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Terzo millennio
Collana di studi della Provincia di Foggia
© 2000 Claudio Grenzi sas
Printed in Italy
Tutti i diritti riservati.
Nessuna parte di questa pubblicazione può essere tradotta, ristampata o riprodotta,
in tutto o in parte, con qualsiasi mezzo, elettronico,
meccanico, fotocopie, film, diapositive o altro senza autorizzazione
della Claudio Grenzi sas.
Verso Sud
Diari, novelle e poesie sulla Capitanata
dal Quattrocento ad oggi
a cura di
Davide Grittani
Claudio Grenzi Editore
A Daniela, o capitano
mio capitano
ISBN 88-8431-034-2
© 2000 Claudio Grenzi sas
Printed in Italy
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senza autorizzazione della Claudio Grenzi sas.
Claudio Grenzi sas
Via Le Maestre, 71
71100 Foggia
5
Testamenti letterari di Capitanata
Valeria de Trino Galante
Responsabile “Agenzia per la Cultura della Provincia di Foggia”
Quale occasione migliore di questa antologia per promuovere il famigerato “marchio
Capitanata”? E quale maniera più consona, se non quella di raccogliere alcuni dei più
significativi testamenti letterari lasciati in eredità alla nostra provincia dai più celebri
scrittori italiani e stranieri? Un viaggio “Verso Sud” che è soprattutto un viaggio dentro il
Sud: il nostro Sud, così mutevole e bizzarro, suggestivo e incantevole, selvaggio ed enigmatico. Un Sud che sembra - dalle pagine di questa preziosa monografia curata da Davide
Grittani - si sia aperto agli scrittori che l’hanno viaggiato in lungo e in largo; come una
terra che si lascia coltivare, attraversare da radici molto diverse eppure molto simili, le
radici dell’anima.
Un’opera che ha subito incontrato i favori dell’Amministrazione Provinciale perché la
rappresenta tutta, in ogni angolo e anfratto. S’incontrano, descritte in queste pagine, le
pietre sacre di Monte Sant’Angelo raccontate non senza ironia da Arthur Miller, la misteriosa figura di Padre Pio dipinta da Greene, Bacchelli, Piovene e D’Annunzio, la poesia
delicata e severa della costa garganica raccontata da Anna Maria Ortese, e ancora brani di
Gatto, Ungaretti, Accrocca, Pazienza, due lettere inedite di Umberto Giordano, contributi di Mascagni, Montale, Nigro, Marcone e il “nostro unico” premio Strega Mariateresa Di
Lascia.
Tutto questo ha pienamente convinto il Presidente della Provincia di Foggia Prof.
Antonio Pellegrino ad inserire quest’opera, proposta dal Museo del Territorio nella Collana
di studi della stessa Provincia con la consapevolezza che queste testimonianze letterarie
possano essere il volano di una proiezione del Museo del Territorio, in un Museo-Racconto,
un Museo-Itinerario inserito in un più vasto tragitto del sapere e della partecipazione.
In un’epoca segnata fortemente dal progresso tecnologico, dalla telematica e dalle immagini virtuali si rinnova più forte il rapporto tra letteratura e storia per preservare le
memorie di noi tutti e creare testimonianze culturali di questa terra per coloro che ancora
non la conoscono.
L’Antologia presenta brani scritti sia da chi in questo territorio è nato ed ha le sue radici,
sia da chi invece viaggiando nella luce e nei colori di questa terra stupenda ma schiva, è
riuscito a coglierne la bellezza e l’ospitalità, legandosi al passato più o meno lontano, ai suoi
tesori e alle sue antiche memorie, intravedendone ed indicandone il suo possibile futuro.
7
Sommario
11 Prefazione “postuma”
Mario Sansone
PARTE III
Foggia
Corrado Augias
71 Foggia al tempo di Federico II
di Svevia
PARTE I
75 Foggia
13 Un lascito, una profezia
La Capitanata al tempo dei Latini
17 La Via Appia
John Northall
19 La Puglia negli autori antichi
Aldo Luisi
PARTE II
Itinerari e luoghi
29 Viaggio pittoresco
Abbé de Saint Non
35 Da Foggia a Lucera
François Lenormant
39 La valle dell’Ofanto
François Lenormant
45 Impressioni di viaggio
Paolo Schubring
53 Il Tavoliere
Giuseppe Ungaretti
55 Dal Subappennino al Tavoliere
Raffaele Nigro
65 Garofani rossi per Fausto
Vasco Pratolini
67 Le pietre si muovono
Maria Marcone
Ernesto Kantorowicz
Jocelyn Brooke
77 Clizia a Foggia
Eugenio Montale
83 La prima rappresentazione alla Scala
del Re di Forzano e Giordano
Eugenio Montale
85 Due lettere inedite
Umberto Giordano
87 Il Piano delle Fosse
Giuseppe Ungaretti
89 Foggia e il Tavoliere
Guido Piovene
101 Omaggio a Foggia
Pasquale Soccio
103 Foggia
Eugenio Bennato
PARTE IV
San Severo
107 Pianura
Umberto Fraccacreta
109 I confini territoriali del
“Monasterium Terrae Maioris”
Antonio Casiglio
8
117 San Severo
Andrea Pazienza
PARTE V
Lucera
121 Lucera, colonia saracena
degli Hohenstaufen
Ferdinand Gregorovius
137 Lucera
Riccardo Bacchelli
141 Lucera, città di Santa Maria
Giuseppe Ungaretti
145 Lucera dei Saraceni
Giuseppe Ungaretti
PARTE VI
Rocchetta Sant’Antonio
151 Rocchetta la poetica
Francesco De Sanctis
157 Passaggio in ombra
Mariateresa Di Lascia
PARTE VII
Bovino
161 Il vallo di Bovino
Pietro Paolo Parzanese
PARTE VIII
Cerignola
PARTE IX
Manfredonia
179 L’angelo di Manfredonia
Norman Douglas
191 Santa Maria Maggiore Sipontina
Giuseppe Ungaretti
195 La giovine maternità
Giuseppe Ungaretti
199 Sabato Santo a Manfredonia
Leonardo Sinisgalli
PARTE X
Mattinata
203 Il farmacista di Mattinata
Virgilio Lilli
PARTE XI
Rodi Garganico
209 Fotogrammi di Rodi Minor
Giuseppe Cassieri
PARTE XII
Peschici
217 Peschici
Antonio Baldini
PARTE XIII
Monte Sant’Angelo
167 Lettera da Cerignola
225 Descrittione del Monte Santo
Angelo
169 Da Cerignola a Canne della Battaglia
233 Monte Sant’Angelo
173 Al capezzale di mia madre
247 La Montagna dell’Arcangelo
175 Ho ingannato persino il Sindaco
255 Monte Sant’Angelo
Justus Tommasini
Friedrich Leopold Stolberg
Nicola Zingarelli
Pietro Mascagni
Leandro Alberti
Arthur Miller
Ferdinand Gregorovius
Corrado Alvaro
259 La Tomba di Rotari
Giuseppe Ungaretti
261 Pasqua
Giuseppe Ungaretti
9
PARTE XIV
San Giovanni Rotondo
267 Quelle due fotografie di Padre Pio
Graham Greene
269 San Giovanni Rotondo
Antonio Baldini
Elio Filippo Accrocca
337 Dal pattume dei secoli...
Cristanziano Serricchio
339 Sante Mattéie
Giacomo Strizzi
341 Viaggio in Puglia
PARTE XV
Il Gargano
275 Il Gargano in una relazione
per visita canonica di fine Seicento
Egidio Mattielli
281 Al Gargano
Consalvo Di Taranto
283 In Gargano
Riccardo Bacchelli
303 Conquista del sasso
Giuseppe Ungaretti
305 La Foresta Umbra
Tommaso Fiore
309 M’ascolti tu, mia terra?
309 (Ode al Gargano)
Joseph Tusiani
315 Ex voto
Alfonso Gatto
317 Gargano sessantuno
Roberto Roversi
321 Oltre l’isola dei coatti qualcuno ha
chiamato
Anna Maria Ortese
Maria Luisa Spaziani
343 Lamento per il Sud
Salvatore Quasimodo
345 Da Foggia a Lucera correndo...
Giuseppe Ungaretti
347 Segnorina pugliese
Luciano Luisi
349 Stringe l’inverno...
Michele Urrasio
351 Dedicata alla mamma
Andrea Pazienza
353 I pellegrine d’Incurnate
Raffaele Lepore
PARTE XVIII
355 Citazioni
Affermazioni, frasi
e interviste di
Alberto Moravia, Silvia Ballestra,
Vittorio Gassman, Massimo Troisi,
Piero Chiara, Lalla Romano
359 Bibliografia
361 Indice alfabetico degli autori
PARTE XVI
Isole Tremiti
327 Le Isole Tremiti
Émile Bertaux
PARTE XVII
331
335 Tavoliere controvento
Poesie
333 Lettera a Padre Pio da Pietrelcina
Gabriele D’Annunzio
11
Prefazione “postuma”
Mario Sansone
La Puglia, in genere, e la Daunia, in ispecie, sono state, sino a tempi recenti e
recentissimi, tra le terre d’Italia meno conosciute e ritenute tra le meno sviluppate, non
solo economicamente. Non che non fossero conosciuti scrittori e poeti pugliesi e dauni,
ma si trattava di singole personalità, delle quali sarebbe stato assurdo ignorare il prestigio
e il valore: ma l’affermazione personale era il risultato dell’antico malanno dell’emigrazione dei cervelli. Questa raccolta si presenta invece come il risultato di un diffuso e
concorde fervore regionale, come l’espressione di un gruppo idealmente congiunto e volto
al culto della poesia; come il segno di una terra che si muove, e che acquista, anche per
questa via, il senso della sua autonomia.
