramente inserire il sale. Esso infatti era un’antichissima sostanza sacra; le parole latine salute, salvezza, sanità derivano da sal, appunto sale in latino (W. Schivelbusch, 1999). Esso viene offerto agli dei, serve da conservante, da medicina, da condimento. Così nell’antica Grecia all’ospite si offriva sale e pane, simboli della vita e della sacralità. Nel linguaggio corrente, ancora oggi si usano espressioni bibliche come “sale della vita” e “sale della terra”. Se il sale risale ad origini antichissime (ne abbiamo testimonianza già nell’antica Gerico) la storia del pepe, almeno in Occidente, è databile con precisione infatti è con il Medio Evo cristiano che incomincia un nuovo capitolo per la storia di questa spezia. Il pepe, già in uso in modo molto blando in epoca romana, diventa per l’uomo del Medio Evo, insieme ad altre spezie quali la cannella, il garofano e la noce moscata, ambasciatore di un mondo leggendario, quello d’Oriente. “L’aroma delle spezie viene considerato come un effluvio che dal paradiso spira sul mondo dei mortali” (Schivelbusch, 1999). Il pepe e le spezie in generale ci permettono, quindi, di analizzare i rapporti tra il mondo cristiano e quello arabo-islamico. Sicuramente dobbiamo riconoscere che alla cultura araba l’Europa non deve soltanto il sistema numerico, grazie al quale furono possibili la contabilità e con essa tutte le forme di organizzazione capitalistica moderna. Ad essa dobbiamo l’influsso nell’alto Medio Evo che si manifesta nell’importazione, prima delle spezie, e poi di oggetti di lusso (tappeti, sofà) con i quali incominciarono ad arredarsi ambienti fino ad allora spogli e scomodi. In realtà questi nuovi prodotti (seta, velluto, damasco) destinati alla classi più agiate tanto più diventavano oggetti di desiderio quanto più erano “importati”. L’Occidente, fin d’allora, veniva cioè a porsi in una condizione di dipendenza dall’Oriente, con le merci si importavano non solo prodotti, ma, cosa più importante, – 166 – anche le mode. Si può paragonare la dipendenza per quelle merci di quel periodo a quella del XX secolo dal petrolio? Si (Schivelbusch, 1999). Infatti come senza petrolio è impossibile mantenere il tenore di vita occidentale di oggi, così le merci di lusso furono nel Medio Evo requisito essenziale per lo stile di vita delle classi superiori europee. Naturalmente l’importazione di queste merci mise in moto un commercio senza precedenti sulle lunghe distanze: è risaputo che le spezie in quel periodo ebbero la stessa funzione svolta per il commercio inglese del XIX secolo dal cotone e dal tè. Peccato che nella disputa odierna sulla presunta supremazia della cultura occidentale ci si dimentichi della “dipendenza economica” dell’Occidente nei riguardi dell’Oriente. Dicevamo del pepe, ma anche delle altre spezie di importazione che fecero la loro apparizione sulle tavole dei nobili fin dall’alto Medio Evo. Servite a parte su vassoi d’oro o d’argento arricchivano le tavole e se ne faceva collezione come di oggetti preziosi oltre che per aromatizzare i cibi. E questi beni non solo divennero, alla moda, ma, insieme ad altre merci di lusso (profumi, seta ecc), consentirono quell’accumulazione capitalistica ad opera dei primi mercanti medioevali che, proprio per rifornirsi di quei beni, uscirono dai confini dei loro feudi per aprirsi al commercio mondiale. Sarebbe proprio la natura di queste merci ad aver favorito, infatti, l’organizzazione capitalistica nel commercio, nell’industria ed in agricoltura. La domanda di beni voluttuari occupa un posto importante tra i fattori genetici del capitalismo, sia materialmente, avendo favorito i consumi e, quindi, lo sviluppo di forme di produzione più efficienti, sia culturalmente come spia e catalizzatore di una nuova configurazione dei bisogni che si è via via diffusa dalla nobiltà all’alta borghesia fino agli strati sociali più bassi (Sassatelli, 2004). Accanto alla nobiltà che tradizionalmente, come nelle corti rinascimentali italiane o in quelle assolutistiche francesi del seicento, anticipava con i consumi di lusso la modernità, fu l’alta borghesia, in seguito all’accumulazione di capitale per via commerciale e finanziaria, a rappresentare un nuovo bacino di consumo importante. È nel Rinascimento che si pongono le basi per lo sviluppo dell’età dei consumi: nasce il mercante poliedrico che può possedere una casa editrice ma anche uno zuccherificio o una saponeria; ma soprattutto si differenzia da quello medioevale che difficilmente esce dalla sua “bottega” essendo poco propenso a viaggiare (Garin, 1988). Come i mercanti anche i banchieri si differenziano dai loro predecessori medioevali per la maggiore propensione ad investire in tutti i campi compreso quello immobiliare. I nuovi borghesi – 167 – del ‘400 si concedono anch’essi i lussi della classe aristocratica con le dimore in campagna, le feste, i consumi di lusso. Anche grazie al fatto che divennero portatori di nuovi valori culturali e professionali (pensiamo al settore dell’editoria, dell’arte, dell’architettura) essi riuscirono ad inserirsi tra i ranghi della nobiltà divenendo personaggi di casa negli ambienti di governo delle città, ma anche in quelli principeschi. I principi ed i monarchi avevano bisogno di loro per rafforzare il loro potere attraverso finanziamenti e prestazioni di servizi di alto livello (dogane, monopoli, appalti, riscossione di gabelle). Questo fu possibile grazie alla elaborazione da parte del mercante di tecniche nuove che costituivano il suo patrimonio intellettuale peculiare. Oltre a saper leggere e scrivere, applicava la matematica, conosceva la geografia ed il diritto. Nello stesso tempo la nascita dell’editore-mercante contribuì alla diffusione delle nuove idee e delle nuove mode: è infatti alla metà del ‘400 che si fa risalire la nascita della moderna arte tipografica ad opera di Gutenberg. Dopo il ‘500 le grandi famiglie di commercianti decaddero un po’ ovunque anche a