Appunti disordinati su Anna Karenina

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Appunti disordinati su Anna Karenina
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L’antitesi di Emma?
Anna Karenina di Lev Tolstoj
Genesi e pubblicazione: entusiasmo e stanchezza
“In modo inatteso, senza sapere nemmeno io perché e con quale scopo, ho ideato i personaggi e gli
avvenimenti, ho continuato, poi ho cambiato e, improvvisamente, tutto si è concatenato così bene e
rapidamente che ha preso forma un romanzo di cui ho appena terminato la prima stesura: un romanzo molto
vivo, appassionato, compiuto, del quale sono molto soddisfatto.” In questa lettera, datata 25 marzo 1873, e
mai spedita, Tolstoj racconta all’amico Strachov — probabilmente idealizzando alquanto, come piace agli
artisti —, il configurarsi nella sua mente del nucleo propulsivo di Anna Karenina, il quale calamitò in breve
tempo tutto il suo fervore creativo. Tolstoj decise così di mettere da parte il progetto del romanzo sull’epoca
di Pietro il grande, per il quale aveva continuato a documentarsi senza tuttavia riuscire a trovare uno sbocco
nella scrittura. Questo moto inatteso è tanto più rilevante se si pensa che negli anni successivi alla stesura di
Guerra e Pace, i quali avevano riempito in modo totale la sua vita, Tolstoj stava vivendo un’intensa crisi
artistica e ancor più esistenziale, che si traduceva in lunghi periodi di apatia e angoscia, dominati dal timore
della follia e della morte. L’autore sembrava essersi svuotato della sua capacità di osservare e rilevare la
vitalità del mondo che era intorno a lui, e questa crisi sembrava irreversibile. Il romanzo di Anna, si configura
quindi come una rinascita, una ventata d’aria nuova e fresca in un paesaggio arido.
A ben vedere però l’idea di Anna Karenina non è così improvvisa come può sembrare. Già nel 1870 gli era
balenata l’intenzione di scrivere un romanzo su una donna adultera, e a tal proposito, il 23 febbraio, sua
moglie Sonja annotava nel suo diario: “mi ha detto che, per lui, tutto il problema era di rendere quella donna
miserevole ma non disprezzabile e che, appena quella creatura gli era apparsa […] i caratteri maschili che
aveva immaginato in precedenza erano venuti a raggrupparsi intorno a lei”. Nel 1872 inoltre un fatto di
cronaca contribuirà, in quel momento ancora inconsapevolmente, a delineare la sua eroina e il suo destino
tragico: Anna Stepanovna Pirogova, che viveva con Bibikov, vicino e amico di Tolstoj, alla scoperta che questi
voleva sposare non lei, ma la governante tedesca dei suoi figli, era fuggita e aveva vagato tre giorni per la
campagna, per poi buttarsi sotto un treno alla stazione di Jasenki. Era il 4 gennaio. Il giorno seguente Tolstoj
aveva voluto assistere all’autopsia della donna nella baracca della stazione, e la vista di quel corpo
sanguinante e mutilato lo aveva molto impressionato. Tuttavia in quel momento l’idea della donna adultera
e della donna sotto il treno non si sono ancora fusi nella sua immaginazione, e questo avverrà solo in seguito.
In quegli anni, il dibattito sulla questione femminile era arrivato anche in Russia, sebbene non venisse
applicato alla condizione sociale lì presente: i più importanti letterati si erano occupati di adulterio, non solo
attraverso i loro romanzi, ma anche per mezzo di studi teorici: Tolstoj in particolare si trovava a condividere
le idee di Alexandre Dumas figlio, che nell’opuscolo L’uomo-donna sosteneva che il marito avesse il dovere
di formare ed educare sua moglie, e che potesse ucciderla qualora le sue trasgressioni si dimostrassero
incorreggibili. Tolstoj in ogni caso non aveva una concezione così drastica, e riteneva che l’ultimo giudizio
dovesse essere di Dio.
Tra le opere ben note all’autore di Anna Karenina che trattavano di adulterio, si annovera anche,
naturalmente Madame Bovary. Non solo: nel 1857 l’autore aveva effettuato un viaggio a Parigi, e aveva
potuto seguire le vicende dell’autore francese da vicino. Era arrivato infatti nella capitale il 21 febbraio, ossia
pochi giorni prima del noto processo che aveva visto il romanzo flaubertiano accusato di oltraggio alla
moralità. La vicenda di quel processo aveva destato tanto scalpore che era impossibile che Tolstoj non ne
sapesse nulla; eppure nel suo diario non ne fa parola. L’autore è testimone diretto anche quando il romanzo
esce in volume a metà aprile, e lo straordinario successo di pubblico fa esaurire le copie del libro in breve
tempo; ma nemmeno di questo fa menzione: nel suo diario parla del tempo trascorso con Turgenev e delle
letture di Balzac. Tolstoj esprimerà la sua ammirazione solo anni dopo, quando nel 1904, in un’intervista ad
un giornalista francese dirà: “uno dei miei scrittori preferiti è il vostro incomparabile Flaubert. […] Il suo stile
è pieno della più pura bellezza. Si può dir questo di molti scrittori?”. Del romanzo Madame Bovary Rusanov
dirà che Tolstoj nelle loro conversazioni del 1883, aveva dichiarato di non ricordarlo, ma che quando lo aveva
letto gli era piaciuto. Oltretutto nella sua biblioteca Tolstoj possedeva una copia del romanzo pubblicata in
traduzione russa sulla rivista mensile Biblioteka dlia chteniia nel 1858.
Dunque, all’inizio del 1873 Tolstoj stava lavorando all’idea di un romanzo su Pietro il Grande. Aveva raccolto
materiali su materiali su quell’epoca che tuttavia cominciava a sentire troppo lontana da sé nel tempo per
poterla comprendere appieno; oltretutto, man mano che si documentava, si rendeva conto che l’idea mitica
dell’imperatore che si era tramandata non rispecchiava la realtà storica: aveva cominciato pertanto a provare
un sentimento di ostilità, che mal si sarebbe conciliata con l’opinione generale. In sintesi, Tolstoj aveva
continuato ad accumulare informazioni senza sentirsi pronto alla scrittura. Era ad un punto morto. Nel
frattempo però si era avvicinato al greco e agli scrittori greci, scoprendo in loro un’arte pura ed elegante,
concentrata, leggera ed essenziale, che gli fece venire in odio la prosa del suo precedente romanzo Guerra e
pace.
In questo stato di cose il 18 marzo di quell’anno gli capitò per caso una copia dei Racconti di Belkin di Puškin,
che la moglie aveva preso per il figlio Serëza e non aveva riposto: cominciò a leggerli rimanendo incantato
dalla loro prosa vivace e la sua attenzione cadde su un racconto di Fogli Sparsi che cominciava con la frase
“gli invitati arrivarono alla casa di campagna”. Il modo brusco di introdurre la narrazione gli piacque, e come
una folgorazione, la voglia di scrivere lo invase. Si può azzardare che fu durante quella sorta di epifania che
l’antica idea del romanzo d’adulterio e l’episodio della donna uccisasi sotto un treno si fusero insieme dando
origine ad Anna. Il giorno seguente la moglie annotava nel diario: “ieri sera Ljovočka mi ha detto a bruciapelo:
-ho scritto un foglio e mezzo e mi pare che vada bene-. […] Non feci grande caso alle sue parole; ma appresi
poi che aveva incominciato un romanzo sulla vita privata contemporanea”.
Tolstoj scrisse i primi capitoli velocemente, e in poche settimane il primo abbozzo era terminato. L’idea
iniziale era di scrivere un romanzo agile, ben lontano dalla prolissità di Guerra e Pace, in cui ogni cosa detta
sarebbe stata essenziale e ineliminabile: doveva essere un romanzo psicologico alla maniera francese,
antiromantico e realistico, e destinato al grande pubblico. Ben presto però i suoi primi propositi cominciarono
ad evolversi: l’entusiasmo si spense, la scrittura proseguì lentamente e stancamente, e i personaggi che prima
sembravano così ben delineati ora si perdevano nella sua mente, facevano i gesti sbagliati e dicevano le
parole sbagliate. Il romanzo così com’era non funzionava. Fu così che lentamente la figura della protagonista
andò evolvendosi (e intorno a lei gli altri personaggi), cambiando profondamente: se prima era una donna
volgare, grassa e non particolarmente bella, che aveva solo una vena di vitalità e fascino a renderla
interessante, pian piano divenne una bellissima donna, enigmatica e complessa. Al tempo stesso Karenin e
Vronskij, che prima erano figure totalmente positive, si fecero mediocri, facendo brillare maggiormente la
luminosità dell’eroina. Tolstoj stesso venne soggiogato dalla sua creatura, e se ne innamorò come mai gli era
avvenuto per altri suoi personaggi. Anna cambiò sotto i suoi occhi, e tutto ciò che l’autore riuscì a fare per
mitigarne il fascino fu di porle accanto una figura di contrasto: Levin.