E, naturalmente, quando si parla di autonomia in ambito poetico, bisogna intendersi. Non si tratta di una pretesa autonomia rispetto ai modi, gl’indirizzi, il livello
della poesia nazionale, e non si tratta di un singolare e privilegiato filone d’oro scoperto
tra il Subappennino, il Gargano e la grande piana della Capitanata; si tratta di una
poesia che non si avverte come esercizio di una sparuta ed isolata minoranza, ma che fa
i conti con se stessa, si riconosce nei suoi pregi, nei suoi limiti, nelle sue aspirazioni e si
chiarisce nei suoi propositi: si tratta, in conclusione, di una cospicua manifestazione di
cultura di una regione - la Daunia - che va acquistando la coscienza del contributo che
reca ed intende recare alle nostre cronache di poesia...
(...) Perciò questa raccolta non ha nulla di provinciale o di attardato rispetto al
lavoro di tanti operatori di poesia in Italia.
(...) A noi basta riaffermare il significato storico, culturale e civile di questo libro dove non mancano cose belle e talora assai belle - ed augurare nuovi provvidi segni di
autonomia intellettuale della piccola patria che abbiamo comune coi poeti della terra
dauna.
Nota Bene. Questa prefazione, così fatalmente adatta alla presente antologia, rappresenta in realtà un “saccheggio letterario” compiuto al testo Poeti dauni contemporanei (a cura di CRISTANZIANO SERRICCHIO, ANTONIO
MOTTA e COSMA SIANI, Apulia Editrice, Foggia 1977). Ho fatto mio l’ardore poetico dell’indimenticato prof.
Sansone, nella duplice speranza di restituire alla Capitanata uno fra i suoi figli più illustri e di testimoniare
degnamente la coralità degli interventi riportati in questa raccolta.
il Curatore
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Un lascito, una profezia
Corrado Augias
Molti italiani, ma anche parecchi stranieri; molti scrittori ma anche parecchi poeti;
molti autori contemporanei ma anche qualcuno del passato. A scorrere l’indice dell’antologia curata da Davide Grittani questo è il primo dato che salta all’occhio: la varietà
dei contributi, la loro eccellenza, l’unitarietà dell’argomento.
Basta fare qualche nome, anche se bisognerebbe per giustizia farli tutti: Graham
Grene e Arthur Miller, Anna Maria Ortese e Alfonso Gatto, Umberto Giordano e
Pietro Mascagni. Gente di penna, gente d’intelletto, creativi come si dice oggi, persone
che hanno attraversato zone come l’Ofanto, il Subappennino, il Gargano, la Capitanata, il Tavoliere e ne hanno scritto colpite da una particolarità del territorio, da un
riverbero di luce, da un resto del passato che da queste parti ha lasciato tracce lungo i
millenni. E questi resti affiorano improvvisi come un lampo della memoria e raccontano, a chi è capace di coglierlo, il senso della loro sopravvivenza.
È bella l’idea di Grittani di mettere insieme un’antologia composta da questi testamenti letterari e lasciarli parlare, lasciare cioè che le pagine si facciano testimonianza,
lascito e profezia.
Verso Sud, pochi avrebbero detto che tante minute particolarità di paesaggio sarebbero diventate con il tempo elemento distintivo di questa parte del Mezzogiorno d’Italia.
Solo spiriti raffinati, menti aperte, occhi che sapevano guardare lontano potevano prevederlo. Perché al viaggiatore distratto certe parti della Capitanata possono anche apparire
aride e inospitali, altri possono ricevere l’impressione di una terra destinata ad essere
attraversata, inadatta per ciò stesso all’agio di una sosta prolungata. Invece è accaduto il
miracolo, si è operato il rovesciamento. La terra che sembrava segnata dalla sua anima
transumante, votata più ai “passaggi” che alle permanenze, più al “transito” che alla
dimora, ha aperto davanti agli occhi di viaggiatori attenti la sua anima segreta.
A che punto del viaggio, in base a quali circostanze, è avvenuto questo rovesciamento? Quali fattori hanno fatto venire alla luce la soluzione? Leggendo le pagine che avete
davanti credo che una risposta si possa trovare. O almeno una delle risposte possibili.
Quel fattore, quella circostanza, sono a mio giudizio la gente di Capitanata, il suo
popolo. La semplicità della vita, la severità dei costumi imposta dalla povertà, a volte da
14
Verso Sud
D. Grittani
una vera miseria, non hanno mai fatto venire meno la generosità anche quando la
precarietà delle condizioni di vita riduceva quella generosità a un gesto o a un sorriso. È
stata la gente che ha fissato nella memoria dei viaggiatori l’immagine della terra, le gente
cioè il popolo, i contadini, e quando non i contadini quelle borghesia colta e civile di
provincia che è stata (e tutt’ora è) il nerbo dell’Italia migliore memore del proprio passato, aperta verso un ragionevole avvenire.
Lo studioso e amico carissimo Franco Cassano ha dato un nome alla civiltà meridionale di cui stiamo parlando. L’ha chiamata la civiltà del tempo meridiano, un tempo
che scorre secondo un suo ritmo interno, che ha priorità e gerarchie sue, che ha, verrebbe
voglia di dire, una sua moralità. C’è ancora quel tempo? Esiste? Francamente non lo
credo, o se è ancora esistente lo è per una minima parte. Esiste tuttavia dentro di noi,
come un memento, cioè un’utopia, un indice che ci permette di misurare ciò che abbiamo perduto rispetto ad allora ma anche ciò che (altrettanto indiscutibilmente) abbiamo
guadagnato.
Le pagine che state per leggere fanno parte di questi indicatori. Vi troverete ciò che ci
piace ricordare ma anche in parte ciò che, oggi, sarebbe impossibile tenere in vita. Troverete le immagini e i sentimenti, le luci e i colori, le tante ragioni che ci tengono legati a
quel passato più o meno lontano ma anche i motivi che mettono quel passato tra le
memorie individuali o collettive con le quali i conti sono ormai stati chiusi.
Non c‘è solo questo da dire sulla bella antologia Verso Sud. A me piace che i libri
servano alla vita e viceversa, che ci siano insomma scambi tra le pagine lette e l’esistenza
vissuta. Quali scambi e considerazioni allora l’antologia di Davide Grittani può suggerire? Ne indico due, libero ciascuno di rifiutarle o di aggiungerne altre.
La prima è che se quel Sud è in gran parte sparito come stato d’animo, inclinazione
e sentimento, una nuova consapevolezza l’ha sostituito: l’ambiente e la terra, il passato e
la memoria intese come ricchezza. Se avessimo avuto questa consapevolezza anni fa,
quando un certo sviluppo economico è cominciato in modo così disordinato e convulso,
non avremmo commesso gli errori e gli scempi di cui invece ci siamo resi colpevoli.
Nulla è compromesso, intendiamoci. La ricchezza era immensa, ne abbiamo sperperato una parte, teniamoci allora stretta quella che resta, che è sufficiente se sapremo bene
amministrarla. Sufficiente a far sì che i visitatori capaci di guardare le nostre terre con gli
occhi dei viaggiatori d’elite racchiusi in queste pagine diventino sempre più numerosi.
E anche, seconda considerazione, che venga rispettata la vera vocazione di queste
nostre terre. Abbiamo fatto tanti calcoli sbagliati sul possibile sviluppo del Mezzogiorno.
Certe volte era inesperienza, altre malafede. Questa antologia non è soltanto una testimonianza letteraria, è anche un vademecum, indica una direzione, può diventare la
guida a uno sviluppo possibile e sostenibile. Questo intendo dicendo che i libri, a saperli
leggere, servono anche alla vita, che insegnano a vivere meglio.
PARTE I
La Capitanata al tempo dei Latini
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La Via Appia
John Northall
John Northall (1723? - 1759), abile soldato del quale restano incerti luogo e
data di nascita. Nel 1752 si recò a Minorca da dove s’imbarcò per Livorno, ma
anziché visitare le città italiane più note dapprima conobbe a fondo la Toscana,
quindi Roma, Napoli e seguendo la Via Appia arrivò fino a Brindisi. Un resoconto postumo di questo viaggio fu pubblicato nel 1766 con il titolo Travels
through Italy. In questa antologia riportiamo le pagine relative al VI capitolo
The Appian way (testo tradotto da Angela Cecere).
Quando i Romani sottomisero le popolazioni dell’Apulia e dei paesi vicini, continuarono la Via Appia da Benevento a Brindisi. La data esatta in cui questa parte
della strada fu costruita non si conosce; ma, come ricorda Tullio nelle sue Epistole,
è certo che accadde prima della caduta dell’impero. Tre differenti strade conducevano da Benevento a Brindisi; una sulla destra attraverso Venosa, Troia e i dintorni di
Taranto, l’altra sulla sinistra attraverso Aecae e Herdonia (Ordona), e la terza correva
fra le due precedenti attraverso Trevicum (Trevico), i dintorni di Asculum (Ascoli) e
Canusia (Canosa). Tutte e tre le differenti strade lasciano Benevento proprio all’Arco di Taranto ora chiamato Porta Aurea. La strada che si dirigeva sulla sinistra
attraverso Aecae, ora Troja, si divideva dalle altre due che conducevano ad Eclarium
(Eclano), le cui rovine si trovavano nei pressi di Mirabella. Da Eclano la Via Appia
si dirigeva a destra verso Venosa. Da Canosa la strada si dirigeva verso Ruvo, una
cittadina assai antica. Proseguiva poi per Botuntus, ora Bitonto, situata in una fertile
pianura. Di lí la strada continuava lungo la costa dell’Adriatico verso Bari, che era
un municipio romano. Infine, la Via Appia continuava fino a Brindisi, e lì terminava. Brindisi è famosa nella storia per l’antichità e la bontà del suo porto. Nell’anno
di Roma 487 fu sottomessa dai Romani, che vi instaurarono una colonia nel 509.