causa del loro eccessivo coinvolgimento nelle guerre a fianco di chi governava le città. Il ruolo del mercante venne progressivamente sostituito da quello dei nascenti imprenditori. Fino alla fine del ‘700 si registra, sempre in Inghilterra, un continuo progresso per ogni specie di impresa: in agricoltura, nella manifattura e nel commercio. Venne così costituendosi l’economia moderna basata sulla macchina, sul vapore, sulla metallurgia, sull’uso del carbone, sull’accumulazione progressiva di conoscenze tecnologiche, e, naturalmente, sul sistema di produzione industriale e sul trasporto su ferrovia. A queste considerazioni si possono aggiungere le tesi weberiane circa la notevole influenza che l’etica protestante avrebbe avuto sulla nascita del capitalismo. Infatti, a differenza delle dottrine della Chiesa cattolica e del cristianesimo medioevale in generale che avevano di fatto impedito lo sviluppo dell’etica individualista, il protestantesimo, soprattutto nella versione calvinista della predestinazione, avrebbe materialmente permesso, mediante la coazione ascetica al risparmio, la formazione di capitale necessaria allo sviluppo dell’impresa capitalistica. Il successo negli affari, infatti, per l’uomo calvinista, poteva essere un segno della grazia di Dio, per cui se Dio offriva ad uno degli eletti un’occasione di buon investimento era tenuto a coglierla per non correre, oltretutto, lasciandosela sfuggire, il rischio di perdere la grazia. A sostegno di questa tesi il sociologo mostra come proprio nei Paesi Bassi, paese rigorosamente protestante, nel’600 si – 168 – fosse raggiunto l’apogeo dello splendore economico in una stretta unione tra ascetismo ed edonismo (Weber, 1904). L’intensificarsi dello spirito capitalistico spinge verso una razionalizzazione del sistema economico che può avere effetti costrittivi sulle persone. La produzione di beni di lusso avviene già alla fine del’700 su larga scala per cerchie sempre più allargate della popolazione e, sotto una apparente democratizzazione, in realtà rende masse crescenti di persone sempre più vittime della velocità della moda. Con lo sviluppo delle grandi città moderne come Londra ed Amsterdam, in cui si concentravano i “grandi consumatori”, nasce anche l’esigenza di maggiori svaghi e divertimenti con nuovi locali per tutti i gusti. Nascono anche negozi sempre più eleganti e raffinati in cui le donne sono “sovrane”. Anche l’arte e la letteratura con i loro messaggi di emancipazione femminile dalle rigide regole dell’amore imposte dalla religione contribuiscono a costruire nuovi modelli culturali di orientamento estetico-edonistico. Non a caso simbolo culturale delle nuove figure femminili divennero le “cortigiane” non tanto perché simboleggiavano la libertà dei nuovi costumi, ma perché erano considerate donne raffinate e belle: esse divennero ben presto un modello estetico da imitare con la conseguenza inevitabile di un aumento di consumi costosi e voluttuari da parte del mondo femminile. La moda, quindi, diventa associata alle donne ed alla loro femminilità: tale associazione avrebbe radici storico-sociali in quanto la donna, generalmente più debole socialmente dell’uomo (perché ad essa erano fino ad allora riservate funzioni di secondo piano), era attratta da una moda che, non casualmente, mandava già allora messaggi che avevano la funzione di farla sentire tanto più importante quanto più fosse ricercato, lussuoso ed esclusivo il suo abbigliamento. Anche la casa a partire dall’800 diventa luogo di consumo per appagare l’uomo stanco del lavoro ed anche lì è, naturalmente, la donna l’“angelo del focolare”... Quindi se da un lato la sfera dei consumi ha offerto alle donne, soprattutto quelle appartenenti ai ceti borghesi, uno spazio legittimo di azione, per lungo tempo le ha anche confinate in questo spazio. I moderni studi socio-economici sottolineano che il valore economico è un prodotto culturale. Come il pepe ed in generale tutte le spezie d’Oriente hanno svolto, come abbiamo visto, un ruolo importante nella storia culturale del Medio Evo, contribuendo a far uscire la società feudale occidentale da una cultura prevalentemente contadina, così, il caffè, bevanda importata dal vicino mondo arabo-islamico, per le sue virtù stimolatrici dell’intelletto, ha avuto un ruolo ugualmente importante per la nascente so– 169 – cietà borghese della fine del ‘600. Grazie alle virtù che incarna quali la sobrietà, la ragionevolezza e l’operosità, il puritanesimo inglese e, più in generale l’etica protestante, ne fanno, la loro bevanda d’elezione”. Con l’aiuto del caffè, l’umanità perduta nelle nebbie dell’alcol si risveglia alla ragione borghese, riconquistando tutta la sua capacità lavorativa” (Schivelbush, 1999). Al caffè non a caso vengono associati i luoghi di degustazione pubblica che sono stati fondamentali per lo sviluppo di una cultura propriamente borghese e liberale dove il consumo di caffè si mescola e fa da veicolo alla costruzione di nuovi atteggiamenti non solo di consumo. Il caffè, inoltre, viene a rompere la monotonia del consumo di alcol (vino, birra) di cui si faceva largo uso fin dal Medio Evo. E se il caffè è l’espressione della società borghese-capitalistica-protestante dell’Europa nord occidentale, la cioccolata, dal canto suo, è bevanda più spiccatamente cattolica e meridionale. Essa non ha, al pari del caffè, proprietà stimolanti del sistema nervoso, ma proprietà altamente nutritive in più con potere afrodisiaco almeno stando alle opinioni dell’epoca. Sempre secondo queste convinzioni ciò che il caffè dava allo spirito sottraeva al corpo, per cui la cioccolata, nutrendo il corpo, rappresentava la corporeità barocco-cattolica contro l’ascesi protestante. Proprio per questo e per il fatto di essere degustata soprattutto in forma liquida, non interrompendo il digiuno, costituiva anche un ottimo surrogato alimentare durante i digiuni e la quaresima. Importata dal Messico dagli spagnoli