ALMA MATER STUDIORUM – UNIVERSITÀ DI BOLOGNA

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ALMA MATER STUDIORUM – UNIVERSITÀ DI BOLOGNA
ALMA MATER STUDIORUM – UNIVERSITÀ DI BOLOGNA
FACOLTÀ DI LINGUE E LETTERATURE STRANIERE
Corso di Laurea Magistrale in Lingua, Società e Comunicazione
Il processo di professionalizzazione del community interpreter.
Problemi ed implicazioni della legittimazione di una nuova figura
lavorativa.
Tesi di Laurea in Mediazione Inglese
Relatore
Presentata da
Prof.ssa Mette Rudvin
Verena Guidi
Correlatore
Prof.ssa Cinzia Giacinta Spinzi
Sessione II
Anno Accademico 2011-2012
1
2
Indice
Introduzione ………………………………………….…………………
Pag. 7
Capitolo 1: Community Interpreting ………………...…...…...……...
Pag. 9
1.1 L’interpretazione nella storia …………………...………...… …...
Pag. 10
1.2 Translation e Interpreting Studies ………………………….…….
Pag. 13
1.3 Terminologia e definizioni: community interpreting, conference
interpreting, court interpreting …………………………………
Pag. 19
Capitolo 2: Il ruolo dell’interprete ………...……………………...….
Pag. 29
2.1 Community interpreter: dove, come, quando ….…………..……
Pag. 30
2.2 Il rapporto tra linguaggio e cultura ………………………………
Pag. 35
2.3 L’interprete come partecipante attivo …………………………..
Pag. 40
2.4 L’interprete e la percezione di se stesso ………….…………….
Pag. 50
Capitolo 3: La formazione del community interpreter ……………...
Pag. 55
3.1 L’importanza della formazione ………………………………….
Pag. 56
3.1.1 La formazione in Italia: il caso di Forlì e Trieste.….…..…
Pag. 64
3.2 L’impatto della tecnologia ……………………………………….
Pag. 67
3.3 I rischi dell’impiego di interpreti ad-hoc ……...…………………
Pag. 71
Capitolo 4: La questione della professionalizzazione ………………..
Pag. 75
4.1 Teorie sul processo di professionalizzazione…………....………..
Pag. 80
4.2 La valutazione della qualità…………………………………........
Pag. 89
4.3 Le agenzie di interpretazione..……………………………………
Pag. 96
3
Capitolo 5: Community interpreting in giro per il mondo ………….
Pag. 102
5.1 Le eccellenze: Australia e Svezia……………...………………….
Pag. 102
5.2 Differenti livelli di sviluppo: Stati Uniti, Canada, Spagna a
confronto.....……………………………………………….………….
Pag. 107
5.3 Approfondimento sull’Italia……………………...……………….
Pag. 112
Conclusione …………………………………………………………. …
Pag. 121
Bibliografia ……………………………………………………………..
Pag. 125
Ringraziamenti …………………………………………………………
Pag. 137
4
A man who has no acquaintance
with foreign languages knows
nothing of his own.
Johann Wolfgang von Goethe
(Maxims and Reflections1)
1
E-book disponibile in Project Guemberg http://www.gutenberg.org/files/33670/33670-h/33670-h.htm
5
6
INTRODUZIONE
Il presente elaborato intende proporre un’analisi della figura del community
interpreter, o interprete di comunità, che può essere definito come il professionista
che opera nell’ambito dei servizi pubblici e sociali. L’interesse specifico di tale
lavoro è osservare il processo, ancora in divenire, attraverso il quale l’interprete si
è affermato – in taluni paesi – o si sta affermando – in altri come l’Italia – come
lavoratore professionista che rivendica la legittimazione della propria attività e il
riconoscimento di rispetto e dignità (tanto dal punto di vista morale quanto da
quello di un’equa remunerazione economica) riservato a tutti gli altri
professionisti
nei
più
disparati
settori.
Nella prima parte andremo a fornire uno spaccato dello studio degli Interpreting
Studies (IS), indispensabile per poter comprendere appieno l’ambiente e le
situazioni in cui il community interpreter si trova ad operare. Si cercherà di
spiegare in cosa consista il variegato ambito del community interpreting e di cosa
si occupi in particolare, in quali settori lavori e in cosa differisca dagli altri tipi di
interpretariato. In seguito verrà proposta un’analisi generale di questo tipo di
figura professionale, con una particolare attenzione alle implicazioni etiche e
socioculturali intrinsecamente presenti nel suo ruolo ed alle sue funzioni
all’interno della dinamica del discorso.
Il seguente capitolo affronterà l’ampia e disomogenea tematica della formazione e
del training del community interpreter, dove ci troveremo necessariamente a
sottolineare tutti gli aspetti negativi della questione e spiegheremo come possano
portare, nel peggiore dei casi, ad una cattiva riuscita dell’atto di interpretariato.
Oltre a rimarcare la necessità e l’importanza di una preparazione adeguata e di
alto livello per ricoprire tale ruolo, si indagherà sui possibili casi di assunzioni adhoc e sulla potenziale pericolosità di tale pratica, spesso molto diffusa, e
sull’influenza delle più recenti tecnologie sull’attività dell’interpretazione e sul
suo insegnamento.
7
Il capitolo più importante è senza dubbio quello dedicato all’annosa questione
della professionalizzazione. La letteratura dedicata all’argomento non è vastissima
ma negli ultimi tempi gli esperti del settore, gli studiosi e gli stessi praticanti
dimostrano sempre più interesse a riguardo, a dimostrazione della fase di
espansione che questa disciplina sta vivendo. Seguendo questi lavori di ricerca
come filo conduttore si esamineranno tanto gli aspetti teorici ed etici (il ruolo
dell’interprete, i concetti di neutralità e responsabilità) quanto quelli più
prettamente pratici (la figura del cliente, delle agenzie, come si ottengono gli
incarichi,
come
funzionano
i
servizi
nelle
istituzioni
pubbliche).
La
professionalizzazione è un processo delicato e complesso, poiché all’evoluzione
della figura dell’interprete e delle sue mansioni si intrecciano le dinamiche di
mercato e il conseguente ed inevitabile risvolto economico – e spesso anche
politico – degli incarichi. Senza dubbio la confusione che ancora regna a riguardo
e le grandi differenze tra un paese e l’altro non favoriscono la costituzione di
criteri e linee guida internazionalmente validi, ma è necessario stabilire un
modello quanto più possibile condiviso per far sì che l’attività e la professione
dell’interprete ricevano indiscusso riconoscimento internazionale.
Nella parte finale una panoramica generale illustrerà la situazione del community
interpreting in vari paesi del mondo con differenti storie e tradizioni alle spalle;
esamineremo come questa professione sia nata e si sia evoluta nel corso del tempo
e come su questo processo abbiano influito fattori politici e sociali come
l’immigrazione. Vedremo quali paesi sono i leader in termini di sviluppo e
normalizzazione e quali invece sono ancora in fasi più arretrate di questo
percorso.
In questa parte finale una sezione a parte sarà ovviamente dedicata all’Italia; oltre
all’analisi dello stato della professione del nostro paese e dei problemi quotidiani
che essa si trova ad affrontare a causa della scarsa chiarezza sui compiti e i limiti
dell’interprete, si tratterà di una questione che accomuna molte professioni in
cerca di legittimazione, la creazione di un albo di stato. Esistono attualmente varie
federazioni ed associazioni che rivendicano di riunire gli interpreti italiani, molto
autonome e diverse tra loro per struttura e regolamenti.
8
CAPITOLO 1
COMMUNITY INTERPRETING
Prima di intraprendere la dissertazione sul community interpreting, un excursus
sulle origini di questa materia si rivela opportuno e necessario per comprendere i
temi che andremo ad affrontare di qui a poco. È importante in primis definire cosa
siano traduzione ed interpretazione (discipline “sorelle” ma che presentano
differenze così marcate da renderle indipendenti l’una dall’altra) e subito dopo
focalizzare da dove abbia avuto inizio il community interpreting e che relazione
abbia con le altre tipologie di interpretazione, essendo così relativamente recente,
e per questo la meno trattata tra le varie categorie che a breve verranno citate.
Partendo ab ovo, va specificato come il community interpreting faccia parte della
grande famiglia dell’interpreting. Secondo molti autori tra cui Hale (2007:3)2
l’interpretazione a sua volta è sempre stata considerata una branca della
traduzione. Come è facilmente immaginabile, traduzione ed interpretazione hanno
sempre avuto un ruolo cruciale nella storia dell’umanità, fin da quando si sono
registrati i primi contatti tra i popoli. Entrambe sono attività antichissime, ma
mentre la prima è sempre stata importante ed apprezzata (pensiamo per esempio al
ruolo che la traduzione di testi e manoscritti ha avuto nella diffusione del sapere e
della cultura nei secoli passati), la seconda ha avuto un ufficiale riconoscimento di
status solo a partire dall’epoca moderna, con la Seconda Guerra Mondiale come
spartiacque che segna l’inizio dello sviluppo degli Interpreting Studies. Di seguito
verranno illustrati il percorso nella storia dell’interpretazione, il ruolo cruciale che
ha sempre avuto per l’uomo e il moderno processo di riconoscimento accademico
della materia.
2
Hale S.B. (2007), Community Interpreting, Hampshire: Palgrave MacMillan
9
1.1
L’interpretazione nella storia
Non ci si può esimere dal tracciare un rapido excursus storico per inquadrare la
figura dell’interprete nel corso dei secoli. È un’attività che esiste da sempre, e
sappiamo bene quanto gli interpreti siano stati essenziali tanto nelle interazioni
quotidiane della gente quanto nelle conquiste militari, nella diffusione di testi
sacri, nell’espansione
degli
imperi, nell’amministrazione della giustizia
(Giambruno 2008:28)3, insomma in tutti quei momenti della storia in cui persone
che non condividevano la stessa lingua hanno avuto la necessità di interagire.
Le prime testimonianze risalgono all’Antico Egitto, dove geroglifici ed iscrizioni
tombali ci riferiscono dell’importante ruolo ricoperto dagli interpreti. Essi erano
considerati persone “che parlavano le lingue strane”, visto che nella concezione di
questa cultura solo gli Egizi erano considerati esseri umani mentre gli stranieri
venivano definiti “miserabili barbari” (Hermann 1956:16)4. Oltre all’aspetto
linguistico, come sostiene Hermann, l’interprete si occupava di altre funzioni
come quella di guida o negoziatore durante gli scambi commerciali; il suo ruolo
era pertanto molto importante all’interno della società. La caratteristica più
interessante di questa civiltà è senza dubbio il fatto che fossero gli stessi Egizi a
preoccuparsi di imparare le lingue (per esempio, era usanza collaudata mandare i
giovani ragazzi nella zona del Delta del Nilo per imparare il greco, come ricorda
Hermann) piuttosto che obbligare uno straniero ad imparare la loro lingua, e lo
facevano per due diversi motivi: agli inizi del loro dominio era una mossa
lungimirante per affermare il loro crescente potere, e successivamente un impulso
conservativo affinché la loro lingua e scrittura non andasse incontro ad una
desacralizzazione dovuta al contatto con lingue straniere (Hermann 1956:17).
In Grecia, come spiega Angelelli (2004:8)5, gli interpreti erano considerati semidivinità capaci di svolgere diversi ruoli, non solo quelli legati agli scambi
3
Giambruno C. (2008), “The role of the interpreter in the governance of sixteenth- and
seventeenth-century Spanish colonies in the New World”, in C. Valero Garcés. e A. Martin eds.
(2008), Crossing Borders in Community Interpreting, Amsterdam and Philadelphia, John
Benjamins Publishing Company: 28-49
4
Hermann A. (2002), “Interpreting in antiquity”, in F. Pöchhacker e M. Shlesinger eds. (2002),
The Interpreting Studies Reader, London and NewYork: Routledge Language Readers: 15-23
5
Angelelli C. (2004), Revisiting the interpreters role : a study of conference, court, and
10
commerciali. In generale i Greci avevano disprezzo per tutti gli stranieri6 e perciò
pretendevano che fossero gli altri a dover imparare il greco, quindi in tutte le
occasioni di contatto con gli altri popoli, come Siriani, Egizi, Celti, ecc., dovevano
ricorrere all’opera di un interprete. L’unica eccezione è rappresentata dal rapporto
coi Romani. Questi ultimi erano abituati ad insegnare entrambe le lingue nelle
scuole e non avevano questo atteggiamento negativo nei confronti delle altre
lingue; al contrario la presenza di interpreti è attestata da varie iscrizioni in tutte le
province romane e generalmente godevano di una buona reputazione. Perciò nel
caso di contatti tra Greci e Romani la comunicazione era più semplice, dato che i
secondi conoscevano il greco. L’interprete invece si rivelava assolutamente
necessario in caso di relazioni col Senato Romano, nel quale per motivi di onore
era vietato parlare in qualsiasi lingua che non fosse il latino (Hermann 1956:19).
Una delle accezioni più importante del ruolo di interprete ai tempi degli imperi
classici era quella di interprete militare: una pluralità di fonti e testimonianze
storiche (in Hermann 1956) esemplificano chiaramente come il lavoro di questi
specialisti fosse prezioso sia in guerra che nelle trattative di pace.
Nell’antichità gli interpreti sono stati utilizzati anche come mezzo per diffondere
credenze religiose e libri sacri. Per esempio, durante i viaggi verso l’Africa per
motivi commerciali, gli Arabi ne approfittarono per islamizzare le popolazioni
africane; così facendo l’arabo, la lingua del Corano, acquisiva sempre maggior
importanza. Fu necessario interpretare anche la Torah in pubbliche letture per
renderla fruibile ai popoli di lingua aramaica, greca e araba. Anche il
Cristianesimo non fu da meno e si avvalse di ecclesiastici plurilingue per la sua
opera di cristianizzazione dell’Asia (cf. Angelelli 2004). Un esempio straordinario
nella storia dei Translation e Interpreting Studies è la Scuola dei Traduttori di
Toledo, definita da Rodríguez González “una simbiosi perfettamente riuscita tra le
tre grandi culture medievali: musulmana, giudaica e cristiana”7. La Scuola era un
gruppo di lavoro creato presso la corte toledana per tradurre e diffondere tutti i più
medical interpreters in Canada, Mexico, and the United States, Amsterdam ;
Philadelphia : J. Benjamins
6
In greco βάρβαρος = “straniero”, ma anche “balbuziente”. È una voce onomatopeica derivante
dal raddoppiamento del suono BAR, ad indicare che ai greci sembrava che tutti quelli che non
parlavano
greco
emettessero
dei
suoni
animaleschi
e
rozzi.
Fonte:
http://www.etimo.it/?term=barbaro
7
Fonte: il periodico spagnolo “Encuentros Multidisciplinares” http://www.encuentrosmultidisciplinares.org/Revistan%C2%BA19/Ricardo%20Rodriguez%20Gonz%C3%A1lez.pdf
11
importanti testi della classicità; la tecnica elaborata dal re Alfonso X prevedeva la
traduzione scritta di un testo che prima veniva interpretato a voce sul momento;
quindi la prima fase di trasmissione orale del testo aveva un grande peso sul
risultato finale.
L’interpretazione ha giocato un ruolo fondamentale anche in un’altra era destinata
a cambiare la storia dell’umanità, l’epoca della conquista e della colonizzazione
delle Americhe. Nel suo famoso viaggio del 1492, anche Colombo aveva
provveduto a portare con sé due interpreti, che sfortunatamente per lui si
rivelarono inutili una volta approdati in America. I colonizzatori spagnoli fin da
subito si resero conto che il quadro linguistico era composto da decine e decine di
idiomi diversi ed era assolutamente necessario trovare un sistema per comunicare
con queste popolazioni. Pertanto alcuni indigeni venivano selezionati – o meglio
obbligati – a diventare interpreti; spesso venivano portati in Spagna affinché
imparassero la lingua ma anche la cultura dei colonizzatori, visto che il loro ruolo
non era solo quello di tramite linguistico ma anche di intermediari, di anello di
contatto tra colonizzatori e colonizzati. Il loro ruolo divenne così importante che
meno di un secolo dopo l’arrivo di Colombo, nel 1573, fu necessario regolare con
una legislazione apposita il loro operato. Vennero redatti dai sovrani spagnoli 15
decreti per disciplinare condizioni di lavoro, paga, compiti e doveri dell’interprete
(cf. Giambruno, Angelelli).
Nei secoli successivi, per ovviare al problema di comunicazione tra parlanti di
diverse lingue, iniziò a diffondersi l’uso del francese come lingua franca, che
progressivamente andò a sostituire il latino – tranne in ambito ecclesiastico. Un
altro punto di svolta per gli interpreti si rivela essere il XIX secolo: in seguito al
crescente potere in campo politico ed economico dei paesi anglofoni – Gran
Bretagna e Stati Uniti -, i cui leader non conoscevano il francese, si iniziò a
ricorrere ad ufficiali militari plurilingue in veste di interpreti. Gli esperimenti
risultavano sempre più riusciti e la figura dell’interprete cominciò così il suo
cammino verso la professionalizzazione. Punto chiave di questo cammino fu il
processo di Norimberga alla fine della Seconda Guerra Mondiale: gli interpreti
interpretavano simultaneamente dall’interno di apposite cabine. L’esito fu così
positivo che dal 1947 una risoluzione delle Nazioni Unite stabilì che il
12
simultaneous interpreting diventasse un servizio permanente dell’organizzazione8.
Questi avvenimenti storici spiegano appunto perché il conference interpreting
abbia iniziato il suo processo di sviluppo e professionalizzazione molto prima
rispetto alle altre sotto-categorie dell’interpreting, e allo stesso tempo abbia fatto
loro da apripista.
Per concludere ricollegandoci alla storia dei nostri giorni, Angelelli (2004:11)
sottolinea come sia tornata alla ribalta l’importanza dell’interpretazione dopo
avvenimenti drammatici come le guerre nei Balcani ed in Iraq e la strage
dell’11/9. La collaborazione degli interpreti si rivela preziosissima nella lotta al
terrorismo e la loro formazione viene promossa direttamente dal governo
statunitense con sovvenzioni mirate alla creazione di particolari corsi di laurea e
di ricerca.
La riflessione generale che sorge dopo questa panoramica storico-sociale è che per
l’interpretazione lo studio teorico e la ricerca accademica sono sempre stati
trascurati e posti in secondo piano rispetto alla necessità di soddisfare i bisogni del
mercato, come se l’unica cosa importante fosse accontentare nel minor tempo
possibile le richieste del cliente. Questo ha implicato che i corsi nelle università e
gli studi degli esperti siano partiti solo dopo essersi conto dell’importanza del
ruolo dell’interprete nella società e soprattutto dell’importanza di avere
professionisti ben preparati e formati per poter ottenere i migliori risultati
possibili.
1. 2
Translation e Interpreting Studies
Lo studio della traduzione in quanto materia accademica, come ricordato da
Munday (2008:5)9 è iniziato all’incirca negli anni Quaranta del secolo scorso; una
definizione universalmente accettata, dopo altre proposte che non avevano trovato
un riscontro unanime, è stata coniata solo nel 1972 da Holmes che ha proposto il
8
Testo della risoluzione consultabile a pag. 61 del seguente documento: http://daccess-ddsny.un.org/doc/RESOLUTION/GEN/NR0/038/59/IMG/NR003859.pdf?OpenElement
9
Munday J. (2008), Introducing translation studies, London/New York: Routledge
13
termine Translation Studies (in Venuti 2000)10. Fin da subito, però, si è riscontrato
un generale accordo nel ritenere traduzione ed interpretazione due discipline
separate, riconoscendo come maggior criterio di differenziazione il fatto che la
traduzione si occupa del testo scritto e l’interpretazione del testo orale11 (cfr.
Shuttleworth
&
Cowie
1997
in
Manfredi
2008)12.
Le
implicazioni
dell’opposizione tra oralità e scrittura possono essere così esplicitate (Baker
1998:53)13:
- I traduttori devono avere familiarità con le regole della lingua scritta ed essere
competenti nella lingua di destinazione; gli interpreti devono conoscere bene le
caratteristiche della lingua orale e devono saperla parlare fluentemente
- I traduttori possono acquisire conoscenze supplementari durante la traduzione
mentre gli interpreti devono acquisirle prima
- Gli interpreti devono saper prendere decisioni molto più in fretta rispetto ai
traduttori
Come ci illustra Hale (2007:9) nella figura, proprio la traduzione e il community
interpreting si trovano agli opposti di un ipotetico continuum che spiega le
principali differenze tra le varie attività.
---T--------SubT--------ST--------SI---------CI---------DI---------(Ch)---
Target audience-oriented--------------------------------Author/speaker-oriented
Monologic ----------------------------------------------------------- Dialogic
More time to prepare ------------------------------------------ No time to prepare
Text availability ----------------------------------------------- No text availability
Continuum of different types of transaltion activities
T: Translation, SubT: Subtitling, ST: Sight Translation, SI: Simultaneous Interpreting, CI:
Long Consecutive Interpreting, DI: Dialogue Interpreting, Ch: Chuchotage.
In generale possiamo osservare come l’interpretazione operi in un contesto
dialogico, dove cioè troviamo due o più parlanti; ovviamente non ha a
disposizione un testo sul quale prepararsi né tempo per prepararsi prima del
10
Holmes, James S. (1972), "The name and nature of Translation Studies", in Venuti, Lawrence
ed. (2000/2004), The Translation Studies Reader, New York/London: Routledge, 180-192.
11
In questo elaborato si intende per testo “una produzione linguistica (orale o scritta) fatta con
l'intenzione e con l'effetto di comunicare” (Serianni 2007:23).
12
Manfredi M. (2008), Translating text and context: Translation studies and systemic functional
linguistics, disponibile a: http://amsacta.unibo.it/2393/1/Manfredi_2008_Monografia.pdf
13
Baker M. ed. (1998), The Routledge Encyclopedia of translation studies, London/New York:
Routledge
14
lavoro, visto che gli atti locutori dei parlanti sono spontanei e non
precedentemente organizzati. Caratteristiche principali della traduzione, invece,
sono quelle di avere a disposizione un testo scritto da esaminare e sul quale
prepararsi, solitamente monologico (cioè scritto da un unico autore), per la
traduzione del quale verrà tenuto in grande conto il tipo di pubblico per il quale si
sta traducendo il suddetto testo.
Anche i percorsi di studio accademico di queste due discipline si sono presto
divisi – pur mantenendo molti aspetti in comune – dando vita ai Translation
Studies
(TS)
ed
agli
Interpreting
Studies
(IS).
I TS si occupano dello studio della traduzione intesa sia nel suo aspetto teorico
che in quello pratico, poiché, in accordo con l’opinione di Manfredi (2008:27), la
pratica senza un background teorico tende a diventare un mero esercizio
soggettivo, e allo stesso tempo una teoria della traduzione che non sia strettamente
collegata all’aspetto pratico è semplicemente un’astrazione.
I primi scritti e i primi riferimenti alla traduzione come materia risalgono a
centinaia di anni fa, ne possiamo trovare traccia nei testi di grandi autori classici
come Cicerone, Orazio e San Gioacchino (che si interrogavano sulla differenza tra
traduzione letterale e traduzione libera) (in Munday 2008). Sebbene ci fosse stato
qualche sporadico caso in precedenza, in generale i TS sono emersi negli anni
Settanta del secolo scorso, hanno vissuto una fase di grande sviluppo negli anni
Ottanta ma sono letteralmente proliferati negli anni Novanta. Prima degli anni
Settanta, come nota Munday (2008:8) la traduzione era considerata solo come un
elemento nell’apprendimento del linguaggio nei corsi di lingue moderne.
Nel corso di cinquant’anni questo campo di studio ha attraversato grandi
cambiamenti nella metodologia di studio e di ricerca. L’approccio monolitico
viene progressivamente abbandonato, considerando che il linguaggio – che sta alla
base di tutti gli studi linguistici e letterari – viene visto non più come “un sistema
assoluto ed immutabile appartenente esclusivamente ad una nazione/gruppo”
(Rudvin 2006:28)14 ma come un fenomeno dalle molteplici sfaccettature e tutte le
14
Rudvin M. (2006b), “The cultural turn in community interpreting. A brief analysis of
epistemological developments in Community Interpreting literature in the light of paradigm
changes in the humatities”, «LINGUISTICA ANTVERPIENSIA», 2006, 5/2006, pp. 21 – 41,
disponibile a: http://www.lans-tts.be/img/NS5/rudvin.PDF
15
categorie che lo riguardano (traduzione, linguistica, ma anche antropologia e
filosofia) devono essere intesi come fattori che interagiscono in un sistema
dinamico e in continua mutazione.
Progressivamente la traduzione abbandona l’etichetta di “linguistic transcoding” e
“literary practice” (Manfredi 2008:28) e, passando attraverso studi fondamentali
come quello di Snell-Hornby che propone il cosiddetto “integrated approach”, si
avvicina a quella di interdisciplina. Una vera interdisciplina, secondo la
definizione di McCarty (in Munday 2008:14) è “un’entità che si colloca negli
interstizi tra una disciplina e l’altra, collaborando con esse”; tutte sono incastonate
in un sistema gerarchico che fa sì che esistano relazioni primarie e secondarie. La
seguente figura di Hatim e Mason spiega graficamente i rapporti tra TS e le altre
discipline
connesse
ad
essi
(in
Manfredi
2008:29):
Figura 2: Map of TS and disciplines interfacing with it
Attualmente questa disciplina è in gran fermento e non mancano gli studi sulla
pratica della traduzione in sé, sul contesto socio-culturale, sull’operato dei
traduttori e sulle loro attitudini. Oggigiorno giocano un importante ruolo gli studi
che si concentrano sulla proliferazione delle nuove tecnologie che stanno
16
trasformando l’attività della traduzione e di conseguenza hanno un grande impatto
sulla sua teorizzazione. Il successo della traduzione come materia accademica è
dimostrato dalla grande varietà di corsi universitari, convegni e seminari, oltre che
di periodici e riviste specializzate.
Viste le notevoli differenze con la traduzione, e prendendo spunto dal cammino
accademico di questa disciplina, negli anni seguenti all’inizio dei Translation
Studies,
assistiamo
alla
nascita
degli
Interpreting
Studies.
La ricerca sull’interpretazione inizia negli anni Sessanta, ma il suo vero sviluppo
sotto la denominazione di Interpreting Studies si ha solo negli anni Novanta; vista
la sua crescente importanza, era proprio giunto il momento che lo studio
dell’interpretazione avesse una sua denominazione scientifica. Pöchhacker e
Shlesinger (2002)15 sottolineano come lo scopo degli IS fosse lo stesso proposto
inizialmente da Holmes per la traduzione, cioè descrivere il fenomeno
dell’interpretazione e stabilire regole e principi generali ed esplicativi.
Ma la sfida più grande è apparsa da subito quella di dare una descrizione
omogenea ed unificatrice della natura dell’interpretazione e delle sue tante subcategorie (che analizzeremo di qui a breve). Considerando – come si è fatto anche
per la traduzione – la natura del linguaggio così complessa ed interattiva e così
intrinsecamente legata al contesto politico e socioculturale in cui è immerso, si è
presto abbandonato un approccio di tipo monolitico per considerare l’importanza
di questioni quali “aspetti culturali, ideologie politiche, power relations, la
complessità del ruolo dell’interprete” ecc. (Rudvin 2006:22). Insomma, pare
davvero riduttivo provare a considerare l’interpretazione come un mero atto di
comunicazione linguistica senza tener conto di tutte le implicazioni e le
complessità che tale attività porta con sé. Un esempio di ciò è il celebre Discourse
and Interaction Paradigm (DI) proposto da Wadensjö (in Pöchhacker 2007:17)16,
che per lo studio dell’interpretazione propone di utilizzare concetti e metodi di
settori quali sociolinguistica, psicologia sociale e analisi conversazionale.
15
Pöchhacker F. e Shlesinger M. eds. (2002), “Introduction”, in F. Pöchhacker e M. Shlesinger
eds. (2002), The Interpreting Studies Reader, London and NewYork: Routledge Language
Readers: 1-13
16
Pöchhacker F. (2007), “Critical linking up”, in C. Wadensjö, B. Englund Dimitrova and A.
Nilsson eds. (2007), The Critical Link 4: Professionalisation of interpreting in the community,
Amsterdam and Philadelphia, John Benjamins Publishing Company: 11-23
17
Oramai pare anche definitivamente abbandonata l’idea che gli IS siano una branca
dei TS, anche se ovviamente non si può negare il legame di parentela tra
interpretazione e traduzione. Una giustificazione di ciò è la semplice
considerazione che studiano argomenti diversi, e – come ricordano Pöchhacker e
Shlesinger (2002) – a parte pochissime eccezioni, nessuno dei principali temi dei
TS (la nozione di equivalenza, le strategie di traduzione) sono stati inclusi negli
studi di ricerca dell’interpretazione. Come sottolinea anche Roy (ibidem:347)17,
considerando la progressiva differenziazione tra traduzione ed interpretazione, sia
gli studiosi che i professionisti si sono resi conto che la base teorica per lo studio
di questa disciplina non può più fare affidamento sulle teorie della traduzione ma
deve costruire la sua propria teoria, anche prendendo in prestito o adattando
nozioni dalla sociolinguistica, dai cross-culture studies e altre discipline similari,
in linea con il pensiero di Wodak (in Wadensjö, 1998:81)18 che promuove il
“multi-method approach” per le scienze sociali, sostenendo che metodi qualitativi
e quantitativi di ricerca non si escludono, ma al contrario, si completano a
vicenda.
Per poter diventare oggetto di studio e ottenere riconoscimento a livello
accademico, un’attività deve seguire un percorso che prevede alcune tappe
principali, in primis la pubblicazione di manuali e guide e quella di studi e
ricerche sul settore. Le prime importanti pubblicazioni si sono avute negli anni
Ottanta, ma all’epoca i contatti tra i vari studiosi e le differenti scuole di pensiero
erano piuttosto limitati. Una vera svolta si è avuta nei primi anni Novanta; una
serie di conferenze (Trieste 1986, Praga 1992, Vienna 1992) ha dato inizio a
quello che Gile ha definito il “Rinascimento” della ricerca sull’interpretazione (in
Pöchhacker, Shlesinger 2002). Ma la vera pietra miliare di questo percorso è
rappresentata da “The first international conference on interpreting in legal,
health, and social service settings”, svoltasi in Canada nel 1995, che ha permesso
a colleghi di tutto il mondo di incontrarsi per un momento unico di discussione e
confronto che ha funzionato da catalizzatore per lo sviluppo di tutto il movimento.
17
Roy C. B. (2002), “The problem with definitions, descriptions, and the role metaphors of
interpreters”, ”, in F. Pöchhacker e M. Shlesinger eds. (2002), The Interpreting Studies Reader,
London and NewYork: Routledge Language Readers: 345-353
18
Wadensjö, C. (1998a), Interpreting as Interaction, London/New York: Longman
18
Gli scritti e gli interventi presentati in questo meeting sono stati poi raccolti in un
volume, “The Critical Link”, che rappresenta la Bibbia per tutti gli studiosi ed
appassionati di questa materia. Il Critical Link, un’organizzazione internazionale
no-profit volta a favorire il progresso del CI nei settori medico, sociale e legale,
dal 1995 ad oggi ha svolto cinque riunioni globali, in seguito alle quali sono stati
poi edite altrettante raccolte di saggi.
Un altro passaggio nello sviluppo di un’identità coesa è la pubblicazione di
periodici, riviste e bollettini; la rivista ufficiale degli IS, chiamata Interpreting19,
fu fondata nel 1996 e pubblica due numeri l’anno. Inoltre, un altro indicatore dello
stato di salute di una materia sono anche le tesi di dottorato, che per gli IS fin
dagli anni Settanta hanno avuto grande importanza e che spesse volte sono
sfociate nella pubblicazione in forma di libri. Le dissertazioni di dottorato e i
volumi frutto della collaborazione tra più autori rappresentano gli elementi
basilari della crescente letteratura sugli IS. Si può dunque affermare con
cognizione di causa che il movimento degli IS è in continua attività e questo non
può che giovare al processo di professionalizzazione e riconoscimento ufficiale
della professione.
1.3
Terminologia e definizioni: community interpreting, conference
interpreting, court interpreting
Nello sviluppo di qualsiasi attività o disciplina, è indispensabile una fase di
discussione e successiva stabilizzazione della terminologia: se si vuole analizzare
e studiare qualcosa, è necessario prima darne una definizione quanto più possibile
globale ed univoca. È quello che si sta cercando di fare nel campo
dell’interpretazione, che secondo Gentile (1997)20 è un settore che ha un disperato
bisogno di trovare equilibrio e stabilità in questa fase. Passando appunto ad
19
La rivista è disponibile al seguente link: http://benjamins.com/#catalog/journals/intp/main
Gentile A. (1997), “Community interpreting or not? Practices, standards and accreditation”, in
R. Roberts, S. Carr, A. Dufour e D. Steyn eds. (1997), The Critical Link: Interpreters in the
Community. Amsterdam and Philadelphia, John Benjamins Publishing Company: 109-118
20
19
esaminare la terminologia, bisogna innanzi tutto notare la confusione e la disparità
di opinioni nel definire cosa sia il community interpreting.