Pompeo vi si ritirò durante le guerre civili, ma fu obbligato da Giulio Cesare ad
abbandonarla, ed a ritirarsi nell’Epiro. È stata parecchie volte saccheggiata dai barbari, ma è stata ricostruita per la bontà del suo porto. La cattedrale è una splendida
Verso Sud
18
D. Grittani
struttura fatta costruire da re Ruggero di Sicilia. Il mare precedentemente circondava tre lati della città; ma attualmente la sua estensione si è notevolmente contratta.
Qui vediamo parecchie iscrizioni ed altri antichi monumenti. La Via Appia che
passava vicino Taranto giungeva a Brindisi dove si ricongiungeva alla Via Traiana.
La seguente è una nota delle distanze da Roma a Brindisi:
Destinazione
Ad Ariccia
Al Foro Appio
A Medias
A Terracina
A Fondi
A Formia
A Minturno
A Sinnessa
Miglia
16
26
9
10
14
14
9
9
Destinazione
Al Ponte Campano
Ad Octavum
A Capua
A Benevento
A Ruvo
A Bari
A Brindisi
Totale da Roma a Brindisi
Miglia
9
9
8
32
107
21
71
364
Si può osservare che le distanze sulle colonne miliari erano calcolate da Roma
fino all’estremità del Lazio, considerato nella sua massima estensione, cioè appena
al di sotto di Sinuessa; ma in Campania le distanze sulle colonne erano numerate da
Capua. Le grandi città erano come un punto centrale da cui tutte le distanze dei
territori circostanti venivano calcolate. La strada romana che passava attraverso Troja
era quasi della stessa lunghezza di quella ricordata prima; ma quella che passava da
Venosa e dalle vicinanze di Taranto era più breve di circa otto o nove miglia. Plinio
fa la media di queste distanze, e calcola con Strabone 360 miglia da Brindisi a
Roma.
[Tratto da Travels through Italy; containing new and curious observations on that country, Londra 1766]
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La Puglia negli autori antichi
Aldo Luisi
Pubblicato nel numero 3-4 dell’VIII anno del periodico Il Rosone, questo documentato saggio di Aldo Luisi ripercorre le tracce dei popoli che hanno abitato
la Puglia dal IV secolo a.C. Attraverso una preziosa ricostruzione storica ed
etimologica, Luisi contribuisce a far chiarezza sulle derivazioni che in seguito
avrebbero dato i nomi a molte città e paesi della Puglia.
La regione che noi oggi chiamiamo Puglia, fu dai Greci chiamata Iapigia e dai
Romani Apulia. Essa si estende lungo le coste dell’Adriatico dal Gargano al Capo di
Leuca per una lunghezza di circa 340 km, fino alla foce del Bradano lungo il Mar
Ionio, confinando con i Frentani, col Sannio e con la Lucania.
L’antica Iapigia o Apulia era suddivisa in Daunia, corrispondente all’attuale
Capitanata; Peucetia, corrispondente alla zona di Bari e provincia; Messapia, corrispondente alla terra d’Otranto e della provincia Jonica.
Attorno a questi nomi è fiorita una copiosa letteratura. Il dato storico spesso si è
confuso con quello fantastico producendo in tal modo risultati poco chiari. Tuttavia, volendo riassumere i fatti, dobbiamo dire che sul territorio iapigio preesistevano
popolazioni indigene con la loro civiltà all’arrivo dei Greci. Gli storici greci antichi
hanno imbastito meravigliose leggende per nobilitare le origini dei propri stanziamenti in terra iapigia.
Ciò ha portato inevitabilmente a grande confusione perfino nella individuazione
dei popoli. Basti dire che contemporaneamente quei gruppi o agglomerati abitanti
la Messapia erano indicati anche col nome di Salentini, Calabri, Japigi, Messapi.
Quattro nomi per un unico gruppo omogeneo.
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Verso Sud
D. Grittani
Fonti antiche
I primi storici della Magna Grecia compaiono solo nel V secolo a.C.; cito per
esempio Antioco di Siracusa, Ferecide di Lero, Ellanico di Mitilene, dei quali ci
restano frammenti, per lo più, in tradizione indiretta, tramite Dionisio di Alicarnasso
e Stefano di Bisanzio. Di maggiore interesse sono le opere dei due grandi storici
Erodoto e Tucidide. Questi autori trasmettono solo occasionalmente notizie e informazioni sull’Italia meridionale.
Così dicasi anche per scrittori del IV secolo: Pseudo-Scilace, Eforo e Aristotele:
questi, rifacendosi ai precedenti, presentano solo deboli varianti a una stessa tradizione. È interessante notare in questo periodo la presenza di storici originari della
Magna Grecia, come Filisto di Siracusa, Lico di Reggio e Timeo di Taormina. Di
quest’ultimo un filologo tedesco, J. Geffken, ha detto che la sua opera potrebbe
essere considerata la “summa” di tutte le conoscenze greche sull’Italia meridionale e
sulla Sicilia, e i suoi successori vi avrebbero attinto abbondantemente.
Tutti questi autori hanno operato nel campo della mitografia un eccellente lavoro di sintesi e di sistemazione delle leggende che inizialmente avevano un carattere
locale. Un vero concentrato di mitologia è l’opera La Biblioteca, attribuita forse
erroneamente al grammatico alessandrino Apollodoro. Fonte importante per i miti
sull’Italia meridionale è anche l’opera poetica Alessandra di Licofrone di Calcide (a
noi restano solo circa 1500 trimetri giambici). In quest’opera si hanno, in particolare, notizie sul culto di Calcante e Podalirio in Daunia (culto localizzabile con ogni
probabilità a Monte Sant’Angelo sul Gargano). L’ultimo gruppo di storici comprende autori del I secolo a.C., quali Diodoro Siculo, Dionisio di Alicarnasso e
soprattutto Strabone. Questi autori parlano delle grandi città italiote e siciliote e del
loro rapporto con le popolazioni primitive della penisola.
Nel campo latino le cose non vanno meglio. Tolti gli autori della prima e seconda annalistica, di cui abbiamo scarsi e lacunosi frammenti, gli altri, cioè gli storici
dell’età imperiale, sono in generale assai poveri, per quanto riguarda il nostro argomento. Tuttavia una certa messe di dati può essere raccolta da Tito Livio, Plinio,
Tacito, Velleio Patercolo, Giustino, e perfino dai caotici Collectanea rerum
memorabilium del grammatico Solino e dal Commento all’Eneide di Servio. Questi
autori latini, oltre ad avere attinto più o meno direttamente agli storici greci, a
Eforo e a Timeo, devono avere utilizzato assai largamente Varrone. Quali conclusioni si possono trarre da questa rassegna delle fonti letterarie della storia più antica
dell’Italia meridionale? È chiaro che la tradizione trasmessaci dagli autori antichi,
nonostante il carattere di continuità che presenta dal secolo V sino all’epoca bizantina, non ci è pervenuta senza lacune e senza errori; ma è anche sicuro che, per
A. Luisi
La Puglia negli autori antichi
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quanto nel corso dei secoli abbia potuto subire mutilazioni o deformazioni, non
deve essere considerata un tessuto di invenzioni tarde, senza valore e fondamento.
Apuli e Dauni
Dal geografo Strabone sappiamo che i veri Apuli abitavano intorno al golfo del
Gargano; che erano simili in tutto ai Dauni e ai Peuceti; e che solo nell’antichità
furono diversi anche nel linguaggio. Lo stesso Strabone dice che i Greci davano agli
Apuli il nome di Dauni. Al cap. 242 egli scrive «i Greci chiamano Dauni gli Apuli».
Al cap. 277 aggiunge anche i Peuceti: «Dopo i Calabri a nord sono i Peuceti e i
Dauni, detti così in lingua greca; ma gli abitanti chiamano Apulia tutta la regione
dopo i Calabri». Al cap. 283 ribadisce che il nome di Peuceti e Dauni non è indigeno; che fu dato solo nell’antichità e che egli non può discutere con sicurezza i
confini di tali popolazioni, perché tutta la regione dai Calabri ai Frentani a tempo
suo si chiamava Puglia.
Sicché dalle dichiarazioni di Strabone possiamo ritenere verosimile che gli Apuli
abitavano tutta la regione prima dell’arrivo dei Peuceti e Dauni, i quali avendo
occupato le loro terre, li relegarono intorno al golfo del Gargano.
Ma quando giunsero in Puglia tali popoli? Dionisio di Alicarnasso nel I libro, al
cap. 11, delle sue Antichità Romane scrive: «Diciassette generazioni prima della
guerra troiana Peucetio, lasciato il Peloponneso, con la flotta allestita navigò lo
Ionio. Appena giunto in Italia sbarcò sul promontorio Iapigio e vi stabilì la sua
gente. E gli abitanti di quelle terre si chiamarono Peuceti». Lo stesso Dionisio conclude il cap. 13 dicendo: «Non so vedere spedizione più antica di questa che si
recasse dalla Grecia alle parti occidentali di Europa». Notizia confermata da un
altro scrittore greco, Pausania detto il Periegeta, vissuto nel II sec. d.C. al tempo di
Adriano e Antonino Pio.
Comunque sappiamo che i Peuceti sono Pelasgi venuti armati in Apulia agli
ordini di Peucezio figlio di Licaone re della Pelasgia, detta più tardi Arcadia.
Iapigi - Messapi
Erodoto (IV, 99) afferma che gli Iapigi abitano il promontorio che va dal porto
di Brindisi sino a Taranto. Vennero in Iapigia cinque anni dopo la morte di Minosse,
tre generazioni prima dei fatti troiani, cioè tra il 1290 e il 1280 a.C.: «Erano Cretesi
e divennero Iapigi-Messapi e in luogo di isolani si fecero continentali» (VII, 170).
