Rilke in Italia Non é facile parlare con semplicitå di
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Rilke in Italia Non é facile parlare con semplicitå di
Rilke in Italia di Bonaventura Tecchi, Roma Non é facile parlare con semplicitå di Rainer Maria Rilke: dire della sua arte senza cadere nel cerchio di sottili disquisizioni mistico-esoteriche, ardue per natura ad afferrarsi o comunque non adatte ad esser delucidate in breve spazio; oppure senza essere travolti nelle ondate deirentusiasmo sentimentale, come é accaduto a parecchi esegeti di questo poeta tedesco, di cui in questo anno, com’é noto, ricorre il trentesimo della morte. Ma non é facile neppure, in termini piu modesti, dare un’immagine chiara e ben definita di lui sullo sfondo di uno dei tanti paesi in cui egli viaggio o nei quali per qualche tempo dimoro. L’immagine di Rilke é sfuggente: non solo per il carattere delicato, timidissimo deH’uomo (proveniva da un’antica nobile famiglia della Carinzia, trasferitasi attraverso i secoli in Boemia; ebbe una fanciullezza dolorosa, con un complesso di paure e di angosce infantili che influirono poi fortemente su tutta la vita del poeta, la morte precoce della madre, la rapida rovina economica sulla soglia della giovinezza...); non solo per quel suo modo di appartarsi nella conversazione, di rimanere nell’ombra, come ce lo ha descritto Hans Carossa in un incontro del 1914, ma anche perché Rilke non fu un «viaggiatore» nel senso usuale di quest’espressione, cioé uno che ha una casa sua, una patria o almeno un paese in cui ha scelto e fissato durevolmente la sua dimora e da li si muove per «viaggi» piu o meno lunghi e per un «ritorno» sicuro. Rilke non ebbe dimora durevole, né nelPAustria in cui nacque né in Germania, né in Francia, per nominare i paesi in cui visse piu a lungo. Rilke fu un viaggiatore, un pellegrino perenne: nel senso materiale, in quanto egli viaggio e dimoro in tutti i principali paesi d’Europa (meno lTnghilterra e la Grecia), ma soprattutto nel senso piu alto. Benché chi scrive non ami le frasi ad effetto, mi pare si possa dire che Rilke viaggio tutti i giorni della sua esistenza terrena in cerca di quello che di lå dagli aspetti materiali, comuni, visibili del mondo estemo, egli riteneva l’«essenziale» nella vita. Questo «es- Bonaventura Tecchi, Roma senziale» é senza dubbio da intendere in senso religioso, ma d’una religiositå non facilmente definibile: non certo chiesastica, non legata ad alcuna delle religioni storiche. Rilke sentiva l’esigenza di una realtå piu profonda di quella comune, misteriosa, «invisibile», ma che fosse viva e segreta dietro le cose di questo mondo, non giå da trasferire nel mondo dell’al di lå. E bene non indagare e non definire di piu tale concezione, e contentarsi, almeno in questo momento, di accenni cosl imprecisi. Ma quello che importa dire é che la passione di cotesta ricerca in Rilke, la sua ansia di dire quel che altri finora non aveva detto, di riuscire ad afferrare e plasmare con la parola umana l’invisibile (vocazione dunque di «annunciatore» ma insieme anche di artista) gli diedero tanta forza e coraggio, tanta inesorabilitå e severitå verso se stesso e la sua arte, da riscattare in gran parte certe piccole manie, certe debolezze che sono proprie di lui come di ogni poeta cosl detto «decadente». Bisogna arrivare all'ultima tappa della sua opera, alle Elegie di Duino, che il Rilke considerava «quale calco positivo del Malte» (I quaderni di Malte Laurids Brigge), con l’accettazione entusiastica della morte quale elemento fondamentale della «metamorfosi perenne», per comprendere il lungo faticoso cammino di questo poeta: cammino diritto piu di quel che non sembri; fatica ostinata, conseguente e coraggiosa, nonostante tanti scoraggiamenti e angosce quasi infantili. Quanta parte ha avuto in una formazione cosi laboriosa la conoscenza della Italia, la dimora che Rilke fece a lungo