all’inizio del XVI secolo in regime di monopolio del commercio con il Nuovo Mondo, per cento anni fu usata solo dalla corte di Madrid divenendo ben presto uno status symbol. Venne poi esportata sia in Francia che in Italia perdendo però il suo originario carattere “clericale”. Nel XVII e XVIII secolo diventa la bevanda tipica dell’Ancien Régime e decade solo a partire dal XIX secolo per diventare la bevanda delle donne e dei bambini tanto che il più grande produttore di cacao diventa, ironia della sorte, proprio uno dei paesi più protestanti, l’Olanda. Al contrario della cioccolata, lo zucchero, usato a dosi massicce nel ‘700 in Inghilterra, divenne ben presto un lusso democratico utilizzato molto anche dalle masse proletarie a dimostrazione che i consumatori incominciarono a divenire dipendenti da mercati che andavano ben oltre la loro visione del mondo. Si profila così per la società inglese ed olandese della fine del Seicento-inizio Settecento una sorta di individualismo materialistico di massa, che affonda le sue radici nei flussi internazionali delle merci e nell’idea che la soddisfazione dei desideri di consumo individuali sia il principale motivo da cui scaturisce l’ordine sociale e la fonte del va– 170 – lore delle cose. Mentre le colonie avevano il ruolo di serbatoi lontani esotici e misteriosi di merci sempre nuove, i desideri individuali dei consumatori occidentali diventano inesauribili ed incomincia così a rinsaldarsi quel connubio tra identità e consumi che caratterizza la cultura contemporanea occidentale (Sassatelli, 2004). La cultura del consumo si rafforza naturalmente nell’800 con il diffondersi della stampa quotidiana in Inghilterra prima con la diffusione dei “Penny-papers”, i giornali da un penny, che raggiunsero ben presto tirature fino a 200.000 copie, ed in Francia poi con La Presse e il Siècle che, a differenza di quelli inglesi del ‘700 destinati alla borghesia mercantile, si presentavano come “popolari” sia nella forma che nei contenuti a dimostrazione che la stampa non era più solo un fatto di élite, ma interessava un pubblico sempre più vasto. Ma l’aspetto sicuramente più interessante di queste pubblicazioni di inizio ‘800 è dato dalla comparsa, sempre in Francia, della pubblicità sotto forma di réclame e del feuilleton, romanzo d’appendice a puntate, che spesso finiva per essere la prima attrattiva del giornale; il primo ad iniziare le pubblicazioni fu La Presse con i romanzi a puntate di Honoré de Balzac nel 1837. IL ‘900 ED IL CONSUMO DI MASSA Forse l’epoca dei consumi di massa ha inizio con la dichiarazione di Henry Ford del 1909 “bisognava produrre e vendere un modello unico di automobili, a buon mercato e sicuro, per la grande massa affinché chiunque guadagnasse una buona paga potesse godere con la propria famiglia il beneficio delle lunghe ore di gioia negli spazi aperti del Signore” (Rostow,1975). Questa non è solo una dichiarazione di intenti, ma anche l’affermarsi di una nuova filosofia di vita che vede nel possesso di determinati beni come l’automobile la giusta ricompensa per un duro lavoro, ricompensa benedetta dal Signore. Come la ferrovia e tutta l’industria pesante sono state il “motore” dell’economia dell’‘800, così l’automobile lo è per il ‘900. In breve l’automobile, almeno negli Stati Uniti con una produzione che dagli otto milioni di autovetture prodotte nel 1920 passò ai ventitre del 1929, favorì il primo ingresso effettivo di una società nello stadio dell’elevato consumo di massa. L’uso dell’automobile si associa al “tempo libero” che è da considerarsi una vera e propria conquista per la società borghese dell’epoca e nel tempo – 171 – libero c’è spazio anche per lo “shopping” da fare possibilmente nei nuovi spazi commerciali che nascono un po’ ovunque. Se negli Stati Uniti si può parlare di consumi di massa a partire dagli anni ‘20, in Europa dobbiamo aspettare gli anni cinquanta e sessanta con la produzione non solo delle automobili, ma anche dei frigoriferi e delle lavatrici (Rostow, 1975). È questo, sicuramente, il periodo d’oro per l’industria che, dall’inizio della rivoluzione del ‘700, riesce finalmente a soddisfare i bisogni dei consumatori. Se, infatti, all’inizio l’industrializzazione era riuscita soprattutto a elevare ingenti masse di popolazione da livelli di indigenza a livelli di sussistenza, è certamente con il Novecento che i “consumi di massa” diventano segni tangibili di benessere e di progresso: con l’automobile l’operaio può finalmente uscire dagli angusti confini delle zone dove è stato a lungo relegato e godersi, o avere la sensazione di godersi, tutto ciò che di bello ed attraente incomincia ad offrire la città. Nello stesso tempo la moda diventa la metafora del fascino che le novità esercitano sul soggetto moderno in generale e sulla borghesia e le classi medie in particolare: a differenza della nobiltà, i borghesi non possono fare affidamento su tradizioni e stili familiari di lunghissima durata e, a differenza delle classi meno abbienti, essi sperano di migliorare la propria posizione sociale e di segnalare agli altri la propria identità, così facendo esprimono da un lato un bisogno di coesione cioè di appartenenza ad un gruppo e dall’altro di differenziazione da un altro gruppo (Simmel, 1895). E da questo momento la teoria economica, nella sua versione marginalista, comincia a considerare i consumatori i sovrani del mercato: le loro decisioni d’acquisto sono il motore di un sistema in cui, tramite il mercato, domanda ed offerta sono tenuti in equilibrio (Schumpeter, 1955). Così accanto alla massimizzazione del profitto da parte dei capitalisti si incomincia a parlare di massimizzazione dell’utilità da parte dei consumatori. Con i mitici anni ‘60 irrompono di prepotenza sul mercato i jeans, i Beatles, i juke-box ed inizia quel lento processo di omologazione delle mode giovanili, degli stili di vita, del linguaggio che diventerà il leitmotiv delle analisi sociologiche della