Jacopo Brazzini – Hic Sunt Leones in India

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Jacopo Brazzini – Hic Sunt Leones in India
Jacopo Brazzini
Hic Sunt Leones
- in India -
Porte Scee edizioni
© 2014
Titolo | Hic Sunt Leones – in India
Autore | Jacopo Brazzini
ISBN | 978-88-91163-96-7
© Tutti I diritti riservati all’Autore
Nessuna parte di questo libro può essere riprodotta senza il
Preventivo assenso dell’Autore.
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Porte Scee edizioni
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A voi tre, perché partire è bello.
Farlo con voi è meglio.
Al mio compagno di avventura,
perché anche se adesso le nostre strade corrono parallele,
non è detto che un giorno non possano incontrarsi ancora.
Prefazione - di Greta Russo
“Si potrebbe dire con certezza che gli italiani sono gli indiani
d'Europa [...]. Sia in India sia in Italia ogni uomo diventa un
cantante quando è felice, e ogni donna una ballerina quando va a
fare la spesa dietro casa. Per questi due popoli il cibo è musica nel
corpo, e la musica cibo nel cuore. E le loro lingue...fanno d'ogni
uomo un poeta, e ammantano di bellezza anche la peggiore
banalité. Sono nazioni in cui l'amore fa di un gangster un
cavaliere, e di una contadina una principessa, anche se solo per il
breve istante in cui ti guardano negli occhi. Il segreto del mio
amore per l'India è il mio grande amore per l'Italia».
Didier Levy
Voglio iniziare così, con una citazione.
Queste sono solo pagine che descrivono un viaggio.
Un viaggio in moto, per la precisione.
Un viaggio in moto in India, a dirla tutta.
Una meta troppo turistica?
Troppo inflazionata?
Troppo hippie?
Troppo e basta?
Niente affatto. Queste pagine, che sono un incrocio ideale fra
una Routard e un racconto di Brizzi, descrivono una nazione con
gli occhi imparziali di chi intende fornire indicazioni per il viaggio,
ma soprattutto, soprattutto descrivono con occhi molto, molto
parziali, l'India di chi é arrivato ed é caduto nella sua malìa. E non
si é più ripreso.
Una nuova prospettiva, che consente di vedere le cose da un
punto di vista insolito, e francamente pericoloso: dalla sella di una
Royal Enfield, motocicletta fabbricata a Chennai, nel sud del paese,
su progetto inglese degli anni cinquanta, e mai, per fortuna,
aggiornato.
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Una moto old fashioned, come il viaggio che i due protagonisti
compiono.
Senza interfoni, senza elettronica, con solo l'aiuto di un povero
navigatore satellitare.
Sfido chiunque legga queste pagine a non provare il desiderio
intenso di essere lì con i due toscani, seduti di fronte a un lago
sacro, mentre il sole tinge tutto di rosso.
Oppure insieme a loro mentre camminano per le strade delle
metropoli tentacolari e si rendono conto di essere lontani da casa.
Tanto lontani che si sentono non all'estero, ma proprio su un
altro pianeta.
Ma cos'é, in definitiva, che queste pagine raccontano?
La storia di due colleghi, due quasi amici, che un giorno,
ognuno per motivi diversi, decidono di partire.
E nella partenza, nel semplice salutare, si racchiude il segreto
che rende godibili queste pagine.
Nella voglia, nel bisogno di dar voce ad un sogno, nel desiderio
di essere anfitrioni dell'India come loro l'hanno vista e conosciuta
si esplicita la costituzione di un'associazione, che anno dopo anno
continua a portare altri motociclisti come loro in giro per quelle, e
altre strade.
Nella necessità di sentirsi, almeno un po', utili, si manifesta la
visita e l'offerta alla casa famiglia, che trovano quasi affogata dai
palazzoni della zona commerciale e moderna della periferia di
Delhi.
Pagine appassionate, eppure scritte con leggera ironia, con un
senso dell'umorismo gentile e goliardico.
Capitoli brevi, autoconclusivi, da leggere sotto l'ombrellone o
sul divano; in bagno - non me ne voglia l'autore, si sa che in bagno
si fanno sempre le letture migliori - o prima di dormire e, perché
no, sognare.
Ogni capitolo si conclude, diciamo così, con un consiglio
musicale. Sono, a dire il vero, consigli abbastanza complicati da
seguire, perché il più delle volte si trovano scritti nomi che ai più a me senz'altro - non dicono assolutamente nulla. Questo non deve
scoraggiare dal compiere una ricerca certosina e seguire
scrupolosamente l'indicazione. Un consiglio, però: prima andate a
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fine capitolo, cercate in rete la canzone (se non presente nella
vostra collezione) e ascoltatela mentre leggete.
Un libro utile, anche, perché capace di fornire indicazioni,
consigli e trucchi importanti per chiunque abbia intenzione di
cimentarsi in un'avventura simile a questa. Che sia con due o
quattro ruote conta poco; queste pagine serviranno anche a chi si
troverà in questa parte di mondo con un treno, con l'autista, con lo
zaino, con il trolley, con il fidanzato o con i figli.
Se le parole rispecchiano fedelmente e integralmente i fatti, a
questo punto, ci importa poco, quel che è certo è che l'embrione di
qualcosa di potenzialmente grande si è costituito, e noi, molti, ma
non tutti, restiamo in disparte a guardare, mentre pochi, gli altri, i
fortunati, o i temerari, corrono con i nostri amici lungo le strade
del Rajasthan.
Sono nati gli Hic Sunt Leones, e noi non possiamo fare altro
che gioire e sperare, prima o poi, di essere con loro.
Greta Russo - TripMaster
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Jacopo Brazzini: Hic Sunt Leones - in India
“E sarò certo che son stati giorni veri
perso nel ritmo strano del rumore
dei miei pensieri”
Casino Royale – Cose difficili, 1995
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Oggi, ore 7.55
Si sistema lo zaino sulle spalle, poi scende le scale. Alza gli
occhi verso le teste di elefante in pietra che sembrano uscire dalla
parete della hall degli arrivi. Prosegue sicuro e aspetta che un
funzionario si liberi. Baffoni neri, denti bianchi e sguardo
ingrugnito. Gli sembra anche di riconoscerlo.
L’uomo sfoglia le pagine fino a trovare il visto, poi confronta
scrupolosamente la fotografia con la faccia che ha davanti. Infine,
non senza un’espressione che sembra voler dire: va bene, ma solo
perché l’ho deciso io, timbra il passaporto.
Fuori il caldo colpisce come un maglio, e il sole è
luminosissimo.
Turbanti, giacche, cravatte, gonne lunghe, tailleur, jeans,
camicie scozzesi, t-shirt, kurta, sari e sarong.
Zaini, valigie, trolley, carrelli.
Più in là taxi, Ambassador, Toyota Prius, tuk tuk, Tata e
Mahindra.
“Eccomi” pensa “Ancora una volta”
Skanda si volta e vede le facce dei ragazzi un po’ preoccupate e
un po’ meravigliate. Stanno tutti insieme e sembrano difendersi dai
milioni di stimoli che aggrediscono i loro sensi.
Fa un cenno con la mano e dice: “Benvenuti in India!”
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Prologo
La strada
Skanda si allunga sulla sella e stira la schiena. Tinto non si vede
più, in fondo al rettilineo, ma forse è dietro, non se lo ricorda
neanche.
Movimenti essenziali, pensieri essenziali. Nulla di più di quel
che è necessario.
Dopo la terza ora in sella ad una moto il cervello si scinde in tre
parti distinte:
La prima è quella che serve per guidare, che mantiene i sensi
all’erta, che fa sembrare automatici movimenti che invece non lo
sono; è la parte che si accorge di un puntino in fondo alla discesa,
del pullman che viene in senso contrario, e che
contemporaneamente controlla di avere abbastanza spazio a
sinistra, che non ci sia un ponte o un muro nel tratto di strada che
farà incontrare il pullman e la moto, e allo stesso tempo che la
spalletta non sia troppo in basso, che non ci sia ghiaia o sassolini, e
così via.
Sembra la parte più grande delle tre, perché risponde al
requisito fondamentale dell’immediatezza, del problem solving;
invece è la più piccola, e corrisponde all’incirca alla zona frontale
della scatola cranica, un posto dove le immagini sembrano
proiettate sulla parete concava all’interno della testa.
La seconda parte è quella deputata ad immagazzinare le
informazioni su ciò che gli occhi vedono; su quel che c’è di bello, o
particolare. Insomma, su quello che vale la pena vedere e
ricordare. La parte, per così dire, turistica. Quella che una volta
sceso di sella sarà la tua guida personale; quella che confronta,
immagazzina, all’occorrenza trasforma e salva i ricordi.
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Questa è la parte che corrisponde all’incirca al dietro del
cranio, tra le rocche petrose e il cervelletto, anche se - e qui quasi
tutti i viaggiatori su ruote sono d’accordo - tende a variare da
individuo a individuo e da momento a momento. È come una
goccia di mercurio su un piano non perfettamente immobile: si
divide, poi corre in una direzione, scarta, poi si riunisce; insomma,
non sta mai ferma.
Infine la parte più grande; quella per cui scegli (o non scegli) di
essere un viaggiatore su ruote. Questa è la parte in cui tutto è
rarefatto, come l’aria sull’Annapurna. Dove i pensieri sono
essenziali e primitivi: fame, sonno, crampo al polpaccio. Non c’è
spazio per il pensiero cosciente in questa aria fina; tutto fluttua e
ogni sensazione appare come un colore sfumato, quasi come la luce
di un faro su un promontorio nebbioso.
È per questo che senti la moto come un prolungamento
naturale della tua persona. Come quei mostri che descrive Koontz,
che sono stati talmente a lungo davanti al monitor del computer
che hanno le dita fuse con le lettere della tastiera, gli occhi
direttamente collegati al monitor e tutta una serie di cavi che
partono dal retro del Pc per attaccarsi ad escrescenze sulla testa e
sul collo.
Ecco, chi viaggia su ruote, i motociclisti soprattutto, sono un
po’ come quei mostri, ridotti ai minimi termini, ma in grado di
percepire una lievissima variazione nella vibrazione sulla pedana
sinistra, o capaci di vedere - proprio vedere - il pistone che corre
instancabile nella sua marcia bidirezionale e avvertirne ogni
cambiamento, anche minimo. Ogni variazione di rumore,
temperatura, o anche, perché no, impressione.
Muove la testa in qua e in là, sente il collo scrocchiare; poi
allunga all’indietro le gambe e sistema i piedi sulle pedanine
destinate al passeggero, in questa posizione si stira verso il
manubrio e sente il marsupio che forza tra la pancia e il metallo, lo
gira sul fianco e assume stabilmente una posizione che lo fa
sembrare il superman del Deserto del Thar, semidisteso sul
serbatoio, con le gambe indietro e le mani saldamente ancorate alle
manopole.
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La strada, intanto, se ne frega dei dolori del motociclista e
prosegue la sua corsa lungo il rettilineo. Qui sembra che non
abbiano inventato né le curve né le gallerie, e allora si continua a
stendere l’asfalto in linea retta, lungo il versante delle colline: un
attimo prima sei a cento all'ora in una discesa vertiginosa e
neanche un minuto dopo sei a quaranta in una salita altrettanto
ripida.
Intorno solo terra ocra, qualche cespuglio di tamerici, sabbia e
cammelli.
Ci sono cammelli ovunque, sono ai bordi della strada, sono
all’interno, verso l’orizzonte destro e sinistro, vicino a delle strane
capanne che ogni tanto interrompono la monotonia del paesaggio.
La strada vista dalla sella della Royal Enfield è splendida;
sembra quasi una di quelle foto della Monument Valley in Arizona,
dove vedi la striscia nera dell'asfalto che sembra perdersi
all’infinito.
Ma da qui non si arriva a Los Angeles; si arriva in Pakistan.
Skanda allunga il collo e prova a vedere se quel puntino laggiù
in fondo è la moto di Tinto, ma non capisce; dall’asfalto si alzano
volute di aria calda che fanno sembrare il paesaggio in lontananza
un miraggio tremolante. Mentre si avvicina vede che il puntino è
fermo ad un lato della strada. Stringe gli occhi, alza la visiera del
casco (millecinquecento rupie in Gurundwara Road) e vede Tinto
che muove le braccia come uno scimpanzé.
Improvvisamente le tre parti del cervello si riuniscono,
sembrano un po’ i Transformers, per come fanno in fretta; Il cuore
perde un battito.
“É successo qualcosa” pensa Skanda, e già lascia andare la
mano destra per levare gas. Ma no, è Tinto che gli fa una foto
mentre arriva.
Sospira di sollievo, poi tira giù la visiera, ritorna alla posizione
di guida ottimale: schiena dritta, posa da macho. Rallenta fino a
una velocità che consenta lo scatto e fa con la sinistra il gesto con le
dita a V.
“Fichissimo” pensa Skanda mentre passa “Se poi dietro la
curva apparisse anche un’oasi non sarebbe male”
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Ma dietro la curva ancora strada diritta, cammelli e Deserto del
Thar.
Cielo infinito e nuvole rapide.
Questa è l’India, baby.
Cooper Temple Clause: Music Box, 2003, Morning Records
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Il prima
Luglio/Agosto
Skanda
Si asciuga una goccia di sudore che gli sta scivolando
nell’occhio. Prende la siringa e travasa il contenuto dentro un
flacone di cloruro di sodio, poi ne prende un’altra e fa la stessa cosa
con un altro flacone. Attacca un deflussore ad ogni contenitore e
appoggia il tutto sul carrello.
Dalla stanza numero tre arrivano le voci di persone giovani che
ridono. Bene, è un piacere quando in ospedale si sente ridere. I casi
sono due: o sei nel reparto di psichiatria, e allora non è un buon
segno; oppure sei in un’unità operativa normale e sentire ridere
vuol dire che tutto va per meglio.
È un’estate caldissima, questa. E pensare che avevano detto che
sarebbe stato un anno dalle temperature contenute. Le finestre
delle stanze del personale sono state chiuse tutto il giorno e ora,
all’inizio della notte, appena aperte, lasciano entrare un po’ di
vento. Le stanze di degenza, invece, hanno tutte il condizionatore e
ogni volta che Skanda attraversa il corridoio e passa dalla stanza
dei farmaci a quella di un degente rischia la tosse cavallina.
Radio Nostalgia spara a raffica successi degli anni ottanta e
novanta, e tra un Gazebo e un Gianni Togni, ecco che arrivano i
Pearl Jam con Even Flow.
Goduria.
Skanda ride, è solare, sta volentieri in mezzo alla gente e fa il
suo lavoro, se non con gioia, almeno senza sentirne il peso più di
tanto.
Ma c’è qualcosa che gli rode dentro. Un pensiero che negli
ultimi tempi si sta facendo sempre più prepotente ed elaborato.
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Skanda vuole fare qualcosa. Qualcosa che gli resti nel cuore e che
gli faccia dire frasi come “Oh, che impresa quella volta che…”
Skanda ha compiuto quarant’anni, e ha la fanciullite di ritorno.
La sindrome di Peter Pan. Sogna sogni grandiosi e senza senso,
insegue fantasie che pensava sepolte con il compimento del
venticinquesimo anno.
Vive in una bella casa, con una bella famiglia. Non rimpiange
nessuna delle scelte che ha fatto: vendere la moto e comprare la
Fiat Punto; smettere di suonare e accontentarsi di strimpellare
Siamo Solo Noi; sposare la donna della sua vita e farci insieme
altre due donne della sua vita; avere tre gatti, fare l’orto e guidare
(orrooooore!) uno scooterone.
Eppure…
Eppure sente la vita scivolare via. È come l’amico che dice a
Nanni Moretti, quando compie quarant’anni:
“Ma te, quanto pensi di vivere? Ottant’anni?”
“Si, direi di si, all’incirca” risponde Nanni.
Allora l’amico prende un metro a nastro, tira fuori ottanta
centimetri e dice al regista:
“Ecco, questa è la tua vita, da quando nasci a quando muori”.
Poi reinfila nel metro quaranta centimetri e riprende:
“Ecco, quaranta li hai vissuti, questi sono quelli che
rimangono”
E quaranta centimetri, amici miei, sono proprio pochini…
Prende il carrello con la terapia endovenosa e va verso l’inizio
del corridoio. La notte intanto è avanzata, e con lei il buio. Dalla
finestra aperta i rumori dell’autostrada.
Partire…che bello...
Poi entra nella stanza numero sei.
DAD: Point of view, 1989, Medley Records
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Tinto
Si siede, chiude lo sportello, si sporge a destra, apre il
cassettino e tira fuori il registro. Segna i chilometri e rimette a
posto i fogli. Sono le otto, ma la macchina è a al sole e dentro già si
bolle.
È in ritardo.
Tinto è sempre in ritardo.
Se va a letto presto si sveglia tardi. Se si sveglia presto
cincischia per casa e poi, presa la macchina, si ricorda di non
essersi ricordato qualcosa. Se si sveglia presto e parte presto (e non
fa neanche colazione), trova di sicuro i lavori sulla strada e perde
un quarto d’ora.
La puntualità non è una virtù del nostro eroe.
E poi la moto è un’altra volta dal meccanico.
“Centraline del cavolo, mappature maledette” sbatte il pugno
sul volante della Panda dell’Azienda Sanitaria.
“Se non la vendo, questa moto, ci perdo la salute” Dice a
nessuno.
Tinto parla da solo.
Stamani lo aspetta un ambulatorio dall’altra parte della città,
una visita al carcere per fare qualche prelievo di sangue, e infine un
salto a una casa famiglia in centro per rifornire le suore dei farmaci
necessari per i degenti.
“Che palle” dice al vuoto dell’abitacolo, poi mette in moto e si
avvia verso la rampa che lo porterà sul viale, e da lì verso
l’ennesima mattina di lavoro, uguale a quella prima, uguale a
quella dopo.
Appena arrivato ha preso un caffè con Skanda, che stava
uscendo, finito il turno di notte. Tanto ormai, ritardo per ritardo,
dieci minuti non ammazzano nessuno.
Come al solito hanno parlato del Moto Challenge.
“Siamo una bella coppia di fenomeni” dice al finestrino aperto.
“Però l’idea mi piace, anche se quando ci sono stato io, già era
difficile muoversi a piedi, figurarsi in moto…”
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Ora pensa solamente, ma muove le labbra come se parlasse con
qualcuno.
Improvvisamente il caldo non è poi così caldo, e dal finestrino
scorrono immagini come un film in superotto di una Firenze estiva
che - guarda un po’ - gli sembra bellissima, e si scopre a guardare e
a valutare le gambe nude delle tedesche e i culi stretti nei
pantaloncini attillati delle giapponesi con l’ombrellino.
Quando arriva dall’altra parte dell’Arno sta fischiettando. Esce
dalla macchina con una smorfia (lui è un omone, la Panda è
piccola, e la schiena lo fa muovere con cautela), chiude lo sportello,
guarda a destra, poi a sinistra, si infila tra due motorini, un
autobus, scansa la tranvia e attraversa la strada.
Arrivato di là prende il cellulare e guarda l’ora.
“Cazzo se sono in ritardo”.
E si accorge di aver lasciato la borsa in macchina.
Mano Negra: Mala Vida, 1988, Boucherie Recors
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Skanda
“Ma te sei matto” dice Lara tagliando il petto di pollo.
Skanda ride, beve un sorso d’acqua e muove gli occhi in su,
come a dire: Madonna, che palle!
Poi guarda le bambine sottintendendo: va bè, me la sono
scelta, ora me la tengo.
Le bambine ridono, e anche Lara, che fa l’indifferente, si lascia
sfuggire una risatina.
“E poi, perché l’India? Che c’avrà l’India? Con la moto, poi. Ma
quale moto? Chi l’ha mai sentita nominare questa Royal Enfield. È
pericoloso; in India guidano come matti. Te l’ha detto Tinto, lui c’è
stato, guidano come matti. Davvero”.
“Oh, ma l’India…è l’India!" ribatte lui “E se mi lasci andare…”
“Certo che ti lascio andare, scemo, ti pare…”
“Occhei, allora deciso, India!”
Le bambine applaudono e spalmano la Nutella.
“Ma vai con la moto, babbo?”
“Andate te e Tinto?”
“Io e Tinto, l’India da Ovest a Est con la moto, e poi chissà, se
sopravviviamo potremmo davvero portarci un po’ di pazzi come
noi l’anno prossimo, e fare il viaggio a costo zero, e magari
guadagnarci anche qualche soldino...”.
Skanda guarda il barattolo della Nutella e in tre secondi la
volontà perde la battaglia con la gola.
“Poi ci compriamo una decina di moto, apriamo un ufficio a
Delhi e facciamo quattro o cinque viaggi l’anno, e si va lì a abitare,
in una bella casa in Connaught Place…”
“Seee, intanto vai a chiedere l’aspettativa all’ufficio del
personale, poi si vedrà” Risponde Lara.
“No, io a Delhi non ci vengo, io voglio stare qui” pigola una.
“Forte andare a Delhi…e si andrebbe a scuola laggiù?”
ridacchia l’altra.
Lo schermo del Mac lo illumina di una luce strana, sembra uno
zombi, seduto al buio.
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I Fat Freddy’s Drop suonano il loro primo, fantastico disco, e
lui sta creando il sito internet della loro impresa futura.
Gli altri lavori dovranno aspettare, adesso la priorità va a Hic
Sunt Leones.
Hic Sunt Leones. Suona bene.
È questo il nome che lui e Tinto si sono dati.
Come dicevano gli antichi Romani indicando al di là delle terre
conosciute, qui ci sono i leoni, intendendo che non si sapeva di
preciso cosa ci fosse, ma di sicuro era pericoloso.
E poi Hic Sunt Leones è il titolo del disco più bello degli Assalti
Frontali, e uno dei più belli in assoluto dell’Hip Hop Italiano.
Riduce ad icona il sito in costruzione e apre la posta
elettronica. Manda una mail ai due bed & breakfast per cui sta
lavorando (cosa avete capito, non fa il doppio lavoro; ogni tanto gli
capita di fare qualche semplice sito internet, e che sarà
mai…arrotonda…) e spiega che la costruzione dei loro siti potrebbe
avere un po’ di ritardo, perché ha un lavoro urgentiiiiissimo da
fare.
Poi cerca di ricordarsi l’abc delle strategie di marketing di
quando aveva la band e suonava, e inizia ad appuntarsi possibili
destinatari per un comunicato stampa. Attraverso qualche amico
comune, infine, si mette in contatto con una Onlus di Roma che
gestisce una casa famiglia per bambini di strada a sud di Delhi e
parla loro del progetto.
I patti tra lui e Tinto sono stati chiari fin dall’embrione
dell’idea: questa avventura (e le altre che seguiranno, perché altre
ne seguiranno, sono sicuri che ne seguiranno tantissime altre…)
dovrà avere come finalità quella di portare un’offerta a
un’organizzazione che si occupi di persone in condizione di
bisogno nel paese dove si dirigeranno.
Diobono, c’è l’imbarazzo della scelta…
La casa è silenziosa, sono tutti a letto. Lui non ha sonno, è
super eccitato. Non si sentiva così da quando…da quando? Da un
sacco di tempo. Gli viene in mente la sensazione di salire sul palco
per iniziare un concerto, quel senso di vertigine, quando sembra
che lo stomaco diventi piccolo piccolo e hai una voglia matta di
attaccare lo strumento all’amplificatore e iniziare a suonare, ma
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allo stesso tempo sei terrorizzato e vorresti che qualcuno dicesse
“Ok, abbiamo scherzato. Forza, tutti a casa!”
Si stiracchia indietro sullo schienale della poltroncina da
ufficio, cerca una sigaretta, non la trova, perché ha smesso di
fumare da sei mesi e tira una specie di bestemmia in turco.
Allora prende un quadro di cioccolata e se lo rigira in mano.
“Ma si, dai, è un quadretto di cioccolata, e se è fondente non fa
mica ingrassare…”
Se lo mette tutto in bocca e apre Google Maps.
Susanne Vega: Never wear white, 2014, Amanuensis Productions
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Tinto
Il tallone gli fa male, il quadricipite destro sembra un pezzo di
legno.
“Stasera proprio non va” pensa Tinto, mentre, testardo,
continua a mantenere la posizione del loto. Ritrova un minimo di
concentrazione e visualizza un fuoco che dall’ombelico si espande
in tutto il ventre, poi arriva fino al torace. Espira lentamente e
svuota la mente “Oooh, ci siamo” pensa.
Fa il vuoto dentro, il respiro ora è lento, funziona.
Poi pensa al chai, servito bollente dentro un bicchierino di
terracotta sui gradini in riva al fiume. Gli viene un inizio di
crampo, si rotola sul pavimento e si alza scattando come una
molla, massaggiandosi la coscia.
“Porca puttana” dice al vuoto del soggiorno.
“Quello stronzo non mi fa nemmeno meditare!”
Ovviamente lo stronzo è Skanda, e Tinto non riesce a meditare
perché da un paio di giorni ha in testa l’India.
Solo l’India. Sempre l’India.
Attraversa il soggiorno e va in cucina. Apre il frigo, cerca un
uovo, una fetta di prosciutto, non lo sa neanche lui cosa, ma trova
le vitamine di Lei.
Sono lì da quando se n’è andata, tre mesi prima, e lui ogni volta
che apre il frigo le vede, e ogni volta che le vede sente un pezzetto
di cuore che muore, eppure le capsule sono ancora là.
A forza di pezzettini il suo cuore è quasi tutto morto, ma la sua
mano non riesce a levare quelle pasticche dal frigo e a gettarle nel
contenitore dei rifiuti indifferenziati.
Ha levato tutto. Tutto quello che gli ricordava Lei. Ma una
storia che dura da più di dieci anni non vive solo di oggetti. Vive di
odori, suoni, ricordi…
Non capisce perché abiti sempre in quella casa. È la sua,
d’accordo, ma il buonsenso, ogni buonsenso, grida di andarsene da
lì, di trovare un posto neutro, dove ricominciare una nuova vita.
Una nuova vita…da solo.
Non ci può neanche pensare.
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Non è mai stato solo, ha sempre avuto Lei vicino, e adesso si
aggira per casa come un morto vivente.
Si allontana dal frigo e poi ci si riavvicina, in un gioco che ogni
volta lo lascia esausto.
Anche la scelta di non avere la televisione, adesso, gli sembra
velleitaria e forse un po’ snob.
Infatti parla da solo.
Parla da solo, Tinto, ma lo fa solo in casa sua. Per il resto del
tempo è un tipo piuttosto taciturno, e apre bocca solo se ha
qualcosa da dire. Un riflessivo, uno che pondera bene le parole che
dice, come se ognuna avesse un peso e lui dovesse pagarle per
quanto pesano.
Ma in casa, da solo, Tinto parla. E la voce che gli torna indietro
dalle pareti come un’eco in un certo senso lo conforta. Parlare da
solo è diventata un’abitudine che sta virando in dipendenza.
Ma da un paio di giorni parla meno, e apre il frigo meno
spesso; ha ricominciato a pensare che potrebbe davvero aprire un
piccolo ambulatorio di pranoterapia, e ieri è andato nella
cameretta che Lei usava come studio e ha preso dalla mensola,
incastrata sotto i fumetti di Nathan Never – tutti in ordine, con gli
speciali in fondo - la guida della Lonely Planet di quando è andato
in India.
Con Lei.
Calla: Fear of fireflies, 2001, Young God records
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Settembre
Si muovono per la Spagna del sud su una piccola utilitaria
noleggiata a Siviglia, e attaccano gli adesivi di Hic Sunt Leones un
po’ dappertutto.
Skanda è in viaggio con tutta la famiglia; parte delle sue ferie
estive corrono su un’Opel da Siviglia a Barcellona.
Hanno sollevato un polverone, con questo progetto del viaggio
in moto.
L’hanno chiamato India Moto Challenge, e hanno mandato un
po’ a casaccio comunicati stampa a riviste di settore motociclistico,
a blog di viaggi, agli uffici stampa dei quotidiani. Insomma, hanno
sparato nel mucchio e hanno aspettato.
Nel frattempo hanno aperto un account Facebook e uno
Twitter, hanno stampato un po’ di adesivi e un po’ di brochure, e
hanno iniziato a pianificare nei dettagli il viaggione.
L’attesa li ha premiati.
Siediti sul bordo del fiume e aspetta, prima o poi vedrai
passare il cadavere del tuo nemico. Chi lo disse? Confucio? Ad
ogni modo chi l’ha detto aveva ragione, almeno in parte.
L’interesse delle riviste di settore, soprattutto di quelle che
hanno anche una sezione on line, si sono manifestate subito e
anche prepotentemente. La redattrice di Motofan sembra un’amica
di vecchia data, e si fa in quattro per dare più visibilità possibile
all’evento. La pagina Facebook ha avuto tantissimi contatti e anche
il sito, che adesso è online e operativo, viaggia in maniera
autonoma.
È chiaro che il progetto assorbe una grande quantità delle loro
energie, ma resta sempre una parte limitata della loro giornata.
Ognuno dei due combatte con i propri impegni e i propri problemi,
e adesso lasciano che le acque si calmino un po’ e si godono chi le
ferie, chi i propri fantasmi.
Nel frattempo si attivano per risolvere gli aspetti prettamente
logistici e burocratici, e imparano a loro spese una delle prime
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regole che chi ha a che fare con l’India deve tenere sempre bene in
mente:
Non avere fretta, siediti e abbi pazienza.
Oddio, questo vale anche per la parte italiana della logistica.
Provate a fare il passaporto e la patente internazionale senza
incappare in situazioni kafkiane, poi ne riparliamo e vediamo se ci
vuole o no pazienza.
Mellow Mood: We a come, 2009, La Tempesta Records
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Ottobre / Novembre / Dicembre / Gennaio
Scuola, lavoro, piscina.
Corso di aggiornamento, pranoterapia, yoga.
Cyclette, film scaricati illegalmente da internet, i Tool, il
reggae, il basso Music Man venduto a ottocento euro, i biglietti
aerei, le cene dove si deve discutere e pianificare e invece si beve e
si finisce a cantare ma che ce freega ma che ce mporta, il restare a
dormire a casa l’uno dell’altro, roba che non facevi dalle elementari
quando restavi dal compagno di banco.
E poi il lavoro, il sito internet, il provare a fare jogging, la voglia
di fumare, il farsi crescere la barba, l’idea di comprare un camper,
la gatta che fa i cuccioli, la cura dell’orto.
Strenght in numbers dei Calla, Roads dei Portishead ascoltata
al buio insieme a tua moglie.
L’Ipercoop, l’Ikea, l’albero di Natale finto, l’albero di Natale
vero, la festa dell’ultimo dell’anno, la cena di pesce della vigilia, i
popcorn da mettere nel microonde, i nipotini che restano a
dormire, la macchina dal meccanico, la pagina Facebook, lo
scambio di mail con gli uffici stampa, Isla NG Bata, la casa dei
bambini Onlus.
Poi tua nonna che si ammala e muore, e te che sei
completamente intronato e non hai neanche la possibilità di
piangere perché non ti sembra vero, è sempre stata là, e ora c’è la
casa vuota, e allora ti scende una lacrima e pensi a Tinto che apre e
chiude il frigo.
25
Febbraio
È tutto pronto.
Biglietti aerei: fatti
Parcheggio auto a Milano: fatto
Aspettativa non retribuita: fatto
Moto: fatto
Strada: fatto
Navigatore satellitare: fatto
Caricabatterie per il gps da attaccare alla moto: fatto
La partenza si avvicina, e se ci pensano sentono uno strizzone,
e hanno subito bisogno di fare un salto in bagno.
L’aspettativa è alta, ma anche l’ansia. È inevitabile che ogni
persona che conoscono - e anche ogni persona che non conoscono voglia dire la sua su quello che si accingono a fare. Il commento
che più spesso viene fatto è: siete pazzi, seguito da: non tornerete
vivi.
Tinto non ha avuto neanche il coraggio di dire ai suoi genitori
che il viaggio l’avrebbe fatto in moto, e questo aggiunge un tocco di
magia al tutto. È un po’ come quando facevi forca a scuola e
passeggiavi per Firenze rischiando di incontrare la mamma. Se la
trovavi erano guai seri, ma se non la trovavi…vuoi mettere il
batticuore!
Il visto alla fine è arrivato, anche se hanno speso una fortuna
per farselo fare da un’agenzia di Roma. Da soli non era proprio il
caso, visto che minimo sarebbero dovuti andare per due volte nella
capitale di persona, e questo voleva dire perdere due giorni di
lavoro, che in prossimità di un’assenza così lunga avrebbe
significato un pandemonio e un malcontento di colleghi e capi.
Si vedono, fuori dal lavoro, un’ultima volta prima della
partenza. Tinto è in ritardo, ma Skanda non ci pensa più di tanto e
ordina un altro aperitivo mentre guarda la posta sul cellulare.
26
Ride e minimizza, ma è preoccupato. Gli sembra già di avere
nostalgia delle sue donne, anche se sono a venti chilometri da li e
in questo momento stanno mangiando il cous cous.
Lara si dimostra ancora una volta una roccia, e la cosa lo fa un
po’ infuriare, perché dopo tutti questi anni ancora non si spiega
come una donna dall’apparenza così delicata, dai modi così
tranquilli e dalla parlata scarsa e misurata si riveli talmente
adamantina da fungere da pietra angolare.
Un riferimento rodato, un porto sicuro.
Il suo incoraggiare Skanda alla partenza, l’ostentazione di
sicurezza, la tranquillità con cui sembra accettare tutto lo calmano
e funzionano meglio dello Xanax.
Lara incarna una parola che Skanda conoscerà solo tra qualche
settimana, in mezzo a un popolo malinconico e allegro, povero e
sereno:
Shanti.
Seduti al tavolino, l’iPad in mezzo, contemplano in silenzio la
cartina con il percorso evidenziato in rosso.
Si muoveranno in una sorta di giro semicircolare antiorario, e
da Delhi andranno immediatamente verso ovest, fino a
raggiungere il punto più a occidente della nazione. Da lì si
dirigeranno verso sud-est e poi verso nord-est fino a raggiungere
Varanasi.
“É Varanasi, capisci? Varanasi dev’essere il punto di arrivo” gli
dice Tinto.
“Ma perché proprio Varanasi?”
“Perché c’è il Gange, la Ma Ganga, la madre di tutti i fiumi,
perché è una città sacra, perché è uno dei punti abitati più antichi
del pianeta”
“Ma da Agra fino a Varanasi non c’è nulla, solo strada e qualche
paese”
“E che ti frega? Meglio così! E poi non è vero. Guarda, la strada
passa, con una deviazioncina, da Khajuraho, che è un posto
bellissimo, da vedere assolutamente”
“Ma te l’hai visto?”
“No, io sono arrivato solo fino ad Agra, poi mi sono sentito
male e sono dovuto rientrare in Italia prima del tempo…ho avuto
27
un’intossicazione alimentare devastante. Si dice che siano gli stessi
proprietari dei ristoranti degli hotel ad avvelenarti, almeno sei
costretto a prolungare il soggiorno in quell’hotel, e per loro è tutto
guadagnato. É per questo che noi non mangeremo mai nei
ristoranti degli hotel, ma ce ne andremo in giro fino a trovarne uno
che ci piace”
“Cavolo…sono atterrito”
“Per il mangiare?”
“Eh, anche”
“Per la moto dovresti essere atterrito, altro che per il mangiare!
Te non hai idea, ci pentiremo della scelta appena scendiamo la
scaletta dell’aereo, vedrai. Quello è un paese di pazzi”
“Macchè” ribatte Skanda pensando alle facce della gente
quando sentono il loro piano “Sarà fantastico! Tu hai girato mezzo
mondo, e io, mio caro, ho guidato a Città del Messico; vuoi che mi
facciano paura tre indiani?”
Se Skanda sapesse quello che lo aspetta farebbe meno
l'intrepido, ma ancora pensa che non gli facciano paura tre
indiani…
“Varanasi ci chiama. Dovresti sentirla anche tu. Pensa, arrivare
e vedere il Gange, scendere i ghat, le scalinate che portano
all'acqua, togliersi le scarpe e toccare il fiume, la madre di tutti i
fiumi”
“Sei matto? Quell’acqua nasconde ogni arma biologica
conosciuta e anche qualcuna sconosciuta, noi quell’acqua non la
tocchiamo neanche con i guanti!”
“Guarda che chi si immerge nel Gange, non si sa per quale
mistero, non si ammala, e la popolazione che vive sulle sue sponde,
che regolarmente ci fa il bagno e addirittura ci si lava i denti, non si
ammala mai. Quell’acqua dovrebbe essere inquinatissima, eppure
gli esami microbiologici non hanno mai evidenziato alcun germe
patogeno”
“Ma smettila. Ci buttano i cadaveri mezzo bruciati, in
quell’acqua”
“Bravo, e noi ci faremo le abluzioni come gli indù”
Skanda ci pensa su per un istante, poi dice:
“Occhei, se ci arriviamo integri ritualizzeremo la nostra vittoria
con un’abluzione nel Gange”
28
Si stringono la mano e poi, siccome hanno visto da poco un
film di Spike Lee, si danno anche un bel cinque.
Poi stanno in silenzio, ognuno perso nei propri pensieri, e
questa sarà una costante dei nostri due eroi: dialoghi solo se ce n’è
bisogno. Parlare tanto per fare non rientra nei loro canoni, e poi
questo viaggio è molto di più di un’apertura di rotta per sogni e
viaggi futuri. È una discesa dentro loro stessi, e sono pronti, oh, se
sono pronti, ad affrontarla.
Intanto all’iPad è partito il salvaschermo, e si vede la figura di
un leone disegnato da un artista di Barcellona.
Se ne sono impossessati senza problemi né pensieri e ne hanno
fatto il loro logo. Se l’artista vuole far valere i diritti di copyright
che lo faccia.
Facci causa, ciccio, ci trovi a Delhi!
Jeff Buckley: Grace, 1994, Columbia
29
Marzo
Skanda
Lo zaino Invicta è sul letto. È pieno a metà, ma lui non sa più
cosa portarsi. Vuole viaggiare leggero, e più leggero è, meglio è.
L’unica cosa che non può mancare è il suo coltellino svizzero.
Quello che gli ha regalato suo nonno. Non si ricorda neanche
più per quale compleanno.
È talmente vecchio (antico, meglio; anzi, vintage) che la figura
della bandierina svizzera si intuisce solo con la luce radente, e la
lama è scheggiata in punta. Ma taglia ancora come un bisturi e fa
compagnia al nostro eroe fin dal suo primo viaggio.
Solo una volta è stato sostituito da un serramanico a scatto,
che, dimenticato in tasca dei jeans, è stato requisito all’aeroporto di
Londra Gatwick.
Quando si dice il destino…
Il coltellino, per Skanda, è come la trottola per Cobb (ricordate
Inception?). Finchè la trottola gira, l’eroe mantiene un contatto
con la realtà. Così per quell’accessorio elvetico.
Finché riposa in una tasca dei pantaloni o dello zaino, va tutto
bene. Ti ricorda, con la sua presenza discreta, dove sei e da dove
vieni. È un compagno prezioso.
Ogni viaggiatore ha bisogno di un oggetto che lo accompagni,
possibilmente sempre lo stesso.
Questo oggetto si carica di un’aura speciale e di un’importanza
particolare, e alla fine si arriva ad amarlo, per quanto misero. Lo si
ama non in quanto oggetto, o per lo scopo a cui serve.
Lo si ama perché il passare del tempo l’ha levigato, lo ha
rivestito con una corazza che serve a proteggere anche colui che ne
è il proprietario. Solo così l’oggetto svela la sua vera natura, e colui
che lo stringe in mano per l’ennesima volta ne plasma l’essenza.
C’è un rapporto proporzionale tra la singolarità dell’oggetto che
ci accompagna e l’attaccamento che ispira.
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Ti voglio bene, coltello, perché ogni volta che ti sfioro mi
ricordi chi sono e soprattutto da dove vengo.
Perfetto, lo zaino adesso è completo. Lo spazio maggiore
l’occupano le medicine. Ce ne sono per tutti i gusti: per le infezioni
alimentari; per le eventuali piccole medicazioni; per la puntura di
insetti sconosciuti; per la bronchite, la varicella e il mal di denti.
Per la gastrite e per la tendinite. Per i morsi della tigre e per gli
attacchi dei Thugs. Per le scottature e per le meduse.
Fare un viaggio in moto significa vincere la battaglia contro la
tentazione di circondarsi di oggetti sotto i quali si rischia di
rimanere sepolti. La moto ci obbliga a fare una cernita.
In passato, i nomadi delle steppe asiatiche riuscivano a far
entrare tutti i loro averi in una scatolina di legno.
Oggi Skanda vuol fare lo stesso con lo zaino. Ma le medicine,
quelle sono irrinunciabili.
Le medicine e il pezzo di sapone di Marsiglia.
Perché un’altra cosa che rende il viaggio unico è la gioia - che
solo in viaggio si prova - di fare il bucato con un pezzetto di sapone
di Marsiglia in un lavandino di una stanza d’albergo.
Children of Thanatos: Chasing the loneliness, 2014, Gro. Rec.
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Tinto
Tinto è quasi uno Yogi, ed è convinto che il concetto di spazio
sia solo percezione. Se la volontà vuole far entrare in un
contenitore X un numero di oggetti Y, allora Y entrerà in X,
indipendentemente dalla capacità di X o dal numero o la massa di
Y.
Spazio come percezione. Volontà come azione.
Quindi, se l’assioma sopra descritto corrisponde a verità (e
corrisponde, perché è un assioma), non esiste un numero massimo
di magliette, scarpe, ciabatte o mutande. Qualsiasi numero di
calzini entrerà nella borsa (Tinto non ha uno zaino, ha una borsa,
che entra dentro un’altra borsa, quest’ultima impermeabile e
resistente anche alle tempeste solari o alle radiazioni di
Fukushima), visto che la borsa è plasmabile con l’intenzione.
Tinto è super accessoriato quanto Skanda è ipodotato (in fatto
di abbigliamento tecnico, ovviamente!). Skanda non ha neanche i
guanti, perché in estate guida senza, e in inverno usa quelli di pile
o le muffole, e tanto gli basta.
“Anche i guanti gli devo portare” dice Tinto al forno aperto e
vuoto.
Ma in fondo gli fa piacere, perché si sente investito dalla carica
di logista addetto alle riserve tattiche, e il ruolo gli si confà.
Sono quasi cinque ore che non pensa a Lei, ma appena
formulato il pensiero le gambe quasi gli cedono, e ha bisogno di
sedersi, tanta è la vertigine.
Ma, seppur intenso, il capogiro da cuore spezzato dura un po’
meno delle altre volte, perché si accorge di essere in ritardo e di
dover ancora trovare il baffo e la borsina messicana da tenere
intorno al collo dove mette la carta di credito ogni volta che parte.
Probabilmente questa borsetta fatta all’uncinetto, anche un po’
bruttina, svolge lo stesso ruolo del coltellino per Skanda e della
trottola per Cobb, ma non lo sapremo mai, perché Tinto è un po’
introverso e si tiene per sé certe cose…
Tinto ha girato mezzo mondo. È stato in Colombia e in
Vietnam; in Messico e in Thailandia; In india – due volte! – e a
Cuba. Ma non ha mai viaggiato senza di Lei, e soprattutto mai con
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un compagno di viaggio come Skanda: uno che vede tutti i giorni
da dieci anni, ma di cui, in fondo, sa pochissimo. Uno che è
esattamente l’opposto suo: cialtrone e caciarone, pressappochista,
facilone e un po’ stronzo. Ma Skanda gli piace, e per dire la verità
non è per nulla preoccupato della vicinanza forzata che li aspetta.
Sa già che ci saranno momenti bui e altri comici, passi difficili e
easy driving, ed è preparato.
Aborre il cameratismo testosteronico e gli fa orrore il
motociclista che parla solo delle tre effe: figa, futbòl e frizione &
forcelle.
Il suo compagno, in questo senso è l’ideale; delicato e riservato
riguardo l’altro sesso, raramente l’ha sentito fare un discorso o dire
una frase sopra le righe.
Skanda gli serve per dargli la carica, perché è vitale, entusiasta
di tutto (e di nulla), portato naturalmente a interagire con gli esseri
umani. Ma è anche volubile, si stufa facilmente, e talvolta la sua
vitalità si trasforma in umore nero e diventa intrattabile, chiuso e
decisamente antipatico.
Anche lui serve a Skanda, perché funziona come una boa, a cui
il compagno si aggrappa quando sente che affonda. Tinto si
sconforta di rado, e si scoraggia ancora più di rado. É vero che non
ha quasi mai grandi botte di entusiasmo, ma non ha neanche
cambi repentini di umore. É un po’ come Manfred nell’Era
Glaciale: forte, massiccio, calmo e ponderante. Non che Skanda sia
Sid, ma di certo non è Diego…
Giubbotto Belstaff, guanti Dainese, altro paio di guanti per quel
disgraziato, scarponcino tattico.
“Direi che ci siamo” mormora.
Getta tutto in macchina, va a fare un’ultima visita ai genitori e
poi, prima di mettere in moto e andare, si ricorda dove ha messo il
baffo, o per lo meno dove l’ha visto l’ultima volta. “C’è ancora
tempo” pensa “ sono le due e dieci, e ho fissato alle due mezzo”.
Peccato che debba fare venti chilometri di provinciale intasata
dai trattori, dalle corriere che salgono verso Greve e dai turisti
inglesi in visita nel Chiantishire.
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Ma Skanda non è mica scemo, e il suo motto è: Know your
chickens.
Con Tinto ha fissato alle due e mezzo, ma lui non ha la minima
intenzione di presentarsi prima delle tre.
Aspetterà comunque più di mezz’ora.
Ritmo Tribale: Sogna, 1994, Black Out Records
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Milano / Delhi
Non riconosce Malpensa; c’è stato due anni prima per volare
in Grecia, ma adesso è tutto cambiato.
Sembra quasi un aeroporto.
Più vicino alla Svizzera che a Milano, l’aeroporto di Malpensa è
appoggiato a sinistra dell’autostrada, in una landa desolata vicino a
dei paesi con nomi impronunciabili. Non è l’aeroporto del Nord
Italia, nonostante si continui a pensarla così. L’aeroporto del Nord
Italia sarebbe stato costruito nei dintorni di Pavia, per esempio, o
vicino a Mantova.
Invece questo obbrobrio è in un posto dove, se segui la
segnaletica ci arrivi dopo un calvario di raccordi autostradali di
cinquanta chilometri, e se segui il Gps ci arrivi dopo aver percorso
la tangenziale di Milano, e fai cinquanta chilometri in meno, ma
cinquanta minuti in più.
Circondato da parcheggi più o meno economici, è servito da
una navetta che parte da una stazione ferroviaria di Milano dove
non arrivano i treni interregionali.
I nostri due amici hanno scelto il Parking Go; ci sono stati altre
volte e sembra loro che garantisca un buon prezzo pur non essendo
lontano anni luce dalle piste di decollo e atterraggio.
Il loro volo parte alle nove, ed è – udite udite! – un diretto
Milano / Delhi, che in poco più di otto ore trasporta i fortunati
passeggeri da un continente all’altro. Sarà uno degli ultimi voli
diretti, perché la Jet Airways, la compagnia indiana vettore del
volo, di lì a sei mesi lascerà definitivamente gli aeroporti Italiani
per concentrarsi (chissà perché) su quelli Svizzeri e Belgi.
Ma tanto fa; se ne approfitta finché si può.
Skanda e Tinto salgono la scaletta, mostrano alla hostess
("Bona!" Pensa Tinto) il biglietto, e lei indica la fila di destra quasi
in fondo.
I minuti passano, e la speranza che il volo sia mezzo vuoto
diventa certezza quando i monitor sul retro dei poggiatesta si
accendono e iniziano a mostrare la procedura per gli atterraggi di
emergenza.
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Non aspettano neanche che le lucine delle cinture di sicurezza
si spengano; in un attimo sono già distesi nei posti a tre al centro
della fusoliera, e in culo alla cena, ai rinfreschi e ai film in terza
visione.
Buonanotte!
Quando un raggio di sole gli batte sulla stanghetta degli
occhiali (si è scordato di toglierli), Skanda si alza a sedere, si stira e
muove il collo a destra e a sinistra, cautamente. Ha la bocca
talmente impastata che sembra abbia mangiato un uovo sodo e
quando dice all’hostess “Coffe, please” ha la sensazione che dalle
fauci gli esca lo stesso odore che esce dalle fogne di Calcutta.
Tinto, di là dal corridoio, dorme ancora, ma quando Skanda
allunga il braccio per svegliarlo, si tira su di colpo e, con un
sorrisone tipo Stregatto, dice “Buongiorno, ci siamo!”
Effettivamente il monitor del sedile indica come tempo di
arrivo venti minuti. Boiadè, hanno dormito per tutto il viaggio!
Questo si chiama viaggiare, perdio!
Sono pronti, carichi, non vedono l’ora di scendere e di respirare
l’aria dell’India, quell’aria che stregò Moravia e Pasolini e che
Terzani chiamava “aria di casa”.
Sanno che al di là dei divisori ci sarà il signor Manmeeth Singh,
il nipote del signor Gundwari Singh, quello che venderà loro le
moto, con un bel cartello con scritto Hic Sunt Leones, e allungano
il collo cercandolo, tra autisti di minivan, ambasciatori di agenzie
di viaggio, parenti di viaggiatori, venditori di caramelle e
procacciatori di affari.
È ovvio che ad aspettarli non c’è nessuno.
A Place To Bury Strangers: Dissolved, 2012, Dead Oceans Records
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Delhi
Questa è l’India, baby, e un yes, sir non vuol dire
necessariamente si, così come certamente vuol dire forse e forse,
invece, vuol proprio dire forse.
Skanda tira fuori il telefono, e già bestemmia pensando a
quanto spenderà per una cavolo di telefonata intercontinentale e
chiama Gundwari Singh, il quale risponde immediatamente e dice,
amabile e serafico:
“Oh, bene, siete già arrivati? Allora posso mandare mio nipote.
Benvenuti in India, a tra poco”
Peccato che l’aeroporto Indira Gandhi sia a trenta chilometri
da Delhi, e che Delhi conti circa tredici milioni di abitanti, tutti
sulle strade impegnati ad andare chissà dove. Il tra poco del signor
Singh vuol dire tra poco in India, e la durata di un’intera partita di
calcio in Europa.
Questo è il primo incontro di Skanda con la parola Shanti, che,
alla lettera, vuol dire sarà quel che Dio vorrà.
Non è che gli piaccia molto, ma sembra che in India sia
patrimonio comune come le vacche sacre, e allora conviene
adeguarsi. Si siede nel bel mezzo del caos generale, appoggia la
schiena sullo zaino e prova a schiacciare un pisolino, ma è nervoso,
e si muove di continuo. Continuerà a muoversi e a borbottare
anche due ore dopo, quando, finalmente, l’Ambassador si
staccherà dal marciapiede e inizierà il lungo tragitto verso la
capitale della Confederazione Indiana.
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L'Ambassador
Sono distesi sui letti dell’Amrit Villa hotel, nel quartiere di
Karol Bagh.
Aspettano le tre per attraversare la strada e andare nell’officina
del signor Singh per vedere queste agognate moto. Intanto un po’
pisolano, un po’, grazie allo wifi che va come una scheggia, si
leggono La Repubblica.
Fanno spesso il conto di che ore sono a casa, e devono ogni
volta contare sulle dita perché in India, a parte che non esiste l’ora
legale, sono avanti di quattro ore e mezzo rispetto all’Europa.
Ok, vada per le quattro ore; ma quella mezz’ora?
Ebbene si, l’India ha il fuso orario con la mezz’ora. Il fatto che i
due continuino a pensare che gli indiani sono pazzi non cambia le
cose. Avanti di quattro ore e mezzo rimangono.
Quindi? Quindi in Italia sono le nove e mezzo di mattina.
Troppo tardi per trovare qualcuno in casa, e troppo presto perché
le persone "normali" siano tornate dal lavoro o da scuola.
Non resta allora che leggiucchiare e pisolare.
Quando sono saliti sull’Ambassador che li avrebbe portati in
città si aspettavano di vedere un po’ di panorama. Qualche mucca,
un paio di risciò, un turbante. Che so, una casa tipica, un tempio…e
invece non hanno visto nulla.
Delhi è una strana città.
È divisa in quartieri, come tutte le città, ma questa è divisa
davvero. Nel senso che ogni quartiere è circondato da un muro e ha
una strada di accesso e di uscita, quindi andando in auto per le
strade si vede poco o niente.
Indiani si, se ne vedono, soprattutto di due tipi.
Il primo tipo sono gli indiani che costruiscono il muro di cui
parlavamo prima. Sono donne, per la verità. Donne in sari che
impastano la calce, portano i mattoni, usano le pale e i picconi e
posano pietra su pietra con il filo a piombo. Gli uomini per lo più
se ne stanno seduti da una parte e si limitano ad osservare, e ogni
tanto abbaiano qualcosa a queste povere donne che si vedono
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passare con quelle che da noi si chiamano calderelle piene di
calcina in equilibrio sulla testa.
Poi ci sono quelli, più numerosi, che vivono ai bordi della
strada.
Sui marciapiedi, se ci sono, altrimenti addossati ai tratti di
muro già costruito.
Questi formano una moltitudine di umanità di ogni sesso ed
età, accoccolati sui talloni, distesi per terra o intenti ad alimentare
un fuoco non si sa fatto di cosa (ma si scoprirà poi, con grande
sorpresa e un po’ di sgomento).
Sono per lo più davanti a tendoni appoggiati su fili volanti, al
cui interno si intravedono i pochi averi. Generalmente questi si
limitano ad una pentola e a tanti, tanti bambini, che si muovono
scalzi e tranquilli in gruppi di tre o quattro. Ce ne sono di ogni età,
e non è raro vedere bambini di poco più di quattro anni che
portano in una specie di marsupio neonati appesi sulla schiena.
Questo spettacolo visto dal finestrino della macchina non
sembra neanche reale. L’auto si muove e il vetro inquadra le scene
di vita quotidiana come se fosse un film che scorre, con le quinte di
questo color ocra uniforme che altro non è che il muro che corre
lungo tutte le strade principali di Delhi.
Arrivare in una città direttamente con l’aereo è ben diverso che
avvicinarvisi lungo una strada. L’impressione che hai scoprendo la
città piano piano difficilmente ti lascia senza parole, perché hai il
tempo di abituarti a ciò che vedi. Viceversa, salire la scaletta
dell’aereo a casa tua e scenderla poi a Delhi provoca nell’ignaro
viaggiatore una sorta di scossa elettrica e una sensazione quasi di
incredulità.
Tinto ha passato giornate intere a cercare di raccontare a
Skanda che cosa significa arrivare in India. Gli ha raccontato che la
prima volta che c’è stato ha avuto bisogno di stare chiuso in
albergo per due giorni e di sorbirsi la nazione a piccole dosi.
Ha provato a spiegargli che cosa vuol dire la gente che vive in
strada.
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Ha provato a fargli immaginare i rumori, le istantanee
catturate dagli occhi, e soprattutto gli odori, ma non è andato
neanche vicino a farglielo davvero capire.
Skanda viaggia con il naso attaccato al finestrino. Non dice
niente, la sua faccia sembra fatta solo di occhi, e Tinto comincia un
po’ a preoccuparsi.
“Oooh” lo tocca su una spalla “tutto bene?”
Lui però non risponde e fa solo un cenno di assenso con la
testa.
Tinto ora è parecchio preoccupato. Se si prende l’India dal
verso sbagliato si rischia di dover tornare a casa, perché si sviluppa
una sorta di allergia, e non c’è cura, se non la fuga.
Skanda gira la manovella e tira giù il finestrino.
Inspira gli odori della metropoli: gas di scarico, merda, corpi
umani, cibo strano e dice:
“Io amo questo posto”
L’autista dell’Ambassador sembra intuire qualcosa, perché
sorridendo si gira, e accarezzandosi i baffoni prorompe in un:
“Wonderful city, isn’t it?”
Skanda lo guarda e riesce solo a mormorare un si a mezza voce.
È impaziente di scendere.
Vuole camminarci dentro, a questa città, la vuole respirare,
toccare, vuole sporcarsi le mani e mangiare il cibo che vendono
quei carretti con le ruote di gomma.
Tahuna Breaks: Reflections, 2007, Chewy Records
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Karol Bagh
Delhi è una metropoli divisa in nove distretti, ognuno dei quali
è diviso in altre tre zone. Karol Bagh fa parte della giurisdizione di
Delhi Centro, insieme a Pahar Ganj e Darya Ganj. Per arrivare a
Karol Bagh si esce dal lungo viale che taglia la città da nord a sud e,
svoltando a destra, dopo una rotonda, si entra nella via principale
del quartiere, Gurundwara Road.