Ciò nonostante la stesura del romanzo fu lenta e costellata di periodi di scrittura febbrile alternati ad altri di
quasi totale abbandono, tanto che spesso Tolstoj stesso denuncerà il tedio e la stanchezza di un lavoro che
sembrava non finire mai: “la mia Anna mi è venuta a noia, ne ho fin sopra i capelli”; “ah, se qualcuno potesse
finire Anna Karenina al posto mio”. In quegli anni oltretutto, diversi avvenimenti tragici turbarono la quieta
esistenza della sua famiglia nella tenuta di Jasnaja Poljana: tra il gennaio di quell’anno e la fine del 1875 gli
morirono infatti tre figli, due zie e due nipoti, che gettarono sulla casa un’ombra di morte che sembrava non
volersene più andare. Tolstoj stesso se ne sentiva avvinto e per sfuggire all’angoscia che questa gli provocava
si allontanava per brevi periodi così da poter respirare di nuovo l’aria della vita.
In questi anni intanto il romanzo aveva visto succedersi diverse redazioni (Vladimir Zdavon ne conterà dodici),
che avevano portato con sé diversi cambiamenti: il titolo che prima doveva essere “i due matrimoni” o “le
due coppie”, era diventato quello definitivo conosciuto oggi; i nomi dei personaggi erano cambiati (per
esempio Anna prima si chiamava Tat’jana, in omaggio all’eroina dell’ Evgenij Onegin); il finale però era
rimasto invariato: la protagonista sarebbe comunque morta suicidandosi.
L’opera prosegue, e come per Flaubert, si modella sulle osservazioni di Tolstoj sul mondo circostante: modi
di fare ed espressioni dei personaggi, anche fatti stessi della loro vita, si plasmano sulla memoria dell’autore
su eventi e persone che vede intorno a sé, spesso anche molto vicine (come la moglie o i fratelli). Accanto al
titolo nella quinta redazione, compare poi la frase “a me la vendetta, io farò ragione”, che sarà in seguito
posta come epigrafe. È una citazione biblica, che compare in tre luoghi con diverso significato: nel
Deuteronomio denota la vendetta di Dio, allorché l’uomo gli disubbidirà e gli verrà meno; nella Lettera agli
Ebrei si riferisce alla vendetta contro chi ha calpestato il figlio di Dio; nella Lettera ai Romani di Paolo apostolo
indica invece che la vendetta è una prerogativa esclusivamente divina, e che gli uomini non devono giudicare,
ma amare. Posta all’inizio del romanzo determina che Anna verrà punita dal Dio biblico della vendetta, poiché
colpevole, e che questa vendetta però spetta a lui, non agli uomini. Tolstoj ha giocato sui diversi significati,
ma l’epigrafe non darà una vera illuminazione sul libro e sul suo significato, in quanto, come si vedrà, Dio
risalta in tutta la storia per la sua assenza.
Durante il 1875 le prime due parti e i capitoli 1-10 della terza vengono pubblicati sulla rivista Russkij Vestnik:
il successo è immediato, per lo stupore dell’autore, che a tratti manifesta il suo compiacimento o la più totale
indifferenza. Anche il suo giudizio sul romanzo attraversa fasi alterne, in cui un affetto profondo si sostituisce
ad un senso di disprezzo, giacché non riesce a capire il perché di tanto clamore, come se esso in qualche
modo ne sminuisse il valore: “è tanto difficile descrivere come un ufficiale ha un amorazzo con una signora?
Non c’è niente di difficile in questo, e soprattutto niente di buono! È cattivo e inutile”. Durante il 1876
compare tutta la terza parte, e durante il 1877 le altre parti fino alla settima. Nel frattempo nell’aprile di
quell’anno, l’insurrezione di Serbi e Montenegrini contro i Turchi aveva convinto l’opinione pubblica della
necessità di un intervento armato in loro difesa, intervento che si era ufficializzato il 12 aprile. Tolstoj,
contrariamente alla stragrande maggioranza, si oppose fermamente a questa guerra, e palesò direttamente
questa opinione per mezzo del personaggio Levin nell’epilogo del romanzo, quando Anna è già morta e
Vronskij si accinge a partire per la guerra. Questa divergenza di vedute provocò una frattura tra l’autore e il
direttore del giornale Katlov, che, partigiano convinto dell’intervento, si rifiutò di pubblicare l’ultima parte,
sostituendovi invece una nota in cui spiegava brevemente gli ultimi avvenimenti della storia. Tolstoj infuriato,
si fece così rimandare il manoscritto decidendo di pubblicare l’epilogo separatamente in brossura nel gennaio
1878.
Nel frattempo nell’estate del 1877 l’autore si era dedicato anche alla messa a punto del romanzo per la sua
pubblicazione in volume, che avvenne in tre tomi all’inizio del 1878, e nella quale prese parte anche Strachov.
Alcune pagine vennero riscritte e alcuni capitoli soppressi, ma nel complesso Tolstoj seguì solo parzialmente
i suggerimenti dell’amico che a tal proposito notò: “dalle sue spiegazioni ho potuto convincermi che ci teneva
molto al suo testo e che, nonostante la negligenza e la goffaggine apparenti del suo stile, aveva pesato ogni
parola, ogni giro di frase, come il più esigente dei poeti”. Da queste parole si evince, che l’ossessione per la
forma, sebbene non raggiungesse i livelli di Flaubert, non era affatto assente, come alcuni furono portati a
ritenere criticando il romanzo. Oltretutto un paragone con l’autore di Madame Bovary lo fece lo stesso amico
Fet scrivendo: “gli imbecilli grideranno al realismo alla Flaubert, mentre qui tutto è idealismo”.
Anna Karenina: l’amore assoluto
A differenza di Emma Bovary, nel personaggio di Anna non prevalgono caratteristiche negative, anzi.
L’impressione che generalmente ne emerge è di una donna che sebbene colpevole, ciò nonostante è ben
lontana dalla loro vanità e superficialità, e pertanto maggiormente difficile da condannare.
La prima volta che compare nel romanzo, diverse pagine dopo l’inizio, è vista attraverso lo sguardo di
Vronskij: in quel breve sguardo riuscì a notare una vivacità contenuta che guizzava sul viso e si librava fra gli
occhi scintillanti […] come se ci fosse in lei qualcosa che sovrabbondava, che riempiva talmente il suo essere
da esprimersi al di fuori della sua volontà, ora nello scintillio degli occhi, ora nel sorriso. Il futuro amante di
Anna, è colpito e attratto soprattutto dagli occhi grigi di lei, enigmatici, irresistibili, che conferiscono una luce
particolare a tutta la sua figura. Anna però è anche una donna molto bella, i cui modi disinvolti e gentili
conquistano chiunque le stia intorno.
Il fatto che sia a Mosca per mediare una riconciliazione tra il fratello e la cognata, gioca inoltre a suo favore:
è una donna buona, che cerca di aiutare, per quanto possibile, le persone che le sono vicine. Tutto in lei
sembra felicità e serenità, ma ben presto alcune spie mettono in dubbio quest’idea. La principessa Kitty, che
subito si innamora di lei, nota infatti che “solo negli occhi c’era un’espressione seria e a volte triste, che [la]
colpì”. Non solo: quando Dolly le dice “tu sei raggiante di felicità” lei risponde con un “sì” quasi pensoso,
dubbioso, essendo seguito da una sospensione. Inoltre non molto tempo dopo, sarà lei stessa a confessare a
Dolly di avere i suoi “skeletons” nell’anima, e aggiungerà anche che sono tetri. Tutti questi sono indizi che
fanno emergere il sospetto che dopotutto Anna non sia del tutto felice come appare. Che il suo non sia un
matrimonio d’amore viene detto in seguito: Karenin, di diversi anni più vecchio, è stato quasi obbligato a
sposarla, e verso la moglie mostra solo una distaccata ironia. Dunque non si tratta di rapporto felice, e
nondimeno vi è tra i due una relazione serena, basata su rispetto e confidenza. Si può quindi concludere che
probabilmente prima dell’incontro con Vronskij, nemmeno Anna riesce bene a definire cosa manchi nella sua
vita, cosa ella desideri, e si accontenta della tranquillità del suo matrimonio e dell’amore per suo figlio Serëza.
Il suo viaggio a Mosca, fatto per conciliare una famiglia, paradossalmente sarà all’origine della rovina della
sua: l’incontro con Vronskij giunge inatteso, inaspettato, e anche per questo ciò che ne deriva è tanto più
sconvolgente. Anna prova un’attrazione irresistibile per quell’uomo, e al tempo stesso si rende conto esserci
qualcosa di sbagliato nel modo in cui lo guarda e nel modo in cui lui la guarda. Eppure per un breve momento,
durante il ballo, assapora l’ebbrezza di essere desiderata, solo però fino a quando si renderà conto che la sua
felicità sta causando l’infelicità di Kitty.
