Gatlinburg, paradiso della middle class

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Gatlinburg, paradiso della middle class
OSSERVATORIO POPAI
di Daniele Tirelli*
Gatlinburg, paradiso
della middle class
Oltre 10 milioni di turisti invadono ogni anno la cittadina del Tennessee,
dove si fondono teatri, distillerie, siti storici, musei, parchi divertimento,
minigolf, piste da go-kart, comunità autoctone, e negozi di prodotti artigianali
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lle spalle, i maestosi silenzi delle Great Smoky
Mountains. Davanti la
lunga,
serpeggiante,
verde canopia della Parkway che
scende verso il Tennessee. E all’improvviso, la “surreale”, chiassosa,
frenetica strip commerciale di
Gatlinburg. Non più le inquietanti,
solitarie atmosfere “hillbilly” delle sperdute cittadine minerarie di
montagna, fondate secoli fa da rudi
highlander scozzesi, ma l’impatto
con lo sfacciato e “volgare” (ma
non per noi!) consumismo americano che dalla boom-town di Pigeon Forge è risalito fino al confine
di stato.
Gatlinburg, avamposto solitario
strappato alla foresta da William
Ogle all’alba dell’Ottocento, dispiega gli stereotipi della “Southern way of life” e dei suoi piaceri: il fascino della “wilderness”,
la musica, tanto cibo e ancor più
“moonshine whiskey”, un tempo
diabolica mistura distillata “al
chiaro di luna”, nella notte del
Proibizionismo. Oggi, al contrario,
il moonshine è il punto d’orgoglio
locale, declinato in una pletora di
aromi e offerto nelle “ole distilleries” da mattina a sera, quasi fosse
limonata.
Area di caccia e di passaggio per
gli indomiti Cherokee, Gatlinburg
trovò le origini in una baracca di
legno edificata da Ogle per trafficare con quegli indiani. Poi, stanco della solitudine, egli scelse di
trasferirvi la famiglia dal South
Carolina, dove, abbandonato dalla
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fortuna, soccombette alla malaria.
La sua famiglia allargata, però,
completò il viaggio incompiuto di
Ogle: era il 1806, e fu l’avvio della
colonizzazione di Gatlinburg irrobustita dai veterani della Guerra
Civile.
Oggi Gatlinburg è radicalmente diversa. Entro i suoi confini prosperano 4.000 abitanti dediti all’accoglienza di oltre 10 milioni di turisti
ogni anno. Immersa in una riserva
naturale di struggente bellezza che
i vacanzieri ammirano dallo Space
Needle, un belvedere alto 124 metri, la città gioca sul connubio di
un paesaggio senza tempo con il
divertimento più sfacciato. Teatri,
distillerie, siti storici, musei, parchi divertimento, minigolf, piste
da go-kart, comunità autoctone,
negozi di prodotti artigianali e
folkloristiche “stables” si fondono
in una miscela godereccia che esteti e intellettuali “highbrow” trovano indigesta quanto il moonshine.
Gatlinburg è infatti una delle tante espressioni “blasfeme” del concetto di tempo libero delle classi
medie americane, improntato a
quell’evasione gaudente e spensierata che altri luoghi mitici come
Las Vegas, Myrtle Beach o Atlantic City hanno espanso su grande
scala. Il concetto si materializza
addentrandosi nell’area abitata: un
vortice di colori, insegne, odori,
sculture, richiami… il tutto sotto una coltre di musica country e
bluegrass.
La sequenza decorativa della
Parkway 441, che taglia in due
l’abitato per poi spingersi verso
Knoxville, è l’invito ammiccante a fermarsi per chi transita. È il
conforto consumista di chi ha magari voluto rivivere un (tranquillo)
“week-end di paura” e l’angosciosa sensazione del contatto con la
natura e l’umanità selvaggia delle Appalachian Mountains. Così
i passanti si accalcano dentro la
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selva di richiami, di suggestioni
pubblicitarie e commerciali che
campeggiano ai lati della strada,
assieme ai negozietti country, le
abitazioni folkloristiche e i quick
restaurant. L’enunciazione programmatica del luogo è la riproduzione maniacalmente curata,
ironica e citazionista, dei tipici
riferimenti iconografici americani. Ne consegue un’estetica che
non è seriamente intenzionata a
replicare pedissequamente le proprie fonti d’ispirazione. Semmai le
omaggia con leggero disincanto,
per dimenticarle presto e senza
nostalgia. E così facendo ripropone
un tratto caratteristico della cultura popolare prevalente.
Nello specifico, l’espediente della decorazione commerciale, a
Gatlinburg, ricorre anche a figure
aggettanti che, secondo ben noti
stilemi barocchi, si staccano dal
fondo per catturare l’attenzione dei
passanti. Dunque, l’intramontabile
gusto pop di questo paese, parte dal
poco o dal nulla del signage e degli
onnipresenti bassorilievi a colori
vivaci per creare un tutto coerente e sensato. Chiara è l’intenzione
di connotare visivamente la strip
con una trama coreografica spontanea, ma complessa, di cui l’eccesso e l’enfasi decorativa sono la
principale cifra stilistica. L’intento
è suscitare, mediante tecniche collaudate, una sensazione di stupore
e di piacevole disorientamento. Il
flusso perenne di turisti esposto
a quest’esondazione segnica completata da un onnipresente tappe-
to sonoro non può fare a meno di
coinvolgere dunque anche il più
distaccato degli osservatori. È la
giocosa immagine d’insieme della
successione orizzontale di vetrine
da cui deriva un’elencazione simbolica e riassuntiva del consumismo americano.