nel nostro paese, sebbene a piu riprese e in diverse localitå? É domanda complessa e di non facile risposta, perché tutto cio che si riferisce a Rilke, tutto quel che ha avuto o pud avere avuto «influsso» su di lui avviene per vie misteriose, si dirama come un’acqua segreta entro canali nascosti, s’allontana e sembra perdersi per sempre, e poi invece riconfluisce nel momento piu inaspettato. Per tagliar corto e per obbligo di chiarezza, diremo subito che l’esperienza italiana non ha avuto queirimportanza di primo piano che ebbero su Rilke altri paesi e altre culture. Intanto il misticismo di lui, che trovo il primo seme, com’é naturale, in un temperamento adattissimo fin dall’infanzia a riceverlo, per le angosce che Rilke soffriva, per la paura della morte, per la disposizione a fantasticare, aveva precendenti indubitabili nel clima e nella tradizione della cultura tedesca. Basterå citare questa frase di Jacob Bohme: «I1 mondo visibile con tutto il suo muoversi e il suo stare non e altro che un riflesso del mondo spiri- Rilke in Italia tuale, nascosto nel primo: materiale ed elementåre«. O quest’altra frase di Novalis: «L’estemo é lo stato misterioso di un mondo interno, superiore». E per l’idea della «metamorfosi perenne» le citazioni sugli influssi tedeschi potrebbero farsi a iosa, non ultima quella di Goethe che Rilke lesse, o meglio rilesse, proprio nel castello di Duino poco prima che nascessero le Elegie. Ma quel che era innato in un temperamento, e giå fisso come un destino, quel che era giå diffuso da secoli nel clima della tradizione tedesca, trovo nel caso particolare di Rilke, per il modo e il tono con cui si sarebbe dovuto poi esplicare, per la forma che avrebbe dovuto poi prendere, il terreno piu adatto, l’incentivo piu congeniale nell’incontro con l’esperienza russa. I due viaggi di Rilke in Russia a 24 e 25 anni sotto la guida di Lou Andreas-Salomé, scrittrice di lingua tedesca ma nata a Pietroburgo, rappresentano, come egli stesso dice, das Entscheidende, «il punto decisivo». Da allora in poi la Russia sarå sempre per Rilke il «paese di Dio», e le immagini delle immense distanze, della povertå, dei derelitti, dei girovaghi, dei disperati, saranno le piu accette alla sua poesia. Ma la vocazione di Rilke non era soltanto di annunciare quel che gli altri non vedevano, era anche, e soprattutto, di poeta, di artista. Quando egli a Parigi si incontro con Rodin, giå maestro della moglie, la scultrice Clara Westhoff, e si domando quale fosse il suo Handwerk, il métier di cui tanto parlava Rodin, ecco che Rilke scopri la «parola» non solo come unico mezzo dato al poeta per afferrare le forme invisibili, ma anche come mezzo quasi magico di ricerca, anzi creatrice essa stessa di una «realtå» nuova, evocatrice delle realtå invisibili. Come tecnica e come spirito si muoveva giå, Rilke, nella scia di Mallarmé e di Valéry ... L’esperienza russa e quella francese, intrecciandosi, sono state due degli elementi fondamentali della formazione di Rilke. Non rimarrå dunque all’esperienza italiana che un ruolo assai secondario, d’importanza quasi trascurabile? «Ho conosciuto e amato l’Italia fin da quando avevo otto anni; con la sua varietå e pienezza di forme, essa é stata, per cosi dire, Yabc del mio essere che si formava» - questo dice Rilke in una lettera del 17 marzo 1926, pochi mesi, dunque, prima della morte. E se é vero, come é vero, che Rilke fu molte volte in Italia, che moltissime lettere sono datate dell’Italia o echeggiano ricordi italiani e che egli dimoro non brevemente a Roma, a Capri, a Duino e a Venezia, non si potrå dubitare della veritå di quelle parole. Tuttavia i rapporti di Rilke con l’Italia non furono cosi semplici come Bonaventura Tecchi, Roma la lettera del 1926 potrebbe far credere. Vi sono neWEpistolario a piu riprese reazioni e giudizi, malumori e insofferenze, entusiasmi e contraddizioni che vogliono una mano delicata