Anna fugge così da Mosca, per fuggire da Vronskij e da un sentimento che non sa bene definire, ma che la
travolge, togliendole ogni tranquillità sul treno verso Pietroburgo. Anna ricorda con un dolce piacere i
momenti del ballo, ma una sorta di delirio, che prefigura quello finale, la assale e distorce la realtà davanti ai
suoi occhi, trasformandola in un incubo.
Per diverso tempo Anna cerca di resistere a quest’amore, che sa bene essere sbagliato in quanto adultero,
ma l’Eros-passione l’avvince, e si insinua nell’anima di lei al modo di un’entità estranea che, a dispetto della
volontà, toglie qualsiasi possibilità di scelta ai due amanti. Essi ne vengono travolti senza potersi preoccupare
delle convenzioni sociali. Non è un caso infatti che nel delirio dopo il parto, quando rischia di morire, Anna
dica al marito: “in me c’è un’altra, io ne ho paura: lei s’è innamorata di lui, e io volevo odiarti e non potevo
dimenticare quella che c’era prima”.
La passione-Eros modifica la realtà circostante al suo sguardo: le orecchie del marito, invero, erano sempre
state così sporgenti, oppure è lei che improvvisamente, pensando a Vronskij, le trova ripugnanti? Persino
quando rivede il figlio, il suo entusiasmo si spegne e lei è assalita dalla delusione. Tutto ciò che prima
costituiva il suo regno della tranquillità e della serenità, improvvisamente le diventa odioso, insopportabile.
Anna comincia così a cambiare mentre lentamente conosce l’amore: la sua postura si fa più morbida, e il suo
sorriso e la vitalità nei suoi occhi sono più accesi. Inaspettatamente la sua vita comincia a girare intorno a
Vronskij, che diventa la sua unica ragione di vita; e ancora non è un caso se, dopo che la colpa si è consumata
lei gli dice “io non ho altro all’infuori di te”.
A differenza di Emma, Anna non si esalta della sua nuova condizione di adultera, poiché non ama l’inganno
né la menzogna: prova vergogna per la sua colpa, si sente falsa e ingannatrice, ma la sua passione è troppo
forte, e, mentre per un verso sente orrore per la sua situazione, per l’altro verso scopre una felicità nuova,
quella dell’amore vero, che non aveva mai conosciuto, né avrebbe mai potuto avere col marito Karenin, verso
il quale, contro la sua stessa volontà, sente solo aumentare il proprio disprezzo. Ciò che Anna detesta di più
in suo marito è la sua mancanza di sentimenti che lo pone nel dovere di metterla in guardia, ma non per
gelosia, bensì per il rispetto del decoro sociale. Quando poi scopre il tradimento, Karenin le pone la
condizione inaccettabile di fare come se nulla fosse accaduto: ma lei non può né lasciare Vronskij, né
tantomeno tornare alla vita di prima, la cui aridità ora le si mostra in tutta la sua desolante chiarezza.
Anna in realtà è una figura talmente luminosa, da spingere gli uomini intorno a sé a cambiare, ad andare oltre
i propri limiti: dopotutto anche Vronskij, come Karenin, è un uomo che ama l’ordine e la disciplina, però lei
nel momento in cui rischia la morte, dopo il parto, lo spinge a conoscere la dimensione tragica dell’esistenza.
L’episodio è emblematico: Anna sta delirando, preda della febbre puerperale, ma in quel momento, così
come aveva fatto per Stiva e Dolly, vuole assumere ancora il ruolo di mediatrice, questa volta del perdono di
Karenin, il quale scoprendo finalmente la dimensione dei sentimenti, si riconcilia con i due amanti.
Presentendo la morte, Anna riesce in questo modo nell’intento di pacificare gli uomini della sua vita e di
creare tra loro tre un fragile equilibrio; ma scampata alla morte, non può che essere nuovamente travolta
dall’Eros, e tornare a disprezzare il marito. D’altra parte Karenin, dopo l’abbandono della moglie, tornerà ben
presto ad essere l’uomo mediocre che era in precedenza e Vronskij rinnega il proprio tentativo di suicidio
come un gesto insensato e irrazionale: nonostante l’intervento di Anna un vero cambiamento è impossibile,
ma questo lei lo scoprirà solo molto dopo.
Il problema fondamentale di Anna, è di essersi innamorata dell’uomo sbagliato, e soprattutto non di un
amore qualsiasi, ma di un amore totalizzante, che non lascia scampo. Vronskij non possiede la sua profondità,
e non può sostenere un’esistenza votata esclusivamente alla donna amata: perciò è inevitabile che pian piano
la sua passione si raffreddi. Con tutto ciò nel suo percorso verso la rovina l’eroina di Tolstoj sembra avere
tutte le giustificazioni del caso: non ama suo marito, e se apparentemente ha tutto (posizione sociale,
ricchezza e l’amore del figlio), le manca l’unica cosa che la sua anima desidera, ossia una vita piena; oltre a
questo la società la rinnega senza possibilità di appello, nonostante nella Russia del tempo le relazioni
extraconiugali come la sua fossero all’ordine del giorno.
La sua colpa vera non è di aver tradito il marito, ma di cercare di mantenere vivo un amore di tipo esclusivo.
Anna nella sua ansia di vita ha conosciuto l’assoluto, e non è più disposta a far sì che la sua relazione rientri
nei ranghi di un normale amore di tipo coniugale, cosa che invece cerca di fare Vronskij, il quale vuole
legalizzare la loro unione. Ciò forse spiega il suo ostinato rifiuto al divorzio, rifiuto che a prima vista appare
incomprensibile: Anna infatti vuole mantenere vivo l’amore senza bisogno di vincoli istituzionali come il
matrimonio, che renderebbe la sua relazione un obbligo e non una scelta. L’amore per lei deve reggersi solo
sull’affetto reciproco, senza bisogno di aiuti esterni: infatti nel momento in cui chiede il divorzio e capisce
che il marito probabilmente non lo concederà, sente che la sua relazione con l’amante non è più libera, ed è
invece diventata una costrizione. Da qui trae impulso anche il peggiorare della sua nevrosi, in cui la
sensazione che Vronskij non voglia più stare con lei si unisce alla gelosia. Sembra pertanto ingiusta
l’affermazione di Zazzo, che ritiene Anna un’egocentrica poiché rifiuterebbe il divorzio solo per crogiolarsi
nel suo stato di reietta, che inoltre amerebbe suo figlio solo in quanto sua appendice, e che infine vorrebbe
impedire a Vronskij di uscire dalla sfera del suo controllo per riaffermare se stesso.
L’inconscio ha un ruolo rilevante nel percorso di Anna. I suoi sogni riflettono le sue paure e i suoi desideri
inconsci, e contribuiscono anche ad impedirle di ragionare lucidamente sulle sue angosce. Un sogno
ricorrente è quello di un contadino con la barba arruffata che lei trova nella sua stanza e che chino rimesta
in un sacco pronunciando delle parole in francese: “il faut le battre le fer, le broyer, le pètrir” (occorre battere
il ferro pestarlo, impastarlo”). Un altro sogno è quello in cui lei vede sé stessa vivere felicemente con Vronskij
e Karenin, entrambi suoi mariti. Questi sogni, apparentemente innocui, sono invece per lei degli incubi, che
le fanno sentire più viva la propria colpa, e assumono il valore di presagi di morte.
Il rapporto tra Anna e il suo amante, che prima di vivere insieme era tanto stretto da raggiungere addirittura
la sfera dell’inconscio (il sogno del contadino passerà infatti a lui con alcune modifiche), dal momento in cui
possono stare insieme, inevitabilmente comincia a deteriorarsi. Anche il periodo in Italia, in cui lei si sente
“imperdonabilmente felice” è già costellato di ombre: Anna è infatti cosciente che Vronskij, il quale ha
rinunciato alla vita militare, in cui era cresciuto e si era sempre trovato a suo agio, è insoddisfatto della sua
nuova vita e si affanna a cercare nuovi stimoli. Anna invece non ha bisogno di altro che di lui e del suo amore:
dopotutto per lui ha perso tutto ciò che aveva.
