La mantide religiosa (Attenzione alla beatitudine)

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La mantide religiosa (Attenzione alla beatitudine)
La mantide religiosa
(Attenzione alla beatitudine)
Elena Faralli
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Liva era la proprietaria del mulino, l’unico del paese. La mugnaia lo gestiva
con tenacia e capacità assieme al marito Silicio Olivagnoli. Lui di qualche anno
più grande l’aveva sposata ancora giovinetta. In paese i due rappresentavano la
coppia modello, lei bella, alta, formosa, lui forte come un toro, tutto muscoli e con
quel ben di Dio di mulino, sembravano destinati ad un futuro roseo come le guance
di Liva, con i capelli neri come l’ebano e l’incarnato di una statuina di biscuit.
Purtroppo le cose non erano andate così, dopo un lungo viaggio in maremma
Silicio tornò con la malaria addosso, mal curata sul luogo, fu riportato a casa sopra
un carro, dai suoi operai, nonostante le affettuose cure della moglie morì in capo a
due settimane.
La mugnaia poco più che ventenne si disperò tanto, si mise in lutto come si
conveniva a quei tempi e siccome il matrimonio non aveva portato figli si buttò
anima e corpo nell’unico bene rimasto, il mulino. Lavorava sodo, le braccia
erano diventate forti come quelle di un uomo. Strano a dirsi, ma la sua bellezze
non rimase minimamente scalfita, anzi il nero le donava ancor di più diventando
ogni giorno più bella. Attorno al mulino giravano molti uomini e alle lusinghe lei
restituiva risposte secche e lapidarie.
Passò qualche anno, in paese gli uomini fremevano ogni volta che la donna si
recava alla messa, l’aspettavano in fondo alle scale della chiesa, solo per vederla
salire fino su in cima, sperando di poter intravedere una qualche trinolina sotto le
vesti. Primo tra loro Viro, l’aitante figlio del proprietario del bazar. Guarda oggi
guarda domani, il giovanotto si fece avanti, lei prima fece un po’ la scontrosa,
poi iniziò a dire che era troppo presto, poi non vide l’ora di accettare la corte
dell’uomo e così in men che non si dica i due si sposarono.
Gli affari al mulino andavano sempre meglio, i due si amavano, adesso lei poteva
contare nella compagnia del nuovo marito, nella compagnia appunto, poiché
al buon Virio il lavoro non faceva buon sangue, lei era ugualmente contenta, si
occupava della casa e del mulino. Virio era tipo da merende e giochi di carte, ma
andava bene così, avevano tutto ciò che a loro serviva.
Fu proprio durante una merenda, di quelle memorabili che a Virio andò di traverso
un uovo sodo. Facevano a gara a chi ne mangiava di più, l’uomo conduceva il
gioco con una vincita netta di dodici uova a sette, all’improvviso strabuzzò gli
occhi. Non ci fu niente da fare, fu preso e rigirato, ma ogni tentativo fu vano.
Virio morì soffocato durante una merenda nella cantina di un amico giù per la
Costa della Sora Elvira.
Vi lascio immaginare la povera Liva, di nuovo sola, di nuovo disperata, indossò di
nuovo gli abiti neri e nuovamente si rilanciò nella sua attività.
Alla soglia dei trenta anni Liva si guardò attorno, gli uomini le facevano ancora
la ronda e fu così che una sera di Natale in chiesa si ritrovò seduta accanto
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alla guardia municipale, un bell’uomo, anche lui vedovo e senza figli, assieme
condivisero le preghiere di quella santa notte, mentre fuori nevicava, assieme
ritrovarono un po’ di calore in quei loro cuori solitari. Iniziarono a frequentarsi al
mulino, lui andava con la scusa di scaldarsi tra un servizio e l’altro, lei gli offriva
un bicchiere di vino, l’uomo si rinfrancava il corpo e lo spirito. In breve tempo
decisero di sposarsi.
I due si amavano, avevano ricreato quell’atmosfera familiare che entrambi avevano
perso e nuovamente desiderato. La coppia non era ancora stata benedetta dalla
nascita di un erede, lei si avvicinava alla quarantina, ma i due erano comunque
felici nel loro nido fatto di piccole cose. L’impresa condotta dalla bella mugnaia
andava proprio bene, oramai aveva un buon numero di operai che lavoravano per
lei, Bonello, questo era il nome del marito continuava il suo lavoro di guardia
comunale, persona davvero volenterosa, non si tirava mai indietro, anche giù
al mulino, anche se francamente dopo i primi tentativi la sua opera era stata
decisamente bocciata. Il poveretto era in effetti volenteroso ma totalmente
inadatto. La prima volta che entrò nel mulino riuscì, incespicando a far crollare
una pila di sacchi di grano, in seguito non si sa come appiccò un incendio che
fortunatamente venne spento dagli operai prima che potesse fare danni seri, ma la
cosa insormontabile era che Bonello, allergico alla farina, ogni volta che entrava
nel mulino, iniziava una giaculatoria di starnuti uno appresso all’altro, tant’è che
Liva comprese che era meglio che il marito rimanesse alla larga dal mulino, non
avendo cuore a dirglielo, insisté sulla sua salute, cercò e trovò le parole adatte, lui
a malincuore accettò, rendendosi disponibile ogni qual volta ci fosse stato bisogno
della sua preziosa collaborazione. Tale collaborazione per ovvi motivi non fu mai
richiesta, al mulino tutto continuò come prima.