L’interpretazione in generale ha iniziato il suo cammino di materia accademica
nel Novecento, seguendo un costante trend di progressiva professionalizzazione e
regolamentazione. In linea di massima possiamo affermare che la sua occupazione
è trasferire messaggi orali per interlocutori che non parlano una stessa lingua;
insieme al processo di traduzione del messaggio entrano poi in gioco tutti i fattori
che determinano la nascita di sotto-categorie, come (Gentile 1997):
-
L’ambiente in cui l’atto linguistico viene eseguito (tribunale, ospedale,
conferenza, meeting, ecc.)
-
La tecnica utilizzata (simultanea, consecutiva, ecc.)
-
La direzione della traduzione21
-
Le dinamiche sociali implicate
Vedremo più avanti come queste variabili, considerate singolarmente o anche in
combinazione, hanno portato a una pluralità di definizioni e categorizzazioni delle
forme di interpretazione.
Come ricorda anche Harris (1997:1)22, gli anni Quaranta, Cinquanta e Sessanta
hanno visto il boom dell’interpretazione di conferenza, il primo settore ad ottenere
uno status universalmente riconosciuto. Allo stesso modo, gli anni Settanta e
Ottanta rappresentarono le decadi cruciali rispettivamente per l’interpretazione
giuridica e della lingua dei segni. Alla fine della riflessione – pubblicata nel 1997
ma scritta ben due anni prima in occasione della prima conferenza del Critical
Link – l’autore si domandava se gli anni Novanta sarebbero stati la decade
dell’interpretazione per i servizi sociali; a posteriori possiamo affermare che il suo
pronostico è stato rispettato. Grande slancio a proposito è stato dato dalla prima
conferenza internazionale sugli interpreti di comunità (della quale abbiamo già
parlato più approfonditamente), che ha rappresentato il punto di svolta nello
sviluppo del community interpreting. Da lì in poi il termine community
21
La direzione di traduzione si riferisce al fatto che un traduttore/interprete lavori da una lingua
straniera verso la propria madrelingua o viceversa. È possibile però che né la lingua di partenza né
quella di arrivo siano la madrelingua del traduttore/interprete. (Baker 1998:82)
22
Harris B. (1997), “Foreword: A landmark in the evolution of interpreting”, in R. Roberts, S.
Carr, A. Dufour e D. Steyn eds. (1997), The Critical Link: Interpreters in the Community.
Amsterdam and Philadelphia, John Benjamins Publishing Company: 1-3
20
interpreting ha raggiunto una certa diffusione in tutto il mondo, anche se il
dibattito terminologico non si è certo fermato.
Community interpreting è un’etichetta che non trova accordo unanime. Uno dei
primi contributi a riguardo fu quello di Harris nel 1983 (in Garzone, Rudvin
2003)23, che propose di considerare la grande famiglia del dialogue interpreting
come composta dalle due sottocategorie del “community-oriented interpreting” e
del “business-oriented interpreting”. Come fa notare Garzone (ibidem:15), questa
classificazione è utile ma troppo semplicistica, in quanto raggruppa insieme sotto
la prima etichetta tutte le forme di interpretazione non legate al settore business,
senza tener conto del grandissimo range di settori e situazioni in cui il community
interpreting
risulta
necessario.
Un’altra categorizzazione è quella proposta da Jiang (2007: 2-3)24, che spinta
dalla mancanza di chiarezza concettuale ha stilato una breve lista delle definizioni
più utilizzate: per esempio “dialogue intepreting” si riferisce al tipo di
comunicazione dialogica ma senza specificare l’ambiente in cui essa si svolge,
come d’altronde il termine “liaison intepreting”, che implica come ci sia un
contatto tra persone o gruppi che non parlano la stessa lingua. Il termine “ad-hoc
interpreting”,
invece,
si
focalizza
sull’aspetto
di
spontaneità
dell’atto
comunicativo che viene tradotto da una persona non professionista reclutata sul
momento. Per fortuna ultimamente viene poco usato, ma certamente il ricorso a
figure non qualificate ha causato gravi danni alla professione dell’interprete,
pregiudicandone il riconoscimento e creandone a riguardo la cattiva fama di
attività non professionale. Pertanto è facile capire quanto la materia sia complessa
e difficile da etichettare con limiti precisi. Ma come fa notare Rudvin (in Garzone,
Rudvin 2003:128), il tentativo di fornire definizioni universali a riguardo è
prettamente inutile; in qualsiasi modo scegliamo di definire l’argomento, la cosa
più importante da sottolineare è che le forme di interpretazione sono più
facilmente identificabili non in base alle tecniche traduttive ma ai settori di
23
Garzone, G., Rudvin, M.(2003) Domain-specific English and language mediation in
professional and institutional settings, Milano, Arcipelago
24
Jiang L. (2007), From ‘Community Interpreting’ to ‘Discourse Interpreting’: establishing some
useful
parameters,
disponibile
a:
http://www.euroconferences.info/proceedings/2007_Proceedings/2007_Jiang_Lihua.pdf
(4/07/2012)
21
applicazione. I motivi della mancanza di chiarezza terminologica sarebbero tre
(ibidem:124):
- La nascita recente della disciplina
- La grande varietà di settori diversi che non aiuta a fare nette distinzioni
- La pessima abitudine di scegliere gli interpreti ad-hoc tra persone non
qualificate
Senza dubbio la mancanza di chiarezza nelle modalità non aiuta nello sviluppo di
una terminologia univoca.
Ad oggi, comunque, community interpreting risulta il termine più largamente
accettato (tranne che in Gran Bretagna, dove, diversamente dagli altri paesi
anglofoni si preferisce il termine “public service interpreting” (PSI)), e la
definizione che meglio raccoglie e sintetizza tutte le caratteristiche della materia è
senza dubbio quella di Pöchhacker: “CI refers to interpreting in institutional
settings of a given society in which public service providers and individual clients
do not speak the same language” (1999:126)25. Allo stesso modo, per dare una
definizione di community interpreter ricorriamo alle parole di Mikkelson (in Hale
2007:29, enfasi originale): “community interpreters provide services for residents
of a community, as opposed to diplomats, conference delegates, or professionals
travelling abroad to conduct business”. La definizione concentra l’attenzione sui
componenti di una comunità che sono concepiti come i destinatati dell’opera di
interpretazione; la comunità, secondo Pöchhacker (in Hale 2007:29), è da
intendersi come gruppo che comprende sia i componenti tradizionali sia le
minoranze razziali e linguistiche.
Grande diffusione – non va trascurato – riscuote anche la definizione “liaison
interpreting”;
mentre
community
interpreting
focalizza
l’attenzione
sull’ambientazione dell’attività (sarebbe a dire le istituzioni e i servizi pubblici di
vario genere), questo termine è il nome dell’atto di interpretazione compiuto da e
verso una stessa lingua dalla stessa persona. Nella descrizione che ne danno
25
Pöchhacker F. (1999), “Getting organized: the evolution of community interpreting”,
Interpreting 4(1), 125-140
22
Gentile, Ozolins e Vasilakakos (1996)26 le caratteristiche del liaison interpreting
sono confrontate e messe in opposizione soprattutto a quelle del conference
interpreting; in linea generale, però, possiamo usare questo termine come
sinonimo di community interpreting. Molto interessante si dimostra anche
l’opinione di Pöchhacker (2007:12), che propone una visione dell’interpreting
come un continuum concettuale che presenta due forti distinzioni: la prima tra
“inter-national” e “intra-social settings” e l’altra basata sul tipo di interazione
(multilaterale o face-to-face). Nella figura viene ben esplicato come i vari tipi di
community interpreting siano differenziati ma allo stesso tempo presentino
caratteristiche comuni che a tratti li fanno coincidere:
Figura 3: Conceptual spectrum of interpreting
Una breve parentesi va aperta sulla situazione in Italia: anche nella terminologia i
concetti di “lingua” e “cultura” tendono a mescolarsi ed i confini tra le due sfere
di attività non sono ben chiari, pertanto sono nati termini ibridi come mediatore
linguistico o mediatore linguistico-culturale, che sono usati per riferirsi tanto agli
interpreti di comunità quanto ad una figura dalle competenze più ampie, che
sappia unire le conoscenze linguistiche ad altre funzioni più prettamente sociali.
Sulle sfaccettature collaterali che sono spesso implicate nella figura dell’interprete
per i servizi sociali e sulla situazione terminologica in Italia ci soffermeremo più
avanti in maniera più dettagliata. Ovviamente questo sdoppiamento di significato
non giova alla figura dell’interprete, attorno alla quale si genera sempre più
ambiguità che tende a farla confondere con professionisti di altri settori.
26
Gentile A., Ozolins U. and Vasilakakos M. (1996), Liason Interpreting: A Handbook,
Melbourne, Melbourne University Press
23
A questo punto una breve riflessione sul concetto di conference interpreting e di
court interpreting diventa indispensabile per fare la maggior chiarezza possibile
nel discorso generale sull’Interpreting. In questo elaborato seguiremo il filone
teorico che li vede ormai come branche autonome e con caratteristiche particolari
rispetto agli altri tipi di community interpreting, spiegando i motivi che
giustificano questa distinzione. Seguendo il percorso cronologico di Gentile,
Ozolins e Vasilakakos (1996:7) possiamo identificare la pace di Versailles come il
punto d’inizio del concetto moderno di interpretazione; si parla quindi di ambienti
di politica, business, economia, nei quali il conference interpreting si rivelava
sempre più indispensabile. Fin dall’inizio, dunque, questa attività guadagnò
grande rispetto e prestigio, visto che gli interpreti provenivano da elevate classi
sociali ed i loro clienti – politici, diplomatici, imprenditori – erano altrettanto
socialmente altolocati. Al contrario si sa bene che il community interpreting è
strettamente legato ai concetti di immigrazione e globalizzazione, e spesso
succede che sia gli interpreti sia i clienti che si trovano ad aver bisogno di tale
servizio appartengano ad una minoranza. A parte la lampante differenza di potere
e prestigio, possiamo individuare altre caratteristiche che differenziano le due
categorie. Secondo Gentile, Ozolins e Vasilakakos (1996:18) i fattori di
distinzione sono:
- La vicinanza fisica tra interprete e clienti
- Il gap informativo tra i clienti
- La differenza di status tra i clienti
- La necessità di interpretare da e verso entrambe le lingue
- Il lavoro individuale/di gruppo
Infatti nell’interpretazione di conferenza l’interprete non ha un contatto
ravvicinato col cliente, che può essere un’ampia platea di ascoltatori o un gruppo
più ristretto. Spesse volte gli viene preventivamente fornito del materiale
informativo su cui prepararsi, pertanto sia lui che gli altri partecipanti sanno già
l’argomento che si andrà a trattare. La differenza maggiore è che quasi sempre
traduce solo in una direzione e solo in una lingua (quando c’è necessità di più
lingue, viene chiamato un interprete per ognuna, pertanto ci si trova a collaborare
con dei colleghi e si ha la possibilità di confrontarsi con loro su eventuali
24
problemi o dubbi). Hale riconosce otto principali differenze tra conference e
community interpreter:
- Registro (solitamente formale / variabile a seconda del contesto e dei
partecipanti)
- Direzione dell’interpretazione (prevalentemente unidirezionale / bidirezionale)
- Prossemica (isolato e lontano dai parlanti / vicino ai parlanti)
- Modalità (generalmente simultanea / varie)
- Conseguenze di una resa non accurata (medie / gravi)
- Livello di accuratezza richiesto (medio / alto)
- Partecipanti (stesso status sociale e professionale / diverso status)
- Numero di interpreti (due che lavorano in gruppo / uno)
La classificazione di Hale (2007:32) si sofferma anche su elementi prettamente
linguistici come registro e modalità, ma l’attenzione viene puntata principalmente
su un elemento nuovo che non era mai stato considerato in altre precedenti analisi,
cioè le conseguenze che ogni intervento di interpretazione inevitabilmente porta
con sé. L’autrice sottolinea infatti che nel conference interpreting il risultato più
importante è il contenuto e l’accuratezza ha meno rilevanza, mentre – come
vedremo anche più approfonditamente in seguito – nel community interpreting
l’estrema accuratezza ha un ruolo fondamentale in tutti i dettagli poiché un errore
o un’incomprensione potrebbero causare un grave danno; l’esempio classico è
l’eventuale errore durante una diagnosi o un colloquio col medico. Dunque per
questo motivo l’interprete di conferenza ha meno pressioni su di sé rispetto a
quello di comunità, il quale sa che i suoi clienti non possono fare a meno del suo
lavoro, che deve dare a forma e contenuto la medesima importanza.
Un altro settore che ha acquisito oramai grande importanza e sul quale è
necessario soffermarsi è il court interpreting (interpretazione giuridica/di
tribunale), una forma di interpretazione sulla cui classificazione non c’è molto
accordo, infatti spesso viene considerata inclusa nella definizione di public service
interpreting ma esclusa dal concetto di community interpreting. Benché anch’esso
si svolga in ambiti istituzionali pubblici (tribunali, questure, uffici di polizia), da
molti viene ritenuta sempre più un’attività autonoma, distinta dal community
interpreting che viene considerato più vicino ai settori della salute e dei servizi
25
sociali (Pöchhacker 1999:127). Benmaman nota infatti come in alcune paesi
l’interpretazione giuridica sia considerata una specializzazione che richiede
particolari preparazione e riconoscimento (1997:180)27. E senza dubbio questo
distanziamento è giustificato da diverse caratteristiche nello svolgimento dell’atto
interpretativo,
oltre
che
dall’aver
cominciato
prima
il
processo
di
professionalizzazione. A questo proposito, la prima grande differenza è
rappresentata dal fatto che in seguito allo sviluppo della professione, in genere i
vari paesi hanno provveduto prontamente ad adottare degli standard per l’ambito
giudiziario, visto che sono necessarie grandi competenze linguistiche ma anche
psicologiche e giuridiche per svolgere questa professione. Basti pensare in quali
delicati ambiti questa figura si trova ad operare e quali possono essere le
conseguenze di una interpretazione errata o non sufficientemente accurata. Non si
parla solo dei diritti, della reputazione e della libertà degli individui che
necessitano l’assistenza di un interprete, ma anche della più generale
preoccupazione che giustizia sia fatta.
Pertanto allo stato attuale, nonostante i progressi degli ultimi anni del community
interpreting, l’interpretazione giudiziaria gode generalmente di molto più prestigio
e di un più ampio riconoscimento a livello professionale (in molti paesi, ma per
esempio non in Italia), anche se ovviamente si trova ad affrontare anch’essa una
serie di problemi, come per esempio la crescente necessità di interpreti delle LLDs
(lingue di minor diffusione). Per quanto riguarda invece aspetti linguistici e
tecnici, il community interpreting è sicuramente più vicino al court interpreting
che al conference, tenendo in considerazione aspetti come la direzione di
interpretazione, il registro, la modalità che possono variare da caso a caso. La
grande differenza è pertanto a livello professionale, dato che gli interpreti legali in
molti paesi del mondo sono impiegati del sistema giudiziario e sono pertanto
soggetti ad un protocollo particolare per quanto riguarda accuratezza, imparzialità
e riservatezza (cf. Benmaman 1997); in parecchi casi l’intervento dell’interprete in
tribunale è considerato una prova a tutti gli effetti ed errori ed incomprensioni
gravi possono portare perfino all’annullamento del processo per vizio di
procedura.
27
Benmaman V. (1997), “Legal interpreting by any other name is still legal interpreting”, in R.
Roberts, S. Carr, A. Dufour e D. Steyn eds. (1997), The Critical Link: Interpreters in the
Community. Amsterdam and Philadelphia, John Benjamins Publishing Company: 179-190
26
Per motivi di spazio, e per non sviare troppo dal tema centrale della dissertazione,
sono stati trascurati altre classificazioni dei tipi di interpretazione. Alcuni di essi
non sono stati trattati ma meritano comunque, per completezza di informazione, di
essere citati: per esempio, per quanto riguarda la categoria dei mezzi di
informazione, esistono il telephone interpreting, TV interpreting e media
interpreting
(cf.
Mikkelson
200328;
Jiang
2007).
Anche il sign language interpreting può essere incluso nella categoria del
community interpreting, basandoci sulla definizione di Pöchhacker (2004:11)29:
“interpreting is a form of translation in which a first and final rendition in another
language is produced on the basis of a one-time presentation of an utterance in a
source language”; se considerassimo la classica opposizione traduzione scritta /
traduzione orale non sarebbe possibile classificarlo tra le varie tipologie di
interpretazione. Essendo per l’appunto basato su un differente sistema semiotico (i
segni al posto della voce) si differenzia dal community interpreting in diversi
aspetti. Il sign language interpreting è certamente un servizio indispensabile per le
istituzioni pubbliche, ma richiede figure altamente preparate che abbiano seguito
un percorso formativo ben definito. Non a caso l’organizzazione nazionale degli
interpreti per i non udenti, RID30, nacque negli Stati Uniti già nel lontano 1965.
Nei primi anni Settanta il RID aveva già stabilito un sistema di valutazione e
certificazione
dei
suoi
membri
(Pöchhacker
1999:129).
Innegabilmente
quest’organizzazione è stata la pioniera nel processo di professionalizzazione
rispetto agli altri tipi di interpreting ed è servita da monito ed esempio per tutte le
altre associazioni di interpreti per non udenti sorte in seguito. In Europa troviamo
l’Unione Europea Sordi (EUD)31, un organizzazione non governativa che ha 30
paesi membri – tra cui l’Italia con Ente Nazionale per la protezione e l'assistenza
dei Sordi (ENS); fin dalla sua fondazione nel 1985 rappresenta il fulcro di tutte le
associazioni di non udenti in Europa e si occupa di innumerevoli iniziative di
scopo scientifico, umanitario, religioso, artistico ed educativo. Per quanto riguarda
28
Mikkelson H. (2003), “Telephone Interpreting: Boon or Bane?”, in L.P. González, ed. (2003),
Speaking in Tongues: Language across Contexts and Users, Valencia: Universitat de València,
disponibile a: http://www.acebo.com/papers/telefone.htm
29
Pöchhacker, F (2004), Introducing Interpreting Studies, London: Routledge
30
RID: Register of Interpreters for the Deaf
31
Fonte: http://www.eud.eu
27
l’ente italiano, è piuttosto stupefacente notare come a fronte di 60mila persone che
usano la lingua dei segni, ci siano solo 200 interpreti riconosciuti, un numero
veramente esiguo32.
Per evitare qualsiasi dubbio o incomprensione, va specificato che in questo
elaborato verranno utilizzati senza particolari differenze sia i termini community
interpreter / intepreting, sia le varie versioni in lingua italiana come interprete /
interpretazione per i servizi sociali, di comunità, ecc. Queste definizioni vengono
preferite alle altre esaminate in precedenza perché, benché a volte le distinzioni
siano a livello di sfumature del significato, utilizzando community interpreting è
già sottointesa l’importanza dell’ambientazione – visto che il presente studio si
concentra sulla figura lavorativa che opera in determinati settori pubblici – e ci si
distanzia così da altri ambiti (conference e court interpreting) che presentano
differenze più marcate.
Dopo aver illustrato in maniera generale la materia dell’interpretazione attraverso
una panoramica necessaria per spiegarne l’origine e il successivo sviluppo dagli
albori ai giorni nostri, nei prossimi capitoli ci addentreremo nelle questioni
cruciali che rappresentano il fulcro di questa dissertazione: verranno analizzate
tematiche come la formazione dell’interprete, il rapporto con il cliente, le
implicazioni del suo ruolo, il tutto con la finalità di spiegare come funziona il
processo di professionalizzazione di questa attività e a che punto è arrivato in
diversi paesi del mondo.
32
Fonte: http://www.eud.eu/Italy-i-187.html
28
CAPITOLO 2
IL RUOLO DELL’INTERPRETE
Dopo un primo capitolo molto teorico e dedicato ad un’analisi approfondita di
concetti generali come quello di interpretazione e traduzione, le differenze tra esse
e lo sviluppo dei rispettivi campi di studio, e di tutte le sfaccettature del grande
mondo che racchiudiamo nell’etichetta “interpreting”, questa seconda sezione
dell’elaborato si concentra ora sull’interprete in quanto professionista ed in quanto
persona. Si è già accennato brevemente in precedenza a quanto delicata sia questa
professione e quanto sia riduttivo definirla meccanicistica, sono tanti i fattori che
ne determinano la complessità.
Di seguito andremo a spiegare in cosa consiste il ruolo dell’interprete, quali sono
le cose che ci si aspetta che faccia o non faccia, come si comporta nei confronti
dei clienti. Proprio dal ragionamento sul rapporto coi clienti si sviluppa il dibattito
su questioni come advocacy, neutralità, riservatezza, senza dimenticare le regole
morali alle quali il professionista deve sottostare
per portare a termine
correttamente il suo dovere. Infine sarà interessante cambiare prospettiva e vedere
cosa pensano gli interpreti stessi del loro ruolo e della loro professione.
Il ruolo del community interpreter si differenzia notevolmente da quello del
conference interpreter. Quest’ultimo viene definito da Dressler (in Garzone,
Rudvin 2003:9) “not a participant in his own right […] but only a co-speaker who
has to imitate and transfer the immediate interpretant of the source text into the
target text”. Secondo Garzone e Rudvin (ibidem:8), anche se nell’etichetta
“conference” sono incluse una grande varietà di situazioni (congressi scientifici,
dibattiti politici, eventi, cerimonie, ecc.), i tipi di testo da affrontare condividono
tutti un certo numero di costanti. Il testo da tradurre non è spontaneo, anzi
potrebbe essere definito semi-preparato, spesso pronunciato da un’unica persona –
il che garantisce omogeneità di linguaggio e registro – che si preoccupa di non
parlare troppo a lungo e troppo velocemente e di lasciare il tempo di intervenire
all’interprete, essendo solitamente abituata alla sua presenza. Non sorgono
29
particolari problemi relazionali in quanto non ci sono in gioco questioni
emozionali e i partecipanti non hanno evidenti differenze di status sociale, al
contrario sia gli interlocutori che la platea di ascoltatori (nel caso di conferenze o
seminari) sono preparati e la conversazione segue regole fisse e piuttosto formali.
Pertanto il lavoro dell’interprete non richiede particolari sforzi che non siano di
tipo linguistico-semantico e neurolinguistico (visto che vengono a mancare anche
gli elementi semiotici nella conversazione). L’intento ovviamente non è quello di
sminuire il ruolo dell’interprete di conferenza, ma di sottolinea il differente
divello di disomogeneità e difficoltà presente invece nell’interpretazione di
comunità.
Nei prossimi paragrafi, infatti, verranno analizzate e commentate le peculiarità del
ruolo dell’interprete di comunità, dovute sia ai contesti sia agli interlocutori con
cui si trova a lavorare.
2.1
Community interpreter: dove, come, quando
È sempre importante stabilire con precisione le differenze tra l’interpretazione di
conferenza e di comunità perché esse hanno una grande influenza sulle capacità e
sulle strategie necessarie per svolgere questa mansione. Visto che nel primo
capitolo è stato fatto in maniera piuttosto sbrigativa, in questo sotto-capitolo
andiamo ad analizzare e classificare i modi, i luoghi e i tempi della performance
del traduttore.
Se si prendono in esame in primis i luoghi, già è possibile immaginare la varietà
di ambientazioni in cui può essere necessario questo servizio linguistico,
considerando anche i numerosi tipi di interpretazione che comprendiamo nella
categoria community interpreting. Gli ambiti principali, come già ricordato, sono
sanità, servizi sociali e per immigrati; le istituzioni che più frequentemente
ricorrono ai community interpreters sono (cf. per esempio Garzone, Rudvin
2003):
-
Ospedali
30
-
Consultori familiari
-
Servizi educativi per l’infanzia
-
Scuole
-
Centri per l’impiego
-
Centri di prima accoglienza
-
Comunità alloggio
-
Uffici di polizia e questura
-
Uffici immigrazione
-
Alcuni servizi legali (fasi pre-processuali)
È molto importante definire le possibili aree di applicazione dell’interpretazione
di comunità, perché sono quelle che, più delle tecniche e delle modalità,
differenziano questa modalità dalle altre forme di interpretazione. In generale, in
tutti questi settori, quando il service provider (cioè il rappresentante
dell’istituzione che fornisce il servizio, che può essere per esempio la sanità,
l’istruzione ecc.) e il cliente (la persona che ha bisogno del servizio)33 non parlano
la stessa lingua, l’intervento dell’interprete si rivela fondamentale. Quindi questa
pratica comprende potenzialmente tantissime situazioni, che spaziano da una
discussione su un intervento chirurgico all’iscrizione di un figlio a scuola.
Inevitabilmente, come abbiamo già accennato, la direzione di traduzione è da e
verso entrambe le lingue, poiché l’interprete è un vero e proprio tramite tra i due
soggetti comunicanti; non abbiamo un soggetto che parla ed uno che ascolta,
come spesso succede per molti casi di interpretazione di conferenza, ma due
soggetti che non condividono la stessa lingua e hanno bisogno di comunicare tra
loro.
La modalità è sempre quella dell’interpretazione consecutiva, ma per il
community interpreter può risultare particolarmente difficile destreggiarsi tra i
turni di conversazione. Bisogna infatti considerare che spesse volte i parlanti sono
soggetti non abituati a questo tipo di situazione (al contrario degli uomini d’affari
o dei diplomatici, per esempio) ed a relazionarsi anche con una terza figura
durante le loro conversazioni. Perciò può succedere che i turni siano troppo
33
Per una definizione di service provider e cliente si veda Garzone, Rudvin 2003:126
31
lunghi, che un interlocutore parli sopra all’altro o che parli troppo velocemente,
che il registro non sia uniforme; insomma, tutti i possibili problemi di
comunicazione risultano amplificati e spetta all’interprete risolvere queste
potenziali incomprensioni tra le parti. Inoltre, è ovvio supporre che i discorsi tra
service provider e clienti siano tutti spontanei (“fresh talk”) (in Garzone, Rudvin
2003:9) e questa spontaneità rappresenta una variabile incontrollabile per
l’interprete, specialmente se tra i tre interlocutori ci sono grandi differenze
culturali.
Se si trova in difficoltà, l’interprete è solo ad affrontarla, mentre spesso gli
interpreti di conferenza lavorano in gruppi o squadre (per esempio in situazioni di
plurilinguismo, perché ogni persona si occupa di una sola lingua); a questo
proposito Gentile (1997:113) parla di “isolamento professionale”. Pertanto
l’interprete deve avere una memoria molto allenata ed una mente molto reattiva
per saper reagire nel miglior modo possibile a tutte le situazioni che potrebbe
trovarsi a dover affrontare.
Secondo Rudvin (in Garzone, Rudvin 2003: 142-143) l’interprete per i pubblici
servizi dovrebbe avere delle capacità peculiari:
a) Deve essere ben conscio delle questioni interculturali che possono portare a
dei problemi nella comunicazione e deve essere pratico delle norme culturali e
comunicative sia del cliente che del server provider
b) Deve evitare legami con il cliente o un’eccessiva identificazione con
l’istituzione
c) Deve avere nervi saldi e consapevolezza del suo ruolo professionale, delle
responsabilità e dei limiti
d) Deve essere in grado di comprendere anche il linguaggio non-verbale
(esitazione, imbarazzo, silenzio, tabù, ecc.)
e) Deve avere familiarità con la terminologia del sistema legale, sanitario ed
amministrativo e conoscere a fondo le differenze tra questi sistemi nella
cultura di partenza e di riferimento
Le suddette capacità sono le caratteristiche che differenziano l’interprete di
comunità e lo rendono speciale; considerando tutte le implicazioni dei contesti e
delle situazioni socioculturali in cui si trova ad operare, è naturale pretendere che
32
questo professionista abbia delle abilità che vanno ben al di là della conoscenza
linguistica. Se essa fosse una qualità sufficiente, una qualsiasi persona che abbia
studiato anche semplicemente ad un livello scolastico una lingua straniera durante
il liceo, per esempio, potrebbe potenzialmente svolgere il lavoro di interprete.
L’interprete si trova quotidianamente ad affrontare la sfida di soddisfare e
rispettare i criteri qui sopra elencati; non è affatto un compito semplice stabilire
dove finisce la persona e dove inizia il professionista, stabilire quindi il limite tra
un comportamento professionale e il naturale istinto di intervenire per aiutare un
cliente in difficoltà. Bisogna anche tener conto di quanto stress emotivo possa
causare il rispetto di questi criteri e il continuo bilanciamento tra l’essere un
professionista e l’essere una persona con dei sentimenti: per questo, come
evidenzia Rudvin (ibidem:144), l’interprete deve continuamente dimostrare di
essere un professionista ma anche una persona molto matura per avere a che fare
con tali implicazioni morali.
In compenso non bisogna dimenticare che il comportamento e le attitudini del
service provider possono aiutare molto l’interprete nel svolgere il suo compito.
Partendo dal presupposto che tra il cliente e il service provider è sicuramente
quest’ultimo quello che può avere più esperienza per quanto riguarda le occasioni
in cui l’intervento di un interprete si rende necessario (trattandosi in molti casi di
persone esperte e qualificate nel loro lavoro come medici, assistenti sociali, agenti
di polizia, ecc.), il suo comportamento nei confronti sia del cliente che
dell’interprete può essere molto influente. Per questo motivo molti esperti
concordano nell’affermare che è caldamente consigliata una fase di preparazione e
formazione anche per i service providers stessi, per abituarli a lavorare a contatto
con gli interpreti nelle situazioni dove la presenza di questi ultimi si rende
necessaria. Purtroppo questa è una prassi non radicata dovunque al momento, ma
è sicuramente una strategia per favorire il lavoro dell’interprete e per diminuire le
possibilità di conflitti o incomprensioni durante lo scambio linguistico con il
cliente.
Oggigiorno però molte associazioni, specialmente statunitensi, si stanno
muovendo lungo questa via; è il caso della California Health and Human Services
33
Agency34 che ha stilato un decalogo35 di consigli destinati ai service providers del
settore sanitario:
1) Cercare un professionista: mai chiedere al paziente di portare un “interprete”
proprio (bambini, familiari, personale non qualificato).
2) Fare un breve meeting con l’interprete, se necessario: è importante per
stabilire un protocollo comune di interpretazione, specialmente la prima volta
che si lavora insieme. È il momento giusto per chiedere all’interprete
delucidazioni sulla cultura del cliente e su eventuali argomenti tabù.
3) Posizionarsi a forma di triangolo, cosicché tutti possano guardarsi negli occhi:
4) Stabilire un contatto visivo col paziente: meglio parlare direttamente al
paziente usando la prima persona.
5) Leggere il linguaggio del corpo: bisogna cercare di riconoscere segni di
comprensione o confusione da parte del paziente, essendo sempre pronti a
ripetere con altre parole il messaggio se non viene capito.
6) Parlare normalmente, non troppo veloce né a voce troppo alta: mai
dimenticare che la comunicazione avviene attraverso l’interprete. Se si parla
troppo a lungo, l’interprete potrebbe non ricordare ed includere tutto.
7) Essere sensibile nei confronti della cultura del paziente: privacy, spazio
personale, gestualità, linguaggio del corpo e tabù possono differire da una
cultura all’altra.
8) Evitare il linguaggio gergale e tecnico: bisogna essere pronti a spiegare i
concetti, ripeterli o parafrasarli. Alcune idee per l’interprete potrebbero essere
facili da comprendere ma difficili da tradurre.
9) Non chiedere o dire niente che non si vuole che il paziente senta: l’interprete è
tenuto a interpretare qualsiasi cosa venga detta durante la sessione.
34
35
http://www.chhs.ca.gov
Fonte: http://www.youtube.com/watch?v=cX_krmqsWJ0&feature=related (mia traduzione)
34
10) Prevedere abbastanza tempo per la sessione: una conversazione interpretata
richiede più tempo e quello che può essere detto in poche parole in una lingua,
potrebbe richiedere una spiegazione dettagliata in un’altra lingua.
Su internet si possono trovare davvero molti esempi di liste di suggerimenti come
questa, soprattutto per i service providers nel settore sanitario ma non solo (per
esempio in campo legale36).
2.2
Il rapporto tra linguaggio e cultura
Come già accennato in precedenza, non è possibile parlare di interpretazione, e
quindi di codificazione e trasmissione di messaggi e concetti, come un mero atto
meccanico e senza tenere in conto il legame inscindibile tra linguaggio e cultura.
Le parole che meglio esemplificano questa nozione fondamentale sono quelle di
Rudvin:
Language is no mechanistic affair in which words, sentences and meanings are
stably reproduced in fixed entries, but a dynamic, unstable, geographically and
socially variable cultural process in which meaning is produced and emerges as a
result of on-going negotiations between the interlocutors and between the
interlocutors and their social temporal, ideological and cultural context (2006a:57,
corsivo mio)37.