società contemporanea. È questo il momento storico che più di ogni altro soddisfa per via capitalistica le esigenze di gran parte della popolazione “occidentale” ed in Europa si registra un vero e proprio boom che stravolge i modelli di vita di centinaia di milioni di persone che, finalmente, tentano di esorcizzare i patimenti degli anni precedenti tuffandosi nei consumi. – 172 – IL CONSUMO NELL’ERA DELLA POST-MODERNITÀ Anche se con Shumpeter abbiamo visto che il consumatore è sovrano, in realtà il consumo, come attività economica, nell’era della modernità non ha mai avuto una propria distintiva specificità dipendendo in tutto o in parte dalla produzione. Nell’era della postmodernità in cui stiamo entrando, al contrario, assume una inedita centralità e crucialità. Dall’idea superata del consumo dei beni come distruzione, logorio e annullamento di essi si passa a considerare il consumo come “una forma di metalinguaggio con cui costantemente comunichiamo, tramite le nostre scelte, a noi stessi ed agli altri: un testo, anzi un ipertesto che veicola messaggi che seguono una grammatica ed una sintassi ed un sistema di regole” (Fabris, 2003). Nella nostra vita quotidiana consumiamo libri, tempo libero, cibi, vestiti, viaggi aerei, Internet; prodotti per cui si registra un ampio consenso sociale, ma anche molti prodotti trasgressivi e privi di contenuto etico. Gli stessi concetti di bisogni ed utilità, tanto cari agli economisti, non trovano più che parzialissimi riscontri nella complessità dei mercati odierni: oggi sono i desideri che hanno metabolizzato i bisogni. Cercheremo, quindi, di analizzare come e perché i desideri, se non proprio i sogni, sono subentrati al posto dei bisogni, quale ruolo hanno le emozioni nelle scelte economiche e quale influenza ha avuto ed ha la pubblicità soprattutto sulle giovani leve. Anche se molti economisti hanno fino a poco tempo fa ignorato il ruolo delle emozioni nelle decisioni e nelle condotte economiche, negli ultimi vent’anni si è assistito ad un crescente riconoscimento, da parte di psicologi e sociologi, del ruolo che queste possono avere nel processo decisionale delle scelte economiche (Mannetti, 2004). Le emozioni, infatti, lungi dallo svolgere un ruolo distruttivo nei confronti dei processi decisionali, costituiscono, al contrario, uno strumento necessario nella presa di decisioni. Addirittura le emozioni consentirebbero di agire in modo efficace assumendo le funzioni che la razionalità non sarebbe sempre in grado di svolgere. “Il ruolo delle emozioni nelle decisioni può essere spiegato se si tiene presente la capacità che le persone hanno di immaginare gli esiti delle proprie scelte e di associare a tali esiti delle reazioni emotive” (Mannetti, 2004). Pensiamo ad un piccolo investitore: davanti ad un ventaglio di possibili strumenti finanziari a cui destinare i propri risparmi (azioni, bot, obbligazioni) potrebbe essere spinto ad effettuare le scelte proprio in funzione delle possibili conseguenze emotive che da quelle – 173 – scelte potrebbero derivare. Che dire, poi, del rammarico che i consumatori provano con riferimento al momento nel quale hanno effettuato un determinato acquisto? Chi non ha mai sentito affermazioni come quella del tipo: se avessi aspettato gennaio per comprare il cappotto avrei risparmiato il 50%, oppure se avessi venduto le azioni il giorno dopo avrei guadagnato il 20% in più. Strettamente legata alle emozioni è la funzione della pubblicità. Quali emozioni fanno nascere certe immagini pubblicitarie e quanto peso hanno nell’influenzare le scelte decisionali del consumatore? Il riconoscimento del ruolo importante svolto oggi dalle emozioni non viene solo dal mondo della psicologia, ma anche da quello della sociologia economica. Le emozioni che, in una cultura misogina che stiamo lasciando alle spalle, erano considerate femminili e, quindi, qualcosa di cui diffidare, attualmente, invece, grazie al trend positivo che tende a diminuire le differenze tra i due sessi acquistano sempre più rilievo nel ruolo delle decisioni e dei comportamenti dei consumatori. È evidente che nel gioco delle “emozioni intese come alterazione della nostra affettività che si presentano improvvisamente come reazione ad uno stimolo esterno” (Fabris 2003) un manifesto o uno spot pubblicitario di un certo tipo possono operare in modo fortemente condizionante. Di qualunque natura siano, di paura, di gioia, di commozione o di odio esse possono comportare un’alterazione più o meno profonda dei nostri processi psichici e, quindi, delle nostre scelte. Le emozioni, comunque, possono anche essere reazioni passeggere che non influenzano più di tanto i nostri comportamenti. Solo quando diventano “sentimento”, cioè un atteggiamento caratterizzato da una forte componente affettiva, possono causare un attaccamento più marcato verso una marca o un simbolo. In queste riflessioni sui consumi non si può non considerare quali sono gli atteggiamenti dei giovani al riguardo. Se il discorso sulle emozioni e, quindi, sui condizionamenti nelle scelte di natura economica, riguarda in generale il mondo dei consumatori, cosa dire dell’influenza che massmedia e pubblicità possono avere oggi sull’insorgenza di emozioni e, quindi, di atteggiamenti giovanili in tema di consumi ? “Pensi che sia cool? È fashion?” Sono le domande che, come al solito, nate oltreoceano, sono rimbalzate prepotentemente tra le schiere dei nostri teenager che le hanno fatte proprie. La ricerca di ciò che fa tendenza è per sua natura zeppa di insicurezze. Ma proprio basandosi su queste insicurezze adolescenziali i pubblicitari e gli amministratori delle case produttrici specializzate smuovono miliardi di dollari (Naomi Klein, 2001). Certo la stragrande – 174 – maggioranza dei giovani di oggi cerca la soddisfazione di un desiderio, cioè l’appagamento di un sogno. I giovani di oggi, più liberi dei loro coetanei di 20 anni fa dalla necessità di appagare bisogni