Bisogna fare attenzione perché l’inizio della strada di accesso è
chiuso da barriere mobili con la scritta Delhi Police, e tocca fare
una specie di gimcana per evitarle. Probabilmente queste servono,
più che come barriere, come dissuasori di velocità, visto che gli
autoctoni hanno la tendenza a non rallentare mai, per nessun
motivo.
Il quartiere è dedicato a tutto quello che ha a che fare con i
motori. Praticamente è un’enorme officina. Lungo le strade si
accalcano le rivendite più improbabili e pazzesche: negozi in cui si
vendono solo paraurti. Laccati, cromati, in plastica, carbonio e
metallo. Altri in cui sembrano esserci solo marmitte, ma dentro
puoi trovarci anche tappetini di tutti i tipi e di tutte le misure.
Altri ancora vendono solo adesivi.
Cerchi un adesivo per la tua Suzuki? L’hai trovato.
Per il trattore Lamborghini? C’è!
Hai una Ferrari e vuoi attaccarci un bell’adesivo con il cavallino
rampante? Non ridete, qui tutto è possibile, anche questo.
Davanti ad ogni negozio ci sono ovviamente macchine, moto,
motorini e biciclette parcheggiate, smontate, carbonizzate. Ibridi di
Ape Piaggio e Moto Morini Sport; risciò a pedali e pedali senza il
risciò. In più, sembra che per legge ogni cinque metri ci debba
essere un chiosco che vende roba da mangiare, con relativa coda di
clienti, accattoni e perdigiorno.
È tutto un brulicare di vita, tutto è in movimento. Nessuno sta
fermo, a parte i pochi che dormono, distesi, incuranti dei piedi che,
miracolosamente, li scansano sempre. Nessuno sembra far caso ai
due Gaijin (è un termine giapponese, va bene, ma rende l’idea) che
bianchicci e biondicci si muovono come se avessero delle uova in
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tasca e anzi, se qualcuno li vede non manca mai un sorriso o un
namastè.
Skanda è talmente permeabile ad ogni stimolo esterno che la
sua personalità ne è completamente annichilita. Cammina senza
meta e senza fretta. Scende e sale sui marciapiedi. Tocca i muri, le
macchine, i rottami. Non ha fame ma prende una cosa che gli
sembra si chiami samosa, e prima di mangiarla si sporca tutte le
dita con l’unto che filtra dal tovagliolo in cui è incartata. Tinto gli
va dietro ridacchiando.
Va bene la fascinazione, ma questo è un colpo di fulmine!
Intanto mentre lo segue vede che ogni due secondi l’amico
sporge ora l’indice desto, ora il sinistro per indicare qualcosa. Un
turbante, un accattone, un bambino, un cane, un risciò, un uomo
secco secco che sta pisciando faccia al muro; una altro che sta
accoccolato, le spalle alla strada, e fermissimo osserva forse una
crepa nella parete di un palazzo.
Karol Bagh sembra il Cairo dopo che è esplosa una bomba
nucleare e poi ci è passato sopra un tifone.
Non c’è niente di nuovo, niente di pulito, niente di intatto.
Anche le cose che per forza devono essere nuove, come per
esempio quel suv nero là in fondo, sono ricoperte da una patina
che non è proprio sporco.
È la patina dell’India, che sembra ricoprire tutto, dagli oggetti
alle persone.
Skanda non vede l’ora che quella patina ricopra anche lui.
Faith No More: Evidence, 1995, Slash Records
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Mr. Singh
Escono dall’hotel senza potersi esimere dal saluto corale di
tutto lo staff – saranno dieci persone – che in fila sorridono e
augurano ogni bene ai due italiani. Sono poco abituati a vedere
turisti occidentali, in questo hotel, e sembrano avere la consegna di
fare buona impressione.
Indossano tutti una camicia bianca e pantaloni neri.
A chi manca un bottone, a chi le scarpe; chi ha una macchia
enorme sul davanti e chi deve aver lavato la camicia con un capo
rosso, perché è di un rosino slavato che sembra il colore della pelle
di Big Jim. Chi ha abbottonato male la camicia e sembra soffrire di
una scoliosi tremenda (ma forse la camicia è abbottonata bene) e
chi ha una penna nel taschino che evidentemente deve essere blu,
perché ha versato e ora naviga in una pozza oleosa di inchiostro.
Sono fantastici, non ce n’è uno che non sorrida, e mentre i due
ospiti si dirigono verso le porte a vetri, in tre si precipitano ad
aprirle, con un effetto tipo comiche, perché le porte restano chiuse,
ma i tre ragazzi sono l’uno sull’altro e tentano di districare quella
matassa di gambe e braccia secche e scure.
Attraversano, rischiando due o tre volte la vita, Gurundwara
Road e si dirigono verso Abdul Aziz Road. Oltrepassano un negozio
che vende…fari, sembra, e svoltano a destra in un vicolo.
Improvvisamente, la quiete.
Il vicolo è troppo stretto perché possano passarci le macchine,
e quindi non c’è posto neanche per i banchini che vendono cibo.
Non ci sono né rientranze né sporgenze, e non c’è nessuno che
dorme appoggiato ai muri.
E poi le vedono.
Sono loro, devono essere loro, perché già le loro gambe hanno
accelerato il passo e le loro mani sono protese per arrivare a
toccare le cromature.
Sono bellissime.
Sono tutte nere, e l’unico raggio di sole che filtra nel vicolo
incappa nella cromatura della forcella, e disegna un prisma
luminosissimo.
43
E sono grosse, diobono se sono grosse. Appoggiate al cavalletto
laterale fanno davvero la loro figura.
Se non dovessero essere queste, le loro moto, la delusione
sarebbe cocente.
Ma ecco che si fa loro incontro un signore distinto, alto e
magro, che, seppur sofferente di una lieve zoppia, incede con
camminata regale. Indossa un paio di ciabatte con calzini bianchi
di spugna (il massimo della sciccheria a queste latitudini), un paio
di – incredibile! – Levi’s 501, una camicia bianca (bianca davvero)
e un golfino senza maniche grigio con lo scollo a v. Sulla testa ha
un turbante immacolato che, data la grandezza, deve contenere
l’equivalente di cinquant’anni di mancate visite dal parrucchiere.
Ha un paio di occhialini tipo Gandhi (o John Lennon, se preferite)
e una barba tra il bianco ed il giallo talmente lunga che i baffi sono
arrotolati e schiacciati sotto la mandibola, insieme alla barba, in
una sorta di crocchia che ha la forma di un piccolo mandarino.
Sorride come se fossero i suoi migliori amici e con una voce
tenorile appena sussurrata si presenta.
È il signor Singh!
Forse i nostri eroi sono un po’ obnubilati dalla novità, dal fuso
orario, dall’avventura che li aspetta, ma trovano questo
rappresentante della comunità Sikh simpatico al primo sguardo.
Non ha niente del commerciante viscido e un po’ paraculo; è
tranquillo e sorridente, lascia ai nostri avventurosi amici il tempo
che serve loro per guardare le moto e guardarsi fra di sé e non
parla, si limita ad annuire e aspettare.
Quando presuppone che sia arrivato il suo momento, con un
elegante gesto della mano fa strada ai due e li conduce giù per uno
stretto e ripidissimo scivolo, e si ritrovano in un’officina
perfettamente illuminata e ordinata. In fondo si vedono due moto
totalmente smontate, ad una parete un’altra che evidentemente
aspetta il proprio turno, e intorno un numero imprecisato di
ragazzi che in silenzio vanno di qua e di là o si affaccendano
intorno alle moto seduti su sgabellini che parrebbero della misura
di Cicciobello.
Il signor Singh conduce Skanda e Tinto verso il fondo
dell’officina, dove si staglia una grande scrivania e una serie di
44
postazioni occupate da altri giovani che lavorano a computer
ultimo modello, corredati di stampanti, fax e fotocopiatrici.
Hai capito il paese in via di sviluppo!
Il tempo di sedersi e arriva immediatamente un chai bollente
(parleremo di questa magnifica bevanda in un secondo momento).
Mr. Singh sembra non avere fretta. Sorride e annuisce fra sé. I
due aspettano che sia lui a incominciare, ma, come tutti gli
occidentali, vivono il silenzio con estremo disagio, e sembrano
sulla graticola. Skanda allora si schiarisce la voce, ma il signor
Singh
lo
batte sul
tempo. Alza
l’indice e dice:
“Ma voi siete davvero sicuri di voler comprare queste due
moto?"
I due si guardano stupiti. Poi girano la testa verso Mr.Singh e
annuiscono all’unisono.
Allora il Sikh si mette comodo sulla sua poltroncina girevole,
prende una matita da un cassetto e dice:
“Non posso darvi quelle moto se prima non vi spiego qualcosa
della guida in India”
E, poveri noi, inizia a parlare.
“In India si guida a sinistra, come in Inghilterra, come in
Australia, come in Giappone, come in America. No, in America no,
si guida a destra. Ma in India non si guida davvero a sinistra: si
guida dove c’è spazio e dove la strada è meno danneggiata.
Le regole della strada in India sono molto semplici: il più
grosso ha ragione.
La gerarchia è questa: al primo posto ci sono i trucks, ovvero i
camion, che, vedrete, sono grossi, grossi davvero. Dopo vengono i
pullman. Dopo i pullman ci sono i minivan, e ne vedrete tanti in
giro, soprattutto vicino alle città. Poi ci sono le macchine, e tra loro
vale la stessa gerarchia: più grossa è la macchina, più ragione ha.
Dopo le macchine ci sono i tuk tuk, che sono trabiccoli a tre ruote
con una panca posteriore dove si accomodano i passeggeri. Poi le
moto, seguite dai risciò, dalle biciclette e dalle persone a piedi.
Il pedone non ha mai ragione, e non si aspetta che un mezzo a
motore o a pedali si fermi per farlo passare. Non vi fermate,
altrimenti lo mettete in confusione e rischia di farsi male.
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Il clacson è essenziale, e nelle vostre moto ne troverete due,
almeno se uno si rompe avete l’altro. Rimanere senza clacson vuol
dire essere invisibili. Suonate sempre, qualsiasi cosa stiate facendo.
Suonate se sorpassate e suonate se vi sorpassano. Suonate se
passate con il verde o se vi fermate con il rosso. Suonate quando
entrate in città e quando ne uscite.
State attenti agli animali. Loro, a parte i cani, hanno sempre la
precedenza su tutti i mezzi a motore. Soprattutto le vacche. Non le
toccate, non le sfiorate, non fate vedere che perdete la pazienza.
Passateci lontano e se le vedete per strada andate piano. Se
necessario fermatevi. Le vacche sono abituate a girare libere e non
guardano chi arriva e non stanno attente a chi suona.
Attenti anche a tutti gli altri animali, tranne i cani, perché qui
da noi sono sacri. Ognuno di loro è l’incarnazione mortale di un
dio, quindi se fate del male a un animale, tranne ad un cane, fate
del male a un dio.
Soprattutto le scimmie. Se queste vi rubano qualcosa, fosse
anche la macchina fotografica o il portafoglio, non vi arrabbiate,
non urlate, e soprattutto non le inseguite. Esse sono l’incarnazione
del dio Hanuman, che aiutò Rama a liberare Sita, la sua sposa, dal
malvagio Ravana.
Se investite una scimmia scappate più veloce che potete,
perché avrete compiuto un sacrilegio enorme.
Tutto chiaro fino a qui?”
I due, ipnotizzati dal parlare solenne del signor Singh,
annuiscono, poi Tinto si riprende e chiede:
“Scusi, Mr.Singh, ma i cani? Nel senso, tutto tranne i cani. Ma
che hanno, i cani?”
Il signor Singh lo guarda come un bravo maestro guarderebbe
l’allievo un po’ tardo e dice, dolcemente:
“I cani sono l’incarnazione dello spirito dei ladri. Vedrete che
molti autisti investono apposta i cani, rischiando anche di farsi e
fare male, perché essi, in quasi tutta l’India sono tollerati a stento”
Tinto, ex orgoglioso proprietario di un Bull Terrier e amante
incondizionato delle code che scodinzolano, impallidisce e sta per
ribattere qualcosa, ma una gomitata nelle costole da parte di
Skanda lo fa opportunamente desistere.
46
“Dicevamo” prosegue il Sikh, che ora sembra un po’ meno
simpatico “Che le regole della strada sono interpretabili, qui da
noi. State sempre nel mezzo della carreggiata, perché spesso ai lati
ci sono le persone, o le biciclette, o gli animali. Se vedete un
camion, o un pullman, o anche una macchina che arriva in senso
opposto, verificate di avere abbastanza spazio alla vostra sinistra
per evitarla nel caso cambi corsia di marcia”
“Scusi” chiede Skanda “Ma perché dovrebbe cambiare corsia?
Per ammazzarci apposta?”
“Per sorpassare, caro amico”
“Certo, ma se vede che in fondo c’è una moto che arriva…”
“Sorpassa lo stesso, perché tu, amico mio, sei piccolo, e il tuo
dovere è quello di dare strada a chi è più grande”
“Certo, capito. Chiaro. Lampante”
“Sono pazzi” aggiunge in italiano, ma anche stavolta sembra
che gli indiani abbiano un sesto senso, perché Singh sorride e
annuisce come per dire: ebbene si, lo siamo, e se vuoi sopravvivere
dovrai adeguarti, piccola caccola occidentale.
“Quando percorrerete le National Highways, che sono strade
grandi e larghe, troverete mezzi pesanti che vengono in
contromano. Lasciate loro strada a sinistra, perché è prassi che se
un mezzo deve girare in una strada dalla parte opposta al suo senso
di marcia, quello semplicemente cambia corsia, così da uscire
esattamente dove vuole lui”
Le schiene dei nostri eroi si piegano impercettibilmente sulle
sedie impagliate, e tutto l’entusiasmo che provavano fino a
mezz’ora prima adesso si è trasformato in una sensazione di panico
serpeggiante.
“Stavolta l’abbiamo fatta grossa” pensano all’unisono, e
ascoltano ancora il Sikh che spiega, aiutandosi con disegnini
esplicativi che traccia direttamente sulla superficie lucida della
scrivania con il mozzicone di matita.
“Le moto vi verranno vendute comprensive di assicurazione,
ma se vi succede qualcosa e avete torto cercate di risolvere con il
denaro e non chiamate mai, dico mai, polizia o militari. Se la
situazione si fa pesante e ne avete la possibilità, scappate.
Raramente verrete inseguiti, e ancora più raramente raggiunti.
47
Se avete problemi con le moto fermatevi da un qualsiasi
meccanico che incontrerete lungo la strada. Ce ne sono a migliaia,
e sono uno più bravo dell’altro. Non giudicate dall’officina ma
abbiate fiducia. Ognuno di loro può smontare e rimontare queste
moto anche bendato”
Mister Singh si ferma, beve un sorso di chai e riprende:
“La Confederazione Indiana, tranne che per lo stato di Goa,
non prevede il noleggio di un mezzo immatricolato sul suo
territorio, è per questo che dovrete regolarmente acquistare queste
due moto, ma io mi impegno fin da adesso a ricomprarvele quando
avrete finito il vostro viaggio. Ma ore andate da Rishkesh e
prendete i pezzi di ricambio che vi servono” Con un gesto della
mano un po’ lezioso indica un giovanotto che li aspetta a braccia
conserte in fondo all’officina. Ai suoi piedi una distesa di oggetti
dalle forme più disparate, dove salta agli occhi una pompa a pedale
simile a quella che si usa per gonfiare i materassini al mare e un
paio di grosse leve di ferro, che si usano per togliere il copertone
dal cerchio.
I nostri amici si sorbiscono con impassibilità indiana anche
quest’altro rituale, e poi, quasi esausti, vanno verso le moto, ma
prima che possano fare anche un solo passo verso lo scivolo, Mr.
Singh li ferma e dice loro:
“Andate, andate per la città e godetevi l’Holi, una delle feste più
belle dell’India. Domattina, quando tornerete, dopo la Puja potrete
prendere la strada”
Dice proprio così, take the road, e anche se magari non rispetta
le regole di sintassi dell’inglese di Oxford, queste tre parole
riassumono perfettamente l’intenzione dei due toscani: prendersi
la strada.
Ritornano verso Gurundwara Road e tentano di fermare un tuk
tuk, ma una domanda balla loro in testa: che sarà questa Puja?
Inxs: The original sin, 1984, Wea
48
Dal diario di Skanda:
Mentre da noi si festeggia la donna – è l’otto marzo – qua in
India si festeggia l’Holi, una festa indù che celebra l’arrivo della
primavera. Va bè, direte voi, non è una novità che ogni occasione
sia buona per far festa, soprattutto qui, una terra che è un vero e
proprio melting pot di culture e religioni, quindi cos’ha di diverso
questo Holi dalle migliaia di altre feste?
Bene, il fatto è che il giorno dell’Holi già dalla mattina si
comincia ad andare in giro con sacchetti di polvere colorata che
serve, mescolata ad acqua, a schizzare ogni persona che capita a
tiro. Le varianti sono infinite: si può schizzare solo con la polvere,
o con l’acqua, o con la polvere e poi l’acqua, o si può anche solo
far finta di schizzare, l’importante è calarsi nell’atmosfera
dell’Holi.
Si schizza chiunque: dall’amico al cane randagio; dalla nonna
al poliziotto, e si balla per le strade, si suona il clacson – ti
pareva! – oppure si sbatte tutto quello che fa rumore; in
mancanza anche di quello si urla come invasati. Dalle terrazze
piovono gavettoni di acqua colorata come bombe, e le strade sono
un marasma di urla, di canti, di balletti improvvisati e di gente
barcollante e festosa, e tutti, ma proprio tutti, hanno l’aspetto e
l’incedere di arlecchini ubriachi. Anche il turista, suo malgrado,
viene coinvolto nei festeggiamenti, e chi schizza non sta tanto a
sottilizzare se sei nativo o forestiero, se sei nudo o hai un gessato
di Armani. Lui ti impolvera e schizza, poi impolvera e schizza se
stesso, poi ti abbraccia, ti bacia e urla:
“Happy Holi!”
Ed è quello che urliamo anche noi: Happy Holi!
49
Holi
I due amici camminano per il Chandni Chowk e si guardano
intorno stupefatti: è un manicomio. Stanno attenti a come
camminano, a dove mettono i piedi, ma è tutto inutile, sembra di
essere nel bel mezzo di un concerto degli Ska P proprio sotto il
palco.
Nessuna possibilità di uscire dal marasma; per ogni dove
vedono solo folla urlante.
Urge un intervento; bisogna fare qualcosa. Decidono allora di
fare l’unica cosa possibile. Tinto si mette la macchina fotografica a
tracolla, la nasconde sotto il giubbotto leggero e allaccia i bottoni.
Skanda si leva gli occhiali, li ripiega e li mette nella tasca del
marsupio, stando bene attento a chiudere la cerniera.
Adesso si sentono un po’ meno vulnerabili. Da destra arrivano
tre figuri completamente dipinti di viola che urlano e indicano
proprio loro due. Il più grosso dei tre, con un ciuffo alla Little Tony
che gli ricade sugli occhi e ogni volta viene rimandato indietro con
un colpo di collo, alza le braccia e inizia, sembra, un numero di tip
tap. Gli altri due hanno in mano due grosse bottiglie.
“Sono completamente ubriachi” pensa Skanda, ma non gli
sovviene che gli indù non bevono alcol, e allora in quelle bottiglie
può solo esserci…
Non fa in tempo a formulare il pensiero che sono tutti e due
completamente bagnati di un liquido viola che profuma come un
bordello di Vladivostok.
“Nooooo, la maglietta con scritto Hic Sunt Leones” urla Tinto.
Poi si gira incazzatissimo verso il più magro dei tre e Skanda
pensa:
“Ora parte con un destro alla mascella”
Invece Tinto alza le braccia, fa un saltello stile Lorella
Cuccarini e abbraccia questo indianino che è la metà esatta di lui.
Skanda rimane ancora qualche secondo indeciso sul da farsi,
poi pensa:
“Ma si, Shanti sia!” e si getta nell’abbraccio collettivo.
50
Ballano e seguono la marea per tutta la sera. Si esprimono solo
con urla e movimenti del corpo. Si perdono, poi si ritrovano, poi
vengono trascinati in due direzioni diverse. Poi si vede la testa di
Tinto che sovrasta tutte quelle teste nere.
Alla fine sono seduti in una via deserta e non sanno che dire.
Sono di fronte ad un altarino dedicato a Ganesh. La marea è
passata. Peccato non aver fatto neanche una foto, ma Skanda ha
lasciato il telefonino in hotel, e Tinto ha protetto a costo della vita
la sua reflex da un milione di dollari.
Curvi, ondeggianti, vicini come due amanti ubriachi, li vediamo
di spalle, in fondo alla via deserta, che, un passo dopo l’altro,
tentano di guadagnare la via di Karol Bagh, oasi conosciuta in
mezzo a tanto folclore.
Sono davvero lontani da casa, ora stanno iniziando a
rendersene conto.
Passeranno il resto della serata a lavare i loro poveri indumenti
e ad asciugarli attaccandoli alle pale del ventilatore che gira pigro
nella loro stanza all’Amrit Villa.
Inutile dire che indosseranno le magliette macchiate con
l’orgoglio con cui i guerrieri indossano le armature.
Hanno partecipato all’Holi di Delhi e sono sopravvissuti!
Hic Sunt Leones 1 – India 0
The Red Eyes: Titokowaru's war, 2010, Echofoxtrot Records
51
Delhi (reprise)
“A Delhi c’è la metropolitana?”
“Si, ma è più un treno di superficie…hai visto che i viali sono
intersecati da viadotti e sopraelevate?”
“Eh”
“Ecco; quella è la metro di Delhi”
“Forte. Ma le fermate dove sono? Non ne ho vista neanche una”
“Per forza, siamo nel quartiere dei motori, ti pare che ci
mettono una fermata della metro?”
“Va bè, e allora?”
“Vieni, andiamo verso la fine della strada. L’ho visto su Google
Maps, c’è là una fermata. Con una linea sola arriviamo in
Connaught Place e ci compriamo la mappa, poi vediamo la Jama
Mashijd, il Red Fort e ce ne andiamo a cena”
E così si incamminano verso le barriere mobili con scritto Stop
– Delhi Police.
“Domani passiamo di qua?” chiede Skanda.
“Si, e poi, in fondo alla strada ci dovrebbe essere una rotonda.
Da lì prendiamo a destra e torniamo verso l’aeroporto. Poi lo
oltrepassiamo e giù, tutto dritto”
Intanto sono sbucati nella rotonda, che è immensa, e intasata
da ogni tipo di veicolo esistente sulla terra eccetto, forse, il carro
armato.
Ma non è questo che fa alzare loro gli occhi verso un punto a
circa quindici metri da terra, dalla parte opposta della strada.
Non è neanche la folla assiepata sul marciapiede, e il fumo che
si sprigiona dalle persone. Capiranno dopo un attimo, grazie al
nobile senso dell’olfatto, che il fumo non è l’inizio di un incendio,
ma sono centinaia di bastoncini d’incenso che bruciano.
No, dicevamo che quello che li fa restare a bocca aperta è
un’enorme statua di una comparsa del film il Pianeta delle
Scimmie.
Skanda guarda stupefatto l’amico che, con fare professorale –
non se ne accorge neanche, ma quando Tinto inizia a spiegare
assume un atteggiamento, come dire, da assistente di cattedra –
52
sentenzia:
“Quello è Hanuman, il dio scimmia, e quelli sotto sono fedeli di
sicuro. Ci sarà una qualche festa o una cerimonia, o chissà…”
Il fatto che si innalzi una statua di quindici metri a un dio non
ci fa restare a bocca aperta. Siamo abituati a ben altro, e senza
andare a cercare il Cristo di Rio De Janeiro ci accontentiamo del
nostro, quello di Maratea. Ma questo…questo è dipinto tutto di
arancione, ha gli occhi verdi con le ciglia lunghissime, è nudo, a
parte un pezzetto di stoffa sulle pudenda, ha le mani giunte davanti
al petto e i polsi pieni di braccialetti. La faccia, però, è un incrocio
tra quella di una scimmia come la disegnerebbe un bambino di
cinque anni e il volto di Krishna.
Nell’insieme sembra quasi l’ingresso ad un parco divertimenti.
Il fatto che sotto, in prossimità dei piedi, dove si intravedono le
unghie blu (!!!) ci sia una folla che spinge, strattona e urla rende il
tutto simile a Mirabilandia.
Questo è il primo incontro che i due hanno con l’iconografia
indù, che è kitsch e meravigliosamente Art Brut.
In una parola, bellissima.
La metropolitana di Delhi è composta da treni moderni, veloci,
abbastanza puliti - visto lo standard - e frequentata da circa il
triplo di passeggeri che la capienza massima raccomanderebbe.
Ogni indicazione, ogni fermata, ogni cosa che abbia bisogno di
essere spiegata con l’alfabeto è scritta in hindi. Non c’è traccia di
inglese.
È come se uno si perdesse nella periferia di Pechino e dovesse
tornare a casa con una mappa scritta in ideogrammi.
L’hindi è impossibile da decifrare.
Per fortuna tutte e tremila le persone pigiate nel vagone
insieme a loro si sentono in dovere di curiosare, aiutare,
consigliare e indicare.
E così, dopo un tempo che sembra interminabile – circa sette
minuti – riescono a farsi largo e a scendere in prossimità della
Jama Mashijd, la moschea più grande dell’India e probabilmente
dell’intero subcontinente. Proprio di fronte, attraversata la strada,
si allunga, sulla sponda sinistra dello Yamuna, il Red Fort.
53
Queste sono, insieme al bazar che circonda la moschea, le
principali attrazioni di Delhi, e loro se le vedranno tutte e tre.
Per uscire dai tornelli della metropolitana devono infilare
nell’apposita fessura il gettone in plastica che sostituisce il
biglietto.
Sembra un’espediente da poveri ritardati, invece se ci pensano
trovano che l’idea di sostituire il biglietto con gettoni in plastica
che successivamente saranno recuperati e serviranno per biglietto
ad altri passeggeri è quantomeno geniale. Nessuno scontrino
gettato in terra, nessuno spreco di carta o di plastica, nessun
lettore di bande magnetiche che si possa guastare. Semplicemente
infili i soldi e esce un gettone - colore diverso per chilometraggio
diverso – e poi, alla fine della corsa, metti il gettone nel
raccogligettoni e il tornello si apre. Geniale!
Ai due piace molto questa cosa.
Scendono la scalinata monumentale che li ha condotti alla
moschea provenienti dal Red Fort e sono rilassati e tranquilli.
Hanno visto due posti bellissimi - soprattutto la Jama Mashijd – e
sono stati per qualche ora immersi in una calma quasi surreale,
fatta di alberi bellissimi, prati curati e monumenti eccezionali.
E impavidi scoiattoli che zampettano in giro. E poi panchine
sistemate sotto le fronde per riposarsi, ambienti immensi, semibui
e freschi in contrasto con la luce forte e il sole, che sembra
picchiare dritto sulle loro teste.
Adesso, rinfrancati da tanta calma, si accingono ad entrare in
un girone dell’inferno: il girone del bazar indiano.
Questo girone è famoso perché dentro ci vanno a finire coloro
che hanno peccato di troppa voglia di vedere o di sindrome del
turista di lungo raggio.
Un dedalo di vie strette e tortuose intasate di…ogni cosa!
A livello della strada: mendicanti accoccolati, bambini che
corrono, accattoni con lo sguardo losco, cani che vengono presi a
calci. Scarpe, babbucce, ciabatte, scarponi da trekking e
Birkenstock (questi ultimi due capi indossati dagli stranieri). E poi
piedi nudi, rigagnoli di liquido non definito, merde di vacca grandi
come frisbee, immondizia, resti di roba da mangiare.
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A altezza uomo: donne, capre, uomini, militari, turisti,
poliziotti, vacche indolenti e anche un po’ cattivelle. Facce nere,
gialle, bianche; capelli, cappelli, turbanti, hijab, swalbar, sari,
qualche burka, kurta pijamas.
Orecchini, mascara, denti bianchissimi, denti marci, niente
denti. Chi fuma, chi mangia, chi beve, chi sputa – abitudine,
questa, molto più diffusa di quanto farebbe piacere – chi parla, chi
prega, chi fa tutte queste cose insieme.
Sopra le teste grovigli di cavi elettrici che diventano gomitoli;
scimmie che ci passeggiano sopra e ogni tanto si fermano, si
grattano e penzolano dai lampioni. Terrazze aggettanti con persone
che guardano di sotto. Muri affrescati, insegne scolorite, finestre a
punta e un miliardo di uccelli che a prima vista sembrano rapaci,
ma a un esame più approfondito risultano proprio rapaci.
E oltre a tutta questa visione il rumore, che pur non essendo
assordante mantiene un volume da stadio prima che facciano il
loro ingresso in campo le squadre. E l’odore, che nonostante tutto
non è quasi mai sgradevole. Anzi, a voler essere sinceri è
abbastanza piacevole. Un effluvio di incenso a cui si mescolano i
profumi delle botteghe di spezie con, appena sotto, i fumi dei
negozi che vendono i cibi più strani del mondo, sia cotti che crudi.
Più sotto ancora l’odore di stalla, di cui si ringraziano le numerose
vacche presenti, e infine l’odore di umanità, che è penetrante ma
non dà fastidio perché non sembra di umanità disperata, o
arrabbiata.
È un odore di umanità tranquilla e occupata nelle mille
faccende quotidiane, senza ansie o affanni.
Tutto, per dire la verità, sembra muoversi con una serenità
surreale, e anche la fretta, gli spintoni, le urla dei commercianti
non sono mai fastidiose o insistenti.
I due si muovono con la marea, e girano agli angoli meno
ingorgati. Solo dopo un lungo peregrinare risbucheranno in un
grande viale che li porta, con una notevole sgroppata, dritti in
Connaught Place.
Connaught Place è considerato il centro di Delhi. Si tratta di un
enorme costruzione circolare da cui si dipanano, a raggiera, come
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una rosa dei venti, otto viali che raggiungono otto distretti diversi
della città.
Connaught Place è formata da tre distinte costruzioni circolari
concentriche, una dentro l’altra, e da tre strade circolari che,
dall’esterno verso l’interno si chiamano Connaught Circus, Middle
Circle e Inner Circle.
L’ultima strada circolare, l’Inner Circle, racchiude il Rajiv
Chowk, che è formato da un parco e grattacieli ultramoderni,
nonché dalle sedi di varie ambasciate e dal distretto finanziario.
È praticamente un pezzo della riva sinistra del Tamigi
trapiantato in India.
L’unica differenza– guarda un po’ – è che è interamente
popolato di indiani. E si sa che dove ci sono più di tre indiani c’è il
caos.
Da terra fino all'altezza del ginocchio i muri sono quasi
completamente imbrattati da macchie rosse che sporcano il marmo
bianco con cui è interamente costruita Connaught Place.
“Che cavolo è questo rosso?” Chiede Skanda, sapendo che di
sicuro il suo amico saprà rispondere. E infatti è così:
“Gli indiani masticano il Betel, che è un intruglio di calce, noce
di betel, spezie e altra roba chiuse in una foglia. Quando poi il
sapore finisce lo sputano, perché non si può ingoiare. La noce di
betel produce un succo rossastro, e così ecco spiegate le macchie
rosse” spiega Tinto mentre fa un salto per oltrepassare un
mendicante completamente disteso di traverso sul marciapiede.
“Che schifo” Risponde Skanda. Poi Aggiunge:
“Voglio assolutamente masticare una noce di betel”
“Ma stai zitto!” Gli dice Tinto “Ecco la libreria, là compriamo la
mappa”
“Ma…è chiusa!”
“Cazzo, siamo arrivati troppo tardi, siamo senza mappa!”
“Chi se ne frega, abbiamo il Sygic, ci pensa lui”
“Mah, io ero più tranquillo con una mappa…” Ragiona Tinto
tra sé, e ancora non sa quanto avrà ragione.
Fanno un giro per Connaught Place, ma sono stanchi, è tutto il
giorno che camminano. Qui sembra che si sia data appuntamento
tutta la Delhi bene. Ci sono gruppi di giovani in felpa con
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cappuccio (con questo caldo!), signore con vestitini estivi, signore
in sari bellissimi. E poi uomini vestiti all’occidentale, gente che fa
jogging, negozi di Prada, Adidas, Nike, l’Apple Store. In fondo
vedono un McDonald’s e forse intuiscono il logo di Starbucks.
Si sentono meno a loro agio qui che al bazar, e decidono di
tagliare dal Radial Two e tornare, dall’Inner Circle, alla parte
esterna, dove hanno in programma di prendere un tuk tuk e
rientrare in hotel.
Il Middle Circle è però tutto un altro mondo. Negozietti,
ristorantini, atmosfera un po’ dimessa e una quantità incredibile di
accattoni. C’è un gran polverone che sporca tutto, perché sono in
corso i lavori di ripavimentazione, e siccome non tira un alito di
vento, la polvere staziona a mezz’aria e crea una specie di miraggio
ogni volta che viene bucata dai fari delle macchine o dei tuk tuk.
Proprio di fronte a loro vedono un piccolo locale con scritto
Traditional Kashmir Cousine. Non ci stanno neanche a pensare.
Entrano e, mentre guardano in televisione una partita di cricket
(capendoci nulla) si mangiano degli involtini ripieni di carne
piccante, una specie di purea di patate e forse, ma solo forse,
pezzetti di cipolla e di strani peperoni verdi.
Sono costretti a bere come cammelli per tentare di stemperare
il piccante, ma mangiano benissimo, spendono una miseria ed
eleggono il Mohanlan loro ristorante di fiducia in città, e mentre se
ne vanno fantasticano già di quando ci porteranno i partecipanti
alla prossima edizione dell’India Moto Challenge.
Dopo mezz’ora, grazie a un pilota di tuk tuk particolarmente
spericolato, sono già a letto.
Tinto russa come un boscaiolo norvegese. Skanda, invece,
continua a fare il conto di che ore sono a casa e pensa di continuo a
Lara e alle bambine. Non è proprio pentito, ancora no, ma c’è
vicino. Si rigira il telefono in mano. Poi apre l’app dei giochi e fa
una partita a scacchi, ma perde. Allora si lava i denti e prova a
dormire.
Non vede l’ora di essere in sella.
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Sogna sua nonna, e non riposa bene, ma la mattina tutto
sembra più leggero, e il sole porta un nuovo giorno. Oggi si parte!
Brant Bjork: Automatic fantastic, 1999, Man's ruin Records
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Caschi & puja
È prestissimo, ma hanno ancora addosso il fuso orario, e le ore
perdono qualunque significato. Skanda scosta la tenda e dà
un'occhiata nel vicolo su cui guarda la finestra della camera, e nel
colore grigio che precede l'alba vede un gatto che corre sui cumuli
di immondizia ammonticchiati in basso.
Non è un gatto...è un grosso, grosso topo!
Preferisce tenere per sé questa scoperta, e va in bagno a lavarsi
i denti mentre Tinto dà i primi segni di vita.
Lasciano passare i minuti, poi la fame e la noia iniziano a farsi
sentire, e decidono di scendere e farsi preparare la colazione.
Fanno le quattro rampe di scale in silenzio e arrivano al banco
della reception, che è, ovviamente, deserto. Allora aprono la porta
a vetri della sala ristorante e vedono che i tavolini sono stati uniti
tre a tre, e su ognuno di questi dorme uno dei ragazzi dell'hotel.
Indietreggiano in punta dei piedi e fanno per tornarsene in
camera, ma il sonno di chi dorme sui tavoli, evidentemente, è
leggero, e in un secondo i ragazzi sono tutti in piedi, capitanati da
Vikram, un giovane Sikh parente del signor Singh che dev'essere
un po' il capo del personale dell'hotel.
Inutile dire che in dieci minuti sono seduti ad un tavolo
apparecchiato, che conserva ancora un po' del calore del corpo che
vi era disteso, e che un'ora dopo sono di nuovo in camera, satolli e
soddisfatti.
Entrano nel negozio che ha indicato loro Gundwari Singh. È
talmente piccolo che devono stare per forza uno accanto all’altro, e
in esposizione ci sono solo due caschi. Il primo è un modulare e
l’altro riproduce il muso di un predatore dei fumetti.
Il proprietario si alza dallo sgabello e li accoglie con un
sorrisone e un namastè. Vuole offrire qualcosa, ma i nostri due
ancora non sono ancora entrati del tutto nello spirito indiano,
anche se sono sulla buona strada, e rifiutano educatamente.
“Che tipo di casco volete, amici?”
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“Mah, pensavamo a un modulare…che dici, Tinto, vuoi il jet?”
“No no, io voglio il modulare ma mi serve grande, perché ho la
testa grossa, e qui non ne vedo neanche uno…”
Tra loro parlano in italiano, ma come sempre, visto il sesto
senso degli indiani, il negoziante capisce e fa un urlo belluino a cui,
in un secondo, risponde una voce che proviene dal…soffitto!
Improvvisamente si apre una botola proprio sopra alle teste dei
nostri amici e fanno appena in tempo a spostarsi che arriva una
pioggia – una vera e propria pioggia – di scatole contenenti caschi.
Ce ne sono di tutti i tipi, di tutte le misure. Di tutti i colori e anche
di tutte le forme. Skanda prende in mano un casco che ricorda
l’elmetto dei soldati tedeschi della seconda guerra mondiale. Tinto
acchiappa al volo un casco nero che al posto della visiera ha
disegnati i denti affilati di un animale sconosciuto. E poi caschi con
la maschera dell’Uomo Ragno, con le corna, Nolan, Givi, Suomy,
Ls2 e altre marche sconosciute.
Alla fine escono con due bei modulari Made in China ma
omologati per la Cee, uno tutto nero per Tinto e uno rosso, bianco
e argento per Skanda.
Adesso sono armati, e si dirigono senza esitazione verso il
vicoletto.
Ad aspettarli c’è già il signor Singh, che li accoglie facendo loro
segno di stare in silenzio e di mettersi ognuno a lato della propria
moto. È il signor Singh a decidere qual è il mezzo di ognuno, e lo
presenta con un gesto della mano.
Dopo un secondo arrivano tutti i ragazzi dell’officina. Sono
puliti e cambiati, e si mettono dietro le moto e dietro i due amici.
Uno dei ragazzi si stacca dal gruppo e passa a sistemare un
bastoncino di incenso tra il manubrio e la manopola del gas, e un
altro lo segue mettendo sul cruscotto, sotto la strumentazione, un
impasto fatto, sembra, di petali di fiori e pasta frolla. Intorno ai
manubri, poi, mette una corona di garofani bianchi e arancioni.
Il momento è solenne. Tutti sono in silenzio e anche chi si trova
a passare nel vicolo si ferma o torna indietro per non disturbare
quello che sta per succedere.
Il signor Singh si fa scrivere su un foglietto i nomi di Skanda e
Tinto, poi, sullo stesso foglietto, li riscrive in hindi. Infine, con un
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libriccino che sembra un breviario, fa un passo indietro e valuta il
tutto.
Evidentemente è tutto perfetto, perché con un cenno indica ad
uno dei ragazzi di accendere i bastoncini di incenso; questi
ubbidisce prontamente e torna nei ranghi, dietro i due italiani.
Il signor Singh si posiziona e, con voce stentorea, inizia una
litania dove i due ogni tanto riconoscono i loro nomi, anche se sono
storpiati dall’evidente difficoltà di pronuncia del Sikh.
La cerimonia dura qualche minuto, e si conclude con un
applauso generale. Adesso intorno alle moto ci sono tantissime
persone, e mister Singh passa con una scatolina dove ci sono
palline di pasta frolla che ricordano un po’ gli struffoli napoletani
che offre a tutti, indipendentemente che siano acquirenti,
lavoratori, residenti o nullafacenti.
Ogni occasione è buona per far festa, e tutti ridono e parlano.
Tutti vogliono sapere da dove arrivano questi due occidentali, ma
soprattutto dove vanno; ognuno stringe la mano o giunge le mani e
pronuncia un namastè. I mendicanti arrivano in fila e aspettano il
loro turno per toccare le scarpe degli stupiti viaggiatori e portarsi la
mano al viso, in un gesto di evidente rispetto.
Skanda si guarda intorno incredulo, e si dice che sta vivendo il
momento più pazzesco della sua vita. Tinto sfodera il suo solito
sorrisino Shanti e interagisce con chiunque gli si presenti di fronte,
pur non capendo una parola.
È tutto perfetto. L’atmosfera è talmente, come dire, Shanti, che
potrebbe durare per tutto il giorno.
Poi, al solito, dimostrando un tempismo perfetto, il signor
Singh batte le mani e i ragazzi in un secondo spariscono giù lungo
lo scivolo. In trenta secondi il vicolo ritorna alla sua condizione
originaria e restano solo loro e le moto. E Mr. Singh, che vuole
essere l’ultimo a salutarli e spiega che quella a cui hanno appena
partecipato e una Puja a Ganesh, cioè una preghiera al dio degli
inizi, perché assista i due viaggiatori nell’inizio della loro avventura
e li protegga lungo tutta la strada, perché Ganesh è anche il dio di
chi percorre la via e di coloro che vanno.
Questo Ganesh è un mito, ed è già eletto a nume tutelare della
loro avventura. Infatti, e se accorgono ora, sul faro di ognuna delle
moto c’è un adesivo arancione con la figura del dio dalla testa di
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elefante stilizzata, perché anche il signor Singh, spiega, è un devoto
di questo dio.
Sono estasiati.
Hanno assistito alla più bella cerimonia del mondo, che di
sicuro porterà loro solo buone cose e una grande, grande
avventura.
Le moto partono al primo colpo di pedale, e fanno un rombo
che promette strade da domare e terre da scoprire.
Tinto accende il Sygic, si piazza l’auricolare nell’orecchio. Poi
guarda Skanda, alza il pollice, dà un bel colpo di gas, ingrana la
prima e parte.
Skanda resta ancora un secondo a godere della sensazione del
serbatoio tra le ginocchia, della leggera vibrazione del cilindro che
gira al minimo. Poi spinge verso il basso la leva del cambio, lascia
la frizione e corre dietro al suo amico che lo aspetta in fondo al
vicolo.
The Cinematic Orchestra: Man with a movie camera, 2003, Ninja Tune
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Sulla strada
Escono da Gurundwara Road e si immettono nella rotonda;
lasciano Hanumal alla loro sinistra e prendono il viale che porta
all’aeroporto. Ai lati della strada il panorama che ormai hanno
imparato a riconoscere: gente di strada, banchetti con cibo,
muratori che lavorano al muro fatto di mattoni ocra.
Intorno a loro un traffico veloce e scorrevole. Il vialone è una
grande strada a tre corsie, e i piloti sembrano stranamente
disciplinati. Ogni volta che vengono in contatto d’occhi con altre
persone sulle piccole Honda Hero che girano da queste parti non
manca mai un sorriso o un saluto.
Uscire da Delhi vuol dire lasciarsi indietro la città ed entrare in
un paesaggio che ricorda la periferia di San Francisco: Grattacieli e
hotel da congressi, sedi di banche e compagnie aeree; escono dal
distretto di Delhi e entrano a Gurgaon; hanno anche cambiato
stato, ed ora sono nell’Haryana.
Ancora non lo sanno, ma questa è una pessima notizia.
La zona commerciale e finanziaria scorre ancora ai lati, e tutto
sembra sbagliato. Ai piedi dei grattacieli e delle banche costruite in
vetro e acciaio ci sono tende, catapecchie e casupole fatte con pezzi
di lamiera. Nei giardini curatissimi e verdissimi impiegati in giacca
che pranzano sulle panchine; lungo il perimetro dei giardini e fino
agli ingressi dei palazzi guardie armate in uniforme verde oliva; al
di là fango, oppure polvere, e miseria. Maialini neri che rovistano
nei monti di spazzatura. Motorini carichi di tutto quello che non si
può portare in motorino, e ancora tendopoli ovunque, con i
bambini più sudici che abbiano mai visto. Solo gli occhi sono
limpidi al di là dei giardini curati. Gli occhi dei bambini, prima di
tutto, ma anche quelli delle donne, degli anziani, degli uomini
accoccolati ai lati delle strade allagate e piene di buche.
Ma non hanno tempo per elaborare queste informazioni che il
traffico cambia, dapprima impercettibilmente, e poi in modo
repentino e drastico. Motorini, tuk tuk e motociclette formano una
fila a sinistra della strada mentre macchine, trattori, camion e
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pullman continuano imperterriti la loro marcia, ma già a cento
metri si intuisce che c’è una coda, e le macchine sono tutte ferme.
Che succede?
Anche solo per emulazione e senso di appartenenza, i due
stanno con i loro simili a due ruote, e in breve tempo si accorgono
della causa della fila: c’è il casello!
La ragione per cui i mezzi a due ruote si sono messi tutti a
sinistra è che questi, sulle autostrade indiane, non pagano, e hanno
una corsia preferenziale dove non c’è casello e possono passare
tranquillamente. La corsia è talmente stretta che le moto devono
procedere in fila indiana (appunto!), e una volta passato il blocco,
la strada si apre davanti a loro enorme e quasi deserta.
È il momento di ingranare una marcia alta!
Tinto mette in terza, tira su i giri del motore e si esibisce in
un’accelerazione rumorosissima, poi mette la quarta, e subito dopo
la quinta. Il tempo, per Skanda, di fare lo stesso, e Tinto è già un
puntino lontano.
Splendido!
Il signor Singh non l’aveva detto, che le autostrade sono gratis
per le moto, ma questa resta comunque una bellissima notizia; non
tanto per le rupie risparmiate, ma per il fatto che eviteranno la fila
e non respireranno il veleno che esce da quelle marmitte.
Proseguono ancora per una ventina di chilometri, e poi vedono
l’indicazione per Rewari. È qui che devono uscire dall’autostrada e
prendere la statale che li porterà nella regione dello Shekewati, in
Rajasthan, e precisamente a Mandawa.
Mandawa è una cittadina nel distretto di Jhunjhunu, ed è la
porta del deserto del Thar, che comincia a Bikaner, una città che
sarà la loro tappa successiva.
Tinto accosta, Skanda scala marcia fino alla seconda, tira la
frizione e lascia che la moto si avvicini all’altra.
Tinto alza la parte mobile del casco, tira giù il baffo (visto che
l’aveva ritrovato?) e dice:
“Oh, brutte notizie: non ho scaricato la mappa dello stato
dell’Haryana sul Sygic”
“Va bè, tanto ne dobbiamo fare solo un pezzettino; tra un po’
dovremmo entrare nel Rajasthan…quello ce l’hai, vero?”
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“Quello ce l’ho, ma per l’Haryana che si fa?”
“E che vuoi fare? Si va a diritto sulla statale e appena si arriva
in Rajasthan riaccendi il navigatore e si va con quello!”
“Mmmmh, occhei” dice Tinto, ma si vede che è poco convinto.
La strada adesso sale per una collina brulla. Arrivano in cima e
il panorama è fantastico: c’è una sorta di linea invisibile che divide
la pianura fertile e verde e la collina, dove non c’è neanche un filo
d’erba. La strada, poi, dalla pianura sale con una serie di curve
dolci fino alla sommità, dove adesso i due approfittano per
fermarsi, verificare la tenuta dei bagagli, fare una pisciatina e
scambiarsi le prime impressioni sulle moto.
Il verdetto è unanime: queste Royal Enfield vanno lisce come
fusi, sono comode e non vibrano neanche tanto.
“Senti che roba!” dice Skanda, e accelera con la marcia in folle.
“Effettivamente hanno un bel rombo” concorda Tinto.
Ormai sembrano veterani delle strade dell’India, e risalgono in
moto impazienti di continuare.
Infatti dopo tre ore di guida ancora il navigatore dice loro che
non sono arrivati in Rajasthan. Vedono, sullo schermo, la loro
posizione, indicata con una freccetta, nel mezzo al grigio, e a
neanche mezzo centimetro vedono il confine di stato, segnalato in
verde, e al di là un dedalo di strade perfettamente indicate. Il grigio
è dove non ci sono dati, quindi una sorta di limbo; mentre il verde
segna il punto in cui i dati ci sono, cioè lo stato del Rajasthan, la
loro meta.
Oh, come vorrebbero andare verso quelle strade!
“Ci siamo, manca pochissimo, il Rajasthan è là” dice Skanda
indicando un punto cardinale non identificato.
“Come là? Dovrebbe essere là, risponde Tinto, con il braccio
proteso perpendicolare a quello dell’amico.
“Occhei, dov’è il Rajasthan è relativo, il problema è come
arrivarci. Anche se fosse di là” indica la direzione di Skanda “O di
là” indica la direzione sua “La strada va di qua” indica davanti a
loro.
“Calma, calma. Ora ci calmiamo un attimo, ci beviamo un sorso
d’acqua e ci ragioniamo sopra”
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Scendono dalle moto, e appena tolti i caschi si materializza,
apparso probabilmente da una dimensione parallela, un indiano
altissimo, magrissimo, con una maglietta con scritto Addas (!) e un
sorriso non a trentadue denti – non ce li ha – ma a cinque denti.
Come i due lo salutano, questi risponde giungendo le mani sul
petto, e improvvisamente, forse dalla stessa navicella spaziale, si
materializzano altre due persone. Dopo due secondi altre tre.
In un minuto sono circondati da una massa curiosa che sfiora
con gli sguardi le moto, i contachilometri, i caschi, le marmitte, e
tutto quello che non può essere toccato con le mani.
Tinto tira fuori il blocchetto e la penna e scrive Mandawa.
Poi mostra il tutto al tizio con cinque denti, che sembra essere
quello che riveste più autorità.
Questi prende il blocchetto, lo guarda come una scimmia
guarderebbe un’equazione di secondo grado, e fa passare il notes
tra le mani degli altri. Di tutti gli altri.
L’operazione richiede cinque o sei minuti, poi, come per magia,
il blocchetto torna nelle mani di Tinto.
Segue un conciliabolo.
Non hanno capito nulla!
“Dai qua” dice Skanda, e prende il quadernino.
Ha avuto un’illuminazione; si è ricordato il nome di un altro
paese da dove devono passare.
Scrive allora Loharu, e l’operazione di poco prima si ripete, ma
stavolta l’esito è diverso: Hanno capito!
Loharu è ancora in Haryana, ma è proprio sul confine con il
Rajasthan. A loro basta arrivare lì, poi confidano in un aiuto
determinante del navigatore.
Ma sembra che ci sia disaccordo tra i loro samaritani.
Dopo altri tre minuti di consultazione corale, un ragazzo si fa
avanti. È bassotto e tarchiato, nerissimo, con denti che farebbero
invidia a Brad Pitt e uno sguardo vispo e malandrino.
Oh che gaudio, oh che gioia! Apre la bocca e si esprime in
inglese!
Ma vieni!
Morale della favola: sono molto, ma molto molto più a nord di
quanto avessero creduto e sperato. Praticamente hanno fatto
all’indietro la strada che avevano fatto uscendo da Delhi, ma
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passando da vie secondarie. Adesso devono scendere. Hanno
compiuto un percorso che ricorda un’onda, e ora sono all’apice:
devono scendere ancora, e fare un tot di chilometri per arrivare al
confine di stato, ma va bene così; per lo meno la strada è giusta.
Poi il giovanotto tarchiato offre loro un pezzetto di una pianta
che stanno tutti mangiando. I due la prendono, e vedono che si
tratta di uno stelo a cui sono attaccati tanti piccoli baccellini. Ne
staccano uno, lo aprono e si mettono in bocca questo piccolo
pallino verde.
È un cece!
È buonissimo!
Ridono tutti come matti guardando le facce dei due
motociclisti, poi tutti insieme sbucciano e mangiano i ceci offerti, e
questa, signore e signori, è la merenda più buona che abbiano mai
fatto.
Mentre stanno per partire, dopo che i caschi sono sulle teste, le
mani sono state strette a tutti, e il piede sta per premere la leva del
cambio, il ragazzo tarchiato si avvicina a Skanda e, in un inglese
oxfordiano gli dice:
“Poterebbe essere una buona idea se la prossima volta portate
una mappa stradale”
Skanda arrossisce fino all’unghia dell’alluce, ma per fortuna ha
il casco e il foulard e non lo vede nessuno. China la testa, giunge le
mani al petto e dice:
“You saved us, thanks a lot, my friends”, ingrana la marcia e va
via.
Due ore dopo si sente un rombo che sale dalla pianura verso la
collina dove sono arroccate le case. Il tramonto è vicino, e tutti
quelli che sono per strada, compreso una comitiva di francesi, si
fermano un attimo, poi riprendono le loro attività
Stanno arrivando a Mandawa.
Sono solo un po’ in ritardo sulla tabella di marcia.
Circa cinque ore.
Sofa Surfers: White noise, 2005, Monoscope Records
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Mandawa
Mandawa è piccola, ma racchiude tesori che sono sfruttati solo
in parte.
Ubbidisce alla legge indiana per cui tutto deve sembrare un po’
usurato dal tempo, e accanto ai suoi tesori, sbandiera orgogliosa
polvere e miseria, ruderi e stalletti.
Mandawa è esattamente sulla strada che un tempo univa il
sudest asiatico con i paesi arabi, ed era sede di fiorenti attività
commerciali.
I suoi tesori si chiamano haveli, e sono le case, o meglio, i
palazzi che i ricchissimi commercianti si facevano costruire per
mostrare a tutti, residenti e carovane di passaggio, la loro ricchezza
e il loro potere.
Le haveli sono quindi costruzioni che offrono già di per sé
un’attrattiva turistica, perché sono costruite con l’architettura
tipica dell’India del nord, che sembra fondere lo stile orientale e
quello arabo, con risultati originalissimi ed unici. Hanno anche un
valore aggiunto: sono tutte riccamente decorate da affreschi
rappresentanti i più disparati soggetti:
Scene di caccia e rappresentazioni di sontuosi matrimoni;
scene di guerra e ritratti dei ricconi, delle sete, degli ori, delle
spezie che quotidianamente transitavano da qui.
C’è da dire, però, che solo una minima parte di queste
bellissime dimore sono restaurate; le altre sono cadenti e
sembrano in equilibrio precario, quando non sono puntellate da
grosse canne di bambù.
Negli anni, poi, un altro mercato parallelo è fiorito da queste
parti, e se ne possono vedere gli effetti un po’ dappertutto.
Ogni dimora viene scrupolosamente smontata e venduta al
dettaglio, e allora, appena fuori della strada principale, si possono
trovare capitelli di colonne, pezzi di intonaco con resti di affreschi,
finestre riccamente decorate e pezzi dei portoni in legno con le
finiture in bronzo che caratterizzano ogni haveli che si rispetti.
Le uniche haveli restaurate e mantenute in ordine sono hotel o
boutique di un certo lusso.
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Generalmente questo non è un problema, perché gli hotel
permettono la visita dei loro chiostri e dei corridoi decorati.
Alla bellezza architettonica e pittorica si aggiunge anche la
bellezza, per così dire, dei particolari e degli accessori. I chiostri,
cioè i giardini interni di queste abitazioni, che assomigliano
davvero ai chiostri dei conventi, sono piacevolmente ombreggiati, e
generalmente non manca mai un grande giardino e un orto dove
vengono coltivate le piante aromatiche. E poi fontane,
camminamenti fatti di pietre scolpite, bracieri da cui,
perpetuamente, si alza una nuvoletta d’incenso, e divani e
poltrone, alcune fatte con legno massello scolpito e decorato, altre
con enormi canne di bambù piegate con il vapore e legate con fili di
giunco. Ovviamente, e qui l’influenza Araba la fa da padrone, non
mancano tappeti e cuscini ricamati a colori vivaci.
I nostri eroi sono un po’ spiazzati da tanta opulenza, ma si
rendono ben presto conto che comunque, dietro le porte, sotto i
tappeti e negli angolini più nascosti, la vera India fa capolino. E
allora ecco che qui e là ci sono pezzi di intonaco che si staccano,
cornicioni che tentennano come denti da latte, conigli che vagano
per ogni dove senza paura (tanto non se li mangia nessuno!) e una
cura per l’igiene non proprio occidentale, soprattutto per quanto
riguarda bagni e cucine.
Salgono quindi le scale dell’hotel Paawana Haveli un po’ meno
preoccupati e scoprono che c’è una stanza libera al piano terra
all’esorbitante cifra di 1600 rupie. La prendono senza indugio e si
ritrovano in una piccola stanza tutta affrescata e con le pareti piene
di rientranze e nicchie, con finestrelle grandi come quaderni che
guardano la strada, scuri decorati e un bagno che è più grande
della camera.