La cultura, intesa come il bagaglio che ogni individuo porta con sé in tutte le
proprie esperienze, entra in gioco ad ogni nostra azione e, a maggior ragione,
quando ci troviamo a dover interagire con altre persone. Pertanto l’interprete
durante le sessioni di interpretazione si trova a doversi rapportare sia con la
36
Per esempio il decalogo per l’ordine degli avvocati del Wisconsin:
http://www.wisbar.org/AM/Template.cfm?Section=InsideTrack&Template=/CustomSource/Inside
Track/contentDisplay.cfm&Contentid=87206
37
Rudvin M. (2006a), “Issues of culture and language in the training of language mediators for
public services in Bologna: matching market needs and training”, in D. Londei, D.R. Miller e P.
Puccini eds. (2006), Insegnare le lingue/culture oggi: il contributo dell’interdisciplinarità,
Quaderni del CeSLiC. Occasional Papers, Bologna, Centro di Studi Linguistico-Culturali
(CeSLiC), disponibile a: http://amsacta.unibo.it/2055/1/AttiCeSLiC.pdf (ultimo accesso:
2/08/2012)
35
propria cultura sia con quella degli altri interlocutori, nel caso la loro sia diversa
(come spesse volte accade nei casi di community interpreting).
Ora, esistono moltissime definizioni di cultura; già nel 1952 Kroeber e Kluckhon
ne avevano raccolte più di cinquecento (in Garzone, Rudvin 2003:54). Per
esempio secondo quanto affermato da Hall (ibidem:55) possiamo suddividere il
concetto di cultura in tre strati: explicit culture (che include la realtà tangibile di
istituzioni, usanze, comportamenti, ecc.); norms and values (i valori condivisi,
cioè che generalmente viene giudicato giusto o sbagliato, buono o cattivo);
implicit culture (lo strato più profondo, che comprende le supposizioni basilari, le
regole e i tipi di approccio per affrontare i problemi). Quest’ultimo livello è
sicuramente il più complesso, perché questi concetti considerati impliciti sono i
più difficili da riconoscere, e per un interprete è fondamentale saperli individuare
ed affrontare perché la comunicazione riesca bene. Come vedremo anche
successivamente, è molto importante fornire anche una preparazione di tipo
culturale durante la
formazione degli
interpreti, affinché
acquisiscano
consapevolezza sia della cultura degli altri sia della propria, che a volte viene data
per scontata. Trompenaars e Hampden-Turner chiamano questa consapevolezza
“transcultural awareness” (ibidem:61). Tutto ciò è finalizzato all’evitare che
insorgano dei “cultural bumps”, problemi interculturali così definiti da Archer
(ibidem:67): “A cultural bump occurs when an individual from one culture finds
himself in a different, strange or uncomfortable situation when interacting with
persons of different culture, […] when he has expectations of one behaviour and
gets something completely different”.
L’interpretazione, come anche la traduzione del resto, non può essere ridotta
all’applicazione di norme grammaticali volte solo a convertire il messaggio A
nella lingua A in un messaggio B nella lingua B che abbia un significato simile o
equivalente; se così fosse, nella stragrande maggioranza dei casi basterebbe avere
una conoscenza piuttosto basilare di due lingue per potersi definire interpreti o
traduttori. In realtà c’è un abisso che separa i semplici bilingue dagli interpreti
professionisti; la conoscenza delle lingue è solo uno dei tanti requisiti richiesti
affinché un interprete possa essere chiamato professionista. Un’efficace analisi di
36
Mikkelson (1999a: 5-6)38 ha individuato una serie di caratteristiche essenziali per
un bravo interprete:
-
Language skills
-
Analytical skills
-
Listening and recall
-
Interpersonal skills
-
Ethical behaviour
-
Speaking skills
-
Cultural knowledge
-
Subject knowledge
Viene da sé che la competenza linguistica è il prerequisito basilare ed
imprescindibile senza il quale sarebbe inutile parlare di interpretazione. In tutte le
forme di interpretazione è fondamentale una profonda conoscenza della lingua e
delle tecniche traduttive. Però non si deve mai trascurare quanto sia importante
analizzare un testo prima di interpretarlo, anche se ovviamente il testo orale è più
evanescente rispetto a quello scritto quindi l’analisi dev’essere immediata e deve
catturare al primo colpo le caratteristiche principali di esso. Per analizzare
bisogna saper ascoltare: il tipo particolare di abilità richiesta all’interprete è
chiamato da molti “active listening”. Anche la memoria è un fattore
importantissimo, specialmente nel community interpreting dove non ci sono
discorsi pre-preparati e la conversazione segue un flusso spontaneo, che non si sa
dove possa portare. Seleskovitch (in Mikkelson 1999a:5) afferma infatti che
memoria e comprensione sono inseparabili, l’una è una funzione dell’altra. Per
quanto riguarda le doti interpersonali, sono anch’esse rilevanti, in quanto
l’interprete non può prescindere dal sapersi rapportare con le persone e i clienti,
poiché in caso contrario rischierebbe di mettere in pericolo la buona riuscita
dell’atto interpretativo. Le questioni etiche, come vedremo anche più avanti,
hanno grandissima rilevanza nel comportamento e nelle azioni dell’interprete e
anch’esse influiscono molto nell’andamento della sessione interpretativa. Con
speaking skills, invece, ci si riferisce alla capacità di parlare con chiarezza ed
autorità davanti al pubblico, che sia in grandi eventi come ad un congresso o una
38
Mikkelson H. (1999a), Interpreting is interpreting – or is it?, disponibile a:
http://www.acebo.com/papers/INTERP1.HTM (ultimo accesso 25/07/2012)
37
conferenza stampa o anche in contesti più ristretti, come quelli del community
interpreting; questa abilità riguarda la scelta del tono, del lessico, della
formulazione delle frasi, ecc. Cultural knowledge si riconduce al discorso appena
affrontato sull’importanza del saper riconoscere e trattare le differenze culturali e
anche per Mikkelson è un requisito assolutamente irrinunciabile per un interprete
qualificato.
Come ultima caratteristica – non certo in ordine di importanza visto che tutte
concorrono e interagiscono nel rendere un interprete competente e capace – si
parla di conoscenza del soggetto, che spesso viene trascurata per i community
interpreters ma che per loro è importante tanto quanto per i conference
interpreters, per i quali è una prassi collaudata poter ricevere del materiale
informativo o delle indicazioni prima dell’inizio del loro lavoro per potersi
preparare al meglio. Sarebbe importante anche per i community interpreters
ricevere, per quanto possibile, qualche informazione aggiuntiva riguardo
all’argomento della sessione in generale, per lo meno per potersi preparare un
poco
a
livello
lessicale
e
di
contenuto.
Mikkelson conclude sottolineando che tutti gli interpreti, senza considerare in che
ambiti lavorano e per chi, devono dimostrare di possedere le qualità sopra
elencate, anche se può accadere che chi commissiona loro il servizio non dà la
stessa importanza ad ognuna di esse.
Abbiamo quindi sottolineato come il linguaggio con la sua natura dinamica e la
cultura con la sua influenza siano due fattori che interagiscano e si compensano
nella pratica dell’interpretazione. Secondo le più recenti teorie il linguaggio è un
sistema dinamico in cui tanti fattori come la società, la cultura, la politica, i media
hanno un grande impatto e contribuiscono al suo continuo sviluppo. Come
afferma Rudvin (2006a:57), il linguaggio e la comunicazione non sono prodotti
secondari ed espressioni della cultura, ma sono gli elementi costitutivi di essa. Il
rapporto tra queste due entità – linguaggio e cultura – è davvero molto complesso
e in continua mutuazione, come lo sono le società e gli individui che ne fanno
parte.
Pertanto,
seguendo
questa
premessa,
appare
assurdo
voler
semplicisticamente ridurre l’interpretazione ad un atto meccanico di traduzione.
Per dimostrare che l’interprete tiene conto delle norme linguistiche, culturali e
sociali nello stesso tempo Wadensjö propone una tassonomia dei tipi di
38
interpretazione, cioè delle strategie che l’interprete applica a seconda delle
occasioni ed a cui ricorre per rendere e riformulare al meglio il testo originale:
1) Close rendition: l’interprete tende a riprodurre fedelmente quanto detto
mantenendo sia il contenuto che lo stile
2) Expanded rendition: l’interprete riporta informazioni in maniera più esplicita
di quanto non fosse nel testo originale. Il contenuto viene perciò espanso con
l’intento di garantire maggiore chiarezza
3) Reduced rendition: il contrario della modalità precedente, infatti l’interprete
fornisce informazioni in maniera meno esplicita, probabilmente per evitare
possibili complicazioni o ambiguità
4) Substitued rendition: è una combinazione delle precedenti due strategie
5) Summarised rendition: l’interprete fonde due o più frasi, anche di
interlocutori diverse, in un’unica resa. È una strategia molto utile quando i
turni di parola sono particolarmente lunghi ed è opportuno selezionare le parti
più rilevanti
6) Two-part / multi-part rendition: due o più testi pronunciati dai parlanti
vengono resi dall’interprete con una sola resa, spesso perché mentre egli parla
viene interrotto da altri interventi dei partecipanti
7) Non-rendition: l’interprete prende l’iniziativa e offre una resa che non
corrisponde a nessun testo pronunciato dagli interlocutori
8) Zero-rendition: uno o più interventi dei partecipanti non vengono tradotti, si
parla pertanto di mancata resa. Come succede per le summarised renditions,
l’interprete sceglie cosa tradurre in base al significato e alla rilevanza (in
Garzone, Rudvin 2003: 117-118)
Le strategie possono anche essere usate in contemporanea, visto che i confini tra
l’una e l’altra non sono assoluti, e ci dimostrano (specialmente le ultime due)
come la parte meccanica dell’interpretazione è ben poca cosa rispetto
all’importanza del giudizio e della capacità del professionista, che deve tener
conto di molteplici fattori per assicurare la miglior resa possibile della
conversazione. Siamo molto lontani dalla traduzione meccanica di un messaggio
da una lingua ad un’altra, la realtà in cui l’interprete si trova ad operare è piena di
sfaccettature ed è importantissimo tenerle tutte in conto, a volte facendo
subentrare anche un giudizio personale che operi delle scelte volte ad ottenere il
39
massimo risultato, scelte che possono essere anche drastiche come la decisione di
ignorare o condensare l’intervento di un interlocutore.
2.3
L’interprete come partecipante attivo
Come abbiamo già avuto modo di sottolineare, la condizione del community
interpreting è davvero singolare e queste sue caratteristiche peculiari sono
appunto alla base del presente elaborato. Ormai pare chiaro che l’interprete è
molto più di una “macchina” per tradurre; andiamo ora a vedere come e dove si
posiziona nel discorso conversazionale tra service provider e cliente.
Molte volte si è fatto ricorso all’utilizzo di metafore per tentare di descrivere
tramite un concetto astratto il vero ruolo dell’interprete. La prima, quella appena
citata di “macchina”, è già stata sfatata grazie alla disquisizione del sotto-capitolo
precedente, ma ci sono voluti molti anni di studio e dibattiti per arrivare a questo
risultato. Tra i molti ricercatori che si sono occupati di metafore sul ruolo
dell’interprete, Roy (in Pöchhacker, Shlesinger 2002) ha dato un grande
contributo partendo dal concetto classico di canale o ponte che rende possibile la
comunicazione tra due persone. Roy parla di un doppio messaggio delle
metafore: da una parte il loro uso trasmette la difficoltà dei compiti che
l’interprete si trova ad affrontare contemporaneamente, dall’altra sottolineano la
flessibilità di questo ruolo. In linea con le opinioni più moderne che stanno
progressivamente abbandonando questa idea dell’interprete come canale di
comunicazione tra lingue, Roy propone quattro descrizioni per esemplificare di
cosa si occupano e come si comportano gli interpreti in concreto, le quali
spaziano da un estremo coinvolgimento personale all'assenza di coinvolgimento
personale dell'interprete (proposte inizialmente per gli interpreti della lingua dei
segni ma che si sono rivelate calzanti anche per gli altri tipi di interpreti di
comunità) (2007: 349-351):
a) Gli interpreti come aiutanti: un’abitudine molto radicata è sempre stata quella
di ricorrere a familiari o amici nelle vesti di interpreti; perciò, fino agli anni
Sessanta, non c’era distinzione tra aiutante ed interprete. Spesso poteva anche
40
accadere che l’aiutante si assumesse ruoli che andavano oltre quello
dell’interpretazione linguistica, convogliando così all’esterno l’impressione
fasulla che il loro “cliente” non fosse in grado di sbrigarsela da sé.
b) Gli interpreti come canali: è la metafora che si avvicina di più al concetto di
“macchina”, che a sua volta si distanzia da quello di aiutante rivendicando per
sé un’accezione più professionale. Secondo questa concezione, gli interpreti
devono mantenersi imparziali e non essere coinvolti, col rischio però di essere
percepiti come freddi e insensibili dai clienti. Per questo essi stessi
cominciarono a cercare una definizione del loro ruolo meno radicale.
c) Gli interpreti come facilitatori della comunicazione: questa descrizione si
appoggia ad una visione molto basica dell’interprete come
mezzo per
facilitare il trasferimento di un messaggio da un mittente a un destinatario,
indipendentemente dalla modalità di comunicazione (orale o lingua dei segni
che sia), in altre parole un esperto che rende la comunicazione più semplice.
d) Gli interpreti come specialisti bilingue e biculturali: a partire dagli anni
Settanta iniziò ad essere accettata l’importanza del fattore culturale oltre a
quello linguistico; si iniziò a parlare di “sensibilità culturale”.
A partire dagli anni Ottanta, quindi, il ruolo dell’interprete-aiutante fu
riconosciuto come inappropriato, poiché troppo invasivo e svantaggioso per i
clienti stessi (soprattutto per il linguaggio dei segni, come sottolinea Roy), che
perdevano controllo sulle loro vite e le loro responsabilità. Dall’altro lato, non è
opportuno nemmeno negare al livello estremo qualsiasi forma di coinvolgimento
personale del professionista. Il conflitto tra questi due poli è forse intrinseco nel
ruolo dell’interprete. In conclusione Roy concorda sul fatto che l’interprete sia un
membro attivo della conversazione, un atto che è da considerarsi un evento
interculturale e interpersonale piuttosto che meccanico e tecnico.
Un’altra classificazione volta a descrivere il ruolo del community interpreter è
quella proposta dal National Council on Interpreting in Health Care (NCIHC)39
attraverso il saggio di Beltran Avery (2001)40, secondo la quale alla base della
39
www.ncihc.org
Beltran Avery M.-P. (2001), The role of the health care interpreter: an evolving dialogue,
prodotto
dal
NCIHC
e
disponibile
a:
http://www.a2hc.org/articles/The%20role_of_health_care_interpreter.pdf
(ultimo
accesso
12/08/2012)
40
41
discussione sul ruolo vi è la dicotomia tra interprete neutrale (colui che ha la sola
funzione di trasmettere il messaggio) e attivo (che ha a che fare con molte più
responsabilità). In questa analisi i possibili ruoli e modi di comportarsi
dell’interprete vengono collocati in una sorta di continuum che va dalla
concezione di interprete come canale a quella di interprete come elemento
inserito nella propria comunità linguistica e culturale, passando per due tappe
intermedie.
Quando si parla di interprete come canale, egli ha il ruolo chiave di trasmettere il
messaggio restando il più “invisibile” possibile. Questo tipo di approccio limita la
responsabilità del professionista solo agli aspetti linguistici della comunicazione,
senza il compito di dover aggiungere eventuali spiegazioni culturali o di dover
mediare tra provider e cliente. D’altra parte, però, richiede che il provider sia
assolutamente competente nel condurre la comunicazione in presenza
dell’interprete, visto che su di lui ricade la responsabilità della comprensione di
ciò che viene detto. Purtroppo è risaputo che è ancora difficile trovare dei
provider preparati e che sanno destreggiarsi tra il loro lavoro e la presenza di un
terzo interlocutore, anche se è ormai ampiamente riconosciuto che corsi di
formazione e preparazione sarebbero davvero utilissimi, specialmente nei casi
riguardanti il sistema sanitario. Sarebbe già un enorme passo avanti stabilire
come norma l’incontro tra provider ed interprete per briefing41 e de-briefing42, ma
anche qui siamo ancora molto lontani dalla trasformazione in usanza collaudata.
Pertanto, nella maggioranza dei casi, l’intervento dell’interprete è indispensabile
per evitare incomprensioni o colmare le differenze.
La prima tappa intermedia del continuum teorizzato da Beltran Avery è la
concettualizzazione dell’interprete come manager degli incontri con mediazione
interculturale e interlinguistica. In essa la funzione primaria è sempre quella di
facilitare il processo di comunicazione, ma tenendo presente che ciò richiede
molto più di una conversione linguistica, specialmente quando provider e cliente
non condividono lo stesso background culturale. L’interprete è quindi una
41
L’incontro che precede la sessione di interpretazione in cui provider e interprete si spiegano
vicendevolmente i propri modus operandi, i loro ruoli, le regole ed i limiti da non sorpassare. Nel
briefing si può anche parlare del tema della sessione ed eventualmente prepararsi su argomenti
specifici come lessico, elementi culturali particolari, ecc.
42
L’incontro che avviene alla fine della sessione tra provider ed interprete per discutere e
confrontarsi sull’andamento della stessa e su eventuali problemi o incomprensioni verificatisi.
42
presenza legittima e potenzialmente attiva e si deve assumere la responsabilità di
usare il potere di informazione per lo scopo finale, cioè quello di offrire a
provider e cliente la migliore interazione possibile.
La seconda tappa del continuum, quella del cosiddetto “intervento progressivo” ,
considera il ruolo dell’interprete flessibile, spaziando da condotte non intrusive,
alla condotta di mediatore culturale, spingendosi fino a quella di “advocate”43,
cioè di guida e consulente per il cliente. Il modello ammette che l’interprete
debba stare in secondo piano durante la comunicazione ma anche che abbia il
permesso di intervenire se è in corso un fraintendimento. L’interprete dovrà
scegliere la condotta più adeguata a seconda della situazione; nel caso decida di
intervenire di sua iniziativa, deve mettere al corrente tutti i partecipanti di cosa ha
intenzione di fare e di tutto quello che dice in aggiunta. Infine la
concettualizzazione dell’interprete come elemento inserito nella propria comunità
linguistica e culturale richiede che il professionista sia una persona che fa parte
della comunità; spesso è il caso di comunità piccole e molto coese con forti
legami di fiducia e credibilità, o di culture non occidentali. Per queste comunità il
linguaggio è più di uno strumento di comunicazione, è parte della vita e definisce
il loro essere, perciò l’interprete deve godere di grande credibilità perché è visto
come intermediario tra il sistema o l’istituzione e la comunità.
In generale, ovviamente, il tipo di ruolo da assumere varia in base all’istituzione e
alla comunità in questione, come anche in base alle caratteristiche del provider,
del cliente e dell’interprete stesso, l’importante è che la comunicazione non perda
mai di vista l’obiettivo finale. Tuttavia a Beltran Avery preme sottolineare che,
anche dopo un’analisi così accurata, rimangono sempre dubbi e divergenze,
specialmente su due questioni: i limiti delle funzioni considerate accettabili a
seconda del ruolo, e la natura del rapporto dell’interprete con il provider e con il
cliente. Ovviamente i confini tra una concettualizzazione e l’altra – così come
succede anche per la classificazione di Roy esaminata in precedenza – non sono
43
“Advocate” è un termine che possiede diverse sfumature di significato. In alcuni paesi, come in
Scozia, corrisponde all’italiano “avvocato”, mentre in altri si traduce in maniera più generale come
rappresentante legale o patrocinante. Infatti il termine advocacy nell’ambito del community
interpreting viene definito “defending, pleading for or actively supporting the client” (Roberts
1997:13). In contesto sanitario italiano l’advocacy viene definita come l'insieme di azioni con cui
un soggetto si fa promotore e sostiene attivamente la causa di un altro (http://www.ccmnetwork.it/screening/advocacy_intro)
43
assoluti e indiscutibili, deve entrare in gioco anche il buon senso e l’esperienza
del professionista.
Dopo anni di studio ed analisi dei dati, molti esperti concordano
sull’inadeguatezza di un’interprete passivo, isolato, che si preoccupa solo
dell’aspetto linguistico. Secondo la letteratura più moderna l’interprete è un
elemento attivo, è il terzo partecipante della comunicazione e pertanto si deve
preoccupare anche della buona riuscita della stessa. I suoi comportamenti –
linguistici e non – hanno grande rilevanza per l’andamento della conversazione,
nel bene e nel male.
Per esempio, per Wadensjö (1995:112)44 l’interpretazione è da intendersi come
azione sociale, o meglio inter-azione sociale, in cui l’interprete è l’unico ad avere
la possibilità di intendere tutto, e questo implica anche la responsabilità di
osservare e coordinare l’interazione stessa. Pertanto l’interprete riveste una
duplice funzione: da una parte “relaying or translating” e dall’altra “coordinating
or mediating”; esse sono presenti in contemporanea e una non esclude l’altra
(ibidem:113).
Inoltre l’interprete, come del resto gli altri partecipanti, ha un ruolo importante
sia come parlante che come ascoltatore; anche l’ascoltare è una parte
fondamentale dell’interazione, sebbene a volte venga trascurata rispetto al
preponderante ruolo del parlare. Secondo Wadensjö ci sono diversi modi in cui
svolgere l’attività di parlante, detti “production formats” (ibidem:121), con i quali
l’interprete mostra diversi aspetti di sé e del suo modo di operare: animator
(quando l’interprete si occupa solo di “dare vita” alle parole dell’interlocutore
senza assumersi la minima responsabilità); author (quando l’interprete,
riportando le parole dell’interlocutore, si assume la responsabilità solo per la
composizione del messaggio e non per il contenuto); principal (quando
l’interprete si comporta sia da animator che da author assumendosi la completa
responsabilità).
Allo stesso modo, Wadensjö individua tre modalità di essere ascoltatore, dette
“reception formats”: reporter (quando l’interprete ascolta per poter ripetere
44
Wadensjö C. (1995), Dialogue Interpreting and the Distribution of Responsibility, Journal of
Linguistics 14, disponibile a: http://download1.hermes.asb.dk/archive/download/H14_07.pdf
(ultimo accesso 22/09/2012)
44
parola per parola quello che viene detto); recapitulator (quando l’interprete
ascolta per poter esprimere ciò che è stato detto riassumendolo e riformulandolo);
responder (quando l’interprete ascolta con la finalità di poter offrire un contributo
autonomo). La scelta da parte dell’interprete di quale comportamento assumere
come ascoltatore è una delle maggiori risorse per dimostrare la particolarità del
proprio ruolo, “excluded from the exchange but included in the exchanging”
(1998b:13)45. Queste due classificazioni sulle modalità di essere ascoltatore e
parlante sono molto importanti, nonché strettamente correlate tra di loro, poiché
dalla modalità in cui l’interprete si pone come ascoltatore dipende anche quella in
cui si pone come parlante. Infatti scegliendo quale attitudine assumere,
l’individuo trasmette anche le proprie opinioni e atteggiamenti nei confronti delle
responsabilità nella conversazione. Inoltre, sia il modo di porsi come ascoltatore
che quello di porsi come parlante influiscono sull’andamento dell’atto
comunicativo e sull’esito finale dello stesso.
Con le sue ricerche Wadensjö ha dimostrato che gli interpreti sono partecipanti
attivi che influenzano il corso e la direzione dell’interazione. Ovviamente la
presenza dell’interprete rende speciale l’interazione e cambia le aspettative di
provider e cliente, rispetto agli incontri non mediati. Dalla scoperta
dell’interazione tra interprete e interlocutori nasce la celeberrima immagine del
pas de trois coniata da Wadensjö, che porta in primo piano l’intima
interdipendenza tra i partecipanti e i loro rispettivi obiettivi comunicativi:
“Comparing people taking part in a conversation with dancers, coordinating their
turns on the floor, the interpreter-mediated encounter can be seen as a special
kind of dance for two with an additional third person; a communicative pas de
trois” (ibidem:12). In effetti la metafora della danza è davvero esemplificativa per
spiegare la coordinazione e l’accordo che ci deve essere tra ballerini, come tra
partecipanti ad un atto comunicativo, per raggiungere l’obiettivo comune.
Wadensjö dà molta importanza anche al fatto che ogni partecipante porta
nell’interazione il proprio essere, la propria identità sociale, determinata da tanti
fattori come età, sesso, etnia, religione:
45
Wadensjö C. (1998b), The social organisation of remembering in interpreter-mediated
encounters,
disponibile
a:
http://criticallink.org/wpcontent/uploads/2011/09/CL2_Wadensj%C3%B6.pdf
45
What comes out of interaction will depend on how interlocutors appear to each
other in interaction, as actors with culturally and socially predefined identities
(social roles, or activity roles) and how they relate to themselves and to each
individual of the audience as actors whose interlocutor roles, or participation
statuses, are defined on a utterance-to-utterance basis in the ongoing flow of
discourse (1998a:116, corsivo originale).
L’interprete quindi è visto come un attore impegnato a risolvere problemi
linguistici ma anche di reciproca comprensione. La conclusione di Wadensjö è
che l’avanzamento della conversazione è determinato sia dall’attività coordinata
tra i partecipanti che dalla responsabilità diretta dell’interprete, inteso come
supervisore e come l’unico elemento in grado di indirizzare ed eventualmente
correggere il processo comunicativo.
Sulla stessa lunghezza d’onda di Wadensjö troviamo anche Roy (2000)46,
secondo la quale l’interpretazione è un atto di comunicazione sia linguistica che
sociale e l’interprete ricopre un ruolo assolutamente attivo in questo processo. È
un evento influenzato sia da fattori linguistici che sociali, come lo status dei
partecipanti e il livello di obliquità; grande importanza viene data anche all’atto
di ascoltare, poiché è il modo in cui si crea la risposta seguente (ibidem:5).
Roy si è occupata delle modalità in cui l’interprete gestisce il processo
conversazionale (“discourse process47”) tra persone che non parlano la stessa
lingua, soffermandosi in particolare sui turni conversazionali che esemplificano
concretamente come gli interlocutori parlano e si passano la parola. Gli
interlocutori si scambiano i turni di parola con l’interprete, invece che tra di loro
come accadrebbe in un incontro non mediato, quindi anch’egli partecipa del
processo di creazione dei turni prendendo la parola ed eventualmente risolvendo
problemi come silenzio, pause, turni che si sovrappongono ecc. Infatti il
meccanismo del turn-taking non è lineare come di solito ci si immagina, ma al
contrario essi non seguono una rotazione secondo la quale si parla a turni uno alla
volta. Pertanto l’analisi dei turni conversazionali ha dimostrato che è necessaria
la partecipazione dell’interprete nell’organizzare e gestire l’intercambio dei turni
46
Roy, C., (2000), Interpreting as a discourse process, New York; Oxford: Oxford University
Press
47
L’autrice specifica che il termine “analisi del discorso” è stato generato da diverse branche della
linguistica, e si riferisce all’analisi del linguaggio oltre l’unità grammaticale della frase (2000:3).
46
e che l’incontro mediato è da considerarsi come un atto linguistico e sociale
regolato essenzialmente dai ruoli sociali e dagli obiettivi durante l’atto
comunicativo (ibidem:4).
Lo scambio di messaggi e l’avanzamento della conversazione richiedono che
nessuno dei partecipanti rimanga passivo. Ovviamente ognuno porta il suo
personale contributo alla conversazione, le proprie aspettative e le proprie idee,
magari utilizzando strutture linguistiche diverse e seguendo differenti
automatismi inconsci; qui entra in gioco l’interprete il cui compito è quello di
appianare le differenze ed intervenire dove ci sono incomprensioni. L’interprete
può intervenire negoziando il possesso del turno, provocando una risposta ad un
interlocutore, spiegando cosa un partecipante intende dire, o segnalando quando
uno non capisce l’altro; è difatti l’unico partecipante che può mantenere,
modificare o riparare le differenze di uso e struttura (ibidem:6). Roy intende farci
capire che possiamo comprendere molto meglio in cosa consista il compito di
interpretare se lo guardiamo da una prospettiva che tiene conto dell’interattività
dei partecipanti, piuttosto che da una che si sofferma solo sull’interprete e il
messaggio interpretato (ibidem:31).
Le opere di Wadensjö e Roy sono le maggiori rappresentanti di quella corrente di
studio che ha ormai abbandonato l’approccio monolitico all’interpretazione come
atto meccanico di trasmissione di significato e che ha cambiato la visione comune
sull’effettivo ruolo dell’interprete, preferendo un approccio più interattivo e
multidisciplinare che tiene conto dell’interazione verbale e sociale. L’interprete,
dunque, è un partecipante attivo che condivide con gli altri la responsabilità del
successo o del fallimento dell’atto comunicativo.
Come afferma Hale (2007:105) è impossibile supporre che l’interprete interpreti
parola per parola, come un robot, senza un giudizio professionale e restando
completamente invisibile, anche se bisogna tener conto della severità dell’autrice
nel suo approccio, che non ammette cambiamenti ed alterazioni. Sempre riguardo
al ruolo Turner afferma che l’interprete è “a weaver-together of narratives and a
connector of people […], in a triadic communicative event where participants
constantly align and re-align themselves in complex kaleidoscopic ways to
47
achieve their collective communicative goals” (2007:181)48. L’autore sottolinea
che l’interprete funge dunque anche da coordinatore e negoziatore di significato
in stretta collaborazione con gli altri partecipanti e che il dialogo avrà una buona
riuscita solo con un atteggiamento interattivo e partecipatorio da parte di tutti gli
interlocutori.
Anche Angelelli riconosce il ruolo attivo dell’interprete e si oppone all’idea di
invisibilità di quest’ultimo, proprio perché ciò presuppone mancanza di
interazione tra l’interprete e i parlanti e anche tra i parlanti stessi. Al contrario gli
interpreti dovrebbero rivendicare la loro presenza e renderla ben chiara, per
evitare fraintendimenti e per sottolineare anche il potere che il loro ruolo dà loro.
Angelelli apporta anche un'altra considerazione (2004:29): l’atto comunicativo
per quanto riguarda il public service interpreting spesse volte avviene all’interno
di un’istituzione (che è il riflesso della società in cui è inclusa), quindi non in un
“vuoto sociale”. Quindi a livello di interazione anche le istituzioni e la società
hanno la loro influenza, insieme agli altri fattori sociali49 già menzionati in
precedenza. L’autrice ha esemplificato questo concetto con uno schema
visivamente molto efficace (ibidem:30):
48
Turner G.H. (2007), “Professionalisation of interpreting with the community”, in C. Wadensjö,
B. Englund Dimitrova and A. Nilsson eds. (2007), The Critical Link 4: Professionalisation of
interpreting in the community, Amsterdam and Philadelphia, John Benjamins Publishing
Company: 181-192
49
SES = socioeconomic status
48
I cerchi concentrici rappresentano la società in cui troviamo l’istituzione
(ospedale, ufficio di polizia, scuola, ecc.) che a sua volta è il luogo dove si svolge
l’interazione. L’atto comunicativo è dunque fortemente influenzato sia
dall’interazione tra i tre partecipanti che collaborano tra loro (come rappresentato
dalle frecce bidirezionali che mettono in collegamento i tre fumetti) sia
dall’ambiente in cui questo atto si svolge. Il rettangolo in alto rappresenta
appunto i fattori sociali legati all’identità dei parlanti che loro stessi
inevitabilmente portano nell’evento comunicativo.
Anche Niska (in Garzone, Viezzi 2002:138)50 ha contribuito al dibattito sulla
definizione del ruolo dell’interprete con una teorizzazione che presenta sempre
limiti non invalicabili tra un attitudine e l’altra, ma che sottolinea come il
professionista sia libero di scegliere tra l’una e l’altra a seconda delle necessità,
senza stigmatizzare negativamente l’approccio più minimale, quello del “just
interpreting”. Niska esemplifica questo concetto attraverso uno schema a
piramide:
L’autore ricorre alla forma piramidale per mettere in evidenza come la base di
partenza è sempre l’interpretazione nel senso più letterale del tempo, ma nello
stesso tempo come l’interprete a seconda della situazione debba spingersi più in
là e spostarsi verso un ruolo meno neutrale e più visibile. Man mano che si sale, il
livello di partecipazione e interazione nell’atto comunicativo aumenta.
50
Niska H. (2002), “Community interpreting training: past, present and future”, in G. Garzone, P.