Gatlinburg, incurante dei pregiudizi estetici ampollosi, ostenta il
piacere per il grottesco e il bizzarro, assecondando un gusto popolare che ancora apprezza, nonostante
lo splatter cinematografico iperrealistico, l’ingenuità dell’haunted house con i suoi manichini e
le sue strutture apparentemente
decrepite e fatiscenti oppure il
surrealismo dell’equino antropomorfo robotizzato che cavalca un
vecchietto tremolante. Insomma il
principio del bestiario e dell’inusuale, consacrato dal grande Barnum Circus, vale ancora e si completa con l’immancabile “Ripley’s
Believe It or Not! Museum”.
Commistioni e abbinamenti improbabili danno dunque un senso
compiuto a un eclettismo a forti
tinte, essenzialmente volto a un pittoresco da cui trapela l’entusiasmo,
l’ingenuità, il kitsch spensierato di
quell’estetica popolare americana
che lo spirito Tennessee sembra accentuare senza complessi. Il tutto è
declinato in una cospicua serie di
attrazioni: dai parchi divertimento
e acquatici (Wild Bear Falls Indoor
Waterpark, Ober Gatlinburg, che
d’inverno si trasforma in impianto
sciistico) all’intrattenimento familiare (Earthquake Ride, Amazing
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Mirror Maze, Mysterious Mansion,
Arcadia Planet Fun) e ai musei a
tema (Hollywood Star Cars Museum, Gatlinburg Heritage Museum). Parallelamente la cittadina
ha curato anche la valorizzazione
della cultura locale (Great Smoky
Arts and Crafts Community, la leggendaria Historic Ogle Log Cabin,
Noah Ogle Place), e naturalmente
i percorsi e siti naturali (Aerial
Tramway, Hen Wallow Water Falls,
Baskins Creek Falls) e la Roaring
Fork, il sentiero che costeggia i
ruscelli forestali e che in autunno elargisce l’ineffabile spettacolo delle foreste multicolori. E poi
teatri, cinema, cabaret e show di
magia (Sweet Fanny Adams Theatre, Comedy Hypnosis Show with
Guy Michaels, Bill Gladwell, The
Mentalist). Da menzionare, infine,
la pratica dei cosiddetti “Hillbilly
Weddings”, vale a dire matrimoni
consacrati secondo l’usanza locale in aree naturali, all’interno di
cappelle rustiche personalizzabili,
Scintillanti e
voluminose
automobili d’epoca,
che furono
utilizzate per il
traffico clandestino
dei distillati, ora
costituiscono
sedimenti storici
di una nazione
resa smemorata
dalla sua crescita
rapidissima e che
cerca pertanto di
ricostruire, ovunque
e minuziosamente,
le proprie origini.
Gatlinburg
ostenta il piacere
per il grottesco
e il bizzarro,
assecondando un
gusto popolare che
ancora apprezza
l’ingenuità
dell’Haunted House
con i suoi manichini
e le sue strutture
apparentemente
decrepite e
fatiscenti.
oltre a quelle più canoniche disseminate nell’area cittadina.
E infine parliamo della storica Ole
Smoky Moonshine Holler, che rivendicando con fierezza la sua
natura di family business gestisce
l’intera filiera non più del temuto
“hooch” (l’epiteto che indicava il
tipico liquore di bassa qualità per
il contrabbando), ma di un superalcolico raffinato e rinomato. Emblema della città e mimesi edulcorata
di un passato in realtà durissimo,
oggi è il luogo più visitato e più
citato di Gatlinburg, oltre che la
prima distilleria ufficialmente autorizzata, nel Tennessee, a produrre fuori dalla clandestinità l’oro
locale: il whiskey.
Scaffali, capanne, travi e botti di
legno utilizzate come supporto
espositivo costituiscono l’intelaiatura materiale delle sue ambientazioni interne. L’estetica evocativa di un’epoca così controversa è
frutto di una cura meticolosa per
i dettagli di corredo: vecchie tar-
ghe automobilistiche fissate sulle
travi, réclame d’epoca, imballi,
copricapi e capi in pelliccia alla
Davy Crockett, l’eroe del Tennessee. A ciò si aggiungano alcuni
elementi dominanti del design
interno: scintillanti e voluminose automobili d’epoca, che furono
utilizzate per il traffico clandestino dei distillati, ora costituiscono
sedimenti storici di una nazione
resa smemorata dalla sua crescita
rapidissima e che cerca pertanto
di ricostruire, ovunque e minuziosamente, le proprie origini. Anche
una Ford Coupe Deluxe del 1940
e altre auto mitiche colme di abiti
possono assolvere questa funzione, oltre a fungere da soluzioni di
visual e cross-merchandising.
È in questo ambiente che si sviluppa un’autentica “moonshine experience”. Si varca la soglia della
Holler e un penetrante e pervasivo
profumo di grano fermentato anticipa sensazioni che riconducono
a un passato lontano e leggendario. Si sorseggiano gli assaggi di
whiskey. Si mangiano peanut bollite o apple pie. Poi su decine di
tradizionali “rocking chairs” del
sud si assiste a sessioni ininterrotte di live bluegrass music nella
piazzetta ricavata all’interno della
costruzione.
Ma la Holler delinea anche un tratto d’identità nazionale, rivendicato con orgoglio da innumerevoli
citazioni e allusioni a riguardo,
sparse in tutta la cittadina. Un’identità che affonda le sue radici in
un mondo remoto, laddove l’arte di
produrre o smerciare in qualche
modo il whiskey era un espediente
per sopravvivere ai terribili anni
di depressione economica e trovare un momentaneo conforto, in
attesa di tempi migliori.
* Presidente di Popai Italy
Alla concezione e alle ricerche
necessarie per l’articolo
ha contribuito Marco Tirelli
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