“Oooh ma che spettacolo!”
Mormorano all’unisono i due, mentre la gara a chi si spoglia
per primo per entrare in doccia inizia già sulla porta.
Il fatto che la doccia allaghi il bagno, che lo scarico del
lavandino non abbia il tubo ma vada diretto in una grata sul
pavimento, che la porta non si chiuda, non inficia minimamente la
soddisfazione dei due intrepidi, che sono rosolati a dovere dalle ore
passate in sella e apprezzano senza riserve l’acqua corrente e il
materasso morbido.
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Hannah Williams: Work it out, 2013, Record Dicks
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Firebird
Quando il sole inizia a diventare arancione e le strade
assumono quella caratteristica aria indolente e pigra, quando dopo
una giornata caldissima il vento che viene da ovest inizia a soffiare,
quando hai la pancia piena dopo una buona cena, quando sei
seduto su una panchina sotto un ibiscus enorme, ebbene, è allora
che i pensieri vanno dove vogliono, e generalmente vanno in
direzioni che prevedono un mood decisamente malinconico.
Skanda è lì, seduto su quella panchina. Tinto è in camera a
leggere un libro di Giuseppe Cederna (l’attore, si, quello di
Mediterraneo) che parla di un viaggio - guarda un po'! - in India.
Inutile dire che il nostro eroe non ha niente di eroico, ma
sembra più un vecchietto intento a guardare i lavori stradali.
Ha ancora il telefonino in mano, ha appena riattaccato. Ha
parlato con Lara, che gli è sembrata scattante e allegra – in fondo a
casa non è neanche l’ora di cena – mentre lui si sente lento e triste.
Ha nostalgia. Manca da casa da un pugno di giorni e ha già
nostalgia. Non è quella nostalgia bruciante che provava da
bambino al quinto giorno di colonia. Non è neanche la nostalgia
serena e quasi piacevole che aveva da più grande, al campo scout. È
una nostalgia semplice e diretta, immediata e teoricamente
risolvibile in un attimo.
Gli manca lei.
Non gli manca la casa, il gatto, il computer, il cibo, le sue
abitudini, i suoi genitori.
Non gli mancano – Dio lo perdoni – neanche le bambine.
È proprio lei che manca.
Sospira sconsolato e si chiede se sia stata una buona idea.
Per adesso la parte di sé che spinge per la disillusione è circa al
30%; l’entusiasmo, quindi, la fa ancora da padrone, ma la battaglia
è campale.
E poi il tramonto, l’idea della notte che arriva…e Tinto come
compagno di letto!
Sospira ancora e alza gli occhi al cielo, che ormai è nero, tranne
che per la luna e le stelle, che sembrano diverse, forse spostate un
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po’, forse no, e non si accorge neanche che qualcuno gli si è seduto
accanto.
“Namastè, il mio nome è Kawandra”
“Piacere, Skanda” e gli porge la mano, che l’altro stringe con
entusiasmo.
Gli sembra di averlo già visto, in giro per l’hotel, e il suo primo
pensiero è:
“Ecco, ho beccato l’unico gay di Mandawa che ci vuole provare”
Ma Kawandra guarda il cielo e gli dice:
“In questo periodo si vedono le stelle cadenti”
“Da dove vengo io si dice che le stelle cadenti ci siano ad
agosto”, risponde Skanda. “Pensa” continua “che però io non ne ho
mai vista neanche una”.
“Forse perché da te non c’è l’uccello di fuoco”
Skanda pensa di aver capito male, ma l’altro ha detto proprio
firebird, uccello di fuoco, e lo guarda con un sorrisino.
“Occhei, facciamo i socievoli. Questo qui muore dalla voglia di
dirmi qualcosa; accontentiamolo” pensa Skanda, e si accinge a fare
la domanda di cortesia.
Ma come dicevamo nelle pagine precedenti, sembra che questo
meraviglioso popolo sia dotato di un sesto senso, perché Kawandra
dice, guardando le stelle e anticipando il suo interlocutore:
“Quando vedi la scia di una stella cadente, quella è la coda
dell’uccello di fuoco che becca le stelle. Ogni notte le becca e se ne
ciba, e di giorno, al riparo dagli occhi dei mortali, la luna, che è la
madre di tutte le creature notturne, getta ancora stelle nel cielo
come un contadino getta i semi nel periodo di semina; la notte
dopo l’uccello di fuoco torna e si ciba delle stelle che la luna ha
seminato. E così tutte le notti. Forse in America non avete l’uccello
di fuoco”
Skanda guarda il giovane indiano a bocca aperta, e non ha
neanche il tempo di dirgli che lui non è americano, ma italiano, che
Kawandra si alza, giunge le mani al petto, si inchina leggermente e
dice:
“Buonanotte, sir, che la mattina ti trovi più allegro di come ti
ha trovato la notte”
Non che ci sia bisogno di ribadire il concetto, ma Skanda è
innamorato di questo paese, sappiatelo!
72
I Love You But I've Chosen Darkness: According to plans, 2006 Sec. Can.
73
Karni Mata
“Viveva in un villaggio una giovane di eccezionale bellezza,
figlia di una vedova, ed era ella di carattere impetuoso e
battagliero.
Era guardata con sospetto da tutti i vecchi del villaggio, perché
non era remissiva ed era spesso in disaccordo con il consiglio degli
anziani.
Un giorno, per solleticare il suo orgoglio, un anziano le disse:
“Tu, oh Kazan, che sovente ribadisci la tua audacia, perché non vai
nella valle dei demoni e sconfiggi Aktham, il demone che deruba e
uccide tutte le persone che passano di là?”
Si diceva infatti che vivesse in quella valle un demone, che con
l’inganno e la furbizia irretisse tutti quelli che passavano, poi li
derubasse, li uccidesse e se li mangiasse.
E le carovane, che un tempo passavano numerose per il
villaggio di Kazan, rendendolo ricco, adesso preferivano fare un
giro molto più lungo piuttosto che passare dalla strada che le
avrebbe condotte nella valle del demone.
Kazan, allora, solleticata dalla sfida, disse:
“Andrò nella valle e sconfiggerò il demone, e renderò di nuovo
questo villaggio una tappa obbligatoria per tutte le carovane dirette
ad ovest”
A nulla valsero le suppliche della madre e i lamenti delle
amiche, e neanche Devdhati, il suo promesso sposo, riuscì a farle
cambiare idea.
Partì sola e disarmata, con soltanto una bisaccia contenente un
melograno e un panetto di zucchero grezzo che la madre le aveva
preparato.
Quando, al tramonto, arrivò nella valle, si sentì chiamare:
“Kazan, Kazan, dove vai tutta sola? Sono il tuo promesso sposo,
dove vai? Stai sbagliando strada, vieni da questa parte, io ti
indicherò il sentiero giusto”
Kazan, accortasi dello stratagemma del demone, finse
comunque di essere caduta nella trappola, e disse:
“Oh, mio Devdhati, dove sei? Con questo buio non riesco a
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vederti; avvicinati e indicami la strada”
All’improvviso, il demone, con le sembianze di Devdhati, si
materializzò accanto ad essa.
Kazan, allora, proruppe:
“Eccoti, demone, finalmente ti ho trovato! E tu sai bene il
motivo per cui ti stavo cercando!”
“Veramente" rispose il demone tornando alle sue sembianze
naturali “Io non ti conosco, e neanche so perché mi stavi cercando”
“Ecco!” rispose Kazan “Questo dimostra che sei un demone
così stupido che non sa neanche leggere nel pensiero! Attento a te,
demone, perché io sono una campionessa di lotta, che non teme la
tigre né il serpente, e mi sono stufata di mettere alla prova la mia
forza con i comuni mortali, e allora sono venuta per sfidarti!”
Il demone, abituato ad avere di fronte solo umani terrorizzati,
valutando l’aspetto della giovane, disse:
“Veramente non mi sembra che tu sia così forte”
“Questo dimostra che le apparenze possono ingannare. Anche
tu, demone, poco fa avevi l’aspetto del mio promesso sposo, e
invece adesso sei tornato alla tua vera forma. Ma lascia che ti
dimostri la mia forza. Questa pietra” disse al demone mostrandogli
un sasso raccolto al bordo del sentiero “Sembra morta e asciutta,
invece è ben viva, e io per dimostrartelo ne caverò del sangue,
spremendola con la mia forza”
Il demone, strappandole la pietra dalle mani e stringendola con
forza, disse:
“Non si può far uscire sangue da una pietra”
Kazan, scuotendo la testa, afferrò il sasso, e, non vista, lo fece
scivolare nella bisaccia, dalla quale trasse il melograno, e
tenendolo nel pugno, disse:
“Guarda e impara, Aktham. Guarda come esce il sangue da una
pietra se la si stringe con forza!”
Dalle dita cominciò a colare il succo rosso.
Il demone era senza parole.
Intanto Kazan aveva raccolto un altro sasso marrone, e
mostrandolo al demone, disse:
“Adesso voglio darti un’altra prova del mio potere e della mia
forza: Guarda, demone: cosa vedi all’interno di questa pietra?”
“Non si può vedere all’interno di un sasso” rispose il demone.
75
“Che delusione” riprese Kazan “Questo vuol dire che non riesci
neanche a vedere all’interno degli oggetti? Anche se è buio io posso
vedere che all’interno di questa pietra c’è della polvere dolce. Tieni,
sbriciolala e guarda se ho ragione!”
Il demone prese il sasso dalle mani della giovane ma, per
quanta forza avesse, non riuscì a staccarne neanche una scheggia.
Fu allora costretto ad ammettere che non aveva né il potere di
vedere dentro gli oggetti, né la forza per sbriciolare una pietra.
Nel frattempo Kazan aveva fatto scivolare la pietra nella
bisaccia, e l’aveva sostituita con il panetto di zucchero datole dalla
madre.
“Ecco” disse sbriciolandolo “Prova ad assaggiare questa
polvere”
Il demone assaggiò la polvere e, appurato che era dolce, iniziò a
temere la forza della giovane ragazza.
“Potrei combattere con te ed ucciderti, poi portare il tuo corpo
al villaggio e guadagnarmi la stima di tutti, ma sapendo che non
vedi bene al buio questa sarebbe una cosa scorretta”
Il demone, ormai certo che non avrebbe mai vinto in una lotta
leale con la giovane ragazza, decise di giocare d’astuzia, e di
invitarla a dormire a casa sua per poi ucciderla e divorarla.
“Oh giovane signora, la tua forza e il tuo potere sono talmente
grandi che mi inginocchio davanti a te, e ti prego di accettare
l’invito che ti faccio: condividi il mio tetto per questa notte.
Domani, se sarai magnanima, me ne andrò dalla valle e non
sentirai mai più parlare di me”.
“Bene demone, accetto volentieri il tuo invito, ma tieni bene a
mente il mio potere; se cercherai di farmi del male, ti ucciderò!”
Dopo aver giurato di rispettare la legge dell’ospitalità, il
demone condusse Kazan ad una grande caverna, illuminata dalla
luce di innumerevoli pietre preziose.
“Ecco, mia signora, benché io sia povero, lasciate che metta a
vostra disposizione tutto quello che possiedo” e così dicendo la
invitò ad entrare nella caverna “Lasciate che vi mostri i miei
appartamenti”.
Kazan si accorse subito che le stanze della caverna erano
arredate e decorate con tutti i beni che il demone aveva rubato alle
carovane, e si accorse anche che in un angolo buio giacevano, l’una
76
sull’altra, le ossa dei disgraziati che il demone aveva divorato e
ucciso.
“Ecco la vostra camera, signora” disse “Possa la notte esservi
confortevole e il mattino trovarvi in buona salute” e se ne andò.
Nonostante il letto morbido e la stanza riccamente decorata,
Kazan non riusciva a prendere sonno, e si rigirava fra le lenzuola
temendo che il demone potesse ordire qualcosa.
Allora, verso la mezzanotte, si alzò e, arrotolando tre coperte,
compose la sagoma di un corpo disteso, e lo sistemò sotto le
lenzuola; poi si sedette in un angolo ad aspettare.
E infatti, poco prima dell’alba, il demone entrò di soppiatto
nella camera e, impugnando un lungo coltello, colpì tre volte la
sagoma nel letto.
Convinto di aver ucciso la ragazza, uscì dalla stanza tornò a
letto.
Appena il sole sorse ad oriente, Kazan fece finta di alzarsi, e,
urlando,
disse:
“Grazie, Aktham, ho passato un’ottima notte, ma dovresti fare
qualcosa per gli insetti: stanotte mi hanno punto tre volte! Non che
mi abbiano fatto male, ma sono proprio fastidiosi!”
Il demone, spaventatissimo dal potere della giovane, fuggì a
gambe levate, e Kazan poté far ritorno al villaggio carica di ori e
pietre preziose e, nel tripudio generale, sposò il suo promesso
Devdhati e visse con lui felice e contenta per molti, molti anni”.
“E così si conclude la storia” dice Tinto “E in questa valle è
stato eretto il Karni Mata, il tempio dei topi, perché il topo è
l’incarnazione della dea Durga, la dea della forza e dell’inventiva
femminile.
Il nome Durga, poi, significa colei che difficilmente si può
avvicinare, e, riferito alle donne in genere, mi sembra quanto mai
azzeccato”
Sono a una cinquantina di chilometri da Bikaner, la porta del
Deserto del Thar, e una deviazione verso sud li ha condotti presso
il villaggio di Deshnoke, dove sorge il famoso tempio dei topi.
E topi – Dio mio! – ce ne sono davvero tantissimi. Corrono su e
giù per i pavimenti di marmo, si arrampicano sulle basi delle
77
colonne, arrivano fulminei dai pertugi nelle pareti e – ancora Dio
mio! – se ti passano su un piede sei fortunato, e puoi ringraziare la
mitica Durga.
Tra la fine del tetto e il portone d’ingresso è stata addirittura
sistemata una rete, che funge da ombrello per la parte esterna del
tempio; questo per impedire che sprovveduti rapaci si possano
cibare - non sia mai! – dell’incarnazione della dea, che è
rappresentata nella sua forma “umana” con quattro braccia e a
cavallo di una tigre.
Se solo la sua rappresentazione animale fosse bella la metà
della sua rappresentazione umana, il tempio sarebbe un paradiso.
Purtroppo ella ha deciso di reincarnarsi in un topo. E il tempio –
credetemi – rasenta la follia.
Schiere di fedeli in silenzio sono in fila per raggiungere quello
che in una chiesa sarebbe la parte dedicata all’altare, che è precluso
ai non indù. Il resto dei pellegrini e dei visitatori si aggira per le
navate osservando questa moltitudine di topi che si abbeverano da
ciotole piene di latte sistemate un po’ dappertutto dai sacerdoti del
tempio o dagli stessi fedeli.
Non ci sono grosse attrattive architettoniche. Tutto il fascino
sta nelle centinaia – forse migliaia – di topi che stazionano tra
queste mura.
Inutile dire che le macchine fotografiche saettano di continuo,
e che i flash sembrano non infastidire i pelosi animaletti, che, anzi,
si concedono volentieri all’obiettivo.
I due coraggiosi, come tutti, sono scalzi, perché nei templi indù
si entra senza scarpe, ma i pavimenti sono immacolati, merito
senz’altro dei sacerdoti, che girano ininterrottamente con piccole
scope di saggina lunghe trenta centimetri che li costringono a
muoversi accoccolati spazzando in continuazione.
Ad un tratto un uomo magrissimo, con un gran paio di baffoni
bianchi, si avvicina con fare cospiratorio e, preso Tinto per un
gomito, indica la macchina fotografica e fa strani cenni verso
un’altra stanza.
Tinto, preoccupato di proteggere il suo tesoro da un milione di
dollari, si gira di spalle, ma Skanda ha capito: tocca l’Indiano e gli
fa cenno di guidarli.
78
L’indiano molla Tinto e si inchina a Skanda, poi con la mano gli
fa il gesto di seguirlo. Camminando in punta dei piedi come Gatto
Silvestro girano l’angolo, e l’indiano, orgogliosissimo, fa loro cenno
di guardare in quella nicchia, e insiste perché Tinto prenda la
macchina fotografica.
Poi si ritira, e guarda la scena con l’orgoglio della signora il cui
bambino ha detto per la prima volta mamma.
Nella rientranza c’è – bravi, indovinato! – un topo.
Ma è bianco!
Restano in contemplazione del topo il tempo necessario per
non risultare scortesi, poi si voltano e guadagnano l’uscita, ma
sono seguiti dall’indiano che...ma che vuole?
Li guarda sorridendo e basta, tutto lì.
Allora Skanda dice:
“Tip?”
E l’indiano, con il gesto tipico degli indiani, dondola la testa in
un movimento oscillatorio dalla spalla destra verso la sinistra e
ritorno.
Quel gesto, imparerà, vuol dire si.
Tira fuori di tasca una banconota da cento rupie – una fortuna
a quelle latitudini – e la porge all’indiano, che la fa sparire
immediatamente sotto i mille strati di camicie, casacche e gilet.
Poi, perso ogni interesse per i due sprovveduti viaggiatori, torna
alla caccia di qualche turista che, ignaro e un po’ schifato, si aggira
per il Karni Mata cercando un topo bianco, anche se ancora non lo
sa.
Arcade Fire: Ready to start, 2010, Mercury Records
79
Ali (senza accento)
Si alza da tavola e risponde al cellulare. L’idea di comprare una
sim indiana è stata intelligente, perché lui chiama casa con
l’opzione My Country di non si ricorda neanche più di quale
compagnia, mentre da casa lo chiamano dal telefono fisso senza
spendere una follia.
Ovviamente, e purtroppo, direi, il fatto di potersi parlare
spesso e senza l’ansia dei minuti che corrono, da un lato fa sentire i
cuori lontani più vicini; dall’altro fa venire voglia ai telefonatori
frustrati di infilare una mano dentro l’infernale apparecchio e
portare di forza il proprietario della voce dall’altra parte del mondo
semplicemente tirandolo.
Ma Skanda stasera è tranquillo e rilassato, e il fatto di parlare
con tutte e tre le sue donne lo ha messo di buon umore.
Tinto e Ali (non Alì, ma Ali, senza l’accento), sono ancora al
tavolo e, dopo una serie di sguardi e saluti da lontano, adesso sono
voltati verso le quattro ragazze del tavolo accanto. Sono quattro
giovani del luogo; sono giovani e carine, sembrano tutte la
principessa di Aladin. Tre di loro indossano i tipici sari, multicolori
e avvolgenti; la quarta, invece, è vestita all’occidentale, con jeans,
sandali e una camicia bianca. Hanno tutte lunghi capelli neri e gli
occhi bistrati, forse con il kajal. Sono disinvolte e simpatiche,
conoscono bene l’inglese e chiacchierano volentieri con Ali e Tinto,
e aspettano Skanda – che tra i tre è quello che in inglese si esprime
meglio – per farsi tradurre qualche termine o qualche frase
particolarmente ostica.
Skanda, nel frattempo, mette l’iPhone in tasca e guarda dalla
grande vetrata al primo piano del ristorante la piazza della stazione
di Bikaner.
Poi il suo sguardo scivola verso il basso, e si accorge che –
diobono! – anche questa camicia inizia a stargli stretta. Da quando
ha smesso di fumare, anche se non gli sembra di mangiare molto
più del solito, la pancia sembra lievitare, e non c’è cyclette, non c’è
footing che tenga; la cura unica e sola sarebbe quella di chiudere la
bocca. Ma come si fa?
80
Soprattutto stasera, soprattutto in questo hotel (anche se non
ha le camere, questo ristorante ha un’insegna con scritto
hotel…sarà il nome) che non avrebbero mai trovato senza Ali. Si
sono messi a tavola e hanno dato carta bianca al giovane
Rajasthano, che ha accolto con onore e piacere il compito di
fungere da anfitrione gastronomico per i nostri due eroi.
Ali è musulmano, ma non è vegetariano, e allora ha deciso di
ordinare per tutti e tre un Thali di agnello e montone. Dopo un
tempo interminabile passato a chiacchierare piacevolmente di
tutto e di niente, da una porta a molle tipo quella dei saloon
americani sbucano cinque camerieri con, nell’ordine: un vassoio
per uno per quanto riguarda i primi tre; tre bottiglie di acqua (il
quarto) e un apribottiglie (giuro!) il quinto.
In pochi istanti si sono trovati di fronte un grande piatto con
del riso e, nella parte superiore dello stesso piatto, sette ciotoline di
metallo contenenti ognuna qualcosa di diverso. A corredo del tutto
due chapati, la schiacciatina di farina di frumento non lievitata
cotta nel tandoor (il tipico forno indiano) e un’altra schiacciatina
mai vista prima, sottilissima e di colore giallo acceso, calda e
croccante come un cracker. Ali spiega loro che quella si chiama
pappadam, ed è fatta con farina di lenticchie e fritta. Il pappadam è
squisito, e dopo cinque minuti ne vogliono ancora. Ne
prenderanno poi altri tre nel corso della cena.
Il Thali, che deve essere mangiato senza posate, aiutandosi solo
con pezzetti di chapati, spazia dal sapore agrodolce della salsa a
base di yogurt a quello decisamente piccante delle lenticchie. C’è
addirittura il chutney - che i nostri amici conoscono perché hanno
avuto occasione di assaggiarlo lontano dall’India – che altro non è
che una marmellata di frutta piccante con una quantità
inimmaginabile di spezie. Lo hanno assaggiato entrambi ai Caraibi;
l’uno in Giamaica e l’altro in Belize, perché, seppur nato in India, è
talmente piaciuto agli Inglesi che lo hanno esportato in ogni loro
colonia, e ancora oggi è un piatto forte della cucina creola.
Per finire una salsina color curry con pezzetti di paneer, il
formaggio morbido che assomiglia un po’ alla nostra ricotta, anche
se più asciutto.
Da bere solo acqua, ma fresca e in abbondanza, perché il curry
mette sete e il cibo in generale è davvero piccante.
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Caratteristica fondamentale del Thali è che ne puoi ordinare
ancora, senza per questo che il prezzo salga.
Niente caffè ne ammazzacaffè, ma un fortissimo the nero e –
meraviglia delle meraviglie – cristalli di zucchero con semi di anice
per pulire il palato.
Una cena davvero da marajà , se perdonate la freddura.
Skanda torna verso il tavolo e si siede. Chiacchierano per un
altro po’, poi le quattro splendide indiane spiegano che per loro è
giunta l’ora di rientrare, e i nostri due itineranti escono per
rientrare in hotel in compagnia di Ali.
Sono arrivati a Bikaner, provenienti dal tempio dei topi, a metà
pomeriggio. Hanno parcheggiato davanti ad un albergo che non
sembrava male e hanno preso una camera. Hanno smontato i
bagagli dai portapacchi delle Enfield e, dopo un brevissimo
riposino, sono scesi in strada per la manutenzione delle
motociclette.
Hanno svitato il fianchetto destro e hanno verificato la pulizia
del filtro dell’aria. Poi, con l’aiuto degli attrezzi in dotazione hanno
verificato la tenuta dei giunti e dei bulloni, serrando per l’ennesima
volta quelli che reggono il paramotore. Poi, visto che i motori non
erano ancora freddi, hanno controllato l’olio, provvedendo – ne
erano certi – ad un rabbocco. Sembra che le Enfield consumino in
egual misura benzina e olio, ma erano preparati, perché l’avevano
sentito dire un po’ da tutti.
Terminati i lavori di manutenzione e pulite le cromature, le
parti metalliche e gli specchietti con una salvietta umida, si
asciugano il sudore dalla fronte, ripongono gli attrezzi e si godono
il fresco che arriva sedendosi su un gradino davanti alle ruote
anteriori dei potenti mezzi.
Solo allora si accorgono che hanno attirato una vera e propria
folla. Ma ormai sono quasi totalmente immersi nello shantismo, e
con un sorriso si apprestano all’inevitabile mezz’ora di
socializzazione. Sono ovviamente tutti uomini, in maggior parte
ragazzi giovani. Non tutti conoscono l’inglese, e allora ci si intende
un po’ a gesti, un po’ con le smorfie tipiche di chi pensa che parlare
la propria lingua come un deficiente serva a farsi capire meglio.
Tra i turbanti, le camicie, le djellaba, i kurta, i jeans e le camicie
82
button down spicca un ragazzo giovane, che sfodera un inglese
dalla pronuncia perfetta e che batte tutti per intraprendenza e
audacia. Si avvicina deciso e stringe le mani dei due, poi si inchina
e si presenta:
“Buonasera, il mio nome è Ali” dice “Non Alì, ma Ali, without
stress mark, senza accento. Sono uno studente universitario e
vorrei passare un po’ di tempo con voi per migliorare il mio
inglese”
“Piacere Skanda”
“Pleased to meet you, Tinto”
“Ho sentito che siete spagnoli, ma parlate un buon inglese. Se
avete voglia posso farvi visitare la città”
“Siamo italiani, Ali, non spagnoli, e non vogliamo visitare la
città, grazie”
“Italia!” urla quello “No soldi, solo studiare inglese! Io porta voi
in bazar e mostra città. Tranquailli, no money, no dinero!”
“Guarda, davvero, non ci serve una guida, e poi scusa, ma
siamo stanchi e non abbiamo voglia di vedere la città. Ora
perdonaci, ma rientriamo e forse ceneremo qui in albergo”
“Ok, tu no preoccupa! Io aspetta e fa guardia a motorbikes!”
Skanda e Tinto rientrano in hotel, ma dopo una doccia, una
controllatina alla posta elettronica, un’occhiata ai risultati delle
partite, si annoiano. E poi hanno fame, e in hotel – Tinto docet –
non si magia. Mai.
Allora scendono le scale e vedono dalla porta a vetri della
reception che fuori è quasi buio. Figurati se quel ragazzo si è messo
ad aspettarli!
E infatti Ali è là fuori che li accoglie sorridente come se, invece
di due ore, fossero passati dieci minuti.
“Vi avevo detto che vi avrei aspettati!” dice in inglese.
Tinto e Skanda si guardano, si accorgono dell’assurdità della
situazione e scoppiano in una sonora risata.
“Occhei, Ali senza accento” dice Skanda mettendogli una mano
sulla spalla “Facci fare un giro in questa città!”
Ali si rivelerà una guida preziosa e un ragazzo squisito. Alla
fine della serata non accetta neanche un soldo e anche per offrirgli
83
la cena devono imporsi. Voleva davvero soltanto migliorare il suo
inglese, e con il suo aiuto girano il centro di Bikaner ed il suo bazar
come non avrebbero potuto mai fare solo con l’aiuto della Lonely
Planet.
Il giovane parla ininterrottamente, e racconta di sé, della sua
famiglia, del deserto, di come un giorno andrà in Australia, di
come gli piacerebbe vedere Roma, e Parigi, e anche Frenzy, che in
inglese vuol dire frenesia, ma nella lingua di Ali vuol dire Firenze,
che però colloca, sbagliando solo di pochissimo, in Germania.
Fa passare i due da una serie di vicoli e stradine che
nascondono la vera anima commerciale della città. Fa assaggiare
loro tutta una serie di spuntini e stuzzichini che prende
impunemente dai banchi del mercato (solo una volta i due hanno
sborsato – my God! – cento rupie). Mangiano il dosa, che è una
sfogliatina ripiena aromatizzata con il Masala. Mangiano l’idli, che
è una tortina di riso fritto. Mangiano i samosa, che Skanda aveva
già assaggiato a Delhi, e che si confermano buonissimi. Poi
mangiano degli aggeggi lunghi come uno spaghetto e spessi come i
pici senesi, apparentemente fritti, che sembrano fatti di una purea
di patate e cipolle, e assaggiano una specie di sfogliatina cava a
forma di uovo, che viene riempita di una brodaglia rossa e
particolarmente piccante: sublime!
Non contenti di tutti questi stuzzichini e, anzi, sentendosi,
appunto, stuzzicati, decidono allora, sotto la sapiente guida di Ali,
di andare in questo hotel (che come già detto non è un albergo) in
piazza della stazione, a cenare come Dio comanda. Nel ristorante
non c’è neanche un occidentale, e questo marca subito benissimo.
L’atmosfera è rilassata e informale; il locale è anche abbastanza
pieno, ma i quarti d’ora passano velocemente in compagnia di Ali.
Dopo cena, mentre il giovane li accompagna in albergo,
assistono ad una delle scene più esilaranti dell’intero viaggio.
Stanno camminando al lato di una strada, quando in lontananza
vedono le sbarre del passaggio a livello che si chiudono. Ali li
prende per un braccio e li porta lontano dal marciapiede e dalla
strada, su un dosso immediatamente a sinistra delle sbarre.
I due assistono stupiti all’apocalisse.
In due minuti tutta la carreggiata davanti alle sbarre chiuse è
occupata da qualsiasi mezzo a motore o a pedali esistente
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nell’universo. Non c’è nessun rispetto per la corsia di destra o di
sinistra. I primi arrivati, sfortunatissimi, sono spinti contro le
sbarre – che tra l’altro sono azionate da una manovella girata a
mano da un uomo talmente piccolo che sembra un turbante
semovente e sono decisamente più massicce delle nostre – e
schiacciati da quelli che arrivano alle loro spalle.
Via via che i minuti passano, altri mezzi continuano ad
arrivare, e lo stesso dall’altra parte. Tutto intorno, per cento metri
da una parte, e altrettanti dall’altra, è un infernale strombazzare di
clacson, accelerare di motori, spingere di risciò, tuk tuk e biciclette.
Ormai su tutta la via aleggia una nube pestilenziale di gas di
scarico.
I pedoni più impavidi si gettano oltre le sbarre e attraversano,
anche se da lontano si sente già il fischio del treno. Il problema è
che dall’altra parte non c’è fisicamente lo spazio per fendere il
muro di folla che si accalca, e allora restano tutti là, nella parte di
carreggiata che dovrebbe essere interdetta dalle sbarre tirate giù.
Intanto il fischio si fa più vicino…ma dov’è 'sto treno?
Alla fine, preannunciato da un fischio lunghissimo, fa la sua
comparsa il treno Rajasthano, che viaggia alla folle velocità di circa
cinque chilometri orari, e si rivela lunghissimo.
Come la gente vede il treno, sembra impazzire. Clacson, spinte
e sgassate di motori.
Ali ride come un pazzo e guarda le facce dei due allibiti
occidentali. Vicino a loro c’è una ragazza con le cuffie dell’iPod
nell’orecchio che sorride e fa un gesto come per dire: tutto ciò è
meraviglioso; ma potrebbe anche voler dire: siamo un popolo di
matti furiosi.
Il turbante semovente inizia a girare la manovella e ad aprire le
sbarre prima che il treno abbia finito di passare. Ci mette un
secolo, ma quando si alzano abbastanza da permettere il passaggio
dei motorini, ecco che i piloti scendono di sella e, spingendo la
moto e piegandosi tutti, riescono a guadagnare la rotaia.
In un attimo è il delirio: le sbarre sono alzate e tutti vogliono
passare nello stesso momento. Sembra un formicaio impazzito, e il
rumore adesso raggiunge apici da jet in decollo. Nel frattempo la
nube pestilenziale sembra espandersi ulteriormente, e solo dopo
85
cinque minuti di caos il traffico tornerà alla normalità, cioè come
se tutti gli abitanti di Guatemala City guidassero ubriachi.
Rinfrancati da questa esperienza quasi zen, i nostri due eroi se
ne vanno a letto dopo aver abbracciato Ali e aver promesso eterna
amicizia.
Mentre si spogliano, ancora scuotendo il capo e sorridendo,
Tinto si accorge che ha perso la borsina messicana che teneva al
collo con la carta di credito dentro.
Buonanotte!
77 Bombay Street: Low on air, 2012, Gadget Records
86
Dhal & chai
Il deserto del Thar non è un vero e proprio deserto; non è fatto
interamente di dune di sabbia; non è composto di ciottoli, non è
mostruosamente arido. È un po’ un mix di tutti questi ingredienti.
Si estende per buona parte dello stato del Rajasthan, e comprende
anche il nord dello stato del Gujarat (quello dove nacque Gandhi) e
il sud dello stato del Punjab e dell’Haryana. Sconfina fino in
Pakistan, occupandone la parte nord orientale.
Ogni tanto si incontrano anche tratti con splendide dune di
sabbia, ma per la maggior parte il panorama è composto da una
pianura arida costellata di cespugli e arbusti e da qualche albero di
acacia. Intorno cammelli (o dromedari?) e ogni tanto qualche
punto di ristoro.
La strada corre dritta e alterna, senza soluzione di continuità,
tratti con asfalto liscio e tratti composti da lastroni di cemento
appoggiati sulla terra battuta.
Il fatto che il fondo stradale possa cambiare in maniera così
repentina costringe i due a mantenere una velocità di crociera
bassissima.
Il traffico non è un problema, perché le strade, almeno queste,
sono davvero poco frequentate, e, più che auto, sull’asfalto ci sono
carretti trainati da cammelli, motorini e alcuni pullman stracarichi.
Ogni tanto oltrepassano qualche piccolo villaggio costruito
interamente sulla strada di cui i due, passando a bassa velocità,
riescono ad intuire parte della quotidianità: bambini che giocano, e
che all’avvicinarsi delle moto si fermano, vengono sul bordo della
strada e salutano timidi con la mano; uomini all’ombra dei banyan,
attività commerciali e banchetti di frutta e verdura. Su tutto,
l’immancabile polvere che caratterizza l’India.
Sono partiti da Bikaner dopo che Tinto ha espletato tutte le
formalità per bloccare la carta di credito. Che fine abbia fatto la
borsina messicana resta tuttora un mistero. L’unica cosa a cui non
pensano è il furto, perché è davvero impossibile che possano averla
rubata da sotto la maglietta, e poi perché rubare una carta di
87
credito vuol dire impossessarsi di un pezzo di plastica senza alcun
valore. L’ipotesi più accreditata è che si sia rotto il filo, o che si sia
scucito nella parte in cui si univa alla borsa.
Inutile dire che Tinto ha alternato, e probabilmente alterna
ancora, momenti di rabbia cristallina a momenti in cui si sente
demoralizzato e incupito. Ha detto anche, per fortuna solo un paio
di volte, che questo era un segno della cattiva stella sotto cui nasce
l’impresa, e che i segni vanno saputi cogliere.
A Skanda viene in mente un racconto della mitologia indiana,
dove si racconta che un bramino, avendo con sé la scatola dove
aveva raccolto le offerte e sentendo la necessità di compiere le
abluzioni al fiume, dopo avere a lungo viaggiato, si ferma in
prossimità della riva e seppellisce la scatola con le offerte nella
sabbia del greto, creando così un piccolo monticello.
Le persone intorno, vedendo un bramino – che è la casta più
alta del sistema indiano – fare un monte con la sabbia del fiume,
accorrono in massa sulla riva e, imitandolo, pensando di fare cosa
gradita agli dei, fanno tutti dei monticelli di sabbia vicino al suo.
Altre persone arrivano, e tutte fanno la stessa cosa.
Quando il Bramino esce dal fiume e fa per riprendere la sua
scatola, vede il greto completamente cosparso di piccoli mucchi di
sabbia e, distruggendone due o tre, si rende conto che non
ritroverà mai la sua scatola, perché ogni volta che ne distrugge
uno, un altro fedele accorre e lo ricostruisce.
La morale è: non credere che, solo perché nascondi i tuoi tesori
in un luogo sicuro, essi saranno al riparo del fato, poiché la mano
del caso è sempre pronta a tirare un pugno all’incauto viaggiatore.
Effettivamente non è proprio calzante, ma si sa, le ore in moto
spingono la mente lungo strani percorsi, e spesso i pensieri che ne
escono sono tortuosi.
A proposito di strade e percorsi, adesso, dopo un cambio – o
meglio, un salto – di corsia, sono costretti viaggiare nella
carreggiata di destra, dividendola con il traffico che arriva in senso
contrario. Niente di grave, se non fosse che quelli che arrivano
dritti contro le moto non fanno neanche il minimo sforzo per
agevolare loro il passo, e quindi sono costretti, ogni volta che
stanno per incrociare un veicolo, a spostarsi tutti a sinistra,
finendo sulla terra battuta.
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La loro meta è ancora lontana, ed il sole picchia duro. Sentono
già i morsi della fame e si guardano speranzosi intorno, ma sembra
non esserci nessun segno di presenza umana.
Skanda è davanti, adesso, e controlla nello specchietto a che
distanza è Tinto, ma si accorge, sollevato e in qualche modo
rassicurato, che il suo amico lo ha raggiunto e adesso stanno
viaggiando paralleli.
Tinto gli fa un segno che nella lingua internazionale del
motociclista vuol dire: Amico, ho bisogno di fare il pieno, di
sgranchirmi le gambe, di pisciare e di mettere qualcosa sotto i
denti.
Tutto questo semplicemente con un movimento della mano.
Incredibile come l’economia di parole riesca comunque a
stabilire una comunicazione efficace e profonda.
Molti amici, quando parlavano del loro progetto, si sono
meravigliati perché non avevano pensato a portarsi un interfono
per chiacchierare e comunicarsi i dati e le informazioni necessarie
al viaggio.
Non è che non hanno pensato agli interfoni. È che hanno
deciso di non investire una parte consistente delle loro risorse
nell’acquisto di un accessorio che, ne sono certi, più che unirli li
avrebbe divisi.
Il vento che arriva sulle lenti degli occhiali scuri, il rumore del
motore, il comunicare a gesti o anche solo con uno sguardo
supplisce ad ogni tipo di parola e di frase. È come una comunione
profonda con il proprio mezzo, con il mondo intorno e con il
compagno di viaggio, senza che nessuno dei tre fattori prenda il
sopravvento sull’altro.
Skanda, infatti, ha capito da un semplice sguardo e dal modo in
cui Tinto gli si è avvicinato e ha mosso la mano sinistra, che la
tempesta è passata. Gli occhi dell’amico sono proiettati verso la
strada e non verso un rimpianto irrisolvibile. Come dice il
proverbio, non si piange sul latte versato, e come dice Tinto,
fermiamoci, perché ho fame.
Improvvisamente, alla loro destra vedono una costruzione in
muratura con un pullman parcheggiato davanti. Potrebbe essere la
versione locale di un Autogrill.
89
E infatti è proprio un Autogrill, solo che invece del Camogli o
della cotoletta hanno del chapati buonissimo cotto nel tandoor, lo
vedono mentre il “cuoco” ne toglie due dall’interno del forno e ce
ne mette altri due, schiacciatine rotonde che un minuto prima
erano palline di pasta sotto un telo di cotone.
Ai tavoli, sistemati sotto un grande pergolato, ci sono
tantissime persone, probabilmente tutti gli occupanti del pullman,
e ricevono subito l’invito di un signore panciuto e cordiale che fa
loro cenno di sedersi al suo tavolo, che ha due posti liberi.
I due accettano ringraziando con un cenno del capo, si
spogliano di tutto quello che possono e si siedono in compagnia di
una decina di persone.
Allungano il collo per capire cosa e come mangiare, quando
vedono due bambini e un uomo che passano tra i tavoli con un
gran pentolone e un mestolo. Uno dei bambini arriva al loro tavolo
e sistema due salviette, due scodelle, un cucchiaio e una forchetta.
È seguito dall’uomo che, senza proferire parola, prende una
mestolata di cibo e la mette in una scodella, facendo lo stesso con
la scodella dell’altro.
Il bambino che aveva apparecchiato, nel frattempo, porta loro
due chapati e una ciotolina di riso bianco tipo Basmati.
Ebbene, i nostri amici si apprestano a mangiare uno dei piatti
più diffusi nell’India del nord, il dhal.
Con un pezzetto di chapati prendono un po’ di riso e lo
immergono nella zuppa di lenticchie. Usano il cucchiaio, perché,
visto che c’è…
Mmmmh, è buonissimo, ma, Madonna se è piccante…
Lo divorano in un minuto, nonostante la piccantezza e la
temperatura, che sfiora i mille gradi.
Tutto il tavolo, composto da signori e signore di una certa età,
li guarda divertito, e l’uomo panciuto dice qualcosa che i due non
capiscono, e suscita l’ilarità dell’intero “ristorante”.
Poi Tinto guarda Skanda, e si accorge che sta mangiando come
Terence Hill in Lo Chiamavano Trinità. Evidentemente anche lui
non è da meno, perché, se ne accorge ora, la scodella è già vuota.
Va bene così, la fame era tale che non potevano fare altrimenti.
Ora che si sentono un po’ più umani hanno anche il tempo per le
buone maniere: si raddrizzano sulle sedie, rivolgono ai commensali
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un sorriso smagliante e, con un cenno calmo e misurato, indicano
al cuoco che gradirebbero un altro paio di chapati e un’altra dose di
dhal, please.
“Dove siamo?” chiede Skanda
“Non ne ho idea, penso più o meno a un centinaio di chilometri
da Jaisalmer”
“Uhm, bene, vuol dire che arriviamo presto” risponde Skanda
“Dove dormiamo, dove ci ha detto Ali?”
“Mah, io direi per lo meno di andare a vedere. Dice che
l’albergo di suo cognato è grande e ha la connessione wifi”
“Ma non è dentro le mura, però”
“Meglio così” dice Tinto “Ho letto che non si deve pernottare
dentro le mura, perché il sistema idrico e fognario della città è
talmente vecchio che ogni turista che soggiorna dentro
contribuisce a disperdere nell’ambiente circa due litri di acqua al
giorno. Questo vuol dire che la città, continuando di questo passo,
entro il duemilacento sarà completamente sprofondata nel
deserto”
“Va bè, chi se ne frega” scherza Skanda “Tanto noi l’abbiamo
già vista”
“Noi si, ma dall’anno prossimo Jaisalmer sarà il punto di
partenza dell’India Moto Challenge, e ci verremo minimo quattro
volte l’anno, e io conto, nel duemilacento, di essere sempre qui a
condurre i motociclisti in giro per l’India”
“Aaah, amico mio, è grassa se nel duemilacento saranno ancora
vivi i tuoi nipotini, e se per caso dovessi essere sempre vivo te, sarai
di sicuro a guidare la Panda dell’Asl in giro per Firenze”
“Fanculo, Skanda” e gli tira uno stecchino “Ma piuttosto, hai
controllato le visite del sito?”
“Si, ieri sera, erano trecentocinquantasei in tutto, e sedici nella
giornata dell’altro ieri. Buono, no?”
“Fammi pensare…Lara, le bambine, i tuoi genitori, la tua
sorella, i tuoi cognati, le tue cognate, i tuoi zii…mica tanto buono:
anche se fosse stato visto solo dai tuoi parenti avrebbe dovuto
totalizzare almeno cento visite”
Skanda ride, ma Tinto ha ragione. Un’altra grossa differenza
tra loro due è che il primo fa parte di una vera e propria tribù, che
comprende i suoi parenti, sorella compresa, e soprattutto i parenti
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di Lara, che, tra sorelle, cognate, cugini, mogli e mariti degli uni o
delle altre, sono davvero tanti. Tinto invece ha un contesto
familiare più ristretto, intanto perché è figlio unico, e poi perché,
per quanto ne sa Skanda, sembra non avere neanche cugini.
“Ci facciamo un the nero?” chiede Tinto
“Per me un’espresso decaffeinato” risponde Skanda. Ha
mangiato ad una velocità fenomenale e adesso si sente un po’
ingolfato.
“Occhei” dice Tinto “Penso che sia arrivato il momento del
chai”
Si alzano e vanno verso quella che dovrebbe essere la cucina,
chiamano il cuoco e gli dicono:
“Chai” e con le dita fanno il cenno di farne due.
Il cuoco li guarda non proprio entusiasta, e loro hanno la
sensazione che chiedere un chai dopo pranzo sia come quando i
tedeschi chiedono, in Italia, un cappuccino dopo un arrosto di
fegatelli.
Ma chi se ne frega; sono stranieri e si sentono in diritto di
essere perdonati se ogni tanto fanno qualche gaffe.
Il chai è, in India, come l’espresso in Italia, ovvero una bevanda
che si trova praticamente ovunque e che si beve in qualsiasi
momento della giornata.
Il cuoco prende un pentolino tutto incrostato, ci butta dentro
un po’ di zucchero di canna e lo riempie per metà con del latte.
Dove abbia preso quella bottiglia di latte, visto che in giro non c’è
neanche un frigo è un mistero, ma i due non vogliono indagare
oltre.
Mentre il latte si scalda sul fuoco, prende un colino finissimo e
lo riempie con foglie di the, poi lo mette a bollire insieme al latte.
Infine da un barattolo prende una manciata di spezie (il profumo
arriva fino a loro) e anche quelle le lascia cadere nel pentolino. Il
tutto cuoce ancora per qualche minuto, fin quando il latte,
bollendo, risale le pareti del pentolino e sta per traboccare. A quel
punto il nostro baldo cuciniere filtra il tutto dentro a due bicchieri
e serve questa bevanda caldissima e profumatissima.
Non è un the al latte, non è un latte speziato, non è un infuso; è
un misto di queste tre cose – l’India è piena di mix di cose diverse
– ed è talmente buono che i nostri eroi, ormai, ogni volta che si
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fermano dove ci sia civiltà non perdono occasione per farsene
almeno un paio.
L’unica controindicazione – no, non è la diarrea, perché il latte
è bollito, e il miscuglio è così caldo che uccide istantaneamente
tutti i germi che ci sono nel bicchiere – è che, essendo il the forte e
nero, talvolta, soprattutto a Skanda, provoca qualche difficoltà ad
addormentarsi. Ma non è detto, potrebbe anche essere il fuso
orario, e allora:
“Cameriere, un altro chai!”
Almamegretta: Figli di Annibale, 1993, Anagrumba
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Martina (di Osoppo)
C’era una volta Napi, che era l’aiutante del Sole. Il compito del
Sole era scaldare la terra, mentre Napi si occupava di tutti gli
altri lavori.
Un giorno, avendo finito presto il compito che si era
assegnato, decise di provare a modellare un blocco di argilla.
Da quel blocco ricavò tante figurine quanti sono gli animali
della terra. Alla fine soffiò sulle figurine di argilla e diede loro
vita.
Ma un piccolo pezzo era avanzato, e, rigirandoselo tra le
mani, Napi creò, quasi con noncuranza, un’altra minuscola
figura.
La guardò, ci soffiò sopra e le diede vita. Le disse:
- Ti chiamerai uomo, e vivrai con gli altri animali
Poi tornò ai suoi lavori.
Dopo qualche tempo gli animali tornarono da lui e si
lamentarono della loro sistemazione: l’elefante non stava bene in
montagna, perché non gli piacevano le discese e le rocce
appuntite; la tigre non sopportava il deserto, perché impolverava
il suo splendido mantello; la capra odiava la prateria, perché i
suoi zoccoli affondavano nella morbida terra.
Allora Napi dette di nuovo agli animali un posto dove stare, e
tutti furono infine contenti.
Tutti tranne l’uomo, che non ha ancora trovato il suo posto
ideale, e vaga per tutto il mondo cercandolo.
“Ecco qua la spiegazione del perché si viaggia” pensa Skanda
mentre il vento relativo gli soffia contro e gli si infila nelle maniche
della T-shirt facendola gonfiare sulle spalle e sulla schiena.
L’asfalto corre a dieci centimetri dal suo piede, le mani sul
manubrio sono rilassate ma pronte a cogliere ogni variazione di
assetto. La Enfield fila via come se avesse una volontà propria. La
strada adesso è bellissima: corre tra due ali di deserto sabbioso e
luminosissimo. Il sole sta digradando davanti a lui e tinge ogni
cosa di una luce arancione che sembra incendiare tutto quello su
94
cui si posa. Le ombre sono nette, i contorni perfettamente
delineati. Appena dietro alla sua spalla destra intravede a tratti il
faro e la ruota anteriore di Tinto, e sente il suo motore girare e fare
le fusa.
Aspettano da un momento all’altro di vedere la città, ma
sembra che per adesso non ce ne sia traccia. Il tempo è sospeso,
sono in una sorta di non luogo, dove tutto è immobile tranne loro
due, che corrono verso ovest. Hanno la sensazione che potrebbero
scendere di sella e toccare le quinte di un enorme quadro, come
Truman Burbank che scende dalla barca e scopre che l’orizzonte è
disegnato.
“Buon giorno, e casomai non vi rivedessi buonasera e
buonanotte!” dice Skanda ripetendo la frase più famosa di The
Truman Show.
Poi, tra le pieghe ondulate che si alzano dall’asfalto rovente,
sembra sorgere poco a poco dalla sabbia gialla un contrafforte
dello stesso colore del suolo. Solo via via che la distanza si riduce i
particolari si fanno nitidi: una serie di torri intervallano alte mura
che circondano uno spazio circolare su un terrapieno sollevato
rispetto al piano del deserto circostante. All’interno delle mura,
protetta come Monteriggioni, giace la città vecchia di Jaisalmer,
detta anche la città d’oro, per il colore delle mura e delle haveli che
racchiude dentro di esse.
La visione è magnifica e superba; la strada si avvicina dritta
verso la monumentale porta di accesso, e sembra di essere tornati
indietro nel tempo.
Jaisalmer è una città con una storia antichissima: prima
caravanserraglio, poi vera e propria città carovaniera, si trova
esattamente sulla Via della Seta del sud, ed è molto più vicina al
Pakistan che a qualsiasi altra città o paese indiano. Superata la
parte nuova, che si estende ai piedi del forte, ogni strada porta
inevitabilmente alla porta di ingresso scolpita con enormi pezzi di
granito e arenaria e incastrata nella parte est della cinta muraria.
È stata una lunga strada, per arrivare fino a qui, perché da
tempo immemorabile la città di Jaisalmer è al di fuori di ogni rotta
commerciale, ma ne è valsa la pena. La luce del tramonto la tinge
davvero di un colore dorato e tutto intorno si respira un’aria
morbida e rilassata, e tra le tante persone vestite in sari e in kurta,
95
si vedono anche molti turisti occidentali, chi seduto ad un caffè a
sorseggiare un chai, chi intento a bere un lassi. Sembra un posto
incantevole, e si rivelerà davvero tale, ma adesso i due amici sono
preoccupati soprattutto di trovare una sistemazione per la notte
perché, dopo aver un po’ girato in tondo nelle strade in salita che
portano alla città vecchia, l’albergo del cognato di Ali non l’hanno
poi trovato.
Parcheggiano le moto vicino ad uno sportello Atm e ad un bar
all’aperto, e Tinto parte da solo in perlustrazione in cerca,
nell’ordine, di: burro di cacao (ha le labbra secche); pile per la
macchina fotografica (ha scattato duemilacinquecento foto); una
stanza d’albergo di media categoria.
Skanda intanto mette la moto sul cavalletto centrale, si leva il
giubbotto di jeans e si accomoda con le gambe distese sul serbatoio
e la schiena appoggiata allo zaino legato sul portapacchi. Sente il
ticchettio del motore che si raffredda e il calore che sale dalla
marmitta e dalla testata. Gli piace questa moto, gli piace tanto. E
gli piace anche il fatto che in India, nonostante escano da una
fabbrica di Chennai, ne girano poche, perché sono considerate
meno affidabili delle piccole giapponesi e meno economiche delle
varie Bajaj e Hero. Ogni volta che si fermano in qualche città – ma
anche nel mezzo del deserto – richiamano inevitabilmente
qualcuno che, affascinato dalle due rombanti bestie, si avvicina e
attacca discorso.
Qui a Jaisalmer, invece, sembra che le moto attirino più che
altro gli sguardi dei turisti e dei viaggiatori. Dai giovani australiani
con le ciabatte e la chitarra a tracolla, alle tedesche con la pelle
rossa e l’espressione accaldata. Si avvicina Martina, di Udine, che
deve fare un prelievo all’Atm e guarda Skanda come se potesse
rapinarla in qualsiasi momento. Poi vede lo zaino Invicta e fa:
“Italiani?”
“Eh” risponde Skanda
“Ciao, sono Martina”
“Io sono Skanda”
“Siete Italiani di dove?”
“Siamo di Firenze,e tu?”
“Io vengo da Osoppo, ma forse non l’avrai neanche sentito
nominare; è un paesino in Friuli, provincia di Udine”
96
“Ma come, Osoppo? Certo che l’ho sentito nominare, è dove
facevano il Reggae Sunsplash, la più grande festa reggae d’Europa”
“Mitico“ dice lei “Ti piace il reggae?”
“Scherzi? Ne vado matto. Italiani e neozelandesi sono quelli che
il reggae lo sanno fare meglio, altro che Giamaicani, che sono ora
tutti fissati con il ragamuffin”
“È vero” ribatte Martina “E i migliori gruppi italiani sono
Friulani”
“Brava! Mellow Mood, B.R.Stylers…”
“Dub Sync…” continua lei.
“Eh no, quelli sono per metà piemontesi, c’è Madaski…”
“Ah, sei forte! Ma dimmi un po’: quali sono i tuoi programmi?”
“I nostri programmi, viaggio con un amico, questa è la sua
moto. Non so, arriviamo giusto ora, e dobbiamo cercare da
dormire…ma te sei con qualcuno?”
“Eh si, siamo un gruppo di otto persone, siamo con Avventure
nel Mondo, e partiamo stasera con il treno notturno che ci riporta
a Delhi…” risponde lei quasi dispiaciuta.
“Nooo, peccato…e poi che fate, rientrate in Italia?”
“Eh, per noi è finita, dopodomani abbiamo il volo…”
“Peccato, sarebbe stato bello chiacchierare un po’ di reggae”
“E bersi un Lassi Bhang” fa lei.
“Che?” chiede Skanda.
Marta ride e prosegue “Se non sai cos’è scoprilo da solo, e
mentre lo bevi ascolta gli Africa Unite, vedrai che viaggio!” dice
spostandosi lo zaino sulle spalle e rimettendo il portafoglio nella
borsa che ha a tracolla.
“Ciao…scusa, ho dimenticato il tuo nome”
“Skanda. Ciao, e arrivederci in giro per il mondo”
“Siete forti, ragazzi, e buon viaggio. Vi penserò, con quelle
moto in giro per l’India…un po’ vi invidio, ma più che altro mi
terrorizzate”
“Ah, vai tranquilla, Martina. Namastè”
“Namastè anche a te, toscano”
Gira le spalle e se ne va, ma dopo una ventina di passi si volta
ancora e saluta con la mano.
Skanda risponde al saluto e pensa al tempo, alle possibilità che
si aprono semplicemente arrivando un giorno prima o un’ora
97
dopo; decidendo di fermarsi qui invece che laggiù. Pensa a quello
che è e a quello che potrebbe essere, e si sente un po’ marpione e
un po’ filosofo. Ha visto un film, poco prima di partire, che gli è
piaciuto molto, e racconta proprio di questo, di come il caso cambi
le nostre vite. Il film si chiama Sliding Doors e ci recita una brava e
bella Gwyneth Paltrow. Poi vede Tinto che torna abbracciato a un
ragazzo con una djellaba bianca e i capelli lunghi e neri.
“Guarda, ho trovato un altro Ali” dice “ E anche questo senza
accento!”
B.R.Stylers: From the ground, 2009, Alambic Conspiracy
98
Jaisalmer
È emozionatissimo. Ha appena parlato al telefono con Marina,
la redattrice di Motofan, che ha offerto loro uno spazio
trisettimanale sulla testata on line dove potranno postare foto e
pensieri, aggiornamenti sull’evolversi del viaggio tappa dopo tappa
e, importantissimo, i link che portano al sito o alla pagina
Facebook.
Sentono che le cose si muovono, che i pezzi si incastrano.
Giusto un paio d’ore prima Skanda ha parlato con Francesca di Isla
Ng Bata, l’organizzazione di Roma che gestisce una casa famiglia a
Gurgaon, e hanno programmato la visita per quando ritorneranno
a Delhi. Hanno raccolto un bel po’ di offerte, e non vedono l’ora di
darle di persona a Ananta Das, che, insieme alla moglie, gestisce la
casa e il centro diurno.
Sono in una stanza che sembra una piazza le cui finestre danno
su un vicolo strettissimo e su un tempio jainista. Nella stanza ci
sono addirittura tre letti a una piazza e mezzo, e loro usano quello
centrale come piano di appoggio per tutte le valigie, i bagagli, i
caschi e i giubbotti.
Il bagno, però, sembra un antro d’inferno: è minuscolo,
sopraelevato rispetto alla stanza, e vi si accede tramite due scalini.
L’unica, piccolissima finestra si affaccia su una specie di giardino
interno che sembra essere usato come cucina e rimessaggio. Dal
basso vengono, ad intervalli irregolari, urla e grida a volume
altissimo. Il wc è incrostato di tutti i materiali presenti sulla faccia
della terra, con una certa predilezione per quelli organici.