e prudente. Solo chi conosce il groviglio, l’oscuro confluire di tanti meandri sottili attraverso cui si formo l’arte di Rilke (e chi scriverå una tale intima storia assisterå, meglio forse che presso ogni altro artista modemo, allo spettacolo meraviglioso del nascere lento, minuto per minuto, controllato del resto con acuta coscienza dallo stesso Rilke, di un’anima e di una poesia), solo chi riuscirå a districare tale groviglio potrå indicare con certezza quanto l’Italia ha dato a Rilke. Cominciando dall’infanzia, e dovendo attenerci solo ai fatti principali, si sa che Rilke ando piu volte da ragazzo sul Lago di Garda, specialmente ad Arco, presso Riva, allora appartenente all’Austria. I biografi non dicono altro, e noi si vorrebbe sapere tanto di piu di quei giorni della fanciullezza o della prima gioventu passati su terra italiana. Si sa che alcune delle poesie poi raccolte nel volume Friihe Gedichte, per esempio quella che incomincia: Und ich ahne: in dem Abendschweigen J ist ein einstiger Opferbrauch; o l’altra: Ihr Madchen seid wie die Kahne, furono scritte sul Lago di Garda. Ma sono poesiole giovanili, alcune gia piene di quell’incanto gentile che é proprio della poesia di Rilke, nessuna pero con qualche cosa di veramente caratteristico dell’atmosfera e del paesaggio italiano. E piu che pensare alla minuta affettuosa descrizione di una vecchia chiesetta solitaria vicino a Chiarano (Arco), contenuta in un diario di quel tempo, oppure al fatto che parecchie composizioni giovanili hanno date e nomi di persone e di luoghi italiani, mi fermerei piuttosto su quel brano di una lettera da Pietroburgo nel 1900 a Lou Andreas-Salomé: «Tu lo sai, tante volte ti ho raccontato di quei miei scoiattoli che in Italia da bambino allevavo e per i quali comprai lunghe corde, in modo che potessero muoversi, senza esser liberi, fin sulle piu alte cime degli alberi...» C’é qui un particolare preciso, che ci viene dai primi anni di Rilke, e un baleno del suo acuto interesse per le bestie, poi confermato nel Malte e in tante altre pagine. Nel 1897 fu a Padova, ma non «la scopri»; nello stesso anno fu per la prima volta a Venezia . . . Ma l’esperienza principale di questo periodo, fatta su terra italiana, é quella di Firenze, dove Rilke fu dalla metå di aprile ai primi di maggio del 1898. C’é un Diario toscano che merita attenzione. Lo pubblico in parte, alcuni anni fa, l’Angelloz; é stato pubblicato per intero nel 1942, col titolo Diario fiorentino. Questo libretto di centotrenta pagine é come il Rilke in Italia vivaio di tutte le idee che verranno poi, specie sul werdender Gott, sul Dio che diviene, che si forma, che sarå poi, nel pensiero di Rilke, il «Dio del futuro ». Ma quello che é straordinario é che l’esperienza toscana, la visione dei monumenti e delle pitture di Firenze, con la chiarezza e precisione delle loro linee, non rappresento il polo opposto del misticismo romantico di Rilke, della grande esperienza russa verso cui egli si incamminava (nella primavera del 1899 cade il primo viaggio nel paese degli Zar), ma fu intesa da Rilke, e tale egli poi la defini apertamente, come una «preparazione» al viaggio in Russia. Gli é che Rilke vide i monumenti e le pitture della Rinascenza fiorentina con gli occhi suoi o, tutt’al piu, con quelli dei Preraffaelliti e dei Nazareni che in quel momento stava studiando. E fra tutti i pittori l’unico che suscito il suo entusiasmo fu il Botticelli: «Se io penso alla Madonna del Magnificat la mia felicitå mi appare stragrande e immeritata». E giå nel 1897, rievocando le Madonne del Botticelli, parlava «di quella loro tristezza stanca, dei loro grandi occhi che cercano Erlosung und Erfiillung (liberazione e compimento): figure di donne che hanno timore di diventar vecchie senza una sana gioventu». Dopo i 15 giomi di Firenze, soffocato «dairintrico di strane viuzze», Rilke passo sulla spiaggia toscana a Viareggio, dove