Mead e M. Viezzi eds. (2002), Interpreting in the 21st century : challenges and opportunities,
Amsterdam and Philadelphia, John Benjamins Publishing Company: 133-144
49
2.4
L’interprete e la percezione di se stesso
Nel precedente sotto-capitolo abbiamo analizzato il ruolo dell’interprete
soffermandoci sulle opere di tre autrici che hanno contribuito, insieme ad altri che
per mancanza di spazio non è stato possibile citare, allo sviluppo di una nuova
concezione dell’interprete, come elemento attivo e determinante nell’evento
comunicativo. È altrettanto interessante, però, scoprire cosa gli interpreti pensano
di loro stessi e del loro ruolo, per poter osservare la questione da entrambe le
prospettive. La premessa di questo discorso è che l’opinione che gli interpreti
hanno del proprio mestiere è una tematica che non è stata molto affrontata in
questi anni di ricerca sugli Interpreting Studies. Ciò è davvero riprovevole,
considerando il fatto che se si vogliono cercare degli spunti per migliorare la fase
formativa e la fase di professionalizzazione di questa disciplina, i pareri dei diretti
interessati, di coloro che hanno concreta esperienza della pratica interpretativa,
sarebbero una base di partenza preziosa. Per richiedere agli interpreti un feedback
diretto sulla loro professione solitamente si ricorre a questionari o sondaggi,
preparati da esperti del settore o da interpreti di professione, da cui poi vengono
estrapolati i dati che vengono analizzati per determinare le tendenze. Di seguito
andremo a analizzare nel dettaglio due celebri esempi, entrambi inseriti nelle
raccolte del Critical Link. L’associazione si dimostra sempre piuttosto attiva in
questo tipo di iniziative visto che le permettono di ricavarne dati ed opinioni che
arricchiscono lo studio dei suoi temi centrali, come la definizione del ruolo
dell’interprete e le sue caratteristiche.
Tra il 1996 e il 1997 Pöchhacker ha svolto un’interessante indagine a riguardo,
durante la quale ha consegnato a centinaia di soggetti (sia interpreti che providers
nel settore sanitario) una lista di nove domande sulle presunte competenze
dell’interprete alle quali bisognava rispondere sì/no (2000: 49-65)51. La premessa
di questo sondaggio è che in mancanza di standard universalmente accettati, la
definizione del compito dell’interprete in un paese come l’Austria – dove il
livello di istituzionalizzazione e professionalizzazione del mestiere è alquanto
51
Pöchhacker, F. (2000), “The community interpreter’s task: self-perception and provider views”,
in R. Roberts, S. Carr, D. Abraham and A. Dufour eds. (2000), The Critical Link 2: Interpreters in
the Community. Amsterdam and Philadelphia, John Benjamins Publishing Company: 49-65
50
limitato – può spaziare da quella di convertitore linguistico a quelle di mediatore
cultuale o difensore. Il rischio maggiore è quello del “role overload”, cioè del
caricare l’interprete di compiti che non ricadono assolutamente nella sua sfera di
azione, come spesso accade soprattutto nel settore della sanità. Per dirla con le
parole di Anderson (ibidem: 51) “not only it is seldom entirely clear what he is to
do, he is also frequently expected to do more than is objectively possible”.
Per quanto concerne i service providers, i loro risultati mostrano che essi si
aspettano che l’interprete esegua certi compiti come adattare le loro frasi ai
bisogni comunicativi del cliente e condensare le frasi troppo contorte dei clienti.
Lo stesso vale per le funzioni di coordinazione del discorso, come porre domande
dirette al cliente per chiarire i punti oscuri e segnalare ad entrambe le parti
situazioni di potenziale fraintendimento. Pöchhacker specifica che è molto
difficile stabilire se le aspettative dei service provider siano troppo elevate e
sfocino nel “role overload”, in mancanza di normative o standard a riguardo.
Invertendo la prospettiva, e tenendo comunque presente che numericamente gli
interpreti coinvolti nel progetto sono molti meno dei service providers, la
categoria ha generalmente accettato la responsabilità di facilitare la comprensione
per il cliente (semplificando e spiegando i termini tecnici), di aumentare la
comprensione della cultura straniera da parte dei providers e di assicurare il
flusso dell’interazione. È interessante notare come gli interpreti siano molto più
disposti ad agire da mediatori culturali (esemplificando riferimenti e significati
legati alla cultura straniera) di quanto i service providers si aspetterebbero. La
conclusione a cui è giunto Pöchhacker è che i service providers vedono
l’interpretazione come un’attività con molte sfaccettature e che va ben al di là
della mera traduzione, mentre gli interpreti, d’altro canto, hanno dimostrato di
condividere una visione piuttosto ampia del loro ruolo.
Chesher, Slatyer, Doubine, Jaric e Lazzari hanno condotto, tra il 1998 e il 1999,
un sondaggio su scala mondiale, attraverso varie associazioni di interpreti, in cui
si chiedevano agli operatori dettagli sul loro lavoro, sulle lingue conosciute, sulle
esperienze e sulla formazione, e di esprimere il loro giudizio sul proprio ruolo,
sulle condizioni lavorative e sullo status; inoltre veniva chiesto di identificare
capacità e qualità necessarie per il community interpreting e i principi guida del
51
loro lavoro (2003:273)52. Il sondaggio, composto principalmente da domande
aperte, ottenne 92 risposte valide da sette paesi; sebbene non condotto su
larghissima scala, mette in luce comunque degli interessanti spunti di riflessione.
La prima parte evidenzia che poco meno della metà degli interpreti lavora solo
occasionalmente in ambiti di comunità, il 21% a tempo pieno, la stragrande
maggioranza per servizi pubblici e governativi. L’importanza del settore pubblico
si riscontra anche nel dato che evidenziava come l’83% degli interpreti vieni
ingaggiato tramite agenzie governative. Per quanto concerne la modalità, il 24%
usa preferibilmente quella consecutiva, il 10% quella simultanea e il 37%
entrambe, indicando così un certo grado di flessibilità. Un dato veramente
scioccante riguarda l’aspetto economico: solo il 72% afferma di venire sempre
pagato, il 17% di solito, il 4% a volte (tra questi dobbiamo però includere
l’attività di volontariato, per esempio nelle chiese). Non a caso il 24% dei
rispondenti pensa che le condizioni lavorative del community interpreting (o
community-based interpreting, come viene chiamato in questo studio) sono meno
favorevoli rispetto a quelle di altre professioni e molto più della metà pensa che
sia un lavoro mal pagato, in cui il basso salario si riflette poi in un basso status.
Passando alle qualifiche, solo il 54% dei rispondenti pensa che per il lavoratori
del community-based interpreting le competenze professionali siano un requisito
fondamentale. Per fortuna l’86% considera la formazione e/o la qualifica come
un prerequisito essenziale. Gli elementi più importanti durante la preparazione e
la formazione sono la predisposizione alle lingue (20%), lo sviluppo delle
capacità (19%), la conoscenza dell’etica (15%) e le capacità interpersonali (11%).
Per mantenere allenata la competenza linguistica, l’84% segue e legge gli organi
di informazione in due lingue.
Nella seconda parte, riguardante le opinioni e le percezioni dei rispondenti,
risultati interessanti vengono dalla domanda su quali siano le qualità più
importanti per il successo di un evento mediato, i cui risultati sono meglio
esemplificati dalla tabella qui sotto (ibidem:284):
52
Chesher T., Slatyer H., Doubine V., Jaric L. e Lazzari R. (2003), “Community-based
interpreting: the interpreters’ perspective”, in Brunette L., Bastin G.L., Hemlin I. e Clarke H. eds.
(2003), The Critical Link 3: Interpreters in the Community. Amsterdam and Philadelphia, John
Benjamins Publishing Company: 273-291
52
Per quanto riguarda il ruolo, l’84% degli interpreti afferma di spiegare al cliente
in cosa consista il suo lavoro, cosa faccia o non faccia, mentre il 20% si presente
semplicemente come l’interprete e il 7% non dà spiegazioni. Solo il 13% spiega
come gestirà l’incontro mediato. Tra i principi guida più importanti, il 52% indica
la riservatezza, il 40% l’imparzialità, il 39% l’accuratezza e il 33% la condotta
professionale; solo il 13% ha parlato specificatamente di “etica”. Parlando di
percezione del proprio status, meno della metà dei rispondenti pensa che il
community interpreting sia collocato allo stesso livello delle altre forme di
interpreting mentre il 32% non lo pensa. Il 37% del totale pensa che i loro clienti
non pongano il community interpreting sullo stesso piano degli altri tipi, ma il
32% pensa che lo facciano.
In conclusione (ibidem:289), possiamo notare un buon livello di consenso
sull’importanza del fattore etico, che pare fungere da linea guida nel casi di
advocacy e di richiesta di consigli e/o pareri. Si riscontra un generale accordo
anche sulla necessità di una maggiore educazione sia per gli interpreti che per i
clienti che poi usufruiscono del servizio. Dai dati esaminati possiamo dedurre
come gli interpreti riconoscano la necessità di formazione e qualifiche tanto
quanto di un continuo sviluppo professionale. Il tema su cui si sono evidenziati
più contrasti e per il quale è stato impossibile analizzare i dati è stato la
definizione di cosa sia il community interpreting, se fosse una forma di
interpretazione indipendente o se dovesse essere considerato una sub-categoria.
In questo secondo capitolo abbiamo un po’ spaziato tra tematiche differenti,
passando dalla cultura all’analisi conversazionale, ma sono stati tutti aspetti utili
a tentare di definire – sarebbe troppo presuntuoso dire di averne dato una
53
definizione esauriente in così poco spazio – in cosa consista il ruolo
dell’interprete nell’ambito del community interpreting. È stato dunque molto
interessante analizzare tutti le sfaccettature di questo profilo professionale, sia da
una prospettiva esterna che da quella esterna, come si è fatto nell’ultimo sottocapitolo.
54
CAPITOLO 3
LA FORMAZIONE E L’EDUCAZIONE DEL COMMUNITY
INTERPRETER
In questo capitolo verrà affrontato il tema della formazione, o training, del
community interpreting, soffermandoci in particolare sulla fase pre-professionale,
ovvero quella che prepara (o meglio, dovrebbe preparare) lo studente a diventare
un interprete competente e capace.
In realtà il processo di apprendimento e di perfezionamento è in continuo divenire
durante la carriera di un professionista, ma come è logico suppore la fase
formativa ha un’importanza preponderante. Quindi si tratterà il tema della
formazione in concreto, ma anche le idee e i suggerimenti che gli stessi interpreti
e gli esperti del settore propongono per innovare e migliorare sempre più il
processo educativo dei futuri interpreti. Infatti questo processo si rivela
complicato e pieno di sfaccettature, tanto quanto lo stesso ruolo dell’interprete,
come abbiamo avuto modo di scoprire nel capitolo precedente. La complessità del
ruolo, appunto, si riflette nella difficoltà di organizzare corsi e scuole che formino
lo studente sotto tutti i punti di vista, non solo quello delle competenze
linguistiche, ma anche nella mancanza di fondi e di interesse.
A questo proposito, sarà possibile scoprire che gli interpreti stessi, adeguandosi
alle più moderne correnti di pensiero, generalmente danno grandissima
importanza alle questioni legate all’etica professionale, ma questo argomento in
realtà non viene affrontato come dovrebbe durante la fase educativa. Dopo una
parentesi volta ad illustrare la situazione del training per gli interpreti di comunità
in Italia, nel finale ci concentreremo anche sul concetto di tecnologia applicato
alle fasi di educazione dell’interprete. Oggigiorno il peso specifico degli strumenti
tecnologici è in continuo aumento; la tecnologia ha cambiato radicalmente tanti
aspetti delle relazioni umane, tra cui il modo di comunicare, e ciò si ripercuote
anche sul processo di apprendimento dei futuri interpreti, che devono imparare
55
anche come comunicare con i clienti. Oltre alle capacità linguistiche, sono oggi
necessarie
anche
quelle
informatiche
e
tecnologiche
per
far
sì
che
l’interpretazione sia una disciplina al passo coi tempi.
Dopo questa sintetica introduzione esplicativa, passiamo all’esame della tematica
della formazione e training dell’interprete di comunità, prendendo come
presupposto inamovibile che la fase di preparazione e il sistema educativo volti
alla formazioni di professionisti competenti sono anch’essi una tappa
fondamentale per il processo di professionalizzazione. Questo è il motivo per cui,
seguendo un filo logico e cronologico, ci soffermiamo prima sullo stadio
educativo e poi sullo stadio professionale, che sarà appunto il vero fulcro di questa
dissertazione ma che, per essere compreso nella sua totalità, richiede prima
l’analisi di temi propedeutici come l’analisi del ruolo e della formazione.
3.1
L’importanza della formazione
Alla base di una buona riuscita di un evento mediato c’è inevitabilmente la
bravura e la capacità di chi lo interpreta. Altri fattori possono contribuire – come
una buona predisposizione dei partecipanti all’incontro, un atteggiamento positivo
e disteso nei confronti dell’interprete, il rispetto delle regole della comunicazione
mediata – ma senza dubbio la responsabilità maggiore spetta all’interprete. A sua
volta, alla base della sua bravura e della sua capacità ci deve essere un solido
background ed una buona formazione. La formazione (o training) è appunto la
parola chiave di questo ragionamento: tema spinoso sul quale da anni gli esperti
dibattono, spesso non possiamo parlarne in termini positivi data la confusione e la
mancanza di normative su questo aspetto così problematico del community
interpreting. Di seguito cercheremo di analizzare, per quanto possibile, i dilemmi
di questo argomento e di proporre, almeno in via teorica, delle soluzioni che
potrebbero migliorare la situazione.
Seguendo il ragionamento di Hale (2007: 163-169), le questioni principali
riguardanti la formazione possono essere divise in quattro gruppi:
56
a) Mancanza di consapevolezza della necessità del training 
Sicuramente il punto di partenza del complesso discorso che stiamo affrontando è
che questo evidente bisogno di formazione per la professione dell’interprete
deriva dal mancato riconoscimento della sua importanza e della sua necessità per
un corretto svolgimento dell’attività. Come abbiamo già accennato, è molto
diffusa l’opinione comune secondo la quale tra un interprete e un bilingue non
passi poi una così grande differenza, perciò è facile intuire quanto sia arduo far
riconoscere la reale importanza di una fase di educazione pre-professionale per chi
si accinge a svolgere questo mestiere. Secondo quanto riportato da Hale
(ibidem:164) spesso sono anche gli stessi studenti a non accorgersi della reale
complessità di questo compito fino a che non vengono a diretto contatto con i
corsi per specialisti. L’interpretazione non è fatta solo di competenze linguistiche,
come già ampiamente sottolineato, ma di molte altre capacità che non sono innate
(come invece potrebbe esserlo il bilinguismo) e che necessitano di tempo ed
esercizio per essere apprese: la conoscenza interculturale, le nozioni di psicologia
e antropologia, i concetti di linguistica ed analisi del discorso, ecc.
La conseguenza più grave di questa mancanza di riconoscimento è senza dubbio
l’uso di (pseudo)interpreti reclutati ad-hoc, tema sul quale ci soffermeremo più
diffusamente nel prossimo sotto-capitolo.
Portando questa analisi su un piano più avanzato (e rimanendo comunque su un
piano generico, visto che in alcuni paesi, seppur pochi, la situazione è decisamente
migliore) dobbiamo constatare che è vero che di questi corsi di formazione non si
riconosce come si dovrebbe l’importanza, ma lo è anche che essi non sono poi
così diffusi e/o di livello qualitativo sufficiente a causa di un altro concetto chiave,
cioè la mancanza di supporto finanziario. Il fatto poi che i servizi pubblici non
possono e non riescono a pagare adeguatamente un professionista di certo non
sprona e non favorisce l’investimento nei programmi di training. Come sottolinea
anche Rudvin (2006a:64) i finanziamenti pubblici per il settore sociale sono in
continuo calo e, tra le molte urgenze dei servizi sociali, l’interpretazione di
comunità ha una priorità davvero bassa.
Purtroppo bisogna ammettere che tutto questo sistema è un circolo vizioso: se non
ci sono investimenti, non ci sono corsi di qualità, e viceversa. Se non ci sono corsi
57
di qualità che garantiscano uno sbocco su un mercato lavorativo allettante e
capace di accogliere dei professionisti e di assumerli e pagarli come tali, gli
studenti non saranno invogliati a frequentare corsi lunghi e costosi. Tutto ciò
ovviamente va a influire sul livello della didattica, che a sua volta influisce sulla
ricerca. E se non ci sono esperti che fanno ricerca, non c’è evoluzione e
normalizzazione per l’attività. Ci troviamo di fronte ad una serie di eventi e
circostanze concatenate, che sono l’una la concausa dell’altra, ma se si vuole dare
una svolta alla professione per consentirne lo sviluppo e la successiva piena
professionalizzazione, il primo anello da rompere in questa catena è quello del
riconoscimento della necessità del training per gli interpreti. Se venisse
ufficialmente ed universalmente riconosciuta la necessità di una fase educativa
nella carriera degli interpreti, sicuramente l’offerta formativa si evolverebbe in
quantità e qualità (se non altro, in termini puramente commerciali, come risposta
ad una richiesta di mercato), il che a sua volta innalzerebbe il livello qualitativo
dell’attività, della didattica e della ricerca. Per ricollegarci alla metafora di prima,
il cambiamento di uno solo di questi fattori servirebbe all’inversione del circolo
vizioso, cambiando il trend in positivo; bisogna pur trovare il punto da dove
iniziare, e la questione della formazione sembra appunto quello adatto.
b) Mancanza di una fase di formazione pre-professionale obbligatoria per i
praticanti 
Un altro fattore che di certo non aiuta lo sviluppo dei corsi educativi per interpreti
è che il training pre-professionale non è un requisito obbligatorio. La relazione coi
due elementi appena citati, cioè il disconoscimento della necessità del training e la
mancanza di fondi economici, appare immediatamente ovvia e molto stretta.
Sempre secondo Hale (2007: 166-167) ci sono parecchie ragioni che giustificano
la necessità di rendere obbligatoria per gli interpreti di comunità l’educazione preprofessionale:
-
Per offrire un servizio di qualità ed evitare potenziali conseguenze negative
derivanti da una traduzione incompetente o errata
-
Per assicurare il diritto basilare ad un equo accesso ai servizi anche per coloro
che non parlano la lingua del paese ospitante
58
-
Per risolvere i molti problemi derivanti dalla diffusa pratica delle assunzioni
ad hoc
-
Per sfruttare la funzione sociale e favorire il miglioramento dello status
professionale, per come viene percepito sia dagli interpreti stessi sia dagli
altri professionisti con i quali si trovano ad operare
Pertanto bisogna anche ammettere che molte delle manchevolezze degli interpreti
non possono essere inputate direttamente a loro, ma ad un sistema che ha reso
possibile praticare la professione senza nessun training formale obbligatorio o test
per promuovere le eccellenze di competenze tecniche (ibidem:166).
c) Carenza di programmi di formazione di livello adeguato e
d) Carenza di qualità e di efficacia nel training 
La mancanza di uniformità nel sistema si riflette in concreto anche nel settore dei
corsi di formazione. Nella maggior parte dei paesi non essendoci nessuna forma di
obbligatorietà, scopo e durata dei corsi sono molto variabili. I tipi di insegnamento
per il community interpreting spaziano dai corsi (di durata varabile), alle singole
materie universitarie da scegliere facoltativamente all’interno di un corso di
laurea, ai veri e propri corsi di laurea di vario grado. Purtroppo a livello
universitario molte volte il community interpreting viene inteso come materia di
approccio allo studio del conference interpreting. Bisogna poi tenere in conto che i
corsi sono organizzati non solo da enti accademici ma anche da varie associazioni,
da organizzazioni non governative, da federazioni di interpreti praticanti e altri
istituti, e non sempre è facile riconoscerne la validità, la serietà e l’ufficialità,
soprattutto a fronte di un investimento economico tutt’altro che irrisorio. In
generale, afferma Hale (ibidem:168) i corsi sono di breve durata, superficiali e
informali; rappresentano quindi una misura “tappabuchi”, visto che ci vorrebbero
provvedimenti più duraturi nel tempo e dettagliati per rispondere ai bisogni
educativi degli interpreti.
A proposito Niska (2002:139) suggerisce che l’organizzazione dei corsi deve
essere una materia piuttosto flessibile, per venire incontro alle necessità che si
possono presentare in caso di intensi flussi migratori, per esempio. In caso di
immediato bisogno, sei settimane potrebbero essere già troppe per mettere in piedi
un corso in una lingua “nuova”, per la quale non si è mai fornito il servizio di
59
interpretazione. Ma specialmente noi italiani dovremmo sapere che il caso
paventato da Niska non è poi così utopistico, visto che in caso di guerre o
emergenze umanitarie, specialmente nel paesi del Sud del mondo, possono
avviarsi incontrollabili migrazioni di popolazioni che parlano lingue veramente
poco diffuse. Secondo l’autore, più in generale i corsi per interpreti di comunità
devono essere caratterizzati da flessibilità e innovazione, e non è sempre detto che
l’istituzione che meglio può garantire questi requisiti sia l’università. Nei casi dei
corsi accademici, comunque, i dipartimenti di lingue dovrebbero stabilire un
intenso rapporto di cooperazione con le altre facoltà (come giurisprudenza,
psicologia, ecc.) per garantire un corso completo e multidisciplinare, che tenga
conto delle necessità del mercato lavorativo, di quelle degli studenti e delle risorse
disponibili. Anche Roy (2000:125) concorda sulla necessità di una preparazione
interdisciplinare, partendo dal presupposto che il significato di un messaggio non
è un concetto monolitico e bisogna pertanto allenare gli studenti a riformulare e
ristrutturare i messaggi tenendo sempre conto anche delle implicazioni non
linguistiche contenute in essi e analizzando i modelli comunicativi. È ora di
evolversi dalla visione che l’interpretazione di comunità sia una competenza
aggiuntiva ai programmi di studio delle lingue straniere, di traduzione o di
interpretazione di conferenza.
Niska sostiene anche (2002:144) che i corsi per community interpreting
dovrebbero tener conto anche della forte componente emozionale del lavoro,
preparando gli interpreti ad affrontare situazioni di gran stress emotivo (per
esempio nel caso si lavori con bambini malati, rifugiati politici, malati terminali,
ecc.) ed a gestirle come se fossero un’altra delle componenti del loro mestiere.
Altrettanto interessante, sempre seguendo il ragionamento di Hale (2007:169), è
affrontare il problema dalla prospettiva opposta, ovvero quella di chi deve
organizzare questi corsi. Le difficoltà principali con cui gli enti organizzatori
devono confrontarsi sono tre: assumere insegnanti adeguatamente qualificati (ma
finché la materia non assume contorni più definiti, è difficile trovare personale
con un rilevante bagaglio accademico e di ricerca); attrarre studenti con adeguate
competenze bilingue e biculturali (spesso succede che i soggetti potenzialmente
più dotati non siano attratti da un’attività con stipendi bassi, limitate opportunità
professionali e sfavorevoli condizioni di lavoro); stabilire i contenuti più rilevanti
60
e le metodologie di insegnamento più proficue in base a limiti temporali ed
economici.
Secondo un sondaggio dell’Unione Europea (in Niska 2002:137) le agenzie di
servizi di interpretazione ritengono che gli aspiranti interpreti dovrebbero
dimostrare di possedere una serie di qualità, riportante schematicamente nella
figura seguente:
Come possiamo vedere, due entrate su cinque sono correlate alle competenze
strettamente linguistiche, mentre le altre tre sono di tipo socio-psicologico, ad
ennesima dimostrazione di quante implicazioni contenga il ruolo del community
interpreter e di quanto sia importante, per affrontarlo al meglio, avere una solida
preparazione sia teorica che pratica.
“Formazione” è un concetto abbastanza generico nel quale sono inclusi sia la
formazione ed educazione degli studenti che saranno poi futuri interpreti, che dei
loro insegnanti, che, nel caso più estremo, dei loro clienti (§ 2.1). Ovviamente
quando si pensa alla fase educativa, viene spontaneo pensare agli studenti, ma non
bisogna tralasciare il fatto che questi hanno bisogno anche di una serie di altri
fattori che li aiutino nel diventare buoni professionisti, ovvero bravi insegnanti e
futuri co-partecipanti degli eventi comunicativi preparati e a loro agio con la
presenza dell’interprete.
Corsellis si è occupata approfonditamente della formazione dei dipendenti
pubblici che si trovano a collaborare con gli interpreti (1997)53; la sua analisi parte
53
Corsellis A. (1997), “Training needs of public personnel working with interpreters”, in R.
Roberts, S. Carr, A. Dufour e D. Steyn eds. (1997), The Critical Link: Interpreters in the
Community. Amsterdam and Philadelphia, John Benjamins Publishing Company: 77-89
61
dalla constatazione che il presente e il futuro sono fatti di relazioni tra gruppi
diversi, che non condividono lingua e cultura, dentro uno stesso paese, mentre
fino al secolo scorso la storia era fatta di relazioni tra paesi (ibidem:88). Questo
sta a significare che gli eventi mediati diventeranno sempre più una consuetudine,
non un’eccezione relegata solo ad alcuni ambiti come l’accoglienza degli
immigrati, e tanto gli interpreti stessi quanto tutte le persone che si trovano a
lavorare con loro devono essere preparati a questo fatto. Anche i dipendenti dei
servizi pubblici, perciò, devono prendersi la loro parte di responsabilità, ma per
farlo hanno bisogno anch’essi di conoscere la materia e di sapere come interagire
al meglio con gli interpreti, e ciò potrebbe avvenire, per esempio, progettando dei
corsi di formazione specifici per questa categoria. Secondo Corsellis (ibidem:78) i
requisiti principali per i dipendenti pubblici sono i seguenti quattro:
-
Apprendimento del processo comunicativo che ha luogo durante la
comunicazione in una lingua condivisa: il personale deve sapere come
utilizzare al meglio sintassi, vocabolario e registro e adattarli al tipo di
situazione per contribuire al successo di un evento mediato
-
Apprendimento e messa in pratica del processo comunicativo richiesto per
lavorare con, e attraverso, gli interpreti: attraverso l’interprete il personale
deve non solo fornire una codifica chiara del messaggio ma anche chiedere e
dare informazioni, negoziare le decisioni, ecc.
-
Apprendimento e messa in pratica delle modalità di adattamento dei servizi
alle necessità e alle attitudini degli individui che possiedono un diverso
background linguistico e culturale: il personale deve imparare a riconoscere
queste differenze culturali e linguistiche, a rispettarle ed a relazionarvici in
maniera corretta
-
Apprendimento e pratica nell’organizzazione e nella pianificazione necessari
per supportare l’erogazione del servizio attraverso lingue e culture differenti:
il servizio di interpretazione deve essere considerato come parte integrante
della struttura.
Questo tipo di formazione si rivela assolutamente necessaria in quanto
contribuisce alla qualità e all’efficacia del servizio di interpretazione; purtroppo
spesso volte viene sottovalutato il fatto che un’interpretazione incompleta o
inaccurata non solo danneggia il cliente (che già parte da una posizione di
62
svantaggio per il fatto di non conoscere la lingua) ma anche i dipendenti pubblici,
la cui professionalità può essere compromessa. A questo proposito Corsellis
afferma (ibidem:79): “not to provide public personnel with the necessary training
and facilities to do their jobs is unfair to them as well as to the clients, and is bad
management”.
Spesso succede che questi corsi di formazione per i co-partecipanti dell’evento
mediato vengano tralasciati specialmente per mancanza di fondi economici; se si
potesse però calcolare il costo delle traduzioni insoddisfacenti e degli errori e
incomprensioni da esse causate, si capirebbe che sarebbe molto più alto del costo
preventivato per evitarli sin dall’inizio attraverso una formazione preventiva
efficace. Corsellis individua un percorso che consentirebbe di preparare i
dipendenti pubblici ad affrontare gli eventi mediati; gli insegnamenti da fornire
loro sono schematizzati in tappe (ibidem:82-83):
ricercare informazioni sui clienti e sulle loro esigenze
andare incontro alle differenti necessità
riguardo al servizio
adattare il servizio per
fornire informazioni accessibili
scambiare informazioni e negoziare le decisioni
erogare il servizio e monitorarne l’attuazione
garantire la qualità del servizio
La chiave di volta di tutto questo processo è riuscire a far capire ai servizi ed alle
istituzioni pubblici che sono loro a dover fornire questo tipo di formazione per i
loro dipendenti poiché questo va nel loro interesse e a loro vantaggio; con un
percorso educativo si possono evitare conseguenze e costi molto più gravi,
pensiamo per esempio a quelli derivanti da un errore o un’incomprensione durante
una trattativa medica riguardo una diagnosi o un intervento chirurgico di seria
entità. Il fine principale è evitare la cosiddetta “unholy trinity” (ibidem:86):
personale con capacità inadeguate al quale viene fornita una preparazione
insufficiente e un salario basso e non equo. Un miglioramento generale della
situazione, del livello della qualità e dei salari fungerebbe sicuramente da
incentivo e da sprono per il personale dei servizi pubblici, che così si sentirebbe
più capace, più utile e più attivo. Tutto questo, sottolinea Corsellis, deve essere
visto non come un sogno utopico ma come la risposta concreta a una realtà
crescente.
63
Purtroppo la constatazione che sorge da queste riflessioni è che sono tutte
accomunate da uno stesso punto, che impedisce l’attuazione anche dei progetti
sulla carta più promettenti: il fattore economico, o meglio la mancanza di fondi e
finanziamenti per sostentare quelle iniziative che andrebbero a migliorare di molto
la situazione del community interpreting. Ma dall’altro lato è vero anche che
finché non ci si sforza di apportare miglioramenti che non richiedano l’intervento
del denaro, sarà sempre più difficile rendere il community interpreting un ambito
interessante per gli investimenti, pubblici o privati che siano.
3.1.1
La formazione in Italia: il caso di Forlì e Trieste
In Italia la situazione riguardante la formazione degli interpreti di comunità è
alquanto vaga e discordante, come lo è, d’altronde, lo stesso ruolo dell’interprete e
il suo impiego nei servizi pubblici. Navigando in internet o attraverso associazioni
private si possono trovare tanti corsi, da svolgere anche a distanza o online, dei
quali però è difficile stabilire l’effettivo valore o la validità. A livello accademico
si registra la tendenza alla creazione di corsi di laurea in mediazione linguistica,
nonché all’adattamento a queste tendenze da parte di preesistenti corsi in lingue e
letterature. Come ricorda Rudvin (2006a:62) si trovano corsi di mediazione
linguistica anche in facoltà non di Lingue, ma naturalmente essi tendono a
focalizzarsi sulle materie non linguistiche (diritto, economia, relazioni
internazionali, ecc.) ma si concentrano meno sulle competenze e sulle tecniche
linguistiche specifiche degli interpreti. In altre parole, è davvero difficile trovare
un corso bilanciato dove le materie linguistiche e non abbiano il giusto peso e la
giusta considerazione. Luatti e Insero (in Garzone 2009:112) 54 osservano che si è
ormai creata una “confusione terminologica, […] dando luogo in alcuni casi a una
coincidenza di denominazione a fronte di una divergenza di funzioni”.
Ciò è dovuto senza dubbio alla mancanza di uno standard nazionale e anche alla
confusione tutta italiana che c’è intorno al ruolo dell’interprete di comunità, a cui
54
Garzone G. (2009), “L’interprete e il mediatore: aspetti deontologici”, in D.R. Miller e A. Pano
eds. (2009), La geografia della mediazione linguistico-culturale, Bologna, d.u. press: 97-116;
disponibile a: http://amsacta.cib.unibo.it/2626/3/Volume_121109.pdf (ultimo accesso 12/07/2012).
64
viene spesso sovrapposto o sostituito quello di mediatore culturale e linguistico.
Anche volenti, non possiamo dilungarci troppo sulla definizione di mediatore
perché non è per nulla chiara e spesso assume contorni diversi a seconda
dell’ambito in cui è impiegata; tenteremo di fornirne una spiegazione più chiara in
5.3.
Sempre
sull’argomento,
Garzone
spiega
(ibidem:13)
che
spesso
l’interpretazione di comunità viene considerata inclusa nella macro-categoria della
“mediazione linguistica e culturale, espressione utilizzata a comprendere sotto
un’unica etichetta numerose attività professionali diverse, dalla traduzione
all’interpretazione di trattativa […], dall’interpretazione in ambito giudiziario a
quella in campo sociale”.
Le uniche due scuole statali di livello universitario che offrano una reale
preparazione per gli interpreti sono le Scuole Superiori di Lingue Moderne per
Interpreti e Traduttori di Trieste e Forlì. In entrambe le scuole troviamo un corso
di laurea triennale più generico, Comunicazione Interlinguistica Applicata a
Trieste e Mediazione Linguistica Interculturale a Forlì. Nella prima, che ha come
scopo “la gestione di informazioni scritte e orali di tipo culturale e tecnicoaziendale, in tre lingue straniere55”, le attività formative sono molto variegate e
comprendono attività linguistiche, traduzione, interpretazione di trattativa e
insegnamenti sociolinguistici, economici, giuridici, geografici ed informatici.
Nella seconda, “finalizzata a fornire adeguata conoscenza dei metodi, dei
contenuti culturali e scientifici e delle competenze proprie dell'ambito delle lingue
straniere, della mediazione linguistica, dell'interpretazione di trattativa e della
traduzione, secondo la normativa nazionale e comunitaria”56, le attività formative
sono molto concentrate sulle conoscenze, competenze, capacità ed abilità
linguistico-comunicative e sulla loro applicazione a livello sia orale che scritto,
ma anche sulle conoscenze e competenze storico-culturali ed economicogiuridiche, letterarie, interculturali e socio-antropologiche. Entrambe le facoltà
danno ampio risalto all’interpretazione di trattativa.