Ovviamente non c’è il bidet, ma c’è la doccia, il cui getto spara
proprio sul gabinetto e sul lavandino, che a sua volta non ha
scarico, ma butta direttamente dentro ad un pozzetto in un angolo
della stanza che, a giudicare dal rumore che fanno le acque reflue,
potrebbe anche sbucare nella stanza di sotto.
È sporco come…come…non hanno neanche un paragone
calzante, da come è lurido.
Per la verità, però, è solo il bagno che fa calare il ranking della
camera, perché la camera in sé non è neanche male. È grande,
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ariosa, abbastanza pulita, ha una finestra a bovindo e una porta a
doppio battente veramente bella, in legno massiccio e finemente
intarsiata, chiusa con un lucchetto grande come un pugno che si
apre con una chiave enorme.
L’albergo non ha neanche il nome, e non hanno ancora capito
che genere di attività si nasconde al piano terra, dove echeggiano
rumori metallici e strani. Non c’è reception, e alle stanze si accede
tramite una stretta scala che dall’ingresso sulla strada porta
direttamente al primo piano. Una volta arrivati al primo piano,
però, gli spazi si fanno miracolosamente ampi e arieggiati, e se si
sale ancora una rampa o due di scale si sbuca sul tetto, dove c’è un
bar di poche pretese ma, importantissimo, ci sono cuscini e
tappeti, e la possibilità di vedere le stelle che fanno capolino
attraverso le tende che si muovono al vento leggero che si alza
quando inizia a fare buio.
Il fatto che il nuovo Ali (senza accento) sia un marpione
paraculo, losco quanto basta e svelto a calcolare cifre ed interessi,
non toglie fascino al posto che, grazie alla terrazza sul tetto,
guadagna diversi punti.
Sembrano essere gli unici ospiti dell’albergo, tranne un paio di
coppie sicuramente del Nord Europa, che però hanno solo
intravisto, e ne approfittano immediatamente. Con tutto
l’armamentario tecnologico in loro possesso si spostano sul tetto, si
connettono alla wifi e iniziano a scaricare foto, a mandare
WhatsApp a destra e a manca, a leggere libri e guide e a pisolare
cullati dai rumori che arrivano dalla strada e dal vento che
accarezza loro la faccia.
“Si sta alla grande, eh?”
“Mmmmm”
“Che dici, tra un po’ andiamo a cena?”
“Mmmmm”
“Oh, ma era discreta la tipa con cui chiacchieravi prima, eh?”
“Mmmmm”
“Madonna, sei proprio di compagnia, te…”
“Mmmmm”
100
Camminano verso la porta d’ingresso alla città vecchia, intorno
a loro è ancora una volta il color oro a farla da padrone. Poco
traffico, neanche tanta gente.
Oltrepassano la porta incassata nelle mura e si trovano
direttamente nella città vecchia. È un tripudio di vicoli, haveli
restaurate e bellissime e un numero esagerato di templi jainisti,
dove si entra solo se non si indossano oggetti in pelle o cuoio e,
ovviamente, armi.
Il jainismo, che per molto tempo è stata considerata una
religione, negli ultimi anni sembra assurta al rango di filosofia
pura. Questo perché nella filosofia jainista non ci sono dei, quindi
neanche rappresentazione degli stessi. Tutto è ritenuto unico,
eterno e mutabile, e tutti gli esseri viventi, dall’uomo al più
insignificante insetto, nascono e crescono con un’anima universale.
Lo scopo dell’essere umano – attraverso il jainismo – è quello di
imparare la via che permette di vivere senza arrecare danno alle
anime eterne degli altri esseri viventi.
Sembra un po’ complicato, in realtà è molto semplice: vivi
senza far del male, osserva dei precetti – pochi ma buoni – e il tuo
jiva (la parte spirituale del tuo essere) si libererà del karma (cioè le
azioni che uno compie e le loro conseguenze immutabili) e si
innalzerà nel Siddhashila, dove troverà altri jiva liberi dalle catene
del materialismo e, insieme a loro, sperimenterà la libertà vera,
fatta di eterno abbandono, isolamento e non coinvolgimento.
A Skanda tutto questo fa venire in mente la canzone
Comfortably Numb, durante la quale Pink, il protagonista di The
Wall, canta I have become comfortably numb.
Comunque, oh, forti i jainisti, e anche fascinosi, con i loro
precetti sulla non violenza, sul non furto, sul non possesso. Un po’
meno, magari, sulla castità, ma trovare una religione (pardon, una
filosofia) che ti calzi a pennello è chiedere troppo.
I templi jainisti, visto che non vi è rappresentata alcuna
divinità, sono interamente ricoperti di statuine e bassorilievi che
raffigurano uomini e donne, e già questo gioca a loro favore; il fatto
poi che siano rappresentati nelle posizioni dello yoga o della
meditazione fa di questi templi delle piccole oasi di pace, immersi
come sono nella penombra e costantemente profumati dall’incenso
che brucia. I bassorilievi stessi, e le volute, le spirali, gli intrecci, le
101
statue, sono tutti in pietra, e hanno di per sé un grosso valore
artistico, perché sono scolpiti con grande maestria nella stessa
pietra con cui sono costruiti i templi, così che il tempio stesso
sembra una grossa, unica creatura addormentata che respira l’aria
esterna ed espira fumi di incenso.
Non vi è nessuna raccomandazione particolare al silenzio e alla
meditazione, ma come entri ti senti pervaso dal contesto, ed è
molto difficile che l’ambiente, anche se affollato, risuoni di grida,
di risate o urletti come, per esempio, una qualsiasi cattedrale
occidentale.
Si muovono lungo un vicolo addobbato con festoni colorati, ma
non ci fanno caso più di tanto, perché ogni sera c’è sempre una
festa, un rito o una celebrazione. L’unico inconveniente è che il
vicolo è bloccato da…una mucca! Enorme, bianca e dallo sguardo
fiero e battagliero. È una di quelle tipiche vacche indiane che ha le
corna grandi e lunghe, leggermente rivolte verso l’esterno, e una
gobba floscia tra le scapole.
Passare o non passare?
Passare, per forza; la strada per salire sulle mura passa da qui.
“Davanti o dietro?” chiede Skanda. Non è che sia molto
tranquillo; la mucca è immobile, ma sembra quasi che stia
aspettando loro.
“Io dico dietro” risponde Tinto.
“Quindi meglio un calcio che un’incornata” considera Skanda.
“Guarda, io l’altra volta, ad Agra, ho visto una mucca ferma per
strada, come questa qua, e due turisti francesi che dovevano
passare. Mentre erano lì che confabulavano, la mucca è partita e ha
preso in pieno la donna. L’ha gettata in terra, poi si è fermata, l’ha
guardata e ha proseguito per la sua strada” dice Tinto “Da allora, se
permetti, sempre dietro”
E, incurante del pericolo, passa.
Skanda resta un attimo a vedere la reazione dell’esemplare
bovino poi, visto che nessun movimento viene da quella massa di
corna e carne, si accinge a passare.
La mucca si volta, dà un’occhiata a Skanda, come per dire: hai
avuto paura, eh? E se ne va per la sua strada.
102
Le mura di Jaisalmer sono uno splendore. Immaginatevi le
mura di Dubrovnik, ma più massicce, e soprattutto intervallate
ogni cinque-dieci metri dai grossi torrioni – così simili, tra l’altro,
alle torri degli scacchi – e un panorama che toglie il fiato. Le mura
di Dubrovnik si affacciano – almeno in parte – sul blu
dell’Adriatico, e sono uno spettacolo meraviglioso; ma le mura di
Jaisalmer guardano, per tutti i trecentosessanta gradi della loro
circonferenza, su un panorama desertico ma incredibilmente vario.
Ad ovest e a nord le dune di sabbia di Sam; a sud un’immensa
pianura costellata di cammelli bradi e cespugli; a est la strada, che
arriva dritta e sembra partire direttamente dall’orizzonte. Se si alza
il collo e si guarda in basso, dal lato di sud est, si riesce a vedere,
proprio sotto le mura, il lago Gadisar, che è secco in alcuni mesi
dell’anno (ma adesso è pieno per più di metà), al cui interno, vicino
alla riva nord, spicca una costruzione, probabilmente religiosa,
eretta in stile indiano, che più indiano non si può, con le snelle
colonne che reggono una cupola ed un puntale. Il tutto costruito
con la roccia dorata che viene estratta dai monti Aravalli, poco più
a sud.
Restano così, incantati a guardare il nulla, per un periodo di
tempo indefinito; poi, spinti dai morsi della fame, decidono che è
ora di mettere qualcosa sotto i denti, e fanno per girarsi e
riprendere il vicolo.
“Fantastico” sentenzia Skanda
“Davvero” risponde Tinto “L’unica cosa che fa davvero
incazzare è la spazzatura ai piedi delle mura, hai visto che roba?”
“Spazzatura? Non ho visto niente…ma dove?”
“Sporgiti un po’ e dai un’occhiata!” gli dice Tinto.
Allora Skanda guarda di sotto e vede che la base delle mura,
soprattutto quando formano l’angolo con l’inizio delle torri, è
interamente ricoperta da rifiuti. Scarti di una società che ha
pochissimo, eppure anche quel poco è incartato due o tre volte in
una confezione che deve essere buttata via. Vagliela a spiegare te,
agli indiani, la raccolta differenziata!
È anche vero che questi indiani non perdono occasione per
osannare le mille creaturine che girano indisturbate (e risparmiate
dalla tavola) per città e deserti, ma è altrettanto vero che hanno
una coscienza ambientale pari a zero. Se c’è da gettare qualcosa, lo
103
si getta in terra senza alcun rimorso; magari subito dopo si compra
un po’ di cibo per gli scoiattoli o gli uccellini…
E infatti, arrampicate sui cumuli di rifiuti come se fossero rocce
delle Dolomiti, ci sono capre che rovistano in cerca di qualcosa da
mangiare. Sono macilente e clamorosamente sporche, ma
sembrano in gran forma, a giudicare dai salti che fanno e dalle
frequenti litigate.
Sono in una piazzetta veramente caratteristica, e decidono di
fermarsi al ristorante Krishna Baba. Il nome è allettante, e così
sperano che il cibo lo sia altrettanto. Salgono dieci rampe di scale e
si accomodano sotto un tendone sul tetto. La vista è strepitosa e
decidono di fare uno strappo alla regola ed ordinare una Kingfisher
ghiacciata.
I ristoranti, in India, hanno la meravigliosa caratteristica di
essere tutti collocati sulle terrazze a tetto dei palazzi. Più alto il
palazzo, più scale da salire ma – ragazzi! – più panorama da
vedere. È un’abitudine che piace molto ai nostri due viaggiatori;
l’unica perplessità che hanno è quanta fatica debbano fare i gestori
per portare su le provviste, visto che non ci sono ascensori in questi
bellissimi palazzi d’epoca. D’altra parte, il numero medio di
lavoranti di un ristorante di grandezza normale varia tra le dieci e
le venti unità, e spesso i camerieri sono più numerosi dei clienti.
Ordinano così due belle Kingfisher da tre quarti, bionde
ghiacciate che non vedono l’ora di avere in mano, e quando
arrivano nessuno dei due resiste, dopo aver dato un primo, lungo
sorso, a staccare l’etichetta, già bagnata dalla condensa che la
differenza di temperatura ha creato sulla parete di vetro della
bottiglia.
“Aaah, che goduria!”
“Ci voleva, una bella birra ghiacciata!”
“Che dici, ordiniamo?” chiede Tinto
“Vai!” gli risponde l’amico.
E così, aspettando una bella porzione di biryani (riso al curry
con verdure e carne) e una di pollo tandoori, assistono ad una
processione che passa strepitando giusto sotto di loro.
“Ehi, ma…questi sono passati stamani alle sei davanti
all’albergo!”
104
“Chi te l’ha detto?” dice Skanda “Perché devono essere proprio
loro?”
“Perché li riconosco, mio caro. Mi sono alzato per vedere cosa
potesse essere tutto quel casino, e li riconoscerei tra mille: sono
loro!”
La processione è composta da un numero imprecisato di
uomini totalmente vestiti di bianco, con pantaloni larghissimi e
tenuti da un elastico alla caviglia, camicioni lunghi fino al
ginocchio e panciotti, alcuni bordeaux, altri verde scuro, altri
ancora neri o grigi. Camminano tutti composti e sembrano quasi
militari che sfilano in parata; ricordano un po’ i soldati greci di
guardia in piazza Sintagma, ad Atene. Subito dietro ci sono altri
uomini che suonano. Chi enormi tamburelli, chi un paio di piatti in
ottone, chi tamburi e grancasse. Questi sono seguiti da un folto
gruppo di donne in sari multicolori che ballano e si muovono
agitando le braccia in movimenti circolari. Ai polsi hanno
campanellini che, trillando, ricordano il suono della risacca
marina. Ultimi, ma non per questo meno caratteristici, bambini
che corrono, saltano, si azzuffano; poi cani randagi presi a calci da
chiunque e infine anziani che caracollano e si reggono l’un l’altro
camminando a fatica e poi, staccati, laggiù in fondo, mendicanti,
amputati, deformi e malati.
Sembra l’arrivo del circo.
Incuriositi, i due amici si fanno domande oziose – perché
destinate a rimanere senza risposta – finché (avevamo già parlato
del sesto senso degli indiani?) si avvicina il cameriere e spiega:
“È una processione di nozze: tutte le mattine all’alba e tutte le
sere al tramonto la gente si muove dalla casa della sposa verso la
casa dello sposo, e ballano e cantano, perché sono felici di dare in
sposa la loro figlia, o sorella, o amica, o nipote. Quando poi
tornano indietro dalla casa dello sposo alla casa della sposa, stanno
in silenzio, perché sono anche tristi che la giovane abbia lasciato
l’amore dei suoi parenti e la casa dei suoi genitori. Due volte al
giorno, ogni giorno per una settimana intera! E poi, alla fine, le
nozze”.
“È l’ambivalenza dell’India” sentenzia Skanda, ma lo fa in
italiano, e il cameriere non capisce, e per la verità anche Tinto non
sembra molto presente.
105
“Perché tutto nell’uomo e bene, ma anche male” prosegue il
giovane cameriere “È come se i colori fossero tutti mescolati, e
questo è bene, perché viene fuori un colore più bello, ma anche
male, perché non ci sono più i colori di prima”
Ladies and gentleman, ogni posto è buono per trovare pensieri
profondi, ed il filosofo-cameriere è lì a dimostrarlo!
L’India, ma soprattutto il meraviglioso popolo che la abita,
regala ogni giorno, ogni ora, ogni minuto una sorpresa dietro
l’altra, e, per adesso, solo sorprese bellissime!
Bauchklang: Rhythm of time, 2006, Klein Records
106
Booksharing
La mattina è fredda e tersa. Skanda si alza, gira intorno al letto
centrale e si avvicina a quello di Tinto; lo oltrepassa e va verso la
finestrona e il bovindo. Ha dormito male, stanotte. Ha fatto una
miriade di sogni, anche se non ne ricorda neanche uno. A casa non
gli succede mai. La spiegazione più ovvia sarebbe quella di pensare
ad un rapporto inversamente proporzionale tra la qualità del sonno
e l’inclinazione all’onirismo, ma lui preferisce pensare che lo
spirito del luogo lo visiti in segreto durante la notte e, infiltrandosi
nel profondo della sua psiche, plasmi la sostanza delle sue visioni
notturne.
Forse sta prendendo l’India ed il suo spiritualismo un po’
troppo sul serio, se appena alzato ha di questi pensieri.
Rabbrividisce e guarda in strada. Anche stamani la processione
è passata, ma Tinto ha continuato a dormire con respiri profondi –
e invero piuttosto rumorosi – e ad espirare da un lato della bocca
come se emettesse uno sbuffo di impazienza. Arriva un tuk tuk,
tutto nero con le strisce gialle, e come si ferma gli si fanno intorno
cinque o sei donne in sari con dei bambini per mano. Ogni
bambino indossa una cartella. Non uno zaino, ma proprio una
cartella, come quella che, gli sembra di ricordare, ha avuto anche
lui un milione di anni fa, forse in prima elementare.
Il tuk tuk è uno scuolabus!
I bambini salgono e si sistemano nella corta panca posteriore,
qualcuno si stropiccia gli occhi ancora gonfi di sonno. Le mamme
si piegano sui ragazzini sussurrando qualche ultima
raccomandazione, qualcosa tipo fai il bravo, oppure mangia tutta
la merenda, o ancora appena finisce la scuola torna di corsa a
casa!
È un deja-vu bellissimo. Ogni strada del mondo che veda uno
scuolabus, delle mamme e dei bambini è uguale. I protagonisti
possono avere il colore della pelle diverso, possono essere vestiti in
modo buffo, possono anche salire su uno scuolabus che non è uno
scuolabus, ma un’Ape Piaggio, ma state tranquilli che la scena a cui
assisterete è esattamente la stessa. Le dinamiche sono le solite, e
107
gli sguardi delle mamme non cambiano con il cambiare delle
latitudini.
Skanda ha una botta di nostalgia talmente forte che gli sembra
di avere la febbre, perché la gola gli fa male e gli viene da tirare su
col naso. Poi si vergogna, anche se nessuno lo può vedere, e si
ricompone, assumendo una posa da macho nella luce fredda della
stanza.
Proprio di fronte c’è la parete laterale dell’hotel Swastika,
consigliatissimo dalla Lonely Planet e dalla Rough Guide, e si dice,
per l’ennesima volta, che il prossimo anno i partecipanti al Moto
Challenge li farà alloggiare lì, anche se non l’ha neanche visto. C’è
da dire, però, che fino ad ora si è sempre fidato della guida di Tony
Wheeler, e non ne è mai stato deluso.
La città si sta svegliando; la stretta via si popola di persone,
rumori di motori a scoppio e artigiani al lavoro. Ogni tanto si sente
abbaiare un cane o muggire.
Poi vede un uomo che esce dal portone di una casa poco più giù
con un secchio metallico in mano. Costui si guarda intorno,
individua il suo obiettivo e si avvicina a una mucca marrone, con
due corna enormi e magra come un contorsionista. Raggiunta la
mucca le dà una pacca sul fianco e si china dietro di lei. Poi inizia a
mungerla. Dopo che ha riempito il secchio per un quarto se ne va e
lascia la mucca ai suoi affari – nello specifico la lascia a masticare
un qualcosa che ha trovato in un angolo, proprio di fronte alla
ruota anteriore della moto di Tinto. Non passano neanche cinque
minuti che una donna vestita di un paio di pantaloni neri stretti al
polpaccio e una sciarpa indossata al contrario (con i lembi liberi
che le dondolano sulla schiena) si avvicina alla stessa mucca e
riempie un secchiello – meglio, un grosso bicchiere – di metallo.
Skanda si chiede se quindi le mucche, oltre ad essere sacre,
siano anche fornitrici di latte per tutti i fedeli. Si chiede anche che
sapore possa avere il latte di una bestia che si ciba più che altro di
immondizia, ma preferisce non approfondire questo argomento. Sa
solo che stamani a colazione prenderà un the nero, e rinuncerà al
solito chai. Adesso di bere latte non ne ha proprio voglia.
Tinto sembra in preda ai postumi di un’overdose di
benzodiazepine, e allora Skanda decide di salire sulla terrazza a
tetto e bersi qualcosa.
108
In cima una brezza che sembra vento di tramontana gli fa
stringere le braccia al corpo e quindi cerca un tavolo riparato dal
vento. Il terrazzone è quasi interamente occupato da fili che vanno
da una parte all’altra con chilometri di panni stesi: evidentemente
ieri era giorno di bucato, perché riconosce le lenzuola e gli
asciugamani che anche lui ha in camera.
Su uno scaffale, sepolti dai fili di un router, da un buon
centimetro di polvere e da una collezione di bicchieri in metallo
sporchi, vede, impilati l’uno sull’altro, diversi libri, e un cartello
che dice: Leggine quanti ne vuoi, ma se vuoi prenderne uno devi
lasciarne un altro.
Forte! Un book sharing. Dà un’occhiata e si accorge che ci sono
libri un po’ in tutte le lingue, e riconosce L’avversario di Emanuel
Carrere in francese e 1984 in una bella edizione rilegata, in
tedesco. Trova poi una Lonely Planet tutta scassata, tre volumi di
Harry Potter, un fumetto dei Peanuts e un libriccino in inglese che
ha per titolo:
Una fiaba ogni luna; dodici racconti della mitologia indiana.
Non ci pensa due volte: scende giù nella stanza, spalanca la
porta e entra come un tornado, poi si ricorda che Tinto dorme
ancora e rallenta i movimenti, ma quello continua a sbuffare come
se espirasse il fumo di un sigaro.
Rovista nello zaino e tira fuori il libro che avrebbe riletto per la
terza volta, ma che adesso continuerà la sua esistenza come book
shared in un albergo senza nome di Jaisalmer.
Il libro è un’edizione O/E di uno dei suoi autori preferiti, e
proprio per questo è felice che possa essere letto chissà dove,
chissà da chi. È Marinai Perduti, di Jean Claude Izzo. Lo sistema
sulla mensola insieme agli altri libri e, constatato che è l’unico in
italiano, gli dice addio con un senso non di perdita, ma di fatalità.
Stai a vedere che Skanda è diventato Shanti!
Sfoglia il libriccino in inglese e se innamora fin dalle prime
righe, e promette a se stesso che, se durante questo viaggio dovesse
trovare un altro posto dove c’è il book sharing, lo lascerà lì. Forte di
questa decisione, con il cuore leggero, saluta Ali che sta facendo il
suo ingresso con la solita djellaba e ordina un the nero e un toast
con burro e marmellata.
109
La giornata, che doveva essere all’insegna della visita alle dune
di sabbia di Sam, poi dell’escursione al lago, e, ancora, alla visita
dei templi, scorre invece pigramente tra i cuscini della terrazza sul
tetto. Tinto accetta di buon grado l’indolenza dell’amico, e si
adegua pisolando tutto il pomeriggio e buona parte della mattina;
poi alle undici andrà a letto e dormirà di filato fino alle sette del
giorno dopo. Ma come fa? Si chiede Skanda, mentre per l’ennesima
volta tenta di connettersi ad internet – oggi la wifi fa un po’ i
capricci – per trovare la traduzione di una parola che non conosce
e non capisce dal contesto.
La parola è dire, e lui non l’ha mai sentita. Ma senza capire
questa parola non va avanti, ed è costretto a lasciare la favola del
Mago Imbroglione.
Poi si dà una pacca sulla fronte, e gli vengono in mente i Dire
Straits, cioè i Terribilmente Stretti, e trova la traduzione senza
bisogno di Google: terribile, ecco che vuol dire!
La cultura canzonettistica colpisce ancora!
“Oh” scuote Tinto per una spalla “A forza di vegetare è arrivata
l’ora di cena!”
“Madonna” risponde lui “Ma qui non si fa altro che
mangiare…”
Poi, faticosamente e lentamente, un po’ come Ficarra e Picone,
si tirano su dai cuscini, si stiracchiano e escono in cerca di cibo.
Eccoli là: due orsi svegliati dal letargo; assonnati e affamati
come grizzly.
Notwist: Pilot, 2002, Virgin Records
110
Strada
“Maremma, ma non è possibile, siamo nel deserto, dovrebbe
far caldo…ma che freddo è?”
“Proprio perché siamo nel deserto la mattina fa freddo” dice
Tinto il tuttologo, poi si sistema l’auricolare del Sygic nell’orecchio
e mette in moto.
Skanda gli fa il verso mentre si infila il casco, poi preme il
pulsante d’accensione.
La moto è morta.
“Ok, l’avviamento elettrico non funziona. Niente panico” pensa,
e già si sistema in equilibrio sul piede destro per mettere in moto
"a gamba”.
Incrocia figuratamente le dita e dà una bella botta alla
pedivella.
Il rombo del monocilindrico riempie il vicolo.
Controlla i fari e le frecce, casomai fosse un problema elettrico,
ma funziona tutto; anche il clacson spara come le trombe di
Jericho.
Prima, frizione, gas e via!
Devono ripercorrere una cinquantina di chilometri in senso
inverso, perché la strada che arriva a Jaisalmer è una sola, e dopo
la città, ad ovest, c’è solo il deserto, ed il confine con il Pakistan,
che però è interdetto.
Sulla strada solo convogli di camion militari e qualche raro,
sparuto carretto trainato da cammelli. L’asfalto è liscio e la velocità
media alta.
Poi arrivano all’incrocio da dove sono passati due giorni prima.
Venivano da nord ovest, e adesso prendono la strada che va verso
sud ovest.
Le indicazioni dicono Jodhpur – Udaipur – Ahmedabad.
Ok, la strada è giusta. A conferma Tinto, che è davanti, alza il
pollice e si butta senza esitare a sinistra, verso il sud e lo stato del
Gujarat.
111
Ad ogni incrocio, in India, fiorisce tutto un indotto legato alla
strada, e soprattutto ai camion che la percorrono in lungo e in
largo.
Accanto alle officine meccaniche si trovano gommisti,
vulcanizzatori ed elettrauto. Poi, addossati gli uni agli altri,
baracchini dove si vendono dolciumi e caramelle, bibite e patatine.
E ancora decoratori, verniciatori e venditori di sigarette.
Ma ciò che più colpisce sono i banchini dove si vendono oggetti
che i camionisti sono soliti attaccare alla parte posteriore dei
camion. Questi sono, in genere, lunghe ghirlande colorate,
copriruota con le immagini di Ganesh o Krishna, e soprattutto
coprimozzi che, opportunamente disegnati e colorati, rivestono il
ruolo di accessorio estetico che viene appeso al paraurti posteriore
e lasciato là a dondolare.
I camion, infatti, dai più grandi ai più piccoli, sono un tripudio
di colori e disegni. I motivi predominanti sono, ovviamente,
religiosi, ma se la giocano alla pari con scritte e massime che
spaziano dal fantasioso Horn Please a Drive slow at night, fino al
fantastico Turn the lights on when it’s dark.
Se sei dietro ad un camion, ricorda che per girare questo non
mette mai la freccia, ma fa come quando si va in bicicletta.
Se deve girare a destra, il guidatore sporge il braccio dal
finestrino per segnalare la svolta; se deve girare a sinistra è il suo
navigatore che sporge il braccio.
Se il camionista è solo, semplicemente le svolte a sinistra non
sono segnalate.
I camion, sulle strade dell’India, si dividono in tre categorie:
normali, grandi e Oh Mio Dio!
Gli Oh Mio Dio! sono brontosauri enormi, che quando li
sorpassi sembra non finiscano mai. Hanno una lunghezza pari a un
container e mezzo, quindi circa sei metri più lunghi dei camion che
vediamo circolare sulle nostre strade. Gli unici che possano far loro
concorrenza sono quei bestioni a tre rimorchi che ogni tanto si
vedono sulle strade del sud ovest degli Usa o nell’outback
australiano, ma, mentre quelli anglofoni incutono rispetto per la
loro mole e le cromature e fanno sognare i bambini, che vogliono
diventare tutti camionisti, quelli di lingua hindi incutono terrore
112
perché sembra sempre che stiano per uscire fuori strada, oppure
sembrano vagare per queste diritte infinite come se alla guida ci
fosse una delle simpatiche scimmiette che stazionano ai bordi della
carreggiata.
I camionisti non sono ubriachi, almeno la maggior parte; sono
semplicemente distratti, oppure occupati a mangiare, o ad
accendere un bastoncino d’incenso, o a chiacchierare con il loro
secondo. Oppure, semplicemente, combattono la noia dei lunghi
chilometri andando in qua e in là.
La strada, da Pokhran in poi, si fa più frequentata, e ai lati,
accanto al deserto, si vedono campi coltivati a frumento e legumi.
Come riescano a portare l’acqua in tanta desolazione rimane un
mistero, ma tutto quel verde è lì a ricordare che si può rendere
fertile anche la sabbia.
La temperatura si sta alzando, e urge una pausa per iniziare il
rituale della svestizione. Questo rituale consiste nel togliere, via via
che la giornata avanza, uno strato di indumenti per volta, fino a
rimanere con la sola maglietta. È un rituale che Skanda esegue
sempre rigorosamente in solitaria, perché Tinto non si separerebbe
mai dal suo giubbotto tecnico e dai suoi guanti ultra protettivi con
airbag laterale e indosso superveloce.
Skanda se ne frega, e in genere verso le quattro del pomeriggio
è in maglietta.
La sera ha le braccia rosse e gli zigomi fosforescenti, perché
tiene il casco sempre aperto, ma ha notato che, dopo che gli
avambracci si sono spellati, adesso hanno la tendenza ad
abbronzarsi.
Si guarda le scarpe, e decide che è arrivato il momento di fare
qualcosa per la scarpa sinistra, perché i lacci, in prossimità della
punta, proprio dove c’è l’attrito sulla leva del cambio, si stanno
rompendo, e questo è l’unico paio di scarpe che ha. La scarpa è
anche sporca in un modo…indiano. Perché si sa, le guarnizioni
della Enfield non sono quelle del Bmw, e ogni tanto trafilano olio,
che va a finire proprio su quella scarpa, già maltrattata in
precedenza.
Quindi, durante una della pause per la svestizione, tira fuori la
scatola delle medicine e, con due garze grandi e un bel po’ di
113
cerotto, fa una bella medicazione alla leva del cambio. Adesso è lì,
tutta bianca che sembra ingessata. È diventata anche bella
cicciotta, ma il piede entra sotto senza alcuno sforzo e, diciamo la
verità, è stato proprio un bel lavoro. Forse c’è da fare un po’ più di
fatica, soprattutto per ingranare la prima e cercare la folle, ma ne
vale la pena, perché adesso è morbida e non rovinerà più le belle
scarpe del nostro eroe.
La strada verso Jodhpur, che è la loro prossima meta, è in
buone condizioni fino a una settantina di chilometri dalla città; poi
diventa un po’ dissestata, ma è solo negli ultimi venti chilometri
che dà il meglio di sé, con continui cambi di corsia, lastroni di
cemento accostati gli uni agli altri con una trincea in mezzo, e
soprattutto un pezzo di strada dove…non c’è più la strada!
Nel giallo del deserto adesso il panorama non è più piatto, ma
si alzano dal nulla basse collinette che non permettono di vedere
oltre la loro sommità; per di più la strada è scomparsa, lasciando il
posto ad una pista sabbiosa in cui le moto faticano ad avanzare, e i
nostri eroi faticano a tenerle dritte, perché la ruota posteriore
tende ad affondare e, dando gas, slitta, e il gioco di gambe per
mantenere l’assetto sta iniziando a essere un po’ stancante.
Giusto nel mezzo di una parolaccia particolarmente fantasiosa,
Skanda alza la testa e, nella luce accecante del primo pomeriggio,
mentre tutto intorno assume un colore giallo chiaro, dalla sommità
della collina vede scendere una decina di donne, tutte vestite con
sari viola e rossi, tutte scurissime di pelle e tutte alte uguali.
Sembra quasi una visone, e Tinto, che per queste cose ha occhio,
ferma immediatamente la moto, prende la macchina fotografica e
scatta quella che probabilmente è la foto più bella che abbia mai
fatto.
Uno spaccato dell’India in un’immagine.
Il nulla, che improvvisamente diventa il tutto. Dall’assenza alla
saturazione.
In un attimo.
Le donne passano, guardano senza timidezza - ma senza
sfacciataggine - i due motociclisti negli occhi. Nessun suono esce
dalle loro bocche, e neanche sorridono, però i due avvertono
chiaramente un'onda di simpatia che dal gruppo arriva diretto
114
verso di loro, e allora, timidi e impacciati, fanno ciao ciao con la
mano e seguono con lo sguardo il gruppo di donne fino alla
sommità della collinetta seguente.
Poi di nuovo il nulla, la sabbia e le moto.
Gary Jules: Mad world, 2003, A&M
115
Jodhpur
“Babbo, a cosa cerve studiare? Fare le versioni di latino, le
equazioni e i riassunti di inglese?”
“Ti serve, ti serve” risponde Skanda.
“Si, ma a cosa?”
“Te ne accorgerai quando sarai grande”
“Ma se io non volessi studiare?”
“Guarda, tu sei libera di decidere se vuoi studiare o no, ma
sappi che se studi sarai ricompensata” prosegue il genitore “Avrai
una ricompensa nel futuro, perché sarà allora che lo studio ti
servirà, e una ricompensa nel presente, perché se studi e sei brava,
cioè se fai bene il tuo lavoro, è giusto che tu abbia qualcosa in
cambio. E lo vedi da te: l’iPad, il motorino, le uscite serali, il
cinema, i vestiti…”
“Ok, quindi devo studiare perché, anche se penso che non mi
serva, potrei sbagliarmi, e soprattutto perché se studio posso fare
le cose che mi piacciono e avere le cose che desidero”
“Brava!” riprende Skanda “Il punto è proprio questo, e per
spiegartelo bene voglio raccontarti una storia tratta dal mio bel
libriccino indiano.
C’era una volta un principe, che amava avventurarsi senza
scorta per i sentieri che salivano sulle colline e sulle montagne. Fu
durante una di queste gite che, in un pascolo, vide una bellissima
ragazza. Era così bella, e aveva un aspetto così giovane e fresco che
se innamorò subito. Non perse neanche un minuto e le chiese di
sposarlo, ma lei, sdegnosa, rispose:
“Sposerò solo un uomo che sappia fare qualcosa e si guadagni
da vivere con un mestiere onesto, i principi non lavorano e non
sanno fare niente”.
Allora il principe, per meritarsi la mano della ragazza, e benchè
non ne avesse nessuna voglia, imparò a tessere tappeti. Ne fece uno
così bello, con colori e disegni talmente vividi e vivaci che la
ragazza accettò di diventare sua moglie.
116
Qualche tempo dopo il principe ricominciò il suo girovagare
per montagne e deserti. Fu così che incappò nei briganti. Essi non
lo riconobbero, lo rapirono e chiesero un riscatto.
Il principe non aveva denaro con sé, ma non rivelò la sua
identità; sicuramente, se l’avesse fatto l’avrebbero ucciso, oppure
non gli avrebbero creduto.
Pensò che fosse più prudente fare ai banditi una proposta:
“Sono il più abile degli artigiani, e vi tesserò un tappeto così bello
che potrete andare a venderlo alla moglie del principe; ve lo
pagherà bene”
I banditi accettarono, e il principe in cinque giorni tessé un
tappeto bellissimo. Soddisfatti, i briganti si recarono alla reggia e
offrirono il tappeto alla principessa.
La donna, in ansia perché da vari giorni non aveva notizie del
principe e lo pensava ferito o vittima di un agguato, guardò il
tappeto e tra i ricami, gli arabeschi e le volute lesse il nome del
marito scomparso.
Non disse nulla, comperò il prodotto della tessitura per una
cifra altissima e poi, da lontano, con un’armata di soldati, seguì i
briganti.
Raggiunsero il luogo dove il principe era tenuto prigioniero e lì
lo trovarono.
Lo liberarono e arrestarono tutti i banditi.
Il principe, felice, abbracciò la sua sposa: proprio quello che
aveva fatto solo per amor suo adesso gli aveva salvato la vita.
Skanda chiude il libriccino e pensa:
“Almeno avessi letto questa fiaba qualche mese fa”
Se lo avesse fatto il dialogo che aveva avuto con la figlia
maggiore sarebbe potuto finire così. Invece quando lei gli aveva
chiesto: “Babbo, ma a che serve studiare?” Lui era stato in grado
solo di dirle che le sarebbe servito a trovare un lavoro che non la
facesse morire di fame.
“Bella fantasia” pensa ancora “Almeno questi indiani rendono
un po’ poetico il tutto. A noi rimangono solo gli argomenti più
materiali”
117
L’hotel dove si sono sistemati è una splendida haveli proprio
nel centro di Jodhpur, la scelta top della loro guida di fiducia, e
anche stavolta non sono rimasti delusi. Si tratta del Durag Niwas
Guest House, e hanno trovato posto per caso, perché all’ultimo
momento una prenotazione è saltata. È frequentata da un esercito
di giovani backpackers che adesso sono tutti nel grande patio al
piano terra.
Skanda, invece, è sulla terrazza a tetto, e occupa uno dei tavoli
del ristorante. Tinto è in camera che usufruisce del bagno stile
occidentale, che è la seconda bella sorpresa che la camera ha
riservato loro. La prima sorpresa è la camera stessa: al quarto
piano, vi si accede tramite otto rampe di scale strettissime che
partono dal “chiostro” dell’haveli e salgono fino al terzo livello. Qui
c’è il primo tetto della casa. Ma le scale proseguono, perché il lato
sud est è occupato da una torre, che sale per altri tre piani, per un
totale di sei, e ospita un ristorante proprio in cima, con la relativa
cucina a un ammezzato, e una serie di tavolini in ferro battuto con
rispettive sedie.
Tutto è molto curato, e dall’ammezzato sale un profumino
davvero invitante. Ad un tavolo vicino al suo c’è un gruppo di
francesi (ma questi sono da tutte le parti!), hanno già ordinato la
cena, e se ne stanno tranquilli a chiacchierare.
Lo spettacolo che si gode da lassù è fantastico: Jodhpur è
chiamata la città blu, e blu lo è davvero: tutto intorno i tetti delle
case, le loro mura, e talvolta anche i portoni sono dipinti di blu. Il
sole che cala all’orizzonte rende il panorama davvero unico, con dei
colori che solo un impressionista saprebbe dipingere. Sui muretti,
sulle cisterne dell’acqua, sui panni stesi ad asciugare, su tutte le
terrazze a tetto è sguinzagliato un esercito di scoiattoli. Sono
evidentemente scoiattoli di città, che nell’ambiente urbano hanno
trovato il loro habitat. Per nulla paurosi, per nulla timidi, si
muovono a scatti arrampicandosi su muri che sembrano non
offrire il minimo appiglio.
Si avvicinano al tavolo di Skanda, restano un paio di secondi in
osservazione e poi schizzano via come se avessero visto il demonio.
Il telefono suona, e non è l’iPhone, è il telefono dell’India,
quindi vuol dire che qualcuno della famiglia lo sta cercando. Si
118
alza, prende dalla tasca dei jeans il Nokia e guarda l’identità del
chiamante. È la sua mamma!
Risponde, e improvvisamente torna indietro nel tempo,
quando era alla colonia estiva e al tramonto, subito prima o subito
dopo cena, c’era il rituale della telefonata alle famiglie. Si sente
esattamente come allora, contento di sentire la voce della mamma,
elettrizzato perché vuole raccontare tutto in mezzo minuto (c’erano
i gettoni, ai tempi!) e con il naso chiuso. È incline alla commozione,
Skanda “Ma ho quarant’anni, diobòn!” pensa, e si ricompone. Ma è
inutile, è un perfetto esemplare di maschio italiano, e la mamma è
sempre la mamma. Adesso immagina di essere crucco, e le cose
vanno meglio; riesce a raccontare un po’ di aneddoti e anche a fare
due risate, poi chiede del babbo, della sorella, degli altri parenti, in
perfetto Italian Style.
Riattacca e si sente bene. Stai a vedere che le telefonate con le
persone a cui vuoi bene lì per lì sono sconvolgenti, ma poi hanno il
loro perché.
Ma ecco, una silhouette conosciuta si arrampica per le ripide
scale. Ha un ciuffo biondo e gli occhiali. La mascella volitiva come
Ridge di Beautiful e il fisico di Nick Nolte da giovane. Scappate
donne, perché sta arrivando…Tinto!
“Ho fame” dice, e si mette a sedere.
“Ci credo che hai fame, anch’io sto morendo…”
Hanno saltato il pranzo, si sono mangiati due banane a testa
(sono le bananine piccole dei tropici) e un po’ di mandarini. Poi,
una volta raggiunta la città e usciti per andare a vedere il forte di
Mehrangarh, si sono fermati in un garage (si, un garage!) dove in
una padella enorme un uomo friggeva, con un olio talmente nero
che sembrava olio da motori, degli aggeggi dall’aria
appetitosissima e dall'aspetto di coccoli giganti. In men che non si
dica i due sono in possesso di tre coccoloni per uno, incartati in un
foglio di giornale dove ci sono le facce dei due Marò prigionieri. I
coccoloni trasudano olio, e hanno un profumo e un aspetto
squisito. Tinto, sfidando i gradi fahrenheit, ne addenta uno, e la
faccia gli diventa immediatamente rossa, poi bianca, poi ancora
rossa.
“C’è un peperone, qui dentro” ansima.
119
È il peperone più piccante che esiste sulla faccia della terra. Al
confronto, il Chile Habanero messicano è scipito come una patata
lessa. Non ne conosceranno mai il nome, ma impareranno a
temerlo.
Spinti dalla fame riescono a mangiarne uno e un pezzetto per
uno, poi devono desistere perché hanno la bocca in fiamme, e
anche le labbra; gli occhi lacrimano, e sembra di sentire bruciare
anche i polpastrelli. Si fermano a comprare un ettolitro d’acqua e
bevono come se da domani i liquidi sparissero dalla faccia della
terra.
Devastati dal caldo e dal peperone assassino, fermano un tuk
tuk e si fanno portare fino all’ingresso del forte: non ce la fanno a
farsela a piedi. Iniziano così la visita all'attrazione principale di
Jodhpur.
Il forte in sé non è questo granché: è l’ennesima dimostrazione
dell’opulenza e del potere che qualche maharajah con la sindrome
della macchina lunga si è fatto erigere a cavallo fra il diciottesimo e
il diciannovesimo secolo. Duemila stanze, una più sfarzosa
dell’altra, e poi lettighe, carrozze, finimenti per i cavalli, arazzi,
specchi, finestre colorate e colonne, cupole, puntali.
Però il panorama che si gode da lassù vale la visita. In basso
sembra un oceano: è tutto blu.
Anche dal basso il panorama è bellissimo, perché il forte,
costruito con la stessa roccia della collina su cui sorge, sembra
prendere vita e forma dalla terra stessa. Si alza potente e fiero
come se fosse la cima della collina che in qualche modo si è
plasmata in foggia di torri, merli, garitte, feritoie, contrafforti e
mura. Il forte è costruito su un'altura esattamente al centro della
città, e in lontananza sembra di scorgere…il Taj Mahal? Ma non era
ad Agra?
Infatti non è il Taj Mahal, ma il palazzo del maharajah, quello
vero, il maharajah che ancora oggi ricopre una carica importante
nella politica cittadina. Al nonno dell’attuale signorotto sembrava
che il Taj Mahal fosse una dimostrazione di opulenza e potere
notevole (travisando del tutto lo scopo per cui il mausoleo era stato
costruito) e volle un Taj Mahal tutto per sé.
120
Ecco perché a sud di Jodhpur, appena oltre il confine cittadino,
si intravede un finto Taj Mahal (è anche più piccolo) che è lì a
ricordarci che al peggio non c’è mai fine.
Kings Of Leon: Use somebody, 2008, Rca
121
Rock'n'Roll
Il termine downshifting, tradotto alla lettera, significa scalare
la marcia, ma non è riferito al mondo dei motori; non è neanche,
secondo chi scrive, azzeccata la traduzione letterale.
Il downshifting è la rinuncia a determinati beni materiali – in
genere a una parte di denaro – a favore del tempo.
È un fenomeno sociale che è nato già una decina di anni fa
negli Stati Uniti e in Canada, e che adesso sta prendendo piede
anche in Europa.
Va da sé che per rinunciare ad una parte del denaro che si
guadagna lavorando – o anche a una parte di roba, cioè di beni –
bisogna avere una quantità di denaro (o di beni) consistente, che
consenta una vita decente anche a fronte della decurtazione di cui
sopra.
Il downshifting è oggetto di studi più o meno indirizzati, ma è
innegabile che prelude ad una costrizione che chiunque viva in
occidente, prima o poi, dovrà fronteggiare: è impossibile che il
mondo cosiddetto civilizzato, o primo mondo, continui nel
consumo di risorse a danno di tutto il resto del pianeta.
Se per adesso il downshifting è praticato da un ristretto
numero di persone - generalmente professionisti cui il lavorare
ossessivo ha distrutto la vita privata - nel futuro questa pratica
sarà, per forza di cose, seguita da un numero di persone sempre
maggiore.
Il vivere semplice, o simple life, è teorizzato da anni, e piace a
molti; ovviamente una cosa è teorizzare e apprezzare sulla carta;
un’altra è mettere in pratica una serie di interventi che, nella
realtà, privano qualcuno di qualcosa.
Il viaggiatore, e ancora di più il motociclista, durante i viaggi
pratica una sorta di downshifting; se questo è un allenamento per i
tempi che verranno o una condizione passeggera salutata con
sollievo al rientro alla base, dipende dal singolo motociclista. Fatto
sta che viaggiare in moto costringe a un bagaglio risicato e a
scegliere con cura le cose che ci si devono portare dietro.
122
Il possedere poche cose implica anche il doversi prendere cura
di poche cose; è per questo che mentre il vento soffia in faccia,
mentre il sole sorge, mentre la linea di mezzeria corre veloce a
fianco della moto, il centauro prova un inebriante senso di libertà e
di completezza, anche se in pratica non possiede nulla, tranne
quelle poche cose stipate nel piccolo zaino legato dietro di lui.
Questo pensa Skanda mentre, ancora una volta, in un’altra
luminosissima e fredda mattina, corre, con un sorriso ebete, lungo
le strade dell’India del nord.
Jodhpur è lontana dietro di loro, e già si avvicina Ranakpur.
La strada, che fino ad ora è stata ballo liscio, adesso diventa
rock’n’roll: colline e rilievi, curve e controcurve, e soprattutto
strade praticamente deserte e moto incredibilmente
contestualizzate a questa terra. Nessun altro mezzo sarebbe
immaginabile sulle strade di questa nazione.
La Royal Enfield sta alle strade dell’India come l’Harley
Davidson alle strade dell’Arizona. Un’altra moto, e soprattutto un
altro mezzo di trasporto, sarebbe improponibile. E inconcepibile.
Ranakpur è un enorme complesso di templi jainisti situato a
circa 160 chilometri da Jodhpur e a un centinaio da Udaipur, la
loro meta odierna.
È stato costruito nel bel mezzo del nulla, ed è incredibilmente
bello, grande e….bianco! Il tempio principale è chiamato
Chaumukha Temple, ed è interamente costruito in marmo chiaro.
È suddiviso in tre livelli e vi si accede da una scalinata maestosa.
Come tutti i templi jainisti, è ricco di torri, torrette, cupole, volute,
colonne, sculture e bassorilievi.
Arrivano rombando, provenienti dalla strada che taglia la
catena dei monti Aravalli, che anche se non altissimi, hanno
spezzato piacevolmente la noia della strada che corre dritta nel
deserto; oltrepassano il grande cancello e si dirigono sul selciato
che porta verso l’ingresso ed il parcheggio.
È quasi tutto deserto, e scopriranno poi che si può entrare nel
tempio solo entro mezzogiorno. Hanno sforato di poco, ma in
questo gli Indiani dimostrano un’inflessibilità anglosassone,
eredità del passato di colonia inglese. Peccato che la stessa
123
inflessibilità non venga applicata anche per quanto riguarda
l’orario di apertura, che è sempre opinabile e generalmente
tendente al ritardo piuttosto che all’anticipo. Niente da fare, non si
può entrare.
Si accontenteranno di vedere il tempio da fuori, che è
comunque già abbastanza, data la maestosità e l’ampiezza.
Parcheggiano le moto fianco a fianco nello spazio che,
probabilmente in ore e tempi migliori, ospita auto e pullman. Si
spogliano di ogni orpello che non sia T-shirt e jeans e si guardano
intorno per capire se e come lasciare le moto e l’intero carico
incustodito.
A due metri, accoccolato sui talloni, in equilibrio su un
muretto, c’è un esemplare umano talmente tipico che non possono
esimersi dal fotografare. Sui sessant’anni, turbante arancione con
una specie di diadema che tiene chiusi i lembi; due grandissimi
occhi scuri e un paio di baffi bianchi tipo Stalin. Indossa un
semplice drappo arancione che a malapena gli copre le spalle, e ai
piedi – fantastico! – ha due babbucce come quelle di Alì Babà.
L’anziano signore fa loro un cenno che vuol dire che possono
fotografarlo, e i due non se lo fanno ripetere. Quando però si
voltano per dirigersi verso il tempio, il vecchierello, dimostrando
un’agilità insospettata, balza verso i nostri due amici e finché non
ha ottenuto cento rupie non smette di tampinarli.
Poco più in là due donne, chine, che spazzano l’ampio (e vuoto)
parcheggio con le ormai consuete piccole scope di frasche che, più
che pulire, servono essenzialmente a muovere lo sporco da A a B.
La situazione sembra tranquilla, ma ancora sono titubanti a
lasciare lì ogni loro bene, e di smontare il bagaglio e portarselo
dietro non se ne parla neanche.
Ma ecco il vegliardo che, con plateali gesti delle mani, fa cenno
ai nostri due eroi di andare e di non preoccuparsi, che alle moto ci
pensa lui, e così dicendo, per dimostrare la sua buona fede, si
accoccola nella posizione tipica degli indiani, proprio davanti alla
ruota posteriore della moto di Tinto.
Per quale strano artificio i due travellers si fidino dello pseudo
santone non lo sapremo mai, fatto sta che al ritorno dalla loro
breve visita troveranno l’anziano nella stessa posizione, e le moto
anche.
124
Anzi, a dire il vero, il tutto sembra più una foto che uno
spaccato di vita reale, perché ogni cosa, e ogni essere umano, e
anche un cucciolo di cane scheletrico, tutto sembra immobile e
quasi congelato da uno scatto fissato su pellicola.
A Skanda viene in mente una frase – bellissima – di Sylvain
Tesson, che nel momento non si ricorda perfettamente, ma noi,
visto che abbiamo la possibilità di ripescarla dal ricordo del nostro
eroe, vogliamo riproporre integralmente:
A metà strada tra il desiderio e il rimpianto, c’è un punto
chiamato presente; bisognerebbe allenarsi a stare proprio lì, in
equilibrio, come i giocolieri che lanciano in aria le biglie stando
ritti sul collo di una bottiglia. Solo gli animali ci riescono.
Karate: Water, 2004, Southern Records
125
Siamo italiani
“Attenzione: si informano gli intrepidi viaggiatori che da
questo momento il sottoscritto Sygic, per l’occasione con la voce
del signor Mauro, entrerà ufficialmente in sciopero, e si rifiuterà
di condurre chiunque a qualsivoglia indirizzo. La protesta andrà
avanti finché le vie e i vicoli senza nome di questa folle città
saranno riconoscibili ed opportunamente mappati. Buonasera”
Questo, in soldoni, il comunicato stampa del navigatore
satellitare, che si rifiuta di trovare l’hotel – che pure ha in memoria
– perché sembra che nessuna via di questa città abbia un nome.
Ripartiti da Ranakpur, continuano su una bellissima strada alla
volta di Udaipur, la più meridionale delle città del Rajasthan. A
dire il vero sono stati indecisi fino all’ultimo se includere Udaipur
nel loro itinerario, perché questo comporta una deviazione a sud di
circa duecentocinquanta chilometri, e su queste strade non sono
bazzecole; senza contare che poi i chilometri saranno in tutto circa
cinquecento, perché da Udaipur c’è anche da risalire a nord verso
Pushkar, che è una tappa che non intendono assolutamente
perdersi.
La strada sale e scende per basse colline, che in queste lande
pianeggianti prendono il nome di monti, anche se non lo sono. A
circa venti chilometri dalla città i rilevi sono più alti, e questo, al
netto degli enormi camion che in salita non superano i venti
chilometri all’ora e in discesa tagliano ogni curva infischiandosene
della mezzeria e della fila che hanno alle calcagna, rende il viaggio
piacevole e panoramico.
I monti sono brulli e senza alcun tipo di vegetazione; in
lontananza, dalla pianura, sale una nebbia leggera che rende il
tutto un po’ onirico; la strada è in condizioni ottime, e i nostri
amici piegano come se fossero al Mugello. Sentono le moto che
rombano e i motori che urlano ogni volta che premono il piede
sulla leva del cambio e scalano marcia. Giocano a rincorrersi come
cuccioli di felini, e si sorpassano da destra e da sinistra in un
inseguimento senza fine. La strada ricorda un po’ la freeway che
corre sulle colline di Hollywood, solo un tantino più stretta, e loro
126
si sentono proprio come i protagonisti di un film. Sono tranquilli e
allegri come il rumore che proviene dai cilindri.
Poi, dalla sommità di una collina leggermente più alta delle
altre, la strada si lancia in una lunga curva a destra, e d’improvviso,
sul fondo, a pochi chilometri dal loro punto di osservazione, ecco
Udaipur, ma soprattutto ecco il lago Pichola, e poco più in là quello
di Fateh Sarop. È una visione fiabesca, e infatti i due amici
fermano immediatamente i bollenti spiriti delle Enfield e scendono
di sella a tentoni, perché è davvero difficile togliere gli occhi da
questo spettacolo. Alle loro spalle i camion rombano sulla strada a
pochi metri dalle schiene, ma non li sentono nemmeno. Adesso
capiscono perché questa città è stata il set di innumerevoli pellicole
Hollywoodiane e Bollywoodiane.
I due laghi artificiali – che talvolta sono secchi, come ricorda
Tinto dalla scorsa volta che è stato qui – sono al massimo della loro
portata, e il Pichola abbraccia la città vecchia formando una sorta
di fiordo.
Udaipur è piuttosto recente, se paragonata ad altre città del
Rajasthan. La sua fondazione risale circa al 1500, ma non per
questo ha meno fascino, anzi, potremmo dire che, quanto a scorci
panoramici, non è davvero seconda a nessuno.
Udaipur – fondata da Udai Singh, il quale fuggiva dalla città di
Chittorgarh, espugnata dal rivale Akbar – è detta la città bianca,
perché costruita con i marmi bianchi che si estraggono – e i nostri
amici lo scopriranno a loro spese – da questa zona degli Aravalli.
Osservata dall’alto è davvero una visione incommensurabile, e
sembra un regno incantato dove serenità e lentezza zen convivono.
Ma le cose viste dall’alto non sono mai come nella realtà, e la
città bianca non fa eccezione, perché, tranne sui ghat in riva al lago
e in una piccola porzione della città vecchia, è dominata dal caos,
come ogni altra città del sub continente.
Risalgono in sella, e Tinto imposta il nome dell’hotel dove
vogliono passare la notte (due notti, per amor di precisione). Il
posto si chiama Poonam Haveli, e sembra quasi in riva al lago. Il
navigatore trova il nome dell’hotel senza problemi, e lo colloca al
centro di una ragnatela di stradine che poi, nella realtà, si
riveleranno vicoli.
E qui inizia lo sciopero del Sygic.
127
I vicoli non hanno nome, e vengono identificati in base alla
strada più grande che li interseca o in base alla caratteristica che li
identifica. C’è, per esempio, il vicolo dell’hotel Tiger, oppure il
vicolo del tempio di Shiva. O ancora, il vicolo che scende al ghat e
quello che porta al Palazzo Reale.
Ovviamente il navigatore non riesce ad orientarsi così: a
malapena ci riesce chi in questa città ci è nato o ci lavora, figurarsi
un povero chip in silicio che si orienta grazie alla triangolazione di
qualche satellite.
Fermi adesso al lato di una strada che sembra portare a una
salita che sembra portare a una piazza che sembra portare al lago,
Tinto e Skanda tentano inutilmente di stabilire un tavolo di
trattativa con il sindacato dei navigatori satellitari, senza esito.
Skanda alterna vari stati d’animo, nessuno dei quali, però,
comporta il sorriso. Tinto, al contrario, è piegato sullo schermo del
Gps e sembra che lo voglia far funzionare con l’energia psichica.
Nessuno dei due sta adottando comportamenti
particolarmente costruttivi, e si rendono conto che c’è bisogno di
una soluzione radicale.
“Tinto, dai retta a me, è la soluzione migliore”
“Macchè, abbi un attimo di pazienza; sto cercando il nome
della piazza che passa a cento metri dal ponte che passa a cento
metri da…”
Ma Skanda non lo sta ascoltando. Vuole fumare una sigaretta.
Anzi, ne vuole fumare sei tutte insieme, e se possibile vuole bersi
uno Stravecchio e un Punt e Mes.
“Tinto per piacere, mi scappa anche da pisciare...”
“Guarda che ce la posso fare, se mi dai tempo”
“Occhei, ma che ti costa fare come ho detto io?”