Anna appare tanto più giustificabile rispetto alla mediocrità di Vronskij, in quanto è lei la vera rinnegata dalla
società: per lui al loro ritorno le porte pian piano si aprono di nuovo, ma non è lo stesso per lei. A ben vedere,
però questo totale rifiuto suona strano. Come già accennato, nel bel mondo russo le relazioni del tipo di Anna
e Vronskij erano piuttosto diffuse e accettate: non solo nella famiglia di Tolstoj c’erano esempi di convivenze
adultere o comunque fuori dal matrimonio, ma anche all’interno dello stesso romanzo diversi personaggi che
condannano inderogabilmente la protagonista non sono affatto esenti da critiche. Tralasciando l’esempio di
Betsy, che rifiuta di ricevere Anna finché questa non ha divorziato, il caso più eclatante è proprio la madre di
Vronskij, che definisce Anna cattiva in tutto e per tutto, una donna perduta, quando lei stessa durante la sua
vita ha avuto diverse relazioni. La totale chiusura verso Anna della madre del suo innamorato si spiega con il
fatto che, consapevolmente o meno, la giovane donna sfida le convenienze sociali: di esse conosce l’ipocrisia,
la falsità e le mette in luce, le smaschera e non le accetta. Lei fa qualcosa che molti altri hanno fatto prima di
lei, ma lo fa a modo suo, e quindi la società, che tutto tollera purché avvenga dentro i propri confini, non può
accettare che vengano infrante le proprie regole.
Anna si trova pertanto in una condizione di completo isolamento, che non le permette di avere nulla al di
fuori del suo amore. Si crea una sorta di corte fittizia, dove regnano il lusso e l’eleganza, in cui cerca di
dimenticare il suo stato, e in cui socchiude gli occhi per scacciare i brutti pensieri. Apparentemente è serena
e gaia, ma ancora una volta i sogni tornano a tormentarla nella notte con tutto ciò che di irrisolto e doloroso
c’è nella sua vita. Per sfuggire agli incubi comincia ad assumere morfina e oppio, che forse, in prosieguo di
tempo contribuiranno ad aumentare l’eccitabilità della sua condizione. In aggiunta non riesce nemmeno ad
amare sua figlia, preferendole invece una bambina non sua, ed è paradossale che lei riversi tutto il suo affetto
sul figlio avuto dal marito e non riesca invece ad averne per la bimba avuta dall’uomo amato. Tuttavia, a ben
guardare ciò è spiegabile: la figlia dopotutto è il simbolo vivente della sua colpa e della sua vergogna, e
inconsciamente lei sente che nulla di buono può e deve venire dal suo rapporto adulterino. Oltretutto la
passione come Eros è esclusiva, non permette l’affetto per un altro oggetto.
In realtà non si può dire di Anna che sia una cattiva madre: dopotutto il suo amore per Serëza è profondo e
sincero, e la consapevolezza della sua perdita è una delle ragioni della sua sofferenza, dolore che però non
condivide con Vronskij, e che egli del resto non potrebbe comprendere. Tra i due la distanza cresce così
rapidamente, causata dalla loro incapacità di comunicare che provoca continue liti e incomprensioni. Anna
ha bisogno d’amore, e al tempo stesso ha bisogno di esistere come persona nella propria autonomia. Tuttavia
il rapporto che si è instaurato con Vronskij, che ha perso lo slancio passionale iniziale, la pone in una
condizione di subordinazione rispetto a lui, laddove lei invece cerca di avere con ogni mezzo una sorta di
simmetria, di parità: vuole la possibilità di autodeterminarsi (“se io potessi essere qualcosa di più dell’amante
avida sia pure solo di carezze … ma non posso e non voglio essere nient’altro”). Percepisce che la relazione si
sta appiattendo, assumendo sempre più le inquietanti sembianze di un normale matrimonio, simile a quello
con Karenin, in cui la donna ha solo il ruolo di moglie e madre, e in cui l’amore assume un’importanza
secondaria. È ciò che in effetti cerca di ottenere Vronskij, il quale vuole legalizzare la loro relazione e farla
entrare negli schemi della quotidianità, che a quel tempo implicava che il potere era nelle mani dell’uomo
(“non mi assoggetterò a lui, non gli permetterò di trattarmi come un bambino da educare”). Anna sente
l’ingiustizia di fondo di questa situazione, e vi si ribella, in maniera non programmatica, ma istintiva, come
l’azione di respirare. È però combattuta tra questa sua necessità, e il bisogno d’amore, che le fa desiderare
di lasciare le cose come stanno, come vengono. Ogni volta lei tradisce i suoi stessi propositi, ma non riesce a
comunicare ciò che effettivamente vuole: così accusa Vronskij di non amarla, e si infuria per delle sciocchezze.
Finisce così in un circolo vizioso, in cui la tensione emotiva, causata dalla perdita del figlio, dalla vergogna
sociale, e dalla coscienza dell’allontanamento di Vronskij, per cui, si ricordi, ha rinunciato a tutto, cresce a
dismisura, e si unisce a paure, dubbi e soprattutto alla gelosia: diviene una vera e propria psicosi.
Anna è passione, vitalità, ansia di vita e di assoluto, e perciò non può accettare le piccole gioie quotidiane
dell’amore, ma ha bisogno che questo bruci sempre con la stessa divorante intensità, rendendo ogni giorno
fuori dall’ordinario. Per questo motivo si contrappone a Kitty, che invece si omologa al canone istituzionale,
chiudendosi nel protetto ruolo di moglie e madre; si oppone a Dolly, che ha scelto di non lasciare il marito e
di dedicarsi ai figli; ma ancor più si oppone al personaggio di Levin, la cui etica del lavoro si pone in una luce
positiva in contrasto all’oscurità crescente della vita di lei.
La rovina di Anna è inevitabile. Che lei lo voglia o meno la forza della passione è così travolgente, da divenire
insostenibile per qualunque essere: Eros diviene Thanatos e rivela la sua potenza distruttiva. Anna presa da
una sorta di delirio allucinatorio nelle lunghe pagine in cui si lascia trasportare dal tranquillo incedere della
carrozza, vede la realtà circostante intrisa di orrore: tutto è odio e tutti odiano tutti. Si reca alla stazione,
consapevole ora della verità profonda della vita, dominata da un buio a cui non c’è scampo, ma ancora non
ha deciso di buttarsi sotto il treno: come fa notare Milan Kundera, il suo suicidio non è premeditato, ed è
invece il risultato di una decisione improvvisa. Solo quando vede, o crede di vedere, il contadino del suo
incubo, allora e solo allora si ricorda dell’altro uomo, quello che era morto sotto il treno il giorno del suo
primo incontro con Vronskij e che lei stessa aveva percepito come un presagio funesto. Improvvisamente sa
cosa deve fare: il mondo è odio, l’amore assoluto è un’illusione, e la forza della passione rivela il suo lato
distruttivo. Per uscire dal circolo vizioso della vita in cui è precipitata, per liberarsi, di se stessa, e di tutti, si
getta sotto il treno e in quel momento, un istante prima di morire, qualcosa le balena davanti agli occhi, una
consapevolezza che si spegne insieme a lei, e di cui nemmeno Tolstoj conosce il significato.
La storia di Anna sembra essere quella di una donna su cui incombe un destino ineluttabile, che le toglie ogni
vera volontà d’azione, impossessandosi di lei come una forza estranea, che la conduce lentamente ma
inesorabilmente al delirio e che la accompagna per mano fino al binario su cui lei, per sfuggire
all’insostenibilità della sua vita, decide di buttarsi. Ma in questo lei è una donna debole, perché non riesce ad
affrontare fino in fondo le conseguenze che l’amore le impone, o è al contrario una donna forte e coraggiosa
che squarcia il velo della falsità della sua esistenza, che sfida le convenzioni sociali e l’istituzione
matrimoniale, e che vuole essere di più di una semplice moglie e madre? Le opinioni critiche divergono, e
forse, come capita spesso, la verità è in entrambe e in nessuna delle due affermazioni. Tuttavia, supportando
l’ipotesi di un destino fatale e inesorabile, viene da pensare che Anna mostri una forza inaspettata nel
sopportare una forza così soverchiante, e anche che una lotta del genere è totalmente impari: Anna non
poteva vincere né contro la società del suo tempo, né contro la forza dell’Eros. Accettare una passione tale
poteva portare solo alla sconfitta.
In tutto quanto detto finora, sembra emergere un dato fondamentale, ossia la pressoché totale divergenza
di Anna da Emma Bovary. Innanzi tutto Anna è un personaggio tragico, che appartiene alla nobiltà e ha una
profondità di sentimenti che manca del tutto all’eroina del romanzo flaubertiano. È lucida nel giudicare e
valutare la propria situazione di adultera e di rinnegata dalla società, sulla quale non si fa illusioni. Come le
eroine tragiche, è lei stessa che eccita le proprie passioni, e le esaspera fino al delirio e alla follia. Emma
invece di tragico ha solo la morte: è un personaggio piccolo-borghese che non riesce ad elevarsi dalla sua
mediocre situazione. Secondo Natalino Sapegno appartiene più al mondo della commedia borghese, con un
insolito finale drammatico.