primari, hanno sostituito i bisogni con i sogni, che non necessariamente possono essere appagati essendo, per loro natura, più legati alla sfera della imprevedibilità e della duttilità. La pubblicità di oggi, con immagini sempre più belle e raffinate, può diventare, come in parte già è, una pericolosa fabbrica di facili emozioni alimentando tra gli adolescenti di oggi, sicuramente più fragili di quelli di ieri sul piano emotivo, un mondo di sogni e di desideri che, purtroppo, non potranno esaudire. Più che dalla cosiddetta pubblicità ingannevole i giovani di oggi vanno difesi da quella pubblicità che, strettamente in linea con i dettami del mondo della produzione, crea bisogni irrealizzabili. I giovani di oggi non rafforzeranno certo il loro senso di autostima dovendo correre dietro a questa grandiosa fabbrica di illusioni, né potranno sempre compensare gli insuccessi derivanti dai rapporti interpersonali rifugiandosi nel possesso sempre più insistente di beni materiali con il rischio di entrare in un circolo vizioso. La pubblicità esercita, poi, sui giovani, un’influenza negativa anche e soprattutto nell’affermazione dei “nuovi valori” quali la virilità, la femminilità, l’attrazione sessuale, la ricchezza. Questi sono i valori che rendono felici per cui i “valori” di una volta quali l’amore, la giustizia, la solidarietà, l’amicizia passano in secondo piano o vengono addirittura ignorati in quanto ritenuti poco redditizi sul piano economico/pubblicitario. E se, in un primo momento, alcune immagini così “belle” e “serene” della pubblicità potrebbero apparire rassicuranti, in un mondo sempre più violento che ci trasmette di continuo immagini sempre più raccapriccianti, a ben vedere, tali immagini costituiscono una spiaggia di serenità e di pace fin troppo fuori dal mondo e, quindi, per questo ancora di più fuori dalla realtà (Zanacchi, 2004). Si potrebbe obiettare che più la pubblicità offre “modelli culturali” lontani dalla realtà, più i suoi effetti dovrebbero essere meno nocivi, anche sui giovani; ma molti studiosi di fama internazionale sostengono che non si deve mai sottovalutare il forte potere persuasivo che, comunque, la pubblicità esercita con le relative conseguenze indesiderate sui comportamenti soprattutto dei giovani (Pollay, 1986). Con la complicità dei media, la pubblicità si è affermata come lo strumento più vistoso di un processo produttivo e commerciale che, sempre con l’obiettivo del profitto, vede nel consumo la fonte di una felicità impossibile: crea, al contrario, insicurezza personale, preoccupazione per il proprio – 175 – status sociale e, nei genitori, il timore di non riuscire a soddisfare i bisogni dei figli (Zanacchi, 2004). Quindi, il problema è da, un lato, come contrastare in qualche modo il dilagare di certi messaggi pubblicitari e, dall’altro, come rafforzare soprattutto nei giovani più socialmente indifesi dei sistemi di “difesa immunitaria” da tali messaggi. Se anche il Giurì dell’autodisciplina pubblicitaria ritiene che i giovani, soprattutto i più piccoli, sono ancora molto esposti agli stimoli negativi della pubblicità, bisogna fare in modo che anche la scuola faccia la sua parte nella costruzione di una identità positiva delle giovani leve. Sempre che, anche in Italia, non si segua l’esempio degli Stati Uniti dove molte scuole pubbliche hanno aperto le loro porte agli sponsor privati. Infatti molte scuole, in cambio del libero uso delle apparecchiature audiovisive, hanno acconsentito a due minuti di pubblicità televisiva al giorno trasmessa all’interno di programmi destinati agli adolescenti. Ma la cosa buffa, si fa per dire, è che gli studenti sono obbligati ad assistere alla trasmissione ed i docenti non possono neppure regolare il volume. La sola emittente Channel One ha finora raggiunto 12.000 scuole per circa 8.000.000 di studenti (Naomi Klein, 2001). IL CONSUMO: LA PAROLA AI GIOVANI Ma i giovani cosa pensano realmente di questi problemi, sono in grado di analizzarli con una certa autonomia di giudizio? Ho affrontato all’inizio dell’anno scolastico gli argomenti di maggiore attualità con gli alunni del liceo linguistico ed ho ricevuto, tra le altre, queste incoraggianti riflessioni. “Viviamo in un mondo costruito in cui la pubblicità è diventata una presenza costante nella nostra vita ponendo in secondo piano i valori morali ed in una situazione di evidente vantaggio quelli solo estetici”. (Giorgia, I Linguistico) “Oggi la nostra società è sempre più alle prese con la pubblicità. Ma non tutti i messaggi sono innocenti, molte volte nascondono altri significati. Ora ci vogliono tutte uguali, ora attraverso le veline o le letterine ci portano a non accettare noi stesse a causa di qualche chilo in più”. (Annamaria, I Linguistico) – 176 – “Questi giovani si ritrovano ad avere tutto in una società in cui tutti hanno tutto e, per questo, quel “tutto” ai loro occhi diventa niente. Ecco perché incominciano ad aspirare a cose ed a desideri sempre più difficili da soddisfare. I ragazzi che si incontrano per strada hanno tutti lo stesso stile, gli stessi pantaloni che calano, gli stessi occhiali, le scarpe slacciate, lo stesso taglio di capelli; questi sono i dettami della moda e chi non li segue viene, inevitabilmente, messo fuori dal gruppo”. (Claudia, II Linguistico) “Nel mio piccolo vivo ogni giorno quello che viene definito il frutto del capitalismo: posso acquistare prodotti di abbigliamento e calzature costose, navigo su Internet, ho la fotocamera digitale, faccio delle vacanze estive ed invernali in luoghi frequentatissimi, seguo sempre la moda nell’agire. Tutto ciò a prima vista può sembrare il massimo, ma non è così. In effetti tutto quello che faccio acquistando, giocando, viaggiando è il frutto di un plagio mediatico: compro quelle scarpe perché le indossa il campione preferito, vado in vacanza in un certo posto perché c’è un certo tipo di gente, vado su certi siti internet perché ci vanno tutti; faccio