22
Verso Sud
D. Grittani
L’espressione di Erodoto ci conferma che già nel V sec. a.C. i due popoli venivano
confusi fra loro. La confusione si riscontra anche in Tucidide, che li considera l’uno
parte dell’altro. E Strabone è assai imbarazzato quando deve parlare di Messapi,
Iapigi, Calabri e Salentini: tutti nomi che nel suo tempo venivano usati indifferentemente per indicare le stesse popolazioni: secondo Strabone la Iapigia era chiamata
dai Greci anche Messapia, e per gli indigeni era costituita, nella parte meridionale,
dalla regione salentina, e nella parte settentrionale dalla regione calabra; a nord dei
Calabri cominciava la regione che gli indigeni chiamavano, con un termine generale, Apulia mentre i Greci distinguevano un paese dei Peuceti (o Pedicli) e un paese
dei Dauni. Polibio dal canto suo, dà sugli Iapigi notizie del tutto diverse, per quanto conservi al nome un valore collettivo: gli Iapigi avrebbero compreso tre popoli:
quello daunio, quello peucezio e quello messapico. Ma gli abitanti di questa zona
sono ricordati anche con altri nomi: Calabri e Salentini.
Quanto ai Salentini, le notizie antiche sulla loro origine cretese sono assai più
chiare: così, Cretesi li considera Strabone, il quale situa nel loro territorio un ricco
tempio di Atena, nella località che i latini chiamavano Castrum Minervae. Ma, a
differenza degli Iapigi, questi Cretesi della penisola salentina sarebbero stati condotti in Italia da Idomeneo, il quale, secondo Virgilio, approdò in quella zona dopo
la caduta di Troia ed era re di Licto, a Creta; si spiega così come Solino dica che i
Salentini discendevano dai Licti. Indicazioni più esaurienti le troviamo in un passo
di Varrone conservatoci da Probo: passo che però non sembra essere stato riportato
con troppa esattezza, per cui nei dettagli, se non nell’insieme, resta un po’ oscuro.
Secondo Varrone, dunque, i Salentini, il cui nome viene spiegato con un gioco di
parole, avevano una triplice origine, cretese, illirica e locrese; Idomeneo, fuggito da
Creta a causa di una sommossa, si recò nell’Illiria; ripartito di qui insieme a un
gruppo di Illiri, e congiuntosi in mare a un altro gruppo di esuli locresi, approdò a
Locri, i cui abitanti, spaventati, fuggirono; si stabilì così nella città abbandonata, e
poi fondò molte fortezze, fra cui Uria e Castrum Minervae. Il passo di Varrone si
chiude con la notizia che i Salentini erano suddivisi in tre «parti» e in dodici «popoli». Le stesse indicazioni ritroviamo, in forma abbreviata, in Festo: anche Festo parla
della Triplice origine, cretese, illirica e locrese, dei Salentini.
Tutte queste coincidenze non fanno altro che consolidare le tradizioni degli
antichi; ma ci servono anche da monito per farci capire che esse per essere valide
devono necessariamente confrontarsi con altre tradizioni, soprattutto quelle emergenti dai dati dell’archeologia, dell’onomastica, della toponomastica. Oggi gli studi
devono essere condotti di concerto con altre discipline. Non è possibile indagare in
un mondo così lontano, quale quello dei primordi dell’Italia antica, in modo solitario. Occorre invece che ci si muova interdisciplinarmente. D’altra parte di un po-
A. Luisi
La Puglia negli autori antichi
23
polo non è sufficiente conoscere il solo nome, è necessario penetrare nella sua civiltà, negli usi, costumi, lingua, religione, insomma in tutto ciò che ci dà la dimensione esatta della vitalità di quel popolo. Tutto ciò non lo si può scoprire solo leggendo
le fonti degli antichi, ma comparando queste con i dati forniti dalle altre discipline:
archeologia, epigrafia, onomastica, toponomastica ecc.
La penetrazione romana
L’esame finora condotto lascia qualche dubbio dovuto al fatto che non sempre
si è sicuri che il dato riportato sia collegato col fatto storico, trattandosi di argomenti così lontani nel tempo e così suggestivi per la presenza di elementi mitologici nel
racconto. Questa seconda parte invece si avvale di una più ricca documentazione,
perché indaga sui contatti dei Romani con gli abitanti dell’Apulia e tratta di un
periodo storico più interessante e più vicino a noi. Secondo Tito Livio (8,25,3;
27,2) gli Apuli entrarono per la prima volta in contatto con i Romani, chiedendone
l’alleanza, nel 326 a.C., appunto agli inizi della seconda guerra di Roma contro i
Sanniti. Se la notizia, molto discussa, è vera, è probabile però che per Apuli si
intendessero qui solo gli abitanti di Arpi, egemoni della Daunia iapigia e sicuramente dalla parte dei Romani durante la guerra. Per il resto i centri dauni, da alcuni
indizi delle azioni militari come lo stesso Livio altrove osserva (8,27; 29; 37; 9,12),
paiono essere stati piuttosto dalla parte dei Sanniti. Dopo la vittoria romana le città
daunie, divenute alleate di Roma, entrarono a far parte della sua lega italica, una
sorta di confederazione organizzata e guidata da Roma. La penetrazione romana
nella regione non era in realtà ancora solida. Pochi anni dopo, agli inizi del terzo
secolo, durante la terza guerra della lega di Roma contro quella dei Sanniti, la
maggior parte degli Apuli sembra essere stata dalla parte dei Sanniti. Contro gli
Apuli, secondo la tradizione, i Romani dovettero sostenere un duro scontro militare nel 297 presso Maleventum (Benevento). Solo Arpi e Lucera rimasero sicuramente fedeli a Roma. Appena poterono dunque i Romani nel 291 cercarono di
rafforzare la loro posizione nella regione con una massiccia dedizione coloniaria
latina a Venosa e a Lucera. Era un passo avanti strategico di grande rilievo. Nella
successiva guerra di Roma contro Taranto, Venosa, Lucera, Arpi ed Ascoli operarono contro Pirro una resistenza molto importante. Dopo il fondamentale scontro,
Taranto entrò nella confederazione italica guidata da Roma, che intanto aveva
debellato e costretto all’alleanza Lucani e Bruzi. Gli Iapigi/Messapi (Calabri/Salentini
riuniti in leghe) furono infine le ultime popolazioni italiche, nel 267 e 266, ad
essere assoggettate da Roma e ad entrare nella sua lega.
24
Verso Sud
D. Grittani
Alla metà del III secolo dunque si conclude la cosiddetta «conquista romana»
della Puglia. Soltanto nell’età dei Gracchi, fra il 133 e il 122 a.C. si procedette a una
vasta colonizzazione del territorio pugliese. La guerra dei soci (90-88) rappresenta
la svolta fondamentale nella storia dei rapporti fra Roma e l’Italia e quindi anche fra
Roma e la Puglia. Si può dire propriamente che solo ora e non all’epoca della
«conquista romana» del III secolo, la Puglia viene romanizzata. Da alleati, tutti gli
Apuli diventano cittadini romani. Le città conservano una propria autonomia amministrativa; ma ora è Roma che regola, probabilmente con una serie di leggi, i
singoli statuti cittadini delle nuove organizzazioni. È da osservare che dopo la guerra italica i nuovi municipi non furono raggruppati in alcun distretto regionale. Una
prima divisione regionale d’Italia si ebbe con Augusto: fu divisa allora in undici
regioni: la Puglia divenne la Regio secunda. La configurazione regionale di Augusto
non prevedeva però una unità regionale amministrativa con magistrati e funzionari
che vi sovraintendessero: era semplicemente una suddivisione di comodo per i compiti del censo e forse anche delle entrate delle tessazioni straordinarie.
La viabilità
La Via Appia arrivò in Puglia fino alla colonia latina di Venosa agli inizi del II
sec. a.C. Solo successivamente giunse a Taranto, attraverso Silvium e da qui a Brindisi attraverso Uria.
Città importanti come Canosa erano tagliate fuori dall’arteria consolare, pur
essendo collegate a strade secondarie molto note. Orazio nel 38 parte da Roma in
compagnia di amici per giungere a Brindisi. Egli segue la via Appia solo per un
tratto, poi effettua una deviazione che lo porta a Canosa (Sat. 1, 5, 91) e quindi a
Ruvo, Bari, Egnazia e finalmente a Brindisi (finis viae est) ove termina il viaggio
(ivi, v. 104).
La strada percorsa da Orazio fu fatta lastricare dall’Imperatore Traiano nel II sec.
d.C. Essa collegava Benevento a Brindisi e offriva al viandante un’alternativa alla
più antica via Appia.
Da Benevento a Brindisi la via Traiana toccava i centri di Aecae (Troia), Herdonia
(Ordona), Canusium, (Canosa), Rubi, (Ruvo), Butuntum (Bitonto), Caelia (Ceglie
di Bari), Egnazia, Brindisi. A queste due arterie fondamentali va aggiunta un’altra
strada che seguiva la costa adriatica del Sannio e si congiungeva a Siponto con altre
strade collegate a quelle per Brindisi.
A. Luisi
La Puglia negli autori antichi
25
Aspetti socio economici
Verso la metà del I sec. a.C. la crisi sociale coinvolge gran parte del territorio
pugliese. I motivi sono tanti: le guerre, l’insicurezza dei mercati mediterranei, la
diffusione della pirateria, ed altre cause che concorreranno a fare della Puglia la
regione più spopolata d’Italia (Cicerone nel 49 a.C. dirà: Apulia inanissima pars
Italiae). Di desolate terre d’Apulia (in desertis Apuliae) parlerà Seneca in età neroniana.
Orazio, a sua volta, parlerà di Puglia assetata (siticulosa) e dannosa per l’influenza
dello scirocco (Atabulus); essa è conosciuta povera d’acqua da altri autori, quali:
Varrone, Strabone, Columella. Cicerone e Seneca parlano di insalubrità dei luoghi,
mentre Cesare nel 48 a.C. ricorda di essere preoccupato per la salute del suo esercito
accampato in una zona insalubre del territorio brindisino.