Anna ha un’intima natura morale che le fa disprezzare dissimulazione, segretezza e menzogne. Inoltre, a
differenza di Emma ha una sola relazione, e a Vronskij sacrifica tutta sé stessa. Mentre Emma è superficiale,
egoista, e soprattutto è una pessima madre, Anna di contro è intelligente, buona, e ha un forte attaccamento
per il figlio. Emma è una cattiva lettrice, mentre Anna, anche quando si immerge in un romanzo, subito dopo
emette involontariamente un giudizio critico e se ne distanzia.
Con tutto questo, allora perché porre due donne così apparentemente diverse l’una accanto all’altra? I loro
stessi autori le trattano in modo diverso. Flaubert raramente simpatizza con lei, e lo fa solo nel momento in
cui Emma è presa dalla passione: allora si lascia andare a commenti sulla sua bellezza, ma per il resto la
condanna è senza appello. Tolstoj invece, sebbene ritenga Anna colpevole di aver attentato alla sacralità del
vincolo matrimoniale, non può fare a meno di attribuirle ogni attenuante, facendo sì che il giudizio rimanga
sospeso, delegato ad una presunta entità superiore, che però nel libro è assente. Il momento in cui questo
amore traspare con maggior evidenza è nei diversi ritratti presenti nel libro, a cominciare da quello durante
il ballo, visto attraverso gli occhi di Kitty: indossava un abito nero di velluto, con la scollatura bassa, che
scopriva le sue spalle piene e tornite, come d’avorio antico, e il seno e le braccia rotonde dal minuscolo polso
sottile. […] Kitty era innamorata di lei e non riusciva a immaginarsela che in lilla. Ma ora, vedendola in nero,
sentì che non ne aveva compreso tutto il fascino. […] Neppure l’abito nero con le lussuose trine risaltava su di
lei; era solamente una cornice, e risaltava lei sola, semplice, naturale, elegante, e nel contempo gaia e
animata. Anna possiede un fascino che incanta persino Levin il quale non riesce a distogliere lo sguardo dal
suo ritratto.
Ciò che in realtà accomuna le due donne e rende Anna una creatura à la bovary è la sua illusione anche se ha
una diversa natura da quella di Emma: l’utopia a cui Anna si aggrappa ostinatamente è infatti l’idea di poter
tenere vivo per sempre un amore appassionato e assoluto come quello che aveva preso lei e Vronskij nei
primi tempi. Tuttavia ciò risulta impossibile, e il raffreddamento di Vronskij ne è la prova: ogni relazione,
invero, conosce il momento in cui la passione iniziale si affievolisce. Nessun amore può reggersi solo
sull’attrazione, ha bisogno di basi più solide, fatte di condivisione; e soprattutto nessuno può vivere solo
d’amore. Perciò a modo suo Anna vuole rinnegare la realtà, che in ogni caso inevitabilmente le presenta il
conto, mostrandole l’irrealizzabilità della sua ambizione.
Oltretutto anche nella storia di Anna è presente un libro, in un momento importante: ella non è mai descritta
come una cattiva lettrice, che perde il suo tempo in fantasie su storielle d’amore; ma sul treno verso
Pietroburgo ha tra le mani un romanzo inglese in cui si immedesima per un breve momento, anche se in
realtà “le dispiaceva leggere, ossia seguire il riflesso della vita altrui. Aveva troppa voglia di vivere lei stessa”.
Anche Anna quindi, a modo suo, vuole vivere la vita di un romanzo, e d’altra parte il tipo di amore che esige
dalla sua relazione con Vronskij può esistere solo nell’invenzione di un libro.
Un altro fatto che lega le due donne, oltre ad una somiglianza nell’aspetto fisico (braccia bianche, collo
possente, capelli neri) è che Anna può essere vista come una versione ideale di Emma: è l’eroina tragica da
romanzo che la protagonista francese vorrebbe essere; possiede il lusso che quella desidera; scopre la
passione assoluta da Emma agognata invano tutta la vita; e realizza l’idea di andare in Italia con Vronskij,
come la Bovary aveva sognato di fare con Rodolphe. Condividono anche altri aspetti: entrambe socchiudono
gli occhi, anche se Emma lo fa durante la passione amorosa, mentre Anna lo fa per non vedere ciò che le è
sgradito; e oltretutto il momento in cui la loro vita subisce una svolta avviene durante un ballo: Emma scopre
il piacere del lusso e della voluttà, Anna l’amore.
Da ultimo, come Flaubert, Tolstoj modella la sua eroina su figure reali, da cui trae diversi spunti. La bellezza
di Anna richiamerebbe così quella di Marija Aleksandrovna Hartung, figlia di Puškin, che lo aveva incantato
per la sua andatura disinvolta e i suoi “riccioletti arabi” (oltretutto nelle prime minute la coppia Karenin si
chiamava Puškin). Dal punto di vista morale pare invece che l’autore si fosse ispirato alla contessa Sofja
Tolstoj, celebre per la sua cultura e intelligenza. Alcune peripezie del romanzo infine sembra che furono
riprese dalle vicende del suo amico Djakov, che dopo aver divorziato aveva contratto un altro matrimonio, e
dalla relazione di Kiselev con la principessa Golitzyn, la quale aveva dato scandalo lasciando il marito.
Karenin: il morto vivente
Il Romanzo di Tolstoj è uno dei casi in cui il marito tradito è ben poco amato dal suo stesso autore. Flaubert
definisce Charles Bovary un imbecille, e certo non è un personaggio che brilli per acume o intelligenza, ma la
sua bontà, il suo amore e la sua devozione per Emma sono assoluti talché è impossibile considerarlo un
portatore eminente “del negativo”. Quando si parla di Karenin invece è il contrario: tutto in lui desta
antipatia, e se c’è un momento in cui è degno di pietà, questo non dura molto.
Il primo ritratto che si ha di lui è nelle parole di Stiva, che incontrando Vronskij alla stazione dove attende
l’arrivo della sorella, esclama: “Aleksèj Aleksandrovič, il mio famoso cognato, di sicuro lo conosci. Tutto il
mondo lo conosce”. Subito dopo aggiunge: “sì, è un uomo eccezionale; un po’ conservatore, ma un’ottima
persona”. Questo ritratto positivo verrà smentito nel corso del romanzo, e una prima avvisaglia che egli non
è poi una persona così eccezionale emerge già allorché Anna lo rivedrà pochi giorni dopo alla stazione di
Pietroburgo: “-Ah, Dio mio! Perché gli sono venute quelle orecchie?- pensò, guardando la sua figura fredda
e rappresentativa. […] Scorgendola egli le venne incontro, atteggiando le labbra al sorriso ironico che gli era
consueto e guardando verso di lei con i grandi occhi stanchi”. È pur vero che la repulsione di Anna è
riconducibile all’attrazione per Vronskij, molto più giovane e piacente; tuttavia le parole dello stesso Karenin
gettano su di lui una luce fredda: è un uomo che ironizza sui sentimenti, che vede ogni manifestazione
d’affetto come qualcosa di sciocco, di cui ridere: “-sì, come vedi, un marito affettuoso, affettuoso come al
secondo anno di matrimonio, bruciava dal desiderio di vederti- disse egli con la sua voce lenta e sottile e con
il tono che adoperava quasi sempre con lei, un tono di irrisione verso chi avesse parlato così per davvero”.
Subito dopo, alla richiesta di notizie su suo figlio, replica: “e questa è tutta la ricompensa […] per il mio
ardore? Sta bene, sta bene …”. Poco più avanti inoltre, commenta i giorni trascorsi da solo dicendo “sì, la mia
solitudine è finita. Non puoi credere come sia seccante (egli marcò la parola “seccante”) pranzare da soli”:
un commento nel quale l’importanza di Anna come persona e come moglie sembra essere quella che
potrebbe avere un oggetto decorativo. L’assenza di Anna non genera dolore, come si potrebbe pensare, ma
è solo un fastidio, una seccatura in più.
Karenin risulta tanto più sgradevole se lo si paragona alla figura di Anna, la cui vitalità, prima sovrabbondante
negli occhi di lei, in presenza del marito involontariamente si spegne. Anche in confronto a Vronskij, il
contrasto gioca a suo sfavore: entrambi hanno un simile ideale di vita, ciò nondimeno il giovane conte è
elegante, mondano, amabile, in salute; insomma una figura tutta umana, là dove al contrario Karenin di
umano sembra avere ben poco. In effetti non sarebbe difficile immaginarlo come se fosse sempre stato
vecchio, e anche la sua giovinezza, allorché viene raccontata, ha qualcosa di grigio e incolore: Karenin è un
orfano che durante la propria vita non è riuscito a coltivare amicizie, e che ha trovato nel proprio lavoro di
funzionario governativo il suo unico scopo, la sua unica ragion d’essere. Si capisce fin da subito che il suo non
è stato un matrimonio d’amore, anche se più oltre verrà spiegato che la decisione si sposarsi è stata presa a
causa delle pressioni ricattatorie di una zia di Anna, che lo accusa di averla già compromessa. Karenin non ha
scelta: o sposarla, o perdere il proprio posto. Così la divergenza rispetto al matrimonio di Charles diviene
palese: questi infatti ama profondamente Emma, e la sua volontà di unirsi a lei nasce tutta dalla spontaneità
dei suoi sentimenti.