quello che mi propongono la televisione, i giornali, i media in generale. Mi accorgo allora che stiamo diventando dei robot senza intuizioni, senza iniziative, senza personalità, senza fantasia. Facciamo tutto come se ci fosse inconsciamente ordinato, non ci rendiamo conto che stiamo per diventare dei numeri”. (Michele, II Linguistico) “Per me poter prendere le proprie decisioni è libertà, è libertà uscire fuori dal branco, abbandonare quel conformismo che caratterizza la nostra società; essere liberi dalle catene del consumismo che ci legano e ci condizionano”. (Giulia, I Linguistico) “I bambini sfruttati mangiano pochissimo, sono costretti a lavorare dalla mattina alla sera sotto il sole o sotto la pioggia, spesso muoiono perché non riescono a sopravvivere a questo tipo di vita, ammettiamolo, schifosa ed indecente. Solo i ricchi fanno quello che vogliono e sono i poveri ad andare in mezzo alla strada. So che questo mondo dovrebbe cambiare, ma che quasi nessuno fa qualcosa per cambiarlo veramente, che tutti proteggono i loro interessi disinteressandosi degli altri”. (Federica, I Linguistico) – 177 – “L’economia ci limita: i padri sfruttano i figli, i bambini sono senza istruzione, le ragazze costrette a prostituirsi e tutto per i... soldi. I soldi sono riusciti a mettere in ombra gli ideali di libertà e di uguaglianza conquistati a caro prezzo. Non solo i bambini dell’Africa non sono liberi, ma anche in America i giovani americani sono “costretti” ad andare in guerra per il petrolio. È inutile dire che ognuno è libero di fare ciò che vuole: primo perché se fosse così ci sarebbero conflitti eterni, secondo perché tutto e tutti limitano. Siamo realmente liberi solo quando tutti gli altri lo sono. Ma il mondo sembra tutto omologato in un solo pensiero imposto da potenti e massmedia. Per me l’espressione di massima libertà è rappresentata da Ghandi che, in un mondo di violenza, ha deciso di professare la pace. È questa la vera libertà, ovvero la libertà di essere liberi di pensare fuori dalla massa”. (Alice, I Linguistico) CONSUMI E FELICITÀ Per concludere questo saggio sui consumi cerchiamo di rispondere ad una domanda che sembra banale, ma poi in fondo non lo è: ma questa società dei consumi rende almeno felici? È questo si un tema molto dibattuto tra psicologi, sociologi ed economisti. Questi ultimi sono sotto accusa per aver creato una scienza dell’infelicità. A cominciare dagli economisti classici che concordano con quanto sostenuto da Smith nella “Ricchezza delle nazioni”, sul fatto cioè che il mondo dell’industria, attraverso il mondo della produzione, soddisfa le esigenze del consumatore consentendogli di entrare in possesso del maggior numero di beni di suo gradimento. Ma è veramente così? Per millenni l’uomo non ha visto crescere sensibilmente il proprio reddito pro-capite, finché, circa due secoli fa, sotto la spinta della industrializzazione, è nata un’era carica di speranze e di promesse di miglioramento della condizione umana. Sicuramente il Pil pro-capite, che per gli economisti rappresenta il benessere materiale, è sensibilmente aumentato soprattutto negli ultimi cinquanta anni, ma il cosiddetto benessere sociale è aumentato di pari passo? Le voci che in qualche misura rientrano nel benessere e cioè occupazione, sanità, istruzione, distribuzione del reddito, coesione sociale, sicurezza tendono al ristagno e, qualcuna, al declino. Tanto che si parla di “paradosso della felicità” ad indicare proprio questo fenomeno dell’aumento del reddito pro-capite a cui non corrisponde un miglioramento dello stato emotivo soggettivo, che in parole povere, vuol dire felicità. E questa forbice che – 178 – si è aperta tra ricchezza economica e benessere sociale è un colpo fatale per il pensiero economico dominante (Ruffolo, 2004). Ebbene, senza voler sposare le teorie più pessimiste sul tema, è indubbio che l’evidenza empirica indica in modo indiscutibile con una certa quantità di dati oggettivi e soggettivi che la crescita economica non ha necessariamente portato ad un benessere psichico soddisfacente (Bruni, 2004). Una possibile spiegazione è data dal fatto che il possesso di certi beni non può costituire da solo, motivo di benessere psichico: infatti, secondo la teoria della crescita, alcuni beni considerati di lusso da una generazione, diventano standard per quella successiva e bisogni assoluti per quella che segue. Un’altra spiegazione mette in evidenza che l’industrialismo ha la tendenza a produrre beni anziché tempo libero, tanto che si parla di una nuova categoria di poveri, i cosiddetti poveri di tempo; ed in più il tempo libero viene usato per ulteriori operazioni di consumo più che essere sfruttato per il miglioramento della qualità dei rapporti interpersonali. Quello del deterioramento dei rapporti interpersonali è un altro dei motivi fondamentali che rafforzano il “paradosso della felicità”. La letteratura sulla tendenza delle civiltà occidentali a diventare “materialiste” è molto ampia. Il materialismo viene definito “un insieme di ferme convinzioni riguardo alla importanza centrale, nell’ambito della propria vita, del possedere” (Richins, 1992). E coloro che privilegiano beni materiali rispetto ai rapporti interpersonali manifestano un benessere soggettivo inferiore a quello di chi opta per la scelta opposta (Bruni 2004), tanto che una eccessiva importanza attribuita al denaro può venir associata a maggior depressione ed ansia. Per sfuggire ad uno stato emotivo-depressivo si tende naturalmente a consumare quelli che vengono oggi chiamati i beni (o servizi) relazionali. E sicuramente l’industria dei viaggi potrebbe rientrare in questa categoria dei beni in quanto in molti casi attraverso il viaggio si cerca una “evasione” dalla vita quotidiana con la speranza di allacciare nuovi rapporti. Ma, fatte le dovute eccezioni, le vacanze riescono a produrre un reale miglioramento della condizione psichica soggettiva o sono da considerarsi, ahimè, la