Nonostante le ostilità dei luoghi i contadini locali hanno sempre reagito, tanto
che Orazio parla di operosità dell’agricoltore apulo (Carm. 3, 16, 26 quidquid arat
impiger Apulus).
Sulle attività di lavoro in Puglia abbiamo una pregevole documentazione che ci
deriva oltre che da iscrizioni anche dagli autori antichi. Si parla di mercanti, uomini
di affari, banchieri, lavoratori edili, armatori di navi, sarti, artigiani, medici, tessili
collegati alla pastorizia. Marziale ricorda l’eccezionale qualità della lana pugliese
(14, 155) ricavata dai ricchi greggi dell’Apulia (2, 46); il candore della lana è degno
di essere paragonato col bianco Galeso (12, 63). Lo stesso Marziale ricorda anche i
tessuti scuri di Canosa (14, 127) e le bianche toghe lavate nel Galeso (4, 28). Da
un’espressione di Marziale (14, 155) sappiamo che la Puglia aveva il primato in
Italia della lana: «la Puglia è famosa per le sue lane di prima qualità, Parma per
quelle di seconda qualità: le lane di terza qualità fanno onore ad Altino».
Personaggi
Tra i personaggi noti in ambiente storico-letterario c’è da ricordare il poeta Quinto
Ennio di Rudiae, vissuto tra il terzo e il secondo secolo a.C. Secondo un famoso
aneddoto riportato da Aulo Gellio (II sec. d.C.) Ennio era solito dire che aveva tre
anime, poiché sapeva parlare greco, latino e osco. Non abbiamo documenti che
attestino la penetrazione linguistica osca in Messapia, mentre conosciamo la diffusione della lingua osca in Peucetia dalle iscrizioni trilingui (osco, greco, messapico)
rinvenute a Rubi e Azetium. È probabile che l’osco di cui parla Gellio sia piuttosto
il messapico parlato dal volgo all’epoca di Ennio. La lingua ufficiale e dotta in
Puglia prima della romanizzazione era la greca. Il latino, come lingua, si diffonde
Verso Sud
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D. Grittani
nella regione solo alla fine del II sec. a.C. È comunque da ritenere che nel I sec. a.C.
le lingue ufficiali e più note fossero il greco e il latino. Orazio chiama gli abitanti di
Canosa «more bilingues» e Porfirione che commenta il passo annota che il fenomeno era diffuso «per omnem illum tractum Italiae». Sono in molti a sostenere che
l’altra lingua parlata dai Canosini fosse una lingua indigena, probabilmente il
messapico, lingua diffusa in Peucetia e specialmente in Daunia.
Oltre Ennio c’è da ricordare Livio Andronico, greco di Taranto, deportato a
Roma come schiavo durante la guerra tarantina e poi affrancato dalla gens Livia.
Egli a Roma curò due generi letterari: il drammatico, di modello greco, e l’epico,
traducendo in latino l’Odissea.
Di Brindisi fu invece il tragediografo Marco Pacuvio, nipote di Ennio per parte
di madre.
Infine da ricordare Orazio, Lucanus an Apulus anceps, come egli diceva di sé,
ponendo in dubbio se fosse lucano o apulo. Marziale (8, 18) non ha dubbi, lo
chiama apulo: «Virgilio non volle cimentarsi nella poesia lirica coltivata dall’apulo
Orazio».
Alcune corrispondenze
Daunia: Aecae = Troia; Arpi = Foggia; Ausculum = Ascoli Satriano; Aeclanum =
Eclano; Cannae = Canne; Canusium = Canosa; Herdonia = Ordona; Luceria =
Lucera; Salapia = Sapi; Silvium = Gravina; Sipontum = Siponto; Venusia = Venosa.
Peucetia: Azetium = Rutigliano; Barium = Bari; Butuntum = Bitonto; Caelia =
Ceglie del Campo; Grumum = Grumo; Neapolis = Polignano a Mare; Norba =
Conversano; Palio = Palo; Rubi = Ruvo; Turenum = Trani.
Messapia: Aletium = Alezio; Caelia = Ceglie Messapico; Callipolis = Gallipoli;
Gnathia = Egnazia; Hydruntum = Otranto; Lupiae = Lecce; Manduria = Manduria;
Neretum = Nardò; Rudiae = Rudie; Uria = Oria; Uzentum = Ugento.
[Tratto dal numero 3-4 dell’anno VIII de Il Rosone, ALDO LUISI, Edizioni del Rosone, Foggia 1983]
PARTE II
Itinerari e luoghi
29
Viaggio pittoresco
Abbé de Saint Non
Jean-Claude-Richard de Saint Non (1727-1791). Abate, esperto viaggiatore
autore di cinque volumi intitolati Voyage pittoresque ou description des
Royaumes de Naples et de Sicile, pubblicati a Parigi tra il 1781 e il 1786
dall’editore Delafosse.
In Ispagna, tutte le pecore appartengono al Re ed i pascoli ai privati; qui tutti i
pascoli sono del Sovrano ed i privati pagano in proporzione al numero delle bestie
che pascolano. Queste pecore passano l’inverno e la primavera in pianura e durante
l’estate si spostano in montagna. A sei miglia da Manfredonia il terreno comincia a
salire avvicinandosi ai monti: qui il paese assomiglia del tutto per clima e caratteristiche del suolo alla Provenza. Dopo essere passati sul luogo dove era l’antica Siponto arrivammo a Manfredonia.
Manfredonia fu costruita da Manfredi, quello stesso che fu ucciso davanti a
Benevento. Dopo aver edificato questa città per popolarla vi fece venire delle famiglie da diverse parti della Puglia; la città fu poi distrutta e quasi completamente
devastata dalle incursioni dei Turchi, ma fu poi ricostruita. C’è a Manfredonia un
castello a prova di colpo di mano; un molo naturale sul mare forma un porto che
per la sua scarsa profondità non può chiamarsi se non una rada ma assai sicuro per
posizione ed al riparo dei venti del Nord per le montagne che formano lo sperone
dello Stivale, chiamato Monte Gargano. Il fondo è poi così regolare che l’ancoraggio è ottimo; vi si vedono molte navi veneziane che vi portano tele, mercanzie
minute e caricano granaglie, lana, etc., prodotti naturali del paese.
La città di Manfredonia è ben costruita, aperta e popolata da quattromila abitanti; noi eravamo alloggiati nel Convento dei Domenicani ai quali eravamo stati
indirizzati dal Preside di Lucera che ci aveva dato lettere per tutti i Sindaci del suo
distretto; fummo ricevuti in modo perfetto dal Priore che era un uomo buono ed
affabile.
30
Verso Sud
D. Grittani
L’indomani vedemmo arrivare il Governatore del Castello che aveva già mandato il suo luogotenente ad interrogarci. Con l’anima tutta piena del suo Castello
ebbe sul principio l’aria di considerarci dei nuovi normanni che venissero a riconquistare la Puglia; è da credere poi che il nostro aspetto pacifico lo avesse rassicurato
subito.
Dopo pranzo, tornammo sui nostri passi per un miglio e mezzo, nel luogo dove
era l’antica Sipontum, fondata da Diomede, il fondatore di città. Si ritiene che essa
tragga il nome da Saepia e da Pontium, mare di seppie, a causa della quantità di
seppie (supia o calamaro), specie di polipi che si trovano in abbondanza su questa
spiaggia.
Da lì ci recammo ad osservare, quattrocento tese più lontano, delle strade dove
si vedono i resti di antichissime catacombe quasi a fior di terra: erano scavate in un
tufo giallastro molto simile alla pozzolana ma che è una concrezione marina mescolata ad una infinità di conchiglie di ogni grandezza. La distribuzione e la forma
delle tombe antiche è quasi simile a quella delle catacombe di Napoli e gli ossami vi
sono del pari ben conservati. Questi sotterranei sono attualmente scoperti perché
sono stati scavati per ricavarne le pietre con le quali fu costruita Manfredonia ma si
vede ancora dappertutto la traccia delle torce che servivano anticamente agli abitanti di queste oscure dimore.
All’ingresso di queste catacombe è stata presa la veduta incisa n. 6, nella quale
l’artista ha riunito le strade, le rovine di Siponto, il sito stesso di Monte Sant’Angelo
che si scorge dalle alture, come anche le montagne che formano il promontorio
volgarmente chiamato lo Sperone dello Stivale.
Non può riconoscersi subito l’esistenza dell’antica Siponto se non per il rilievo
che le antiche volte sotterranee dànno al terreno. Non si sa quando fu distrutta, ma
una chiesa costruita su quel suolo nell’undicesimo secolo permette di stabilire che la
sua distruzione fu anteriore a quell’epoca. Il che dimostra come questa chiesa sia
stata ricostruita dopo la distruzione della città di Sipuntum e che essa sia il solo
edificio ancora integro esistente in quel luogo, costruito con antichi resti ricomposti
secondo lo stile greco dell’epoca e con gli stessi caratteri della chiesa di Troja della
quale abbiamo parlato prima. Essa è ancora la chiesa episcopale di Manfredonia.
Sotto la chiesa è stata costruita una cappella sotterranea molto interessante e che
costituisce un’altra prova di ciò che abbiamo ora detto essendo quasi interamente
composta da fusti di colonne di marmo antico ma con capitelli moderni. Di queste
due chiese sono state incise le vedute n. 7 e 8. Nello stesso luogo trovammo dei fusti
di colonne, di grandezza media, di marmo cipollino e di granito, dei grandi capitelli antichi e corinzi, un fregio dorico ed un piedistallo con questa iscrizione in onore
di Antonino:
Abbé de Saint Non
Viaggio pittoresco
31
imp. Caesari
divi hadriani f.
