Verso un VITRUVIO DI PERIFERIA Towards a Vitruvius Of Suburbia

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Verso un VITRUVIO DI PERIFERIA Towards a Vitruvius Of Suburbia
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Verso un VITRUVIO DI PERIFERIA
Towards a Vitruvius Of Suburbia
Il termine architettura deriva dal greco ἀρχη árche (ciò che viene prima / il potere di...) e
τέκτων técton (costruzione). Può quindi assumere il duplice significato di “la costruzione di
ciò che viene prima” e “il potere della costruzione”.
L’architettura è condizione primaria del vivere per gli esseri umani e deve tenere conto
delle necessità dell’uomo. Il primo obiettivo è quello di dividere il kaos dal kosmos, cioè
creare un ordine per fare sì che gli esseri umani possano vivere bene ed essere felici.
Il kosmos è composto dallo spazio e dal tempo.
Nella lingua giapponese il termine spazio 空間 (kuukan) è composto da due ideogrammi:
kuu (空) che vuol dire vuoto e kan (間) che indica intervallo, tempo. Perciò lo spazio non è
più la somma di due entità, ma è un’insieme che non è possibile pensare separatamente:
lo spazio è un vuoto che cambia nel tempo.
Le “teoria M”, una variante della teoria delle super stringhe, definisce lo spazio per mezzo
di 11 dimensioni, nove spaziali, più il tempo, più la forza di gravità.
Se si pensa all’architettura come la disciplina che governa lo spazio, ne consegue che
occuparsi di architettura inizia a diventare una cosa molto seria e complessa. Umberto
Eco coglie il punto dichiarando che l’architetto è l’ultimo umanista della nostra epoca
perché egli deve possedere l’abilità del fare una sintesi tra le molte variabili che devono
essere prese in considerazione.
Poco più di duemila anni fa Marco Vitruvio Pollione giungeva ad una conclusione simile
sostenendo nel suo tratto intitolato De architectura che l’architetto dovesse essere in
grado di muoversi tra discipline diverse come geometria, matematica, anatomia e
medicina; ottica e acustica; giurisprudenza, teologia, astronomia e meteorologia.
Claude Perrault nel XVII secolo sintetizzò il trattato nella famosa triade vitruviana per cui
l'architettura deve soddisfare tre categorie: firmitas (solidità); utilitas (funzione,
destinazione d'uso); venustas (bellezza).
L’architettura si occupa di spazio in tutte le sue scale. Alla scala urbana, l’architettura ha
assunto recentemente il nome di urbanistica.
Il termine urbanistica deriva dal latino urbānu(m), ŭrbs, ŭrbis (città). Benché il disegno e la
progettazione delle città risalga agli anni più antichi è l’ingegnere catalano Ildefons Cerdà
che nella metà del 1800 cogna il termine urbanizzazione.
L'urbanistica nasce come disciplina autonoma nel XIX secolo con la funzione di pianificare
la città allora basata su una società industriale guidata dalla produzione manifatturiera e
dalle idee di egualitarismo e di igiene. Questi principi sono stati visualizzati da persone
come Ebenezer Howard e Le Corbusier nella prima metà del XX secolo.
Dopo le devastazioni della Seconda Guerra Mondiale, l’idea di città moderna si è diffusa
nel mondo attraverso la ricostruzione e lo sviluppo economico conseguente. L’idea di città
moderna penetrò non solo nella testa degli architetti e dei pianificatori, ma anche dei
politici e degli amministratori. In altre parole la costruzione della città fu vista come
l’occasione per la creazione di una società egualitaria. Lo sviluppo della motorizzazione di
massa e la diffusione dell’automobile indusse ad una dilatazione dei confini urbani fino alla
dispersione della periferia. Presto l’equilibrio tra uguaglianza e libertà iniziò a pendere
verso la libertà dando il via alla speculazione edilizia che vedeva nella città un
turbocompressore per l’accelerazione dei flussi di capitali.