Per quanto riguarda Trieste, nel corso di laurea magistrale, che per l’appunto si
chiama Traduzione Specialistica e Interpretazione di Conferenza, scompare
55
Fonte: http://www.sslmit.units.it/CD2
Fonte:
http://corsi.unibo.it/Laurea/MediazioneLinguisticaInterculturale/Pagine/Presentazione.aspx
56
65
l’attività sul community interpreting. Forlì invece offre due lauree magistrali, una
in Traduzione Specializzata e l’altra in Interpretazione, che prevede “la
formazione di una figura professionale (interprete) con elevate competenze
traduttive per la comunicazione translinguistica orale, che vengono sviluppate
inglobando settori operativi della sfera politico-istituzionale, economico-giuridica,
tecnologico-scientifica, interculturale57”; basta però esaminare il piano didattico
per rendersi conto che l’attenzione principale è rivolta all’interpretazione di
conferenza.
La caratteristica comune di tutti questi corsi, però, è l’accesso a numero limitato:
senza dubbia questa è una misura necessaria a mantenere il livello degli studenti e
la qualità dell’insegnamento molto elevati, ma dall’altro canto bisogna anche tener
presente che non vengono ammessi più studenti o non vengono offerti più corsi
fondamentalmente per mancanza di fondi economici.
La conclusione lampante che nessuna di queste due facoltà triennali si dedica
specificatamente all’interpretazione di comunità e per i servizi pubblici. Inoltre
entrambe sono molto concentrate sugli aspetti puramente linguistici e tecnici
dell’interpretazione, come è giusto che sia, mentre sono un po’ trascurati gli
aspetti extra-linguistici dei quali finora abbiamo sottolineato la fondamentale
importanza. Il nocciolo della questione è che solo le Scuole Superiori di Lingue
Moderne per Interpreti e Traduttori possono offrire le competenze e le risorse per
insegnare interpretazione ad alto livello, anche se ancora non sono presenti
insegnamenti o corsi specificatamente dedicati al settore dell’interpretazione di
comunità; nonostante le pecche che ancora dimostrano, sarebbero comunque il
punto di partenza più indicato per un progetto ad ampio respiro che abbia come
finalità l’istituzione dell’obbligatorietà del training per i futuri interpreti di
comunità professionisti. Potrebbero cioè essere identificate come gli enti
accademici in carico di selezionare, formare ed infine accreditare gli studenti che
vogliono diventare interpreti.
57
Fonte:
http://www.ssit.unibo.it/SSLMiT/Didattica/LaureeMagistrali/2012/PaginaCorso20128060.htm?tab
=Presentazione&subtabPresentazione=Obiettivi
66
3.2
L’impatto della tecnologia
Negli ultimi anni la tecnologia è entrata di prepotenza nelle vite di tutti e la sua
presenza e la sua rilevanza sono sempre più in crescendo. Ormai la nostra
generazione “2.0” non può più fare a meno di tante accortezze e tanti strumenti
che sono entrati inevitabilmente anche in ambito lavorativo. Senza dubbio i primi
esempi che ci vengono in mente sono i computer e la rete internet, dei quali è
davvero difficile fare a meno oggigiorno, se non si vuole restare tagliati fuori da
questo mondo che corre all’impazzata.
La rivoluzione tecnologica ha colpito anche il mondo della traduzione e
dell’interpretazione, specialmente del loro apprendimento e insegnamento.
Mikkelson (1999:4)58 ha stilato una lista di pro e contro sull’utilizzo delle più
recenti tecnologie da parte di interpreti e traduttori davvero molto interessante;
questi sono i pro:
o Eliminano la parte più noiosa del lavoro, permettendo agli interpreti di
essere più creativi
o Aumentano la produttività traduttiva
o Grazie all’aumento di produttività, si possono tradurre molte più cose di
quanto fatto fino ad oggi
o Permettono ad interpreti e traduttori di raggiungere e servire clienti in tutto
il mondo, invece che essere confinati solo nel mercato locale
o Aumentano la disponibilità di servizi di traduzione ed interpretazione nelle
lingue meno diffuse (LLDs)59, accrescendo le opportunità di lavoro per
interpreti e traduttori di queste lingue
o Creano figure lavorative che prima non esistevano (esperti di software
localization60, doppiatori, sottotitolisti, ecc.)
E questi sono i contro:
58
Mikkelson H. (1999b), Plus ça change ...The Impact of Globalization and Technology on
Translator/Interpreter Education, disponibile a: http://www.acebo.com/papers/pluschng.htm
(ultimo accesso: 24/09/2012)
59
Languages of lesser diffusion
60
Consiste nell’adattamento di un prodotto software ai requisiti linguistici, culturali e tecnici del mercato
di riferimento
67
o Eliminano l’aspetto umano del contatto faccia a faccia e la conoscenza del
mercato e delle imprese locali
o Aumentano la competizione da parte di provider più economici dei paesi
del terzo mondo
o Le scadenze sono sempre più ristrette e le aspettative per un risultato
pressoché istantaneo più elevate
o Le aspettative degli stessi interpreti e traduttori sono più alte, perciò si
diventa subito impazienti per piccoli problemi come la connessione
internet lenta o una lunga attesa per il download di un file
o Gli interpreti, e specialmente i traduttori sono così dipendenti dai computer
che quando essi si bloccano o va via la corrente, non possono
semplicemente tornare a carta e penna
Questo elenco riflette una certa vena ironica dell’autrice ma permette di cogliere
immediatamente un aspetto molto interessante della tecnologia: il suo ingresso nel
mondo del lavoro per gli interpreti è stato senza dubbio un vantaggio, in termini di
velocità, produttività e disponibilità di materiale, dizionari online, banche date,
forum e blog per esperti, ecc.; ma è vero anche che in un certo senso questi
“aiutini” sembrano aver semplificato completamente il lavoro, trasformandolo in
un attività meccanica e pertanto iper-veloce.
Setton (2007:53)61 ritiene che l’ingresso delle nuove tecnologie abbia aperto le
porte alla possibilità che il lavoro dell’interprete diventi “dehumanised,
instrumentalised and detached from reality”. Inoltre l’ubiquità della tecnologia,
specialmente nel campo della comunicazione, ha riportato in auge la promessa che
la traduzione automatica è un’innovazione vicinissima. A questo proposito,
Mikkelson si dimostra contraria dichiarando (1999b:4) che la traduzione
meccanica migliorerà sempre più ma non potrà mai arrivare a lavorare
autonomamente, visto che ci vorrà sempre un controllo umano che vada a
correggere quei bizzarri errori che i computer fanno. Come spiega anche Setton
(2007:61) la traduzione meccanica fu accolta inizialmente con grande entusiasmo,
ma altrettanto disappunto accolse la constatazione che anche le più sofisticate
61
Setton R. (2007), “Staying relevant: interpreting in the information age”, in F. Pöchhacker, A.
Lykke Jacobsen and I. M. Mees eds. (2007), Interpreting Studies and beyond, Frederiksberg :
Samfundslitteratur press: 53-71
68
tecnologie non possono simulare e ricreare il processo integrativo secondo il quale
lavora il cervello umano.
Setton prosegue categorizzando la comunicazione in “intentional human” e
“stimuls-driven human”, spiegando come la comunicazione umana sia
inferenziale e necessiti di contesto per assumere pieno significato (ibidem:68). Il
cervello umano opera tramite inferenze che permettono di cogliere il significato
esplicito delle frasi e questo è un sistema che una macchina non sarà mai in grado
di replicare, non essendo in grado di capire ed interpretare i tantissimi aspetti non
verbali della comunicazione che sappiamo essere fondamentali per una perfetta
comprensione del messaggio. Il processo inferenziale è automatico ed inconscio,
perciò non ci accorgiamo di come funzioni. La conclusione a cui arriva l’autore è
che l’impatto delle tecnologie nel mondo dell’interpretazione è innegabile e
inarrestabile poiché parte integrante della società, ma vi si può reagire (ibidem:71)
o con l’adattamento (abituandosi ad essere sempre più alienati dalla realtà o
riciclandosi in un’altra professione) o con l’unificazione (accettando il
compromesso e diversificandosi nelle nuove forme di interpretazione di cui le
nuove società e le nuove lingue emergenti hanno bisogno).
Un’altra modalità che si sta diffondendo negli ultimi anni è l’interpretazione da
remoto (via telefono o video), in cui l’interprete si basa ovviamente solo
sull’aspetto linguistico e verbale della comunicazione per tradurre il messaggio.
Secondo Setton (ibidem:61), gli studi più recenti confermano che il remote
interpreting è stressante, alienante e demotivante, e ciò non giova certo all’aspetto
qualitativo. Le moderne tecnologie potrebbero intervenire trovando un sistema per
mostrare all’interprete anche il luogo dove avviene l’incontro mediato, per
permettergli di cogliere anche le informazioni non verbali. Ma anche se la qualità
del suono e delle immagini sono di altissimo livello, essere non possono certo
sostituire la presenza fisica ad un incontro. L’interpretazione da remoto
rappresenta una buona scelta, secondo Niska (2002:142), per risolvere
velocemente casi non troppo complessi o per trovare facilmente un interprete di
lingue a scarsa diffusione.
L’uso delle tecnologie risponde anche alla nascita di nuove esigenze: in un mondo
globalizzato che è sempre più veloce ed esigente, e che si sta aprendo anche a
69
nuove regioni e mercati emergenti grazie ai recenti cambi geo-culturali e politici,
interpreti e traduttori sentono su di sé pressione e responsabilità crescenti. Per
rispondere tempestivamente a questi bisogni, spesso si rivolgono alle nuove
tecnologie, anche a discapito della fedeltà al testo originale e della completezza
traduttiva. Le tecnologie hanno quindi invaso anche il campo della didattica;
pensiamo per esempio al caso delle università online, una modalità di
insegnamento che è davvero esplosa a partire dalla fine degli anni Novanta.
Anche il traning per l’interpretazione ha subito degli sviluppi tecnologici, anche
se, per forza di cose, l’impatto è stato minore rispetto a quello sulla traduzione.
Affrontando il tema dell’istruzione universitaria, Mikkelson (1999b:6) sottolinea
come essi influiscano non solo nella strutturazione delle facoltà, ma anche
nell’aggiornamento continuo di campus e laboratori. I curricola proposti dalle
varie università devono sapersi adattare alle richieste di mercato e alla realtà dei
budget limitati, preparando gli studenti anche per le più moderne modalità di
interpretazione (videoconferenze, doppiaggio…) e per i nuovi ambienti di lavoro.
Per approfondire in concreto questa analisi, è molto interessante esaminare il caso
di un vero progetto svoltosi all’Università di Hull per integrare i software
multimediali nell’insegnamento del community interpreting, presentato da
Sandrelli (2002)62. Questo progetto, finanziato peraltro dall’Unione Europea,
prende come presupposto base il fatto che l’uso del computer non debba sostituire
la consueta interazione studente-professore, ma piuttosto essere complementare ad
essa, per aiutare gli alunni nell’esercizio personale che fanno a casa, per il quale
spesso non hanno materiale di studio adatto. L’uso di un software per
l’apprendimento si rivela molto utile in quanto gli studenti possono imparare a
controllare come utilizzano la lingua, a sapersi auto-valutare, a gestire l’ansia e lo
stress che sono invece invitabili nelle performance in classe davanti all’insegnante
ed ai propri compagni ed a controllarsi autonomamente nell’apprendimento
(ibidem:191). Questo software sperimentale ha mostrato dunque qualche difetto
ma anche molti margini di miglioramento; una volta stabilito il funzionamento
base, sarà possibile aggiungere nuove lingue da apprendere, ricavarne una
applicazione web che gli studenti potrebbero utilizzare online da casa o evolverlo
62
Sandrelli A. (2002), “Computers in the training of interpreters: curriculum design issues”, in G.
Garzone, P. Mead e M. Viezzi eds. (2002), Perspective on interpreting, Bologna, Clueb: 189-203
70
di modo che possa essere usato da due studenti in contemporanea, per simulare
situazioni reali e sviluppare le doti di teamwork tra colleghi. Inoltre potrebbe
essere utilizzato come contributo alla ricerca accademica, trasformando gli
esercizi degli studenti in materiale sperimentale. Questo tentativo pioneristico ha
dunque dimostrato che i computer e le tecnologie possono avere un ruolo molto
utile nell’insegnamento dell’interpretazione, anche se ancora necessitano di
modifiche e ulteriori sviluppi. L’importante è non dimenticare che questo
“courseware”, cioè questo materiale educativo aggiuntivo, dev’essere un valore
aggiunto ai tradizionali metodi educativi, perché, come dicevamo in precedenza,
ci sono automatismi della mente umana che una macchina non riuscirà mai a
riprodurre né a insegnare.
3.3
I rischi dell’impiego di interpreti ad hoc
Nel corso dell’elaborato è capitato di citare qualche volta casi in cui l’evento
mediato fosse affidato non a professionisti ma a persone “casuali”. Con il termine
“ad hoc” si intende appunto qualsiasi persona chiamata ad interpretare, ma non
allenata né preparata per farlo. L’interprete ad hoc può essere un paziente o un
amico del cliente, un membro bilingue dello staff del servizio pubblico che ha
richiesto l’attività di interpretazione, un volontario (spesso accede negli ospedali)
o anche una persona totalmente estranea all’evento mediato ma che viene
contattata in quando conoscitrice della lingua. Pöchhacker ha coniato un termine
che rende davvero bene l’idea dell’ultimo caso citato (Garzone, Rudvin
2003:140): “ the hospital cleaner syndrome”, cioè la tendenza, purtroppo molto
diffusa ovunque, a ricorrere a persone totalmente estranee alla professione di
interprete, che vanno dal personale delle pulizie, all’uomo che ha il negozio di
kebab in fondo alla strada, all’amico di amici. Purtroppo questa tendenza è
giustificata dal fatto che in molti paesi, tra cui l’Italia, gli interpreti non sono quasi
mai membri permanenti di uno staff ma vengono contattati in base alle esigenze.
Specialmente per le lingue a minor diffusione può succedere che conoscere la
lingua sia un criterio sufficiente per essere “assunto” come interprete. La
consapevolezza della necessità dei servizi linguistici è al minimo ed ha una
71
priorità bassissima, principalmente a causa del costo. Un sondaggio svolto nella
civilissima Svizzera da Bischoff e Hudelson nel 1999 ha scoperto che nel settore
della sanità solo il 17% dei servizi aveva accesso a interpreti professionisti, e
l’assistenza linguistica era basata per lo più su parenti (79%), staff bilingue (75%)
e staff non medico (43%)63. Per fortuna ad oggi la situazione, almeno in Svizzera,
è piuttosto migliorata, ma i dati rilevati non smettono di essere significativi.
La comunicazione mediata è piena di insidie perfino per gli interpreti
professionisti, figuriamoci per una persona totalmente estranea alla materia. In
base
a
quanto
dichiarato
da
Rudvin
(2006a:61)
una
scarsa
qualità
dell’interpretazione, dovuta all’uso di interpreti ad hoc per tagliare i costi, ha un
impatto estremamente negativo sia sull’evento mediato che sull’interprete stesso,
che si sento frustato e caricato di grandi aspettative che non è in grado di
sopportare; per quanto egli abbia accettato il ruolo magari per fare un favore o
rendersi utile, al contrario realizza che la sua presenza e il suo intervento non solo
non sono utili ma rischiano di fare danni. L’interprete ad hoc, magari guidato dalla
volontà di fare la cosa giusta per aiutare un amico, un parente o un conoscente,
basa le sue deduzioni su intuizioni morali (Angelelli, Agger-Gupta, Green e
Okahara 2007:169)64, che però sono fortemente legate alla propria cultura di
appartenenza e che quindi gli fanno avere una visione monolitica della realtà,
mentre i professionisti sono allenati a tenere sempre in considerazione le diverse
culture e le eventuali caratteristiche discordanti.
Inoltre bisogna notare che gli interpreti ad hoc, anche se almeno teoricamente
potrebbero rivelarsi in grado di gestire la parte linguistica della comunicazione,
non sanno assolutamente affrontare le questioni non linguistiche, che possono
essere l’accuratezza, la riservatezza, la completezza, l’imparzialità; men che meno
sapranno reagire correttamente nel caso in cui vengano richiesti compiti non
necessariamente legati all’aspetto linguistico (compilare moduli, dare consigli,
63
Bischoff A. e Hudelson P. (2010), Access to Healthcare Interpreter Services: Where Are We and
Where Do We Need to Go?, International Journal of Environmental Research and Public Health 2010,
7(7), disponibile a: http://www.mdpi.com/1660-4601/7/7/2838/htm (ultimo accesso 3/09/2012)
64
Angelelli C. V., Agger-Gupta N., Green C.E. e Okahara L. (2007), “The California standards for
healthcare interpreters: ethical principles, protocols and guidance on roles and intervention”, in C.
Wadensjö, B. Englund Dimitrova and A. Nilsson eds. (2007), The Critical Link 4:
Professionalisation of interpreting in the community, Amsterdam and Philadelphia, John
Benjamins Publishing Company: 167-177
72
svolgere doveri amministrativi, ecc.), per i quali anche un professionista potrebbe
trovarsi in difficoltà. L’interprete ad hoc, dunque, corre il rischio di sentirsi ancor
più stressato e caricato di incombenze e ciò andrà ad aumentare il pericolo di una
cattiva comunicazione.
A livello di comunicazione, oltre allo stress l’interprete ad hoc potrebbe trovarsi
ad affrontare altre situazioni, come l’uso di linguaggi specifici (termini troppo
tecnici o al contrario troppo gergali), problemi di memoria, la gestione dei
conflitti tra gli interlocutori, il comando dei turni di parola, ecc. Sono tutti aspetti
molto complessi da gestire per chi non ha studiato né si è allenato a riguardo. Il
rischio di incomprensioni e di errori nella resa è sempre molto alto, e può essere
davvero pericoloso, specialmente nei casi di eventi mediati in ambito medico,
dove si parla anche di questioni di vita o di morte. Questi errori poi possono avere
conseguenze, oltre che sui clienti (che sono la parte più debole, visto che sono
quelli che di solito necessitano il servizio di interpretazione nei casi di community
interpreting), anche sugli stessi service providers, la cui reputazione o
professionalità può essere compromessa a causa del ricorso ad un interprete ad
hoc. Prendiamo per esempio il caso più palese, quello di una diagnosi sbagliata in
campo medico: non solo il paziente può rischiare dei danni o, nei casi più estremi,
la vita, ma lo stesso medico rischia sanzioni o provvedimenti disciplinari a causa
della sua diagnosi errata.
Risulta molto interessante, però, riportare anche un parere dissonante da tutte le
considerazioni fatte fin qui e piuttosto insolito, quello di Meyer (2007: 10-11)65.
L’autore non ha una visione poi così negativa della pratica dell’interpretazione ad
hoc, che è considerata una misura intelligente per contrastare la mancanza di
professionisti disponibili nei servici pubblici, sottolineando come i parenti o i
membri dello staff delle istituzioni si prestino volentieri e gratuitamente a svolgere
questo ruolo per obbedire ad una sorte di “dovere morale e sociale”. L’importante,
sempre secondo Meyer, è che ciò non avvenga in casi di emergenza e che le parti
siano sempre consapevoli che non si sta facendo ricorso ad un professionista,
sostenendo che non è sempre vero che tutti gli interpreti ad hoc traducono male e
65
Baylav A., Cesaroni F., Eversley J., Greenhalgh t., Harmsen H., Kliche O., Meuuwesen L.,
Meyer B. e Schouten B. (2007), Ad-hoc interpreting in health care, disponibile a:
http://www.tricc-eu.net/download/BICOM_Booklet.pdf (ultimo accesso 5/09/2012)
73
non
sono
professionali.
Pertanto la pratica del reclutamento di interpreti ad hoc non necessita di essere
abolita, visto il ruolo importante che ricopre. Queste affermazioni paiono
comunque un po’ azzardate ma offrono senza dubbio terreno per una discussione
ed un confronto.
Tuttavia Meyer afferma anche che le istituzioni pubbliche dovrebbero sviluppare
delle politiche riguardanti i diritti linguistici di tutti i cittadini e degli immigrati,
che per esempio prevedano corsi di formazione per il personale (specialmente
quello bilingue, più utile alla causa) e il dovere di affrontare la questione delle
differenze linguistiche come un problema della massima serietà. Ovviamente,
come già ricordato in precedenza, per risolvere i problemi riguardanti il ruolo
degli interpreti di comunità è necessario un intervento di tipo istituzionale che
stabilisca norme e regolamenti. Finché non saranno disponibili servizi di
interpretazione o interpreti assunti in pianta stabile, al momento della necessità si
continuerà a ricorrere a queste soluzioni-tampone. A questo proposito anche
Pöchhacker
(1999:135)
pensa
che
sia
praticamente
impossibile
che
l’interpretazione ad hoc, almeno nelle situazioni meno formali, scompaia del tutto
prima o poi, anche se così facendo il confine tra interpretazione amatoriale e
professionistica, sempre così sfocato, sarà sempre più difficile da stabilire.
74
CAPITOLO 4
LA QUESTIONE DELLA PROFESSIONALIZZAZIONE
Nei precedenti tre capitoli abbiamo affrontato – con la massima completezza che
l’elaborato permetteva di ottenere – tutte le controversie che ruotano attorno al
ruolo dell’interprete, alle sue competenze e ai suoi doveri, e spesso abbiamo
riscontrato come la causa di conflitti e confusione fosse la mancanza di standard e
regolamenti ben delineati e validi per tutti. Secondo Pöchhacker (1999:135), la
pluralità e la variabilità delle forze che cercano di dare forma al community
interpreting in un contesto nazionale ed istituzionale bloccano la strada agli sforzi
per stabilire uno standard uniforme di professionalizzazione per gli interpreti.
L’eterogeneità tipica di questa disciplina ancora una volta non favorisce gli intenti
di standardizzazione.
Ovviamente tutte le questioni preliminari che abbiamo già analizzato si
ripercuotono sul concetto di interprete in quanto professione, infatti il processo di
professionalizzazione è ancora in pieno svolgimento ed ha raggiunto livelli di
maturità diversi a seconda dei paesi. La necessità di raggiungere una completa
professionalizzazione del mestiere è indubbia, tuttavia è un processo non facile e
non lineare che si compone di più fasi: possiamo citare la normalizzazione, la
standardizzazione, la redazione di “codes of ethics”66, l’obbligatorietà della fase
formativa… Pöchhacker (1999:128) riassume il tutto in una domanda: “what
standards, then, how much training, and what level of pay will make community
interpreters professional?”. Senza dubbio la risposta non può essere imposta
dall’altro ma deve sorgere dalla riflessioni interattive di interpreti, clienti, service
providers, studiosi e ricercatori; l’opinione di tutti è utile e necessaria affinché il
processo di professionalizzazione prenda la strada dell’uniformità e della
condivisione.
66
Termine che in italiano può essere reso come “codici deontologici” o “codici di condotta”.
Nell’elaborato il lemma originale inglese e le rese in italiano sono usati indistintamente.
75
Pur considerando che il community interpreting è una materia relativamente
recente, non molto è stato scritto sulla professionalizzazione di questo tipo di
interpretazione. Basti pensare che il primo volume della celebre serie dei Critical
Link che si dedica esaustivamente a questa tematica è del 2007. Il dibattito è nato
nel corso degli anni Novanta e tra le prime ad essersene occupate in vari scritti
troviamo Wadensjö e Mikkelson; in seguito altri autori hanno affrontato il tema
ma non si può certo dire che esso sia uno dei più gettonati all’interno degli
Interpreting Studies. Ovviamente la poca letteratura a riguardo e il messaggio di
basso interesse che questa scarsezza trasmette non hanno certo aiutato il processo
di professionalizzazione; come già abbiamo avuto occasione di constatare, per le
materie con basi accademiche la ricerca e lo studio sono assolutamente
fondamentali per lo sviluppo. Per fortuna negli ultimi anni il tema è stato
affrontato con più frequenza e possiamo trovare interessanti opinioni a riguardo.
La chiave di volta che ha determinato, appunto, questo aumento di interesse può
essere riconosciuta nel fatto che, per dirla con Harris 67, la possibilità di poter
comunicare con “i poteri” (intendendo tribunali, polizia e gli altri componenti del
sistema-governo) sia progressivamente diventato un diritto piuttosto che una
concessione.
Lo sviluppo relativamente recente del community interpreting è da attribuirsi a
due fenomeni, strettamente connessi tra di loro, che ne hanno dato il via: la
globalizzazione e l’immigrazione. Negli ultimi decenni il mondo ha vissuto, e sta
tuttora vivendo, dei cambiamenti davvero radicali e drastici che ne hanno
cambiato gli equilibri e le dinamiche sociali e migratorie. Con i mezzi di trasporto
odierni in ventiquattro ore si arriva ad ogni capo del mondo, con i mezzi di
comunicazione si può essere in contatto in tempo reale con persone in ogni dove,
qualunque tipo di informazione è facilmente accessibile. In una sola frase la
globalizzazione può essere definita come “la crescente interconnessione di
persone e luoghi risultante dagli avanzamenti nelle tecnologie dell’informazione,
della comunicazione e dei trasporti, dalla sempre minore importanza delle barriere
e
delle
frontiere
nelle
relazioni
economiche
internazionali,
e
dalla
67
Harris B. (2000), “Foreword: Community Interpreting – Stage two”, in R. Roberts, S. Carr, D.
Abraham and A. Dufour eds. (2000), The Critical Link 2: Interpreters in the Community.
Amsterdam and Philadelphia, John Benjamins Publishing Company: 2-5
76
mondializzazione degli stili, degli schemi e dei modelli economici e legali che
portano alla convergenza politica, cultural ed economica tra paesi”68.
Va da sé che la globalizzazione è una delle cause scatenanti dei crescenti flussi
migratori: di solito si tendono sempre a ricordare gli effetti positivi della
globalizzazione (in particolare sui flussi di investimento, di beni e servizi) ma si
tende anche a dimenticare come questo fenomeno abbia acuito il divario tra il
Nord e il Sud del mondo, anche in quei paesi – per esempio i BRICS69 – che sono
in una fase di fortissimo sviluppo ma al contempo vivono terribili contraddizioni e
conflitti (tra una minoranza ricchissima e il resto della popolazione ancora in stato
di povertà) al loro interno. Possiamo stabilire che i moderni flussi di
immigrazione sono costituiti in gran parte da persone che fuggono dai paesi del
Sud del mondo (spesso a causa di guerre o persecuzioni religiose e/o politiche) e
riescono a raggiungere più facilmente di un tempo i paesi del Nord del mondo, a
causa del fatto che la globalizzazione ha favorito l’allentamento delle leggi
protezioniste ed anti-migratorie, basti pensare agli accordi di Schengen stipulati
dalla maggioranza dei paesi europei70.
L’effetto primario dei flussi migratori odierni è l’arrivo nei paesi ospitanti di
grandi quantità di persone che nella quasi totalità dei casi non conoscono la lingua
e che pertanto necessitano dell’intervento di un interprete ogni volta che si
trovano a doversi rapportare con le istituzioni; l’Italia è un esempio più che
calzante di questo tipo di avvenimento. Toledano Buendía così sintetizza il tutto:
“the global movement of populations and the resulting increase in the number of
multicultural societies has set in motion a process of community interpreter
professionalization that is being reflected in the emergence of educational
programmes, interpreters’ associations and accreditation systems” (2010:11)71.
Pertanto il crescente bisogno di servizi di interpretazione di comunità è una delle
68
Fonte:
Dipartimento
di
Scienze
Economiche
dell’Università
di
Bologna
http://www2.dse.unibo.it/ardeni/ES/Globalizzazione.htm
69
Brasile, Russia, India, Cina, Sudafrica
70
La legislazione dell’Unione Europea stabilisce la libera circolazione delle persone in base
all’accordo di Schengen nel 1985 e alla successiva convenzione di Schengen nel 1990, che
abolirono
i
controlli
alle
frontiere
fra
i
paesi
partecipanti.
http://europa.eu/legislation_summaries/justice_freedom_security/free_movement_of_persons_asyl
um_immigration/index_it.htm
71
Toledano Buendía, C. (2010), Community interpreting: breaking with the ‘norm’ through
normalisation,
The
Journal
of
Specialized
Translation,
http://www.jostrans.org/issue14/art_toledano.pdf (ultimo accesso: 11/02/2012)
77
concause che spinge lo sviluppo del processo di professionalizzazione, che a sua
volta fa emergere la necessità urgente di una standardizzazione per la professione
che stabilisca l’obbligatorietà di una fase formativa e la creazione di un sistema di
accreditamento.
La questione della formazione dell’interprete è stata presa in esame nel capitolo
precedente, studiando i motivi per cui è realmente necessaria e quali sono i rischi
che la sua assenza può causare. Tutto il movimento del community interpreting
deve affermare con forza e in comune accordo che la preparazione scolastica ed
educativa deve assolutamente essere obbligatoria per gli studenti che intendono
diventare interpreti; così come si diventa ingegneri solo studiando ingegneria,
anche gli interpreti devono poter diventare professionisti solo dopo aver studiato
interpretazione. Come afferma Toledano Buendía (2010:2) è importante stabilire
regole e norme per il community interpreting, affinché si possano garantire
indipendenza professionale e qualità della traduzione, e le università possono
giocare un ruolo molto importante nella fase di redazione delle norme, sia
fornendo in concreto la parte educativa sia aiutando a sviluppare la
consapevolezza di questa necessità.
Cordero (1994)72 ritiene che il ruolo delle università è ancora così controverso
perché molto spesso la necessità e l’efficacia dei corsi viene ancora contestata.
Finché sul mercato si troveranno così tanti interpreti che non hanno avuto una
preparazione specifica, o sono preparati in altre discipline (come diritto o
psicologia) e hanno solo nozioni linguistiche aggiuntive, non potrà emergere
chiaramente l’importanza fondamentale della preparazione pre-professionale.
Tutti i fattori extra-linguistici, dei quali abbiamo avuto modo di parlare diverse
volte nel corso dell’elaborato, sono ciò che distingue i corsi di interpretazione e
traduzione dai normali corsi di lingua (ibidem:173). La competenza linguistica
può essere frutto di anni di studio, o anche un elemento naturale, come nel caso
dei bilingui; al contrario gli altri fattori (saper analizzare e gestire il contesto, le
differenze culturali, l’andamento del discorso, ecc.) non sono mai innati, vanno
appresi ed interiorizzati, e devono entrare a far parte del bagaglio professionale
72
Cordero A (1994). “The Role of the University in the Professionalization of the Translator”, in
D. Hammond ed. (1994), Professional Issues for Translators and Interpreters, Amsterdam and
Philadelphia, John Benjamins Publishing Company: 171-179
78
degli interpreti. Secondo Cordero (ibidem:173) i fattori extra-linguistici
dovrebbero essere parte integrante dei corsi universitari in interpretazione e
traduzione e dovrebbero presentare due componenti: l’insegnamento di una reale
conoscenza generale dei contesti sociali, economici e culturali delle due lingue e
l’insegnamento di una conoscenza fattiva di altra discipline oltre a quelle
umanistiche.
Uno dei criteri che definiscono una vera professione è ciò che Cordero chiama “a
body of specialized knowledge”, vale a dire la conoscenza specializzata che
appartiene solo agli esperti in materia e che serve da fondamento scientifico ed
accademico (ibidem:176); è il fattore che maggiormente distingue una professione
e normalmente la si apprende in istituzioni accademiche (ibidem:177). A chi
contesta la troppa teoricità dei corsi universitari, Cordero risponde con la proposta
di inserire un tirocinio obbligatorio, possibilmente nell’ultimo semestre, per
permettere agli studenti di familiarizzare fin da subito con il mondo del lavoro e
con i futuri clienti. Nel capitolo precedente abbiamo discusso anche dei problemi
economici che ruotano intorno alla questione della formazione, ma secondo
quanto teorizzato da Cordero (ibidem:178), se la traduzione e l’interpretazione
fosse considerate professioni a pieno diritto, godrebbero di maggiore stima e
troverebbero più facilmente i finanziamenti, necessari per esempio per
organizzare i corsi di formazione, che la società riserva così volentieri alle altre
professioni di fatto. L’elemento negativo che non va trascurato è che,
sfortunatamente, finché non ci sarà chiarezza legislativa ed omogeneità tra i vari
corsi disponibili (a seconda di quale ente li organizza, della durata, dei
programmi, ecc.), l’università in quanto ente formativo pubblico non riuscirà a
dare il suo contributo in maniera esaustiva nel percorso di professionalizzazione
dell’attività di interpretazione.
79
4.1
Teorie sul processo di professionalizzazione
Prima di inoltrarci nell’analisi, è doveroso spiegare cosa si intenda per
professionalizzazione e professionalità. Tra le tante definizioni disponibili, quella
di Mackintosh (2007:45)73 è davvero chiara ed esaustiva:
It involoves a social process whereby people come together to engage in an activity
as a means of livelihood, inculcating a shared set of attitudes, values and
behaviours with a strong ethical base and involving the creation of an association
through which they can claim a professional identity. Its practitioners share a
clearly identificable and evolving body of knowledge, carried forward by ongoing
reflection and research and a common teaching paradigm.