Divi traiani partici n.
Divi nervae pronep.
Tito aelio
hadriano antonino
avg. Pio. Pont. Maximo
tri. Pot. Cos. Sipvnt.
Publice
D… D…
Questo piedistallo di tre o quattro piedi di altezza e con un larghezza di base di
due piedi e sei pollici, sosteneva senza dubbio una statua perché si vede ancora il
segno del posto dove doveva essere collocata. Poiché la curiosità, il desiderio di
vedere e di scoprire ci faceva ricercare ed osservare tutto ciò in cui ci imbattemmo,
scoprimmo a qualche distanza da lì due piccole volte sotterranee che volemmo
osservare più da vicino: erano sormontate e coperte da un paramento e da un
intonaco che doveva formare il solaio di una antica casa. Queste rovine ci dettero
inoltre il livello del suolo antico, a poca profondità. Vi erano pure dei frammenti
sporgenti di antiche muraglie, a forma di settore circolare, che potrebbero indicare
un teatro ma gli avanzi sono così diruti che non può aversene alcuna certezza. Il
mare, a quanto sembra, arrivava a lambire le mura della città, dato che lo spazio che
intercorre tra questa elevazione e l’attuale riva è uno stagno a fior d’acqua.
Il giorno dopo il nostro arrivo a Manfredonia ci venne la curiosità di andare a
Monte Sant’Angelo, uno dei primi santuari della Cattolicità, nel quale, si dice, il
primo angelo del Paradiso ha voluto mostrarsi agli uomini in una brutta grotta
umida e scura nella quale da quindici secoli si va a prendere il raffreddore. Nonostante la mia scarsa fiducia nei luoghi miracolosi, indussi i miei compagni ad accompagnarmi in questo pellegrinaggio e così arrivammo sul luogo cavalcando molto
umilmente degli asini. Ciò che maggiormente stimolava la nostra curiosità era il
desiderio di visitare un luogo che era stata la cagione prima della calata dei Normanni
in Italia. Si sa che questi Paladini famosi vi furono attirati specialmente dai racconti
meravigliosi che sentivano fare dai pellegrini dell’epoca e da tutto ciò che della
bellezza e della feracità di questo paese essi narravano.
Al posto però di tutte queste meraviglie non trovammo che una montagna
arida, secca e dirupata; tanto alta che vi fa freddo quasi sempre e per tutto l’anno.
Nonostante queste condizioni poco piacevoli vi sono però ottomila abitanti ma
senza commercio, quasi senza attività produttive ed altra fonte di reddito oltre
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Verso Sud
D. Grittani
quella costituita dall’affluenza dei pellegrini in alcuni mesi dell’anno. Eravamo diretti dal Governatore che non parlava alcuna lingua e ci mise nelle mani di un
canonico che ne parlava una misteriosa.
Avrei voluto poter trascrivere quello che diceva perché, quando ebbe finito il
suo pio sproloquio, ci fu impossibile capire una sola della parole che aveva pronunciato. Da parte mia mi comportai a meraviglia: guardai, ammirai, baciai tutto ciò
che egli mi volle far baciare ed ammirare. Comprai anche delle statuette dell’Arcangelo e mi caricai di pietre della Grotta. Ma ciò che ci piacque più di tutto e ci
compensò di tutte le nostre pene fu il portarci via una affascinante veduta del luogo
e della scena stessa alla quale avevamo assistito e che uno dei nostri disegnatori
eseguì rendendone, con tutto lo spirito ed il realismo possibile, il tumulto ed il
movimento di questo genere di feste popolari molto più comuni e gustate in Italia
che in qualsiasi altro luogo.
Dimenticavo di parlare del simulacro di San Michele che è famoso nel paese e
che viene attribuito, per la somiglianza del nome, a Michelangelo Buonarroti. Questa
brutta piccola statua è eretta su una specie di colonna tronca, sproporzionata e
deturpata da un enorme capitello che funge da piedistallo. La figura del Santo è alta
tre piedi, l’espressione della testa è priva di carattere ed è pochissimo adeguata all’azione del momento che è quello in cui l’Angelo atterra il Diavolo. Questo, poi,
ha l’espressione di una vecchia arrabbiata. Nel complesso, l’atteggiamento della
figura è brutto, i dettagli sono meschini e, nell’insieme, di qualità molto mediocre.
Alla statua è stata impostata una armatura d’argento dorato che riesce ancor più ad
impoverirla e guastarla.
Non avendo potuto trovare a Manfredonia né calessi né cavalli, fummo costretti
a prendere umilmente un carretto col quale ci mettemmo in istrada, seguendo la
riva del mare lungo la spiaggia perfettamente piatta per cui avevamo sempre una
ruota nell’acqua ed una sulla riva.
Questa vasta, immensa piana si estende all’interno per una larghezza di quaranta miglia; è un terreno incolto, qualche volta arido e popolato di pecore e nelle parti
più basse ed umide frequentato da bufali e da altro grosso bestiame, con capanne di
paglia sparse per alloggio dei pastori. Lungo il litorale si trovano, ad ogni sei miglia,
delle torri di guardia, costruite per la sicurezza del territorio e cioè per annunciare
con il cannone le scorrerie che un tempo frequentemente facevano i Barbareschi,
gli Albanesi ed i pirati turchi; ciò è molto meno frequente da quando gli sciabecchi
e le feluche del Re di Napoli incrociano nei paraggi e soprattutto da quando la
Repubblica di Venezia si è assunto l’incarico della polizia dell’Adriatico.
Dopo aver traghettato su due fiumi o ruscelli che incontrammo sulla nostra
strada e che si gettano poco lontano nel mare, ci fermammo presso una delle torri
Abbé de Saint Non
Viaggio pittoresco
33
per far riposare i cavalli e sei miglia più avanti giungemmo alle Saline che forniscono di sale tutto il Regno e che, volendo, lo fornirebbero a tutto il mondo per la
facilità di estendere all’infinito le fosse di raccolta dell’acqua marina.
[Tratto da Voyage pittoresque ou déscription des Royaume de Naples et de Sicile, ABBÉ DE SAINT NON, Delafosse,
Parigi 1781-1786. Il testo è stato curato da Franco Silvestri e ristampato, nel 1972, dalle edizioni d’arte Carlo
Bestetti, Roma]
35
Da Foggia a Lucera
François Lenormant
François Lenormant (Parigi 1837-1883). Archeologo francese che attraversò in
lungo e in largo tutta la penisola italiana, soffermandosi con attenzione quasi
morbosa nelle regioni meridionali. La descrizione dei sentieri di Capitanata di
François Lenormant resta, ancora oggi, tra i documenti più suggestivi della
storia di questa terra. Il testo Da Foggia a Lucera, così come gli altri che seguono, è tratto da Attraverso la Puglia e la Lucania, opera pubblicata nell’anno
della sua morte.
Augusto aveva qui inviato una nuova colonia di veterani e tanto gli scrittori
quanto le iscrizioni mostrano che essa mantenne fino alla fine il suo grado coloniale, con i privilegi conseguenti. Nella Tavola di Peutinger essa è segnata come sede
d’un praetorium provinciale.
L’importanza di Luceria si mantenne oltre le invasioni barbariche e gli spaventosi saccheggi delle guerre dei Goti. Paolo Diacono la descrive come città opulenta
sotto la dominazione dei Longobardi, che ne fecero il capoluogo d’un loro castaldato.
Ma nel 663 l’imperatore greco Costante II la tolse a costoro e la distrusse quasi del
tutto. Da questo momento, per sei secoli, Lucera rimase una semplice borgata,
dove risiedeva comunque un vescovo. In tale stato essa era ancora nel 1223, quando
Federico II, proprio l’anno in cui costruì il palazzo di Foggia, costrinse i musulmani
ribelli di Sicilia a chiedere l’aman e a rimettersi alla sua mercé. Giudicando imprudente lasciarli in val di Mazzara, dove le loro tradizioni d’indipendenza erano troppo vive ed era per loro troppo facile, in caso di rivolta, ricevere aiuti dai fratelli
d’Africa, non volendo neppure privare i suoi Stati di una tale valida e industriosa
popolazione con una espulsione simile a quella compiuta in seguito dalla Spagna,
egli si decise a spostarli sul continente italiano. La massa degli Arabi di Sicilia fu
dunque per suo ordine trasportata a Lucera, Girofalco, Acerenza. Lucera fu la colonia principale, e per accogliere quella massa fu eretta un’enorme fortezza, dove in
36
Verso Sud
D. Grittani
un primo tempo essi vissero separati dalla popolazione cristiana della città.
In tal modo trapiantati, dopo un tentativo di rivolta nel 1226, gli Arabi accettarono rapidamente il nuovo destino con la facile rassegnazione dei musulmani e ben
presto si legarono persino con ardore e devozione al sovrano che aveva serbato loro
la vita, nel momento in cui le abitudini e il diritto di guerra, secondo i costumi
dell’epoca, gli avrebbero consentito il loro sterminio. Soggetti tutti al servizio militare, le loro milizie furono per più di vent’anni nerbo e nucleo permanente degli
eserciti di Federico II, e la fortezza da loro occupata, portata a termine nel 1227,
diventò il principale punto d’appoggio della denominazione degli Hohenstaufen
nelle province bagnate dall’Adriatico; quando la rottura tra l’imperatore e il papa
divenne palese e insanabile, la presenza dei musulmani a Lucera diventò doglianza
di cui il sovrano pontefice fece maggiormente echeggiare il mondo cristiano contro
Federico.
Morto Manfredi e dispersa la sua famiglia, i saraceni di Lucera si sottomisero al
conquistatore, il quale mantenne i loro privilegi e le leggi speciali.
Ma l’anno seguente, all’annuncio dell’approssimarsi di Corradino, che si preparava a valicare le alpi, essi issarono di nuovo sulle loro torri lo stendardo della Casa
Sveva sicché Lucera ridiventò il punto di coagulo dei Ghibellini nel Sud della penisola.