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La città del XX secolo viene quindi pervasa dalla figura del frammento, una figura opposta
alla continuità. Salutata inizialmente come liberazione e conquista, liberazione dall’ordine
moderno e borghese, conquista di nuove libertà individuali, la figura del frammento e i
fenomeni di dispersione di diffusione della città nel territorio che di fatto le sembrano
indissolubilmente legati hanno costruito nuovi disagi e paure tra le quali, proprio a causa
dell’eterogeneità delle situazioni che connotano un mondo frammentario, solo con difficoltà
è possibile riconoscere un denominatore comune. Lo sprawl urbano, incubo degli urbanisti
della fine del XIX secolo e tuttora perdurante, ne è un indizio. (Bernardo Secchi)
La mancata comprensione di questo passaggio tra città moderna e città contemporanea è
il principale responsabile delle odierne difficoltà dell’urbanistica.
Fino all’inizio del nuovo millennio il mondo è sempre cresciuto in termini di popolazione,
trasporti, produzione e aspettativa di vita. Sebbene ci siano stati momenti di stallo o di
recessione ha poi recuperato rapidamente il trend di crescita; sia la quantità sia la qualità
sono cresciuti incessantemente. Alla base di questa crescita giace l’innovazione
tecnologica che è stata in grado di migliorare il tenore di vita delle persone per mezzo di
due tipi di sfruttamento: lo sfruttamento delle risorse della terra e dell’ambiente; lo
sfruttamento delle regioni e delle popolazioni.
Il primo è ampiamente riconosciuto oggi come il problema della finitezza delle risorse e le
future innovazioni tecnologiche, come per esempio quelle inerenti al miglioramento
dell’efficienza energetica, dovranno prima di tutto mirare a limitare tale sfruttamento. Ma
presto o tardi lo sfruttamento delle risorse diventerà estremamente costoso, anche dal
punto di vista economico, per cui si renderanno necessarie misure di controllo nell’uso
delle risorse della terra.
Il secondo è quello delle regioni e della popolazione che iniziò con la scoperta
dell’America alla fine del XV secolo, continuando poi con il colonialismo a cui prese parte
anche l’Italia, per tramutarsi infine nella globalizzazione. Simile tipo di sfruttamento esiste
anche all’interno delle nazioni stesse, per esempio nelle aree periferiche che subiscono le
migrazioni verso le aree metropolitane da parte dei giovani attivi alla ricerca di un posto di
lavoro. I recenti fenomeni di spopolamento riguardano soprattutto spazi già fragili,
caratterizzati pertanto da una perdita delle capacità creative di innovazione e di reazione
dinanzi ai cambiamenti. Tali processi accelerano la destrutturazione dei servizi e
accentuano la disparità di accesso agli stessi.
La causa dei problemi ambientali è che mentre le risorse e la capacità della terra sono
limitate, la popolazione mondiale sta crescendo e le persone che abitano nei paesi
cosiddetti in via di sviluppo mirano ad ottenere lo stesso grado di benessere. Il risultato è
la diminuzione della disponibilità di risorse che ogni singola persona è in grado di
consumare.
In breve, il mondo del XX secolo che ha incrementato la produzione di beni materiali per
mezzo dello sfruttamento dovrà contrarsi verso un punto di equilibrio.
Politica, società, economia, ma anche la città non dovranno combattere la contrazione,
perché questa è inevitabile; dovranno guardarla come un’opportunità per pensare a nuovi
modelli e migliorare la qualità della vita delle persone.
Se la contrazione demografica ed economica venisse gestita in maniera inappropriata non
solo si darebbe origine a villaggi deserti, ma anche a città deserte contrassegnate da aree
ed edifici vacanti le cui infrastrutture risulterebbero impossibili da mantenere.