“Mi sta sul culo chiedere indicazioni, e mi sta ancora più sul
culo fare come hai detto te”
Tinto torna a piegarsi sul Sygic che, ricordiamo, ha la voce di
Mauro.
Resta così forse cinque minuti, e quando Skanda si è già
rassegnato e sta pensando di tirare fuori l’iPad e continuare la
lettura di Colla di Irvine Welsh, Tinto mette il Gps in tasca, si erige
in tutta la sua altezza e, guardando Skanda tra l’incazzato e il
rassegnato, gli dice:
128
“Vai, procedi”
Skanda non se lo fa ripetere due volte. Scrive Poonam Haveli
su un foglietto, si mette il casco (per far prima) e si getta in mezzo
alla strada.
A un passo dalla frattura di femore ferma un tuk tuk che scarta
a sinistra e accosta. Fa vedere il fogliolino al conducente il quale lo
osserva da ogni angolazione, poi si volta verso Skanda e gli fa il
cenno di assenso indiano – che, ricordiamo, consiste in un
movimento ondulatorio della testa dalla spalla destra alla spalla
sinistra e ritorno - e alza il pollice come per dire:
"Ho capito, son mica scemo”
“Ci siamo” urla Skanda verso Tinto, e non si accorge che
l’amico è già lì, col motore al minimo e la visiera tirata giù.
Dopo aver fatto capire al pilota del tuk tuk che no, non
vogliono salire, vogliono solo seguirlo fino all’hotel, anche Skanda
monta in sella e poi, come una mal assortita carovana, partono alla
conquista dei vicoli di Udaipur.
Non ce l’avrebbero mai fatta senza fermare il tuk tuk. Fanno un
sacco di strada, ma soprattutto svoltano ad angoli nascosti, salgono
per salite occultate dagli ambulanti, scendono per discese occultate
dai mendicanti e poi, lungo un vicolo appena più largo degli altri, il
tuk tuk si ferma.
Il conducente fa cenno verso una stradina a sinistra che si
inerpica in salita fino a dove non si sa, ma alla fine del vicolo,
davanti al muso del tuk tuk, vedono il lago, quindi tanto lontano
non possono essere.
Skanda tira fuori duecento rupie dal marsupio, le porge al
guidatore e gli fa cenno di andare, non lo vuole il resto (avevano
pattuito 150 rupie). Questi prende i soldi, tira con la mano sinistra
la leva di accensione del trabiccolo a tre ruote e, in una nuvola di
fumo azzurrino, sparisce facendo un’inversione a U.
Tinto guarda Skanda; Skanda guarda Tinto, poi gli fa cenno di
andare, sarà quel che Dio vorrà – Shanti, per chi non è stato
attento.
Tinto mette in prima e si avvia rombando su per la salita.
Skanda lo segue a distanza di cinque secondi.
Tinto continua a salire, poi la strada inizia a scendere con una
brusca curva a sinistra. Proprio sulla sommità, a destra rispetto al
129
senso di marcia, vede un bellissimo murale con la scritta Poonam
Haveli in caratteri simil hindi. Ma lo vede troppo tardi; allora, con
una brusca frenata e una sterzata degna di una moto da Fast Track,
si dirige verso l’insegna, che sovrasta una lunga panca in pietra
occupata da cinque o sei turisti intenti a godersi il fresco.
Ma arriva lungo, e con la ruota anteriore sbatte sulla base della
panca di pietra, sfiorando il polpaccio di una bella inglese (o
tedesca, o australiana, o olandese, chissà).
Il contraccolpo gli fa alzare leggermente la ruota posteriore, e si
affretta a mettere entrambi i piedi a terra per bilanciare l’abbrivo
della moto, che nel frattempo, fortunatamente, si è spenta.
Ma ecco che dietro arriva Skanda, e ricalca in pieno i
movimenti che il suo amico ha fatto prima di lui. Solo che anche
Skanda arriva lungo, e va a sbattere con forza sulla fiancata della
moto di Tinto, che si sta ancora guardando intorno.
Dopo un attimo di stand by, entrambi ritrovano l’uso della
ragione, e nello stupore dei turisti biondi che li guardano a bocca
aperta,si tolgono il casco.
A questo punto una bella olandesina (o tedesca, o australiana)
prorompe in un: “Ma non siete indiani!”
“No” risponde Skanda, “Perché?”
“Perché guidate come gli indiani”
Skanda ride, e aggiunge:
“Siamo italiani”
Allora i cinque esclamano in coro:
“Aaaaaah, ecco!”
Mars Volta: Televators, 2003, Universal Records
130
Udaipur
Il Poonam Haveli è bellissimo, con camere magnificamente
arredate e uno spazio comune pieno di divani, poltrone e tavolini
bassi. È abbastanza economico ed il concierge (se così si può
chiamare) è simpatico e prestante. Ma ha due punti moooolto
negativi:
Il primo è che non ha parcheggio, e, su consiglio del concierge,
i nostri sono costretti a sistemare le moto in un parcheggio
custodito da due loschi ceffi distante circa duecento metri. Non
fidandosi minimamente dei due tipi, che sono untuosi e dallo
sguardo sfuggente, smontano completamente le moto di ogni parte
che possa essere smontata, ivi comprese le borse rigide in
alluminio e le latte dell’olio, le allucchettano al meglio e si portano
tutti i bagagli fino in camera, con grande spreco di energie che, in
quel caldo afoso, rende il tutto ben poco piacevole.
L’altro punto a sfavore del bellissimo Poonam Haveli è che non
ha wifi.
Questa è una pecca gravissima nell’ottica dei nostri due
viaggiatori, che passano diverso tempo ogni sera ad aggiornare il
sito e la pagina Facebook. E poi hanno promesso a Marina di
Motofan di mandare, per domani sera, un po’ di foto e un breve
testo che pubblicherà nella prossima newsletter. Questo è un
problema e, seppur a malincuore, decidono di fermarsi al Poonam
solo per una notte, spostandosi l’indomani all’hotel poco più in là.
Ma adesso, relax.
Si siedono sulle grandi poltrone in legno e cuscini e
sorseggiano un chai buonissimo, godendosi il via vai di turisti che
offre la hall dell’albergo. Tutte le porte, compreso il portone
d’entrata dell’hotel, sono aperte, per far circolare il venticello della
sera, e loro vedono fin sulla strada prospiciente l’ingresso, e
restano così, rilassati e con la mente occupata da pensieri vaghi,
fino a - indovinate un po’? – l’ora di cena.
L’hotel ha, tra l’altro, anche un magnifico ristorante con una
veduta mozzafiato sul tetto, ma loro preferiscono cercarne un altro
che, a parità di veduta, abbia anche una connessione internet senza
131
fili che vada veloce. Lo troveranno poco più in là, e saranno gli
unici clienti di due camerieri solleciti e di un terzo che invece è
occupato a flirtare con una giovane tedesca (o olandese, o
australiana). Indugiano a lungo sulla terrazza a tetto del ristorante,
e, sorseggiando la seconda Kingfisher, si godono lo splendido
panorama notturno di Udaipur, il più bello che l’India abbia loro
offerto fino ad ora.
Nel mezzo del lago brilla il Palace Hotel, un’isola che è anche
un hotel cinque stelle. È illuminato da centinaia di luci gialle a pelo
d’acqua, e bianche poco più in su. L’effetto di rifrazione sulla
superficie calma del lago è sbalorditivo, e questo vale per tutti gli
edifici che si specchiano nelle acque nere. In lontananza brilla la
luce di un’altra piccola isoletta, e più in là di un’altra ancora. Sopra
i due pezzetti di terra emersi ci sono due tempietti fiocamente
illuminati, di cui si intuisce la sagoma slanciata. Ogni tanto una
lucina si muove sull’acqua; sono barchette che i due vogliono
pensare occupate da giovani coppie.
Verso l’interno, una distesa di luci; Udaipur è davvero grande,
e la sua estensione si intuisce dalla miriade di luci che, ferme o in
movimento, sembrano un avamposto nell’oscurità intorno. Appena
sotto i loro nasi un altissimo tempio, probabilmente jainista, è
illuminato da lampade che emanano una luce bianca e fredda, e i
bassorilievi che costellano le quattro pareti sembrano quasi
muoversi. Improvvisamente ancora luci, qualche urlo e una
sensazione di attesa. Poi, di colpo, un fuoco d’artificio; poi un altro.
I botti sono fortissimi, e le fontane colorate sono proprio sopra le
loro teste. C’è una festa, ma non è una novità.
Skanda guarda Tinto. Tinto guarda Skanda. Si vogliono bene,
ma ognuno dei due vorrebbe condividere questo momento con la
propria donna, piuttosto che con l’amico. Va bè, si prende quel che
il destino ci riserva, e questo è già abbastanza.
Guardano ancora una volta le luci di questa città che li ha
stregati fin dal primo approccio, poi scendono le dodici rampe di
scale per andare a letto.
New Model Army: Here comes the war, 1993, Epic
132
Udaipur (ancora)
“Ho perso le chiavi”
“Come perso?” risponde Skanda “Guarda bene”
“No, l’ho perse, diobon, ieri le avevo messe qui e ora non ci
sono più”
“Hai controllato dentro la borsa?”
“Secondo te?”
“Occhei, occhei, non ti scaldare, prendi quelle di riserva,
andiamo a farne una copia”
“E dove sono quelle di riserva?”
“Mi sembra che tu le abbia messe nell’inserto con i documenti
della moto e con l’assicurazione”
“Oddio, ma dove l’ho messo l’inserto…” dice Tinto “È da
quando siamo partiti che non lo vedo…dove sarà?”
Tinto getta alla rinfusa tutta la roba che ha nella borsa sul letto,
e alla fine l’inserto viene fuori, e dentro a questo ecco le chiavi di
riserva.
“Uuuuh, è andata bene” tira un sospiro di sollievo.
E così i nostri due amici escono, in una meravigliosa mattina, e
si avventurano a piedi lungo le vie della città di Udaipur, sud del
Rajasthan, in cerca di una mesticheria, di un supermercato, di un
ferramenta, di qualcosa o qualcuno che metta le chiavi in una
macchina e tiri fuori, dopo due minuti, una chiave perfettamente
identica a quella campione.
Ma evidentemente l’India non funziona proprio come l’Italia, e
i ferramenta non esistono, perlomeno non come negozio, e così
neanche gli Auchan, o i Carrefur, o le Ipercoop.
La strada li porta ad un tempio, e da qui a un’altra strada bella
grande piena di negozietti che fanno da mangiare, altri che
vendono vestiti, o imbuti, o lucchetti, o cappelli, o incenso, ma di
qualcuno in grado di fare una copia di una chiave neanche l’ombra.
Gli indiani sono un popolo curioso. Sono molto educati,
raramente alzano la voce, e sembra che abbiano la vocazione di
individuare le persone in apparente difficoltà per poter dare loro
aiuto.
133
Ovviamente, ci sono situazioni in cui non si può aiutare, per
esempio quando non si sa la risposta a una richiesta di
informazioni. Ma non per questo l’indiano si scoraggia, e piuttosto
che non dare risposta oppure – non sia mai – dare una risposta
negativa, si inventa di sana pianta l’informazione cercata.
Quindi i nostri due amici vagano per vicoli, vie e ponti,
seguendo le indicazioni contrastanti di sei o sette persone diverse.
Seguono anche un volenteroso giovane che si offre di portarli di
persona a fare le chiavi, salvo poi arrivare di fronte ad un negozio
che vende – o ripara – ciotole e secchi in metallo. Qui, allora,
chiama a raccolta una decina di perditempo perché, con un
consulto, si possa dare una mano a questi due simpatici
occidentali.
Non tutto il male, però, vien per nuocere; infatti i due centauri
hanno il tempo di comprare un sacchettino di bastoncini d’incenso,
di bersi un bel frullato di mango e di fermarsi a comprare un paio
di samosa da gustare mentre seguono l’ennesimo buon samaritano.
Solo dopo una bella scarpinata arrivano ad un baracchino dove
un bel giovane, dai lineamenti più simili a quelli di un
mediorientale che di un indiano, fa capire loro che si, certo, farà
una copia delle chiavi, gli ci vorranno circa venti minuti.
I due amici non capiscono perché sia necessario tutto questo
tempo per fare una copia di una chiave – anzi due – ma sono in
India e decidono di adeguarsi. Stanno per andare a fare un giro
quando vedono il giovane che, scrutando le chiavi da diverse
angolazioni, annuisce fra sé, poi si china e tira fuori da sotto il
bancone una parure di lime, limette e raspe e, senza por tempo in
mezzo, inizia a limare una chiave “vergine” dando spesso
un’occhiata alla chiave campione.
E così, tra una limata, un soffio per disperdere i trucioli di
ferro, un’occhiata e un cenno di assenso, il giovane riproduce,
senza neanche l’ausilio di una morsa, le chiavi in maniera perfetta.
Avranno poi modo di verificare il corretto funzionamento di
entrambe.
Incantati da una simile manualità, pagano la cifra richiesta e si
allontanano. Tinto adesso sfoggia anche un bel portachiavi fatto
con una catena che, attaccata al passante sopra la tasca anteriore
134
sinistra dei jeans, va poi a finire nella tasca posteriore della stressa
parte.
Ma avranno modo di restare ulteriormente incantati dall’abilità
manuale dei residenti in questa bella città. Ai lati delle strade, data
anche la vicinanza con le cave, ci sono gruppi di ragazzini e di
donne che scolpiscono pezzetti di marmo bianco – evidentemente
scarti di lavorazione – e danno loro forma di animali, dei (Ganesh
è quello che va per la maggiore), simboli dell’induismo e lettere
occidentali. Sono talmente bravi che non hanno bisogno di
chiamare la folla per far vedere i loro lavori. Appoggiano le piccole
sculture su panni scuri e aspettano che siano le persone che
passano a dimostrare interesse per le statuine.
I due non possono esimersi dall’acquistare, per una cifra
davvero irrisoria, un paio di Ganesh per uno, e se li mettono in
tasca come se fossero amuleti.
Tornano poi verso il Poonam Haveli, perché è il momento di
traslocare, e il concierge li guarda andar via con rammarico e
continua a promettere che entro due mesi avranno la wifi, quindi,
quando torneranno con il gruppo di motociclisti – ormai non ci
credono solo loro due, ma hanno contagiato un po’ tutti – devono
assolutamente tornare al Poonam. Loro gli assicurano che
torneranno lì, e che la loro partenza è dovuta esclusivamente a
motivi tecnici, che al Poonam si sono trovati benissimo eccetera
eccetera.
C’è un gruppo di pensionati inglesi che, riuscendo a fatica a
mantenersi nel proprio paese d’origine, decide di fare una scelta
drastica e di andare ad abitare in un paese dove la vita è un po’
meno cara. E così approdano in India, in un hotel – per la verità un
po’ scalcinato – gestito da un simpatico giovane in bilico tra una
famiglia conservatrice e una fidanzata decisamente moderna. Le
vicende dei pensionati, che prima di arrivare in India non si erano
mai conosciuti, si intrecciano l’una con l’altra, fino a sfociare in un
unico filone narrativo. Fra disavventure, comicità delicata, episodi
drammatici e commoventi, si arriva alla morte di uno di loro, che
in passato aveva abitato per lungo tempo in India. Sconvolti dalla
morte del loro nuovo amico, e sentendo l’ala nera della Signora
incombere anche su di loro, si trovano a dover decidere su come
135
fare per il funerale del dipartito. Problema questo che si risolverà
da solo, perché le volontà dell’anziano funzionario sono chiare. Egli
vuole che il suo corpo sia cremato e le sue ceneri gettate nel lago
Pichola.
Così i nostri vecchietti intraprendono un viaggio in treno da
Jaipur fino a Udaipur, e, con l’urna funeraria del loro amico stretta
in mano, getteranno le sue ceneri nel lago in un tramonto
bellissimo e suggestivo.
Questo bel film si chiama Marigold Hotel, ed è una delicata
commedia inglese girata dal regista John Madden e ambientata
quasi interamente in una Jaipur bella e solare.
Cosa c’entra questa trama con i nostri eroi?
C’entra, perché il gruppo dei vecchietti, per la trasferta a
Udaipur, si serve del Tiger Hotel ed è proprio al Tiger Hotel che i
nostri amici hanno preso una camera, tra l’altro al secondo piano,
come la coppia di anziani sposi del film.
Il Tiger Hotel, di proprietà di un tedesco che si intrattiene
volentieri con gli ospiti, è a pochi passi dal Poonam Haveli, ed è
decisamente più brutto.
È strutturato e arredato come un hotel moderno, ma diventa
anacronistico se pensato nel contesto della città vecchia.
Interamente sui toni del nero e del grigio acciaio, non ha neanche i
meravigliosi affacci sulla strada che il vecchio albergo aveva.
Ma ha un parcheggio privato, e custodito, dove i centauri
possono passare qualche ora dedicandosi alla manutenzione dei
mezzi, e ha una wifi velocissima e affidabile, e in poco tempo
possono mettersi in pari sia con il sito e la pagina Facebook che,
più importante, con Marina di Motofan.
Ricevono anche una mail da un giornalista di Rolling Stone
interessato al viaggio, e sono contentissimi. Dopo neanche un’ora
ne ricevono un’altra, stavolta da un fotografo, e volano
letteralmente al settimo cielo. E poi ancora un redattore di una
testata motociclistica vuole assolutamente partecipare. A questo
punto i due saltellano come caprioli in giro per i corridoi deserti
del Tiger.
136
Già si immaginano a capo di carovane di Royal Enfield che
solcano i deserti dell’India. Ma perché fermarsi, poi ci sarà il
Nepal, poi la Cina, poi la Mongolia…
Scopriranno poi, a loro spese, con amaro e disilluso malumore,
che il novanta per cento delle mail che hanno ricevuto e
riceveranno sono di persone che, sbandierando un contatto
professionale interessante, tentano di farsi un bel viaggio gratis.
Il giochino è questo: scrivo di voi, vi faccio diventare famosi,
però prima mi offrite il Moto Challenge. Oppure Faccio un
milione di foto da Premio Capa, però il viaggio lo pagate voi.
Ovviamente anche le tre mail di cui sopra appartengono a
questa categoria.
Per combattere la disillusione fanno progetti reali per
l’edizione futura del Moto Challenge, e cominciano a strutturare
l’itinerario, con i pro e i contro delle strade che hanno fatto e dei
posti dove hanno dormito. Questo semplice esercizio contribuisce a
fare tornare alto il loro umore, e, tra sogni e progetti, si
assopiscono e passano buona parte del pomeriggio dormicchiando.
Ne avevano bisogno. Viaggiare è meraviglioso, e viaggiare in
motocicletta aggiunge alla meraviglia anche lo splendore, ma è
estremamente faticoso. Allora ben venga un pomeriggio dedicato
all’ozio e alla cura del corpo. Si fanno una lunga lunga doccia,
portano i vestiti a lavare ad una lavanderia poco distante e si
guardano Rock’n’rolla di Guy Ritchie sull'iPad.
Quando il sole inizia a calare decidono di uscire e fare un giro
per comprare qualche souvenir, visto che in questo il bazar di
Udaipur sembra molto ben fornito.
Acquisti, cena, breve passeggiata e poi a letto, perché domani
sarà una lunga giornata, con tanti chilometri da fare e una strada,
hanno detto in molti, piuttosto impegnativa.
Ma…oh, c’è da passare a ritirare i vestiti, che alle nove
dovrebbero essere pronti!
Ovviamente la lavanderia è deserta e chiusa.
Allora si attaccano al campanello dell’appartamento sopra il
negozio, e una ragazzina con capelli lunghissimi e neri dice loro
che il fratello è andato a prendere i vestiti dallo zio che a propria
137
volta li aveva presi dalle lavandaie che li avevano messi ad
asciugare.
Il fratello arriverà solo a un quarto alle dieci, ma in questi tre
quarti d’ora i due hanno visto due incidenti, sono stati avvicinati da
tre spacciatori, da tremila mendicanti e da un milione di venditori
di tutti i capi di vestiario del mondo.
Hanno appurato anche che i vigili urbani, che dovrebbero
servire a direzionare il traffico, di fatto lo intralciano perché,
mentre fanno cenno ai mezzi a sinistra di passare, poi si
distraggono chiacchierando con qualche passante, e si scordano di
fermare il flusso prima di dare il via libera a quelli che vengono da
destra. Oppure fermano tutti e poi semplicemente se ne vanno chi
a bere un chai, chi un attimo al tempio. Il traffico allora è
stranamente sospeso, salvo poi ripartire tutto insieme e creare un
caos micidiale.
Su tutto questo aleggia sempre una cappa di gas di scarico
densa e oleosa, respirata con piacere, sembra, dalle miriadi di
bovini, suini e canidi che si aggirano per queste strade, sempre a
caccia di un boccone prelibato nascosto nei cumuli di immondizia
che crescono negli angoli.
Questo paese non è bello.
Questo paese non è sano.
Vengono dall’Italia, e l’arte e l’architettura indiana sembra
sempre un po’ inferiore alla loro.
Questo paese è caotico.
La gente ha un concetto di igiene piuttosto lontano da quello
occidentale.
Ma questo paese è meraviglioso, e loro ne sono innamorati.
L’India è come un enorme immondezzaio che nasconde
diamanti e pepite d’oro. È il viaggiatore che deve scavare la
superficie per trovare il tesoro.
L’India è fantastica.
Ozric Tentacles: Dissolution (the clouds disperse), 1989, Dovetail Rec.
138
Marmo
La sostenibilità, la coscienza sociale, quella ecologica,
l’ambientalismo, il vegetarianesimo non per precetti religiosi, ma
per motivazioni etiche, il no alla vivisezione, alla bombe di Israele
su Gaza.
I due Marò che ancora oggi sono prigionieri nei curatissimi
giardini dell’ambasciata Italiana a Delhi.
E ancora: Le crociate contro i circhi che utilizzano animali, le
quote rosa, il riscaldamento globale.
Tutto questo è lontanissimo da dove sono loro. L’India, così
come la maggior parte dei paesi in via di sviluppo, non ha alcun
interesse, o meglio, alcuna coscienza dei problemi che affliggono il
resto del pianeta.
Qui i problemi etici lasciano il posto a problemi reali, e
immediati.
È sconvolgente pensare a quante persone vivono per strada, e
non tanto adesso, che è già primavera, ma per esempio in pieno
inverno, quando è freddo, o durante la stagione dei monsoni,
quando piove talmente tanto che le strade si trasformano in
torrenti e tutta la terra, che adesso è polverosa, si trasforma in
fango.
Gli slum, le baraccopoli, le città che ufficialmente non esistono;
gli invisible people, come vengono chiamati con un eufemismo
tutte le migliaia e migliaia di persone che non hanno documenti,
non hanno identità, non hanno diritti. Tutti quelli che vivono in
balìa dei potenti, degli elementi, dei capricci della meteorologia o
dei capricci di altre persone come loro, che vivono a decine di
migliaia di chilometri di distanza e che si arrogano il diritto di
decidere della vita altrui.
È molto più facile diventare ecologisti contemplando la bellezza
dei pascoli svizzeri, piuttosto che affacciarsi e vedere, toccare e
respirare lo slum.
Così come è più facile essere difensore dei diritti umani dalla
poltrona del salotto piuttosto che scendendo nel sud del mondo.
139
Questo per far capire che il non-agire dei popoli del "terzo
mondo" spesso non è accidia, ma è vera e propria impossibilità di
compiere qualsiasi movimento atto a contrastare uno status quo
devastante e annichilente.
È per questo che, soprattutto in Asia, la spiritualità prende il
posto dell’azione. Il Sadhu, seduto a gambe incrociate sotto il
proprio albero, sente un petalo cadere sulla superficie dello stagno,
vede vibrare la piuma di un uccello in volo, sente salire nell’aria il
profumo dei fiori.
Si rinchiude in sé stesso perché è impossibilitato a vivere
secondo le regole che altri hanno deciso.
È comunque preciso dovere dei popoli occidentali continuare a
credere nell’ambientalismo, nei diritti umani, nella necessità di
fare qualcosa; così come è necessario che l’occidente smetta di
aspettarsi un aiuto materiale da coloro i quali sta cercando di
proteggere. Questo aiuto non arriverà mai, ma non per questo il
suo agire sarà meno importante.
Con pensieri di tal guisa in testa Skanda guarda la strada,
respira nel casco, muove piano le mani e i piedi e osserva la
devastazione che li circonda.
La strada che da Udaipur sale a nord verso Pushkar è un
incubo. L’incubo di ogni ambientalista. L’incubo di ogni persona
dotata di uno qualsiasi dei cinque sensi.
A destra e a sinistra della carreggiata, per chilometri e
chilometri, i resti delle montagne sventrate per l’ingordigia degli
uomini.
Lastre di marmo, blocchi di marmo, enormi cubi di marmo.
Sono da tutte le parti.
Appoggiati l’uno all’altro; al posto degli alberi che sono stati
tagliati per far spazio a questa esposizione permanente, impilati
come tappeti in cumuli alti diversi metri.
Marmo dappertutto. Marmo bianco, quello pregiato, quello che
è servito per costruire Udaipur, per i palazzi di Jodhpur e Jaipur;
quello che è servito per il Taj Mahal.
E ora? Ora questo marmo continua a venire estratto dalle cave,
che sono un po’ ovunque, e venduto. Soprattutto all’ingrosso, ma
140
anche al dettaglio, in loco o tramite intermediari. Il marmo delle
multinazionali, dei grossi fatturati, dei grandi numeri.
Tutto intorno un traffico spaventoso, soprattutto di mezzi
pesanti – anzi, pesantissimi – e di motorini. Un traffico impazzito,
che non ha alcun rispetto per le più elementari norme del codice
della strada. Un traffico devastante, che non ha alcun rispetto per
le più elementari norme di sicurezza. Camion carichi oltre ogni
limite; blocchi di pietra appoggiati sui pianali e trasportati solo con
una preghiera a Shiva come assicurazione.
Sorpassi, doppi sorpassi e svolte improvvise; clacson impazziti
e polvere, polvere dappertutto.
Polvere bianca fine come gesso che impregna ogni cosa. I
cespugli ai lati della strada, quando non sono stati tagliati, sono
bianchi. Le facce delle poche persone che si muovono a piedi sono
bianche; i vetri delle macchine sono bianchi.
I due amici guidano le loro moto stando attenti praticamente a
tutto: ai camion, ai motorini, alle altre moto, ai cani randagi, e
soprattutto alle vie laterali, da cui, senza sosta – e senza guardare o
fermarsi – si immettono continuamente enormi camion carichi di
blocchi di marmo.
Pensano che tra poco questo delirio finirà, e cercano di avere
pazienza, continuando a guidare con i nervi tesi e i muscoli tirati,
rigidi sulle selle come soldati sull’attenti.
Ma si sbagliano, questo delirio continua, e continua. Chilometri
e chilometri di scempio ambientale. Tinto pulisce la visiera con la
mano guantata, Skanda si tira sul naso e sulla bocca il foulard viola
che gli scende sul collo ogni cento metri.
Sono allibiti. Skanda è arrabbiatissimo. Con L’India, con gli
indiani, con il loro modo di uccidere tutto, con la polvere che lo
acceca e gli ferisce la faccia, perché mescolati ai granelli finissimi
ogni tanto c’è anche qualche scheggia più grossa. Odia quelli laggiù
con il turbante, quell’uomo in bicicletta, quel ragazzino che corre,
quel cane disteso.
Odia – naturalmente – i camion che si muovono come
impazziti, e non trova più divertente o pittoresco il clacson che
suona o il guidatore che saluta.
141
Fa segno a Tinto dicendogli di proseguire, e accosta a un lato
della strada. Ha bisogno di pulire gli occhiali, fare un nodo più
stretto al foulard e tirare fuori i guanti. Spegne il motore, scende di
sella e, mentre rovista nella borsa laterale, vede una nuvola di
fumo nero che sale dal retro di un cubo enorme di marmo rosato.
“E ora che diamine succede?” pensa “Un incendio? Un
incidente?”
E si avvia verso la colonna di fumo oleoso.
Niente incendio. Niente incidente.
Ai piedi di un albero ci sono due uomini che mettono in un
piattino appeso ad un ramo del cibo per gli uccellini, e questi, quasi
come se fossero addomesticati, scendono dai rami più alti e vanno
a beccare i semi tranquilli e per niente sul chi vive. Addirittura uno
si sistema sulla spalla dell’uomo e questi, guardando il suo
compare, ride e gongola come se avesse accarezzato una tigre.
L’altro congiunge le mani al petto e si inchina all’uccellino, poi
mormora qualcosa e mette ancora semi nel piattino.
La scena sarebbe idilliaca, non fosse per il mucchio di
pneumatici che, bruciando, origina la nube tossica di fumo
puzzolente.
Skanda, semiparalizzato, non capisce proprio come si può
sorridere ad un uccellino e contemporaneamente ammorbare l’aria
con una pira di gomme usate. Pensa che peggio di così non può
proprio andare, che questa è una terra irrecuperabile, ma non ha
visto tutto. Il destino oggi non vuole risparmiargli proprio niente.
Dalla porta aperta di quella che intuisce essere un’officina –
giusto fuori della porta c’è una pila di batterie da macchina – esce
un uomo che a fatica trasporta un secchio che, a occhio, deve
essere ben pesante. Caracolla fino ai piedi dell’albero dove ci sono i
due amanti della natura, si ferma un attimo per vedere – oh che
grazia, oh che delizia! – gli uccellini che mangiano e poi, con una
naturalezza sconcertante, vuota il secchio, che è pieno di olio
motore usato, ai piedi dell’albero. Lo scola per bene, fino all’ultima
goccia, poi, salutando ancora gli uccellini, se ne ritorna bello
tranquillo alla sua officina.
Skanda vuole andare via. Vuole fuggire il più lontano possibile.
Non vuole neanche tentare di capirli, gli indiani, non adesso.
Adesso deve davvero rimontare in sella e andarsene il più
142
velocemente possibile, perché l’ambivalenza dell’India, come l’ha
chiamata qualche giorno prima, è ora così ambivalente che gli
scappa da vomitare.
Si tira sul naso il foulard, si allaccia il casco, mette in moto e
riguadagna la strada. Ai saluti entusiasti dei due uomini sotto
l’albero non risponde nemmeno e, anzi, volta la testa.
Odia tutti.
“Devi stare calmo” gli dice Tinto.
Sono seduti all’ombra di un pergolato a bere una Coca Cola. I
monti sventrati ormai sono diversi chilometri a sud, ma Skanda è
ancora di umore nerissimo.
“Non ce la faccio. Non possono devastare tutto in questo modo.
L’aria che ammorbano è anche mia, l’acqua che inquinano è anche
mia”
“Certo, hai ragione. Ma incazzarsi non serve a nulla. È invece
una cosa positiva che possiamo aver visto questo scempio, perché
lo racconteremo, e, non limitandoci ad essere solamente testimoni,
aiuteremo la macchina a muoversi”
“Ma quale macchina? Ma quale muoversi? Stanno devastando
tutto. Non hanno rispetto per niente, sono tutti contenti di vedere
un uccellino e sversano nei fiumi gli oli dei motori. Non mangiano
la carne – per amor di Dio! – ma inquinano campi e boschi con i
loro rifiuti. Era meglio se mangiavano un paio di mucche e non
rompevano i coglioni!” si sfoga Skanda.
“Tu la vedi dalla prospettiva sbagliata…”
“Ma che dici?”
Adesso Skanda è infervorato davvero “Non c’è una prospettiva
giusta!”
“Te lo ridico. Ti devi calmare. Sei in India, non puoi pretendere
che la tua visione di italiano sia condivisibile quaggiù” gli ribadisce
l’amico.
Tinto ha ragione. Quando Skanda perde il lume della ragione e
vuole solo sfogarsi, raramente è portato ad ascoltare gli argomenti
contro le sue tesi, ma vedere l’altro, talmente rilassato che sembra
uscito da un massaggio, ha il potere di calmarlo. Beve un sorso di
Coca Cola, la finisce e sbatte la bottiglietta sul tavolo.
“Anche la Coca Cola sa di curry” dice “Che schifo”
143
Poi guarda l’amico.
“Mi sono rotto di questo paese. Perché non torniamo indietro –
magari da un’altra strada – e proseguiamo verso sud? In tre giorni
siamo a Goa. Ci dedichiamo alla spiaggia e alle sostanze
stupefacenti, mangiamo pesce e beviamo birra tutto il giorno”
L’Idea non è così peregrina come sembra, e Tinto ci pensa
seriamente. Scendere verso Mumbai lo affascina, così come
passare da Ellora e Ajanta. Goa, poi, dev’essere fantastica.
Ma lui sente forte, anzi, fortissimo, il richiamo di Varanasi. La
città sacra esercita una tale trazione su di lui che ogni giorno che vi
si avvicinano sente la città che lo tira con forza, ed è impaziente di
arrivare. E Tinto raramente è impaziente.
“No, guarda, io devo arrivare a Varanasi. Anzi, tutti e due
dobbiamo arrivare a Varanasi. E l’itinerario per il prossimo
Challenge? E la road map?”
“Va bè” risponde Skanda “L’itinerario lo cambiamo, e lo
facciamo da Udaipur a Goa; per la road map siamo ancora in
tempo, no? La facciamo sul nuovo tragitto” Ma non ci crede più
neanche lui, e l’idea di Goa, che per un attimo sembrava laggiù,
luminosa e a portata di mano, svanisce lentamente senza alcun
rimpianto.
Varanasi esercita il suo fascino su entrambi, e anche Skanda,
che adesso odia tutto quello che è Indiano, non vede l’ora di
arrivarci. E prima non vede l’ora di vedere il Taj Mahal, il Palazzo
dei Venti, il Lago Sacro, I templi di Khajuraho…
“Dai, in sella!” urla a Tinto dandogli una pacca sulla spalla.
E stavolta sgomma via partendo prima del suo amico.
Pearl Jam: Rearview mirror, 1993, Epic
144
Verso Pushkar
Massimo Carlotto, involontario e riluttante protagonista del
Caso Carlotto, un’inchiesta giudiziaria durata quasi vent’anni che
lo ha visto imputato e condannato per omicidio – graziato poi
dall’allora Presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro (ve lo
ricordate No, io non ci sto?) – è adesso un affermato e, dobbiamo
dire, molto bravo autore di svariati best seller.
Durante la sua lunga disavventura, il giovane Carlotto è stato,
per ben tre o quattro anni, un latitante, dapprima in Francia, poi in
Messico.
Descrive in maniera molto accurata la vita di un latitante, e
ancora meglio delle descrizioni oggettive, sono quelle soggettive,
come il vivere sempre all’erta, con la paura di essere scoperto in
qualsiasi momento.
In autobus, in metropolitana, in giro per la città il latitante non
è mai tranquillo, e scruta le persone attentamente, per individuare
comportamenti insoliti o troppo rassicuranti. Fissa spesso persone
normalissime, temendo e quasi credendo che possa trattarsi di
agenti in borghese. Cambia continuamente metodo di osservazione
ma soprattutto, soprattutto si fida delle emozioni, delle
impressioni.
Il motociclista, volendo fare un paragone un po’ azzardato, vive
il viaggio, soprattutto se lungo, come un latitante vive la sua fuga.
Il motociclista è sempre all’erta; non si fida quasi mai
completamente del mezzo; ha sempre paura che qualcosa possa
incepparsi, nel complicato equilibrio di meccanica, elettronica e
ciclistica. Per questo il motociclista è sempre attento a ogni
rumore, a ogni vibrazione, a qualsiasi segno che possa preludere a
una bega o, perché no, a un guasto.
Ma soprattutto il motociclista è sempre ben attento ad
ascoltare le sue sensazioni.
È per questo che Tinto mette la freccia a sinistra e accosta al
lato della strada. Sono adesso in un bel tratto pianeggiante, e
fermano le moto proprio sotto un grosso banyan.
145
“Che succede?” chiede Skanda.
“Niente, mi sembra che ci sia qualcosa che non va” risponde
Tinto scendendo di sella.
“Dove? Nel motore?”
“Mah, non lo so, è più una sensazione che una certezza”
Cosa si fa quando si ha la sensazione che ci sia qualcosa che
non va in una moto che viaggia tranquillamente?
Facile, si controlla l’olio.
Aspettano un po’ e poi aprono il serbatoio dell’olio, che
avevano controllato solo due giorni prima. Ne aggiungono solo
qualche goccia, perché il livello è quello giusto.
Quindi Tinto passa a testare la parte elettrica, ma funziona
tutto. Anche freni e frizione non hanno niente che non va.
Tranquillizzati dal controllo e impazienti di riprendere la
strada, che dopo il delirio della mattina sembra adesso come il
circuito di Misano, si rivestono in fretta e sgommano verso nord.
Ma dopo neanche dieci chilometri Tinto rimette la freccia e
accosta.
“Strappa” dice.
“Che?” gli chiede Skanda.
“La moto, strappa, sembra che perda colpi, va male, c’è
qualcosa”
Hanno dimenticato di controllare una delle parti che, con
strade come queste, sono più soggette a usura: la catena.
Infatti è lassa, troppo lassa. Urge un intervento.
“Diobon, sei un precog!” gli dice Skanda
Ma Tinto non ha sentito, o forse non ha visto Minority Report.
Apre la borsa degli attrezzi e chiama Skanda.
“Mettiti dall’altra parte, almeno la ritiriamo”
Uno da una parte e uno dall’altra, contano gli scatti del
tendicatena e dopo neanche dieci minuti sono in piedi ad
asciugarsi il sudore dalla fronte – si suda facilmente, a queste
latitudini.
Controllano, per scrupolo, anche la catena di Skanda, che però
è a posto, e si accorgono che hanno uno spettatore.
Con due occhioni dolcissimi e gli orecchi che ciondolano fino a
toccare terra, poco più in là è semisdraiato sull’erba rada un cane
di taglia media, di razza….indiana, cioè indefinibile, che, appena si
146
accorge che i due lo stanno fissando, inizia a sbattere
violentemente la coda sulla terra, alzando nuvolette di polvere.
Ansimando si alza e trotterella, con la coda fra le gambe, vicino
ai due che, ben lontani dallo sferrargli un calcio, si chinano
all’unisono e lo carezzano sulla testa.
Il cane, che come tutti i suoi simili sembra sia stato creato
esclusivamente per gioire delle carezze di un umano, è felice, e
sembra voler dire, con quell’espressione un po’ da Pluto (gli
assomiglia anche) che bello!
Restano lì a carezzare il cane per un bel po’. L’aria è calda, ma
all’ombra si sta bene. Poi tirano fuori un sacchetto di mandarini e
fanno una bella merenda sull’erba, sempre in compagnia di Pluto,
che ormai sembra volerli adottare.
Ma è il giorno sbagliato, per Pluto, e i due alla fine risalgono in
sella pensando: Incarnazione dei ladri…ma come si fa?
***
Lungo la National Highway 8, che congiunge Jaipur a Udaipur,
al chilometro 130 nord, quindi a circa 280 chilometri da Udaipur,
c’è la città di Ajmer, città sacra musulmana che si affaccia su uno
sporco e, a dire il vero, maleodorante lago. Il lago è interamente
recintato, e, a parte per gettarvi i rifiuti e farvi confluire le fogne
delle abitazioni, non ha alcuna utilità per gli abitanti della
cittadina. I musulmani, infatti, per le abluzioni pre-preghiera
preferiscono l’acqua corrente.
Subito ad ovest della cittadina di Ajmer, separata da questa da
una collina alta e appuntita, c’è la minuscola città di Pushkar, che è
una delle città sacre indù.
Separate solo da una collina, eppure così lontane, sia
religiosamente che socialmente.
Ajmer è caotica, intasata dal traffico, sporca e anche un po’
puzzolente; Pushkar è un’oasi in mezzo al nulla, affacciata su un
piccolo lago sacro.
Arrivati ad Ajmer, tanto per cambiare, il navigatore satellitare,
che ancora una volta chiameremo Mauro - perché è quella la voce
di default con cui è impostato - impazzisce, e si ostina a voler far
percorrere ai due amici una strada che non c’è. Fisicamente
147
proprio non c’è; là dove lo schermo del Gps mostra una bella
strada che gira intorno alla città di Ajmer, loro vedono solo un
muretto a secco tirato su in fretta e furia, con alcune pietre che
sono rotolate fin quasi alle ruote delle moto.
Restano così, a guardare quella che per i satelliti è una strada,
finché si riscuotono e decidono di provare a passare sulla sinistra
del muretto e vedere cosa c’è dall’altra parte.
Ma prima di mettere in moto si materializza, come dal nulla,
un uomo con due capre che si avvicina spavaldo alle moto e inizia a
parlare in una lingua che non è inglese, non sembra neanche hindi
e ogni tanto ha le vocali strette come se fosse russo.
L’uomo, dopo aver capito la destinazione dei due, fa grandi
cenni con le braccia indicando la strada da cui sono arrivati, e fa
capire che devono tornare ad Ajmer, e, proprio all’inizio del paese,
girare a destra, invece che a sinistra, perché la nuova strada passa
da lì.
Oppure…ci pensa un attimo e urla “Pushkar! Pushkar! Road
here!” e indica al di là del muretto, dove però, ad una rapida
occhiata, ai nostri amici era sembrato di vedere solo sabbia.
“Oh, Tinto!” urla Skanda indicando un motorino che arriva dal
sentiero indicato dall’uomo.
“Se ci passa lui…” e lascia in sospeso la frase.
“Ci passiamo noi!” conclude per lui Tinto.
“Thank you, sir, thank you” e così dicendo mette in moto e
oltrepassa il muretto.
“Pushkar! Pushkar!” continua a ripetere questi.
“Aspetta!” grida Skanda, e anche lui, dopo aver lasciato spazio
al motorino che sta arrivando, prende la via per la città sacra.
Dopo neanche cento metri Skanda vede la ruota posteriore di
Tinto che slitta a destra, e la moto che si sta per intraversare. È già
quasi appoggiata sul fianco quando Tinto, con un colpo di reni
degno della sua stazza, la tira praticamente su di peso.
Skanda scala marcia, rallenta e si ricorda che la sabbia si
affronta stando in piedi sulle pedane e spostando il peso verso il
retrotreno, ma non ha tempo di mettere in pratica niente di tutto
ciò, perché in una frazione di secondo è già addosso a Tinto, che
ancora non è ripartito. Riesce a scartarlo e a lasciarselo sulla
sinistra. Si alza, apre il gas e cerca di galleggiare sulla superficie
148
sabbiosa. Il giochino sembra riuscire, e fortuna vuole che la strada
sia in piano, perché se dovesse affrontare anche una sola duna
probabilmente mollerebbe il colpo.
Con la ruota posteriore che si muove a destra e a sinistra, riesce
a prendere il ritmo, e anche se le gambe urlano per la posizione –
che, tra l’altro, probabilmente è sbagliata – tiene duro fino a che la
terra battuta prende il posto della sabbia. Qui, sentendosi più al
sicuro, si rilassa e fa per rallentare e vedere che fine ha fatto il suo
amico quando la moto, con la ruota davanti mezzo affondata,
scarta a destra e, placidamente, come un cetaceo che gioca, si
appoggia sul fianco.
Tirarla su senza scendere è impossibile, non ne ha la forza.
Allora spegne il motore, si libera dal peso della moto e le va di lato.
Poi gira dal lato opposto (quello su cui è appoggiata, per
intendersi) e, con una mano sulla manopola del gas e l’altra sulla
maniglia a lato della sella, riesce, a rischio di un’ernia strozzata, a
tirarla su. Ma…oh, sta cadendo dall’altra parte! No, ecco, è in
equilibrio.
Con le braccia che tremano per lo sforzo e le gambe che
sembrano doversi piegare, Skanda riesce a mettere il cavalletto
laterale, posizionando prima un pezzo di roccia piatta sotto
l’estremità per non farlo sprofondare. Tira un sospiro di sollievo e
si leva il casco. Ha le mani impiastricciate di terra e sudore, e
anche le braccia sono impolverate. Fa un caldo bestiale e gli
sembra di morire di sete.
Poi si ricorda di Tinto, e sente salire la preoccupazione, si volta
verso la pista di sabbia e non vede niente, poi sente il rumore di un
motore, ma continua a non avvistare nessuno. Il rumore si fa
sempre più forte e più vicino…ma dov’è?
Adesso il rumore è lì, vicinissimo, ma lui ancora non vede né
Tinto né la moto. Si gratta la testa come Stanlio e poi, ecco che dai
cespugli al lato della pista di sabbia arriva Tinto, in un’entrata
degna di Tom Cruise.
È bello tranquillo, lui, mentre cerca la folle, scende e si toglie il
casco.
“Sono passato dal lato, perché a me andare sulla sabbia proprio
non mi riesce” dice, candido “Tu bravo, però”
“Eh” risponde Skanda “Ho voluto provare…”
149
È chiaro che se avesse capito che si poteva passare da un lato
col cavolo che avrebbe rischiato di fratturarsi l'astragalo. Per
fortuna tutto si è risolto con una leggera ammaccatura nella valigia
di alluminio, ma ce ne sono così tante che una in più o in meno non
fa alcuna differenza.
I tornanti salgono ripidi, poi, sulla cima della collina, il
panorama è meraviglioso: a sinistra Ajmer, grande e distesa nella
pianura, intorno al suo lago; a destra, laggiù, invece, un piccolo
lago e una ancor più piccola città, incastrata tra tre ripide colline.
Tutto intorno la terra brulla e marroncina che non è ancora deserto
e non è più deserto.
È strano pensare che nel mese di novembre, proprio quando
torneranno con i partecipanti (incrociando le dita), da tutto il
Deserto del Thar arriveranno cammelli e cammellieri, si
monteranno luna park e giochi, e per cinque giorni Pushkar sarà la
capitale del folclore.
Ogni novembre, infatti, si tiene la Camel Fair, la fiera dei
cammelli, che all’inizio era una vera e propria compravendita di
capi di bestiame, ma oggi ha acquisito anche la caratteristica di
festa di paese, con migliaia di turisti che arrivano da ogni dove per
partecipare alla festa più pazza del Rajasthan. Cammelli addobbati
e dipinti, cammellieri con baffi lunghissimi, turbanti di tutti i
colori, e poi balli, canti, cerimonie e riti. Intorno alla cittadina
vengono montati gli accampamenti per i venditori e compratori di
bestiame, e gli alberghi sono sold out già da giugno.
Ma negli ultimi tempi qualcuno che ha fiutato il business ha
deciso di tirar su accampamenti di tende e di farci andare i turisti:
è stato un successo enorme già dal primo anno.
Dormire nel deserto, circondati da migliaia di cammelli,
cammellieri, fuochi da campo e cibo di strada è una cosa che
provoca l’entusiasmo più sfrenato tra i viaggiatori, soprattutto
anglofoni o del nord Europa. Anche i loro partecipanti, tra otto
mesi, dormiranno nelle tende, e anche loro.
Ma adesso scelgono un albergo carino, anche se un po’ cadente,
che si chiama – guarda un po’ – Om Hotel.
150
L’Om Hotel è proprio all’inizio della via che ospita il bazar di
Pushkar, che poi è la via da cui partono gli accessi al lago con i
ghat, che, ricordiamo, sono le monumentali scalinate che
raggiungono l’acqua. Decidono quindi di lasciare le moto e andare
subito a farsi un giro, ma i portieri (sono tre!) fanno loro cenno di
portare le moto dentro la hall. Non se lo fanno ripetere due volte: si
fanno tenere aperte le due grandi porte a vetri e sistemano le moto
accanto a un tavolo, proprio nello spazio aperto circondato dalle
camere.
L’Hotel ha un po’ la forma dei motel americani, con uno spazio
centrale e le camere su tutti i lati, a circondarlo completamente.
Negli Usa generalmente i motel hanno la tipica forma a U,
questo invece è proprio un quadrato con uno spazio aperto in
mezzo.
È davvero grande, e sembra quasi vuoto. Uscendo dalla parte
posteriore, poi, si scende una rampa di scale e si arriva in un
giardino grande e curato, circondato da alte mura sui tre lati liberi,
con una bella piscina dall’acqua un po’ (giusto un po’) sporchina e
un pergolato dove c’è un bar che vende acqua e focacce (il perché la
scelta sia così limitata lo spiegheremo in seguito).
A impreziosire il tutto tanti bellissimi coniglietti bianchi - che
non hanno il minimo timore degli umani e, anzi, si avvicinano e li
scrutano come se volessero azzannare loro un polpaccio - e le mura
perimetrali fittamente decorate con figure della simbologia e
mitologia del luogo.
Pushkar è una città un po’ particolare: è vegana.
Non gli abitanti, o qualche visitatore.
È vegana proprio la città.
Infatti all’interno dei confini cittadini non si trova niente da
mangiare che abbia a che fare con gli animali; non solo carne; dalla
città sono banditi anche pesce, latte, uova. Anche le cinture in
cuoio o le scarpe di evidente derivazione animale (tipo stivali o
sandali in pelle) non sono visti molto di buon occhio, anche se in
genere nessuno dice niente.
Non è proibita, però, quella cosa che si ricava seccando le cime
di una pianta e poi fumandosela, e, anzi, sembra che qui il fumare
marijuana sia prassi comune.
151
Già fregandosi le mani, i due amici si vedono distesi a bordo
piscina a guardare le stelle, mentre sono in balìa di pensieri
profondi e confusi, ma uno dei tre portieri rettifica subito: è
proibita anche a Pushkar.
Se ti vedono fumare, spesso i poliziotti fanno finta di niente
(dipende da come gli gira), ma se ti vedono mentre la compri vai in
guai seri, che in genere risolvi con una bella banconota da cento
dollari (che tra l’altro non hanno). Altre volte, invece, i cento
dollari non sono sufficienti, e il rischio reale è quello di fare la
conoscenza delle prigioni indiane. Pratica, questa, sconsigliata da
ogni guida turistica.
Ok, allora per favore due Kingfisher, grazie!
Ah, come? Anche l’alcol è proibito?
Va bè, a allora, che ci rimane?
I tre portieri li guardano con occhio malandrino, ma loro, un
po’ a gesti, un po’ in inglese e italiano, fanno capire che viaggiano
in coppia, ma non sono una coppia.
“Sfortunati!” sentenzia uno dei tre “Perché a Pushkar è proibita
anche la prostituzione”
“E vorrei anche vedere!” gli dice Tinto.
“E poi, anche se fosse stata legale, sarebbe stato lo stesso” gli fa
eco Skanda.
I tre indiani sembrano divertirsi un sacco a prendere in giro
questi occidentali, ma loro decidono che il gioco è bello quando
dura poco, e si avventurano, a piedi, verso la città.
Pushkar, in pratica, è costituita da una via, che è quella del
bazar, e da qualche altra strada che si inerpica sulle colline, anche
se sembra che le uniche costruzioni siano sulla via principale. Oltre
alla via c’è il lago sacro, e niente più.
È una città divisa, sia morfologicamente, tra acqua e terra, che
moralmente, tra spiritualità e commercio.
Il bazar è composto da banchini di abbigliamento, ristorantini,
hotel e venditori di cibo di strada.
Ogni tanto qualche venditore di colori e qualcun altro che
vende frutta.
E poi gente, tanta gente. Turisti, viaggiatori, espatriati e
autoctoni. Nel bazar di Pushkar si sentono parlare tutte le lingue
152
conosciute, e ogni dieci metri vieni fermato da un Santone – o
sedicente tale – che ti vuole dare una benedizione, oppure da un
venditore di hascisc, che ti vuole dare qualche altra cosa.
Una mano si stacca da un lato della strada, e mostra loro una
pallina color oro scuro, e in un perfetto italiano, leggermente
sporcato da una cadenza nordica, forse milanese, dice loro:
“Ciao ragazzi, charas? Charas buono”
“No grazie, rispondono i due all’unisono “Sarà per un’altra
volta”
“Dai ragazzi, datemi qualche euro, sono qui da una vita e me ne
voglio andare” riprende il tipo, ma i suoi occhi hanno già
inquadrato qualche altro turista a cui rivolgere la propria
attenzione.
Poco più avanti, nel mezzo della strada, un venditore di chai.
Serve la bevanda in piccoli bicchierini di terracotta che, una volta
usati, è tradizione rompere sul selciato. Possono resistere?
Assolutamente no, e infatti: un chai per uno, please!
Sul lato sinistro della via si aprono, ogni pochi metri, i ghat che
scendono al lago e, scesi pochi gradini, sembra di entrare in un
altro mondo. A parte il fatto che le costruzioni, i templi, i ghat
stessi e le colonne che danno sul lago sono architettonicamente
fantastici, ad abbellire il tutto c’è il sole che, tramontando, sembra
morire nell'acqua, perché quella ovest è la sola sponda del lago che
non è costruita, e da dove si gode il panorama del quasi-deserto.
Camminano – ovviamente scalzi – per un po’, risalendo la
sponda del lago nella direzione del loro hotel.
Prong: Another wordly device, 1994, Sony
153
Dal diario di Skanda
Aaaaaaaah però, questa Pushkar!
Eh si, è vero, è un po’ il ritrovo dei fricchettoni.
Immaginate di essere all’On The Road Festival, oppure a
Mercantia, e non ci siete neanche vicini.
Pensate di camminare per le strade di Amsterdam nel 1979 e
neanche ora ci siete vicini.
Pushkar praticamente è due città: la via del mercato, lunga
come tutta la città, dove trovi di tutto, dai tessuti alle droghe, dai
frullati ai santoni; e i ghat, cioè le scalinate di accesso al lago.
I ghat sono silenziosi, si sentono solo le preghiere indù.
I ghat sono puliti, la gente non lascia rifiuti.
I ghat sono sacri, ci si può camminare solo scalzi.
I ghat sono l’antitesi del bazar.
Siedi sulle gradinate e la pace ti riempie, il sole scende, e il
cielo si tinge di un bellissimo color arancio come le vesti degli
Hare Krishna, che qui sono tantissimi.
In lontananza tamburi e campanelli.
Un po’ stereotipata? Può darsi, ma è così per davvero. Ed è
così che la voglio ricordare: come uno stereotipo, forse, ma
speciale, credetemi.
Un gran bello stereotipo!
154
Mango e pipistrelli
Camminare sui ghat è piacevolissimo. La pietra è ancora calda
per il sole del pomeriggio, e tutto intorno ci sono uccelli che
sembrano gru in miniatura, con le zampe lunghissime e il corpo
bianco con le ali nere. Se ne stanno tutti in prossimità dell’acqua e
sembrano godersi, anche loro, il tramonto.
I due sono seduti su un gradone e guardano rapiti ad ovest,
dove il sole adesso sembra per metà affogato nelle acque del lago.
Dalla sponda sinistra arrivano voci e canti, accompagnati dal
suono dei tamburi e dei campanelli. Non si capisce se sono giovani
fricchettoni o fedeli attempati, ma è lo stesso, perché, così da
lontano, i canti ritmati aggiungono un tocco di esotismo alla scena,
già di per sé abbastanza esotica.
Si sta bene lì, pensando a niente. Poi sono soli, sembra che
Pushkar sia intenta a cenare o a cantare, e si godono, in un silenzio
quasi religioso, questo momento splendido.
Pushkar è un concentrato di luoghi comuni; ci sono i Sadhu, i
Baba, i fricchettoni, i tossici, i mendicanti, quelli con le ciabatte e la
chitarra a tracolla (come l’adesivo sul retro della Renault 4, avete
presente?), un mercato che vende di tutto, dalla bigiotteria al kurta
pijama; ma è innegabile che possieda una dimensione spirituale di
tutto rispetto, e almeno il venti per cento dei santoni, dei Sadhu e
dei Baba che si vedono sono reali.
“Domattina vengo a fare yoga qui” dice Tinto.
“Bello” risponde Skanda “Presto?”
“All’alba sono sul gradino dall’altra parte, almeno guardo il sole
che sorge”
“Quando torni portami un bombolone. Alla crema, mi
raccomando. Se non c’è va bene anche una brioche”
“Mi sa che ti devi accontentare di un dhal”
“Madonna, non ne posso più di dhal, thali e tal dei tali”
“Che dici? Si mangia alla grande!” dice Tinto.
“Si, forse per i primi due o tre giorni, poi è tutto un po’ limitato.
Thali, dhal, samosa. Dhal, thali, samosa. Samosa, thali, dhal”
“A me mi piace questa roba, la mangerei sempre”
155
“A me portami una brioche, poi se ne parla” conclude Skanda.
“Oh, oh guarda! Guarda là, ma che è?” Skanda indica con il dito
un’ombra enorme in cielo che, arrivando da ovest, si dirige verso di
loro per poi fermarsi su grosso albero (stavolta non è un banyan)
proprio alle loro spalle.
“Non lo so, l’ho visto solo per un attimo…oh, ce n’è un altro! E
un altro! Guarda che roba!”