Carlo d’Angiò volle tentare di far capitolare la roccaforte prima che il suo antagonista arrivasse dall’Alta Italia. Ma dopo parecchi mesi di inutili attacchi, dovette
togliere l’assedio per avviarsi verso Corradino. Quando l’ebbe vinto e ridotto a
morte, tornò davanti a Lucera nel 1269.
I musulmani si difesero strenuamente ma, dopo un lungo assedio, furono infine
costretti a capitolare per fame. Il 15 agosto, essi aprirono le porte della città e sfilarono davanti al vincitore irritato, il quale li costrinse a passare sotto il giogo.
Ma Carlo non volle assolutamente privarsi dei servigi di guerrieri, di cui aveva
potuto apprezzare il valore, sicché diede loro salva la vita e concesse di continuare ad
abitare la città.
Solo li privò dei privilegi, del diritto di governarsi da sé stessi all’interno della
città e di avere quali ufficiali di giustizia i loro cadì, i quali giudicavano tutte le
questioni secondo la legge musulmana.
Li sottopose invece alla diretta autorità del giustiziere della provincia e mise
sessanta lance come guarnigione nel castello, al fine di sorvegliarli. Nello stesso
tempo, in ricordo della sua vittoria e al posto della principale moschea della città,
ordinò di costruire una grande chiesa dedicata alla Vergine al posto dell’antica Cattedrale, dando alla città il nome ufficiale di Lucera Christianorum.
Nel 1799 San Severo, come Andria e Trani in provincia di Bari, fu il luogo in cui
F. Lenormant
Da Foggia a Lucera
37
si riunirono i Borbonici per resistere alla nuova Repubblica creata in quel momento
dai Francesi. Il generale Duhesme venne all’attacco con una divisione dell’esercito
di Championnet e coi volontari napoletani comandati da Ettore Carafa, conte di
Ruvo, poiché questo capo della grande famiglia dei Carafa, sì illustre nella storia, la
prima del Napoletano del XVII secolo, aveva con ardore abbracciato la causa repubblicana, come gran parte dell’alta nobiltà del Regno. La resistenza e l’attacco
ebbero l’accanimento proprio delle guerre civili. La lotta fu senza quartiere e la città
fu presa solo dopo che Carafa, come era avvenuto ad Andria, fece dar fuoco alle case
per stanare i loro difensori. In fatto di ferocia, poteva rivaleggiare con lo stesso
cardinale Ruffo, suo avversario, che lo cacciò dalla Puglia, ma era un uomo di
incomparabile valore e la sua morte fu bellissima. In seguito dalle bande infinitamente superiori per numero dei Sanfedisti, si rinchiuse in Pescara, dove la fame lo
costrinse alla resa, a patto, regolarmente firmato, che avrebbe potuto liberamente
ritirarsi con i suoi soldati. Incurante della parola data, il cardinale Ruffo lo fece
arrestare e rinchiudere nella prigione di Castel Nuovo a Napoli, dove i giudicicarnefici della regina Carolina, al ritorno della corte, lo condannarono alla
decapitazione. Salendo con passo deciso e con volto sereno il patibolo, egli chiese
ed ottenne di essere disteso supino sul piano della ghigliottina, col viso verso la
lama: «Io, nobile e discendente di prodi, disse, mentre muoio per la libertà della
mia patria, voglio vedere lo strumento del supplizio davanti al quale tremano i
vigliacchi».
A metà strada tra Lucera e San Severo, sono le insignificanti rovine di Castel
Fiorentino, il castello di villeggiatura dove, il 13 dicembre 1250, morì Federico II.
Scoraggiato dalle sconfitte subite in Germania e nel Nord d’Italia, ma soprattutto
dalla notizia della prigionia del figlio Enzo, indebolito dalla malattia, sentendo
venir meno l’energia indomabile che lo aveva fino allora sostenuto nelle più grandi
prove, intravedendo ovunque intorno a sé il tradimento pronto a manifestarsi,
voleva rinchiudersi nella fortezza di Lucera tra i suoi fidi Saraceni. Giunto a Castel
Fiorentino, il suo stato divenne tale che dovette fermarsi. Il nome del luogo, ricordandogli una predizione dei suoi astrologi, fece nascere nel suo animo sinistri presentimenti. «Morrete, – gli era stato detto – presso la porta di ferro, in un luogo il
cui nome sarà formato dalla parola fiore». Siccome nella camera regale il letto nascondeva un’antica apertura da lungo tempo chiusa, che poteva immettere in una
torre attigua, egli la fece aprire, sicché essa si trovò munita d’una porta di ferro.
«Mio Dio, – esclamò allora Federico, – se devo rendervi l’anima, si compia la vostra
volontà!». Poi, con perfetta calma, chiamò vicino a sé Berardo, arcivescovo di Palermo che da trent’anni, malgrado gli anatemi pontifici, gli serbava grandissima fedeltà; Bertoldo, marchese di Hohenburg, capo delle truppe tedesche e suo parente;
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Verso Sud
D. Grittani
Riccardo di Montenegro gran giustiziere del Regno, il calabrese Pietro Ruffo, che
da origini oscure egli aveva elevato alla dignità di maresciallo; infine Giovanni da
Procida, suo amico e medico, lo stesso che in seguito sarebbe diventato l’anima
della congiura dei Vespri Siciliani. Alla loro presenza, egli dettò il suo testamento al
notaio Nicola da Bari. Ciò avveniva il 10 dicembre; tre giorni dopo, il sovrano che
da trent’anni faceva risuonare il mondo dell’eco del suo nome, spirava nella notte,
assistito dall’arcivescovo di Palermo, che gli somministrò i sacramenti. Per il resto,
una profonda oscurità aleggia sui particolari dei suoi ultimi momenti. Per quanto
attiene alla lotta tra Papato e Impero, le passioni avevano raggiunto sotto Federico
II un tal grado di violenza, la menzogna e la calunnia s’erano sì trasformate in
abitudine dalle due parti, che è impossibile prestare cieca fede ai racconti degli
scrittori contemporanei sulla benché minima decisiva circostanza della sua vita.
Ciascuno, senza alcuno scrupolo, secondo l’interesse del suo partito, inventa ciò
che può recar vanto o offuscare la memoria dell’imperatore e la minore preoccupazione dei cronisti Guelfi e Ghibellini è il rispetto della verità. Secondo i Ghibellini,
dopo aver professato in tutta la vita una filosofia scettica, Federico morì da cristiano
pentito, rivestito, secondo l’uso del tempo, d’un saio monacale, piangendo sui suoi
peccati e edificando coloro che lo assistevano. Invece i Guelfi lo rappresentano sul
suo letto di morte in preda a rabbiose convulsioni, divorato dal veleno, senza alcun
pentimento, senza desiderio dei Sacramenti, mentre minaccia la Chiesa e digrigna
i denti. Se si è in diritto di pensare che i primi hanno forzato le cose come a loro
pareva per onorare il loro eroe, gli stessi termini del testamento di Federico smentiscono il furore e l’empietà a lui attribuiti dai secondi nel suo ultimo momento di
vita. Ma dove la calunnia dei cronisti Guelfi diventa avvero atroce e supera talmente la misura da tradire la sua menzogna, è quando sostiene che Federico II fu soffocato sotto il cuscino dal figlio Manfredi, avido di impadronirsi del denaro del tesoro
e di aprirsi la strada per il trono. Nessuno storico serio si è soffermato su quest’abominevole accusa, smentita dalla sua stessa assurdità quanto dal nobile carattere di
Manfredi, ben più retto e leale del padre, per il quale un parricidio, in qualunque
circostanza si fosse verificato, avrebbe prodotto conseguenze più funeste per i suoi
interessi. Una tale accusa è stata avanzata dopo la tragica morte di Manfredi, quando non bastava più agli odi di parte aver dissotterrato il suo cadavere alla fossa in cui
i soldati di Carlo d’Angiò l’avevano deposto sul campo di battaglia di Benevento,
per darlo in pasto ai corvi, volendo che persino il ricordo fosse coperto d’infamia.
[Tratto da Attraverso la Puglia e la Lucania, FRANÇOIS LENORMANT, 1883]
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La valle dell’Ofanto
François Lenormant
Fra tre anni al massimo si andrà da Foggia a Melfi in ferrovia: per ora non è
compiuta ed è in esercizio soltanto una parte del percorso, quaranta chilometri
circa.
La linea, attraverso il piano, si dirige a sud verso le montagne, gradualmente
allontanandosi da quella che conduce a Benevento ed indi a Napoli, e passa, a
diciotto chilometri da Foggia, a pie’ della modesta collina sulla quale è il piccolo
villaggio di Ordona, prossimo alle rovine di Herdonea. Questa era un’antica città
degli Apuli, ricordata nella storia della seconda guerra punica per essere stata il
teatro delle due successive vittorie di Annibale sui Romani, la prima, del 212 a.C.,
col pretore Cn. Fulvius Flaccus, e la seconda, del 210, col proconsole Cn. Fulvius
Centomalus, in seguito alla quale il generale cartaginese, diffidando della fedeltà
degli abitanti della città stessa al suo partito, che essi avevano abbracciato dopo la
battaglia di Canne, la fece radere al suolo, e ne inviò con la forza tutti i cittadini,
parte a Metaponto e parte a Thurioi: i superstiti di essi, otto anni più tardi, furono,
finita la guerra, ridati dai Romani ai propri lari, ma la città ricostruita non riguadagnò
mai più la sua importanza passata restando d’allora una località secondaria, per
quanto sotto l’Impero fosse municipio, e riprendesse una qualche vita dopo la costruzione della grande via, che porta il nome di Traiano, da Benevento a Brindisi
per Castelfranco (Equus Tuticus) e Canosa (Canusium), che divenne la principale
strada per andarsi ad imbarcare per l’Oriente, e che attraversa Herdonea, la quale è
appunto una delle stazioni che gli itinerari segnano sul suo percorso.