Molto interessante si dimostra anche la definizione di Corsellis, Cambridge,
Glegg e Robson (2007:140)74, secondo i quali una professione è un gruppo di
persone che condividono un’esperienza comune e professano un codice di valori
con la finalità di proteggere i propri clienti, il corpus delle conoscenze in materia
ed i colloghi, e va ben oltre gli interessi personali dei suoi membri.
Per quanto riguarda l’ambito dell’interpretazione, Wadensjö (2007:2)75 stabilisce
un dualismo tra dilettantismo (inteso come forme di interpretazione non pagate e
non professionali) e professionismo, un po’ come succede nello sport. Inoltre
sottolinea che il processo di professionalizzazione della disciplina “implies a
range of individual and collective efforts, including struggles to achieve a certain
social status, suggestions to define standards of best practice, to control access to
professional knowledge – theoretical models and practical skills – and to control
education and work opportunities”. Webster, nel definire la professione
dell’interprete, sottolinea come essa richieda una preparazione lunga ed intensa
73
Mackintosh J. (2007), “Conference Interpreting as a profession and how it got that way”, in F.
Pöchhacker, A. Lykke Jacobsen and I. M. Mees eds. (2007), Interpreting Studies and beyond,
Frederiksberg : Samfundslitteratur press: 41-52
74
Corsellis A., Cambridge J., Glegg N. e Robson S. (2007), “Establishment, maintenance and
development of a national register”, in in C. Wadensjö, B. Englund Dimitrova and A. Nilsson eds.
(2007), The Critical Link 4: Professionalisation of interpreting in the community, Amsterdam and
Philadelphia, John Benjamins Publishing Company: 139-150
75
Wadensjö C. (2007), “Foreword. Interpreting professions, professionalization and
professionalism”, in C. Wadensjö, B. Englund Dimitrova and A. Nilsson eds. (2007), The Critical
Link 4: Professionalisation of interpreting in the community, Amsterdam and Philadelphia, John
Benjamins Publishing Company: 2-8
80
che includa capacità e metodi istruttivi come anche una preparazione sulle nozioni
scientifiche, storiche o intellettuali (in Cordero 1994:176). Inoltre secondo la
classica definizione di Parson (in Wadensjö 2007:2) un professionista deve
dimostrare tre caratteristiche: avere neutralità emotiva (che gli permetta di trattare
equamente tutti i clienti), fornire i suoi servizi per il bene collettivo e
limitatamente al suo compito e guadagnarsi la professionalità attraverso
l’esercizio personale.
Tutte le tre opinioni aiutano a chiarire cosa si intenda in questo elaborato quando
si parla di processo di professionalizzazione, poiché sottolineano come lo sforzo
debba venire dalla collaborazione sia degli interpreti stessi che della società, che li
deve accettare e riconoscere come professionisti. L’intervento di Wadensjö come
di consueto si dimostra particolarmente interessante poiché in grado di
evidenziare le finalità di questo processo, che sono poi in punti che andremo a
toccare nel corso della dissertazione: il riconoscimento dello status sociale, la
normalizzazione, il regolamento dell’accesso alla professione e dell’aspetto
educativo e lavorativo.
Inoltre bisogna sottolineare come ci siano molte società, secondo quanto afferma
Toledano Buendía (2010:17), dove ancora non vengono riconosciuti né l’esistenza
né la necessità di un gruppo apposito di professionisti dotati di competenze
specifiche per fronteggiare le diversità ed i problemi linguistici che con le recenti
ondate di immigrazione e la diffusione oramai mondiale di fenomeni di
multilinguismo non hanno fatto altro che acuirsi. Ozolins (2000:22)76 ha
teorizzato un continuum per indicare i tipi di ricettività dei vari paesi al bisogno di
servizi di interpretazione:
76
Ozolins U. (2000), “Communication Needs and Interpreting in Multilingual Sectors: the
International Spectrum of Response”, in R. Roberts, S. Carr, D. Abraham and A. Dufour eds.
(2000), The Critical Link 2: Interpreters in the Community. Amsterdam and Philadelphia, John
Benjamins Publishing Company: 21-33
81
La maggior parte dei paesi può essere inclusa in questa gamma, “[going] from
those countries that deny the existence of the issue, through countries that rely on
ad-hoc services, to generic language services, to fully comprehensive responses of
training, service provision and accreditation” (2000:22).
Ozolins spiega poi in maniera più esplicita il suo schema (2000: 22-24). I paesi in
cui non sono forniti servizi per la comunicazione sono generalmente quelli con un
alto numero di lavorati immigrati non integrati e che rimangono per brevi periodi,
o quelli dove gli autoctoni e i nuovi arrivati non hanno un buon rapporto (per
esempio Brasile o Giappone). Nei paesi con servizi ad hoc (Belgio, Austria e, ci
permettiamo di aggiungere, Italia) non c’è riconoscimento della necessità di
formazione o di un sistema di accreditamento, semplicemente si fa fronte ad una
necessità immediata sfruttando le risorse disponibili. Molti paesi (Regno Unito,
Olanda, Francia) hanno invece raggiunto la fase dei “generic language services”
dove sia le istituzioni pubbliche che private che le cosiddette “charities”77 cercano
di soddisfare i bisogni del settore pubblico. L’approccio legalistico è opzionale ed
entra in vigore nei paesi che riconoscono il diritto costituzionalmente garantito ai
servizi linguistici solo in ambito legale. Alla fine di questo continuum troviamo la
situazione ideale che prevede la completezza dei servizi linguistici, che possiamo
riscontrare in paesi dalla lunga tradizione in fatto di community interpreting, come
la Svezia e l’Australia. Le caratteristiche principali che definiscono questo ultimo
stadio sono:
-
Servizi linguistici organizzati: la maggior parte sono controllati da enti
governativi ma presto il livello di privatizzazione andrà aumentando
-
Formazione: la formazione viene fortemente promossa, anche se molti corsi
non sono ancora sufficientemente lunghi e il livello di professionalità può
crescere ancora
-
Certificazione: è necessario un ente, solitamente governativo, che certifica,
registra ed accredita gli interpreti professionisti.
È davvero molto interessante notare come in questa descrizione della situazione
ideale che Ozolins chiama “comprehensiveness” si ode l’eco delle parole di
77
Le charities sono associazioni benefiche o umanitarie che operano senza scopo di lucro,
specialmente nei settori dell’assistenza, della ricerca medica, dei diritti umani, dell’educazione e
della cultura. Fonte: http://www.wordreference.com/enit/Charities
82
Wadensjö citate pocanzi che elencavano gli sforzi necessari per completare il
processo di professionalizzazione del community interpreting. Bisogna
comunque sottolineare che al momento i paesi che possono dire di trovarsi
all’estremo del continuum teorizzato da Ozolins si contano sulle dita di una
mano, ma altri come il Regno Unito e altri paesi scandinavi hanno intrapreso il
cammino giusto per arrivarci.
Secondo quanto afferma Toledano Buendía (2010:17), il reclutamento ad hoc è
ancora diffuso in molti paesi in cui ancora mancano “a set of specific and
generally accepted interpreting norms that can be used to regulate the community
interpreter process and their products”. Rielaborando il concetto di norma dai
Translation Studies, l’autrice evidenzia l’importanza di stabilire delle norme
anche nell’interpretazione che funzionino da linee guida per garantire
indipendenza professionale e qualità del servizio, e anche per poter stabilire
quando un testo è accettabile non solo come traduzione, ma come corretta
traduzione nel sistema ricevente del testo di partenza (2010:14). Pertanto la
regolarizzazione normativa su più livelli – linguistico, sociale, politico,
ideologico – sarebbe estremamente utile non solo ai fini dell’atto interpretativo in
sé ma favorirebbe lo sviluppo di una struttura regolatrice per il community
interpreting e il conseguente consolidamento dell’indipendenza di tale disciplina.
Come abbiamo già affermato in precedenza, la normalizzazione e il
riconoscimento dell’indipendenza sono due passi fondamentali nel percorso verso
la piena professionalizzazione. Infatti, come aggiunge Ozolins (2000:32)
l’incapacità di stabilire standard professionali ben chiari implica che nell’ambito
di lavoro continueranno a trovare spazio persone non qualificate, ed a sua volta,
ricollegandoci alla metafora del circolo vizioso citata nel capitolo 3, la presenza
di questo tipo di lavoratori non incentiva le istituzioni ad insistere su questi
standard professionali ed a destinare fondi per il training degli interpreti.
Secondo quanto abbiamo già avuto modo di dimostrare, il community
interpreting, al contrario di altre forme di interpretazione, non ha ancora
raggiunto lo status di professione. Questo livello è già stato raggiunto per
esempio dal conference interpreting, i cui interpreti hanno associazioni
internazionali (la più famosa è l’AIIC, International Association of Conference
Interpreters) e sono solitamente ben formati e ben remunerati. Dall’altro lato, il
83
community interpreting è caratterizzato “by a lack of standards for training and
practice, disorganisation and disunity among practitioners, a lack of recognition
of the profession among the clients and the public and poor working conditions”
(1996:1)78.
Le opinioni di tutti questi esperti nel settore così concordi tra loro sembrano
inserirsi in una stessa spirale progressiva in cui tutti i problemi si influenzano
negativamente l’un l’altro; in realtà dobbiamo tener conto che in tutto in mondo,
sebbene con metodi e velocità molto diversi da nazione a nazione, si è oramai
innescato il processo di professionalizzazione. Anche se ancora moltissimo
rimane da fare, bisogna saper individuare i modi in cui favorire questo processo.
Per esempio Tseng (in Mikkelson 1996:2) ha studiato a lungo la letteratura a
riguardo., arrivando a catalogarla in due scuole di pensiero: trait theory (secondo
cui un’occupazione diventa una professione “by attaining certain characteristics,
including adherence to a code of ethics, a body of theoretical knowledge,
licensure or registration and loyalty to colleagues”) e theory of control (secondo
cui più controllo i praticanti di un’occupazione sono in grado di esercitare sul
loro lavoro e sul mercato in cui operano, più è professionalizzata l’occupazione).
In seguito ha poi proposto una sua teoria, composta di quattro fasi, per spiegare il
processo di professionalizzazione:
1) Disordine del mercato lavorativo: in questa prima fase la ricerca di un
interprete è guidata più dal prezzo che dalla qualità del servizio. Gli interpreti
potrebbero sentirsi sfiduciati e non incentivati ad ottenere una formazione
specifica, viste le prospettive lavorative. Tuttavia anche per Tseng il traning
ha un effetto positivo perché se gli interpreti vengono istruiti per diventare
professionisti, automaticamente capiranno che lo status quo delle cose è
insoddisfacente, che l’occupazione necessita di essere organizzata e che
bisogna proteggere i clienti dalla negligenza professionale
2) Consolidamento della professione e sviluppo di consenso riguardo alle
aspirazioni dei praticanti: in questa fase gli enti formativi ricoprono un ruolo
sempre più importante, in quanto devono soddisfare una crescent richiesta di
78
Mikkelson H. (1996), The professionalization of
http://www.acebo.com/papers/profslzn.htm (last access 11/02/2012)
community
interpreting,
84
servizi di qualità e devono supportare la progressiva affermazione di
associazioni professionali.
3) Formulazione di standard etici e controllo degli accessi alla professione:
questi due passaggi permettono agli interpreti di richiedere pubblico
riconoscimento e fiducia e, allo stesso tempo, di esercitare un controllo
interno.
4) Campagne promozionali: attraverso forme di propaganda gli interpreti
intendono ottenere il controllo del mercato lavorativo e in seguito provare ad
influenza le autorità politiche e legali per conquistare il riconoscimento
legislativo e l’abilitazione per la professione. A questo punto il community
interpreting sarà diventato una vera professione che gode di protezione ed
autonomia.
Il modello di Tseng si rivela davvero molto interessante perché unisce in una
sequenza logica vari elementi come la necessità di una fase educativa, del
riconoscimento della qualità e della creazione di associazioni di categoria.
Tuttavia l’autore sottolinea come questa non sia un’evoluzione lineare e pacifica
ma sia un processo conflittuale, sostanzialmente una lotta per il potere (1996:5)
che aumenta di intensità da stadio a stadio. La professionalizzazione è un
processo circolare, dove ogni fase fornisce un feedback ed un rafforzamento alla
precedente (ibidem); alcuni ostacoli potrebbero però essere “the lack of a
systematic body of knowledge exclusive to the profession”, “the little serious
research on interpreting” e “the public misconception about interpreting”
(ibidem:6). Secondo Tseng, per superare questi ostacoli bisognerebbe creare
un’associazione professionale forte che rappresenti la maggior parte dei
praticanti, ma soprattutto “interpreters worldwide must join hands with
researchers and scholars to develop the body of knowledge on interpretation, and
in the process to settle the confusion over the professional title” (ibidem:7).
Un altro contributo molto interessante e pieno di spunti di riflessione sul tema
della professionalizzazione è quello di Corsellis (2002)79, la quale si è occupata
del concetto di multilinguismo sempre più diffuso, specialmente nei paesi
79
Corsellis A. (2002), “Creating a professional context for public service interpreters” in Valero
Garcés C., Mancho Barés G. eds. (2002), Traducción e Interpretación el los Servicios Públicos:
Nuevas Necesidades para Nuevas Realidades/ Community Interpreting and Translating: New
Needs for New Realities, University of Alcalà, Servicio de Públicaciones de la Universidad:29-34
85
occidentali, e dell’urgente bisogno di creare le infrastrutture sociali necessarie per
favorire l’integrazione delle persone che non parlano (almeno non ad un livello
sufficientemente elevato per garantire piena comprensione) la lingua dominante.
Come abbiamo già avuto occasione di ricordare, in situazioni di poca
professionalità spesso può succedere che il ruolo dell’interprete non sia ben
definito e che pertanto gli vengano richiesti compiti e conoscenze che non sono di
sua competenza; questa pratica va ovviamente a pregiudicare la qualità e la buona
riuscita dell’evento mediato. Corsellis pertanto propone delle soluzioni pratiche
per fornire un adeguato contesto professionale agli interpreti per i servizi
pubblici, per consentire loro di lavorare e rendere al massimo livello. Secondo la
sua teoria (2002: 30-32) ci sono cinque gruppi di soggetti interessati:

I servizi pubblici

I professionisti del linguaggio

Gli accademici

I cittadini, l’amministrazione dello stato e gli organi governativi

Coloro che non hanno un’adeguata padronanza della lingua del paese in
questione
Il primo gruppo deve essere convinto che investimenti anche a breve termine nella
formazione, seppur costosi, porteranno risparmi economici nel tempo. Il secondo,
che comprende gli interpreti, deve essere convinto che lo status è qualcosa di
guadagnato e non di dovuto, e l’unico modo per farlo è costituire associazioni
professionali che collaborino su scala nazionale. Il terzo invece dovrebbe imparare
ad allentare un po’ i consueti rigidi standard linguistici ed intellettuali perché la
maggior parte delle volte si troveranno ad agire in situazioni informali e nonstandard. I cittadini, i burocrati ed i politici hanno invece la responsabilità
economica ed attuativa dei progetti linguistici. L’ultimo gruppo, quello dei diretti
interessati che non conoscono la lingua, è sicuramente il più penalizzato dalla
mancanza di servizi interpretativi adeguati e spesso si trova risucchiato in una
spirale verso il basso a causa della mancata conoscenza della lingua.
Partendo dal presupposto che a tutti dev’essere garantito un equo accesso ai
servizi pubblici senza discriminazioni di sorta, e che il punto di partenza è uguale
per tutte le categorie (ossia una mancanza di finanziamento economico ed
86
un’avversione al cambiamento), questi cinque gruppi devono imparare a
collaborare e condividere un processo di cambiamento che abbia come scopo
finale “the ownership of a common agenda, or set of objectives, based upon
mutual understanding of each other and implement on an basis of mutual trust and
support” (ibidem:31). Il processo di cambiamento passa attraverso i seguenti stadi:

Ignoranza del problema

Negazione della sua esistenza

Riconoscimento della sua esistenza

Rimpianto per un passato che non c’è più

Apprendimento sperimentale

Sviluppo sistematico
La chiave per il buon funzionamento di questa teoria è la collaborazione; infatti
come afferma Corsellis (ibidem:32) “working in collaboration to create a practical
outcome results in information exchange, mutual understanding and the gradual
development of mutual trust”. Corsellis (ibidem:33) spiega anche che esistono due
tipi di approccio alla questione: top down (in cui gli enti governativi prendono le
decisioni e le rendono effettive “dall’alto”) e bottom upwards (in cui le questioni
sono istituzionalizzate su scala nazionale solo dopo che è stata formata una
notevole quantità di opinione e attività locale sul tema). Ma il passaggio
fondamentale è quello che, ad un certo punto, si riconosca il bisogno di istituire
strutture nazionale per organizzare l’attività di interpretazione per i servizi
pubblici e per controllarne e gestirne funzionamento e qualità. I cinque gruppi
sopra citati devono superare le divergenze e le diffidenze tra loro e collaborare tra
loro su un piano multi-disciplinare per poter gradualmente migliorare la situazione
dei servizi linguistici nelle istituzioni pubbliche ed offrire un servizio che risponda
alle moderne necessità del mondo globalizzato di oggi, che si trova ad affrontare
un sempre crescente spostamento di persone tra paesi.
Per concludere il sotto-capitolo in maniera originale e simpatica, riportiamo
alcune suggerimenti di Synder (2007, mia traduzione)80, che ha stilato in seguito
ai suoi studi su Translation & Interpreting Studies ed alla sua esperienza sul
80
Synder N. (2007), “The Paradox of Professionalism”, in F. Pöchhacker, A. Lykke Jacobsen and
I. M. Mees eds. (2007), Interpreting Studies and beyond, Frederiksberg : Samfundslitteratur press:
13-21
87
campo, per migliorare il proprio livello di professionalità e fare buona
impressione sui clienti:
1- Conosci te stesso: assicurati di sapere cosa ti viene chiesto di fare e di essere
in grado di farlo
2- Conosci quello che stai facendo: specifica bene i termini del contratto
(riguardo a consegna, materiali, ecc.) e stabilisci con chiarezza le norme
lavorative e gli standard
3- Sii onesto: sii sincero sulle tue capacità e suggerisci un altro collega più
competente se ti rendi conto di non essere in grado di svolgere un lavoro che
non ricade proprio nella tua area di competenza
4- Sii accurato e ordinato
5- Usa una linea telefonica separata per le questioni professionali se lavori da
casa: se sei un freelance, è un modo per far riconoscere la tua professionalità
6- Vestiti come un professionista: non è una convenzione sociale ma un modo di
presentarsi come professionista
7- Sii amichevole ma non andare troppo sul personale
8- Rispetta le scadenze: rispetta sempre gli impegni presi
9- Il cliente ha sempre ragione: un principio generale del mercato del lavoro che
vale, con le dovute cautele, anche per gli interpreti
10- Sii paziente: non essere arrogante o indisponente anche quando il cliente
sembra uno stupido
11- Sii umile, tollerante delle differenze e comprensivo: il tuo modo di fare non è
per forza l’unico valido esistente, ascolta il cliente ed adeguati alle sue
richieste
Questi suggerimenti di Synder offrono sicuramente uno spunto di riflessione per
gli interpreti, per darsi una sorta di autovalutazione e per capire che per
raggiungere alti standard professionali ci vogliono grandi sforzi e tante piccole
accortezze.
Come abbiamo visto nel corso di questo sotto-capitolo, negli ultimi quindici anni
circa gli accademici e gli esperti del settore si sono concentrati sempre più sul
tema della professionalizzazione dell’interprete di comunità e hanno tentato di
proporre delle soluzioni pratiche, che sulla carta sembrano funzionare
88
perfettamente ma che in realtà sono più complesse di quanto appaiano e
richiedono senza dubbio un grande sforzo da tutti i partecipanti coinvolti in questo
tipo di situazioni. Senza dubbio l’autocoscienza degli interpreti pare mossa da
queste
riflessioni,
ed
ormai
necessità
come
quelle
del
training
o
dell’organizzazione associativa sono generalmente riconosciute ed accettate;
d’altro canto i governi e le istituzioni (in alcuni paesi più che in altri) sembrano
più indietro in questo percorso di professionalizzazione, ma a parte il
cambiamento mentale e culturale che il riconoscimento della necessità di servizi
interpretativi negli enti pubblici comporta, dobbiamo tener conto dell’enorme
ostacolo rappresentato dalla scarsezza di fondi economici da dedicare alle attività
sociali in generale.
4.2
La valutazione della qualità
Nel discorso sulla professionalizzazione non poteva di certo mancare un
approfondimento sul livello della professionalità degli interpreti, ovvero, detta in
parole semplicistiche, quanto bene gli interpreti sanno fare il proprio lavoro, cioè
tradurre e rappresentare al meglio ciò che è stato detto da una lingua A verso una
lingua B.
Pöchhacker (2002:97)81 sostiene che il ruolo dell’interprete contenga in sé una
dualità: l’interpretazione può essere concepita come un servizio che rende
possibile la comunicazione e/o come attività di produzione di un testo. Pertanto
gli standard di qualità di questa doppia funzione posso essere rappresentati in un
modello grafico che parte da un nucleo fondamentalmente lessico-semantico fino
ad arrivare alle nozioni socio-pragmatiche:
81
Pöchhacker F. (2002), “Researching interpreting qualities”, in G. Garzone, P. Mead e M. Viezzi
eds. (2002), Interpreting in the 21st century : challenges and opportunities, Amsterdam and
Philadelphia, John Benjamins Publishing Company: 95-106
89
Il primo criterio che viene alla mente quando si parla di qualità di interpretazione
è senza dubbio l’accuratezza del testo tradotto rispetto a quello originale, il che
vale a dire quanto è stato reso bene il messaggio originale. Poi salendo di livello
troviamo l’adeguatezza, ovvero quanto il testo tradotto sia conforme alle norme
linguistico-culturali della cultura di arrivo mantenendo però sempre inalterato il
messaggio originale. Al livello successivo troviamo l’equivalenza, ovvero se e
quanto il testo tradotto abbia raggiunto l’effetto voluto dal parlante nella lingua di
destinazione. Nel cerchio più esterno troviamo il passaggio finale, quello che
riassume tutti gli step intermedi, cioè il successo della comunicazione.
Come ricordano, tra gli altri, Pöchhacker (2002), Lee (2009)82 e Garzone (2002)83,
i principi intuitivi sulla cui importanza c’è un generale accordo sono fedeltà al
testo originale, accuratezza, chiarezza, comprensibilità, doti comunicative, doti
interpersonali, ecc. ovviamente il livello di importanza di queste componenti può
variare a seconda della situazione comunicativa ma anche del giudizio soggettivo
e personale di chi è chiamato ad esprimersi sulla qualità dell’evento mediato. Il
problema è che ancora manca un modello che indichi i parametri per giudicare il
livello di qualità dell’interpretazione e gli standard da seguire. Nello studio di
Kalina84 (2002: 122-123) vengono riportati alcuni delle più interessanti ricerche in
materia. Per esempio Gile nel 1988 ha elaborato il suo “capacity management
82
Lee J (2009), “Toward more reliable assessment of interpreting performance”, in S. Hale, U.
Ozolins e L. Stern eds. (2009), The Critical Link 5: Quality in Interpreting: a Shared
Responsibility. Amsterdam and Philadelphia, John Benjamins Publishing Company:171-185
83
Garzone G. (2002), “Quality and norms in interpretation”, in G. Garzone, P. Mead e M. Viezzi
eds. (2002), Interpreting in the 21st century : challenges and opportunities, Amsterdam and
Philadelphia, John Benjamins Publishing Company: 107-119
84
Kalina S. (2002), “Quality in interpreting and its prerequisites: a framework for comprehensive view”,
in G. Garzone, P. Mead e M. Viezzi eds. (2002), Interpreting in the 21st century : challenges and
opportunities, Amsterdam and Philadelphia, John Benjamins Publishing Company: 121-130
90
model” in cui egli spiega come secondo lui la qualità dell'interpretazione viene
messa a rischio quando uno dei tre principali Sforzi (maiuscola originale)
(“listening, memory, production”) richiede troppa elaborazione da parte
dell'interprete e ciò va a danneggiare gli altri due Sforzi. In seguito Pöchhacker
ha proposto di considerare il target text (cioè il testo prodotto dall'interprete per
l'interlocutore che non conosce la lingua) come un prodotto da considerarsi
autonomamente rispetto al source text (il testo originale pronunciato dal parlante),
mantenendo come scopo principale quello di trasmettere il senso nella maniera più
comprensibile possibile. Viezzi ha invece studiato la materia con un approccio
didattico, concentrandosi sui quattro scopi della comunicazione che secondo lui
sono fondamentali: equivalence, accuracy, appropriateness e usability; nel suo
modello la qualità dell'evento mediato è determinata dal grado di raggiungimento
di questi obiettivi.
Ovviamente, vista la varietà di studi ed opinioni a riguardo, non è facile stabilire
cosa gli interpreti dovrebbero fare e come nell’evento mediato. Kalina evidenzia
l’importanza della fase di preparazione pre-evento, sia da parte dei service
providers, sia da parte dei partecipanti all’evento che da parte dell’interprete
stesso, che spesse volte non sa cosa aspettarsi e pretendere dagli altri attori
dell’evento. L’autrice (2002:125) ha riassunto in uno schema dei parametri per
misurare la qualità del prodotto, tenendo in conto che sono interdipendenti e
soggetti a continui cambi situazionali e contestuali:
Semantic contest
Consistency
logic, coherence
completeness
accurateness
unambiguity
clarity
reliability
Linguistic performance
Grammatical correctness
adherence to TL norms
comprehensibility
stylistic adequacy
terminological adequacy
discretion
lack of disturbance
Presentation
voice quality
articulation
public speaking
discipline
simultaneity
technical mastery
conduct
91
Questo modello, secondo Kalina, rispecchia il tentativo di trovare il giusto
equilibro durante ogni fase dell’atto comunicativo tenendo conto di tutti i vari
segmenti che lo compongono, divisi qui in tre settori (ibidem). Altri requisiti non
inclusi in questa tabella riguardano le doti personali dell’interprete, come fattori
mentali e fisici (per esempio la capacità di gestire lo stress), abilità linguistiche ed
oratorie, la capacità di lavorare in gruppo, la competenza nel destreggiarsi nel
passaggio continuo tra due lingue.
Secondo Garzone (2002:108) il modello che meglio spiega quali elementi bisogna
considerare nella valutazione della qualità è quello di Shlesinger del 1997, che
distingue tre livelli di analisi: intertextual (“a comparison of the source text and
the target text, based on similarities and differences”), intratextual (“evaluation of
the acoustic, linguistic and logical aspects of interpreted text as a product in its
own right) e instrumental (“the target’s text comprehensibility and usefulness as a
customer service”). Garzone prosegue spiegando che il pro di questa
schematizzazione è che evita termini ambigui e non chiaramente definiti come
“equivalenza”, ma dall’altra parte ha una visione della qualità segmentata in
singoli elementi valutabili a parte. Senza dubbio il modello di Shlesinger è un tipo
di approccio molto organizzato e ben strutturato, ma l’eccessiva schematizzazione
delle parti testuali tende a trascurare che il discorso è un testo fluido e spontaneo,
difficile da scomporre in queste sottocategorie. Il fine ultimo di tutti gli studi sui
metodi di valutazione, sempre secondo Garzone (ibidem:110), dovrebbe essere
quello riassunto in questa affermazione:
“to formulate a principle which is located at a sufficiently high level of
generalisation to explain the rationale underlying the interpreter’s behaviour and
choices, thus providing a basis for understanding the intrinsic quality of a given
performance, as well as the user’s quality expectations”
Le parole di Garzone spiegano davvero efficacemente qual è il nodo della
questione; bisogna trovare un principio, un modello in grado di rispecchiare la
complessità e la molteplicità degli elementi che determinano il livello di qualità,
ma questi elementi devono essere valutati nella loro interazione ed influenza
reciproca, non a comparti stagni. Ci vorrebbe un sistema in grado di determinare
se e quale livello di qualità la somma degli svariati elementi citati pocanzi riesce a
92
raggiungere. È sicuramente più facile a dirsi che a farsi ma le tante ricerche ed i
dibattiti che stanno nascendo sul tema aiuteranno ad arrivare a questo risultato.
L’unica contraddizione di questo meccanismo è pensare che l’uomo arrivi a creare
un sistema che sia in grado di valutare ma senza nessuna influenza soggettiva; in
realtà sia che si stabilisca una tabella con dei valori da assegnare o un modello con
delle fasi da seguire, anche involontariamente la prospettiva personale di chi
giudica trasparirà e influenzerà.
Sempre su questo argomento, Messina (2002:105)85 sottolinea che probabilmente
il problema maggiore del tentativo di stabilire un modello di valutazione della
qualità è che “quality standards aim at checking and assuring the quality of the
process through which a product is made, and not of the product itself, thereby
reducing any activity to a repeatable step-by-step process” (corsivo mio). Infatti è
davvero difficile pensare di poter esaminare un dialogo come se fosse fatto di fasi
consecutive e concatenate scomponibili in singole parti e analizzabili a sé.
Tuttavia rimane sempre molto interessante la proposta di trovare degli standard e
dei parametri unanimi attraverso i quali poter giudicare il prodotto dell'evento
mediato. Su questa linea Messina aggiunge: “quality standards, even in this
“creative” field, can arguably help assure quality in terms of qualification
requirements, and general guidelines to be followed before the final product is
“delivered” to its user” (ibidem).
Un altro concetto che si è sviluppato fin dagli albori della ricerca sulla valutazione
della qualità è quello della prospettiva da cui la si valuta, con una distinzione tra
quella degli interpreti stessi in contrasto con quella degli utenti del servizio
(Pöchhacker 2001:411)86. Gile (ibidem) già nel 1991 aveva elaborato un suo
modello chiamato “communication configuration” che prevedeva non solo
l’interprete (sender) e gli utenti (receiver) ma anche il cliente, nella posizione di
colui che commissiona e paga il servizio. Pöchhacker in seguito ha redatto un
altro modello che vuole riassumere le varie posizioni e prospettive sul concetto di
qualità, senza dimenticare i giudizi e le attitudini soggettive (ibidem:412):
85
Messina A. (2002), “Quality research and quality standards in interpreting: the state of the art”,
in G. Garzone, P. Mead e M. Viezzi eds. (2002), Perspective on interpreting, Bologna, Clueb:
103-109
86
Pöchhacker F. (2001), “Quality assessment in conference and community interpreting”, in Meta:
Translators'
Journal,
vol.
46,
n°
2:
410-425,
http://www.erudit.org/revue/meta/2001/v46/n2/003847ar.pdf (ultimo accesso 14/08/2012)
93
Il nucleo dell’evento mediato (rappresentato dal quadrato) sono ovviamente
l’interprete, l’interlocutore parlante (ST-P) e quello che ascolta (TT-R). È molto
importante stabilire la differenziazione tra “text producer” and “text receiver”
perché, come evidenziato da un sondaggio di Kopczynski (in Pöchhacker
2002:100) questi due interlocutori hanno aspettative e preferenze divergenti
riguardo al ruolo dell’interprete: il primo tollera maggiormente un atteggiamento
interventista dell’interprete, mentre il secondo preferisce che rimanga invisibile ad
una
traduzione
molto
letterale
delle
parole
del
parlante.
In
ambito
dell’interpretazione di comunità, poi, i termini “text producer” e “text receiver”
sono spesso sostituiti da “service providers” e “non-majority-language-speaking
clients”. Inoltre in questo schema i ruoli del cliente e dei colleghi (intesi anche
come membri del team di lavoro o altri interpreti veri e propri) sono un po’ quelli
di due osservatori esterni che dalla loro posizione possono valutare meglio la
qualità della comunicazione.
Garzone (2002:107) fa notare come la ricerca sul tema della qualità nel corso
degli anni si sia spostata progressivamente da un piano puramente linguistico ad
uno molto più ampio di tipo sociolinguistico e pragmatico. Il problema di fondo è
che “quality is the sum of several different, heterogeneous aspects, some of which
involve different subjects – interpreters, clients, users, speakers – each with a
different view and perception of quality”. Come evidenzia Pöchhacker (in
Messina 2002:107) “we should not simply evaluate quality but quality under the
circumstances”; dobbiamo tener conto che è praticamente impossibile stabilire
parametri di giudizio totalmente oggettivi, e che è importante considerare sempre
le circostanze della situazione comunicativa. Infatti lo stesso autore nella sua
trattazione (in Pöchhacker 2002) riassume vari metodi di studio e ricerca sul tema,
94
che vanno dal sondaggio, agli esperimenti, all’osservazione di autentici corpora
testuali fino allo studio di un singolo caso. Sicuramente quello del sondaggio è il
più utilizzato e quello che permette di indagare più precisamente su un singolo
aspetto della questione e anche da più punti di vista, considerando che durante
un’indagine solitamente vengono redatti questionari specifici per interpreti, clienti
e utenti. Ovviamente, come sottolinea Garzone (ibidem) la difficoltà è data
dall’evanescenza dell’oggetto di studio, e anche se si trascrive un evento mediato,
è facile intuire come molti elementi vadano perduti e siano impossibili da
convogliare nella traduzione per iscritto, come il tono della voce, i gesti, le
esitazioni, i silenzi, e tutti gli elementi prosodici. Il futuro della ricerca (Messina
2002:107) nel campo della valutazione della qualità potrebbe essere quello di
tenere in massimo conto i bisogni specifici degli utenti (come una sorta di
“customer satisfaction”), per esempio attraverso l'azione di organizzazioni
normalizzatrici che stabiliscano le caratteristiche qualitative del “prodotto”. Per
esempio il tentativo italiano è stato la creazione del UNI 10574 standard
(ibidem:105), che ha lo scopo di assicurare una qualità perlomeno esteriore del
servizio, il che significa che può stabilire gli elementi basici richiesti come parte
del contratto tra “cliente” e “venditore”, ma non si addentra nella valutazione
dell'interpretazione in sé.