A ben guardare però, i due personaggi hanno qualcosa in comune: il loro modo di chiamare a letto la propria
moglie è simile, visto che Charles dice “vieni Emma, è ora”, mentre Karenin dichiara “è ora, è ora”. Tuttavia
anche qui va sottolineata una differenza: le maniere comuni del primo infatti, contrastano con la pedanteria
del secondo.
Il marito di Anna è stato definito, con espressione che ha avuto credito, “un sepolcro imbiancato”. Invero,
come già accennato, Karenin sembra avere ben poco di vivo: è un “concentrato di insensibilità, ipocrisia e
pavidità”, che fa del ruolo di funzionario l’abito della propria vita. È un uomo che si è creato un mondo fittizio
fatto di una ritualità puntuale e maniacale, quasi paranoica: è il perfetto depositario dell’ordine e della
sobrietà; il tutore del represso. Alcuni studiosi lo descrivono come il regnante di un mondo artefatto,
perfettamente chiuso e preordinato, in cui non c’è spazio per i sentimenti: è come una macchina, che non
riuscendo a comprendere ed analizzare la vita nella sua parte più irrazionale, si finge morto per non esserne
travolto. Anna si suicida buttandosi sotto un treno, ma a ben guardare anche la scelta di vita del marito ha
qualcosa di attinente ad un suicidio, perché egli di fatto sceglie di non-vivere.
Il suo modo di pensare, parlare, vivere, si conforma a quello di una pratica burocratica, che va analizzata
schematicamente, punto per punto, e categorizzata. È capace di accendersi solo davanti a ciò che è
inanimato, come una pratica appunto (“il viso di Aleksèj Aleksandrovič si colorò di animazione mentre
scriveva rapidamente, come un appunto per sé, lo schema di queste idee”). Ciò è perfettamente visibile nel
suo modo di rapportarsi al proprio dramma familiare: scaccia via il dolore, che pure deve provare, e usa degli
stereotipi per far rientrare la sua situazione all’interno della normalità. Quando mette in guardia Anna contro
il tradimento non lo fa per gelosia, egli non sa nemmeno cosa sia, ma per tutelare le convenienze, per lui
assai più importanti del fatto che Anna possa amare un altro che non sia lui: i problemi dei suoi sentimenti,
di ciò che è accaduto o può accadere nella sua anima non sono affar mio, sono affari della sua coscienza, di
pertinenza della religione, […] pertanto […] il mio dovere invece si definisce in modo chiaro. Come capo della
famiglia, io sono la persona obbligata a guidarla, e perciò , in parte, una persona che risponde; io devo indicare
il pericolo che vedo, mettere in guardia e persino impiegare l’autorità. Io devo parlarle. Quando poi Anna gli
confessa il suo tradimento Karenin assume “la solenne immobilità di un morto”. Le sue riflessioni risaltano
per la loro incredibile freddezza analitica: “ho sbagliando legando la mia vita a lei; ma nel mio errore non c’è
nulla di cattivo, e perciò io non posso essere infelice. Il colpevole non sono io, […] ma lei. Ma lei non ha nulla
a che fare con me. Per me non esiste. […] Io non posso essere infelice per il fatto che una donna spregevole
ha commesso un crimine; io devo soltanto trovare la via d’uscita migliore dalla penosa situazione in cui lei mi
mette”. Karenin di fatto razionalizza ciò che per definizione non è razionalizzabile, come il sentimento del
dolore, e si concentra su questioni pratiche: per lui è più importante evitare uno scandalo. Si consola col fatto
di non essere il primo né l’ultimo marito tradito, e si pone degli esempi, partendo addirittura da Menelao,
fino a giungere ai casi più recenti avvenuti nell’alta società. Considera le soluzioni possibili: la prima, ossia il
duello, viene scartata con una lunga digressione ipocrita per nascondere il fatto che in realtà trema alla sola
idea di una pistola puntata contro di lui. La seconda, il divorzio, viene anch’essa messa da parte per il clamore
che sicuramente avrebbe provocato e che lo avrebbe posto in cattiva luce e reso vulnerabile nella sua
posizione di funzionario. “In nome della religione”, dunque, decide, inverosimilmente, di lasciare tutto com’è:
purché la cosa non si venga a sapere, la loro vita deve tornare alla stessa tranquilla serenità di prima. Karenin
cerca inutilmente di normalizzare una situazione che di normale non ha nulla.
Naturalmente egli non può sentirsi colpevole: d’altronde è sua moglie ad averlo tradito, e a lui non balena
nemmeno per un istante l’idea di ciò che egli le ha tolto per tutti quegli anni: l’amore e l’affetto. Anche come
padre fa una povera figura: tratta il figlio con la stessa distaccata ironia che usa verso sua moglie, che crea
nel bambino un timore istintivo verso un padre incapace di mostrare il benché minimo gesto di tenerezza.
Karenin è un miope, incapace di vedere la rete dei sentimenti intorno a lui: non capisce la natura dell’amore
tra Anna e Vronskij, e non si accorge dei segnali di cambiamento che avvengono in sua moglie, palesi a tutti
tranne che a lui. Improvvisamente, quando cerca di parlarle, si accorge che la porta tra loro è chiusa; ciò che
però non ha mai compreso, è che l’anima più profonda di sua moglie gli è sempre stata inaccessibile, e che
solo ora che ella ha conosciuto l’amore questa è salita in superficie rendendogliela quasi estranea (“Anna,
ma sei tu?” dice non a caso quando lei mostra fastidio nel sentirlo scrocchiare le dita).
Che lo voglia o meno, comunque, è Anna stessa che lo costringe suo malgrado a penetrare e a conoscere la
sfera dei sentimenti: sul suo letto di morte, infatti, Karenin si sente invaso per la prima volta in vita sua
dall’amore e dal perdono, che in quel momento lo rendono una persona finalmente viva e luminosa,
superiore allo stesso Vronskij, che umiliato nel suo orgoglio da tanta magnanimità non può che andarsene e
prendersela con sé stesso tentando il suicidio. Karenin perdona tutti, e incredibilmente, comincia perfino ad
occuparsi della bambina non sua, verso cui inizia a provare un tenero attaccamento. Tuttavia questo suo
cambiamento è di breve durata: nonostante il suo slancio cristiano, si ritrova ben presto solo, e a questo
punto non può nulla contro il dolore che lo avvolge: non riesce a capacitarsi di come, dopo tutto quanto è
accaduto, egli si ritrovi abbandonato, deriso e disprezzato, e soprattutto non è in grado di conciliare il suo
slancio d’amore e il suo perdono con la sofferenza che gliene è derivata. Perduta ogni certezza non gli resta
che dedicarsi nuovamente alla sua carriera, che tuttavia, senza che lui se ne renda nemmeno conto, si è
arrestata: Karenin diventa ridicolo, poiché è ormai un uomo superfluo, inutile, schernito davanti ai suoi stessi
occhi, ma che non si accorge che la sua influenza è decaduta.
Per sfuggire al dolore non gli resta che rifugiarsi in un nuovo mondo artefatto, divenendo una sorta di
burattino nelle mani della contessa Lidja Ivànovna. Questa lo avvolge in una religiosità mistica, bigotta e
ipocrita che ben presto diventerà grottesca e ripugnante, come Stiva avrà occasione di sperimentare
direttamente nel suo incontro con i due e Jules Landau, il quale molto probabilmente non è un vero mistico
ma è solo un imbroglione.
Paradossalmente Karenin, che aveva cercato inizialmente la vendetta con mezzi sottili, volendo impedire che
Anna e Vronskij fossero felici insieme, e togliendo ad Anna il figlio tanto amato, la ottiene con la morte di sua
moglie, che accomoda tutto e lo ristabilisce nella posizione di vincitore (tra l’altro otterrà che la figlia non sua
cresca con lui). È da notare infine che il suo personaggio scompare dalla scena diverso tempo prima della fine
del romanzo, per riapparire solo indirettamente attraverso alcuni accenni fatti da altri: come a sottolineare
che comunque la sua importanza non è più rilevante.
Il narratore: simmetria e contrappunto
Ciò che emerge immediatamente leggendo Anna Karenina è la sua complessità. Laddove Flaubert aveva
concentrato la propria attenzione sul personaggio di Emma, configurandolo come il fulcro centrale intorno a
cui ruotava tutta la storia, Tolstoj invece non dedica attenzione soltanto alla sua eroina femminile, ma le
affianca anche la narrazione di altre storie. In questo modo costruisce un romanzo di tipo polifonico, nel
quale diverse voci si intrecciano, ognuna portatrice della propria verità, senza però che una prevalga
sull’altra, e nel quale il narratore si configura come un occhio che segue i vari personaggi, dei quali nessuno
risulta essere totalmente positivo o negativo.