scrisse i Lieder der Madchen, «Canti delle ragazze», e la prima stesura di una breve finzione scenica: Die weisse Fiirstin «La principessa bianca». Sono, questi Canti delle ragazze, lievi aeree poesie, dove l’interessamento timido e gentile del poeta verso le belle ragazze in fiore s’apre in toni delicati; e forse gli furono ispirati da fanciulle italiane sulla spiaggia toscana. Certo é che a queste ragazze dei suoi canti egli ripenso con piacere quando, cinque anni piu tardi, nella primavera del 1903, Rilke fuggi da Parigi quasi come era fuggito da Firenze, e si reco di nuovo a Viareggio. «A Viareggio era domenica. Le ragazze dei miei Mådchenlieder andavano a schiere, tenendosi a braccetto, in mezzo alle larghe strade. Pescatori sedevano davanti alle osterie e cantavano. Dovunque era il fruscio del mare, la presenza del grande mare sublime, udibile dovunque, penetrante anche entro la piu piccola parola che fosse pronunciata, intrecciata anche al piu piccolo silenzio». E in quel silenzio, in quella solitudine, lontano piu che fosse possibile dall’Hotel Florence dove abitava, presa in affitto l’ultima di una piccola serie di cabine, nacquero lungo il mare i versi del «Libro della povertå e della morte», terzo dello Stundenbuch. Sono anch’essi «preghiere» come le prime due parti di quest’opera, e sono tra le piu belle di Rilke. 57 Bonaventura Tecchi, Roma A noi, abituati a vedere in Viareggio la spiaggia mondana del lusso e della ricchezza, potrå parere strano che il canto della povertå e della morte sia nato proprio li. Ma nel 1903 Rilke scriveva a Rodin di abitare in un «petit village tranquille», «en face de la mer, qui est grande ici, solitaire et sauvage». I critici dicono che quest’ultima parte dello Stundenbuch, come giå le prime due, é tutta affidata al fascino di una melodia lenta e profonda come una musica religiosa, piuttosto che allo splendore delle figurazioni. E sarå anche vero che l’insegnamento di Rodin, il quale dovrå poi tanto influire su Rilke nel senso di condurlo verso la forma e le immagini plastiche, non si facesse ancora in lui sentire; e che l’ultima parte dello Stundenbuch dovesse percio nascere nella scia e nello spirito delle altre due. Ma alla musica grande e solenne, eppure intima, del canto della povertå e della morte non avrå in nulla contribuito la presenza del mare, la musica del mare, a cui vedemmo subito cosl intento l’orecchio di Rilke? In ogni modo in questo canto é espressa una delle idee che diventeranno poi fondamentali nella poesia di Rilke: l’idea che ognuno deve avere la sua morte, che la morte é legata alla vita, fa parte della nostra vita: «Da’, Signore, ad ognuno la sua morte; I la morte che fiori da quella vita, / in cui ciascuno amo, penso, sofferse». Né é da dimenticare che gli ultimi versi dello Stunden buch, scritti forse anch’essi a Viareggio, sono la glorificazione del santo italiano che piu di ogni altro personifica la povertå: il santo di Assisi. Ad Assisi, a Perugia Rilke pensava giå allora, in quella primavera del 1903, di recarsi; ma irrequieto e scontento come diventava sempre, dopo un pox’ che s’éra fermato in un luogo, fece ritomo nel maggio a Parigi, di li passo in Germania. La nuova tappa italiana é Roma, dove fu dal novembre 1903 al maggio del 1904. E fu un momento importante. A Roma Rilke incomincid a scrivere i quaderni di Malte Laurids Brigge, che doveva compire solo sette anni dopo, ma che rappresentano, com’é noto, un punto d’arrivo nella sua arte, con un accento tale di novitå quale fu poi ripreso e completato soltanto dai Sonetti a Orfeo e dalle Elegie di Duino. Ma dire perché il momento romano fu importante é difficile. É cosa che si nasconde nell’ombra, che s’irretisce entro i turbamenti, le vibrazioni, le contraddizioni di un temperamento quanto mai apprensivo e nervoso. Apparentemente il viaggio e la dimora a Roma hanno tutti gli aspetti di una esperienza non felice. Rilke