Inoltre un altro aspetto negativo riguardante la ricerca sulla tematica della qualità
e della sua valutazione, secondo Messina (2002:104) è che, nonostante ormai se
ne riconosca ampiamente la necessità, l'interpretazione è un servizio che spesso
viene visto solo come un fattore di spesa; questa opinione popolare è purtroppo
supportata dal fatto che il settore linguistico ha ben poco peso politico e lo status
della professione è ancora piuttosto basso. L'autore suggerisce che il giudizio di
valore degli utenti sul servizio di interpretazione potrebbe essere incrementato
appunto stabilendo degli standard che misurino il valore e la qualità di esso;
oggigiorno infatti sono davvero pochi i settori del terziario in cui i potenziali
clienti non hanno la possibilità di valutare il “value for money” del servizio che
acquistano.
95
4.3
Le agenzie di interpretazione
Questo breve sotto-capitolo mira a fornire una spiegazione sulle effettive modalità
di lavoro degli interpreti di comunità e sul loro mercato del lavoro, cercando di
proporre un discorso generico che si possa adattare a vari paesi, anche con
situazioni linguistiche differenti.
Partendo dal presupposto che è realmente difficile trovare un sondaggio o uno
studio che si occupi dettagliatamente di tutti i paesi del mondo, seguendo i trend
mondiali possiamo affermare che solo una minoranza degli interpreti di comunità
lavora come staff fisso di un ente o di un’associazione, mentre alcuni lavorano su
base volontaria (ma il più delle volte sono considerati interpreti ad hoc e non
professionisti, visto che non è possibile certificare la loro effettiva competenza).
Questi ultimi due casi si ricollegano ai discorsi affrontati in precedenza
riguardanti il fatto che la necessità di servizi linguistici regolari e ben organizzati è
ormai un dato acquisito, ma che nella stragrande maggioranza dei casi non ci sono
fondi per garantirli, né tantomeno per potersi permettere dei professionisti assunti
in pianta stabile all’interno degli staff delle istituzioni pubbliche. Per esempio, in
Italia sono ancora pochi i casi in cui nel settore sanitario troviamo uno staff
permanente di interpreti, per lo più nelle città con grandi percentuali di immigrati,
come Milano, Rimini e Palermo (Garzone, Rudvin 2003:140).
Un aspetto molto interessante è che un numero sempre crescente di interpreti,
secondo quanto riportato da Ozolins87, lavora come freelance in diverse
istituzioni, e solitamente ottiene il lavoro attraverso le agenzie. Lo stesso Ozolins,
dopo aver notato che nella letteratura sul community interpreting ben poco spazio
è stato concesso al ruolo delle agenzie di interpretazione (sia quelle private che
quelle controllate da enti governativi che quelle no profit), propone uno studio
(ibidem:121-129) molto interessante sul rapporto di queste agenzie con gli stessi
interpreti, con gli “acquirenti”, e sul loro ruolo di intermediari tra questi due
soggetti.
Secondo
l’autore
(ibidem:123),
infatti,
l’estrema
discontinuità
87
Ozolins U. (2007), “The interpreter’s third client: interpreters, professionalism and interpretin
agencies”, in C. Wadensjö, B. Englund Dimitrova and A. Nilsson eds. (2007), The Critical Link 4:
Professionalisation of interpreting in the community, Amsterdam and Philadelphia, John
Benjamins Publishing Company: 121-131
96
dell’aumento della professionalizzazione nell’interpretazione di comunità è
dovuta anche al fatto che interpreti, clienti, legislatori e tutte le parti coinvolte in
questa situazione non hanno una visione comune e condivisa dei rispettivi ruoli e
una conoscenza sufficiente della qualità e degli scopi dei servizi di interpretazione
per la comunità.
La relazione tra interpreti e agenzie può essere osservata dal punto di vista di
entrambe le parti. Dal punto di vista degli interpreti, ci sono innegabili vantaggi
nell’appartenenza ad una o più agenzie, per esempio la facilità di reperire nuovi
clienti (anche se ciò può comportare un abbassamento delle tariffe rispetto a
quelle dei freelance, ma è un abbassamento controbilanciato dal fatto che
l’interprete non deve più svolgere il lavoro di ricerca dei clienti) e la conseguente
possibilità di fidelizzazioni. I lati negativi sono la disparità tra agenzie per quanto
riguarda le pratiche lavorative e gli standard (ibidem:125) e soprattutto la
mancanza, nella stragrande maggioranza dei casi, di indicazioni o regolamenti di
tipo etico, che potrebbero mettere in difficoltà l’interprete nei confronti del cliente
e della sua stessa professionalità.
Invece per quanto riguarda le agenzie, il loro punto debole e quello forte sono
rappresentati dalla stessa questione, ovvero avere a che fare con molti interpreti
con differente livello di professionalità: può essere un vantaggio, perché permette
di avere una vasta gamma di professionisti ai quali affidare un lavoro a seconda
delle caratteristiche della situazione, ma dall’altro canto rappresenta un rischio
costante poiché quasi mai le agenzie hanno l’occasione di vedere all’opera i loro
“dipendenti” e si ritrovano a fidarsi delle loro competenze sulla fiducia, non
potendo verificare il loro grado di professionalità. Questo comporta anche una
grande variabilità di qualità, livello di professionismo e capacità di fare business
(ibidem:123). La conclusione che sorge spontanea dopo questa prima parte dello
studio è che se la previsione secondo la quale il coinvolgimento delle agenzie
andrà in crescendo è corretta, l’interpretazione si sta professionalizzando ed
“industrializzando”, e diventa sempre più un vero business. In un certo senso, si
perde quella patina di “assistenzialismo” e quell’apparenza più “umana” che
hanno sempre contraddistinto il community interpreting dal court interpreting o
dal business intepreting.
97
Per quanto riguarda il rapporto tra clienti (ibidem: 127-128) – che qui sono definiti
acquirenti, in quanto compratori di un servizio – ed agenzie, esso subisce le false
aspettative e la poca chiarezza che ruotano intorno ai doveri ed alle prerogative
degli interpreti ed i problemi maggiori sono dati dal fatto che i clienti spesse volte
non sanno come relazionarsi né con le agenzie (per quanto riguarda, per esempio,
prezzo e durata del servizio) né con gli interpreti, sia prima che durante che dopo
l’evento mediato. Ozolins (ibidem:127) sottolinea come le agenzie abbiano messo
in atto una sorta di tentativo di educare il mercato e si siano poste come
patrocinanti della causa della professionalizzazione. È indubbio che, visto il ruolo
che ormai ricoprono, esse possono fare molto per questo processo, nel senso che
in generale ci si aspetta che anche loro forniscano dei limiti e degli standard
professionali per regolare il servizio di interpretazione linguistica; molte agenzie
lo fanno, anche se non è detto che sia un loro compito, ma in questo c’è anche un
tornaconto. Infatti Ozolins (ibidem:128) si domanda se le agenzie si siano
concentrate così approfonditamente sulle questioni professionali per il bene
comune e per far rendere conto ai loro clienti il beneficio di standard qualitativi
ben delineati, o se le agenzie mettano in piedi queste iniziative professionali solo
dopo aver acquisito la leadership nel mercato con l’intento, appunto, di
mantenerla. Sicuramente quest’ultima riflessione è strettamente collegata col
discorso della progressiva “industrializzazione” della professione accennato in
precedenza.
Ozolins riporta anche la crescente tendenza da parte di molti paesi, per quanto
concerne appunto il processo di professionalizzazione del community interpreting,
ad accreditare le agenzie piuttosto che i singoli interpreti (ibidem:129), cosicché
tocca alle agenzie regolare l’accesso per i candidati e verificarne le competenze,
meccanismo che permette di ottenere in automatico un servizio di comprovata
qualità ogni qual volta ci si rivolga ad un’agenzia specializzata.
Infine, le agenzie si trovano a svolgere il delicato ruolo di anello di congiunzione
tra clienti ed interpreti ed a dover mediare, specialmente in caso di problemi, tra le
due parti. Infatti possono verificarsi commenti negativi e lamentele sia sugli
interpreti, che da parte degli interpreti stessi, ma questo è un argomento davvero
delicato in quanto le modalità di approccio a questo tipo di problemi variano
molto da agenzia ad agenzia ed è impossibile stabilire un quadro generale.
98
La conclusione principale che Ozolins (ibidem:124) stila dal suo studio,
comunque, è che oramai le agenzie devono essere considerate a tutti gli effetti il
“terzo cliente” degli eventi intermediati, in quanto l’interprete traduce per almeno
due clienti (quelli effettivamente coinvolti nell’atto comunicativo), ma a sua volta
l’agenzia per cui lavora è il suo cliente primario, la fonte di reddito e di nuovi
appalti. L’incapacità di relazionarsi con l’agenzia in quanto terzo cliente può
essere indicatore di una mancanza di professionalità nell’interprete.
Sulla questione agenzie si rivela particolarmente interessante anche riportare
l’opinione di un diretto interessato, il traduttore Greg Twiss88, uno degli autori del
famoso sito web ProZ.com89. Tra gli aspetti positivi del ricorso alle agenzie da
parte dell’interprete, Twiss elenca i seguenti (mia traduzione):
1) Una volta che si è stabilito un rapporto con alcune agenzie, l’interprete
riscontrerà che esse continueranno a cercarlo ed a fornire un costante
quantitativo di lavoro, cosa che permetterà di lavorare a pieno regime
2) Dato che le agenzie forniscono il lavoro, non ci sarà più bisogno di ricercare
clienti. È vero che la ricerca delle agenzie inizialmente costerà uno sforzo, ma
sarà sicuramente minore rispetto al dover continuamente cercarsi nuovi clienti
3) Le agenzie permettono di ampliare le possibilità lavorative, procurando lavoro
in diversi ambiti, cosa che contribuirà allo sviluppo dell’esperienza personale
4) Per quanto riguarda la responsabilità dell’attività di interpretazione,
l’interprete in quanto lavoratore è sicuramente più tutelato, metaforicamente
parlando non sarà più il primo soggetto in linea di tiro nel caso di lamentele o
proteste da parte del cliente
L’autore cita però anche alcuni lati negativi, che riguardano generalmente
l’aspetto di precarietà di questo lavoro, come per esempio:
1) Le agenzie pagano meno di un cliente diretto, ma bisogna considerare che
l’interprete ci guadagna anche dal non dover usare tempo ed energie nel
88
Twiss G. (2005), “Working for agencies”, disponibile al link: http://www.proz.com/translationarticles/articles/65/ (ultimo accesso: 12/08/2012)
89
ProZ.com è un sito famoso in tutto il mondo che riunisce professionisti del linguaggio come
traduttori, interpreti, agenzie di traduzione ed interpretazione ed i loro clienti.
http://www.proz.com
99
ricercarsi clienti. Inoltre nel caso in cui le agenzie forniscano una costante
quantità di lavoro, anche questa va a supplire il mancato introito
2) Alcune agenzie tendono a “rinnovare” lo staff molto di frequente.
3) L’interprete potrebbe ritrovarsi con una lista di clienti che si assottiglia sempre
più, il che lo rende completamente dipendente dalle agenzie, ed è davvero
difficile uscire da questa situazione. C’è da dire, comunque, che l’interprete
vende servizi, non un prodotto, perciò per fare il suo lavoro con serietà e
professionalità non può pretendere di lavorare per troppi clienti allo stesso
tempo.
L’intervento di Twiss appare ricco di spunti di riflessione e rivela anche l’altro
lato della medaglia, ovvero le opinioni di un diretto interessato sul tema delle
agenzie. Senza dubbio sta ad ogni individuo scegliere la sua modalità di lavoro
preferita, ma in una fase in cui gli enti pubblici ricorrono ad uno staff specifico
per
i
servizi
linguistici
di
comunità
molto
meno
di
quanto
dovrebbero/necessiterebbero, rivolgersi ad un’agenzia può rappresentare un buon
metodo per trovare lavoro e crearsi un buon giro di clienti.
In
questo
capitolo
abbiamo
dunque
discusso
la
questione
della
professionalizzazione prendendo in visione una pluralità di opinioni che ci hanno
aiutato a tracciare un quadro quanto più chiaro possibile della situazione. Nella
seconda parte ci siamo conseguentemente occupati del tema della valutazione
della qualità, elemento indispensabile per poter giudicare il livello di
professionalità di un interprete professionista. Entrambe le tematiche hanno alle
spalle una storia di studio e ricerca accademici piuttosto recenti ma abbiamo
potuto notare che negli ultimi anni la necessità di fare chiarezza sul problema dei
servizi linguistici nei settori pubblici si è fatta sempre più impellente,
individuando come motivazioni primarie di ciò due fattori, la globalizzazione e
l’immigrazione, strettamente legati tra loro. Non è facile mantenere un equilibrio
tra le necessità degli interpreti e quelle dei clienti, e ciò si è visto ancora una volta
nel tema della professionalizzazione, che tocca entrambe le parti da molto vicino.
Nel capitolo conclusivo a seguire, invece, presenteremo una breve panoramica
della situazione del community interpreting nel mondo, occupandoci di diversi
paesi che, per dirla con Ozolins, sono situabili in diversi punti del suo continuum.
Ci soffermeremo in particolare sull’Italia, che in quanto a servizi linguistici vive
100
una situazione davvero particolare, ed alquanto arretrata rispetto agli alti standard
di paesi più evoluti.
101
CAPITOLO 5
COMMUNITY INTERPRETING IN GIRO PER IL MONDO
L’ultimo capitolo della dissertazione mira a fornire una descrizione in concreto
della situazione del community interpreting in vari paesi del mondo, con alle
spalle vicende culturali e politiche molto differenti, che hanno influenzato lo
sviluppo di questo tipo di interpretazione. Ricollegandoci alla teorizzazione di
Ozolins sulle modalità di ricettività dei vari paesi al bisogno di servizi di
interpretazione, analizzata nel capitolo precedente, vedremo come i vari paesi
presi in esame si collocheranno su diversi punti del continuum. Infine, un’analisi a
parte sarà dedicata all’Italia, alle peculiarità della sua situazione (anche dal punto
di vista terminologico, come accennato nel primo capitolo) ed ai tanti problemi
ancora da risolvere. Questo ultimo capitolo si rivela alquanto interessante in
quanto permetterà di esaminare come e quanto i vari paesi applicano i differenti
concetti che abbiamo esaminato lungo tutta la dissertazione e come si relazionano
concretamente con la materia del community interpreting.
5.1
Le eccellenze: Australia e Svezia
Questo excursus storico-geografico inizia da Australia e Svezia poiché ci pare più
appropriato partire da situazioni positive e che possono essere di buon esempio
per tutti i paesi che si sono incamminati sulla via della professionalizzazione del
community interpreting.
L’Australia è una terra che ha alle spalle una lunga storia di migrazioni e
interconnessioni linguistiche e culturali, cominciate nel 1770 con l’arrivo degli
Inglesi e la conseguente colonizzazione, che portò la lingua inglese in una terra
abitata solo dagli Indigeni – che parlavano oltre 700 lingue diverse – e fino a quel
momento pressoché sconosciuta. Come accadde anche in America con lo
102
spagnolo, l’inglese finì per rimpiazzare le lingue indigene, portando molte di esse
alla scomparsa. La società australiana diventò ancor più etnicamente composita
quando, alla fine della seconda guerra mondiale, firmò un trattato internazionale
che permetteva l’ingresso a migliaia di immigrati europei (Chesher 1997:279)90.
Come sottolinea Pöchhacker (1999:131), il cambiamento della linea politica del
governo degli anni Settanta verso il multilinguismo e il multiculturalismo,
associato al crescente potere politico delle lobby di immigrati, portò a innovazioni
e sviluppi nel settore dei servizi linguistici. Solo a partire dagli anni Ottanta la
politica linguistica nazionale ricominciò a dare il giusto peso anche alla
componente indigena (Chesher 1997:280). In realtà questo processo di
riconoscimento del multilinguismo non è stato affatto lineare ed è stato preceduto
da una lunga fase in cui le lingue che non fossero l’inglese erano screditate e mal
tollerate. Martin (in Chesher ibidem:281) sottolinea “the tardy and reluctant
response on the part of Australian institutions to change in the ethnic composition
of population”, che portò a definire i migranti non anglofoni un problema.
Dopo decenni di reclutamento ad hoc, a partire dagli anni Settanta, appunto, una
serie di iniziative a livello statale cominciarono a cambiare la situazione del
community interpreting. Non fu un processo facile perché, come evidenzia Hearn
(ibidem), inizialmente ci furono dei problemi di accettazione del ruolo degli
interpreti, che spesso difettavano di un’adeguata preparazione nei settori in cui ci
si aspettava il loro intervento. La risposta iniziale al bisogno di interpreti, secondo
Ozolins (ibidem:282), fu la cooptazione di membri dello staff di servizi pubblici
conoscitori di una o più lingue nell’attività di interpretazione, alcuni dei quali si
ritrovarono nella professione senza un training formale preparatorio. Molti di essi
erano parlanti delle minoranze etniche che conoscevano l’inglese e già fungevano
da interpreti ad hoc per le loro comunità.
A partire dagli anni Settanta, pertanto, con la progressiva consapevolezza
dell’ingiustizia della situazione di disagio e svantaggio degli immigrati, il governo
si impegnò concretamente nella costituzione di servizi di traduzione e
comunicazione per la comunità, riconoscendo nella loro integrazione anche un
90
Chesher T. (1997), “Rhetoric and reality: two decades of community interpreting and translating
in Australia”, in R. Roberts, S. Carr, A. Dufour e D. Steyn eds. (1997), The Critical Link:
Interpreters in the Community. Amsterdam and Philadelphia, John Benjamins Publishing
Company: 277-289
103
vantaggio economico e sociale. Nel 1973 il Dipartimento dell’Immigrazione
fondò il TIS (Telephone Interpreter Service) e nel 1977 il NAATI (National
Accreditation Authority for Translators and Interpreters) (Pöchhacker 1999:132).
Il NAATI, secondo quanto afferma Bell (1997:93)91, ha il compito di stabilire e
monitorare gli standard per andare incontro ai bisogni di tutti gli interpreti e
traduttori australiani, e di sviluppare il sistema attraverso il quali i praticanti
possono essere accreditati ai vari livelli, oltre al compito più generico di
promuovere la professione e il suo riconoscimento.
Pöchhacker (1999:132) nota che il sistema di accreditamento della NAATI è stato
sviluppato in assenza di un’associazione professionale (dato che l’AUSIT,
l’istituto australiano degli interpreti e dei traduttori, è stato fondato solo nel 1987),
a riprova del fatto che l’impostazione degli standard per l’interpretazione è di
natura istituzionale piuttosto che professionale. L’accreditamento NAATI è
l’unica credenziale ufficialmente accettata per la professione di interprete e
traduttore in Australia; i tipi di certificazione sono: advanced translator,
professional translator, paraprofessional translator, professional interpreter,
paraprofessional interpreter92.
Gli interpreti di comunità in Australia, secondo quanto riporta Chesher
(1997:285), sostengono la necessità di un maggior impegno a livello governativo
per fornire a mantenere un adeguato livello di qualità, attraverso il miglioramento
delle condizioni di lavoro, dei percorsi di carriera e dei compensi, l’accesso a corsi
di formazione e di verifica, per escludere dalla professione elementi incompetenti
o eticamente scorretti e per favorire il riconoscimento e il consolidamento della
professione.
Sebbene ci siano delle variazioni a livello regionale della qualità dei servizi
interpretativi ed una mancanza di interpreti qualificati per alcuni gruppi
linguistici, in generale possiamo affermare che nonostante le inevitabili difficoltà
il modella australiano può essere sicuramente d’esempio nella storia del
91
Bell S.J. (1997), “The challenges of setting and monitoring the standards of community
interpreting: an Australian perspective”, in R. Roberts, S. Carr, A. Dufour e D. Steyn eds. (1997),
The Critical Link: Interpreters in the Community. Amsterdam and Philadelphia, John Benjamins
Publishing Company: 93-108
92
Fonte: NAATI Accreditation by Testing - Information Booklet, disponibile a:
http://www.naati.com.au/PDF/Booklets/Accreditation_by_Testing_booklet.pdf
104
community interpreting; gli australiani, secondo Chesher (ibidem:289) possono
andarne fieri ma devono continuare ad impegnarsi per essere i primi al mondo.
Infatti, come aggiunge Bell (1997:105), le autorità in materia mirano ad un futuro
in cui il sistema di certificazione degli standard australiani verrà riconosciuto ed
adottato come sistema australasiatico.
Passiamo ora ad esaminare il secondo caso di eccellenza, ovvero la Svezia, che
possiede un sistema di autorizzazione e certificazione degli interpreti unico al
mondo, basato su una trentennale esperienza nel campo del community
interpreting. Infatti, fin dagli anni Sessanta la Svezia si è trovata ad affrontare le
questioni legate all’interpretazione di comunità, come conseguenza dell’enorme
afflusso di lavoratori immigrati dal Sud Europa e dalla Turchia (Niska
2007:301)93. Già a partire dagli anni Settanta (ibidem), l’interpretazione di
comunità si avvia sul cammino della professionalizzazione con l’istituzione di
corsi di formazione professionali per interpreti e con la pubblicazione di un codice
deontologico (“Good interpreting practice”, incentrato su riservatezza, neutralità,
imparzialità ed accuratezza; in Norström 2010:7)94 da parte di un’agenzia
governativa.
Come spiega Idh (2007:135-137)95, qualsiasi persona che vive in Svezia ma non
conosce lo svedese ha il diritto per legge (secondo quanto sancito da Code of
Judicial Procedure, Administrative Procedure Act e Administrative Court
Procedures Act, in Norström 2010:4) ad essere assistito da un interprete in caso di
contatti o rapporti con le autorità svedesi, un esempio di grande civiltà ed apertura
mentale. Per essere accreditati, gli interpreti devono superare un test preparato da
esperti del linguaggio che mira ad assicurare che essi abbiano le competenze e le
capacità per fornire un servizio di alta qualità. L’aspetto particolare di questo
93
Niska H. (2007), “From helpers to professionals: training of community interpreters in Sweden”,
in C. Wadensjö, B. Englund Dimitrova and A. Nilsson eds. (2007), The Critical Link 4:
Professionalisation of interpreting in the community, Amsterdam and Philadelphia, John
Benjamins Publishing Company: 297-310
94
Norström E. (2010), Cultural diversity, multilingualism and ethnic minorities in Sweden:
community interpreting in Sweden and its significance to guaranteeing legal and medical security,
Sens
Public
(2010).
http://www.senspublic.org/IMG/pdf/SensPublic_Eva_Norstrom_Cultural_diversity_Multilinguism_and_Ethnic_mi
norities_in_Sweden.pdf (ultimo accesso 23/07/2012)
95
Idh L. (2007), “The Swedish system of authorizing interpreters”, in C. Wadensjö, B. Englund
Dimitrova and A. Nilsson eds. (2007), The Critical Link 4: Professionalisation of interpreting in
the community, Amsterdam and Philadelphia, John Benjamins Publishing Company: 2-8
105
esame è che non sono richieste qualifiche di tipo formale né vengono forniti corsi
didattici preparatori, è quindi piuttosto aperto, al punto che l’autrice lo definisce
“test vocazionale”. La Svezia, secondo quanto afferma Pöchhacker (1999:132), è
stata la nazione pioniera nel provvedere alla creazione di corsi di formazione per
interpreti di comunità, anche sotto forma di corsi brevi nelle centri educativi per
adulti o nelle associazioni di volontariato. Inoltre, secondo quanto riportano
Amato e Mead (2002:299)96 la formazione degli interpreti di comunità è sempre
stata totalmente finanziata dal governo fin dal suo inizio nel 1968; nel corso degli
anni è anche sembrato che i fondi sarebbero stati ridimensionati, ma le proteste
delle autorità pubbliche, degli interpreti e degli immigrati hanno scongiurato i
tagli.
Parlando di cifre concrete, Niska (2007:298) indica che in Svezia ci sono più di
cinquemila interpreti di comunità (su una popolazione di circa nove milioni e
mezzo di persone, dei quali il 18,6% è nato all’estero o è nato in Svezia da
genitori stranieri)97, che lavorano in più di cento lingue, fornendo ogni giorno
tremila ora di servizi di interpretazione, per di più nel settore medico e del welfare
sociale, per un costo annuo di 45 milioni di euro, principalmente finanziati da
fondi pubblici.
La legislazione svedese è particolarmente all’avanguardia; secondo quanto spiega
Niska (ibidem: 297-299), già trent’anni fa il Parlamento svedese ratificò una
politica migratoria volta all’eguaglianza, alla libertà di scelta e alla cooperazione,
che diede il via ai servizi di interpretazione per gli immigrati. Nel 1997 definì i
concetti base della politica di integrazione svedese, all’insegna di pluralismo,
equità e tolleranza; nel 1999 regolamentò per legge la difesa delle cinque
minoranze svedesi riconosciute98, volta a fornire supporto ed a mantenere vive le
loro tradizioni e le loro lingua in quanto parti integranti della cultura svedese.
Inoltre la Svezia è così legislativamente avanzata in tema di politiche linguistiche
che ha firmato insieme a Danimarca, Finlandia, Islanda e Norvegia il “Nordic
96
Amato A. e Mead P. (2002), “Interpreting in the 21st century: what lies ahead”, in G. Garzone,
P. Mead e M. Viezzi eds. (2002), Interpreting in the 21st century : challenges and opportunities,
Amsterdam and Philadelphia, John Benjamins Publishing Company: 295-302
97
Fonte: Statistics Sweden http://www.scb.se/Pages/Product____25799.aspx (ultimo accesso
1/10/2012)
98
Le cinque minoranze sono: Sami (popolo indigeno), Swedish Finns, Tornedalers, Roma, Jews
(Niska 2007:299)
106
Language Convention” che garantisce ai cittadini di questi cinque paesi la
possibilità di utilizzare la propria lingua madre, grazie a servizi di interpretazione
appositi, in caso si dovessero trovare a trattare con le autorità di uno degli altri
paesi nordici (ibidem:298).
Oggigiorno il servizio di community interpreting è in larga misura un’attività ben
organizzata e riconosciuta come parte del servizio pubblico, e fornisce un grande
numero di interpreti preparati e professionali, anche se, come abbiamo avuto
modo di verificare, il professionismo non si raggiunge certo in un battibaleno ma
è frutto di anni di intenso lavoro e impegno da parte di tutti i soggetti coinvolti.
5.2
Differenti livelli di sviluppo: Stati Uniti, Canada, Spagna a confronto
Gli Stati Uniti rappresentano un caso abbastanza particolare per la loro vastità di
territorio e popolazione e anche per la loro forma di governo federale. Vantano
una popolazione di oltre 314 milioni di abitanti99 e un crogiolo di razze ed etnie (il
cosiddetto “melting pot”) irripetibile al mondo, sparsi in 50 stati con legislazioni
differenti. Pertanto Mikkelson (1996:7) sottolinea come il court interpreting sia
ormai emerso come professione riconosciuta, mentre il community interpreting
rimane più indietro. La situazione è molto variegata e non ci sono regolamenti né
standard validi a livello nazionali ed uguali per tutto; va comunque sottolineato
che le politiche sociali e linguistiche sono anche competenza dei singoli stati
federali perciò questa diversità o mancanza di omogeneità non deve stupire più di
tanto. Mikkelson (ibidem:8) fa notare anche che la professione dell’interprete di
comunità risente anche delle tensioni razziali e sociali e di una certa attitudine
anti-immigrati, perciò il prestigio e la conseguente remunerazione sono ancora
piuttosto bassi.
D’altro canto, se non ci sono standard per le prestazioni degli interpreti redatte
dalle autorità statali, spesse volte questo ruolo viene supplito da associazioni di
professionisti, come nel caso del Massachussetts Medical Interpreters Association
99
Fonte: United States Census Bureau http://www.census.gov/main/www/popclock.html (ultimo
accesso 2/10/2012)
107
e il California Healthcare Interpreters Association, che molto hanno contribuito
nel processo di professionalizzazione (Pöchhacker 1999:132). Come sottolinea
Fortier (1997:165)100gli Stati Uniti hanno sempre avuto il problema della
creazione di un servizio di interpretazione in ambito sociale utile e ben
funzionante per gli utenti non anglofoni, e solo negli ultimi anni le comunità, gli
interpreti e i service providers sono stati in grado di sviluppare un confronto
efficace con le parti governative per sottoporre alla loro attenzione l'importanza di
trovare un
rimedio a questa situazione. Il risultato è stato che le politiche
governative offrono molte possibilità ai servizi pubblici di provvedere all'offerta
di servizi di interpretazione bilingue.
L'autrice prosegue spiegando come gli Stati Uniti abbiano messo in atto tre tipi di
meccanismi governativi per promuovere la disponibilità di servizi interpretativi,
con particolare attenzione al settore sanitario, attraverso leggi sui diritti civili,
legislazioni federali e statali e la disposizione di programmi finanziati a livello
federale. Tutte le modalità hanno riscontrato degli ostacoli (ibidem:173), come il
deficit di informazioni (cioè la mancanza di riconoscimento dei diritti dei parlanti
non anglofoni e di informazioni facilmente accessibili su potenziali soluzioni,
tecniche e modalità di formazione per gli interpreti, ecc.), le barriere economiche
(poche risorse finanziarie, niente rimborsi per gli interpreti) e ed anche attitudinali
(concezione degli interpreti come un fardello costoso piuttosto che , bassa priorità
di importanza dei servizi interpretativi, ecc.) ma alla fine hanno ottenuto dei
risultati meritevoli grazie ad alcuni elementi chiave, come organizzazione e
cooperazione tra le parti coinvolte, informazione e documentazione sul problema
e la comprensione e l'uso corretto delle risorse e degli strumenti legali (come la
conoscenza dei diritti civili e la partecipazione attiva dell'Office for Civil Rights).
Una situazione simile si è verificata anche in Canada, paese che ha vissuto una
grande evoluzione del community interpreting a partire dagli anni Novanta.
Secondo Pöchhacker (1999:134), infatti, il community interpreting è stato
ampiamente caratterizzato da una fornitura del servizio a livello locale e da
iniziativa a livello provinciale piuttosto che da una politica nazionale
100
Fortier Puebla J. (1997), “Interpreting for health in the United States”, in in R. Roberts, S. Carr,
A. Dufour e D. Steyn eds. (1997), The Critical Link: Interpreters in the Community. Amsterdam
and Philadelphia, John Benjamins Publishing Company: 165-177
108
onnicomprensiva. Il Canadian Language Industry101 (2007:8) sottolinea come la
legislazione dichiari che tutti i cittadini devono avere accesso ai servizi pubblici,
indipendentemente dall'origine etnica o la razza, e devono essere aiutati a
affrontare gli ostacoli a riguardo, ma non garantisce il diritto ad un interprete né
che i service providers abbiano le competenze e i requisiti per supplire a questa
mancanza. Lo studio commissionato da questo istituto ha riscontrato che, a fronte
di una popolazione di più di 30 milioni di abitanti, un milione di persone
necessitano servizi di interpretazione, specialmente membri delle comunità
immigrate, persone non udenti, minoranze riconosciute e comunità aborigene –
come esemplifica anche lo studio di Pennet e Sammons102 sul community
interpreting nella regione del Nunavut, dove l'Inuktitut è la prima lingua per il
78% della popolazione.
In questi anni, comunque, il riconoscimento della necessità di comunicazione per
tutti i cittadini ha fatto grandi passi in avanti in Canada, anche grazie ad una
legislazione all'insegna del multiculturalismo; tuttavia molto lavoro resta ancora
da fare, specialmente per quanto concerne le condizioni lavorative e la
remunerazione, ancora molto variabili da ente ad ente,
e l'aspetto della
certificazione dei professionisti, in quanto gli interpreti in possesso di
certificazione sono senza dubbio molti meno di quelli che il mercato lavorativo
richiede (ibidem:43). Come afferma Carr, spesse volte accade che amici bilingue,
membri della famiglia o dello staff siano chiamati a fungere da interpreti ad hoc,
ma recentemente nella multiculturale società canadese cresce la consapevolezza
del ruolo vitale degli interpreti nel facilitare la comunicazione tra clienti e service
providers (1997:271)103, specialmente nel settore della sanità che è quello a cui gli
immigrati si rivolgono con più frequenza e quello nel quale l'interpretazione ad
hoc rischia seriamente di fare gravi danni in caso di errori o incomprensioni.