spia più evidente di una frustrazione collettiva? A proposito mi viene ora in mente un dialogo con un pescatore di Lipari da me incontrato in un viaggio di qualche tempo fa in compagnia di mia moglie che, venuto a conoscere la nostra città di provenienza, ci chiese “Ma perché siete venuti, non stavate bene a Roma?” Evidentemente per lui, dal suo punto di vista, era assolutamente inutile viaggiare e spendere dei soldi quando nel posto in cui vivi stai bene e sei felice. – 179 – E la narrativa d’avanguardia sembra, anche se con analisi diverse, condividere le idee del pescatore siciliano “Il turista odierno non va da nessuna parte; tutti i miglioramenti dell’esistenza portano agli stessi aeroporti ed agli stessi alberghi per turisti, alle stesse fesserie da pina colada. I turisti sorridono della loro abbronzatura e dei loro denti smaglianti, e credono di essere felici. Ma l’abbronzatura nasconde quello che sono veramente: schiavi salariati, con la testa piena di spazzatura americana. Il viaggio è l’unica fantasia del ventesimo secolo che ci è rimasta, l’illusione che andare da qualche parte ci aiuti a reinventare noi stessi. Invece non c’è nessun posto dove andare. Il pianeta è al completo. Tanto vale starsene a casa e spendere i propri soldi in cioccolata” (J.G. Ballard, 2004). E non credo che Ballard quando ha scritto queste cose volesse fare un piacere all’industria della cioccolata... Per concludere se è vero, come sembra, che l’infelicità derivante dalla frustrazione si accompagna all’abbondanza dei consumi in quanto “il capitalismo” lancia continuamente sul mercato nuovi beni che competono tra loro nell’occupare il tempo e lo spazio del consumatore e se è vero, quindi, che esso non ci libera dai vincoli della scarsità in quanto crea continue “scarsità” soprattutto sociali, il solo modo di sfuggire a questa nemesi storica del mercato è quello di “trasferire la sua ricchezza fuori del mercato” (Ruffolo,2004). Non nella gara autodistruttiva dei beni di status, ma nell’apertura di nuovi spazi culturali, cooperativi, solidali non soggetti, per loro natura a vincoli di scarsità. Il mercato non è la fine né il fine della storia. Nata nella società medioevale, entrata nelle mura della città moderna, l’economia di mercato prima l’ha conquistata gradualmente, poi ha incominciato a distruggerla. La società è matura per incominciare a contrastare l’economia liberista dominante con la sua finanza selvaggia, con il suo commercio selvaggio, con il suo sfruttamento selvaggio, con la sua distruzione ambientale selvaggia, attraverso la cosiddetta economia etica. Un’economia che dovrebbe ispirarsi, quindi, non già all’etica protestante, che come abbiamo visto con Weber, ha avuto un certo peso nella costruzione del capitalismo, ma a quella aristotelica. Sappiamo, infatti, che Aristotele, nell’Etica Nicomachea, si preoccupa più dei danni che potevano derivare al benessere sociale dall’esercizio di certe pratiche finanziarie che non dei lauti profitti privati che da esse derivavano. Aristotele, già allora, esprimeva delle preoccupazioni circa la legittimità morale del facile arricchimento ed invitava a riflettere sulla necessità di im– 180 – porre vincoli di comportamento contro le attività illecite della finanza e degli affari che generavano disuguaglianze e sfruttamento (Sen, 1991). Per Aristotele la felicità, infatti, è sganciata dalle attività sensoriali-riproduttive e dal possesso materiale dei beni, ma è strettamente collegata all’esercizio della ragione cioè alla virtù etica. Gli uomini sono dotati dalla natura della capacità di acquisire la virtù, ma tale capacità rimane, tuttavia allo stato potenziale e non si attua se non in seguito al ripetuto esercizio di azioni idonee a conformare in senso virtuoso il carattere di chi le compie. Solo gli uomini che compiono continuamente azioni virtuose raggiungono la felicità perciò invitava i padri e gli insegnanti non tanto a trasmettere nozioni puramente teoriche, ma a guidare i giovani ad agire secondo pratiche virtuose. La semplice conoscenza teorica non rende virtuosi essendo necessaria anche e soprattutto la “volontà” di esserlo (Cioffi, 1991). IL CONSUMO “VIRTUOSO” Ma cosa si nasconde, in realtà, dietro questa economia etica? Un mondo di pura contestazione, fatto di soli “no”, e, quindi, destinato al fallimento, oppure un mondo di soggetti concretamente impegnati nell’elaborazione di un modello alternativo sostenibile e plausibile? Al variegato mondo del mercato etico appartengono singoli imprenditori, associazioni ambientaliste, ong, gruppi di finanza etica, des (distretti di economia etica), mag (cooperative di mutua autogestione) ed ecovillaggi. Molti di loro, riuniti in un cartello, si sono incontrati ultimamente a Parma ed hanno sottoscritto un documento comune in cui vengono tracciate le linee guida del loro modello economico alternativo a quello neoliberista. In pratica chi aderisce deve poter documentare un rapporto equo e corretto tanto con i lavoratori che impiega, quanto con il territorio dove opera, con le risorse naturali che consuma e la comunità cui fa riferimento. E deve rendere conto dell’utilizzo che fa dei suoi profitti. È stato redatto anche un rapporto annuale sulla qualità della vita in Italia in cui non viene inserito al primo posto, come indicatore economico, il PIL pro-capite, come fanno tutti i rapporti ufficiali, bensì la qualità dell’aria, degli asili nido e delle scuole, le possibilità di lavoro, l’efficienza delle strutture sanitarie. E, difatti, i risultati ottenuti si discostano alquanto da quelli delle statistiche ufficiali (Dino, 2004). Ma analizziamo alcuni di questi nuovi soggetti. Des che sta per Distretti di economia solidale, sono gli attori di un nuovo mercato in cui interpretano – 181 – ruoli diversi: clienti, produttori, finanziatori, commercianti. Collegati in rete si parlano, si scambiano informazioni, si supportano, si sostengono in maniera organizzata e