abito, nei primi giomi, in via del Campidoglio, «nell’ultima casa con la piccola terrazza che då sul Foro Romano«; si trasferi poi Rilke in Italia in «una casetta, l'ultima e la piu appartata del grande giardino inselvatichito della Villa Strohl-Fern», nelle vicinanze della villa di Papa Giulio. Era venuto da lontano come «per un richiamo della grande Roma», e le prime impressioni furono di simpatia: le acque, le scale, che «costruite secondo il modello di acque cascanti, mettono avanti cosi stranamente i loro gradini come onda dopo onda», le notti romane, le fontane (a una delle fontane di Villa Borghese Rilke dedico, come é noto, una poesia, scritta pero piu tardi, che fa parte dei Neue Gedichte), tutto lo interessa, e nell’intimitå della pic cola casa della Villa Strohl-Fern riesce a sentire, «per la primissima volta dopo tanto tempo», un po’ di calma e di gioia. Ma presto la gioia si tramuto in un malessere acuto. La lunga pioggia d’inverno, certe abitudini dei carrettieri romani di infierire contro le povere bestie da soma, la primavera venuta troppo presto e troppo rigogliosa, giå quasi estate, certi aspetti delle festivitå cattoliche in cui vedeva piu pompa estema che intimitå religiosa, misero in uno stato di esasperazione, anzi di aperta rivolta, i nervi di Rilke. Egli si rifugiava nell’intimitå della «casetta rossa» e pensava a quello che dopo tanti tentativi e tanta fatica sarebbe diventato il «grande lavoro»: il Malte. L’angoscia di Malte era stata sentita per la prima volta a Parigi: quella visione di tanti ospedali, di tante miserie sconosciute, quello spettacolo della «impassibilitå», propria di una grande metropoli. A Roma Rilke soffre un malessere simile eppure diverso; ma ripensandoli insieme e confrontandoli, i due stati d’animo, ecco che egli scopre una cosa molto importante. «Qui — dice una lettera da Roma - tutto é piu piccolo, meno penetrante, non cost imbevuto di impassibilitå come a Parigi . . . a Parigi invece tutto quello che era brutto e grave (alles Hdssliche und Schwere) mi afferrava come se fosse bello». Non c’é qui in germe, il fascino delle impressioni di Malte Laurids Brigge? das Hdssliche, cioé lo spettacolo della miseria, dell’abbandono, del dolore; das Schwere, cioé il peso del mistero della vita, della morte, non sono sentiti in quelle pagine come materia d'arte? Comunque sia, é un fatto che a questo primo momento della genesi della sua opera, nonostante tutti i cambiamenti della seconda e definitiva stesura, Rilke ripenso poi sempre con nostalgia: non solo quando, interrotta Fopera e lasciata Roma, preso nelle maglie di un lavoro troppo intenso e meccanico (segretario privato di Rodin dal settembre del 1905 all’aprile del 1906), anelava di nuovo alla libertå per poter lavorare, ma anche quando a Capri, nella «casetta delle rose» che tanto gli ricordava la «casetta rossa» di Roma, pure in mezzo a nuove occupazioni, cercava invano di riprendere la composizione del Malte. Bonaventura Tecchi, Roma E la nostalgia di Roma non finirå piu; neppure negli ultimi anni quando, giå compiuto da un pezzo il Malte, confessava che «il desiderio di rivedere Roma era diventato cosi grande da essere quasi insopportabile». A Capri fu dal dicembre 1906 al maggio 1907 e una seconda volta, piu breve mente, dal 28 febbraio alla metå aprile 1908, ospite a Villa Discopoli della signora Alice Faehndrich. A Capri successe qualche cosa di opposto a quel che era awenuto a Roma. Le prime impressioni furono molto sfavorevoli: Capri sembra a Rilke una cattiva invenzione dei turisti tedeschi, uno scenario falso, arriva perfino a dire che l’isola non é che un Unding, «un’assurditå». Solo lentamente, accarezzato (e anche troppo) dalle attenzioni e daH’ammirazioni di un gruppo ristretto di conoscenze, quasi tutte aristocratiche e quasi tutte femminili, che si radunavano a Villa Discopoli (la «casetta delle rose» era in un angolo appartato