“Madonna, sono pipistrelli!”
“Altro che pipistrelli, questi sono Batman. Pipistrelli!”
“Nooooo, guarda, ne arrivano ancora, ma quanti sono?”
“Zitto, zitto…senti, senti il fischio!” dice Tinto.
Effettivamente, queste enormi ombre che arrivano sparate e si
posano sull’albero, sembrano emettere un rumore quasi come un
lungo fischio, intervallato da un altro rumore, come quello che nei
fumetti di Topolino è reso con “tsk tsk”.
“Sono pipistrelli della frutta, e tra un po’ vedrete quanti ne
arriveranno”
Si voltano e vedono che dietro di loro sta arrivando una
famiglia, evidentemente indiana, con un bambino piccolo che
cammina davanti al padre – che è quello che ha parlato – e una
bambina vestita come un confetto in braccio alla mamma, una
bella indiana con la crocchia di capelli neri e vestita all’occidentale.
“Non fanno niente, vanno sul mango e mangiano i frutti. Poi
tornano indietro o vanno in cerca di un altro albero. A loro piace il
mango, ma si accontentano anche della frutta che avanza dal
mercato”
“Grazie della spiegazione, ci chiedevamo infatti cosa fossero
queste ombre…”
“Bravo! È giusto! In hindi questi pipistrelli si chiamano Chaya,
che vuol dire ombra. Io mi chiamo Anveet, e questa è mia moglie
Sita, e questi i miei figli Vritesh e Gana”
“Piacere Skanda e Tinto, dall’Italia per servirvi”
“Ringrazio della vostra gentilezza e approfitto ancora di voi
chiedendovi se potete fare una foto a me e alla mia famiglia”
“Ci mancherebbe!” risponde Skanda in italiano. Poi, girandosi
verso Tinto, inizia spiegare:
“Ci chiede se possiamo…”
156
“Lo so, ho capito” taglia corto Tinto. “Give me the camera, I’ll
take a photo” dice quindi rivolgendosi ad Anveet.
“Ammazza che anglofono!” lo prende in giro Skanda, poi tira
fuori gli adesivi di Hic Sunt Leones e li porge ai bambini, che
sembrano apprezzare, anche se, dopo averli presi, distolgono
immediatamente lo sguardo e corrono a rintanarsi tra le gambe di
genitori.
“Grazie, che la fortuna sia con voi!” li saluta l’indiano.
“Ciao, buon viaggio!” rispondono i due all’unisono.
“Aaaah” dice Skanda, alzandosi e stirandosi.
“Oh, la schiena” risponde Tinto con le mani sui reni e tutto
arcuato all’indietro.
È tempo di rientrare. La cena, a dire il vero, non è stata un
granché; si sono fatti un paio di panini a un banchetto per strada,
seduti su due sgabellini scomodissimi e assaltati dalle mosche, ma
starsene lì seduti a vedere lo struscio è stato piacevole. La fauna
che popola Pushkar è talmente variegata e multicolore che quello
che passa non è mai uguale a quello che lo segue.
Hanno assistito anche ad un’altra processione, con tanto di
donne in sari color arcobaleno che giravano a braccia aperte come i
Dervisci rotanti e tamburi, tamburelli e compagnia danzante.
Incuriositi, ma non più di tanto, hanno chiesto lumi al “paninaro”
che li stava servendo e, sorprendentemente, questi ha risposto che
“Questa non è una processione religiosa: Queste persone
sfilano perché ci saranno le elezioni e loro sono i sostenitori di X”.
Ovviamente X è il nome del politico che i due non hanno capito, o
hanno già dimenticato.
Guardano incuriositi la folla che balla e canta. Ogni occasione è
buona per girare con i campanellini ai polsi e alle caviglie.
Che strano paese! Ma cosa avranno da far festa, che hanno un
reddito medio pro capite di sette dollari al mese? Mah, meglio far
festa che pensare alla sfiga, evidentemente.
Quindi, dicevamo, i nostri due eroi stanno risalendo il ghat per
tornare sulla via del bazar e andare verso il meritato riposo.
Scansano santoni che vogliono leggere loro la mano, altri che
157
vogliono legar loro ai polsi il braccialettino rosso che significa che
ti sei purificato a Pushkar.
Evitano come quarterback i venditori di fiori da abbandonare
nelle acque del lago; fanno una finta a destra per scartare il
venditore di miele di mango, poi una a sinistra per schivare una
vacca troppo intraprendente, e si ritrovano sulla strada.
Sbucano proprio di fronte a un simpatico signore che sta dietro
a un banco con una gran quantità di frutta meravigliosa: mele
rossissime, manghi profumati, ananas piccoli e banane minuscole,
meloni enormi e mandarini sovradimensionati.
“Mmmmmh, un bel frullato mi rimetterebbe al mondo…” dice
Skanda.
“Buono, davvero”
“Che ne dici?”
“Cosa ti fai frullare? Misto?” Chiede Tinto.
“Mah, io sarei per un bel mango e un paio di banane”
“Perfetto, anche per me!”
“Buon uomo” (in italiano, ovviamente) Chiama Skanda “Two
fruit juices!”
“Al suo servizio, sir, quale frutti vuole?”
Skanda scruta i frutti, se li sceglie e li da al signore, il quale con
un coltellaccio li taglia e li mette in un frullatore di quelli che si
vedono nei film americani. Frulla il tutto fino a ottenere una
schiuma di un invitante colore giallino, poi chiede:
“Sugar?”
“Oh, ce lo vuoi lo zucchero?” chiede Skanda a Tinto.
“Si, per me zucchero, grazie”
“Anche per me, sir”
A questo punto il gioviale fruttivendolo tira fuori da un recesso
del suo banco una bottiglia in vetro da due litri piena a metà di un
liquido lattiginoso, la sciaborda per benino e ne mette una bella
quantità in ciascun bicchiere.
Tinto resta impietrito, e non fa neanche il gesto di prendere il
suo frullato.
“Io non lo bevo neanche morto”
“Ma che dici?” chiede Skanda “Perché?”
“Hai visto che ci ha messo?”
158
“Eh, e allora?”
“Scherzi? Quella roba sarà contaminata anche dal vaiolo. Io
non la bevo”
“Te sei matto, dai qua, la bevo io”
“Mmmmmh, è buonissimo…”
E Skanda si beve i due frullatoni con una soddisfazione
immensa. Sono buonissimi, si sente proprio il sapore della frutta, e
hanno la giusta densità adatta a dissetare ma non a riempire. Sono,
davvero, frullati perfetti.
Con la pancia piena e le papille soddisfatte arriva in hotel, si
connette ad internet grazie alla wifi ultraveloce e se ne sta per un
bel po’ di tempo perduto tra notizie dall’Italia, email della famiglia
e archiviazione delle foto – Tinto ne fa talmente tante che lui ne
prende solo un 20%, ma deve scegliere bene, perché il ragazzo
fotografa bene, e la cernita è difficoltosa.
Tinto è già a letto che sfoglia il libro di Cederna (ma quanto è
lungo?) e lui stasera inizierà un nuovo libro, quindi gli ci vuole la
disposizione d’animo giusta. La lettura si preannuncia tranquilla e
per niente difficoltosa, ma ogni volta che inizia un libro nuovo deve
fare un minimo di training autogeno. Per la cronaca, il libro che si
accinge ad iniziare è La Memoria del Fiume, di Greg Iles.
Saul Williams: Patience, 2011, Columbia
159
I gemelli più brutti del mondo
“Ci sono!” gli urla Skanda chiuso nel casco. Stamani fa freddo,
e lui è vestito quasi come un vero motociclista. È pronto a partire.
Anche se per i loro standard è prestissimo, vogliono lasciare
Pushkar di buonora, perché oggi avranno solo centocinquanta
chilometri da fare per raggiungere Jaipur, la capitale del
Rajasthan. Sono quasi a metà del loro giro, e non vedono l’ora di
essere in città perché domani li aspetta una giornata di riposo;
niente moto, niente Sygic, niente olio da rabboccare o bulloni da
stringere.
Skanda si sente un po’ stanco, e gli sembra di aver mangiato
troppo. Forse la colazione vegana gli è rimasta sullo stomaco, ma
tant’è, siamo in ballo. Pronti…no, Tinto non è ancora pronto.
Consulta il Gps come se fosse una mappa del tesoro. Tinto è sveglio
già da un paio d’ore, perché poi c’è andato davvero a fare yoga sul
ghat e a vedere sorgere il sole. È anche tornato senza brioche, ma
con un bel braccialettino messo dal santone di turno, che, tra
parentesi, gli ha spillato anche trecento rupie.
Ecco, ci siamo. Strada all’inverso rispetto alla volta scorsa.
Miriadi di scimmie che si affacciano sul bordo per vedere chi passa.
Sono più numerose adesso, che è l’alba, rispetto all’andata, nel
primo pomeriggio. Si vede che con tutto quel pelo addosso sentono
il caldo e se ne stanno all’ombra di chissà che. Sono anche belle
intraprendenti, stamani, queste bestie. Saltano, attraversano la
strada, gironzolano con i cuccioli aggrappati sul davanti. Ce ne
sono un milione. Oh, sono tutte l’incarnazione di Hanuman, e tutte
sacre. Anche quella lì che si batte il petto manco fosse un gorilla, e
anche quella là senza un occhio, e anche questa che….
”Oh, ci tira roba!” pensa Skanda “Ma che diavolo ci lancia?”
Ma prosegue spedito e non si lascia distrarre da questi
animaletti grandi poco più di un gatto con la pelliccia chiara e la
coda lunga. Non fosse che le scimmie proprio non le regge,
arriverebbe forse a definirle carine, ma – l’ho detto? – le scimmie
proprio non le regge.
160
Tinto si ferma a fare una foto. Skanda stamani è impaziente, gli
suona e prosegue piegando come Agostini in una curva a sinistra; e
fa male, perché Tinto ha fatto proprio una bella foto, che sarà
anche lo sfondo del loro sito per qualche mese.
Riguadagnano Ajmer, e stavolta la città sembra loro meno
caotica e anche più bella, se possibile. Vedono una moltitudine di
camioncini pieni di gente, tutti dipinti con colori sgargianti e ad
ogni incrocio si accorgono che c’è una specie di portale a cui sono
appese ghirlande di fiori. Ma non erano musulmani? Si,
evidentemente lo sono, perché in giro non c’è neanche una vacca,
in compenso ci sono tantissimi maialini neri piccoli come
cagnolini.
Ajmer è ben presto passata.
Hanno percorso la strada nuova, che in men che non si dica ha
fatto loro bypassare tutta la sabbia che hanno trovato all’andata, e
in neanche un quarto d’ora sono di nuovo sulla National Highway
8, direzione Jaipur.
Ora, è vero che è stanco, è vero che ha dormito poco per una
forte botta di nostalgia, è vero anche che ormai ha compiuto
quarant’anni e i riflessi non sono quelli di una volta, ma infilare
nella corsia sbagliata e bucare l’incrocio come se ci fosse un
semaforo verde non ha scuse.
Sente Tinto che suona il clacson, ma si è accorto da solo di
essere in contromano.
Chissà, forse pensava di essere a Scandicci.
Nessun problema: inversione a U e via di nuovo nella direzione
giusta.
La maggiore difficoltà della guida a sinistra è arrivare agli
incroci e d’istinto guardare prima a sinistra, poi a destra, con il
rischio di non vedere chi arriva. L’altro errore più comune, che in
India avviene di rado per carenza di materia prima, è entrare nelle
rotonde.
Per adesso ne hanno incontrate solo a Delhi, ma entrare in una
rotonda e andare a sinistra sembra quasi un’infrazione, eppure…
Già in Giamaica aveva sperimentato come le rotonde possano
essere infide. Adesso, in India, Skanda pensa che non è poi la fine
161
del mondo, visto che non è l’unico che sta andando contromano.
Anzi, direi che è in buona compagnia.
E poi, diamine, in India il contromano non esiste!
E adesso via, che Jaipur è vicina!
***
Jaipur è una città di quasi quattro milioni di abitanti.
Jaipur è la capitale del coloratissimo stato del Rajasthan.
Jaipur è detta la città rosa, per il colore degli edifici della parte
storica.
Jaipur è un enorme cantiere.
Jaipur è un delirio.
Tutti i suoi quattro milioni di abitanti sono per strada proprio
mentre i nostri eroi tentano di entrare in città.
Tinto ha all’orecchio il fedele Mauro (la voce del Sygic) che gli
dice dove andare, e ostenta sicurezza. Skanda invece è in paranoia.
Sono entrati nella zona abitata già da un quarto d’ora, e ancora
sembra la profonda periferia.
La cosa che poi lo fa davvero sudare freddo è che, al contrario
delle città incontrate finora, a Jaipur ci sono i semafori.
Tanti semafori.
Troppi semafori.
Passano dal verde al rosso in una frazione di secondo, e anche
se c’è il verde, andare libero verso l’incrocio non è consigliabile,
perché quelli che hanno il rosso si fermano solo se costretti,
altrimenti si avvicinano a balzelli e tocca a te scansarli.
In questo bailamme, se perde Tinto può dire addio all’hotel.
Però…però ci sono tanti tuk tuk in giro, e si ricorda il nome
dell’hotel e anche la strada principale.
Ok, niente panico, tutto sotto controllo.
Una vacca gli si infila nel mezzo.
Scarta a destra e tocca due ragazzi in motorino. Già li vede a
terra investiti dalla fiumana di auto e moto in arrivo, ma loro, con
una manovra niente male si raddrizzano immediatamente.
Non fa in tempo a considerare la bravura dei due, che anche lui
deve dimostrare la sua abilità. Sta percorrendo piano piano il
vialone quando, da destra, arriva un turbante in moto che, lungi
162
dal fermarsi, lo impatta proprio all’altezza della valigia in
alluminio. La botta è forte, e Skanda mette subito il piede sinistro a
terra per compensare lo spostamento. Guarda incredulo il
turbante, il quale gli fa un cenno che vuol dire Namastè, hai
guardato, ti sei fermato, ora riparti, che blocchi il traffico.
Skanda è allibito. Al semaforo si accosta a Tinto e gli urla:
“Oh, mi hanno tamponato!”
“E allora?” gli dice quello “ A me mi sono venuti addosso tre
volte”
“Diavolo, se sei shanti” pensa Skanda, ma Tinto è già ripartito,
e lui deve dare gas per non perderlo.
Sotto di loro la strada, sopra di loro una serie di piloni che
serviranno per reggere una sopraelevata. Sono tutti circondati da
telai di bambù, e gli indiani, a torso nudo e per la maggior parte
scalzi, corrono su e giù lungo le pertiche di legno come se fossero
primati.
Si servono di un sistema di carrucole geniale e economico. A
una cima attaccano quelle che sembrano carriole senza ruote,
dall’altra parte, in alto sull’impalcatura, c’è un uomo che, appena la
carriola è fissata, si lascia cadere nel vuoto impugnando la corda.
Come lui scende, la carriola sale, e una volta in cima verrà presa in
consegna dai colleghi di quello che si è buttato di sotto, che – nel
frattempo – si sta di nuovo arrampicando come Cita.
In osservanza alla legge 626 c’è da dire che costui indossa un
bel casco giallo. Peccato che per il resto sia nudo e abbia solo un
paio di calzoncini corti tutti strappati.
Ma non c’è tempo per restare ad ammirare le stranezze della
città. Non c’è tempo per vedere quella donna che, accoccolata, fa i
suoi bisogni al lato della strada, o quell’uomo che, senza gambe,
viaggia su un carrettino con le ruote, simili a quelli che i due
costruivano da bambini e chiamavano “carrettelle”.
La strada reclama tutta l’attenzione del pilota, e anche così è
difficile orientarsi nel caos totale e nella totale mancanza di
indicazioni; i cartelli, quando ci sono, sono in hindi.
Ma, miracolo! Sono in Mi Road, e in una contrada a destra
dovrebbe esserci la via che porta al loro hotel, giusto dietro il
grande hotel Radjani. Purtroppo proprio a cento metri Mi Road
diventa a senso unico, e questo il Sygic lo ignorava.
163
Che fare?
Si va a intuito.
Si gira a sinistra, poi ancora a sinistra, si riprende Mi Road in
senso contrario e si volta a destra verso la piazza con il grande
hotel. La loro guesthouse dovrebbe essere subito dietro, in Motital
Atal Road.
Detto fatto, la manovra riesce perfettamente, anche se ci
vogliono più di dieci minuti per trovare una via che li riporti verso
la strada principale. Adesso sono nella piazza, ma del loro hotel
non c’è traccia.
Si fermano e chiedono a un conducente di tuk tuk
spaparanzato sul suo mezzo, il quale, senza neanche fare finta di
alzarsi, indica vagamente a destra, lungo una stradina sterrata
piena di maialini e immondizia.
Eccolo!
Sfido che non l’avevano visto, ha un’insegna minuscola.
Arrivano e, rombando come a Le Mans, entrano nel parcheggio.
L’hotel è una grande casa a tre piani, di colore – indovinate? –
rosa.
Ha un bel giardino e, a quanto sembra, delle belle terrazze
fiorite e tanti panni stesi.
L’atmosfera è rilassata e tranquilla, e ci sono giovani e meno
giovani con lo zaino sulle spalle. Tutti quelli che passano salutano e
danno un’occhiata alle moto. Chi alza il pollice, chi dice “Bravi!”
Chi dice “Quanto le avete pagate?” Insomma, si crea un capannello
di gente che ha voglia di socializzare. I due motociclisti, anche se
hanno la vescica piena, non riescono a non restare un po’ di tempo
a chiacchierare amabilmente con tutti questi tedeschi (o olandesi, o
australiani, o inglesi). Si sta bene, e poi, oggettivamente, a loro fa
anche piacere essere così al centro dell’attenzione.
La guesthouse, secondo la loro guida preferita, è gestita da due
gemelli, e infatti eccoli là: probabilmente sono i gemelli più brutti
di tutta l’India, ma hanno un gran sorriso e sono molto accoglienti.
Sono vestiti, diciamo così, all’occidentale: hanno un paio di
mocassini senza calzini. Più in su un bel paio di pantaloni in
frescolana o in gabardine, probabilmente la parte inferiore di un
vestito, perché sono gessati grigi e un po’ – giusto un po’ – lisi sulle
164
ginocchia. Entrambi, poi, hanno una polo a maniche corte. Rosa
per quello che non parla inglese e non ha baffi; verde acqua per
quello con i baffi che si esprime in un inglese approssimativo ma
funzionale.
Si sono guadagnati la camera 203! Secondo piano a destra,
dopo le scale e il grande terrazzo.
La reception è la camera da letto della famiglia del gemello con
i baffi, ma tutte le formalità burocratiche vengono espletate
all’aperto, su un banco come quelli di scuola circondato da un
gabbiotto tipo parcheggiatore. La cosa carina è che sulla parete del
gabbiotto sono attaccati una miriade di adesivi di chi è passato e ha
voluto lasciare traccia, e allora, come esimersi da tale tradizione?
Ne attaccano tre di Hic Sunt Leones, uno per parete e poi, più
soddisfatti, slegano i bagagli e salgono verso la camera.
Oggi è giorno di bucato, quindi olio di gomito e andare!
In ogni hotel indiano, data soprattutto la grande
considerazione che la religione riscuote tra il popolo, non manca
mai il necessario per le abluzioni degli eventuali clienti musulmani.
E anche il Karni Niwas non fa eccezione; in bagno c’è un
grande contenitore di plastica con un paio di contenitori più piccoli
dentro.
Mettono i vestiti nel contenitore grande, ci buttano un pezzo di
sapone di Marsiglia, un po’ d’acqua e il gioco è fatto. Mezz’ora di
ammollo, e poi lavaggio simil lavatrice a braccia umane. Poi
risciacquo, centrifuga – si strizzano a mano – e appoggio sui
muretti, sulle ringhiere, sui corrimano, ovunque ci sia un po’ di
posto.
Contemplano soddisfatti il loro operato, quando due ragazzi
che salgono le scale si fermano, danno un’occhiata e dicono:
“È meglio se non li lasciate lì ad asciugare, quei vestiti”
“Perchè?” Chiede Skanda “Oggi non tira neanche vento”
“Non è del vento che dovete avere paura, ma delle scimmie” e
così dicendo continuano a salire le scale.
I due restano lì, un po’ imbambolati, quando dal terrazzo di
sopra vedono una scimmia che si cala velocemente sul loro, di
terrazzo. Ha un cucciolo aggrappato sul davanti, e si ferma, in
equilibrio sul muretto, a guardarli. In neanche dieci secondi ne
165
scende un'altra, e allora i due capiscono improvvisamente quello
che i due ragazzi olandesi (o tedeschi, o australiani, o inglesi)
volevano dire. Le due scimmiette – e il cucciolo – guardano i panni
stesi con un’espressione che precede il furto.
Allora Tinto si rianima improvvisamente, fa un urlo e scaccia le
bestie.
“Forse è meglio se anche stavolta usiamo le pale del
ventilatore” dice.
Raccolgono tutti i vestiti, rientrano in stanza e vedono che dalla
finestra posteriore sta entrando un’altra scimmia. Il problema è
che in camera hanno tutto l’armamentario tecnologico, e si sa, le
scimmie amano rubare occhiali, macchine fotografiche e telefonini.
Urlano come indemoniati e scacciano anche questa simpatica
bestiolina, poi appendono i vestiti ancora umidi alle pale dei
ventilatori – per fortuna ce ne sono due – e li accendono al
minimo. In un’ora i vestiti sono asciutti. Magari non proprio puliti,
ma almeno profumati e senza polvere addosso.
Last Shadow Puppets: The age of understatement, 2008, Domino Rec.
166
Jaipur
Jaipur è davvero grande, e decidono, per andare nella parte
vecchia, di prendere un tuk tuk. Ne fermano uno giallo e nero e
dicono al conducente:
“Hawa Mahal” e via sulla strada!
L’Hawa Mahal è un po’ il simbolo della città; il suo nome,
tradotto alla lettera, vuol dire Palazzo dei Venti. Fu costruito alla
fine del millesettecento dal Maharajah Sawai Pratap Singh e si
trova all’intersezione della via principale della città con la grande
Badi Chopat Square, la piazza da cui si dipartono le quattro
direttrici che portano fuori dalle mura.
La facciata dell’Hawa Mahal si estende per cinque piani ed è
interamente costruita in pietra, mattoni e marmo di varie
gradazioni di rosa. Si dice che all’alba, colpita dai raggi del sole
bassi ed obliqui, brilli di un colore fantastico. Adesso è pomeriggio,
la strada prospiciente il palazzo è intasata di traffico, la
temperatura sfiora i trentotto gradi e tutto intorno c’è un caos
indescrivibile, e il palazzo, purtroppo, non sembra brillare più di
tanto.
Ogni piano ha una fila infinita di piccolissime finestrelle che
guardano sulla strada. Alcune sono in rilievo rispetto alla facciata,
altre sono alloggiate in rientranze. La miriade di finestrelle non
corrisponde, all’interno, ad una miriade di stanzette, ma a corridoi
che si snodano per l’intera lunghezza del piano.
Questo aspetto da formaggio svizzero della facciata ricopriva,
in passato - e ricopre ancora oggi - una doppia funzione: da un lato
la possibilità per le donne, passeggiando lungo i corridoi, di poter
vedere all’esterno senza essere viste; dall’altro la capacità di
sfruttare ogni minima corrente d’aria e convogliarla lungo i
corridoi, le stanze e i giardini interni. Da qui il nome, Palazzo dei
Venti. E i nostri amici scopriranno che l’interno del palazzo è
davvero ventilato, e la temperatura è gradevole. Scopriranno anche
che il modo giusto di vedere l’Hawa Mahal non è dal davanti, che
pure è caratteristico, con la sua facciata bucherellata, ma dal retro,
a cui si accede tramite una bella scalinata, passando da
167
innumerevoli stanze, corridoi, cortili, torrette, fino a salire sulla
sommità e godere di una vista incantevole della città rosa, che,
come Jodhpur è blu e Udaipur bianca, è rosa davvero.
Ed è grande, sconfinata, con i suoi tetti bassi e i larghi viali che
si intravedono fino a che non sono nascosti dalla sopraelevata che
stanno costruendo e il cui scopo non è chiaro.
Qualcuno ha detto ai nostri amici che sarebbe diventata
un’autostrada, altri hanno scommesso sul fatto che tra poco su
quella sopraelevata sarebbe corsa una metropolitana di superficie
come quella di Delhi, altri ancora parlano di treni veloci.
Evidentemente, come da noi, le idee di chi decide non sono mai
chiare e definitive, ma soggette a cambiamenti in corsa.
Affacciandosi verso nord-est si vede il terreno che inizia a salire
in dolci colline, e in lontananza si intravede una muraglia possente
che corre lungo il crinale di un rilievo, arrivando fino in cima.
Lassù, a stento si distingue, nelle onde di calore, la forma
confusa dell’Amber Fort, ma quello fa parte del menù
dell'indomani.
Adesso hanno la città da scoprire.
Fuori del Palazzo dei Venti il caos regna ancora sovrano. Lungo
un enorme quadrato di strade che ha come angolo proprio l’Hawa
Mahal, si sviluppa il bazar di Jaipur, che merita senz’altro una
visita, non fosse altro per la grandezza.
È molto diverso dal bazar di Delhi, perché questo è “ordinato”.
Le strade su cui si sviluppa sono dritte, grandi, e soprattutto
coperte da portici. Quindi sotto i portici, all’ombra, c’è un
incessante via vai di persone che entrano ed escono dai negozi, che
hanno l’entrata principale sotto gli archi, e si sviluppano in
lunghezza dando quasi l’impressione di essere grandi corridoi.
Ogni parte del mercato è dedicata ad un’attività particolare, e
loro, andando a destra dal Palazzo dei Venti, girano l’angolo ed
iniziano l’esplorazione dalla parte dedicata ai calderai.
Lungo questo pezzo di strada vi è tutto ciò che ha a che fare con
alluminio, ferro e rame. Enormi paioli e piccole borracce,
contenitori per autoclave e gavette per la conservazione e il
trasporto del cibo.
168
La fantasia sembra aver preso il sopravvento sulla reale utilità
dei beni in mostra, o forse sono i nostri amici che non capiscono a
cosa possa servire il settanta per cento degli oggetti in vendita. È
una parte molto frequentata del bazar, e, appena fuori dai portici,
giusto per non intralciare il traffico, ci sono altre tipologie di
commercio e di mercato: venditori di Betel, accattoni, chioschi con
biglietti della lotteria e uomini piegati su fornelli che sprigionano
una fiamma viva, con tante persone intorno.
Non si capisce a cosa stiano lavorando, e i due si avvicinano,
allungando il collo curiosi.
Sono suolatori di scarpe!
Il fuoco probabilmente serve ad ammorbidire la gomma che
attaccano poi sotto le suole di calzature che vengono loro porte
dagli stessi clienti.
Tra un mendicante deforme e una donna che vende
braccialettini e catenelle, c'è un barbiere, i cui unici ferri del
mestiere sono uno specchio scheggiato e un rasoio con una
ciotolina d’acqua e, oh, c’è la fila di clienti!
Si fanno fare la barba, poi si guardano nello specchietto che il
barbiere porge loro, si alzano (tutta l'operazione di rasatura si
svolge accoccolati sui talloni) e vanno verso una colonna del
portico, dove, su una mensolina incastrata tra i mattoni, ci sono
bottigliette di gelatina, olio per capelli e profumi.
Questi prodotti sono self service, e ogni cliente si profuma e si
impomata in base agli impegni della giornata o al gusto personale.
Percorrono tutta la via fino in fondo e poi, girando a destra,
entrano nei portici delle spezie. Sono letteralmente aggrediti da un
profumo fortissimo di cannella, cardamomo, peperoncino, origano
e chissà cos'altro.
In enormi sacchi di tela un tripudio di colori.
Dal giallo intenso dello zafferano al rosso saturo dei
peperoncini, passando per un migliaio di erbe sconosciute e da
tanto, tanto curry, di tutti i colori e i gradi di piccantezza.
Insieme alle spezie si vendono quelli che sembrano attrezzi
agricoli e mobili da giardino. Zappe, ombrelloni, rastrelli, panchine
e sedie di plastica. Incerati e tavoli in ferro battuto, e poi - guarda
un po’! - gli attrezzi per riparare i veicoli a motore.
169
Chiavi inglesi, pompe a pedale, camere d’aria, cacciavite, ferri
per cambiare le ruote, cric, regolatori di tensione, candele e
motorini d’avviamento. Una miniera d’oro, per chi sa dove mettere
le mani.
Hanno percorso due delle quattro vie che compongono il bazar,
e Tinto vuole andare all’interno del grande quadrato per vedere
l’osservatorio astronomico e la torre, ma Skanda pensa di mollare
il colpo.
Si sente un po’ strano. Gli sembra che lo stomaco sia contratto
in una pallina minuscola, eppure avrebbe voglia di qualcosa di
caldo (con questa temperatura!).
Quando girano l’angolo e si trovano nella via dove ci sono gli
alimentari e i venditori di cibo di strada Skanda non ce la fa, e
saluta l’amico.
“Io rientro” gli dice.
“Oh, ma stai male?” chiede Tinto.
“No, sono un po’ a pezzi, voglio distendermi sul letto e
crogiolarmi nella malinconia”
“Accidenti che prospettiva!” gli dice Tinto “Io vado a fare un
altro giro”
“Certo, ci mancherebbe, ci vediamo dopo. Che si fa per cena?”
“Ceniamo in hotel?” chiede Tinto.
“Ma non dicevi che mai dovevamo cenare dove dormivamo?”
“Infatti, il nostro hotel non ha il ristorante; ci facciamo portare
la cena dal ristorante sulla strada principale”
“Ah, ok, mi piace. Non ho tanta voglia di uscire, dopo”
“Oh, in gamba, eh, mi raccomando!”
“Sto bene, mi è solo presa una botta di nostalgia”
“Mah, sarà anche nostalgia, ma mi sembri piuttosto verde in
faccia” lo scruta Tinto.
“Macchè verde! Ora vado a far fuori un paio di scimmie e poi
vedrai come torno in forma!”
Si danno un pugno sulla spalla, che sarebbe l’equivalente del
gimme five americano, poi Skanda gira sui tacchi e si mette in
cerca di un tuk tuk. Per un attimo ha la tentazione di prendere un
risciò a pedali, ma poi gli viene in mente che la distanza è davvero
troppa, e arriverebbe dopo un’ora.
Eccolo! Ecco un tuk tuk!
170
“Oh!” urla, sbracciandosi “Qua!”
Perfetto, se ne sono fermati quattro, e, per evitare una
situazione di tensione, sale sul primo della fila e, senza neanche
contrattare il prezzo, dice:
“Karni Niwas, near Mi road!”
Il tassista alza il pollice e parte di gran carriera tra gli
improperi degli altri tre che si vedono sfuggire il cliente.
Scarta un bambino, un cane, una vecchia, sale per tre o quattro
metri sul marciapiede e poi, sgassando, scompare nel traffico.
Tinto a questo punto ne ha abbastanza del mercato, taglia
verso l’interno e si dirige verso l’osservatorio astronomico.
Che tipi questi indiani! Non facevano nulla senza prima
consultare il loro oroscopo, e l’astrologo di corte era potente come
Rasputin. Si intraprendeva una guerra solo con il favore delle
stelle.
Senza parlare poi dei matrimoni, delle cremazioni, delle
battute di caccia e dei banchetti.
Tutto aveva una connotazione astrologica.
La prima cosa che si faceva quando nasceva un bambino a
corte, o tra i pochi abbienti, era compilare la carta del cielo e
scegliere il nome in base alla data, all’ora e al luogo di nascita.
Tra l’altro, le tecniche che usavano settecento anni fa sono più
o meno le stesse che oggi usano gli astrologi moderni.
I Maya guardavano le stelle per stabilire la vita del popolo, e a
ventimila chilometri di distanza i Moghul facevano lo stesso.
L’attrazione che le stelle esercitano sull’uomo è stata ed è la
stessa ad ogni latitudine e in ogni secolo.
L’avvenimento più importante, sia per un popolo che per
l’altro, era l’eclissi di luna, e soprattutto di sole, che sia gli indiani
d’America che gli indiani d’India sapevano prevedere al minuto.
Un grande cancello spalancato introduce alla spianata
dell’osservatorio, che in hindi si chiama Jantar Mantar.
L’osservatorio in sé è costituito da una scalinata stretta e alta che
porta fino ad un piccolo piedistallo. Ha un’altezza di una quindicina
di metri e un’inclinazione di ventisette gradi e in pratica, oltre ad
essere un osservatorio del cielo, è una meridiana che, con la sua
171
ombra, riesce a calcolare l’ora locale con uno scarto di neanche venti
secondi!
Tutto attorno dodici costruzioni slanciate verso le stelle, tutte
diverse, ognuna delle quali rappresenta un segno zodiacale.
Tinto guarda e scatta, e si avvicina impaziente, anche se non ci
crede neanche un po’, alla scultura in marmo che simboleggia il
segno del leone, ovviamente il suo.
Poco più in là, in un bel giardino, sono scavati nel terreno e
rivestiti in marmo due grandi emisferi che sembra abbiano avuto il
compito di riprodurre la mappa del cielo.
Tutto molto bello, ma che caldo!
Si compra una bottiglia di acqua gelata e decide di proseguire il
giro del bazar. Svolta l’angolo ed è accolto dalla zona dell’artigianato
in pelle e cuoio, gestito – ovviamente – dall’enclave musulmana.
Come mette piede sotto il portico è aggredito da decine di venditori
che tentano di affibbiargli chi una borsa, chi una cintura, chi un paio
di sandali, e poi pashmine, ciondoli, tappeti e arazzi.
La differenza tra la zona indù e quella musulmana è enorme. Qui
i commercianti vogliono vendere, e sembra di essere in un suk di
Tunisi, con tanto di offerte di tè alla menta e sigarilli.
Tinto galleggia serafico in tutto quel caos: È intoccabile e
inarrivabile. Cammina con il naso all’insù e la macchina fotografica
stretta in mano, e sembra distratto, ma in verità è ben sveglio e vigile,
e questo modo di apparire un po’ svampito gli evita un sacco di
seccature. I venditori lo abbordano, gli propongono la merce e,
vedendo che lui non accenna reazioni di alcun tipo, né di fastidio né
di interesse, perdono subito ogni slancio e generalmente lo lasciano
perdere.
Girella senza meta per un altro paio d’ore, poi decide che gli
fanno male i piedi e cerca un mezzo che lo riporti in hotel. Non si
ricorda di preciso come si chiama, ma ha memorizzato la Mi Road e il
punto esatto dove farsi portare, quindi non è preoccupato neanche
un po’.
Fischia come un mandriano e un tuk tuk gli si materializza
immediatamente di fronte. Sale, si esprime e si appoggia allo
schienale. Le immagini della città alla fine di una giornata di lavoro
gli scorrono sulle retine senza lasciare apparentemente alcuna
traccia, invece registra avido tutto quello che vede, sente e odora.
172
Non gli sembra vero di essere un’altra volta in India.
Stavolta in moto, addirittura, e con una compagnia decisamente
diversa, ma è contento, e crede davvero nel progetto che condivide
con Skanda e che, giorno dopo giorno, quasi autonomamente,
acquista una sua forma ed un suo perché.
Non ha nessun dubbio che novembre lo vedrà di nuovo su un tuk
tuk come quello, in quella città, a quell’ora.
Questa è la forza di Tinto, ma anche la sua debolezza: il non avere
dubbi; l’assoluta fiducia nel destino e nelle proprie capacità.
Purtroppo talvolta il fato ci mette lo zampino, e i sogni crollano.
E fanno anche molto rumore.
Superheavy: Miracle worker, 2011, A&M
173
Dal diario di Skanda
Ma, un momento…ma che giorno è oggi?
È domenica!
Domenica?
Eh si!
Ecco perché stamani è tutto diverso, tutto più soft, quasi
vivibile…è domenica!
I negozi sono chiusi, il bazar è deserto, e per le strade c’è il
novanta per cento di traffico in meno, il che vuol dire un traffico
paragonabile a quello dell’ora di punta sulla Tangenziale Ovest,
quindi tutto sommato accettabile.
E che dire del PM10, le famigerate polveri sottili?
Quasi assenti, solo un centinaio di volte superiori ai livelli di
allarme europei.
E l’inquinamento acustico?
No, amici, quasi inesistente, un po’ come essere a Malpensa un
lunedì pomeriggio.
Ma a parte tutto, che differenza tra ieri e oggi!
L’inferno si è trasformato. Non proprio in paradiso, ma in
qualcosa di simile al purgatorio; allora usciamo, prendiamo le
moto e andiamo a vedere questo famoso Amber Fort, appena
fuori città!
Usciamo da Jaipur su una strada a due corsie, dopo aver fatto
circa trecento metri in controsenso (ma qui è normale) e
sembriamo John Baker e Frank Poncharello (chi guardava Chips
alzi la mano!).
Il vento si infila sotto i caschi, e la voglia di toglierli è forte,
ma da bravi resistiamo e arriviamo al parcheggio sudati fradici
ma tutto sommato soddisfatti.
Visita al forte, foto di rito e poi, a pranzo!
Dopo di nuovo nella frescura della guesthouse perché io, a
dire il vero, mi sento parecchio accaldato e stanco, con un po’ di
mal di testa e un bel po’ di mal di stomaco, ma c’è da lavorare!
C’è da contattare la redattrice di Motofan, c’è da rispondere
alla mail di Isla Ng Bata per stabilire quando andremo a far
174
visita ai bambini, e non ultima c’è la voglia di farsi una bella
doccia.
Domani ci aspetta una tappa lunga; ben 220 chilometri da
Jaipur ad Agra, con in mezzo Fathepur Sikri e Abhaneri, e sarà
un caldo bollente!
Speriamo bene per questi potenti mezzi che ci scarrozzano in
giro per l’India!
175
Riso al limone e mal di pancia
Skanda è disteso sul letto, accanto a lui Tinto, inginocchiato,
compie strani movimenti con le mani.
In silenzio perfetto, sembra che, a gesti, stia togliendo qualcosa
dal ventre di Skanda, il quale, con un mal di stomaco furente, non
concede tanto credito a quello che l’amico sta facendo. Che, per la
cronaca, è un trattamento di pranoterapia.
È da ieri che lo stomaco di Skanda non è proprio a posto. Oggi,
di ritorno dalla visita all’Amber Fort, si sono fermati a pranzo in un
locale carino dalle parti dell’Hawa Mahal.
Fuori, sul marciapiede, c’è il cuoco, sudato e panzone, che, con
un paio di mestoli in metallo, fa vere e proprie acrobazie con le
cose che sta saltando in una padella grandissima.
Già di per sé il cuoco merita uno stop. Ha indosso una canotta
bianca che adesso è di un colore non ben definito, e, per coprire le
pudenda e le gambe ha solo una sorta di pannolone di stoffa che
tende irrimediabilmente a calare sull’anca destra.
I due lo avvistano da lontano, e fermano le moto proprio di
fronte al ristorante. Oggi è domenica, e c’è posto a volontà lungo la
strada.
Il locale è bello pieno, e riescono a trovare un tavolino solo per
miracolo. È frequentato esclusivamente da famiglie del luogo e da
coppie. Sono tutti in tiro per il giorno festivo, e le donne per la
maggior parte indossano il sari. Sono talmente belle, sia le giovani
che le più attempate, che sembrano tutte nobildonne. Fanno
sfoggio di una gran quantità di orecchini in filigrana d’argento, e
spesso hanno una catenella che unisce l’orecchino al piercing alla
narice. Hanno quasi tutte lo smalto sulle unghie delle mani e dei
piedi, e siedono con un portamento regale che incute quasi
soggezione. Gli uomini sono, come a tutte le latitudini, più
anonimi, e ce n’è qualcuno vestito all’occidentale con completo
giacca e cravatta, e qualcun altro con indosso quei kurta pijama che
devono essere davvero comodi e, a parte tutto, fanno davvero una
bella figura.
176
I bambini stanno, educati come piccoli tedeschi, tutti a tavola,
e conversano placidamente con gli adulti. Sembra impossibile che
un popolo tanto casinaro possa mantenere anche solo per due
minuti un contegno così dignitoso e impassibile, quasi un aplomb
inglese.
Ma invece no, perché la natura dell’indiano è anche questa,
fatta di riflessività, di voce soffusa e di rispetto di alcune regole
che, evidentemente, impongono che al pranzo della domenica si
partecipi standosene buoni buoni.
Anche loro, per la verità, non sfigurano.
Tinto ha un bel paio di pantaloni in tela kaki e una polo nera.
Con quel ciuffo biondo, quella stazza da grizzly e quegli occhiali
sembra quasi il console inglese in visita.
Skanda ha un paio di pantaloni larghissimi e stretti alle caviglie
di un bel colore verde, comprati a Pushkar, e una camicia scozzese
comprata addirittura da Principe a Firenze.
Anche lui, con la barba chiara striata di grigio e i capelli
cortissimi sembra un nordeuropeo, perlomeno finché non si alza,
perché poi verrebbe tradito dalla statura, più da peruviano che da
norvegese.
Hanno una gran fame, e Tinto ordina immediatamente un
thali. Skanda fa per chiedere lo stesso quando si accorge che non
gli va.
Che storia è? Ha fame ma non gli va il cibo.
Mah, ci pensa un po’ su e poi ordina un riso basmati al limone,
che tra l’altro si rivelerà buonissimo.
Mangiano, Tinto con la solita voracità che lo contraddistingue,
e Skanda piluccando solo qualche chicco qua e là, poi si alzano, si
lavano le mani al piccolo lavandino posizionato vicino alla cassa.
Finiscono di pagare e, neanche il tempo di raggiungere le moto,
che Skanda sente qualcosa che non va.
“Oh, facciamo presto, io devo tornare in stanza di volata!”
“Perché, che hai?” chiede Tinto.
“Ho bisogno del gabinetto, e non so se devo cacare o vomitare,
pensa un po!”
“Diobono, ma ti senti male!” esclama Tinto.
“Mah, veramente non mi sento male, ma c’è qualcosa dentro
che deve uscire, e non so se di sopra o di sotto”.
177
Si alza sulle pedanine, poi dà un gran colpo con il piede destro
e la moto risponde con un rombo da B-52. Con uno scatto di reni
butta giù la Royal dal cavalletto centrale, ingrana la prima e parte,
sperando di arrivare in tempo.
Così ora sta subendo il prana di Tinto, dopo che ha vomitato
tre volte. La prima ha espulso tutto il buon riso, la seconda una
gran quantità di liquidi e la terza è stato penosamente abbracciato
al gabinetto scosso solamente dai conati.
“Ho finito, come ti senti?”
Sarà la soggezione, sarà l’effetto placebo, sarà che non ha più
nulla da vomitare, ma sembra effettivamente che vada un po’
meglio.
“Oh, mi sembra di star meglio…Madonna che schifo”
“Hai portato nulla contro il vomito?” chiede Tinto.
“No. Ho portato di tutto, anche il necessario per una
tracheotomia, ma al vomito non c’ho pensato”
“Grande! E ora?”
“Ora vomito, punto e basta. Anzi, mi sembra che ora ci sia
qualcosa che si muove in basso...scusa” e scappa in bagno, ma è un
falso allarme.
The Veils: Lavinia, 2004, Rough Trade
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Amber Fort
Sono le otto, ed è ancora disteso sul letto. Tinto è uscito a cena.
Non si sente male, ma gli sembra di avere un po’ di febbre. È
indeciso se prendere o no un antibiotico, ma per adesso preferisce
vedere come si evolve la situazione.
Decide di dedicarsi ad attività rilassanti. Apre l’iPad e cerca il
nuovo fumetto della Bonelli editrice, una graphic novel su un
assassino milanese dei primi del secolo scorso. Il disegnatore è
bravo, la storia avvincente, e chiude gli occhi proprio una decina di
pagine prima della fine.
Gli occhi si chiudono, fanno pupi pupi, come scriverebbe
Camilleri, ma lui ha ancora la mente piena delle immagini che gli
occhi hanno catturato durante la giornata, che è stata memorabile.
L’Amber Fort si è rivelato davvero bello, e bella la strada per
arrivarci. Sono saliti a piedi per i lunghi tornanti lastricati che
portano sulla cima della collina dove il forte è costruito. Nei giorni
feriali ci sono gli elefanti che portano i visitatori in groppa, ma oggi
è domenica, e anche loro si godono il meritato riposo.
In città ne hanno visti comunque tantissimi, e anche nelle
campagne dei dintorni. Sono tutti dipinti di colori sgargianti, e
coperti di elaborati paramenti, e se vanno placidi, incuranti del
traffico e della gente, guidati dal loro mahout.
Si dice che il mahout guidi un solo elefante per tutta la vita, e
che l’elefante accetti di essere condotto solo dal suo mahout.
Effettivamente sembra che siano animali amati e benvoluti. I
conduttori se li accarezzano e per farsi ubbidire non usano né
frustini né speroni, ma schiocchi e monosillabi a cui l’animale
ubbidisce prontamente.
È anche vero che l'elefante è il sostentamento del mahout, e
probabilmente di tutta la sua famiglia, quindi l’affetto potrebbe
anche essere la giusta manutenzione del mezzo di sopravvivenza,
ma tant’è, sembra che questi animali non se la passino poi tanto
male, e allora…
Allora salgono verso il forte a forza di gambe, e vedono un
comportamento che già altre volte hanno notato, e che non manca
179
mai di farli sorridere. Gli uomini, quando camminano affiancati,
sono soliti tenersi per mano. Questo, da un punto di vista
occidentale, appare ben strano, eppure per gli indiani questo modo
di fare non ha alcuna connotazione…particolare. Anzi, non ha
alcuna connotazione e basta. Si tengono per mano perché lo
vogliono fare.
Stanno quindi sghignazzando come studenti in gita all’indirizzo
dei due ragazzi che salgono davanti di loro, quando questi si
girano.
“Ecco, bella figura di merda!” pensa Skanda.
Ma i due, lungi dal sentirsi offesi, sorridono di rimando e
chiedono se possono fare la strada insieme.
Questa naturalezza, con cui sono soliti gestire anche i rapporti
umani non smette di stupirli, e loro dicono che:
“Si, certo, ci farebbe piacere”
Si presentano e si stringono le mani, ma come i nostri
motociclisti si scordano immediatamente i nomi dei due ragazzi, i
due ragazzi si scordano immediatamente i nomi dei due
motociclisti.
Non importa, parlano, anche se hanno il fiatone, e scoprono
che anche loro sono turisti.
Che strano, quando viaggi all’estero non pensi mai che potresti
trovare viaggiatori all’interno della loro stessa nazione. È un po’
come il tedesco che gira per Piazza della Signoria e non pensa che
in quella stessa piazza ci sono americani, giapponesi, olandesi
e…italiani! Turisti come loro.
I due ragazzi sono di Bangalore, anche se adesso si chiama
Bengaluru, come tengono a precisare. Sono studenti di
informatica, e spiegano che a Bengaluru si può solo essere studenti
di informatica o di medicina, perché questa città, nella parte sud
del paese, capitale dello stato del Karnataka, è considerata la
Silicon Valley indiana. I migliori programmatori di software
vengono da qui, e anche i migliori college di medicina sono tutti in
questa zona.
Dicono che dagli Stati Uniti mandano alle facoltà di medicina
di Bangalore le radiografie da refertare, e oggi, nell’epoca dei
computer che riducono a zero le distanze, è possibile che una
radiografia fatta a Dallas con un macchinario olandese sia letta in
180
India da un immigrato nepalese davanti a un terminale costruito in
Cina.
Mah!
Adesso però si fermano, perché la salita è erta, e tutti e quattro
hanno il fiato corto. Anche i due giovanotti, che sembrano
decisamente più in forma di loro.
È il momento della foto. Fermano un altro impavido scalatore e
gli chiedono se può scattare.
I due indiani si sistemano accanto a Skanda e a Tinto e, con
una naturalezza incredibile, abbracciano i due e sfoderano grandi
sorrisi.
È così che nella prima foto i due italiani sono rigidi come
baccalà, nella seconda sembra che stiano un po’ mollando, e
finalmente nella terza sono tutti abbracciati come se fossero amici
da una vita.
Sono a mezza salita, e guardando di sotto vedono il parcheggio,
e le loro moto, uniche due ruote in mezzo a macchine e pullman.
Poi, sulla destra, un laghetto, e al centro di esso un’isola,
probabilmente artificiale, di un colore verde smeraldo che, in
mezzo all’azzurro dell’acqua e all’ocra della campagna arida, crea
un contrasto meraviglioso.
“Guarda che meraviglia!” indica Skanda.
“Bellissimo, davvero” annuisce Tinto.
Uno dei due ragazzi, allora, indicando un libriccino che ha in
tasca,
ripiegato
come
un
quotidiano,
dice:
“Come dice la mia guida, questo è il giardino del maharajah Man
Singh e, come il forte, risale al settecento. Il giardino è su un’isola
nel mezzo del Maota Lake, e c’è una bellissima leggenda che
racconta come mai, in tanta aridità, un così bel giardino ha potuto
prosperare”
“Va bè, sai che sforzo, è circondato da un lago d’acqua dolce!”
dice Tinto, ma Skanda gli dà una gomitata nelle costole e si rivolge
al ragazzo, che non si è neanche accorto dell’interruzione, anche
perché Tinto ha parlato in italiano.
“Se volete vi racconto la storia, mentre ci riposiamo all’ombra
di quell’albero”
181
“Che meraviglia” dice Skanda “Mi sembra di essere dentro il
Siddharta di Herman Hesse!”
Così si siedono, con le spalle appoggiate al muretto e la testa
all’ombra, e il giovane racconta:
C’erano una volta due amici, grandissimi lavoratori. Uno si
chiamava Hassan, e coltivava un piccolo pezzo di terra, l’altro si
chiamava Khasen, e aveva un gregge di montoni. Un giorno, i
montoni si ammalarono e morirono tutti.
“Non preoccuparti, Khasen” disse Hassan, ti darò un pezzo
della mia terra, almeno lo potrai coltivare insieme a me”
I due amici, così, iniziarono a lavorare fianco a fianco. Un
giorno, mentre dissodava il terreno, la zappa di Khasen urtò
contro un oggetto duro. Era una pentola piena d’oro. Incredulo,
Khasen corse dall’amico.
“Hassan, guarda cosa ho trovato sulla tua terra, ora sei
ricco!”
“È tuo, quell’oro, non mio” rispose Hassan “Io ti ho regalato
quella terra”
Ma Khasen non era d’accordo, e discussero a lungo, finché
decisero di rivolgersi al Baba del villaggio.
Il vecchio ascoltò i due amici, poi chiese ai suoi tre discepoli il
loro parere.
“L’oro va dato al signore del villaggio, il Moghul!” disse il
primo.
“Va subito rimesso sottoterra” disse il secondo.
“Questo oro permetterà di far crescere un giardino nel
deserto, almeno darà ombra alla gente accaldata dal sole!” disse
il terzo discepolo, che si chiamava Alì.
“Ha ragione Alì” concluse il saggio.
Hassan e Khasen pregarono così il giovane di comprare, con
quell’oro, sementi e piante al mercato della vicina città.
Mentre si recava al mercato, Alì si imbatté in un cammello che
trasportava un gran numero di gabbie piene di uccelli male in
arnese.
“Dove porti questi uccelli?” chiese Alì al cammelliere.
“Al mercato, lì mi daranno molto oro in cambio!”
182
“Ti darò io dell’oro” disse Alì in preda alla pena “Ma liberali
subito!”
Il padrone del cammello, preso l’oro, apri le gabbie e i piccoli
uccelli si dispersero nel cielo.
“Povero me, cosa ho fatto, adesso non ho più l’oro e non posso
comprare le sementi!” Pensò Alì dopo che gli uccelli furono volati
via.
E, vedendo il lago, decise di uccidersi gettandocisi dentro.
Mentre stava raggiungendo la riva, un uccello si posò sulla sua
spalla:
“Tu ci hai liberato, buon giovane” disse “ E noi vogliamo
ringraziarti: Qui attorno migliaia dei miei amici hanno già messo
a dimora sementi ed alberi, piante e fiori, guarda tu stesso!”
Alì spalancò gli occhi e scattò in piedi stupefatto: dalla terra,
sull’isola nel lago, stavano già crescendo meravigliose piante e
ben presto sorse un verdissimo giardino.
Arrivarono tutti gli abitanti del villaggio ad ammirarlo e fra
loro c'erano anche Hassan e Khasen, che dissero:
“Non si poteva far più buon uso del nostro oro!”
Ancora oggi fiorisce, là su quell’isoletta, un meraviglioso
giardino.
“Fantastico” dice Skanda.
“Davvero” ribadisce Tinto.
“Se adesso le vostre gambe sono riposate, amici, ricominciamo
a salire, perché la strada è ancora lunga”
E così, tra una foto e una favola, i quattro si avviano per la
ripida salita, e già la porta monumentale del forte si fa loro
incontro.
L’Amber Fort, o Amer Palace, fa parte della municipalità di
Amer, a circa undici chilometri da Jaipur. Non ci sono grandi cose
da dire sul forte, a parte che è una visita piacevole, e quasi
imprescindibile se si è a Jaipur. È, come gli altri forti del
Rajasthan, enorme, massiccio e dall’aria inespugnabile. Costruito
interamente in arenaria e marmo, al suo interno trovano posto
anche una serie di templi, tra cui quello dedicato alla dea Sila Devi,
183
che sembra essere un’incarnazione della dea Kalì, rappresentata
però in maniera più benevola.
Per il resto stessi giardini, porticati, corridoi, cupole, volute,
filigrane. E le stanze del Raja, e le stanze delle mogli, e quelle della
corte, e chi più ne ha più ne metta.
L’opulenza e il fasto che queste enormi strutture trasmettono
danno un’idea di come doveva essere la vita a corte nel corso degli
anni d’oro dell’impero Moghul.
Bello, eh, però che fatica! E che caldo!
Skanda va al piccolo bar e si beve d’un fiato una bottiglietta di
Coca Cola, poi ne compra un’altra e torna fuori, a sorseggiarla sui
gradini del cortile. Tinto invece esce dal bar con un…gelato!
“Nooo, ma come, un gelato in pieno Rajasthan…sei il peggio!”
“Bello lui, che beve Coca Cola come se fosse limonata.”
“A me la Coca mi piace, che ci posso fare?”
“Senti, Coca Cola, ma la fame non la senti? Che ne dici di
tornare a valle e fermarsi a mangiare?”
“Aggiudicato, prima però voglio passare a vedere il Jal Mahal,
il Palazzo del Lago, tanto è di strada”
“Si, l’ho intravisto mentre venivamo qui, è appena fuori Jaipur”
“Andiamo?”
“Andiamo!”
The Whitest Boy Alive: Burning, 2006, Service Records
184
Jal Mahal
A nord-est di Jaipur, proprio vicino alla strada che porta
all’Amber Fort, c’è il Man Sagar Lake, che è un grande lago
artificiale che fungeva, e funge tuttora, da riserva d’acqua per la
città. Data la scarsissima escursione delle sue acque in qualsiasi
stagione, il Maharajah Jai Singh pensò bene, contemporaneamente
all’edificazione dell’Amber Fort, di far costruire un altro palazzo,
questo però all’interno del lago, come residenza ufficiale del
“reggente” di Jaipur.
Tutto intorno alla sponda ovest, in prossimità della strada
principale, è stato costruito un lungolago veramente bello, con una
passeggiata piena di panchine, ombreggiate da cespugli di
frangipane e bouganvilla e frequentatissima dalle famiglie,
soprattutto oggi che è un giorno festivo.
Effettivamente l’ambiente è piacevolissimo, e ricorda in
qualche modo il lungomare di Reggio Calabria. A un centinaio di
metri dalla sponda, poi, sorge maestoso il Palazzo del Lago, di
pianta quadrata, costruito in arenaria rosata e dall’aspetto
massiccio eppure slanciato e quasi leggiadro.
I palazzi costruiti nei laghi fanno parte della cultura dell’India,
e a un indiano non fa né caldo né freddo vedere questa meraviglia
che sembra uscire dalle onde leggere, ma i nostri due amici non
possono non considerare straordinarie queste vedute, che
ricordano un po’ i castelli delle fiabe.
Si sta bene, all’ombra degli alberelli, a osservare scene di vita
reale e quotidiana di persone che vivono nei posti in cui si va per
turismo.
Sembra quasi di entrare in casa d’altri, e non solo di rimirarla
da fuori.