Per quanto riguarda lo specifico delle città italiane, bisogna prima di tutto capire che la crisi
economica non potrà mai finire perché è una crisi fondata sul calo dei consumi e i
consumi, per definizione, non saranno più in grado di aumentare per alcuni semplici
motivi: il primo perché la popolazione è in diminuzione, per cui se non cresce la domanda
non possono aumentare i consumi. Secondo, il numero di italiani sta velocemente
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diminuendo a fronte di una forte crescita di immigrati che però fanno parte delle classi
lavorative più basse e che inviano il 70% dei loro guadagni ai propri famigliari rimasti nel
paese di origine, quindi gran parte della ricchezza prodotta in Italia esce dal paese
contribuendo a renderlo sempre più povero. Terzo, la popolazione sta invecchiando ed
entro il 2050 quasi il 40% avrà oltre 65 anni e la capacità di acquisto di un pensionato è
sempre inferiore a quello di un lavoratore attivo. Quarto, l’attenzione nei confronti della
questione ambientale cresce ogni giorno sempre di più ed è stato stabilito che tutti i Paesi,
inclusa l’Italia, appartenenti all’Organization for Economic Co-operation and Development
(OECD) dovranno ridurre le proprie emissione di anidride carbonica (CO2) del 50-70%
entro l’anno 2050: questo comporta una certa attenzione verso l’evitare gli sprechi e
consumare di meno.
La famiglia nucleare tipo è scomparsa dalla città contemporanea. In alcuni paesi come gli
Stati Uniti e la Svezia essa rappresenta meno di un quarto dei nuclei familiari. Ad essa si
sono accostate altre forme di convivenza: la persona giovane sola, soprattutto la persona
sola anziana. In molte grandi città occidentali i single costituiscono la metà dei nuclei
familiari.
L’Italia sarà insieme a Germania e Giappone il paese più vecchio del mondo dal punto di
vista demografico. Nell’anno 2050 con un’aspettativa di vita media di oltre 85 anni, gli
anziani rappresenteranno il 38% e la popolazione dipendente oltre il 73%.
Le città di provincia mostrano una forte dipendenza dall’automobile. Prendiamo ad
esempio “il mangiare”: è in crescita il numero delle regioni in cui non è possibile acquistare
alimentari o andare fuori a pranzo senza dover fare uso dell’automobile, perché ristoranti e
supermercati sono tutti concentrati nei centri commerciali, collocati lungo le arterie stradali.
Questo fenomeno che sta accadendo negli Stati Uniti è conosciuto con il nome di Food
Desert. Per le giovani generazioni che possono fare affidamento sull’uso dell’automobile,
l’attuale struttura della città può non essere un inconveniente, ma per le generazioni più
anziane che non guidano o utilizzano l’auto saltuariamente, tale morfologia urbana può
diventare un ambiente estremamente difficile in cui vivere. In una società anziana, le città
che continueranno a dipendere dall’uso dell’automobile non sopravviveranno.
È necessario pensare ad un modello di forma urbana fondata su un sistema di trasporto
pubblico in grado di offrire accesso alle destinazioni desiderate, entro una distanza
percorribile a piedi.
Ad oggi il 67% degli italiani utilizza per i propri spostamenti l’automobile e solo il 12%
raggiunge le proprie destinazioni a piedi o in bicicletta. Questo dato restituisce l’immagine
di città talmente dilatate e dedicate all’uso esclusivo del mezzo privato da non essere più
percepite come uno spazio pubblico per le persone.
L’80% delle persone in Italia vive in centri urbani. Innanzitutto, cosa si intende per "centri
urbani" nel contesto italiano? Situazioni come Landriano (PV), Pairana (PV), Cogorno
(GE), San Giuliano Milanese (MI), Casarza (GE), Bargagli (GE), ecc. Sono centri urbani?
Moltissimi sono i “centri urbani” isolati, con pochi servizi e collegati quasi esclusivamente
da reti automobilistiche.
Il 70% della popolazione italiana risiede in piccole città di 60.000 o meno abitanti e il
numero dei comuni con meno di 5,000 abitanti rappresenta il 71%: in questi risiede quasi il
20% della popolazione italiana. Le grandi città in Italia rappresentano meno del 7% della
popolazione.