Tra i compiti delle guardie comunali c’era quello dell’abbattimento degli animali,
questi venivano portati, fuori la porta, al mattatoio comunale, nei pressi del
lavatoio del Pigherino e uccise dalla guardia comunale con una pistola. In paese
tutti conoscevano la scarsa attitudine di Bonello, e infatti era stato rimosso da
questo incarico, accadde però che la guardia destinata a questo compito fosse
ammalata, a onor del vero si era costipato dopo un’indigestione di lumache
in umido. Il Sindaco, facendosi il segno della croce, dette ordine a Bonello di
presiedere all’uccisione delle bestia. L’uomo tutto contento si presentò all’alba
presso il mattatoio munito dell’arma del collega malato, tre uomini tenevano ferma
la bestia, un bue grande e grosso di razza maremmana, con due corna enormi.
Bonello puntò l’arma verso la fronte dell’animale, premette il grilletto, puff!
Dall’arma non uscì niente, l’uomo si mise a armeggiare con la pistola, se la puntò
verso il volto e iniziò a soffiare dentro la canna premendo nuovamente il grilletto,
gli altri uomini entrarono nel panico, qualcuno lasciò l’animale nel tentativo di
disarmare la guardia, urla, bestemmie, la guardia continuava a trafficare con la
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pistola. La povera bestia spaventata iniziò a scalpitare, roteando la testa riuscì a
liberarsi dalla presa degli uomini e colpire Bonello con le corna.
Bonello morì quasi sul colpo, fu steso sul quel lastricato di pietra, dove
normalmente venivano abbattuti vitelli e maiali.
Liva cadde in un profondo sconforto, si sentiva sola più che mai, iniziava a pensare
che ci fosse una maledizione sulla propria vita, si chiuse in se stessa, sempre più
triste, sempre più disperata, da quei tre matrimoni non aveva avuto nemmeno un
figlio su cui riversare affetto, divenne cupa, avvolta per l’ennesima volta in abiti
scuri. Scura e cupa, ma sempre bella, si domandava lei stessa come mai il suo
aspetto apparisse così florido. In paese intanto, erano iniziate una serie di dicerie
sulla mugnaia, si diceva che fosse una strega, che uccidesse lei stessa i mariti, le
donne la descrivevano una fattucchiera che ammaliava gli uomini per poi ucciderli,
per gli uomini si trattava invece di vera iattura. Comunque la donna ispirava
sempre desideri peccaminosi e sicuramente non c’era uomo che non avesse fatto
un sogno con Liva accanto, per una intera notte d’amore. Nonostante questo, si
guardavano bene da farle la corte, anche i più sfacciati siano giovani che anziani
quando la vedevano passare per le vie del paese si toccavano gli attributi, non
vi dico le battute, le risate, i capannelli che si formavano, tanto che diventò raro
vederla fuori dal mulino.
Passavano gli anni, e Liva si era guardata bene di porre pensiero al matrimonio,
ma arrivata alla soglia dei cinquanta anni, subì un subbuglio che risvegliò in lei
desideri fino ad allora sopiti, lunghe le giornate e lunghe le notti in quell’immenso
letto vuoto, a volte la sua carne sembrava prendere fuoco, niente riusciva a
spengere quel rogo, quel tormento.
Liva si recò di fronte all’immagine sacra della Beata Drissina, accese una candela
e iniziò la supplica: -Beata, ti prego, non riesco più a vivere così, dammi un marito,
fai tacere questa vampa che mi consuma ogni notte, ti scongiuro, fai di me ciò che
vuoi, prendi i miei capelli, i miei occhi, la mia bellezza, la vita stessa ma dammi un
marito, anche zoppa, anche cieca, sarò la sposa più felice del mondo-.
Al mulino da poco lavorava un operaio venuto dal Viterbese, si diceva fosse
nativo di Vetralla, poco si sapeva di lui, qualcuno diceva persino che fosse stato in
galera, altri dicevano che avesse fatto il giro del mondo almeno un paio di volte,
per altri era fuggito dalla legione straniera, tutte e tante chiacchiere, certo è che
era un grande lavoratore, l’unico che riusciva a tenere testa alla mugnaia, sempre
pronto, sempre attivo. Si era sistemato in una parte del mulino dove venivano
accatastati i sacchi, lì si era fatto un giaciglio e raccolto in una cesta le sue povere
cose. Liva ogni tanto gli regalava degli indumenti appartenuti ai suoi precedenti
mariti, alle volte gli portava qualcosa da mangiare, poi le visite si fecero sempre
più frequenti. L’uomo ringraziava riconoscente. Una sera la donna pensò che
forse all’uomo avrebbe fatto piacere cenare vicino al fuoco e lo invitò in casa, dai
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oggi dai domani, la donna propose all’uomo di diventare suo marito, lui rimase
onorato dalla proposta, la sua condizione sociale non gli aveva permesso di fare
lui la proposta per primo. Il matrimonio tra i due fu celebrato in forma privata in
una domenica di ottobre, la sposa apparve raggiante come una diva del cinema
nonostante il suo tailleur grigio.
Liva la prima notte di nozze dimenticando tutti i vecchi dolori si abbandonò ai baci
e alle carezze del suo nuovo amore, quella felicità ritrovata tolse ogni dubbio, ogni
tristezza.
Quella stessa notte Liva morì tra le braccia del quarto marito, la prima notte di
nozze, invano lui cercò di riportarla in vita, non comprendeva come una donna
tanto vitale, nel pieno della maturità lo avesse abbandonato, così di punto in
bianco.
Ma ogni voto comporta un sacrificio, anche quello di Liva, che pur di ritrovare
l’amore, aveva promesso la sua stessa vita, prontamente la sua anima beata era
stata richiamata da quella dell’altrettanto Beata Drissina la cui immagine veniva
venerata da tutto il paese da tempo immemore.
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