Il mondo di Tolstoj è pertanto un mondo in cui non ci sono più vere certezze, dove il Dio menzionato
nell’epigrafe è in realtà assente, e dove Anna viene condannata, dalla società e dal suo stesso autore, che
pure non riesce a resistere al suo fascino, solo in nome di un canone di regole e valori ormai obsoleti. L’unica
forza che sembra dominare dall’alto la vita dei personaggi, è una sorta di determinismo dell’Eros, una forza
assoluta che muove la vita della protagonista verso la rovina, che le toglie ogni possibilità di deliberazione,
come se fosse soggetta ad un destino ineluttabile, inevitabile.
In realtà non si può dire che Tolstoj condividesse moralmente le scelte di Anna, però nel romanzo si avverte
che la voce della donna adultera possiede essa pure il diritto di essere ascoltata, malgrado la donna sia
colpevole.
Il narratore del romanzo quindi non assomiglia a quello flaubertiano, che spesso, a discapito dell’intento di
fare un romanzo “che sembri essersi fatto da sé”, interviene con commenti e sentenze: al contrario il
narratore di Anna Karenina è semplicemente un occhio, che segue e registra, che dà la stessa rilevanza al
nastro di un abito quanto alla morte tragica di un personaggio: un occhio, che mostra la realtà in tutta la sua
complessità. A differenza di Flaubert oltretutto, che si caratterizza per un uso continuo dell’imperfetto che
tende ad appiattire ogni momento in una lunga serie di abitudini sempre uguali, Tolstoj invece dà valore ad
un istante per il suo valore in sé di diversità rispetto a tutti gli altri. Inoltre, probabilmente per alleggerire una
storia la cui complessità rischiava di creare eccessiva dispersione, Tolstoj non indugia in descrizioni
paesaggistiche o in resoconti storici sul passato dei personaggi, ma dice di loro solo ciò che è essenziale a
definirlo.
Questo narratore non deve però essere confuso con un narratore onnisciente, poiché è una voce che non sa
tutto, e gli esempi più evidenti sono rilevabili nelle morti di Nickolaj e di Anna, dove entrambi nel momento
della fine vedono come una luce che illumina per un attimo le loro vite donando loro una consapevolezza che
appartiene soltanto a loro, una rivelazione che né Tolstoj, né la voce narrante, sanno cosa sia: di Anna infatti
viene detto che “la candela alla cui luce aveva letto un libro pieno di ansie, di inganni, di dolore e di male,
avvampò di una luce più vivida che mai, le illuminò tutto quello che prima era nell’oscurità, crepitò, cominciò
ad offuscarsi e si spense per sempre”.
Una delle maggiori novità del romanzo è l’utilizzo del monologo interiore, che qualificandosi come un vero e
proprio flusso di coscienza (ancora prima di Proust e dell’uso massiccio che ne farà nella sua opera), accosta
tra loro i pensieri del personaggio, così come vengono, insieme alle percezioni sul mondo esterno. Esemplari
a tal proposito, naturalmente, sono le pagine in cui Anna, prima della decisione di suicidarsi, osserva dal
carrozzino le vie e il movimento delle altre persone, mentre pensa al suo rapporto con Vronskij: “-ufficio e
deposito. Dentista. Sì, dirò tutto a Dolly. A lei non piace Vronskij. Proverò vergogna, dolore, ma le dirò tutto.
Lei mi vuole bene e io seguirò il suo consiglio. Non mi assoggetterò a lui, non gli permetterò di trattarmi come
un bambino da educare. Filippov: ciambelle … Dicono che mandi la pasta a Pietroburgo. L’acqua di Mosca è
così buona”.
Uno dei pochissimi commenti in cui la voce narrante si fa più visibile è la frase iniziale: “tutte le famiglie felici
sono simili tra loro, ogni famiglia infelice è infelice a modo suo”. Il fatto che questa sentenza sia posta in una
posizione così rilevante, assume un valore particolare: la felicità livella, mentre ogni infelicità è diversa a
modo suo da tutte le altre. Nel romanzo non è un caso che le cosiddette “famiglie felici” siano appena
accennate: l’attenzione infatti è tutta per le altre: quella di Anna, di suo fratello Stiva, e di Levin, che sebbene
possa apparire una famiglia felice, in realtà presenta anch’essa le sue difficoltà e le sue ombre. Per Tolstoj
non è importante solo la famiglia formata da padre, madre e figli, ma tutto l’insieme dei legami familiari: in
questo modo coloro che nella loro vita non hanno avuto questo supporto incontrano maggiori difficoltà nel
formare un nucleo proprio, e spesso ciò che creano è fragile e destinato al fallimento, e invero i personaggi
delle cosiddette “famiglie infelici” sono tutti orfani: Levin, che associa idealmente l’amore al matrimonio e
l’idea di moglie a quella di madre; Anna, che tradisce il marito; Stiva, donnaiolo impenitente; Karenin che è
cresciuto all’ombra protettiva del fratello e di uno zio. L’unico escluso è Vronskij che tuttavia essendo stato
educato nell’ambiente militare, e con una madre dalla moralità discutibile, non può immaginare una vita
familiare, e prima di incontrare Anna, nemmeno la desidera. Alla luce di tutto ciò, per Tolstoj risulta essere
scontato che il matrimonio tra Anna e Karenin sia destinato al fallimento, mentre i matrimoni di Levin e Stiva
possono reggersi solo sulle spalle delle rispettive mogli, Kitty e Dolly, che hanno alle spalle una famiglia
compatta e onorevole: gli Ščerbackij.
Come s’è detto, la narrazione è costruita intorno alle storie di diversi personaggi, anche se quella di Anna
risulta essere la più importante (come è visibile dal titolo e dal fatto che dopo la sua morte sostanzialmente
il libro si conclude). Ciò che stupisce in un romanzo così articolato è che la narrazione non si perda in un
accostamento disordinato, ma che invece segua un percorso cronologico che vede alternarsi in maniera
perfettamente equilibrata i vari intrecci, i quali in questo modo possono completarsi soltanto nel loro
confronto con gli altri. Vi è pertanto un uso perfettamente equilibrato della simmetria e del contrappunto,
per cui vi sono due famiglie, di cui una si crea (Levin e Kitty) mentre l’altra va sfasciandosi (Anna e Karenin).
Si trovano poi diversi tipi di amore: quello tra Dolly e Stiva rispetta norme e ruoli sociali, ed è basato sugli
affetti, le convenienze e i compromessi; quello tra Kitty e Levin vede invece l’amore come una scelta di
responsabilità, che si costruisce giorno per giorno; infine quello tra Anna e Vronskij è quello tra un uomo e
una donna assoluti in cui il sentimento nasce a prescindere da ogni volontà, al di fuori da ogni norma sociale
e morale. L’opposizione più rilevante però risulta comunque quella tra le ultime due coppie, in cui
l’appartenersi tenero e fragile di due anime unito alla felicità delle piccole gioie quotidiane si contrappone
alla passione travolgente dell’Eros e all’infelicità tragica. Le due storie assumono anche una struttura
contrastante: quella tra Anna e Vronskij è un sistema chiuso che si apre alla stazione di Mosca e si chiude
circolarmente a quella di Obiralovka: è impregnata si simboli che danno la sensazione di un destino che li
governa dall’alto. Quella di Levin e Kitty è invece un libro aperto, che si apre in un punto qualsiasi, al loro
incontro sulla pista di pattinaggio, e si chiude in un altro punto qualsiasi, a cui ne seguiranno molti altri dello
stesso tipo: non vi sono simboli, e il fato sembra disinteressarsi di loro.
Le simmetrie però non si limitano a questo. Ve ne sono alcune più immediatamente visibili, come la felicità
di Anna e Vronskij in Italia parallela a quella dei primi tempi del matrimonio di Levin e Kitty. Successivamente
invece la felicità conquistata con fatica dalla seconda coppia si contrappone alla crescente infelicità che
domina il rapporto della prima. Direttamente vengono poi messe a confronto lo sfarzo di Anna con la povertà
di Dolly, e la stessa ricchezza di Anna contrasta col suo stato civile di reietta e adultera. Meno evidente può
essere invece il confronto tra la gelosia di Levin, pronto a scaldarsi con ogni uomo che sia gentile con sua
moglie, e la non-gelosia di Karenin, assai più preoccupato delle convenienze, che reputa tale sentimento
disonorevole per sé e sua moglie. Ancora, la dichiarazione di Karenin a Dolly sulla fine del suo matrimonio
contrasta con la contemporanea nascita dell’amore tra Levin e Kitty. Un ultimo fatto rilevabile, è poi una
sorta di comune indecisione che domina tutta la prima parte del romanzo: Levin è indeciso se dichiararsi o
meno; Stiva non sa scegliere tra sua moglie e la governante; Dolly non è sicura se lasciare o perdonare il
marito; Kitty è incerta se abbia fatto bene o meno a rifiutare Levin.