In conclusione la maggior parte della popolazione vive in piccoli comuni sparsi nel territorio
che di fatto rappresentano il vero modello del modo di abitare italiano. Un territorio così
frammentato congiuntamente ad una delle dipendenze dall’automobile più elevate nel
mondo fa intuire come anziani, giovani e chi in generale non può permettersi il
mantenimento di un veicolo (circa 7.300 euro/anno, dati codacons) siano tagliati fuori da
gran parte dei servizi offerti dalla città, con un costo sociale elevatissimo.
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Se negli anni ‘60 il problema era dare a tutti una casa, oggi l’obiettivo è dare a tutti una
città vivibile che possa offrire le stesse possibilità e servizi indipendentemente da classe
sociale, età e reddito.
L’architettura del XXI secolo deve preoccuparsi di creare un bene comune e mettere nelle
condizioni tutti i cittadini di poter godere dei servizi offerti dalla città.
In una recente chiacchierata con Masami Kobayashi, preside del dipartimento di
ingegneria dell’Università Meiji in Tokyo, ho compreso come la missione dell’architettura
nel XXI secolo sia quello di tornare a pensare alle persone. Che non vuol dire
necessariamente un’architettura sociale, vuol dire pensare alla città e agli edifici che la
compongano come lo spazio in cui possano essere soddisfatti i bisogni delle persone e
fare sì che possano essere felici.
L’architetto deve essere lungimirante e, come disse Le Corbusier, accettare di combattere
contro i mulini a vento che restano in piedi dopo tutti gli assalti.
Le dimensioni delle città pre-moderne furono dettate da distanze percorribili a piedi, ma
nel XX secolo è stata l'automobile a determinare la forma delle città fino a disperderla.
Per Benevolo lo spazio della città è in qualche modo percepito come un insieme, deve
essere percorribile in un tempo breve e costituito di elementi ravvicinati. La città deve
distinguersi nettamente dall’intorno. Il principio del recinto, che protegge l’uomo e le sue
cose dai pericoli che possono sorgere nei luoghi aperti, domina la struttura di questi
insediamenti. Il nuovo paesaggio che si definisce deve poter essere memorizzato e
diventa uno strumento essenziale per orientarsi nel tempo.
La libertà di muoversi è uno dei diritti fondamentali garantiti dalla società moderna. Non è
forse il ruolo della città e dell'architettura quello di creare un ambiente in cui tutti possano
spostarsi liberamente e beneficiare allo stesso modo di tutti i servizi che la città può offrire,
anche senza possedere un'automobile? Nel XXI secolo, tempo in cui si deve affrontare la
contrazione demografica e economica, la questione ambientale e l'invecchiamento della
popolazione, la forma delle città dovrà essere dettata dalla forma di un efficiente sistema
di trasporto pubblico.
È da qui che bisogna partire: se nella piccola scala, quella del singolo edificio, il concetto
di porosità, di spugna, di buco, di indeterminatezza tra interno esterno porta a risultati
molto interessanti, gli stessi concetti non funzionano alla scala urbana. I buchi diventano
aree desolate o sottoutilizzate e percepite come spreco. La non chiarezza tra ciò che è
città e ciò che non lo è porta indecisione e un senso di inadeguatezza.
La mobilità deve essere prima di tutto pubblica perché piaccia o no l’Italia sta diventando
un paese sempre più povero e sempre più vecchio.
La realizzazione di una rete di trasporto pubblico veramente efficiente e in grado di
acquisire un’indiscussa popolarità di utilizzo è l’unica soluzione che possa liberare dalla
dipendenza dell’automobile. Un efficiente sistema di trasporto pubblico necessita di un’alta
concentrazione di percorsi e servizi, ma per essere economicamente sostenibile deve
avere un’alta percentuale di utilizzo. Per questo motivo, la pianificazione urbana deve
integrare il disegno della città con la rete del trasporto pubblico, collegando la
manutenzione della rete all’utilizzo dei terreni.
È irragionevole pensare di poter fare tabula rasa dell’esistente, ma si devono proporre
con coraggio nuove strategie per connettere il tessuto frammentato italiano e liberarsi
dall’idea di città radiale.
È nella definizione di questi nuovi principi che sento il bisogno di un nuovo Vitruvio, un
Vitruvio Di Periferia.
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