Sono integrati nell’ambiente, e si sentono a loro agio. Spesso
sono salutati con sorrisi e namastè, altrettanto spesso sono
guardati a distanza e additati, tra risatine e timidi sguardi, come se
fossero loro la novità da ammirare – e in effetti lo sono davvero.
Poi Tinto, che in questi giorni sembra avere sempre fame,
spinge per ritornare alle moto.
185
Venditori di palloncini, venditori di croccante, di zucchero
filato e...incredibile! Due ragazzini sullo skateboard e altri due sui
pattini!
Ma dove siamo, in pieno Deserto del Thar o sul lungomare di
Santa Monica?
Bah, la globalizzazione…
Skanda si asciuga una goccia di sudore. Si sente un po’
instabile sulle gambe, ma pensa che sia la fame. E pensa che sia
colpa della fame anche se ogni tanto tutto sembra girargli intorno.
Un attimo prima aveva caldo, adesso un brivido gli corre lungo
la schiena.
“Mi sa che covo qualcosa” mormora a voce bassa.
“Cheee?” chiede Tinto
“Nulla, ho detto che ho fame” minimizza Skanda.
“Bravo, è quello che volevo dire io!” gli risponde il suo amico.
The Cult: She sells sanctuary, 1985, Beggars Banquet
186
38 dentro e 38 fuori
Tinto salda il conto e stringe la mano ai due gemelli. Sono stati
davvero carini, e il Karni Niwas si è rivelata una guesthouse piena
di fascino e personalità. Chi cerca il lusso o le finiture preziose può
andare da un’altra parte, ma chi si vuol immergere nella casa
padronale di una normale famiglia indiana, circondato da tanti
viaggiatori, qui troverà un posto accogliente e simpatico, seppur
spartano.
I gemelli vengono a salutare Skanda, e gli ricordano che
l’aspettano a novembre, ma lui non riesce a dare molta
soddisfazione ai due, perché stamani sta proprio male. Non ha
vomitato, e anche l’intestino si è comportato bene, ma adesso gli
sembra di avere la febbre alta. Il termometro non ce l’ha, perché in
aereo non si può portare, ma ad ogni buon conto si è sparato una
bella Tachipirina, e gli sembra già di iniziare a sudare.
Sfortunatamente è lunedì, e le belle strade libere di ieri sono
solo un ricordo. Uscire da Jaipur si rivela però più facile che
entrarci. Un bel viale a doppia corsia li porta velocemente, dopo
uno slalom tra le vacche, che qui sembrano più numerose, verso la
strada per Agra.
Tra circa cento chilometri cambieranno stato; lasceranno il
Rajasthan ed entreranno nell’Uttar Pradesh, lo stato più popoloso
dell’intera nazione ed il quinto per estensione dell’India.
Skanda guida come in una sorta di sospensione. Ha la
sensazione di essere sdoppiato, e di vedersi mentre a cavallo della
moto guarda fisso la strada di fronte a sé.
Tinto è là davanti, e ogni tanto si accosta e gli chiede come va.
Lui non sa che rispondere, perché non sta neanche tanto male, ha
più la sensazione di fluttuare. È un caldo bestiale e sente le labbra
secche sotto il foulard. Si fermano ad un baracchino per strada e
bevono qualcosa, ma i suoi ricordi sono confusi e accavallati gli uni
agli altri. Gli sembra di ricordare Tinto che dice:
“Fathepur Sikri ce lo vediamo a novembre, e anche Abhaneri,
adesso arriviamo ad Agra, poi ti metto a letto e ti fai un bel sonno,
occhei?”
187
“Mmmmm” gli risponde Skanda.
Corrono per i duecento e passa chilometri per un tempo
indefinito, poi la strada si fa più trafficata, e inizia l’inevitabile
slalom tra carretti, mucche, biciclette, risciò, tuk tuk e suv nuovi
fiammanti: welcome to Agra.
Il tempo scorre diversamente per Skanda, e le priorità
sembrano altre. Non ha ben chiaro come adesso sia seduto fuori da
un hotel, appoggiato al carter bollente della moto. Si sente andare
a fuoco, e gli sembra che questa sia la terza volta che si fermano.
Tinto è dentro, evidentemente a vedere la camera, e lui se ne sta lì,
pacifico come un Sadhu sui ghat di Pushkar.
“Oh, stai a vedere che con la febbre raggiungo il Nirvana, altro
che meditazione!” pensa. È infatti in uno stato tale che la sua
attenzione si ferma sulle cose solo per pochi istanti, i pensieri
fluiscono liberi e passano, senza che riesca ad acchiapparne
neanche un frammento. Bello!
Sono su un viale a doppia corsia, chiaramente ben distanti dal
centro città, e l’hotel che la loro guida preferita indicava come il top
è veramente troppo caro, quindi ne stanno cercando un altro. E
questa ricerca va avanti da un po’.
Gli hotel ad Agra sono di due tipi: stamberghe o di lusso. È
chiaro che il secondo tipo non fa per loro, ma anche la stamberga
non riveste particolare fascino. Tanto più che le stamberghe hanno
prezzi davvero alti. Potere del Taj Mahal!
Vede Tinto che torna, dondolando il casco; scende le scale che
portano alla hall e, stagliato nel calore del primo pomeriggio,
sembra Clint Eastwood.
“Stiamo qui” dice.
“Ok, com’è la stanza?”
“Fa schifo, ma meno schifo delle altre due che ho visto, e il
prezzo non è malvagio. Dai, portiamo le moto nel parcheggio, che
almeno chiudono il cancello, poi andiamo su e ti riprendi una
Tachipirina”
“Si mamma” risponde Skanda.
La stanza non è malaccio, il bagno invece è fatiscente e
antiquato quanto basta. Skanda esce e si precipita al sacchetto
della farmacia. Ladies and gentlemen, è arrivata la diarrea! Che
188
gioia! Ma in fondo non è una cattiva notizia, perché ha capito
subito di aver preso un’infezione batterica (come l’ha capito ve lo
risparmio) e si ingoia un bel Ciproxin, seguito da una bustina di
fermenti e, per sicurezza, da un’altra Tachipirina.
Poi caracolla sul letto e collassa fino alla sera.
Tinto intanto sta girando in moto, per una volta senza bagagli,
per la città. Agra è tentacolare e inquinata, e, inevitabilmente, tutte
le strade portano al Taj Mahal, che però lui non ha intenzione di
vedere, perché lo vuole lasciare a domani, quando spera che
Skanda stia meglio e vada con lui. Ci sono altre cose da vedere ad
Agra, e anche solo il fatto di girellare in moto gli piace.
Va verso il Red Fort, che è patrimonio Unesco, trova
parcheggio, allucchetta ben bene il tutto e se lo visita con calma e
tranquillità. Si dice che la vista migliore sul Taj Mahal si abbia
proprio dalla parte posteriore del Red Fort, e si dirige verso il
dietro e quindi verso il fiume.
Lo Yamuna è bello pieno d’acqua, e a intervalli, si alzano fumi
di fuochi accesi sulla riva. Come il Gange a Varanasi, anche lo
Yamuna è abitato solo su una sponda, la sponda sud, per essere
precisi. Lo sguardo quindi corre libero per centinaia di metri fino
alle silhouette del palazzi che sono costruiti laggiù, lontano
dall’acqua. Sul greto del fiume ci sono donne che lavano, vacche
che passeggiano e cammellieri che conducono le piccole carovane
verso non si sa cosa. Sporgendosi un po’ e guardando a destra,
eccolo!
Il famoso Taj Mahal. Per la precisione si vede la parte
posteriore e un pezzetto della parte laterale di sud ovest, ma la
visione della sua cupola è bellissima lo stesso.
Tinto scatta a raffica, e spera che la foto riesca a rendere quella
luminosità un po’ strana, fatta di calore, fumo e bruma che si alza
dal fiume.
Resta un po’ lì, assorto, con i gomiti sul muretto e lo sguardo
perso sulle anse del fiume.
I suoi pensieri sono leggeri e veloci, ma in profondità vanno più
lenti e si fermano, e lasciano scure cicatrici. Cerca di vivere il
momento, che, come ha imparato a proprie spese, è un espediente
per soffocare i pensieri dolorosi, e quasi ci riesce. Poi si volta e va
189
verso l’uscita. Vuole ancora vedere il Piccolo Taj, e poi vuole
tornare in hotel a vedere se Skanda è ancora vivo.
Peter Murphy: A strange kind of love, 1989, Rebel Records
190
Dal diario di Skanda
La Vendetta di Montezuma. In tutta l’America Latina, e
soprattutto in Messico, si chiama così.
È quando fai lo splendido e cammini tutto occidentale fino a
che non vedi un baracchino pieno di bellissima frutta fresca.
Allora, tra vari “Oooh” e “Aaaah” e “Che sete!” ti dici: Perché no,
un po’ di frutta spremuta non può farmi male.
Ragazzi, avreste dovuto assaggiarlo, quel frullato: mezzo
ananas, un’arancia, un mango e della roba presa da un
bottiglione uscito direttamente dall’inferno.
Era buonissima.
Peccato che dopo ventiquattr’ore c’è stato un non so che, e
dopo trentasei il primo episodio della famigerata dissenteria da
trincea. E questa , insieme alla febbre, non si è fermata per altre
ventiquattr’ore.
Aggiungeteci poi un caldo micidiale, quattro ore di moto,
alberghi con prezzi da Montecarlo e standard da Zimbabwe,
ricerca di wifi, sudore a ettolitri, crampi intestinali, e capirete
perché non è stata una gran giornata.
Ovviamente niente foto, per oggi. Un Hic Sunt Leones piegato
sul gabinetto con la parolaccia a fior di labbra non è edificante né
per chi scrive né per chi legge.
Ciao, a presto…speriamo.
191
Viaggiosofie
“Perché?
Perché si devono spendere dei soldi, perdere del tempo, durare
fatica, cibarsi di cose che non ci piacciono neanche tanto?
Perché stare ore e ore costretto in un sedile di un aereo che non
ti permette neanche di riposare?
Perché andare dall’altra parte del mondo? Che senso ha?
Che cosa vuol dire andare, vedere, respirare, interagire con
luoghi e persone che non rivedrai mai più, che resteranno solo un
ricordo confuso nella mente o un salvaschermo sul Mac?”
Questo pensa Skanda mentre se ne sta affacciato al muretto sul
tetto dell’albergo.
Il sole sta calando e da qualche parte vicino sente risuonare
voci e musica di una festa. Il caldo sembra aver ceduto
leggermente, ma qui, nella vallata dell’Uttar Pradesh, alla
temperatura da forno si è aggiunta anche l’umidità, e il connubio
risulta tremendo.
L’unica pasticca di Ciproxin che finora ha preso ha avuto un
effetto immediato. Non si era sbagliato, era batterica, l’infezione
intestinale. Probabilmente una Salmonella, o un Paratifo o chissà
che, ma adesso, dopo la seconda compressa, le cose vanno
decisamente meglio, e aspetta che Tinto rientri per uscire a cena.
Ha fame, e si è bevuto due litri di acqua in due ore. Ora è
rilassato, e guarda la vita scorrere quattro piani più sotto. Gli
mancherebbe solo una bella sigaretta, ma si affretta a cancellare
dalla mente l’immagine di un bel cicchino fumante, perché adesso,
dopo quasi un anno senza tabacco, l’astinenza è furente come il
primo giorno, e continuare e resistere è solo una questione di
volontà.
“La nostra generazione è piena di gente insoddisfatta.
Del proprio lavoro, della propria linea, della famiglia, della
vita".
Skanda appoggia il mento sul palmo della mano e resta ad
osservare il nulla, cupo e ombroso.
192
Ma cosa succede al nostro eroe? I problemi delle sue viscere lo
fanno parlare con mesto cipiglio? O il caldo lo deprime?
Niente di tutto questo, Skanda è soggetto, talvolta, a momenti
di crisi che gli sembrano talmente profondi da inficiare qualsiasi
cosa di positivo sia presente nella sua quotidianità, ma che
generalmente passano così come sono venuti, veloci e senza
lasciare traccia.
È uno volubile e che cambia idea spesso, il neoquarantenne,
ma si giustifica con il motto di Jean Giradoux solo i pazzi non
cambiano mai idea, perché le loro idee sono fisse.
“Cosa ci faccio qui, a diciottomila chilometri da casa, naufrago
in una terra che non capisco in compagnia di un relitto?
La voglia di partire, di andare, di confrontarsi con gli
imprevisti, la sensazione che dietro ogni angolo si nasconda una
possibilità e una probabilità mi fanno battere forte il cuore. Sogno
di continuo momenti come questi, e ogni volta che poi ci sono
dentro non mi sembrano neanche reali, tanto li ho anticipati,
sognati, analizzati da ogni punto di vista.
Solo quando sono davvero lontano provo un senso di
appartenenza completo; con il luogo, con chi viaggia con me, con
coloro che ho lasciato indietro, con coloro che non ci sono più. La
distanza, la lontananza, quando è temporanea, contribuisce a
smussare, a livellare quegli spigoli che si formano nei rapporti
umani con il passare del tempo.
Il viaggio agisce come una lima: sgrossa, raspa, spiana quegli
angoli, e rimette le cose nella giusta prospettiva. È solo quando sei
in viaggio che non vedi l’ora di tornare, perché hai capito com’era
stupido quell’atteggiamento di arroccamento nelle proprie
posizioni che il tempo crea, e che il viaggio guarisce.
E lo spigolo, l’angolo, la sporgenza molesta non dev’esser per
forza relativa ai tuoi cari, a tua moglie, ai tuoi figli, ai tuoi genitori.
Spesso, anzi, e su questo potrei giurarci, quella sporgenza molesta
riguarda te. Quasi sempre, quella scheggia che ti entra sotto pelle
non riesci a tirarla fuori, perché il cercarla, il trovarla, il prenderla,
fa più male che lasciarla dov’è, anche se poi ti viene un’infezione e
prima o dopo la dovrai affrontare comunque.
193
Il viaggio agisce come lo spillo che tira fuori la scheggia dal
tuo polpastrello dolorante, ed è spillo, ma è anche balsamo, che
lenisce e cicatrizza.
Il viaggio è zen, il viaggio risponde ad alcune domande, ma ne
pone molte altre.
Viaggiare con la persona o le persone a cui vuoi bene ti unisce a
loro.
Viaggiare senza la persona o le persone a cui vuoi bene ti
unisce lo stesso a loro.
Viaggiare è la malattia e la cura.”
Bravo Skanda, ora che ci hai allietato con questo pamphlet
filoviaggiosofico, ci vuoi dire cos’è che davvero ti gira in testa?
“Ho una botta di nostalgia pazzesca” dice Skanda alle luci che
si stanno accendendo.
“E poi, non è che la nostalgia si mitighi con questa roba” scatta
nervoso, e con la mano indica, a nessuno in particolare, questa
roba.
Effettivamente non ha torto. A est rispetto alla sua posizione,
verso il fiume, si vede una parte della cupola del mausoleo più
famoso del mondo, illuminata da una luce neutra e ben posizionata
che fa stagliare il marmo sullo sfondo del cielo quasi nero, con uno
spicchio di luna che si intravede a sinistra della sommità.
È uno spettacolo magnifico e superbo, ma anche dolce e
malinconico, e porta i pensieri in direzioni casuali, ma che tornano
inevitabilmente su domande profonde e talvolta scomode.
“È in momenti come questi che si maturano scelte di cui poi ci
si pentirà” pensa Skanda, e la voglia di fumare una sigaretta
diventa quasi bisogno, e il bisogno quasi nevrosi. Prima che diventi
psicosi urge fare qualcosa, e allora Skanda si avvia verso il frigobar
che capeggia alla sommità delle scale e si apre una Heineken.
“Stasera addirittura di importazione…tiè!” e ne beve un sorso
titanico.
Bad Religion: American Jesus, 1993, Epitaph Records
194
Il Taj
“L’ultima volta che sono stato in moto come passeggero ero alle
superiori” dice Skanda, salendo sulla parte posteriore della sella.
“Era una Honda 125 Nsr di Edo Pini, e stavamo andando a
prendere contatto con gli studenti del Liceo Volta per decidere
l’occupazione”
“Forte” risponde Tinto “Da me non hanno mica occupato”
“Come non hanno occupato? Non è possibile, l’anno della
Pantera hanno occupato tutte le scuole d’Italia”
“Massì, si, certo! La Pantera! No, guarda, io sono stato a casa
un paio di giorni e poi era tutto finito”
“Noooo che delusione! Vuoi dire che non hai fatto la megamanifestazione?”
“No, io ai cortei ci sono sempre andato poco”
“Noi invece stavamo occupando già da un paio di giorni, e io e
il Pini stavamo andando al Volta perché volevamo proporre uno
scambio di rappresentanti. Io dormo da voi e uno dei vostri dorme
da noi”
“Ma perché, siete rimasti anche a dormire a scuola?” Chiede
ancora Tinto.
“Ma scherzi? Certo che si” si inalbera Skanda “C’è chi si è fatto
tutte le notti in giro per gli istituti occupati”
“E te?”
“Io ne ho fatte solo due: una alla mia scuola e una al Liceo
Artistico Firenze 2”
“Ma che facevate?”
“Lascia perdere, che è meglio, portami al Taj Mahal!”
Skanda sta bene – ve n’eravate accorti? – l’antibiotico, i
fermenti e il Paracetamolo hanno stroncato la bestia indiana.
Allopatia 1 – Pranoterapia 0
Ma questo a Tinto non lo dice, perché è sicuro che il suo amico
pensi di aver avuto una qualche utilità nel processo di guarigione.
195
Skanda, invece, che crede in poche cose, crede ancora meno in
quelle che riguardano chakra, dharma e prana.
“È un limite, me ne rendo conto” dice sempre “Ma che ci posso
fare? O ci credi o non ci credi, e io, in questo senso, mi sento un po’
San Tommaso. Portami uno guarito con la pranoterapia e mi
ricrederò immediatamente”
Senza casco, in un pomeriggio di marzo, in giro per Agra, su
una Royal Enfield, diretti verso il Taj Mahal…cosa chiedere di più?
Agra è un dedalo di vie, vicoli e strade, e loro hanno deciso di
entrare al mausoleo dall’ingresso sud, che è quello diretto, cioè si
arriva proprio davanti al "cupolone". Questo in teoria, perché poi
trovare l’ingresso sud non è affatto semplice.
“Oh, ma che è quella roba che vendono per le strade?” Urla
Skanda nel vento relativo.
“Che roba?”
“Quei dischi impilati uno sull’altro. Non le hai viste le pile alte
come un bambino? Ce ne sono ovunque…”
“Ma che sei scemo? Te ne sei accorto ora?”
“Ascolta, enciclopedia Treccani, se me n’ero accorto prima te lo
chiedevo prima. Non fare tanto il sostenuto che non lo sai neanche
te!”
“Io lo so, lo so” fa il misterioso Tinto.
“E allora?”
“È merda di vacca”
“Che?”
“Merda di vacca, il combustibile più diffuso e a buon mercato
dell’Asia. Con uno solo di quelli ci fai un fuoco di tre o quattro ore”
“Non ci posso credere…Ecco che cosa bruciano nel deserto”
“Bravo!”
“Ecco cosa bruciano in quei recipienti di metallo…”
“Bravo!”
“Ecco con che cosa ce lo preparano il chai…”
“Bravo!”
“Scusa, non vorrei sembrare pedante, ma a te non fa schifo?”
“Macchè schifo, è una risorsa usata da secoli in tutta l’Asia. È
ecologica, sostenibile e alla portata di tutti, dal bramino al dalit”
“Oddio, ora che ci penso…”
196
Ma Skanda non è proprio convinto, anche se poi, parlandone,
gli sembra sempre meno scandaloso e sempre più ingegnoso.
Entrano in un vicolo pieno di buche, e dopo una gimcana
escono in una piazzetta con un sacco di banchi di cianfrusaglie. Lì
devono lasciare la moto, perché la via è transennata. Bene, vuol
dire che sono sulla strada giusta.
Scendono e allucchettano il mezzo ad una conduttura
dell’acqua, poi Tinto saggia la resistenza del tubo e, trovandola di
giusto grado, si alza e si avvicina a Skanda che sta già andando
verso la transenna.
In un lampo sono circondati da una torma di bambini che,
come tutti i bambini dei paesi in via di sviluppo, sanno
parlucchiare in venti lingue e ne sanno capire altrettante.
“Italia? Amigo, Sonia Gandhi” gli si fa sotto il più
intraprendente.
“No, no” gli risponde Skanda.
“España, Portugal?” insiste questo; evidentemente ha
riconosciuto la musicalità e sta tirando a indovinare, ma Skanda se
lo vuole levare di torno e ha pronto il suo trucchetto.
“No, no, no Espagna, no Portugal, no Italia”
“Which nation, sir?” insiste il ragazzino.
“We’re from Uruguay; do you know Uruguay?”
Improvvisamente cala il silenzio.
Il trucchetto è riuscito ancora.
Dire Uruguay spiazza totalmente qualsiasi scocciatore, perché
senz’altro ha sentito nominare questo paese, ma non lo inquadra;
non capisce dove possa essere, se in Africa, in America, oppure in
Europa.
Questi attimi di stand by, in cui i ragazzini tentano di capire in
che lingua approcciarsi, dà ai nostri eroi il tempo di svicolare e
arrivare alla biglietteria.
Ovviamente alla transenna i ragazzini vengono respinti da
poliziotti privati che sono lì apposta, e i modi che usano non sono
proprio da college inglese, ma i mocciosi non se la prendono più di
tanto; questo è un gioco che entrambe le parti conoscono bene, e
ognuno rispetta le regole. Infatti i ragazzini se ne tornano a caccia
197
di altri turisti, e le guardie ritrovano la loro espressione impassibile
e leggermente divertita.
“Oh, c’è il metal detector!” dice Tinto.
“Oddio, no! Ho il coltellino nel marsupio!” Skanda si guarda
intorno, memore del fatto che tanto tempo prima un coltellino è
rimasto all’aeroporto di Londra Gatwick, per una svista simile.
Ma - don’t panic!– siamo in India, e il metal detector riveste
più una funzione estetica che una funzione preventiva. Infatti è
fermo, probabilmente non funziona da chissà quanto tempo.
I neuroni del bigliettaio, però, funzionano alla grande, e con la
scusa che non ha moneta per fare il resto, si intasca cento rupie
come niente.
“Madonna, i biglietti del Taj Mahal” sospira Skanda guardando
i tagliandini di carta “Almeno ci fosse Lara” ma questo lo pensa
solamente; invece dà una pacca sulla spalla a Tinto e gli dice:
“Oooh, siamo al Taj Mahal, ci credi?”
Ma Tinto ci crede anche troppo, e il suo pensiero è lo stesso di
Skanda, e la mente lo riporta a quando ha visto il Taj Mahal, e l’ha
visto con Lei, in tempi in cui tutto era dritto e pianeggiante, e la
vita non era in salita e piena di curve cieche come adesso.
Un muro, altissimo, e una porta di legno, bassissima.
Questo è l’ingresso.
Skanda si piega – addirittura! – e oltrepassa la porticina.
D’improvviso non è più nel ventunesimo secolo, ma torna
indietro di quattrocento anni.
Le mura tengono fuori la città di Agra, e all’interno c’è un’oasi.
Di pace, di luce, di tranquillità.
Laggiù, alla fine dei giardini e della lunga vasca d’acqua, si
staglia contro il cielo il Taj Mahal.
I raggi del sole che sta tramontando colpiscono la cupola da
sinistra, e sembra che il marmo bianco acquisti tutta una serie di
sfaccettature di colore che vanno dal rosa al senape. L’ombra degli
pseudo-minareti colpisce la facciata e crea un disegno complicato
di chiaroscuri che sembrano rincorrere le scritte in arabo antico
che si alzano da terra verso la sommità in una striscia continua, e
quasi invisibile, perché scolpita lungo tutta la facciata.
198
“Tagore, nel modo un po’ melodrammatico che caratterizza
tutta la sua scrittura, definisce il Taj Mahal una lacrima sulla
guancia del tempo. È un po’ sopra le righe, d’accordo, ma almeno
ha provato a descriverlo” pensa Skanda “Io non riesco a mettere
insieme due parole per dare una definizione di quest’opera”
Il Taj Mahal è una struttura complessa. È interamente
costruita in marmo bianco, e il corpo centrale, con la sua
caratteristica cupola, è circondato da quattro minareti, che però
non hanno alcuna funzione riguardante l'Islam. Piace ricordarlo,
ma questa meraviglia, il cui nome tradotto significa Palazzo della
Corona, non ha alcuna valenza o connotazione religiosa. Fu fatto
costruire dall’imperatore Shah Jahan in memoria della moglie,
morta dando alla luce il sedicesimo figlio.
“Scusa” dice Tinto “Ma se a questa moglie le voleva così bene,
invece di costruirle una tomba, non poteva fare in modo di non
metterla più incinta?”
“Dai, levi tuta la poesia a questa meraviglia. Che, ti voglio
ricordare, è una delle sette meraviglie del mondo moderno, nonché
patrimonio dell’Unesco”
Tinto ha effettivamente ragione, ma questi sono discorsi oziosi,
e noi adesso siamo qui per osservare, con gli occhi dei nostri eroi, il
Palazzo della Corona.
L’imperatore dilapidò una tale considerevole parte del tesoro
della corona che il figlio, fattolo passare per pazzo, lo fece
rinchiudere fino alla morte nel Red Fort, e ne prese il trono. La
condanna del pover’uomo fu che dalla finestra della sua cella poté
vedere, fino alla fine dei suoi giorni, l’opera che aveva fatto
innalzare, ma non poté mai più toccarla.
E fu un bene – per il figlio, ovviamente; certamente non per
l’umanità – perché l’imperatore aveva in mente di dilapidare
ulteriormente le ricchezze del regno per far costruire, esattamente
al di là del fiume Yamuna, davanti al Taj Mahal, un altro Taj
Mahal, identico al primo, interamente costruito in marmo nero.
Quella sarebbe stata la sua tomba.
Per l’eternità vicini, l’uno nero, l’altra bianca.
Ve lo immaginate che cosa sarebbe potuto essere? Una cosa da
togliere il fiato.
199
Speriamo almeno che il figlio traditore non si sia goduto
neanche una rupia del patrimonio rubato al padre!
I due si avvicinano all’entrata, che è situata sopra un enorme
basamento, a cui si accede salendo due rampe di scale
monumentali. Non c’è neanche tanta gente, perché il mausoleo
chiude presto, e su tutte le guide c’è scritto che è l’alba il momento
migliore per la visita, perché i colori sono ancora più vividi. Meglio
così, vuol dire che staranno più larghi.
Alla base della scalinata si lasciano le scarpe insieme alle altre
migliaia – ritrovarle poi non sarà così semplice – e si inizia l’ascesa
verso quel miraggio bianco.
L’interno è composto solo da una piccola stanza rotonda in
penombra dove c’è la tomba dell’amata, quindi lascia un po’ il
tempo che trova, e anche essere così vicini al monumento fa
perdere la prospettiva che si ha avvicinandovisi lentamente, quindi
i due ridiscendono e si godono ancora quello spettacolo da lontano,
in modo che la maestosità dell’insieme li colpisca come li ha colpiti
entrando.
Alla fine, con i sensi saturi e la mente che non riesce più ad
incamerare altre sensazioni, decidono di sedersi per qualche
minuto e poi tornare al caos che regna fuori da questo eden.
Escono dalla porticina da dove sono entrati, restano quasi
delusi dal fatto che non ci sia più nessun ragazzino impertinente a
sbarrare la strada, e decidono per una birra in cima a un palazzo di
fronte all’ingresso, sperando che la salita sia ricompensata dalla
vista della cupola. E infatti è così, e, sorseggiando l’ennesima
Kingfisher, se ne stanno là a contemplare la cupola, i minareti, le
nuvole e la vita che continua a scorrere a livello della strada.
“Scusi…due pakora!” chiama Tinto.
“Ok sir” risponde il ragazzo che arriva dal piano di sotto con un
vassoio di birre per un tavolo poco distante.
“L’hai mai assaggiato il pakora?” chiede Tinto.
“No, che cos’è?”
“È una leccornia. Pezzetti di cavolo, melanzane, peperoni,
zucchine, patate, e qualsiasi altro vegetale ti viene in mente,
200
immerso in una pastella fatta con farina di ceci, di lenticchie e
curry e fritto in olio di palma…sentirai che roba!”
Dopo solo un quarto d’ora arriva un vassoio pieno di pezzetti
dorati fumanti, e una ciotolina con una salsa bianca.
“Signori e signore…ecco i pakora!” dice Tinto, e subito,
infischiandosene della temperatura da vulcano, inghiotte un
boccone.
“Mmmm buonissimi” dice Skanda “Guarda, dopo il chai, che è
stata la rivelazione del viaggio, questi sono la cosa più buona che
ho assaggiato”
“Da oggi in poi, pasteggeremo a chai e pakora” ride Tinto.
È già buio, la temperatura si è abbassata, sono alla seconda
Kingfisher e si sta bene, lassù.
Agra non è poi tanto male, anche se viene descritta come
l’inferno. Tutto sommato l’inferno è peggio, e dopo le strade di
Jaipur pensano di non temere più niente.
Chiaramente si sbagliano, anche stavolta, ma questa è un’altra
storia.
(Hed) P.E.: Tired of sleep (T.O.S.), 1997, Jive
201
Kharre
“E quindi, che strada abbiamo deciso di fare?”
“Mah, io andrei verso sud, direzione Gwalior e Jansi”
“Altrimenti?”
“Altrimenti a est e poi a sud, e la raggiungiamo da sopra”
“Il Sygic che dice?”
“Dice che il chilometraggio è più o meno lo stesso, circa 400
chilometri…”
“Quanti?”
“Quattrocento. Oh, lo sapevamo che questa e la prossima
sarebbero state tappe lunghe…”
“Ma ce la facciamo?”
“Boh, proprio per questo io vorrei andare verso Gwalior e Jansi,
che tra l’altro dovrebbero essere due cittadine niente male; se la
strada fosse davvero troppo lunga ci fermiamo e dormiamo in una
delle due”
“Ok, mi sembra un buon piano, quindi, colazione, benzina e
via…”
“Yessss” conclude Tinto, mentre già si avvia verso la hall per la
colazione.
Ieri sera hanno cenato tardi al ristorante dell’hotel, e hanno
trovato un ambiente carino e pieno – davvero pieno! – di camerieri
e cuochi affabili. Sarà perché erano gli unici ospiti, sarà perché il
personale di servizio era numeroso dieci volte più di loro, ma
hanno passato una serata piacevole e tranquilla, perdendo
felicemente tempo in chiacchiere con più di uno degli uomini –
stavolta niente giovani, ma signori di una certa età – che servono ai
tavoli.
L’ambiente è grande, i tavoli numerosi; su ogni tavolo capeggia
un grosso ventilatore che rischia di portar via i tovaglioli e anche la
tovaglia. La grande sala da pranzo è dipinta sui toni del bordeaux e
vi regna una piacevole penombra. I camerieri sono tutti vestiti
uguali, con pantaloni neri, camicia bianca e gilet bordeaux come le
202
pareti. Si muovono con passi calmi e felpati e arrivano di soppiatto,
silenziosi come giaguari, alle spalle degli ignari clienti, che il più
delle volte sobbalzano e poi sorridono, imbarazzati,
Detto così potrebbe sembrare un locale di un certo tono,
addirittura pretenzioso. Il problema è che i camerieri, per lo più,
indossano ciabatte da piscina e un paio sono scalzi. Le camicie
bianche sono macchiate da tutte le parti. Ogni macchia è parte di
un complesso disegno che varia intensità e colore a seconda di
quante volte la camicia è stata lavata. Gli angoli del locale
nascondono – o meglio, ostentano – bellissime ragnatele e il
pavimento non brilla per pulizia ed igiene.
È comunque un posto rilassante, e i due ordinano un paio di
porzioni di riso biryani e Tinto prende anche uno spezzatino di non
si sa bene che animale condito con una densa salsa di colore rosso
acceso che non sembra pomodoro: assomiglia più che altro al
colore del fuoco dell’inferno. Invece, strano a dirsi, lo stufato è
buonissimo, e non picca neanche più di tanto. I bocconi sono
talvolta un po’ grassi, ma non importa. Piuttosto, il riso sembra
preso direttamente dalla fucina di Zeus; ha un livello di piccantezza
talmente elevato che, visto che le papille avvertono in ritardo il
piccante, quando questo si manifesta ha il potere di lasciare
intorpidita bocca, naso, gola e esofago.
Alla fine del pasto ordinano un the nero per uno, che viene loro
consegnato da ben tre camerieri. Due di questi se ne vanno; il terzo
continua ad aggirarsi vicino al tavolo con aria curiosa, e, quando
Skanda e Tinto lo invitano a sedersi, muove la testa e le mani
facendo “No, no, grazie”, ma di fatto si sta già sedendo.
Gli offrono un the, che rifiuta. Allora mettono nel mezzo del
tavolo la ciotolina con i cristalli di zucchero ed i semi di anice – vi
ricordate? Ne avevamo già parlato – e questi sembrano venire
apprezzati maggiormente del the.
Le domande di rito sono più o meno le stesse, ma con il passare
dei minuti il simpatico cameriere, che si chiama Kharre, si fa più
audace, e da domande tutto sommato neutre, come Da dove venite
e Come ti chiami, passa ad argomenti più personali.
“Avete moglie?” chiede, guardando Skanda.
“Si, e due figlie” risponde questi.
“E tu?” chiede anche a Tinto.
203
“No, io non sono sposato” risponde
“Come mai?” chiede Kharre
“Perché sto bene così”
“E non ti senti solo?”
“Qualche volta, ma potrei sentirmi solo anche se fossi sposato”
“Guadagnate tanti dollari?”
“No, veramente guadagnamo poco, e non dollari, ma Euro. In
Italia ci sono gli Euro”
“Anche a Parigi ci sono gli Euro” chiarisce Kharre.
“Si, anche a Parigi”
“A Londra, invece, ci sono le Sterline, e c’è anche la Victoria
Station” insiste.
“Si, anche la Victoria Station” Risponde Skanda, mentre guarda
Tinto come per dire “Questo è matto”
“Anche da dove vengo io c’è la Victoria Station” dice invece il
cameriere.
“E da dove vieni, scusa?” gli chiede Tinto.
“Io vengo da Mumbai, che prima era Bombay, ma adesso si
chiama Mumbai. È la capitale dello stato del Maharashtra e la città
più importante dell’India”
“Aaah, Mumbai” dice Skanda “Com’è Mumbai, bella?”
“No, sir, Mumbai è brutta, ci sono criminali e spacciatori di
droga, ci sono i bambini degli slum, che sono pericolosi, e ci sono i
ricchi che fanno gli attori. Però c’è il mare, che è bellissimo, e c’è
l’isola di Elephanta, che è bellissima, anche”
“Ci piacerebbe andare a Mumbai, forse la prossima volta” dice
Tinto.
“Tanti europei a Mumbai, tutti gentili” dice Kharre.
“Eh, bello. Ci piacerebbe vedere anche Hanpi, e Pune, Ajanta, e
Ellora”
“Tutti posti molto belli, sir” continua Kharre. “ma voi dove
state andando?”
“Andiamo a Varanasi” dice Tinto, e già gli brillano gli occhi
“Varanasi?” dice Kharre “Voi lo sapete che si chiamava Benares,
prima? Adesso, come Mumbai, ha cambiato nome, e si chiama
come gli misero nome gli antichi”
“Un sacco di città in India hanno cambiato nome. Ci hanno
detto che anche Bangalore…”
204
“Bengaluru, sir. Ora si chiama così. E Madras adesso si chiama
Chennai.
"Pondicherry, però, ancora si chiama Pondicherry, come la
chiamarono i francesi" dice Tinto.
"No, sir, anche quella ha cambiato nome, e adesso di chiama
Puducherry" lo corregge Kharre.
“Che spettacolo!” dice Tinto “Bisognerebbe starci un anno, in
giro per l’India, e anche allora avremmo si e no un’idea minuscola
di come questo paese sia in realtà”
“Tutta la vita potete restare, sir, e ancora non capireste. Anche
gli Indiani non capiscono” ride Kharre “Sono vostre le moto
Enfield?” chiede poi.
“Si, viaggiamo con quelle”
“Perché?”
“Perché ci piace muoverci in motocicletta e anche perchè…”
“No, sir, perché viaggiate?”
“Come, perché?” chiede Tinto, che pensa di non aver capito la
domanda
“Perché andate in giro, sir, cosa cercate?”
“Non cerchiamo niente, vogliamo vedere cose nuove, gente
nuova, culture diverse…”
“Noi indiani viaggiamo. Ci muoviamo all’interno della grande
India, e tanti vanno a lavorare a Dubai, in Qatar, in Inghilterra,
anche in Cina, ora. Noi viaggiamo, ma vorremmo solo stare a casa.
Mumbai, per esempio, è brutta, ma io vorrei stare là”
“Io invece in Italia non ci vorrei proprio stare, e se potessi
passerei tutta la vita sulla strada” dice Tinto
“Sir, la strada sei tu” dice Kharre, e poi distoglie lo sguardo, e
resta imbambolato a fissare un tavolo vuoto per qualche secondo.
“Io pregherò Ganesh perché vi faccia vedere tutte le cose che
volete vedere, ma soprattutto pregherò Shiva perché non
desideriate più vedere tutte le cose che vedete” e con questa frase,
che probabilmente è stata tradotta male dai nostri motociclisti,
colpa della pronuncia strascicata del cameriere, Kharre si alza e
torna dal resto della squadra, che sembra aspettarlo e lo accoglie
come se avesse battuto un rigore vincente.
Non hanno capito l’inglese di Kharre, perché la frase, tradotta
così, non ha proprio senso.
205
O no?
Rage Against The Machine: Bullet in the head, 1992, Epic Records
206
Dal diario di Skanda
Agra / Khajuraho
Tappa di trasferimento, quest’oggi…
Che dire, un incubo…
Quattrocento chilometri, dieci ore in sella…
La strada, un inferno.
Il traffico, indiavolato.
Il caldo, Satana in persona.
Ma noi teniamo duro.
Anche se quando ci soffiamo il naso esce ghiaia.
Anche se quando ci laviamo, l’acqua reflua è radioattiva.
Anche se quando facciamo il bucato, sembra di lavare pezzi di
asfalto.
Anche se quando scendiamo di sella tutti i muscoli urlano.
Noi teniamo duro.
207
Polvere
Hanno appena passato Gwalior, che si è rivelato un buco
informe in una pianura trafficata e densamente, molto densamente
popolata.
Sul lato della strada, i pochi ciuffi d’erba sono tutti impolverati,
come le piante che stanno ai lati delle strade sterrate da noi in
piena estate.
A dire il vero anche nell’aria sembrano galleggiare particelle
finissime di polvere, come se fossero nel deserto e si preparasse
una tempesta di sabbia.
Ma non tira vento, e soprattutto non sono nel deserto, non più;
anzi, adesso, in piena valle dell’Indo, una folta vegetazione ha
sostituito le tamerici stente e le acacie. Così come gli elefanti hanno
sostituito i cammelli, e non è raro incontrarne qualcuno per strada.
Strada che continua ad essere percorsa da camion enormi, da
minivan stracarichi di persone e da pullman come quelli delle foto,
cioè con tutta la gente appesa ai finestrini e assiepata sul tetto,
insieme ai bagagli e alle stie con il pollame. Ogni tanto incrociano
trattori e camioncini che trasportano qualcosa con un volume
doppio o addirittura triplo rispetto alla loro larghezza. Talmente
ampio che talvolta occupano tutta la carreggiata. Probabilmente
foraggio, o frumento, o comunque erba fresca, tenuta insieme da
un telo enorme, tipo telone del circo. Vederne un paio è già uno
spettacolo di per sé; vederne una fila intera è stupefacente, e
fotografare questi bestioni da dietro è fantastico.
Un incrocio. Devono andare a destra, anche perché a sinistra la
strada è sterrata. Al lato della corsia di sinistra, rivolto verso la
direzione che anche loro stanno per prendere, c'è un qualcosa che
assomiglia a un dinosauro morto.
È uno degli enormi camion, quelli che i nostri eroi hanno
ribattezzato Oh Dio Mio!, che, probabilmente prendendo la curva
troppo velocemente, si è ribaltato sul fianco, e ora giace lì, con le
ruote puntate verso le moto e la parte inferiore tutta all’aria. Via
via che si avvicinano distinguono la marmitta, gli enormi
ammortizzatori, le condutture e gli ugelli dell’acqua che servono
208
per raffreddare i freni nelle lunghe discese, e piccoli e grandi
serbatoi, tubi neri il cui scopo resta ignoto e le grandi ruote, che
sembrano chiedere aiuto a chi arriva.
I due amici rallentano, anche perché sembra che il camion sia
ridotto piuttosto male, ma si tranquillizzano subito quando vedono
due uomini, forse i camionisti che, al lato del bestione appoggiato
sull’erba, li accolgono con un sorriso e grandi saluti.
Sono fatalisti, loro. Hanno cappottato, e ora aspettano placidi
che arrivino i soccorsi, o che per lo meno uno delle migliaia di dei
mandi loro un aiuto dal cielo o da dove usano risiedere.
L’occasione è ghiotta, e Tinto si ferma e scatta una foto.
Una pianura verde, un camion ribaltato e un uomo in piedi che
guarda con occhi rassegnati l’orizzonte, mentre un altro è seduto
sui talloni e guarda il muso del bestione. Una foto bellissima.
Ma adesso il verde sembra sostituito da questa finissima
polvere bianca che impedisce di avere una visuale superiore ai
cinquanta metri. Ai lati della strada vedono cani impolverati e
vacche che mangiano quelle piante tutte bianche; poi iniziano a
vedere figure bipedi che, fazzoletto sulla bocca, sono intente alle
incombenze quotidiane. Vanno in motorino, costruiscono
qualcosa, vendono frutta, stanno sedute in cerchio.
Ma…è un paese!
Ma che cos’è ‘sta roba tremenda?
È successo qualcosa? Un disastro tipo Bhopal?
Eppure tutti, seppur impolverati e con le bocche e i nasi
coperti, sembrano estremamente tranquilli.
Intanto le moto continuano la loro corsa a bassa, bassissima
velocità. Skanda è tentato di fermarsi, ma Tinto, che sembra aver
capito, gli fa cenno di proseguire; muove la mano sinistra
indicando la strada. Skanda annuisce, ma con la mano fa cenno che
ha bisogno di mettere benzina, allora Tinto gli si avvicina, si alza il
casco e gli urla:
“Leviamoci da quest’inferno!” e inizia a tossire.
Skanda è allibito, non capisce davvero che cosa possa essere
successo: forse un’esplosione, forse una frana, un asteroide,
un’astronave…qualcosa che giustifichi
questa situazione
allucinante.
Poi capiscono, perché ci passano davanti.
209
È un cementificio.
A cielo aperto.
Con una fila di camion che, in retromarcia, si sistemano a
turno sotto una specie di grande imbuto e ricevono una cascata di
cemento direttamente nei cassoni. La quantità di cemento che
cade, che va perduta o che diventa preda delle correnti d’aria è pari
a quella che riesce a stare sui cassoni dei camion.
Quando poi i camion partono, ovviamente senza neanche un
telo che tenga la povere al proprio posto, questa vola in ogni
direzione.
La polvere tossica si alza proprio da là, da quell’imbuto che
sembra uscito direttamente dalla fantasia di Miyazaki, e ricopre
tutto, rendendo il luogo malsano e sterile per chilometri e
chilometri.
Skanda scuote la testa. Non è neanche arrabbiato; solo
disgustato e disilluso. Non potrà mai capire questo popolo, questo
miliardo di esseri umani che vive come se non ci fosse domani e
prega come se avesse tutto il tempo del mondo.
Gli indiani, così orgogliosi del loro paese, non fanno caso alla
devastazione ambientale che lo caratterizza. Forti dell’illusione di
abitare in un paese senza confini, credono che la natura sia
inesauribile. È però innegabile che agli occhi di un occidentale, per
di più attento alle dinamiche sociali e alla sostenibilità ambientale,
questo modo di fare appaia assurdo. Skanda fatica molto di più ad
accettare lo scempio che ha appena visto che le migliaia di dei della
religione indù; così come fatica di più ad accettare il sistema delle
caste piuttosto che il sadhu che decide di stare per dodici anni con
il braccio sinistro alzato sopra la testa.
Per fortuna i chilometri scorrono, e ormai la polvere bianca è
alle loro spalle. Adesso, ai lati della strada, sperduti spesso in
mezzo ad un paesaggio bucolico, vedono una serie di college e
scuole superiori, enormi strutture recintate e con un design
decisamente moderno. La maggior parte sono Engineering
Colleges, e evidentemente sono frequentati, perché i parcheggi
sono pieni di biciclette e motorini, e all’esterno dei cancelli
aspettano pullman e minivan.
Ovunque cartelloni che pubblicizzano insediamenti urbani in
costruzione, e effettivamente, lontano, sulla destra, si intravedono
210
file di villette a schiera che assomigliano anche troppo a quelle che
deturpano le nostre colline.
Si stanno avvicinando a Jansi, e si fermano ad un chiosco per
comprare un po’ di banane, qualche mandarino e un paio di quegli
ananas in miniatura che sono buonissimi. Sono contenti, perché
stanno rispettando la tabella di marcia,e decidono di non pranzare,
ma di mangiare quel po’ di frutta e proseguire, per cercare di
arrivare a Khajuraho ad un’ora decente,
Rimontano in sella, fanno pochi chilometri e si fermano di
nuovo, stavolta per fare il pieno. La benzina è cara, in India. Un
litro costa circa di ottanta centesimi di euro. Per loro è pochissimo,
e infatti stanno spendendo molto meno di quello che avevano
preventivato, ma per un indiano medio è un salasso. È per questo
che le auto private sono quasi inesistenti, mentre i mezzi pubblici
sono letteralmente presi d’assalto. In compenso per le strade
girano motorini e piccole moto di ogni tipo e foggia. Le più
gettonate sono le Honda Hero 110 cc, monocilindriche con un
aspetto stradale. Comode perché riescono ad andarci anche in
quattro, e non è raro vedere famiglie intere abbarbicate sulle selle,
con i bambini schiacciati fra gli adulti e il pilota praticamente
seduto sul serbatoio.
Pagano il benzinaio, si rimettono i caschi e partono di gran
carriera verso Jansi, che si rivela, come la precedente, una
cittadina inospitale e caotica, piena di camion che spruzzano acqua
sulle strade di terra battuta, creando veri e propri rigagnoli di
fango. Senz’altro non si alza la polvere, ma passando per quelle
strade si inzaccherano tutti di fango che si appiccica ai vestiti e ai
caschi come sanguisughe.
Vogliono scappare veloci e Tinto dice:
“Oh, il Sygic mi dice di andare giù di qua”
“Di qua?”
“Eh. Che si fa?”
“Mah, mi sembra una strada un po’ piccola, te che dici?”
“Proviamo a dar retta al Gps, ti va bene?”
“Vai, buttati giù per la stradina”
Passano per la discesa e si ritrovano in un vicolo con le case che
quasi si toccano, e sulle soglie bambini, donne e anziani, seduti o in
211
piedi, vicino a un fuoco o semplicemente impegnati in un milione
di attività.
Devono diminuire la velocità quasi a passo d’uomo, e
improvvisamente si accorgono che gli abitanti del vicolo sono, per
tutta la sua lunghezza, assiepati ai lati, in attesa di vederli passare.
È una situazione surreale, che ricorda il Giro d’Italia, come se
fossero ciclisti che pedalano tra due ali di folla.
Hanno tutti sorrisi larghi e occhi scintillanti, e i bambini
sembrano quasi ansimare per l’emozione. Salutano, muovono la
mano o si inchinano con le mani giunte al petto. È una sensazione
che all’inizio è spiazzante e leggermente inquietante, poi diventa
paradossale e quasi onirica e infine è divertente e simpatica.
Skanda e Tinto si tirano su i caschi e rispondono con grandi sorrisi,
saluti con la mano sinistra e colpi di clacson che, si accorgono,
provocano veri e propri moti di gioia nelle persone accalcate sui
muri.
Per fortuna il vicolo è lungo, e possono permettersi di far
durare questa cosa fantastica per un bel po’ di tempo. Infine
risbucano nella strada principale, dove per fortuna ancora non è
passato il camion spruzzatore.
E bravo il Sygic!
Si vocifera che chi ha seguito ciecamente il Gps si è ritrovato,
nell’ordine: in mare, giù da un burrone, su un campo arato, in un
senso unico, in un’altra città.
A loro è andata bene, e senza la voce di Mauro – la voce
impostata sul navigatore - sarebbero ancora dietro alla
spruzzatrice a farsi schizzare di fango e a respirare i vapori mefitici
delle marmitte dei camion.
Oltrepassano Jansi e lasciano l’Uttar Pradesh per entrare nello
stato del Madhya Pradesh. A segnalare il cambio di stato, lungo la
strada, una garitta con un uomo semisdraiato che, con il piede
destro, aziona una sbarra per bloccare o rallentare il traffico.
Mentre stanno arrivando si accorgono che la sbarra è sollevata per
più di metà, ma si fidano poco, quindi rallentano fin quasi a
fermarsi. Solo allora l’uomo all’interno della casupola si accorge di
loro, e, con un gran sorriso, preme con il piede alla base della
sbarra, e questa si alza in tutta la sua lunghezza. A questo punto fa
212
loro cenno di passare, ed entrano nel Madhya Pradesh osservati da
centinaia di occhi che appartengono per lo più a bambini che, non
si sa come, sembrano essersi materializzati da dietro gli alberi.
Cento metri all’interno del nuovo stato, e la strada…peggiora,
diciamo così.
In verità peggiora è un pietoso eufemismo.
Un metro prima l’asfalto è dignitoso e, anche se rattoppato,
non ha nulla da invidiare alle nostre statali; un metro dopo è
inghiottito da buche che sono vere e propri voragini, e devono stare
attentissimi e guidare piano perché rischiano che la ruota davanti,
incastrandosi in una di queste, li faccia sbalzare di sella e, peggio
ancora, pieghi le forcelle. Inizia così uno slalom tra le buche e i
sassi che sono un po’ dappertutto. E non è finita, perché, come se
non bastasse, la strada è anche piuttosto trafficata, e mentre
scansano una buca e oltrepassano un sasso, devono tenere d’occhio
le macchine o i pullman che arrivano in senso contrario, perché
cercano la strada migliore per passare, e non importa se questa
passa per la tua corsia; se quella è la strada migliore, farai meglio a
spostarti.
A questo punto si stanno avvicinando ad un ponte, e si sono
scordati le indicazioni di Mr. Singh, perché ci salgono senza vedere
se qualcuno sta arrivando in senso inverso. E infatti, un suv nero di
dimensioni statunitensi è già sul ponte che suona il clacson come
se questo potesse servire a mettere le ali alle Royal Enfield, o a
renderle più piccole. Non possono fare altro che fermarsi e
appoggiarsi alla spalletta. La macchina, per fortuna, rallenta un po’
e passa sfiorando loro i jeans e urtando uno specchietto a Skanda,
il quale guarda sconsolato il vetro crepato del suo retrovisore
destro.
Tinto nel frattempo sta procedendo per la sua strada, quando
da una curva escono due camion affiancati, e quello dalla parte
esterna è precisamente sulla rotta della moto di Tinto.
Skanda, da dietro, assiste inerme al camion che si avvicina
sempre di più, suonando e accelerando per cercare di concludere il
sorpasso. Tinto, che ormai vede il muso del camion a venti metri
scarsi, tenta il tutto per tutto e si getta a sinistra. Skanda adesso
vede solo i camion che passano a un centimetro dal suo specchietto
già martoriato, e poi, preoccupatissimo, cerca di scorgere Tinto.
213
Il quale, nel frattempo, ha oltrepassato il fossetto al lato della
strada, e sta correndo su un pezzo di sterrato. La moto ondeggia
pericolosamente di qua e di là, mentre l'amico tenta di correggerne
l’assetto e forza con il sedere ora a destra, ora a sinistra, per cercare
di non cadere e di farle mantenere un percorso dritto. Una nuvola
di polvere si alza dietro la ruota posteriore che continua a girare
impazzita.
“Ma non si ferma?” pensa Skanda.
Poi si rende conto che Tinto sta cercando di diminuire la
velocità senza toccare i freni, perché altrimenti cadrebbe
rovinosamente.
E, per miracolo, ci riesce. Riesce a fermarsi sotto un alberello
stento che poi si rivelerà – pensa un po’! – un olivo selvatico. Mette
la moto sul cavalletto, spegne il motore e scende.
Skanda arriva proprio mentre l’amico si sta levando il casco, e
vede Tinto bianchissimo, con gli occhi sgranati e lo sguardo
allucinato. Poi, mentre anche lui sta scendendo di sella, vede l’altro
che si mette seduto a fianco della moto e tira un sospiro come se
nei polmoni avesse trattenuto tutta l’aria di una mongolfiera.
“C’è mancato un pelo” mormora Tinto, poi, a voce più alta
“Visto che roba?”
Skanda non dice niente, ma, levandosi il casco, cammina vicino
all’amico, lo oltrepassa, gli gira intorno e gli mette una mano sulla
spalla, poi si lascia cadere accanto a lui.
“Sarà meglio mangiarci un paio di mandarini” dice “Vedrai che
la strada cambierà, non può essere tutta così”
“Attento con le profezie” gli risponde Tinto “Potrebbero
avverarsi”
Therapy?: Screamager, 1994, A&M
214
Zen
Molto tempo fa, viveva a palazzo un mago che il re consultava
spesso per farsi predire il futuro.
Un giorno bussò al portone del palazzo una bambina vestita di
stracci:
“Sono orfana” disse al re “E ho bisogno del tuo aiuto”.
Il re, che era persona di buon cuore, l’accolse benevolmente, e
chiese subito al mago di predire il suo futuro.
Il mago scoprì che quella bambina era destinata a diventare
molto bella, dal momento che possedeva tutte le trentadue
perfezioni che rappresentano il culmine della bellezza e tutti i segni
della prosperità. E scoprì anche che la fortuna sarebbe arrivata in
qualunque casa la bambina avesse abitato. Il mago allora formulò
un piano malvagio per poter tenere la bambina nella propria casa e
impossessarsi, così, della fortuna che l’accompagnava.
Si presentò subito al re e gli disse:
“Signore di Suprema Giustizia, questa bambina possiede solo
poche perfezioni, il che è un brutto segno. Infatti, fra sette giorni si
trasformerà in una bestia pericolosa che aggredirà chiunque si
avvicini.”
Consigliò al re di mettere la bambina in una scatola d’oro
dentro una scatola d’argento che, a sua volta, doveva essere messa
in una scatola di ferro, per poi abbandonarla nel mezzo della
giungla.
Il re, ignaro dell’inganno del mago di corte, fece allora costruire
le scatole della misura adatta e, al settimo giorno, fece portare la
bambina nella foresta.
Proprio in quel momento, il re di un regno confinante si
trovava nella foresta per una battuta di caccia a dorso di elefante.
La sua comitiva aveva già catturato un terribile orso e, mentre si
chiedevano cosa farne, udirono un pianto.
Seguendo quei lamenti trovarono la scatola di ferro e la
aprirono. Aprirono poi la scatola d’argento, e poi quella d’oro e,
con grande meraviglia, vi trovarono la bambina.
215
Il re la portò a palazzo insieme alle scatole d’oro e d’argento,
ma lasciò la scatola di ferro nella foresta, chiudendovi dentro il
terribile orso.
Quella stessa notte, senza che nessuno lo vedesse, il mago
penetrò nel fitto della giungla e prese la scatola di ferro. Felice, se
la potò a casa, sperando di entrare in possesso delle scatole d’oro e
d’argento, e soprattutto della bambina che portava fortuna.
Chiuse tutte le porte e le finestre, in modo che nessuno potesse
vedere il suo imbroglio e, impaziente, aprì la scatola di ferro.
Con suo immenso terrore, balzò fuori un orso spaventoso.
Il mago cercò di aprire la porta mentre la bestia, furiosa, lo
assaliva, finché riuscì a fuggire nella foresta, dove l’orso lo seguì.
E così accadde proprio quello che aveva predetto.
“Fra sette giorni la bambina si trasformerà in una bestia
pericolosa…”
“Stai attento a ciò che speri, perché talvolta si può avverare…”
Skanda chiude il libriccino e resta seduto a guardare il
tramonto.
Arrivare è stata durissima.
La strada è stata un incubo, e dopo il mancato frontale di Tinto,
come volevasi dimostrare, è peggiorata.
L’aveva detto, lui: attento a ciò che predici, potrebbe avverarsi.