di questa villa); uscito finalmente all’aperto e venuto a contatto con la popolazione dell’isola (assisté fra l’altro a una tarantella); e, soprattutto, scoperta Anacapri, la solitudine di una chiesetta rustica lassu, sulla montagna, la vista grandiosa del mare, le notti di luna e anche di tempesta durante le quali si avventurava da solo, Rilke si riconcilia con Capri. L’isola del golfo di Napoli é forse il posto, a giudicare dall’epistolario, dove piu che in ogni altro Rilke venne a contatto con la natura, sia pure con una natura eccezionale come quella di Capri. E’ il momento dei Neue Ge dichte, cioé il periodo nel quale, pur non dimenticando il suo misticismo (Rilke legge fra l’altro a Capri i Fioretti di San Francesco), egli osserva le forme precise delle cose, delle piante, degli animali, sebbene con quell’attenzione intensa e lunga che voleva arrivare a scoprire l’aspetto essenziale della cosa osservata. E a Capri sbocciano alcune di queste «nuove poesie», ma anche tutta una lunga serie di lettere bellissime, forse piu le belle di Rilke, a cominciare da quelle dirette alla moglie, che in quel momento viaggiava verso l’Egitto; a Capri il poeta traduce i sonetti di Elisabeth Barrett-Browning . . . Senza dubbio l’idea di immaginare Rilke, che a Villa Discopoli in un eletto cerchio di dame legge loro ogni mattina qualcuno dei Fioretti come un viatico mistico per la giornata, fa una certa impressione; e meglio piace la sua scontentezza, il suo desiderio di ritomare a Parigi, dove aveva potuto esser solo «come in nessun altro luogo del mondo». Ma Capri ritornerå spesso e con gratitudine nel ricordo di Rilke; né fa meraviglia, dato il sottile misterioso groviglio degli influssi a cui era esposto, che parecchi anni piu tardi egli riconosca Rilke in Italia come molto importanti per la elaborazione segreta del Malte certe sere nella Villa Discopoli «quando nulla avveniva, se non che io sedevo vicino a due vecchie signore ed a una giovane ragazza, e guardavo il lavoro delle loro manb. Tra le dimore a Capri e quelle a Venezia, o meglio nell’andare e venire da Capri, sta Napoli: visite brevi, di passaggio nella cittå del Vesuvio, ma tutte con un ricordo di felicitå, di sole, di contatti col popolo minuto, di osservazioni all’Acquario, di considerazioni artistiche al Museo. Anche Venezia e in generale la parte nord-orientale d’Italia, compreso Duino, dovettero soffrire nell’esperienza di Rilke l’altemativa delle simpatie e delle repugnanze, dei difficili approcci e poi delle riconciliazioni come avvenne a Roma ed a Capri. Giå nelFaprile 1897, dopo la prima visita a Venezia, Rilke scriveva: «qualche cosa di misterioso si libra sui lunghi canali, attraverso le gondole nere . . .». Eppure non si puo dire che le immagini di Venezia come risultano dalle prime impressioni o da alcuni versi giovanili nella raccolta Advent portino qualche cosa di nuovo e di personale. Anche la Venezia nella notissima novella delle «Storie del buon Dio», la Venezia del ghetto con il vecchio ebreo che sale sulla piu alta casa per awicinarsi a Dio, potrebbe essere una Venezia mai veduta da vicino, soltanto letta nei libri. Anche qui, come per Capri, e del resto per Parigi, l’accostamento é gra duale, lento: solo nel 1907 nei Neue Gedichte Venezia diventa «rilkiana»: «la cittå che, appena un chiarore di cielo sfiori le sue acque, sempre di nuovo si forma, senza «essere» mai». Soltanto piu tardi, dopo le dimore negli anni 1910-11-12, dopo i passaggi frequenti da e per Duino, il «segreto» di Ve nezia, che non é fatto soltanto, avverte Rilke, del «semplice incanto» che scorgono i forestieri, gli si svela. «La visione dei brevi soggiorni precedenti, il facile incanto cadono, appena vi si prende alloggio e ci si armonizza alle sue condizioni di vita ...». Cosi Rilke scopre nella cittå della laguna una realtå «forte e dura»; ma é «una realtå» naturalmente rilkiana, cioé di lå dalle