101
“Community interpreting in Canada” (2007), studio commissionato dal Canadian Language
Industry, disponibile a: http://www.imiaweb.org/uploads/pages/471.pdf (ultimo accesso:
3/10/2012)
102
Penney C. e Sammons S. (1997), “Training the community interpreter: the Nunavut Artic
College experience”, in R. Roberts, S. Carr, A. Dufour e D. Steyn eds. (1997), The Critical Link:
Interpreters in the Community. Amsterdam and Philadelphia, John Benjamins Publishing
Company: 65-76
103
Carr S. E. (1997), “A three-tiered health care interpreter system”, in R. Roberts, S. Carr, A.
Dufour e D. Steyn eds. (1997), The Critical Link: Interpreters in the Community. Amsterdam and
Philadelphia, John Benjamins Publishing Company: 271-276
109
Per quanto concerne l'Europa, che a partire dalla caduta dell'URSS e dallo
scioglimento della Jugoslavia in avanti ha vissuto un nuovo periodo di intense
migrazioni,
molti
paesi
sono
piuttosto
indietro
nel
processo
di
professionalizzazione del community interpreting, mentre sono pochi quelli che
possono vantare un servizio efficiente e ben organizzato, come le già citate
Olanda e Francia. Secondo Pöchhacker (1999:134) alcuni paesi come Germania,
Austria e Spagna stanno giusto iniziando a rendersi conto del bisogno di
assicurare un equo accesso non solo a servizi di tipo legale ma anche medico e
sociale. La Spagna in particolare, secondo quanto spiega Valero Garcés
(2003:179)104, fino al 1986, anno di ingresso nell'Unione Europea, era
praticamente non toccata dai movimenti migratori, quindi dalla fine degli anni
Ottanta in poi ha vissuto un cambio radicale. Valero Garcés (2003:179-182)
illustra come gli enti che si occupano di mettere in contatto diretto gli immigrati
con la società spagnola siano, oltre alle agenzie governative, le organizzazioni non
governative ed i sindacati, che spesso allestiscono anche corsi di lingua e cultura
spagnola per fornire agli immigrati una padronanza della lingua anche a livello
scritto che sicuramente li aiuterà nel processo di integrazione.
Tuttavia, anche se molti immigrati stanno apprendendo la lingua, la necessità dei
servizi interpretativi permane, e viene soddisfatta principalmente in due modi:
attraverso i mediatori linguistici105 (considerati veri e proprio professionisti, ma
per i quali non ci sono né programmi di formazione predefiniti, né uniformità nei
requisiti e nel livello di istruzione necessario per accedere alla professione, né
forme di controllo per la qualità del lavoro o per l'appropriatezza dei soggetti per
il suddetto mestiere) o attraverso volontari delle ONG o delle associazioni
caritatevoli, dai membri della famiglia, vicini o persone scelte occasionalmente, in
che significa che ritorniamo al noto concetto dell'interpretazione ad hoc. Il lavoro
di queste persone non è riconosciuto né pagato, ed è principalmente su base
volontaria, ma è continuamente alimentato da fattori come il bisogno immediato
di assistere i parlanti non ispanofoni, la constante domanda e la collegata
104
Valero Garcés (2003), “Responding to communication needs: current issues and challenges in
community interpreting and translating in Spain”, in Brunette L., Bastin G.L., Hemlin I. e Clarke
H. eds. (2003), The Critical Link 3: Interpreters in the Community. Amsterdam and Philadelphia,
John Benjamins Publishing Company: 177-192
105
Della questione terminologica, che accomuna Spagna e Italia, ci occuperemo più
approfonditamente nel capitolo 5.3
110
scarsezza di interpreti professionali e, ultimo ma non meno importante, la
mancanza di risorse economiche.
L'autrice
conclude
(ibidem:182)
sottolineando
come
la
mancanza
di
riconoscimento da parte delle istituzioni governative per il lavoro degli interpreti
di comunità e il disinteresse nel discutere la rilevanza del loro ruolo nella
formazione di una nuova società pluralistica influenzano in maniera negativa la
situazione del community interpreting in Spagna. Infatti anche Ortega Herráez,
Abril Martí e Martin (2009:150)106 affermano che il community interpreting in
quanto professione non esiste in Spagna; nonostante il fatto che questo paese
riceva più immigrati di ogni altro nell’Unione Europea e sia una delle maggiori
destinazioni turistiche al mondo, il bisogno di mediazione linguistica non è
riconosciuto ad un livello sufficiente da garantire un equo accesso ai servizi
pubblici anche ai non ispanofoni. Inoltre (ibidem:151) possiamo notare come la
figura dell’interprete sia largamente ignorata e marginalizzata dalle istituzioni,
vista anche la mancanza di un sistema di certificazione, mentre d’altro canto le
università spagnole mostrano un crescente interesse nel campo del community
interpreting e offrono diversi corsi, che però non sono coordinati e non vanno
oltre una preparazione basilare, il che comunque è comprensibile vista la scarsità
di prospettive lavorative dopo gli studi.
Dato che la formazione e la certificazione, come già abbiamo dimostrato nel corso
della
dissertazione,
sono
elementi
fondamentali
nel
processo
di
professionalizzazione, possiamo dunque affermare che la Spagna si trova ancora
in una fase pre-professionale, dove gran parte del bisogno è supplito da interpreti
reclutati ad hoc, specialmente nel settore medico e sociale (mentre quello del court
interpreting è in fase di miglioramento per quanto riguarda la qualità e la fornitura
del servizio, cf. ibidem:162) e dove il percorso di sviluppo per i professionisti e le
istituzioni è ancora piuttosto tortuoso.
106
Ortega Herráez J.M., Abril Martí M.I. e Martin A. (2007), “Community interpreting in Spain: a
comparative study of interpreters’ self perception of role in different settings”, in S. Hale, U.
Ozolins e L. Stern eds. (2009), The Critical Link 5: Quality in Interpreting: a Shared
Responsibility. Amsterdam and Philadelphia, John Benjamins Publishing Company:150-167
111
5.3
Approfondimento sull’Italia
La parte finale del sotto-capitolo precedente ha introdotto la riflessione
sull’argomento del community interpreting in Europa, citando come esempio la
Spagna e la sua situazione ancora alquanto problematica. In generale in Europa
troviamo realtà molto lontane tra loro, che spaziano dall’eccellenza della Svezia,
al buonissimo livello di sviluppo di Regno Unito, Francia, Olanda e gli altri paesi
scandinavi, ai restanti paesi nei quali il cammino della professionalizzazione del
community interpreting è ancora agli albori. In una fase iniziale e ancora piuttosto
confusionaria si trova anche l’Italia, che, come anticipato, per alcuni versi può
essere paragonata alla situazione spagnola precedentemente descritta.
Come abbiamo brevemente accennato nel primo capitolo, confusione e
disomogeneità regnano già a partire dalla terminologia di settore. Spesso in Italia,
più che di community interpreting si parla di mediazione linguistica, che come
sottolinea Pöchhacker (2008:19)107, è un iperonimo che comprende traduzione ed
interpretazione professionali. La diffusione di questo termine, sempre secondo
l’autore, è stata favorita anche dalla recente riforma universitaria italiana che ha
creato la classe di laurea triennale in Scienze della Mediazione Linguistica.
“Mediazione linguistica” è un termine che comprende molto più dell’attività di
interpretazione e spesso può sfociare anche nella definizione di “mediazione
culturale”. Riguardo appunto al mediatore culturale, Rudvin (2006:60) spiega che
è una figura dalla quale ci si aspetta che faciliti l’integrazione degli immigrati in
Italia, la loro interazione con le istituzioni italiane, che incoraggi l’interazione con
la comunità in senso ampio, che prevenga i possibili conflitti e fornisca assistenza
agli immigrati, funzionando da ponte.
Tuttavia non c’è una distinzione netta tra interpretazione di comunità, mediazione
linguistica e mediazione culturale. Come spiega Maffei (2009)108 la figura
107
Pöchhacker F. (2008), “Interpreting as mediation”, in C. Valero Garcés. e A. Martin eds.
(2008), Crossing Borders in Community Interpreting, Amsterdam and Philadelphia, John
Benjamins Publishing Company: 9-26
108
Maffei F. (2009), “La mediaizone linguistico-culturale e aspetti di sicurezza”, in D.R. Miller e
A. Pano eds. (2009), La geografia della mediazione linguistico-culturale, Bologna, d.u. press:
117-130; disponibile a: http://amsacta.cib.unibo.it/2626/3/Volume_121109.pdf (ultimo accesso
12/07/2012).
112
dell’interprete e quella del mediatore sono parallele e non è facile stabilire dei
confini precisi; in ambito giudiziario generalmente si tende a pensare che l’opera
di interpretazione sia ristretta all’attività linguistica mentre quella di mediazione
richiede un’importante capacità comunicativa di costruzione di relazioni. Anche
Rudvin (in Rudvin, Tomassini 2008:247)109 conferma che tendenzialmente il
termine “mediazione linguistica” comprenda una gamma di attività più ampia
rispetto a quanto si intende coi termini traduzione/interpretazione.
Tuttavia nel corso della dissertazione è stato ampiamente dimostrato come anche
la stessa attività di interpretazione vada molto oltre la sfera della comunicazione
linguistica e richieda conoscenze approfondite in altri campi come la linguistica,
la prosodia, la prossemica, ecc., pertanto si ritiene che sia ormai giunto il
momento di superare queste false credenze così diffuse nell’opinione pubblica e di
fare chiarezza, anche dal punto di vista del profilo giuridico, tra le due professioni
ed, eventualmente, se si dimostrassero così simili e combacianti, di unificarle.
Anche Maffei (2009:129) si dichiara a favore dell’accorpamento delle funzioni in
una stessa persona denominata mediatore linguistico-culturale.
Dal punto di vista legislativo, il mediatore culturale è una figura professionale
ancora indefinita ma rimane comunque l’unica riconosciuta a norma di legge,
secondo quanto sancito nella legge Turco-Napolitano del 1998, che nell’articolo
42 recita (in Garzone 2009:111):
“Lo Stato, le regioni, le province e i comuni […] favoriscono la realizzazione di
convenzioni con associazioni regolarmente iscritte nel registro di cui al comma 2
per l’impiego all’interno delle proprie strutture di stranieri, titolari di carta di
soggiorno o di permesso di soggiorno di durata non inferiore a 2 anni, in qualità
di mediatori interculturali al fine di agevolare i rapporti tra le singole
amministrazioni e gli stranieri appartenenti ai diversi gruppi etnici, nazionali,
linguistici e religiosi.”
Al contrario, per quanto riguarda l’interprete di comunità, non abbiamo nessuna
legge nazionale che regoli la sua professione. Ciò però non ha impedito lo
sviluppo di leggi e decreti a livello regionale e locale per sopperire alla mancanza
109
Rudvin M. e Tomassini E. (2008), “Migration, ideology and the interpreter-mediator”, in C.
Valero Garcés. e A. Martin eds. (2008), Crossing Borders in Community Interpreting, Amsterdam
and Philadelphia, John Benjamins Publishing Company: 245-266
113
di qualsiasi logica di programmazione a livello nazionale e per venire incontro
alle necessità della società e del mercato lavorativo. A livello nazionale le figure
di interprete di comunità, mediatore linguistico e mediatore culturale sono
purtroppo accomunate da mancanza di standard e certificazione nazionali in
termini di definizione delle mansioni e del ruolo professionale (Rudvin 2008:248).
L’unica eccezione, a quanto riporta Maffei (2009:129), è rappresentata dalla
figura dell’interprete nel settore giuridico, che è regolata dall’articolo 143 del
Codice di Procedura Penale, il quale afferma che “l'imputato che non conosce la
lingua italiana ha diritto di farsi assistere gratuitamente da un interprete al fine di
potere comprendere l'accusa contro di lui formulata e di seguire il compimento
degli atti cui partecipa” e che “l'autorità procedente nomina un interprete quando
occorre tradurre uno scritto in lingua straniera o in un dialetto non facilmente
intelligibile ovvero quando la persona che vuole o deve fare una dichiarazione non
conosce la lingua italiana”110. Maffei propone anche che, in attesa di un progetto
nazionale sulla mediazione culturale, la figura del mediatore culturale,
estremamente utile ed utilizzata in ambito giuridico e penale, possa esercitare
secondo questa stessa normativa.
In questo elaborato si concorda pienamente con Pöchhacker (2008:21) quando
afferma che mediazione ed interpretazione sono due concetti indissolubilmente
intrecciati, e si può teorizzare un concetto di “mediazione interculturale” solo se si
limita la nozione di interpretazione alla sola sfera del linguaggio; ma dal momento
che si suppone che gli interpreti abbiano il compito di mediare tra culture proprio
come tra lingue, la distinzione si frantuma e qualsiasi confine tra le definizioni
diventa sfocato. Infatti, come sostiene Garzone (2009:113):
in questo quadro c’è il rischio che nel definire il ruolo dell’interprete in ambito
sociale e del mediatore non si tenga adeguatamente conto del fondamentale e
imprescindibile lavoro di assistenza linguistica, e si dia per scontato che i servizi di
mediazione per loro natura includano la consulenza esplicativa su aspetti culturali,
le indicazioni operative sui comportamenti, le funzioni di sostegno e solidarietà, il
supporto finalizzato alla correzione delle asimmetrie di conoscenza e di potere.
110
Articolo 143 del Codice di Procedura Penale disponibile a: http://www.brocardi.it/codice-diprocedura-penale/libro-secondo/titolo-iv/art143.html (ultimo accesso: 1/10/2012)
114
Nel concetto di mediazione culturale sembra quasi che la lingua passi in secondo
piano, quando invece la lingua “non è solo strumento imprescindibile di
espressione e comunicazione dei valori della sfera culturale, etnica e religiosa ma
ha anche un’influenza determinante sui modelli di pensiero e sulle categorie
culturali stesse” (ibidem:111). La conclusione di questa riflessione è dunque la
constatazione che in Italia quasi sempre si usano questi termini indistintamente o
con poca consapevolezza delle reali (seppur lievi) differenze di significato, cosa
che contribuisce ad aumentare confusione ed ambiguità.
È molto importante sottolineare che la nomenclatura riflette pur sempre ideologie
e correnti politiche locali e nazionali, e che ruolo, terminologia e ideologia sono
concetti intrinsecamente legati (Rudvin 2008:249). Infatti questa situazione di
ambiguità può essere ascritta a due fattori: in primis l’assenza di un approccio
omogeneo a livello nazionale per quello che concerne i servizi linguistici nelle
pubbliche istituzioni (tra le quali ben poche possono vantare qualificazioni o corsi
per i mediatori culturali, e meno ancora per i mediatori linguistici) (ibidem:247).
Il secondo fattore è rappresentato dalla considerazione che la multifunzionalità
che si richiede all’interprete o al mediatore si è sviluppata viste le necessità della
particolare situazione italiana. Come afferma Pöchhacker (2008:20), considerando
le vaste differenza culturali e la probabilità di fraintendimenti inter-etnici, il ruolo
include molto più del rendere possibile la comunicazione interlinguistica, anche se
l’interpretazione può essere annoverata in cima alla lista delle competenze
necessarie. Ciò è dovuto al fatto che l’Italia, da paese di emigrazione, si è
rapidamente trasformata in meta di immigrazione, e questo è stato un processo
piuttosto repentino favorito dalla conformazione geografica del territorio e dallo
sviluppo economico che l’ha resa uno dei paesi più benestanti all’interno
dell’Unione Europea.
L’Istat ha calcolato al 1/01/2012 una popolazione straniera residente in Italia di
4570317 persone111, tra le quali le comunità più ampie sono rappresentate da
rumeni, albanesi e marocchini. I dati relativi alla presenza straniera in Italia sono
riassunti nella seguente figura112:
111
112
Fonte: ISTAT http://demo.istat.it/strasa2011/index.html
Fonte: http://www.tuttitalia.it/statistiche/cittadini-stranieri-2011/
115
Rudvin (2002:125)113 sottolinea come l’Italia ha avuto e tuttora ha grandi
problemi, a livello culturale, politico e di mentalità, a gestire questo improvviso ed
abbondante flusso di immigrazione. L’Italia si è ritrovata impreparata a livello di
strutture ricettive e di politiche per l’immigrazione, e, come precisa Rudvin, ha
sempre considerato l’immigrazione un fenomeno passeggero (2008:248) e non ha
sviluppato quel processo di autoanalisi e discussione sui pro e i contro
dell’assimilazione di queste persone – al contrario di quanto hanno fatto i paesi
scandinavi e il Regno Unito, per esempio –, processo che permetterebbe alla
popolazione di scendere a patti per la creazione di una nuova società
multiculturale (2002:125). In molti casi la politica italiana, invece che allinearsi
con le più moderne teorie che vedono la migrazione come un fenomeno
perfettamente naturale, intrinseco alla natura e alla società umane (2008:248),
pare alimentare fenomeni di chiusura e opposizione alle comunità di immigrati
presenti nel paese anche da molti anni, come nel caso del tristemente famoso
partito nordista della Lega.
113
Rudvin M. (2002), “Cross-cultural aspects in community interpreting in Italy”, in Valero
Garcés C., Mancho Barés G. eds. (2002), Traducción e Interpretación el los Servicios Públicos:
Nuevas Necesidades para Nuevas Realidades/ Community Interpreting and Translating: New
Needs for New Realities, University of Alcalà, Servicio de Públicaciones de la Universidad: 125130
116
Pertanto possiamo affermare che la situazione del community interpreting in Italia
sia alquanto confusa ed ambigua, non solo sul piano strettamente terminologico m
anche a livello di riconoscimento dell’attività e della sua importanza. Il fatto che
poi venga continuamente confusa e sovrapposta con le attività di mediazione non
favorisce di certo il processo di sviluppo e di professionalizzazione. Se
consideriamo il continuum di Ozolins, l’Italia si colloca senza dubbio ancora in
una fase inziale dove la stragrande maggioranza delle necessità è soddisfatta
mediante reclutamento ad hoc, al pari della Spagna (che con l’Italia condivide
anche il dibattito sulle differenze/somiglianze tra interpretazione e mediazione).
Secondo Putignano (2002:215)114 presenta infatti le tipiche caratteristiche di una
professione
da
poco
sviluppata:
mancanza
di
formazione
e
pratica,
disorganizzazione, disunità tra praticanti, cattive condizioni lavorative, mancanza
di riconoscimento della professione tra i clienti e tra le istituzioni pubbliche.
L’attività di interpretazione di comunità si fonda dunque in gran parte sull’opera
di interpreti ad hoc, che, come di consueto, spaziano dai volontari, ai membri
degli staff degli enti pubblici, a parenti, amici e conoscenti, con le conseguenze
del caso di questa pratica, che abbiamo più volte enumerato. Ovviamente anche in
ambito italiano si è innescato il consueto circolo vizioso che ha portato ad una
scarsa considerazione della professione, scarso prestigio, scarsa remunerazione,
tutti elementi che senza dubbio non attirano i finanziamenti e le politiche
necessari per elevare il livello dell’attività. Non a caso, in Italia mancano i fondi,
ma anche la volontà politica di migliorare la situazione dei servizi di
interpretazione per la comunità. Purtroppo gli esempi di interpreti di comunità
professionali, ben pagati e ben preparati citati da Putignano nel suo studio (2002)
rappresentano una rara eccezione nel nostro paese; molto cinicamente si può
notare che nell’esempio principe esaminato dall’autrice (l’ISMETT di Palermo) il
perfetto funzionamento del servizio di interpretazione è dovuto alla partnership (e
ai finanziamenti) dell’Univeristy of Pittsburgh Medical Center, uno dei dieci
centri di ricerca più importanti degli Stati Uniti (ibidem: 216-217). Inoltre questa
negativa situazione è complicata dal fatto che si riscontra una generale mancanza
114
Putignano S. (2002), “Community interpretin in Italy: a selection of initiatives”, in Valero
Garcés C., Mancho Barés G. eds. (2002), Traducción e Interpretación el los Servicios Públicos:
Nuevas Necesidades para Nuevas Realidades/ Community Interpreting and Translating: New
Needs for New Realities, University of Alcalà, Servicio de Públicaciones de la Universidad: 215220
117
di riconoscimento dell’importanza e della difficoltà della comunicazione
interculturale che affligge i service providers (Rudvin 2002:126). La stessa autrice
propone come soluzione quella di promuovere ed incoraggiare la comunicazione
interculturale e la comprensione delle altre culture con un approccio basato sul
dialogo tra service providers, interpreti e clienti (ibidem:130), in un processo di
sensibilizzazione delle coscienze.
Per quanto concerne il tema della formazione e della certificazione, come già
abbiamo avuto modo di accennare in vari passaggi, in Italia non c’è uniformità di
istruzione universitaria per il community interpreting: sono disponibili una vasta
gamma di corsi sotto varie nomenclature che spesso nascondono lo stesso
argomento. Inoltre non ci sono requisiti o standard fissi a livello nazionale che
stabiliscano, per esempio, quanti anni di studio, a quale livello e sotto quale classe
di laurea siano necessari per diventare un interprete di comunità professionale.
Questa situazione di scarsa chiarezza a livello accademico riguarda anche le figure
del mediatore culturale e del mediatore linguistico, risultando così molto spesso in
una sovrapposizione e in un mix delle tre figure. In molti casi, mancando un
sistema organizzativo a livello statale ben definito, per sopperire alle necessità
sono stati autorità locali o enti non governativi a farsi carico dell’organizzazione
di corsi di formazione per gli interpreti di comunità, che possono risultare forse
troppo brevi o poco approfonditi, ma, come sottolinea Rudvin (2002:125)
rappresentano un risultato eccellente viste le magre risorse disponibili.
D’altro canto però è necessaria una presa di coscienza forte da parte delle
istituzioni e della politica, poiché l’importanza del community interpreting è
oramai innegabile e la necessità di standard e regolamenti condivisi si fa sempre
più impellente; per usare le parole di Garzone (2009:113), “non è pensabile che
l’erogazione di servizi linguistici non debba situarsi entro precisi limiti
professionali”, se il fine è quello di voler garantire costantemente un servizio
efficace e ben funzionante.
Abbiamo visto che in alcuni paesi in cui le istituzioni non ricoprivano la funzione
di stabilire norme e standard, questo ruolo poteva essere svolto anche da
associazioni di categoria. Ebbene, in ambito italiano anche il tema delle
associazioni è alquanto spinoso. Non esiste un’associazione unica che raccolga gli
118
interpreti italiani, magari sotto l’egida dello Stato, ma una pluralità di associazioni
che rivendicano prestigio e importanza. Ricordiamo per esempio l’AITI
(Associazione Italiana Traduttori e Interpreti), l’ANITI (Associazione Nazionale
Italiana Traduttori e Interpreti), l’AIIC Italia (riservata però agli interpreti di
conferenza). Ognuna delle associazioni ha il proprio statuto, il proprio
regolamento e i propri criteri di ammissione dei nuovi soci, in assenza di uno
standard di riferimento statale ed istituzionale.
Inoltre in Italia non esiste nemmeno un albo dei traduttori e degli interpreti, per
l’istituzione del quale, comunque, sono pervenute nel corso degli anni tante
proposte di legge che fino ad ora non hanno avuto grande fortuna, e pare non ne
avranno di migliore in futuro visto che le ultime tendenze politiche sono a favore
dell’abolizione anche degli albi già esistenti. L’ultima proposta di legge115,
presentata dall’On. Napoli, è datata 2008, insieme alla quale si è costituito anche
il Comitato ALTRINIT (che ha come scopo l’istituzione dell’ordine professionale
dei traduttori e degli interpreti), e mira a “valorizzare adeguatamente e a meglio
definire le diverse competenze comprese nelle professioni di questo settore e a
garantire a questa categoria di professionisti altamente qualificati un'adeguata
tutela sul piano giuridico, professionale ed economico”, suddividendo la categoria
dell’interpretazione nei seguenti profili professionali: interprete di conferenza,
interprete di trattativa, interprete di tribunale. A quanto risulta, la proposta si
trova, dopo quattro anni, ancora in fase di iter ed assegnata alla VII Commissione
Cultura, e non è mai stata dibattuta116.
In conclusione, in questa analisi del sistema-Italia che ha toccato terminologia,
ideologie, formazione, standard e status della professione, abbiamo avuto modo di
riscontrare che nel nostro paese il cammino della professionalizzazione è appena
iniziato e sembra anche procedere piuttosto lentamente, se non ci saranno
cambiamenti a livello statale e legislativo che garantiscano un’efficace
organizzazione della professione e tutelino i relativi praticanti. I segnali e gli
esempi positivi non mancano, ma molto ancora deve essere fatto per rendere
115
Fonte: Camera dei Deputati
http://www.camera.it/_dati/leg16/lavori/schedela/apriTelecomando_wai.asp?codice=16PDL00082
50
116
Fonte: Camera dei Deputati
http://nuovo.camera.it/126?tab=1&leg=16&idDocumento=801&sede=&tipo
119
l’interpretazione di comunità una professione riconosciuta e giuridicamente
delimitata. In questo senso, l’Italia potrebbe prendere ad esempio gli altri paesi
europei che hanno già vissuto una situazione simile ed hanno pertanto una
maggiore esperienza nel settore, per prendere come ispirazione i modelli ed i
sistemi che hanno dimostrato di funzionare bene ed allo stesso tempo esaminare
gli errori da loro già commessi con l’intento di non ripeterli.
120
CONCLUSIONE
L’elaborato appena presentato mirava a fornire un quadro quanto più
omnicomprensivo e dettagliato della variegata tematica del community
interpreting. Partendo da una prima parte che forniva una base prettamente teorica
ed accademica, necessaria come preambolo per gli argomenti che si sarebbero
affrontati in seguito, abbiamo presentato la figura dell’interprete di comunità
cercando di seguire una sorta di filo logico, presentando i fattori in una
concatenazione che culmina nell’analisi della questione principale che questo
scritto si è dato come obiettivo, ovvero la professionalizzazione della suddetta
figura.
In primis si è parlato del ruolo dell’interprete, analizzandone le caratteristiche,
l’ambiente lavorativo, il rapporto con il contesto culturale e con i suoi
interlocutori e presentando i principali studi accademici che si sono occupati
dell’analisi della funzione dell’interprete e delle sue possibili attitudini all’interno
dell’atto comunicativo. In seguito si è cercato di affrontare con la massima
chiarezza possibile un tema davvero delicato e che presenta diverse caratteristiche
a seconda della nazione presa in esame, quello della formazione del community
interpreting. Purtroppo è emerso il dato della scarsa consapevolezza, sia da parte
delle istituzioni che dell’opinione pubblica in generale, dell’importanza dei servizi
di interpretazione e ancor più dell’importanza della preparazione e della
formazione per avere dei professionisti adatti per svolgere al meglio tale ruolo.
Dopo un breve excursus sui corsi di formazione disponibili in Italia, e sull’impatto
della tecnologia nell’ambito del community interpreting in generale, abbiamo
esaminato in concreto il tema del rischiosità del ricorso ad interpreti ad hoc, che
purtroppo viene ancora troppo sottostimata e della cui pericolosità non ci si è
ancora resi totalmente conto. Nel quarto capitolo si è finalmente affrontata di petto
la questione centrale
di
tutta la trattazione, ovvero il
processo
di
professionalizzazione del community interpreting. Pare appropriato e doveroso,
comunque, sottolineare che anche i temi affrontati degli altri capitoli –
specialmente quello del ruolo e quello della formazione – sono concause che
concorrono a determinare la riuscita o il fallimento del suddetto processo,
121
influenzandone le tappe dello sviluppo e la rapidità con cui esse vengono
raggiunte. Ad uno studio quanto più approfondito sulle principali teorie
riguardanti il processo di professionalizzazione è seguito un esame del temachiave della valutazione della qualità, anche qui appoggiandoci agli studi dei più
importanti esperti del settore, senza trascurare un paragrafo più pratico dedicato
alle agenzie per i servizi di interpretazione ed al loro funzionamento. Infine, una
panoramica su vari paesi che presentano differenti livelli di sviluppo del
community interpreting, tenendo come bussola di riferimento il continuum
teorizzato da Ozolins, ha permesso di constatare la variegata situazione della
materia in giro per il mondo e il ritardo, purtroppo, del nostro paese rispetto alla
maggioranza delle altre nazioni occidentali, che ci pone in una fase preprofessionale dell’attività davvero poco lusinghiera.
Per quanto riguarda l’Italia in particolare, nel corso della dissertazione si è potuta
dimostrare la mancanza di un quadro normativo e legislativo ben definito sia
nell’ambito della formazione (cosa che poi ricade anche sulle questioni della
certificazione e degli standard, vista la disomogeneità della situazione) sia
nell’ambito della definizione della figura professionale vera e propria. A ciò si
aggiunga anche l’assenza di un albo professionale e di un ente che accrediti il
livello di preparazione minima di un interprete che ambisce a diventare un
professionista, e si arriva facilmente a capire il perché della situazione
confusionaria e ambigua che regna in Italia.
Per fortuna si è avuto modo di riscontrare che in molti altri paesi la situazione è
decisamente più definita e meno equivoca ma bisogna anche ammettere che
perfino nei paesi più sviluppati in termini di community interpreting la situazione
non raggiunge la perfezione totale e ci sono comunque degli aspetti che
potrebbero essere migliorati, poiché in molti casi le soluzioni di alta qualità dei
problemi più frequenti, parlando in generale (ma l’esempio più immediato
potrebbe essere l’assunzione di uno staff specializzato in pianta stabile per
risolvere la piaga del reclutamento ad hoc), sono quelle che richiedono un grande
sforzo economico alle spalle che di questi tempi pochi paesi possono permettersi.
La conclusione principale che può essere ricavata da questo studio è che
oggigiorno l’opinione pubblica mondiale non può più permettersi di negare
122
l’importanza e la necessità di garantire un equo accesso ai servizi pubblici e
sociali a tutti i cittadini, senza fare distinzioni linguistiche. L’unico modo per
bypassare
l’ostacolo
della differenza
linguistica tra
cittadino-cliente e
l’istituzione-service provider è affidarsi all’operato di un interprete professionale,
qualificato e preparato che assicuri una perfetta riuscita dell’evento mediato per
tutte le parti coinvolte. Senza dubbio la creazione o lo sviluppo di questo servizio
richiedono un grande sforzo normalizzativo, legislativo ed economico da parte dei
governi unito ad miglioramento delle condizioni lavorative e remunerative
dell’interpretazione, per rendere la professione appetibile e degna dei requisiti di
preparazione che verranno stabiliti. Con l’introduzione di criteri di formazione
obbligatoria e requisiti di accreditamento fissi, gli interpreti diventerebbero
professionisti qualificati e di ciò gioverebbero sia le tariffe che lo status sociale
della professione. Queste innovazioni andrebbero anche a contrastare l’effetto
negativo delle tante false credenze che ruotano attorno al concetto di community
interpreting e sono purtroppo molto diffuse nell’opinione generale della gente,
come quella riportata da Viaggio (in Amato, Mead 2002:297) che vede
l’interpretazione di conferenza più difficile a livello cognitivo e neuro-psicologico
dell’interpretazione di comunità (falsità peraltro smascherata dai più recenti
approcci multidisciplinari a questa forma di interpretazione).
Nel ventunesimo secolo, un periodo storico così caratterizzato ed influenzato dai
due grandi fattori della globalizzazione e dell’immigrazione che rappresentano
ormai processi irreversibili, una nazione civile che aspira a definirsi tale deve
assolutamente saper garantire a tutti i cittadini, stranieri e non, l’uguaglianza dei
diritti, che si rispecchiano anche nella libera fruizione dei servizi medici, sociali,
scolastici, ecc. Se gli enti pubblici nei prossimi anni non saranno in grado di
riconoscere ed esercitare il loro ruolo di accreditamento e normalizzazione (ruolo
che in questi anni, peraltro, spesso è stato svolto da altri organi, come gli enti
locali o le organizzazioni non governative in molti paesi), secondo Niska (in
Amato,
Mead
2002:296)
è
possibile
teorizzare
una
privatizzazione
dell’interpretazione per i servizi pubblici con la conseguente trasformazione in un
mercato commerciale, con tutti i pro e i contro del caso.
Infine,
pare
doveroso
sottolineare
che
la
totale
assenza
del
tema
dell’interpretazione nella lingua dei segni nella trattazione è dovuta alla mancanza
123
di un adeguato spazio di approfondimento da dedicare al soggetto durante la
disquisizione, sebbene esso faccia parte a tutti gli effetti della famiglia del
community interpreting. Tuttavia esso presenta delle caratteristiche così peculiari
ed un livello di sviluppo professionale in generale molto più elevato rispetto
all’interpretazione di comunità che potrebbe essere quasi considerato una sottofamiglia e meriterebbe un elaborato altrettanto lungo per esaminarlo nel dettaglio.
124
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