Con tutto questo, il personaggio di Levin, che assume diverse caratteristiche del suo autore, arrivando quasi
ad essere una maschera con cui Tolstoj inserisce nel romanzo il suo punto di vista su diverse questioni, si
oppone però solo in apparenza ad Anna come un modello positivo, poiché entrambi alla fine subiscono uno
scacco definitivo: Anna certo si uccide, mentre Levin continua a vivere, nondimeno nemmeno lui riuscirà a
trovare una risposta definitiva ai suoi dubbi, e la tentazione del suicidio aleggerà sempre nella sua mente.
Il confronto tra le diverse voci del romanzo in effetti fa sì che infine la voce narrante non consenta di avere
risposte certe, o una morale precisa da seguire: il lettore viene lasciato libero di giudicare da sé e di trovare
da solo le soluzioni che cerca.
Con questo gioco di contrapposizioni e rimandi la struttura del romanzo risulta incredibilmente unitaria e
compatta: anche le due storie che corrono parallelamente, e sono apparentemente distaccate l’una dall’altra,
hanno il loro punto d’incontro nel personaggio di Oblonskij, dal momento che è sia fratello di Anna, che amico
e futuro cognato di Levin. Oltre a questo il suo personaggio incarna anche il ruolo di guida nel bel mondo di
Mosca e di Pietroburgo: il suo assumere e cambiare le proprie idee secondo quelle della maggioranza e il suo
mantenersi sempre su un piano di allegra giovialità lo rendono il miglior rappresentante della vanità e della
vacuità del suo mondo, nel quale ovviamente si trova perfettamente a suo agio.
Così come Flaubert in Emma Bovary, Tolstoj sparge diversi simboli nel romanzo, alcuni dei quali utilizzati dallo
stesso autore francese ma con significati diversi. Se anche qui l’azzurro indica le illusioni (“-oh! Com’è bella
la vostra età,- continuò Anna. –Ricordo e conosco quella nebbia azzurra […] quella nebbia che ricopre tutto
nell’età beata in cui sta appena terminando l’infanzia […]”), e il sigaro si associa anch’esso al lusso e alla
sensualità (perfino Anna si metterà a fumare verso la fine del romanzo, quando il suo rapporto con Vronskij
è già verso la rovina), il verde e la nebbia, che in Emma si ricollegavano al suo decadimento morale, qui
legandosi a Levin, testimoniano la sua unione con la natura. Altri simboli si configurano poi nelle orecchie di
Karenin, emblema della repulsione di Anna per lui, e i denti di Vronskij, che caratterizzano la sua figura
giovane sana (non a caso dopo la morte di Anna, sul treno che deve portarlo al fronte, egli è un rottame
afflitto dal mal di denti). L’inconciliabilità tra l’amore per Vronskij e per il figlio Serëza emerge invece nella
scena in cui Anna, dopo aver visto di nascosto il bambino, per togliere una sua foto dalla cornice di un album
ne usa un’altra che poi rivelerà ritrarre proprio l’amante: come dire che l’amore per uno esclude quello per
l’altro. Un ulteriore simbolo può essere anche rintracciato nella lettera “A”, che probabilmente non a caso, è
l’iniziale del nome di tutti i personaggi che ruotano intorno al personaggio di Anna: Aleksej Aleksandrovič
Karenin, Aleksej Vronskij, Annuška, domestica di Anna, e Anna la figlia nata dalla sua relazione. Oltretutto la
lettera “A” potrebbe far pensare, ad un lettore più esperto, alla lettera scarlatta che la protagonista Hester
Prynne dell’omonimo romanzo di Hawtorne, era costretta a portare sul petto come simbolo della sua colpa:
l’adulterio. Infine però è il treno a caratterizzarsi come simbolo per eccellenza, presente in tutti i momenti
rilevanti della narrazione: l’incontro dei due amanti, il suicidio di Anna, la partenza di Vronskij. Il treno è così
il mezzo del fato che conduce Anna verso la sua fine. Allo stesso modo, anche la carrozza ha uguale
importanza, essendo presente nel momento della confessione di Anna al marito e nel lungo monologo
interiore finale.
Alcuni fatti, o alcuni oggetti, nel loro valore simbolico ricorrono nel libro più volte e si costituiscono come
delle prefigurazioni o premonizioni. Il sogno del contadino che rimesta nel sacco si configura infatti come un
presagio di morte, e l’incidente alla stazione, quando Anna incontra Vronskij per la prima volta preannuncia
la morte dell’eroina. La stessa storia del tradimento di Stiva, con cui il romanzo ha inizio, si costituisce come
un anticipazione di ciò che avverrà nel matrimonio della stessa Anna, sebbene con ruoli rovesciati e con esito
differente. Il tormento interiore di Anna poi, durante il ritorno a Pietroburgo, anticipa il monologo interiore
del finale, prima che lei si suicidi. La scena della corsa di cavalli, in cui muore Frou-Frou, a causa di un errore
di Vronskij, precorre invece ciò che avverrà nel rapporto con Anna: egli sarà la causa della rovina di lei, così
come lo è stato per il suo animale, a cui tra l’altro si rivolgeva come se fosse una donna.
Tutte queste anticipazioni si legano alla predestinazione di Anna, alla sua inevitabile caduta, e fanno sì che
su tutto il libro aleggi come un’ombra la presenza della morte, che oltretutto aveva tormentato l’autore
durante la stessa stesura del romanzo: non è un caso forse che in tutto il libro ci sia un solo capitolo con un
titolo, e che questo sia appunto “la morte”. Tra l’altro questa parte, nella quale si narra della morte di
Nickolaj, fratello di Levin, preannuncia la morte della stessa protagonista.
Anche i gesti hanno per Tolstoj un’importanza non trascurabile, dato che hanno il merito di illuminare sulla
psicologia del personaggio, così come il socchiudere gli occhi di Anna testimonia il suo disagio profondo o lo
scrocchiare delle dita di Karenin lo caratterizza come un uomo esente dalla sfera dei sentimenti, che compie
i gesti meccanici che farebbe una macchina. Il gesto, anzi, assume una rilevanza particolare in relazione
all’importanza che il dialogo assume per l’autore, che ritiene che tutti i personaggi mentano, e che ciò che
invece vogliono esprimere davvero risieda nel non-detto. La comunicazione tra i vari personaggi così, ed in
particolare quella tra Anna e Vronskij, si caratterizza come una comunicazione disfunzionale, una noncomunicazione, in quanto Anna usa un linguaggio non attinente alla situazione (come accusare Vronskij di
non amarla dopo che questi le ha detto che devono rimandare la partenza) per esprimere il suo profondo
disagio. Ciò che ne emerge è che Anna non riesce a tradurre nelle parole giuste il suo bisogno d’amore e di
autonomia, dal momento che Vronskij, che ha il potere nella conversazione, o elude i segnali che gli indicano
che il vero messaggio è un altro (“No,non mi sono annoiata e già da un pezzo ho imparato a non annoiarmi”)
oppure finge un apparente interesse con frasi tipo “dimmi, che cosa devo fare perché tu stia tranquilla? Sono
pronto a fare qualunque cosa perché tu sia felice”. In questo modo viene evidenziata l’incomunicabilità delle
loro dispute che come ha notato Marina Mizzau seguono tutte lo stesso schema alla fine del quale Anna
ottiene una parziale resa dell’amante senza che però sia riuscita davvero ad esprimere il suo disagio con le
parole giuste, e senza che i nodi di crisi del loro rapporto siano stati sciolti.
Il simbolismo di cui si è parlato è in realtà molto più pronunciato che in Emma Bovary. Tuttavia tra i due
romanzi, apparentemente così distanti, occorrono alcune similitudini d’intreccio: in entrambi infatti una
donna giovane e bella è sposata con un uomo mediocre che non la rende felice; entrambe le donne cercano
quindi la felicità in rapporti extraconiugali che divengono prevalentemente di tipo sensuale; le madri dei loro
amanti poi (nel caso specifico quella di Léon e quella di Vronskij) disapprovano le loro relazioni poiché
compromettono la loro carriera; inoltre lo stesso suicidio delle due protagoniste avviene non
premeditatamente ma in un momento di frenesia, anche se per ragioni diverse. Il declino dell’amore tra Anna
e Vronskij oltretutto richiama quello tra Emma e Léon, mentre invece la repulsione di Anna per le orecchie
di Karenin, si rispecchia in quella di Emma per il rumore che Charles produce mentre mangia. Infine in
entrambi vi è una scena importante ambientata in un teatro, guardato da entrambi gli autori come luogo di
ritrovo mondano in cui emergono la vanità, la falsità e l’ipocrisia della società.