coordinata. Comprano e vendono in maniera nuova: niente pubblicità, niente manipolazione dell’informazione, niente Organismi geneticamente modificati, niente pesticidi o diavolerie varie. Nati appena un anno fa in Germania ed in Gran Bretagna si stanno diffondendo anche da noi in Italia. La loro utopia realizzata è un semplice meccanismo di solidarietà che consente a chi è a valle di comprare solo prodotti eticamente certificati e a chi è a monte di abbattere i costi di produzione e di distribuzione senza incorrere nella stangata di finanziamenti bancari a tassi improponibili. Ed accanto ai Des stanno nascendo anche le Mag, cooperative di mutua autogestione, finalizzate a scambi di fondi tra i soci. Sono aperte ad altre cooperative ed associazioni no-profit che si vogliano muovere nell’ambito della pace, del disarmo, dell’ecologia, del risparmio energetico, della controinformazione, dell’educazione allo sviluppo, della lotta all’emarginazione, ed anch’esse, del commercio equo e solidale. Per il momento funzionano solo in alcune città del centro-nord, ma siamo solo all’inizio di un’avventura. Pensare che solo tra un anno proprio a Roma, su iniziativa del Comune, nascerà la prima città dell’economia solidale, con prodotti proveniente dal commercio equo e solidale e biologici. Ci saranno sportelli comunali e bancari pronti a fornire informazioni utili a chi vuole aprire un’azienda che risponda a criteri di economia alternativa. Ed anche dal mercato-bio vengono spunti interessanti per la nascita di una nuova economia. Nell’era del mercato globale anche gli alimenti bio viaggiano nei quattro angoli del pianeta. Una tendenza, ma anche una necessità commerciale sempre più forte. L’agricoltura compatibile con l’ambiente è oramai presente in un centinaio di Paesi con l’Australia al primo posto. Gli alimenti certificati viaggiano da un continente all’altro per raggiungere i mercati più appetitosi, Stati Uniti ed Europa dove più alta è la richiesta e maggiore è la propensione all’acquisto. Ma anch’essi, come i prodotti tipici, devono essere protetti soprattutto dalle imitazioni. Ci si potrebbe chiedere a questo punto: che differenza c’è tra l’omologazione imposta da McDonald’s o dalla Coca Cola e la globalizzazione dei prodotti-bio o dell’economia etica? Questi ultimi, al contrario dei primi due, non vogliono affermare dei modelli e portano uno scambio positivo, anche di tipo culturale. Dietro alle importazioni c’è l’equo e solidale, quindi merci prodotte nel rispetto dei lavoratori e dell’ambiente e già questo non è cosa da poco. Ma, la cosa più importante, è che i profitti non vanno ad impinguare le tasche di questa o di – 182 – quella multinazionale con tutte le incognite derivanti dalla loro ulteriore espansione, ma vanno direttamente nelle tasche dei produttori contro ogni tipo di sfruttamento. Potremmo quasi dire che con il mercato del biologico e con quello equo e solidale si potrà creare una rete di globalizzazione buona che combatte quella cattiva. Ma parlare del bio non è solo una questione globale e neppure di puro e semplice commercio. In alcuni casi si tratta di una vera e propria scelta di vita che radica i produttori nel proprio territorio. È il caso di quelle piccole, a volte piccolissime aziende, che non puntano al mercato, ma alla sperimentazione di un modello sociale sostenibile. I frutti della terra restano sulle loro tavole, intorno alle quali tutti i giorni si raccolgono piccole comunità che cercano di praticare una filosofia di rispetto dell’uomo e dell’ambiente (La nuova ecologia - sett. 2004). La proprietà è collettiva e le decisioni vengono prese più o meno all’unanimità. L’equilibrio si basa sull’equità dei diritti e dei doveri e su un’armonia economica ed ecologica. L’ecovillaggio è un insediamento abbastanza piccolo da permettere ai propri abitanti di conoscersi in modo profondo, ma abbastanza grande da permettere la soddisfazione dei fondamentali bisogni umani: abitazione, lavoro, alimentazione, bisogni sociali, crescita personale. Alcuni di questi nuovi modelli di villaggi di autoconsumo sono sorti a Bagnaia, Ventimiglia ed in provincia di Grosseto. Quest’ultimo che si trova nel piccolissimo villaggio di Nomadelfia è anche un progetto di vita ed un “luogo” dell’anima. Fondato negli anni ‘50 da un sacerdote di nome Don Zeno questo villaggio era nato perché il popolo vivesse nei pre-fabbricati per non restare troppo ancorato alla terra con la conseguenza di non poter facilmente partire in caso di necessità. Ma adesso Nomadelfia è ancora lì con i suoi 300 abitanti divisi in undici gruppi familiari tutti autosufficienti per il consumo. “La scelta di adottare uno stile di vita vicino a quello delle prime comunità cristiane – dice il presidente della Comunità – ci porta a vivere con sobrietà e nel rispetto dell’ambiente. Da noi non esiste proprietà privata: tutti lavorano all’interno della comunità e nessuno è pagato. Perciò è la comunità stessa, attraverso meccanismi di democrazia diretta, che decide come gestire i beni”. Questo viaggio sui consumi nella storia, iniziato dai villaggi del neolitico, termina con le comunità di autoconsumo di oggi. Anche se queste ultime realtà di cui abbiamo parlato sono solo delle piccole isole che emergono dal grande mare del mercato, esse hanno in verità un sottile legame con il passato, legame che riguarda l’essenza stessa dell’uomo che, forse, è minacciata dalle forme più esasperate dell’economia contemporanea. – 183 – Bibliografia: Ballard J.G. - Millennium People, Milano, Feltrinelli, 2004. Bruni L.-Porta P. - Felicità ed economia, Milano, Guerini & Associati. 2004. Cioffi F. - Il testo filosofico, Milano, Bruno Mondadori, 1991. Dino C. - Supplemento a “La Repubblica” del 16/10/04, Roma 2004. Fabris G. - Il nuovo consumatore: verso il post-moderno, Milano, Franco Angeli 2003. Garin E. - L’uomo del Rinascimento, Bari, Editori Laterza, 2002. 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