Infatti, puntualmente, si è avverato.
Skanda aveva detto che la strada non poteva essere disastrata
in quel modo, per forza sarebbe dovuta cambiare.
E infatti è cambiata. In peggio.
Adesso, però, tutto sembra lontano, e a ricordare loro l’incubo
che hanno passato resta la scarpa sinistra di Skanda con la stringa
irrimediabilmente rovinata – la medicazione alla leva del cambio
ha resistito fino al giorno prima, ma preso dalla voglia di andare
non l’ha rifatta. Stasera o domani rimedierà – e gli avambracci
spellati e ustionati dal sole. Anche il naso, a dire il vero, è un po’
rosso, ma non duole, e questo è abbastanza.
Dalla “statale”, poco dopo Nowgong, una breve deviazione
verso nord conduce, infine, a Khajuraho.
216
Si arriva al paese percorrendo una specie di via trionfale, con
asfalto immacolato e carreggiate a due corsie per senso di marcia.
Dieci metri prima una situazione stradale che precede la
mulattiera; dieci metri dopo un viale stile Impero Sovietico.
La differenza è netta e sconcertante, ma è solo l’inizio, perché
anche Khajuraho si dimostrerà una sorpresa, nel senso che la
difformità con il resto dell’India – almeno quella che hanno visto
loro – è profonda, anzi, profondissima.
Scoprono immediatamente che Khajuraho non è una cittadina,
neanche un paese; è semplicemente una zona archeologica
circondata da hotel e guest house.
Mentre percorrono a bassissima velocità la via principale,
prendendo nota dell’enorme numero di strutture alberghiere,
vengono praticamente costretti a fermarsi da un ragazzino che
quasi si getta sotto le ruote delle moto.
“Zen hotel, sir!” urla il giovane “Please come in, big rooms, big
dinner”
I nostri, ormai stanchi morti e provati dalle selle delle Royal,
decidono che un posto vale l’altro, e poi il nome è ben augurante, e
il ragazzino, tutto sommato, è simpatico.
“Vai te o vado io?” chiede Tinto.
“Vado io, dai” gli risponde Skanda, e si leva il casco ignorando
il giovanotto che gli saltella intorno e continua a parlare,
probabilmente decantando le virtù dell’albergo.
Il quale hotel, a dire il vero, si rivela una piacevole sorpresa. Da
un anonimo portoncino si entra in una piccolissima hall, dove c’è il
bancone della reception e un grande poster con il ponte di
Brooklyn. Il posto è umido e maleodorante, e già Skanda inizia a
sentire un po’ di nervoso che gli sale. Un corridoio buio sfocia,
però, dopo cinque o sei metri, in un grande spazio aperto dove si
affacciano le porte delle stanze. È su due piani, e sembra esserci un
gran via vai di ospiti per le scale e nello spazio comune.
“Wi fi super super fast” dice il ragazzino “All free!”
Porta Skanda verso una camera a piano terra, dalla parte
opposta al portone d’ingresso; apre la porta, e la stanza, con i due
letti singoli e il bagno, non è niente di che, appena passabile e, a
prima vista, abbastanza pulita. La sorpresa, però, è che dal
terrazzino si scende una scaletta in ferro e ci si ritrova in un
217
giardino bellissimo, grande e pieno di piante ombrose e profumate,
con fontanelle, dondoli e sedie in ferro battuto.
A sinistra, attraversata una piccola stradina in terra battuta, si
sale su un ammezzato e lì c’è lo spazio per il ristorante e il bar, con
tavolini, sedie e panchine all’ombra di tendoni, che adesso gli
inservienti stanno ripiegando perché il sole è già scomparso. Tutto
lo spazio è isolato dal resto del mondo da un muro di cinta alto e
spesso, che però è abilmente nascosto dai rampicanti che lo
ricoprono quasi per intero.
“All vegetarian food!” dice il ragazzo, indicando il ristorante.
“E le moto?” chiede Skanda “Dove le mettiamo?”
“Questo spazio è per le vostre moto” dice il ragazzo, mostrando
una sorta di aiuola pavimentata poco distante dalla loro terrazza.
“Qui potete fare i meccanici e cambiare l'olio e controllare il
motore, perché è lontana dalle altre stanze e il rumore non arriva”
Sembra tutto troppo bello per essere vero, e già si prepara
mentalmente alla contrattazione selvaggia sul prezzo.
“Quanto costa?” chiede.
“Quante notti?” rilancia per tutta risposta il ragazzo.
“Due notti”
“Duemilacinquecento rupie, sir”
“Per tutte e due le notti?”
“Si sir, due notti”
“E la colazione? È compresa?”
“No sir, la colazione non è nel prezzo della camera”
“Ok, ti do duemila rupie”
“No, no, duemilatrecento, sir”
“Duemiladuecento, ultimo prezzo”
Il giovane fa con la testa il caratteristico movimento ondulatorio
da spalla destra a spalla sinistra e ritorno, che vuol dire si.
Anche Skanda prova a rifarlo, ma è un movimento che un
occidentale non ha mai fatto, quindi viene fuori una sorta di no-no,
e scoppiano entrambi a ridere.
Prendono le moto e, dopo un lunghissimo giro – alla parte
posteriore dell’hotel si accede da un’altra strada – sono finalmente
in camera.
Ma neanche due minuti dopo sono seduti su una panchina di
pietra nel giardino, vicino a una vasca piena di ninfee con una bella
218
statua del Buddha seduto e sgranocchiano due piatti di pakora e due
Kingfisher ghiacciate. L’hotel è un no meat hotel, e si servono solo
piatti vegetariani, ma non hanno alcuna limitazione in fatto di
alcolici. Infatti vedono un frigo stipato di bottiglie di Kingfisher e di
Heineken e, a giudicare dalla clientela anglofona e tedescofona, la
riserva calerà presto.
“Madonna, sembra impossibile essere qui a bersi una birra” dice
Tinto.
Ha la faccia stanca ed è veramente sporco e impolverato.
“Aaah, che goduria” gli fa eco Skanda “Finisco il pakora e vado a
farmi una doccia infinita".
“Che dici, stasera restiamo qui o usciamo?”
“Mah, io sarei anche per una bella dose di relax e alcol”
“Aggiudicato. Vada per il relax e l’alcol”
Skanda si alza e va verso il bagno. Gli gira anche un po’ la testa,
ma è colpa della prima Kingfisher, che si è scolato in tre sorsi e a
digiuno.
È un po’ in ansia per la strada che l’aspetta di lì a due giorni, ma
per adesso la sua preoccupazione più grande è il dolore alla mano
sinistra, quella che usa per tirare la frizione, che sembra soffrire di
un inizio di tendinite.
Seduti sulla panchina, hanno fatto una gara a chi aveva più
dolori.
Ha vinto Tinto di misura, perché ha la schiena a pezzi, ma anche
la mano di Skanda non scherza, soprattutto se sommata al piede che
duole – il cambio sulle scarpe da ginnastica si fa sentire – agli
avambracci scottati, al sedere insensibile e a una congiuntivite da
vento relativo che gli sta facendo lacrimare gli occhi come quelli
delle vacche indiane, sacre o profane.
Adesso gira per il giardino zen; è rilassato e profumato. Si è
spruzzato addosso un repellente per le zanzare, e sta parlando al
telefono con Lara e Daniele, suo cognato, che per combinazione è al
lato della strada vicino a Pontassieve, dove i due si sono incrociati
tornando dal lavoro. Parlare con Daniele è un piacere, e, al contrario
delle volte scorse, non ha botte di nostalgia che lo assalgono
all’improvviso.
219
“…e poi è nato il bambino di Filippo. L’hanno chiamato
Samuele, e sta bene e pesa più di tre chili…”
Gli racconta Lara.
Non si ricorderà mai il giorno esatto, ma si ricorderà sempre che
alla fine del mese di marzo è nato Samuele, e lui stava passeggiando
in un bellissimo giardino in una remota cittadina dell’India del
nord.
Proprio dove voleva essere.
Tunng: Bullets, 2006, Full Time Hobby Records
220
Khajuraho
Sperduta nel nulla di uno stato indiano sperduto nel nulla – il
Madhya Pradesh – sorge Khajuraho, sede del maggior numero di
templi medievali induisti e jainisti dell’intera India. Si staglia nel
mezzo di una pianura subtropicale nebbiosa, polverosa ed invasa
da nugoli di insetti con tante zampette e con le ali – ma non sono
farfalle!
È straordinariamente ben conservata, e passeggiando per le
larghe vie si respira un’aria rilassata e indolente.
Proprio grazie al fatto di essere al centro di nulla, i templi di
questa cittadina furono risparmiati dalle scorrerie dei popoli di
fede islamica perpetrate nel quindicesimo e nel diciassettesimo
secolo.
È un po’ una mosca bianca all’interno del panorama artistico e
archeologico dell’India, sia per quello che i templi rappresentano,
sia perché il sito dove sorgono i templi è estremamente curato,
pulito e silenzioso.
L’intera area è molto grande; è tutta recintata e non è
frequentata da nessuno che non sia un visitatore. Totalmente
assenti, infatti, mendicanti, postulanti, questuanti, commercianti,
accattoni, mutilati e deformi. Categorie, queste, che sono presenza
fissa in tutte le strade dell’India.
Il sito archeologico è ricoperto da un soffice e piacevole pratino
all’inglese, irrorato da spruzzatori e curato da schiere di giardinieri.
Panchine ovunque, soprattutto sotto gli alberi, che sono bellissimi
e variano di forma e specie. Si va dall’onnipresente banyan al
frangipane, all'acacia e a qualche esemplare di tiglio, un po’ strano
e non proprio uguale a quelli cui sono abituati.
La visita all’area dei templi assume quindi il carattere di una
passeggiata rilassante in mezzo ad una natura addomesticata, ma
non per questo meno splendida.
Una leggera brezza soffia da un punto cardinale non
identificato, e la visita si trasforma ben presto in una sorta di
piacevole Via Crucis, dove a scandire le Stazioni ci sono i templi, le
panchine e gli alberi d’alto fusto.
221
Non fosse che all’interno è vietato sia mangiare che bere,
potrebbe essere un buon posto per trascorrervi l’intera giornata.
Ma cos’è che rende Khajuraho una delle mete più visitate
dell’India?
Non sarà solo per il pratino all’inglese, e neanche per i banyan,
o i bastoncini d’incenso che bruciano ad ogni angolo.
No, il motivo vero, oltre la perfetta conservazione dei templi,
sono le caratteristiche dei templi stessi.
Immaginatevi un grande pianoro da cui, ad intervalli irregolari,
si innalzino tanti templi che superano i quindici-venti metri.
Ogni tempio è composto da un grosso basamento in roccia
rosata, a cui si accede tramite gradini scolpiti, e dal basamento
parte poi il tempio vero e proprio, dedicato generalmente alle più
grandi divinità indù, e in particolare a Shiva, Vishnu e anche ad
alcune incarnazioni della dea Devi.
Morbide, sinuose, eleganti, sensuali e provocanti, all’esterno
delle pareti dei templi si stagliano migliaia di sculture con un unico
denominatore: l’erotismo.
Scolpite finemente nella stesa pietra con cui sono costruiti i
templi, le piccole statuine – circa trenta, quaranta centimetri –
suscitano stupore e un innegabile brivido erotico in chi le guarda.
Si resta ammirati perché osservando quelle coppie allacciate in vari
amplessi ci si dimentica che sono statue di pietra: i corpi degli
amanti sono così flessuosi, i loro abbracci così appassionati, da
sembrare vivi e veri. Merito dell’abilità degli artisti che li
scolpirono, negli anni fra il 950 e il 1050 dopo Cristo. File e file di
bassorilievi raffiguranti ogni scena concepibile da ogni versione del
Kamasutra. Accanto a queste, intervallate, statuine raffiguranti
posizioni yoga e meditative. All’interno, invece, l’essenzialità dei
templi indù: penombra, odore d’incenso e poco più; il luogo ideale
per meditare anche per ore.
Seduti sulle panchine, in oziosa contemplazione dei templi, i
due Hic Sunt Leones, entrambi di sesso maschile, ed entrambi
lontani dalle loro compagne, commentano tristemente i
bassorilievi e invidiano apertamente le giovani coppie che
222
ridacchiano complici, mano nella mano con i nasi all’insù, in
contemplazione di figure che si vedono solo a tarda notte sulle reti
televisive private.
La giornata trascorre così, tra un samosa e un'ascensione ai
templi, un giro nella via principale, affollata di negozi, hotel e
backpackers, e un pisolino nello splendido giardino zen dell’hotel,
che – guarda un po’! - si chiama proprio Zen.
La sera manutenzione dei potenti mezzi. La moto di Tinto
sembra avere problemi di frizione, e allora tocca smontare il
serbatoio e capire in quale parte del cavo sia il problema. Sembra
tutto a posto, e infatti la frizione adesso risponde bene;
probabilmente aveva solo bisogno di essere un po’ coccolata e
considerata. E infine – che bello! – revisione del cavo che dalla
ruota anteriore arriva al tachimetro, perché ci sono evidenti
problemi nella segnalazione della velocità.
Lavorare su queste belle bestie fatte di ferro è un piacere, e
anche due principianti come loro riescono, quando meglio quando
peggio, a supplire e a correggere eventuali piccoli problemi che si
presentano con il passare dei chilometri.
Niente centraline, niente mappature. Nessun tipo di
elettronica. Anche l’impianto elettrico è ridotto e intuitivo. Gli
attrezzi, poi, sono completi e funzionali, e con la stessa chiave
serrano i dadi del paramotore e smontano il portapacchi, la sella e
la batteria.
Ok: filo del contachilometri cambiato, clacson funzionante,
frizione a posto; rabbocco dell’olio fatto, filtro dell’aria pulito.
I mezzi sono pronti all’uso e lucidi. Affiancati, sui loro bei
cavalletti laterali, con lo sfondo delle piante del giardino, sono
quasi da foto. E infatti, le macchine fotografiche scattano a
ripetizione.
Sbadigliano, e…chissà…sarà sonno o sarà fame?
Nell’incertezza decidono di fare così:
Prima si mangiano due bei thali con una porzione di byriani, e
poi se vanno difilato a letto, in compagnia di buone letture e buoni
propositi per i giorni a venire.
223
La strada ancora è lunga, e l’avventura continua, e mentre i
rumori sfumano nel paese di Khajuraho, Madhya Pradesh, India, e
l’oscurità avvolge tutto, i nostri amici dormono nei loro letti, per la
verità un po’ scomodi, mentre in bagno una ranocchia vaga senza
meta tra il piatto doccia e il lavandino.
Stateless: Bloodstream, 2007, !K7
224
Dal diario di Skanda
La strada dritta fino all’orizzonte sembra un dito puntato
verso il sole che nasce; il ronfare dolce del motore della moto,
insieme al paesaggio agreste, quasi bucolico, induce a riflessioni
superficiali eppure profonde, in cui senza soluzione di continuità
si mescola il pensiero dei tuoi cari che hai lasciato a diecimila
chilometri di distanza, le buche che minacciano le sospensioni,
l’aspettativa che hai nel dirigerti verso Varanasi, il senso di
spiritualità che speri ti prenda con mano prepotente e ti faccia
vedere le cose da una prospettiva diversa.
I dolori ai polsi, alle mani, alla schiena.
La bellezza dei sorrisi degli abitanti di questa strana terra,
che si fermano solo per chiederti come stai e ti salutano a mani
giunte e con un inchino.
I rumori strani che senti arrivare da sotto ogni volta che dalla
quarta passi alla quinta. Il prezzo della benzina che non è alto
solo da noi, ma anche qui non scherza; anzi, contestualizzato, è
molto più alto. Il sole che ormai hai alle spalle, e vuol dire che hai,
su quelle spalle, tante ore di guida.
E poi tanti altri piccoli pensieri che sfrecciano veloci e che
difficilmente riesci ad acchiappare. Più che altro sensazioni,
ricordi, emozioni, dejavu dovuti ad un odore, o a un albero
solitario nella pianura.
Seguiamo quel dito di strada puntato ad est, e dove il sole
nasce il nostro viaggio muore, perché Varanasi sarà l’ultima
tappa di questa avventura sfiancante, eppure, in qualche modo,
ritemprante.
Stasera fa caldo, il cielo è stellato, la wifi prende che è una
bellezza (è a pagamento!) ed io sono al buio a scrivere queste
righe, il corpo stanco, ma la mente attiva più che mai.
225
Varanasi
Ci sono zanzare enormi, che svolazzano intorno alle teste dei
nostri eroi come gli aerei intorno a King Kong, ma non pungono; si
limitano a dare fastidio.
Skanda è andato in un negozietto, appena fuori dall’hotel, e ha
fatto capire che voleva qualcosa contro i mosquitos e il negoziante,
dopo un lungo consulto con un amico e due passanti, gli ha dato un
tubetto di crema con strane scritte – ovviamente in hindi – e la
figurina di un giocatore di cricket.
Ora, tutto può essere, ma a occhio quello non sembra proprio
un repellente per insetti, e poi, ad un esame più approfondito –
tattile, ma soprattutto olfattivo – sembra proprio un tubetto della
vecchia, familiare Ecoval 70.
Alle zanzare gli fa un baffo, ma si è rivelata utilissima per lenire
i dolori ai polsi.
Arrivare a Varanasi è stato davvero duro. Non tanto per la
strada, che, appena usciti dal terribile Madhya Pradesh e rientrati
nell’Uttar Pradesh è miracolosamente migliorata, piuttosto per il
traffico e la quantità di gente in giro.
Sulla strada auto, tuk tuk, risciò, carretti, pullman. Gente a
piedi, in bicicletta, in motorino, a cavallo di un elefante.
Dopo un fantastico pic nic sull’erba a base di mandarini,
banane e ananas, i paesaggi agresti sono diventati un ricordo, e
improvvisamente hanno iniziato a materializzarsi centinaia di
esseri umani in movimento.
“Siamo già arrivati?” pensa Skanda, vedendo i chiari segni di
urbanizzazione selvaggia.
E invece Varanasi è ancora lontana. Ma da lì alla città vera e
propria un enorme, infinito, esagerato hinterland lungo quasi
settanta chilometri.
Hanno deciso di alloggiare, per una volta, lontani dal centro,
perché hanno bisogno di spazio, di verde, e di un posto dove
incontrare l’emissario di mr.Singh per formalizzare il riacquisto
delle moto.
226
Decidono quindi di dirigersi verso il cantonment, ossia la parte
della città più tranquilla e dagli spazi meno claustrofobici, e si
fermano all’hotel Surya, che è in angolo, interamente circondato da
mura e sembra avere prezzi modici e contesto gradevole.
È la prima volta in questo viaggio - e una delle poche in
generale - che prendono una stanza in un grande hotel di una
catena multinazionale, in questo caso un affiliato del Marriott.
L’albergo è una grande costruzione di forma semicircolare a
quattro piani. Tutte le camere hanno la vista sul grande giardino
che ha una parte curata come un pratino all’inglese, e un’altra dove
la sera vengono sistemati i tavoli per la cena. Hanno deciso di farsi
un po’ coccolare, e adesso sono seduti sui grandi e comodi cuscini
all’ombra del porticato, mentre davanti a loro si apre il giardino, in
cui iniziano a brillare gli stoppini accesi delle fiaccole che i
camerieri stanno accendendo. Dopo una doccia il mondo acquista
un altro colore, e probabilmente anche loro.
“Quando lavoravo a San Salvi, all’ex manicomio” racconta
Skanda “Ho conosciuto un simpatico vecchietto, secco secco, curvo
come un arco. Non aveva neanche un dente in bocca e usava un filo
di spago come cintura.
Il Bucelli – così si chiamava, e uso il passato perché penso che
ormai non sia più tra noi – generalmente stava sempre per conto
suo, appoggiato a un calorifero, estate e inverno, con lo sguardo
perso fuori dalla finestra.
Non parlava mai, e solo se lo stuzzicavamo un po’, guardava in
basso e ripeteva “Tanta terra, tanta terra..” e diceva solo questo.
Il Bucelli aveva fatto la campagna di Russia – questo lo
sapemmo molto tempo dopo da una parente – e, sopravvissuto, era
riuscito a scappare e a tornare in Italia.
Solo che c’era tornato a piedi, e se l’era fatta tutta camminando.
Aveva perso, per il freddo, tutte le dita del piede destro,e da allora
non era stato più lo stesso. Non mangiava, non parlava, sembrava
non riconoscere nessuno, e ripeteva soltanto Tanta terra, tanta
terra…”
“E allora?” dice Tinto, che evidentemente non ha colto
l’analogia.
227
“Allora anch’io, se mi chiedi qualcosa a proposito di questa
giornata, ripeterò soltanto tanta terra tanta terra…”
“Madonna, hai ragione” Tinto lo guarda “Anch’io lo voglio
ripetere”
E insieme, come un mantra, per due minuti interi ripetono
tanta terra, tanta terra…
“Oh, c’è davvero!”
“Nooo, eccolo lì, sta arrivando…pensa te…”
Arjuna si avvicina, pedalando lento, e il risciò rosso e un po’
scalcinato arriva fino alle scale che scendono dalla hall del Surya.
Arjuna è stata la prima persona con cui hanno parlato appena
messo piede in città. Sembrava aspettare loro, accoccolato a tre
metri dal portone dell’hotel, con il suo risciò orgogliosamente
parcheggiato poco lontano.
Si è presentato come la guida di cui non avrebbero potuto fare
a meno, e il suo sorriso con tre incisivi mancanti, la sua evidente
giovinezza in un corpo magro e curvo come quello di un vecchio, i
suoi occhi limpidi e un po’ acquosi – hascisc, per caso? Mah! – li
ha subito stregati.
“Il mio nome è Arjuna, che vuol dire gradito al vento, e avrò
l’onore di farvi conoscere questa bellissima e santa città”
“Ciao, noi siamo Skanda e Tinto, e arriviamo adesso dopo una
lunga lunga strada. Se vuoi puoi aspettarci, ma ora ce ne andiamo
in albergo e ci laviamo, mangiamo e poi, possibilmente,
schiacciamo anche un pisolino. Più tardi, forse, avremo voglia di
uscire”
“Non c’è problema, sahib” (Sahib? Ma stiamo scherzando? Ma non
era un titolo onorifico della vecchia e non rimpianta Compagnia
delle Indie?) “Io aspetto qua” Dice il giovane-vecchio.
Inutile dire che gli interrogativi etici sul farsi portare in giro da
un risciò a pedali condotto da un umano che a stento sembra avere
la forza per stare in piedi sono stati tanti e profondi; poi, complice
anche un giovane facchino (o inserviente) dell’hotel, hanno deciso
che è comunque una forma di aiuto etico, perché non è elemosina,
non è sfruttamento e, per di più, non inquina neanche.
Adesso, dopo circa due ore da quando sono arrivati, stanno
attraversando il giardino dell’albergo e si accingono ad uscire, ma
228
dubitano che il simpatico indiano sia ancora là fuori ad aspettarli, e
invece…
“Oh, attento!” urla Skanda, vedendo che il risciò si avvicina
pericolosamente a due enormi maiali neri accucciati a un lato della
strada.
“Nessun problema, amico, adesso vanno via” e infatti, con una
calma tutta indiana, i due bestioni si alzano e trotterellano due
metri più in là.
Tutto intorno un caos tipicamente subcontinentale, ma non
solo. Al solito traffico impazzito, alle solite bestie libere, ai soliti
bambini schiamazzanti, barbieri agli angoli, accattoni e
mendicanti, si aggiungono schiere di Sadhu seduti ai bordi della
strada, con le barbe lunghissime e interamente vestiti di arancione.
Vedono anche tanti malati, deformi e freaks di ogni genere.
Varanasi è una delle città più sacre della religione indù, e si
crede che morendo in questa città si possa evitare tutto il ciclo
delle reincarnazioni tipico di questo credo e passare direttamente
al nirvana.
È per questo che la città ospita il più grande ghat dedicato alle
cremazioni di tutta l’India, il Manikarnika. Sfuggire al samsara,
cioè al ciclo di morte e rinascita, è una cosa che fa gola a molti
induisti, e sul ghat le pire sono sempre accese, e giorno e notte i
bramini danzano accompagnando il rituale della cremazione.
Arrivare sui ghat vuol dire oltrepassare una barriera quasi
invalicabile fatta di traffico, mezzi a motore e a pedali, uomini,
donne, bambini e animali. Una vera e propria muraglia umana che
si aggira nelle strade immediatamente a monte della riva
occidentale del Gange.
Come sperimentato in altre occasioni, la città è costruita solo
su una riva del fiume, quella occidentale, appunto, perché l’altra
viene considerata impura, ed è impressionante vedere una città che
conta più di un milione di abitanti ammassata su una sola sponda
del grande fiume, mentre dall’altra parte l’occhio corre per
chilometri e chilometri lungo una pianura completamente deserta,
dove solo ogni tanto si alzano verso il cielo pennacchi di fumo.
229
La città vera è sul fiume, che, anche se siamo nella stagione
secca, è bello pieno, e largo, talmente largo che lo sguardo fatica a
mettere a fuoco i particolari dell’altra sponda.
Arjuna si ferma. È completamente zuppo di sudore, ansima,
ma sorride, e dice:
"Io devo fermarmi qui, perché non posso andare avanti, le
strade sono troppo strette, ma vi aspetto, e poi se volete vi riporto
al Surya oppure ancora in giro”
“Ok Arjuna, ci vediamo tra un po’”
“Andate sempre dritti, e arriverete al fiume. Una volta che siete
sulla riva ricordatevi Jain Ghat, con un grande Om disegnato sui
gradoni”
“Va bene, Jain Ghat, d'accordo” dice Tinto, e già ha la mano
vicina all’obiettivo della macchina reflex da un milione di dollari.
Si avviano lungo la strada, che tra poco diventerà via, e poi
vicolo, e poi pertugio, e non possono credere a dove sono, a quello
che finalmente hanno raggiunto.
Hanno sognato talmente tante volte questo momento che
adesso, adesso che lo stanno vivendo sul serio, sembra loro quasi
un sogno. Sono a Varanasi, e tra qualche minuto vedranno, e se
Dio vuole toccheranno, il Gange, la madre di tutti i fiumi.
Che nasce nel nord dell’India, nella regione himalayana del
Garhwal, ed ha cento nomi. Scende dall’estremità del ghiacciaio di
Gangotri, a oltre quattromiladuecento metri, e poi percorre
duemilacinquecento chilometri, fino al Golfo del Bengala.
Per oltre un miliardo di induisti, è più che un fiume: è
l’emanazione del divino; del dio Shiva. Non solo raccoglie le
preghiere dei credenti che rendono omaggio alle sue acque, ma
fornisce sostentamento a centinaia di milioni di persone,
all’industria, all’agricoltura, e anche alle specie in via di estinzione
come la tigre del Bengala e il susu, il delfino cieco del Gange, che
vive solo in queste acque.
Per gli indiani è più comunemente noto come Ma Ganga,
Madre Ganga. Per gli occidentali è il Gange, uno dei fiumi più sacri
al mondo, e loro già lo sentono, che si insinua tra le alte mura delle
case con un sentore di umidità stantia e una nebbiolina fine.
230
Via via che si avvicinano alla sponda, le case sono costruite
sempre più vicine l’una all’altra, e il sole non arriva quasi mai a
toccare il lastrico del vicolo. Anche la temperatura cambia, e fa più
fresco. Da un terrazzo all’altro c’è appena la distanza di un braccio,
e non è raro vedere gli abitanti, affacciati, che si scambiano cose da
una finestra all’altra attraverso il vicolo semplicemente allungando
le mani.
Anche la quantità di gente, che all’inizio era un muro compatto,
adesso è diminuita in modo considerevole, e si incontrano soltanto
sparuti rappresentanti della razza umana, eguagliati, come
numero, da rappresentanti della razza bovina. I quali bovini non si
guardano neanche intorno e vanno a diritto, incuranti del fatto che
occupano quasi per intero la larghezza del vicolo e il povero
passante è costretto a cercare un androne, uno scalino, un portone
aperto dove rintanarsi finché sua signoria la vacca non è passata.
È così, semplicemente camminando, che si può entrare in
contatto con la realtà quotidiana di chi in questi stretti vicoli ci
abita; le porte sono tutte aperte, e lo sguardo si perde curiosando
dentro le case degli abitanti che, per altro, sembrano ben contenti
di condividere la propria intimità con chi passa e prosegue.
Non manca mai un saluto, o un sorriso, o un gentile invito ad
entrare.
Ma il richiamo dell’acqua che scorre è troppo, troppo forte, e i
due camminano di buon passo verso il Jain Ghat.
E poi, improvvisamente, il vicolo è finito, e gli occhi devono
abituarsi di nuovo alla luce, ai raggi del sole, e alla visione che si
para dinanzi al viaggiatore.
È lo spettacolo più lontano da qualsiasi cosa abbiano visto
finora. Una cosa che sembra appartenere ad un altro mondo. A
desta e a sinistra, fin dove lo sguardo si perde, c’è il Gange.
Migliaia di scalini scendono all’acqua, e ogni ghat è separato
dall’altro da una sorta di torretta. È quasi il tramonto, e la luce
ricopre tutto di un colore dorato che sembra quasi spalmato sopra
ad ogni cosa. Centinaia di persone sono sedute, sdraiate,
impegnate in pose ginniche, in conversazioni, in affari e
probabilmente in cose losche, ma il luogo emana un tale senso di
231
pace, e di appartenenza, che ai nostri due eroi non rimane altro che
sedersi su un gradone e contemplare quello che sta loro intorno.
Sadhu e Baba sono seduti sparpagliati, e spesso attorniati da
un numero variabile di seguaci o discepoli. Quasi tutti esibiscono il
tilak, il terzo occhio, dipinto sulla fronte in colori sgargianti, e le
barbe e i capelli dei santoni sono lunghe, grigie e piene di nodi.
Appena oltre l’inizio dei gradoni c’è una sorta di percorso
pedonale, dove sono assiepati innumerevoli chioschi che vendono
garofani arancioni e candele, e le mucche sono ovunque. Subito
dietro questa sorta di strada, svettano le facciate dei palazzi, alte
sul fiume, con piccole finestre e terrazzi aggettanti. Gruppi di
scimmie – queste più grandi rispetto alle altre incontrate lungo il
viaggio – saltano da un terrazzo all’altro e da una finestra all’altra.
Tutto è talmente…indiano!
Una sorta di Pushkar, ma elevata all’ennesima potenza. La
potenza che emana questo grande, lento e limaccioso fiume, che
adesso, dopo oltre mille chilometri dalla sua sorgente, appare
maestoso e quasi dotato di coscienza.
Via via che la sera avanza, sembra che l’atmosfera cambi, e da
contemplativa si fa quasi frenetica. La fila ai chioschi è
lunghissima, e tutti hanno in mano almeno un fiore ed una
candela. Alla base delle torrette che delimitano i ghat si raccolgono
uomini con tamburi e flauti, e tutti adesso stanno cercando posto
sulle gradinate. Sembra che si prepari uno spettacolo, e in effetti è
così, anche se il termine esatto sarebbe cerimonia. Ma si sa, in
India le due parole sono quasi equivalenti, e non c’è l’una senza
l’altro. Appena il sole è sceso oltre l’orizzonte, come ubbidendo ad
un comando telepatico, i tamburi iniziano a rumoreggiare, e
uomini vestiti con un lungo abito dorato agitano tamburelli in una
coreografia che li vede, all’unisono, compiere movimenti quasi
danzati, sempre con la faccia rivolta verso il fiume.
“Questa cerimonia si chiama Ganga Aarta” dice Skanda, che
per una volta riveste la funzione di enciclopedia. “È una puja, una
preghiera, dove vengono fatte offerte al fiume; vedrai, tra un po’
dovrebbero arrivare i bramini”
E infatti, con le braccia piene di cesti contenenti fiori, petali,
candele e incensi, dalle scale scendono uomini vestiti di arancione,
232
che, dopo un breve raccoglimento, lasciano andare nel fiume le
offerte.
Ogni candelina e ogni bastoncino d’incenso è sistemato in una
sorta di barchetta, e dopo due minuti l’intera superficie del fiume
rifulge di piccole fiamme che illuminano petali e fiori tutto intorno.
Sono centinaia, anzi, migliaia, perché da ogni ghat i fedeli
stanno facendo la stessa cosa, e il fiume di luce e di fiori scorre
verso sinistra, seguendo la corrente, fino a che scompare a valle in
un bagliore soffuso.
È un momento unico, che resterà per sempre impresso a fuoco
nelle loro menti, e che tornerà a far loro visita spesso, quando
meno se lo aspettano, un po’ come la voglia di fumare, o la
nostalgia, che colpisce nei momenti in cui pensi non lo farebbe
mai.
Estasiati, ma anche un po’ storditi, si alzano e si avviano verso
la strada dove Arjuna dovrebbe essere in attesa.
Eccolo lì, che si illumina come un piccolo sole appena li vede, e
li accoglie con una gioia che sembrerebbe stonata in qualsiasi altra
parte del mondo, ma qui appare sincera e appassionata.
Fissano per l’indomani mattina alle quattro e mezzo, perché
hanno intenzione di vedere l’alba dal fiume, su una barca che solca
le acque proprio a questo scopo. È vero, suona tutto un po’
turistico, ma d’altra parte sembra una cosa irrinunciabile, e, dopo
che Arjuna continua, sbuffando, sudando, premendo sui pedali
come Gimondi, a decantare la meraviglia del fiume all’alba, si
convincono di aver preso la decisione giusta.
Adesso sono seduti – incredibile – da McDonald’s.
A dire il vero è stata un’idea di Skanda, che comincia a non
poterne più di biryani, malai kofta e compagnia bella. Ma questo è
un fast food indiano, e per par condicio gli hamburger non sono di
manzo – la vacca è sacra – e non sono neanche di maiale –
potrebbero esserci clienti musulmani.
Cosa rimane? Rimane l’animale che, dalla notte dei tempi, non
è mai stato considerato né sacro né da tutelare: il pollo. Quindi
hamburger di pollo per due. Al sapore di curry, ovviamente.
233
Non c’è scampo alla cucina indiana, neanche nel tempio della
globalizzazione.
Che esperienza essere arrivati fino a questa città, e che
esperienza la città stessa!
Varanasi, o Benares, rappresenta l’essenza stessa dell’India. Si
chiamava Kishi al tempo dei Veda; divenne poi Varanasi, dal fiume
Varuna, che scorre a nord, e dal fiume Assi, che scorre a sud. Fu
poi deformata in Benares dagli inglesi, che non sapevano
pronunciarne correttamente il nome. Oggi è di nuovo Varanasi e,
sebbene non sia rimasta nessuna costruzione antecedente al
diciassettesimo secolo, essa continua a offrire l’opportunità di
vedere, respirare e vivere riti millenari e immutabili.
Un milione di pellegrini visita Varanasi ogni anno. Il
pellegrinaggio prevede un lungo cammino, che percorre la riva del
Gange dal Manikarnita Ghat – quello delle cremazioni – fino
all’Assi Ghat, per poi compiere un ampio semicerchio intorno alla
città, per un totale di oltre cinquanta chilometri. Generalmente i
pellegrini impiegano sei giorni a compiere tutto il tragitto.
Tra i numerosi ghat, l’Assi Ghat, alla confluenza del fiume Assi
e del Gange, è considerato uno dei più sacri: è, infatti, uno dei
cinque siti dove i pellegrini devono bagnarsi, nel corso della
medesima giornata, per rendere efficaci le loro preghiere.
L’immersione non è casuale, ma deve seguire un ordine ben
preciso: Assi, Dashashwamedha, Barnasangam, Panchaganga e
infine Manikarnika.
All’alba, in un’atmosfera quasi surreale, i ghat cominciano ad
animarsi. Centinaia di imbarcazioni portano gli abitanti e i
pellegrini da un ghat all’altro, in un andirivieni incessante. Lungo
le gradinate, sotto grandi ombrelloni, sacerdoti, astrologi e
indovini impartiscono mantra e responsi ai credenti che li
interpellano, mentre centinaia di Sadhu meditano, praticano yoga
o semplicemente trascorrono lungo il fiume la loro vita ascetica.
Intere gradinate sono coperte di panni stesi al sole ad asciugare, e
formano onde colorate gonfiate dal vento. Tutta la vita è qui, su
queste gradinate.
234
Chi lavora, chi prega, chi mangia, chi si lava, chi riposa, chi
legge, chi si immerge per devozione.
Ognuno al suo posto, ognuno, così, vive la propria semplice
esistenza.
Tool: The pot, 2006, Volcano II Records
235
Dal diario di Skanda
Un grande fiume. Un fiume che, sebbene in secca per l’attesa
del monsone, è immenso. Una città asimmetrica. E i ghat che
scendono verso l’acqua.
Di primo acchito la spiritualità sembra confinata nel
portafoglio dei turisti, tanti, che vengono visti (deformazione
indiana, suppongo) come mucche da mungere.
Anche i ghat, che dovrebbero essere la quintessenza dello
spirito, si risolvono in carrozzoni urlanti.
Ma poi, più in basso, incuranti del rumore, persone normali
che si lavano, che fanno yoga, che semplicemente stanno lì ad
aspettare il nulla.
E allora scendo lo scalino, quello meno infestato di sporcizia,
mi siedo, e sento qualcosa.
Qualcosa che forse nasce dall’acqua putrida del fiume –
proprio quel fiume in cui, seduto sul divano di casa mia, avevo
giurato di mettere almeno i piedi e che adesso, adesso che lo vedo
davvero, ma soprattutto che lo odoro e che lo osservo, decido che
sarà per un’altra volta – sento qualcosa che viene su da
quell’immenso corso d’acqua. Sento e forse, ma solo forse, mi
pervade.
E allora i minuti passano, e lo sguardo indugia, e i pensieri
rallentano, e mi dico che non dev’essere neanche male passare
una parte della vita – o tutta – su questi gradini.
In attesa di nulla, desiderando nulla, preoccupandosi di nulla.
Come i Sadhu, che l’occidente fatica a capire, e ad accettare.
Perché il Sadhu ha detto di no, e l’ha fatto in maniera
autonoma, senza aver bisogno di una controparte, o di un
antagonista.
Il vagabondo ruba, il ribelle destabilizza.
L’anarchico sogna di distruggere la società della quale fa
parte. L’hacker prepara la caduta del regime informatico. Il
primo fabbrica bombe, il secondo propaga virus dal computer.
Entrambi hanno bisogno della società che maledicono. La società
è il loro bersaglio. La distruzione di quel bersaglio il loro scopo.
236
Il Sadhu, invece, si tiene in disparte; lui non ne ha bisogno,
della società. È come un invitato ad un banchetto che, con gesto
gentile, rifiuti una portata.
Se la società scomparisse, egli continuerebbe a vivere da
Sadhu, mentre i ribelli sarebbero disoccupati.
Il Sadhu non contesta, adotta un suo stile di vita.
Non denuncia una menzogna, ma cerca la verità.
È fisicamente inoffensivo, e viene tollerato come se
appartenesse ad una forma di vita intermedia tra quella dei
barbari e quella degli uomini civilizzati.
Il Sadhu è, un po’ come Caronte, il traghettatore tra due
mondi.
È per questo che l’occidentale che si trova in India ha tanta
difficoltà a capirlo, e liquida la questione con un sorriso
condiscendente o con un giudizio sommario e spietato.
L’occidente ha paura di chi non si conforma, e ha ancora più
paura di chi lo fa senza individuare nemici.
L'occidente teme quello che non comprende
È per questo che avrei voglia di abbandonarmi a tutto quello
che mi circonda, farmi trasportare da quest’India che non
capisco, e che più desidero vicina più sento lontana.
Arrendersi all’India, adesso, sarebbe il mio desiderio più
grande.
Ma guardo il fiume, e penso al giardino dell’hotel, al bagno
pulito, al chai bollente e ad una birra ghiacciata.
Mi alzo e me ne vado.
237
This is the end, beautiful friend
Le moto sono parcheggiate nello spiazzo asfaltato a sinistra
della hall, e aspettano uno dei giovani che domani arriverà da
Delhi per ricomprarle per conto di mister Singh.
Sono state compagne preziose, e soprattutto, alla faccia dei
menagrami, degli sfiduciati e dei cultori delle giapponesi,
assolutamente affidabili. Non hanno mai fatto un colpo di tosse;
mai un problema, mai un inconveniente.
È bastata la manutenzione ordinaria e loro hanno risposto
come animali domestici.
Le loro caratteristiche “bovine”, la loro velocità di crociera
inferiore ai cento all’ora, la posizione di guida rialzata, la dolcezza
di erogazione del monocilindrico, tutte queste cose le hanno rese
indispensabili per girare sulle strade della nazione che le ha viste
uscire da una fabbrica di Chennai, ex Madras, capitale dello stato
del Tamil Nadu, laggiù, a sud.
Tu chiamale, se vuoi, emozioni.
Il rombo, quando il piede arriva a fondo corsa sulla pedivella e
il pistone inizia a correre.
Il tirare giù la visiera del casco, ingranare la prima e percepire
la vibrazione che sale dalle pedane fino ai polsi.
Il vento in faccia.
Gli occhi dei bambini, che corrono fino al bordo della strada e
guardano passare i due bestioni neri, le loro mani che si agitano
nel gesto universale del ciao, gli sguardi dei più grandi, le mani
degli anziani, che accarezzano serbatoio e parafango.
I sorrisi delle donne, che con il kajal intorno agli occhi
sembrano sempre avere quello sguardo un po’ languido da gatte
addormentate; i loro orecchini, gli anelli alle dita dei piedi, il
rumore dei campanellini dei braccialetti.
Il banyan, l’albero considerato sacro dalla cultura indù e
asiatica in generale, chiamato walking tree, perché quella sorta di
liane che gli pendono dai rami non sono piante parassite, ma le sue
radici, che crescono in aria e scendono fino a terra, e gli
238
consentono di sopravvivere e riprodursi, ogni volta un po’ più in là,
da qui il soprannome.
Tutto questo. E altro ancora.
L’accoglienza, la non invadenza, la curiosità sincera e la
povertà vera.
Le facce sopra i cumuli di rifiuti, le preghiere, l’incenso, le
statue, i templi.
Le vacche, i cani, i cavalli, gli elefanti, i cammelli, gli asini, le
capre, le galline, i conigli.
Il thali, il dhal, il chapati, il naan, il samosa, il pakora, il malai
kofta, il pappadam.
Il cuore che batte forte, la nostalgia che ti prende anche solo
pensando al fatto che tra qualche giorno sarai su un aereo che ti
riporterà a casa.
Tutto questo è l’India.
Eppure non è ancora niente.
Quando percorrerai i viali di circonvallazione della tua città,
quando andrai a un concerto, mentre preparerai la cena, mentre
sarai dal barbiere, all’Ikea, al cinema, davanti al computer.
Allora.
Allora ti capiterà di sentirla ancora, forte come un pugno, e
potrai dire: io ho corso su quelle strade, ho bevuto quell’acqua, ho
dormito sotto quel cielo, ho respirato quell’aria, e adesso per me è
impossibile dimenticare.
***
Scendono il ghat per salutare un’ultima volta il Gange, e
Skanda sente il telefonino che vibra in tasca. Lo prende, guarda lo
schermo e dice a Tinto:
“È un numero italiano”
“Vai, rispondi” gli dice lui.
Preme il tasto per attivare la comunicazione e sente una voce
dall’altra parte:
239
“Ciao, mi chiamo Francesco. Siamo in due, io e un mio amico, e
siamo interessati a partecipare all’India Moto Challenge di
novembre, puoi dirmi qualcosa di più?”
Hic Sunt Leones 1 – Resto del mondo 0
Metallica: Nothing else matters, 1991, Elektra Records
240
Epilogo
Gurgaon
A trenta chilometri da Delhi c'è un uomo che sta facendo
grandi cose.
A diecimila chilometri da Delhi ci sono delle persone che
consentono a quest'uomo di fare grandi cose.
L'uomo si chiama Ananta Das, ed è un poco più che trentenne
originario dell'Orissa, arrivato tanti anni fa nella capitale indiana
per sfuggire alla miseria, che dopo l'ennesimo tifone tropicale e
l'ennesima inondazione era diventata carestia.
Le altre persone si chiamano Stefano, Francesca, Saverio,
Antonella e in tanti altri modi.
Ananta nella grande città ha trovato moglie, un buon lavoro, e
ha anche avuto il tempo di fare due bei figli.
Ha comprato una casetta a Gurgaon, sobborgo modernissimo
di Delhi, e ha iniziato a vivere una vita tranquilla, eppure
appagante. Una vita che gli consentiva di non dover chiedere
elemosine, di avere un tetto robusto sulla testa e che, di tanto in
tanto, gli consentiva anche di dedicarsi ad attività ludiche e
sportive.
La sua casta gli permetteva tutto questo, e all'interno della
casta trovava amici e conoscenti. Buoni amici e buoni conoscenti;
un microuniverso fatto di grandi e piccole soddisfazioni. Nessuna
montagna russa, nessun grosso scossone.
C'è solo una nota che stona, nella vita di Ananta, ed è una nota
importante; una nota che non consente alla sinfonia di
armonizzarsi.
Ogni sera, quando in sella alla sua Bajaj nuova fiammante
rientra a casa, deve passare da una tendopoli abitata dai dalit, gli
intoccabili, i fuori casta.
Tra i cani randagi, i maialini neri che grufolano, i fuochi fatti di
sterco e i poveri vestiti stesi sui fili, vede ogni giorno gli occhi dei
241
piccoli intoccabili che lo osservano, e sembrano seguirlo. Quando
le ruote della sua moto sono già passate oltre, Ananta si sente la
schiena trafitta da quegli sguardi.
Riesce, per lungo tempo, a fare finta di niente, ma un bel
giorno, forse perché i suoi figli crescono, forse perché sente di non
potere più ignorare, decide di oltrepassare i diktat delle caste - una
decisione importante e impopolare per la cultura da cui proviene e di toccare gli intoccabili.
È difficile entrare in contatto con gli adulti della tendopoli.
Sono diffidenti e spaventati, e non accolgono di buon grado un
rappresentante di una casta diversa dalla loro che vaneggia di
scuola, scarpe, computer, istruzione ed emancipazione
Sono, per loro, parole vuote, prive di senso. È impossibile
pensare di comprare un libro al bambino, quando non hai neanche
da garantirgli il pasto.
Ma Ananta è cocciuto, e via via che va avanti nella sua
decisione, si sente sempre più motivato, e in questo è supportato
dalla moglie e da un pugno di amici.
Ma come fare?
Non naviga mica nell'oro; né lui né i suoi amici.
È a questo punto che il destino, o la provvidenza, o Shiva, o
chiunque altro, ci mette lo zampino. Per vie che non sapremo mai,
le gesta di Ananta arrivano fino nelle Filippine, dove un manipolo
di moderni Rousseau di Roma gestisce una scuola, un diurno ed
una casa famiglia per i bambini più poveri.
Inutile dirlo; in un attimo sono già innamorati dell'idea del
giovane indiano, e organizzano le cose in modo che una parte dei
fondi della loro Onlus, che per la cronaca si chiama Isla Ng Bata
(l'isola dei bambini in lingua Tagalog) venga dirottata verso l'India
del Nord.
La casa di Ananta si trasforma così, per tutto il giorno, in
un'aula di scuola, ed è costantemente affollata di piccoli dalit che,
vestiti con gli abiti delle grandi occasioni, seguono le lezioni della
giovane maestra arruolata per l'intero anno.
Bene, ma ancora siamo in alto mare. Manca praticamente
tutto. Provate a pensare ad una delle nostre scuole, che
notoriamente sono carenti quanto a strutture e materiali, e per un
242
attimo provate a fare un elenco di tutte le cose che ci sono in una
classe, che so, di quarta elementare.
Un aiutino?
Occhei, cominciamo, per esempio, con le sedie. Se poi ci sono
anche i banchi ben venga, ma non sono essenziali. Una cartina
dell'India, e magari del mondo la vogliamo appendere ad una
parete?
I cartelloni con le lettere dell'alfabeto a cui corrisponde un
oggetto disegnato...questi non possono mancare. Pensate: F per
flower; E per elephant; B per bottle e via dicendo.
Fogli, matite, pennarelli, lapis e penne. E ancora, quaderni,
libri, favole, libri illustrati. E poi l'alfabeto hindi, quello inglese;
qualche poster, i famigerati cartoncini Bristol.
La lista è immane; il lavoro da fare è tanto, ma tanto è anche
l'entusiasmo, e allora...rimboccarsi le maniche, bel sorriso e
andare!
Ananta li sta aspettando davanti all'hotel M. Lo vedono da
lontano, laggiù, in piedi, accanto alla Bajaj rossa. È alto come
Skanda, quindi poco; in compenso è molto più magro. Ha un paio
di baffetti neri e due bellissimi occhi miti, che ricordano un po'
Robin Williams.
Quando spengono il motore e scendono di sella, si avvicina e
tende la mano, poi inizia a parlare a raffica in un misto di inglese e
idioma sconosciuto.
È gentile e simpatico, si vede che è uno che non sta mai fermo,
e infatti rimonta sulla moto e fa cenno di seguirlo.
Per arrivare a casa sua, che è l'ultima di un vicolo cieco nel
quartiere di Patel Nagar, a Gurgaon, passano davanti a decine di
supergrattacieli e a tantissime filiali di banche, compagnie aeree e
mega hotel a cinque stelle. Poi, così come sembravano sorti dal
nulla, nel nulla ritornano, e si ritrovano in un enorme quadrato
circondato dai grattacieli. Alzando il naso sembra di essere al
Central Park, circondati da altissimi edifici, e con la sensazione di
essere un po' affogati in mezzo a loro. Ovviamente in questo caso il
Central Park è composto di tendopoli, piccole case ad un piano,
strade dissestate, buche, voragini e crateri; persone sulla soglia di
casa sedute a chiacchierare, piccoli esercizi commerciali, cani,
243
capre, asini e neanche l'ombra di una mucca. Dappertutto cumuli
di immondizia, scheletri di automobili e mezzi a due ruote, e poi
accattoni, gente di strada e un odore, un odore che potrebbe essere
quello delle prigioni dell'800.
Ananta guida sicuro, evita le buche e aggira le voragini,
evidentemente ricco di una lunga esperienza, e loro lo seguono
fiduciosi. È la prima volta che si trovano così vicini alla miseria
vera. Qui non c'è niente di turistico, nessun occidentale. Eppure si
sentono tranquilli, non temono nulla, e non perché Ananta, che lì
ci abita, li accompagna, ma perché non c'è nulla da temere.
Si tolgono i caschi, i giubbotti, i guanti, e aprono una porticina.
All'interno solo un piccolo disimpegno, da cui salgono due rampe
di scale. Per terra decine di ciabatte di gomma, piccoline,
piccolissime, gettate alla rinfusa. Evidentemente, ricchi o poveri,
bramini o dalit, i bambini sono gli stessi ovunque. Salgono le scale.
Prima rampa.
Seconda rampa. Alla fine c'è una sorta di tenda, forse un batik,
forse un tappeto. Ananta è giá entrato, quindi adesso tocca a loro.
Tinto scosta con un braccio la tenda e fa cenno a Skanda: vieni
dentro!
All'interno ci sono una decina di bambini, di età variabile tra i
cinque e i dieci anni, tutti seduti composti che ascoltano una
maestra in sari che sta spiegando loro qualcosa. La stanza è
piccola, e loro sono quasi in braccio alla teacher, che, come tutte le
teachers, ha un'espressione a metà tra l'arcigno e l'angelico.
Sembra quasi di entrare in un mondo sospeso nel tempo e nello
spazio.
Dodici paia di occhi guardano, anzi, osservano questi due gora,
che hanno le dimensioni sbagliate (almeno uno dei due), i colori
sbagliati, i vestiti sbagliati, e riservano loro un'accoglienza degna di
un preside di liceo. Sono semplicemente splendidi, maschi e
femmine, tutti in piedi di fianco alle loro sedie, tutti tirati a lucido,
tutti ansiosi di presentarsi, cantilenando una sorta di litania che
comprende il loro nome e cognome, il nome e cognome dei loro
genitori e dei loro nonni, sia materni che paterni, il posto da cui
vengono, il posto in cui abitano. Qualcuno canta anche una
filastrocca, che assomiglia molto a whisky il ragnetto, completa di
movimenti e mimica.
244
Sono quasi imbarazzati; e commossi, senza il quasi.
Passano ore a parlare con i bambini, con la maestra, con la
mamma di una bambina che è venuta a prenderla un po' prima.
Ore che volano, tra un'incomprensione e una risata, poi tutti si
rilassano, scattano qualche foto, ma hanno una sorta di pudore
anche a fare questo semplice gesto, sembra quasi di violare
un'intimità serena e assorta, e di foto ne scattano davvero pochine.
Promettono di tornare a novembre con un sostanzioso pacco di
cancelleria e con una bella offerta che ogni partecipante all'India
Moto Challenge farà a Isla Ng Bata per far si che questo splendido
progetto vada avanti.
A novembre arriveranno, e poi a febbraio, e poi di nuovo a
novembre, tutti in moto, e sarà bellissimo. Inizieranno il viaggio
con i cuori pieni degli occhi di questi bambini, e la strada sembrerà
meno lunga, le buche meno infide, il traffico meno caotico, e le
città più belle.
Getteranno, certo, una sola goccia nel mare, ma sarà una goccia
grande, e soprattutto sarà la loro goccia.
Marillion: Kayleigh, 1985, EMI
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Back to Delhi
Gettano gli zaini e le borse alla rinfusa sul pavimento, poi
alzano gli occhi e si guardano intorno: nulla di che, ma sempre
meglio del caos che c'è fuori.
Skanda vede Meet che scende le scale, e un sorrisone gli
illumina la faccia. Da buon italiano avrebbe voglia di abbracciarlo e
dargli gran pacche sulle spalle, ma si trattiene, perché l'etichetta
indiana è un po' più complicata.
Lo presenta ai ragazzi, i quali devono ancora realizzare che sta
tutto accadendo per davvero; che questa è Nuova Delhi, India,
Asia; che le Enfield sono a soli duecento metri e che domani
partiranno. L'Amrit Villa è lo stesso della scorsa volta. Tutto gli è
familiare, anche la televisione a schermo piatto che trasmette
incessantemente le cerimonie Sikh in diretta dalla città di
Amritsar.
Poi Meet gli arriva alle spalle, e con fare cospiratorio lo porta
nella sala ristorante. Skanda si guarda intorno, ma non vede nulla
che attiri la sua attenzione. Ma Meet prosegue, e apre la porta che
conduce in cucina attraverso uno stretto corridoio, e lì, addossati al
muro, tanto grandi che occupano quasi tutto lo spazio, tre letti a
castello.
"Mai più dormire sui tavoli, sir" dice con un sorriso a trentadue
denti che brilla come una cometa.
La risata di Skanda si sente fino in strada, dove i partecipanti al
Moto Challenge sono intenti a fumare e a guardare quel mondo
alieno.
The Cure: Just like heaven, 1987, Fiction Records
246
Nota
Ovviamente i nomi dei due protagonisti sono di fantasia, così
come una parte degli altri nomi sparsi qua e là. Tutto il resto, però,
è scrupolosamente vero. L'idea, infatti, era quella di scrivere una
sorta di guida romanzata del nord dell'India, un po' come Il
sentiero degli Dei di Wu Ming 2. Spero comunque che possa
rivelarsi una lettura piacevole anche per coloro che l'India la
vogliono visitare solo dal divano di casa; ma se qualcuno dovesse
passeggiare per Jodhpur con questo libriccino in tasca il mio
obiettivo sarebbe raggiunto.
Alla fine di ogni capitolo noterete, sono certo, che ho messo il
nome di un gruppo ed il titolo di un brano. Questo non è, lungi da
me, un suggerimento; è soltanto il titolo della canzone che ho
ascoltato mentre scrivevo il capitolo in questione. Effettivamente, a
posteriori, rileggendo, mi rendo conto che, lontano lontano, si
sente un'eco del brano mentre le parole scorrono. Se questo vuol
dire che la musica ha influenzato le parole o che, semplicemente,
quelle parole si sposano bene con la melodia, non lo sapremo mai.
Voi sentitevi liberi di ascoltare quello che volete leggendo il libro,
meglio se è il fruscio del vento tra gli alberi o il rumore della
risacca.
Un abbraccio a voi, lettori reali, futuri e virtuali, in attesa di
avervi con Hic Sunt Leones in giro per le strade del mondo.
Stay wild, stay shanti!
J.
247
Finito di stampare nel mese di Dicembre 2014
per conto di Youcanprint Self-Publishing