apparenze fisiche. E solo allora la cittå gli diventa sua, indispensabile. Del resto anche nel Malte, alla Venezia «molle e oppiacea» dei forestieri il poeta aveva opposto quell’altra Venezia: «reale, sveglissima . .. non emersa, per niente affatto, dai sogni; quella Venezia, voluta a ogni costo dal nulla». E a Venezia abita a Palazzo Valmarana, a Venezia Rilke conosce di persona la Duse, giå ricordata nel libro su Rodin, giå evocata nel Malte; Venezia di venta, nel difficile momento in cui furono ripresi i contatti con le vecchie amicizie neirimmediato dopoguerra, il primo punto di appoggio. Bonaventura Tecchi, Roma II bisogno della solitudine, anche della segregazione assoluta, era stato sempre fortissimo in Rilke. In un diario giovanile aveva scritto: «se Dio ha dato una legge, essa suona cosi: sii solo di tempo in tempo». E da Parigi era scappato piu volte per sfuggire alla «tirannia della faccia umana»; dalle campagne e dal mare era ritornato nelle metropoli «per essere piu solo». Or dunque quando, compiuto e pubblicato il Malte, egli senti in se stesso un gran vuoto, ebbe l’impressione di essere un «sopravvissuto» al grande sforzo durato e ricomincio l’angoscia di non poter creare null’altro, Rilke accetto l’invito della principessa Thurn und Taxis, conosciuta a Parigi nel 1909, di recarsi nel suo castello di Duino. Duro castello in mezzo alle pietraie del Carso, che i combattenti italiani bene cor.oscono per le aspre battaglie del 1916-17 verso la foce del Timavo; duro castello, dalle immense mura massicce, entro le quali al poeta sembrava d’esser tenuto prigioniero. «Dall’altro ieri sono veramente solo, qui, entro le vecchie mura: di fuori c’é il mare, di fuori c’é il Carso, di fuori la pioggia, forse domani la tempesta». Ma anche in quell’aspra solitudine la pace non venne: era il tempo in cui per curare le vecchie inquietudini, e le nuove, gli amici e le amiche lontane consigliavano di ricorrere come toccasana alla psicoanalisi. E piace il modo come il Rilke rispose di no: gli pareva che se Freud fosse riuscito a togliergli via ogni inquietudine, egli sarabbe rimasto come «un vecchio quaderno di scuola», con alcune pagine stracciate, con altre corrette da freghi rossi... Ma psico-analisi o no, rimaneva l’angoscia di non poter lavorare, rimaneva l’altemativa di vedere / quaderni di Malte ora come «un tramonto», ora invece come «un’oscura ascensione in un angolo remoto e dimenticato del cielo»; fino a che un giorno del gennaio 1912, camminando e meditando per uno stretto viottolo ai piedi del castello, esplose l’invocazione: «Chi mai, s’io grido, mi udrå dalle schiere celesti? E d’improvviso un angelo al cuore mi afferri...». Era l’inizio della prima elegia di Duino, era l’arrivo dei nuovi angeli di Rilke. Dovranno passare dieci anni, dal 1912 al 1922, dovrå esserci di mezzo la «terribile» parentesi della guerra, perché il lavoro, interrotto alla seconda elegia, possa essere con ardua fatica ripreso e completato; e insieme con le Elegie di Duino gli nasceranno in un fiotto improvviso anche i Sonetti a Orfeo. Ma quando il poeta, dopo la guerra mondiale, cercherå di nuovo la solitudine per l’ultimo compimento della sua opera, se non gli accadrå di trovarla questa volta in Italia, la troverå in un paese vicino, in una vallata svizzera, dove viaggiatori, in procinto di andare o di ritorno dall’Italia, ogni tanto verranno a interrompere la nuova solitudine. Rilke in Italia Nel piccolo castello di Muzot Rilke trovo le voci arcane delle Elegie e dei Sonetti, ma trovo anche la morte, la sua morte. Una delle ultime frasi di questo uomo straordinario, cosi debole per tanti aspetti e cosi forte per alcuni altri, pare fosse quella che egli disse ai suoi infermieri quando, malatissimo, questi volevano per mezzo di qualche iniezione prolungargli artificiosamente la vita: «No, lasciatemi morire della mia morte. Non voglio sapeme della morte dei medici».