I resti, assai numerosi ma del tutto informi, che ancora si osservano sul sito di
questa antica città, mostrano nella loro costruzione la maniera dell’epoca degli
Antonini: Herdonea fu distrutta nel IX secolo, in una delle incursioni dei saraceni
che occupavano Bari dove avevano stabilito anche un Sultano.
A tredici chilometri più oltre, presso un’altra stazione, v’è Ascoli, cittadina di
poco più che cinquemila abitanti, sede vescovile, con una cattedrale della metà del
secolo XVI e l’antico palazzo fortificato de’ suoi conti, di cui la successione rimonta
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Verso Sud
D. Grittani
al tempo di Carlo d’Angiò, feudo che da Carlo V fu eretto a principato per Antonio
de Leyva ed indi, nel XVIII secolo a ducea.
Ascoli, posta a cavaliere d’una delle ondulazioni che qui incominciano a pronunziarsi in modo sensibile e si rannodano ai contrafforti dell’Appennino, ha conservato quasi senza alterazione il nome dell’antica città apula cui è succeduta, Asculum
o più esattamente Ausculum come lo scrivevano le leggende monetarie, Auhusclum
in ozeo, le rovine della quale, piuttosto rilevanti, si vedono fuori la cinta delle mura.
Ausculum, al tempo della sua piena indipendenza, fu in effetti molto importante e
prosperò tanto da battere monete proprie. Sotto le sue mura Pirro, nel 279 a.C.,
combattè la seconda battaglia contro i Romani, battaglia di cui anche ora, con
Plutarco alla mano, si possono seguire le fasi principali sul terreno che presenta
sempre le pieghe e le alture delle quali i consoli profittarono abilmente per condurre il loro esercito. Però vi si cercherebbe invano un avanzo dei fitti macchioni dai
quali il suolo in gran parte era allora coverto in modo da ostacolare completamente
le cariche degli elefanti del re d’Epiro e della brillante cavalleria dei Tarantini e da
impedire che la fanteria legionaria fosse battuta come alla battaglia di Eraclea.
La campagna d’intorno oggi è completamente brulla, essendo il territorio di
Ascoli compreso nei confini del Tavoliere e quindi sottoposto al suo regime devastatore. In questi campi, forse più che altrove nella provincia, pullulano le famose
tarantole.
Ascoli ebbe a due riprese colonie di cittadini romani da Caio Gracco e da Giulio
Cesare, e mantenne sempre un posto coloniale sotto gli Antonini. Le iscrizioni ci
fanno conoscere che sotto Valentiniano era ancora tra le principali città dell’Apulia.
S’ignora poi la sua sorte sotto i Goti e i Longobardi, ma da brevi indicazioni de’
cronisti si sa che i Bizantini vi s’installarono nel 950 e che indi, nel 970, l’imperatore Ottone il Grande la prese e la occupò per qualche tempo. Nel 1041 fu una delle
prime città che si diedero spontaneamente ai Normanni per sfuggire ai Greci, e
nella ripartizione famosa essa fu assegnata a Guglielmo Bracciodiferro, il primogenito dei figli di Tancredi d’Altavilla. Quando poi il conte Abagelardo o Abelardo,
figlio d’Umfredo e sempre pronto ad erigersi a competitore di Roberto il Guiscardo,
si fu ribellato per la seconda volta abbattendo Boemondo, s’impadronì di Ascoli di
cui fece una delle sue piazzeforti (1076). Però presto Roberto venne ad assediarla
personalmente e se ne impadronì di bel nuovo. Qualche anno dopo, avendo essa
manifestato velleità di rivolta mentre Roberto guerreggiava in Oriente contro l’Imperatore greco, suo figlio Ruggiero la distrusse e ne disperse gli abitanti, per non
ricostruirla, istallandovi nuovi coloni, che dopo essere diventato egli stesso, morto il
padre, duca delle Puglie. Da quell’epoca la storia della città non offre più nulla di
notevole, tranne il parlamento che vi tennero i baroni del partito angioino per
F. Lenormant
La valle dell’Ofanto
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eleggere i sei deputati incaricati di governare, all’arrivo di Luigi II d’Angiò, la porzione del Regno che gli era favorevole. Del resto essa decadde rapidamente dal XIV
secolo, decadenza principalmente dovuta alla fatalità dei cinque terremoti che la
distrussero del tutto in un periodo di tre secoli, negli anni 1348, 1360, 1456, 1627
e 1694.
Due leghe dopo Ascoli la ferrovia, pel momento, termina alla stazione di Candela, stazione costituita da una semplice baracca in legno che deve il suo nome a un
borgo di tre o quattromila abitanti, posto a qualche chilometro di distanza, sulla
cima di un’alta solitaria collina a pan di zucchero, dipendente nel passato dal ducato
di Melfi.
In tale stazione, in tempi normali, non si trova ad affittare che cavalli da sella per
recarsi alle località vicine, ma noi vi eravamo attesi da una vettura che ci era stata
mandata da Melfi, il cui cocchiere subito ci chiese se preferivamo battere la strada
maestra o l’accorciatoia, avvertendoci che il primo percorso era doppio del secondo. Volendo guadagnar tempo ed arrivare ancora di buon’ora all’antica capitale dei
conti di Puglia, preferimmo naturalmente l’accorciatoia, e, fatto caricare i bagagli
sulla vettura, ci mettemmo subito in cammino a traverso i campi, o, al più, seguendo un sentiero sterrato, fatto solo pel passaggio dei carri da buoi a ruote piene,
solcato da profonde carraie, dove si deve restare impantanati senza possibilità d’uscirne
solo che faccia due o tre giorni di pioggia. Ma il viaggio divenne sopra tutto orribile
raggiungendo i resti del selciato d’una vecchia strada medioevale, quella forse che al
tempo dei Normanni univa Ascoli a Melfi; e ancora adesso non so spiegarmi come
mai la carrozza non si sia cento volte squassata nel passare su queste grosse pietre
disgiunte tra cui s’aprono buche profonde. Passandovi, io mi domandavo quante
volte avevo maledetto in Grecia i resti, ridotti nel medesimo stato, delle antiche vie
selciate dell’epoca veneziana e dei primi tempi della dominazione turca, dove il
viaggiatore ad ogni passo intravede il momento in cui, sbalzato di cavallo, debba
rompersi il collo cadendo.
In tal modo, tra sobbalzi violenti, guadagnammo una catena di colline nude e
povere d’alberi tanto quanto la prossima pianura, passate le quali vedemmo ai nostri piedi il corso dell’Ofanto, l’Aufidus degli antichi. Quasi secco in quel momento, non era che un filo d’acqua giallastra corrente in fondo ad una vallata stretta di
cui uno dei fianchi si solleva rapidamente in pendio. Il letto, molto largo, è ingombro di ciottoli e di pezzi di roccia strappati alle montagne, donde discende, nella
stagione in cui le piogge invernali e lo scioglimento delle nevi ne fanno il sonans
Aufidus di cui canta Orazio. In questo tratto, di inverno esso è un torrente impetuoso che tutto travolge nel suo corso, ben diverso dal tratto prossimo al mare in
cui, come l’ho visto qualche anno fa dinanzi a Canosa e a Canne, trascina pigra-
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Verso Sud
D. Grittani
mente le sue acque nel piano, su di un terreno senza più quasi pendenza, e le sparge
in impaludamenti irti di canne.
Scesa una costa quasi a picco, eccoci in fondo alla valle, sull’argine del fiume,
dove però la collocazione del pietriccio per la futura ferrovia ha soppresso il sentiero
che costeggiava la riva sinistra, nè ve n’è altra tra i fitti boschi della destra. Il cocchiere
spinge bravamente i suoi cavalli giù, sull’argine, guada la corrente, e dopo, invece di
risalire dalla parte opposta, ritorna a destra, continuando sul letto dell’Ofanto che
rimontiamo per circa due chilometri, Dio sa a prezzo di quali scosse per noi e di
quali disagi pei nostri poveri cavalli, tagliando e ritagliando i meandri sinuosi della
stessa corrente quasi a secco, arrestati ad ogni istante da pezzi di roccia o da tronchi
d’alberi da essa portati al tempo della piena. Giungiamo finalmente ad un ponte in
pietra e mattoni, uno dei tre che sonvi su tutto il corso del fiume; la base de suoi
piloni è di costruzione romana, e può facilmente notarsi come dall’Impero esso sia
stato più volte ricostruito e più volte asportato dalle piene invernali. È il ponte di
Santa Venere.
Qui la via da Benevento a Venosa (Venusia), per Equus Tuticus a pie’ dei monti,
passava l’Ofanto. Ora questo ponte imbocca la via maestra da Foggia a Melfi, che
finalmente raggiungiamo: per prenderla rimontiamo l’argine della riva sinistra, passiamo il ponte, ci arrampichiamo su per una lunga costa tra i boschi e, giunti in
fondo, ci troviamo su d’una specie di promontorio di notevole altezza, contornato
dal fiume, dal quale, da qualunque parte si volga lo sguardo, l’occhio spazia su di
una incantevole ed ampia veduta.
Quardando indietro, verso il lato donde siamo venuti, vediamo ai nostri piedi la
valle aprirsi quasi subito nella pianura grigia e nuda in cui serpeggia il fiume, pianura che, diritto innanzi, si stende senza ondulazioni fino alle lagune del Pantano e di
Salpi, e fino al mare, mostrando in mezzo ai suoi campi senz’alberi, su di una
collinetta appena accentuata, le bianche case della città commerciale di Cerignola,
dove il duca di Nemours nel 1503 perdette, contro Consalvo di Cordova, la battaglia che decise del possesso del Regno di Napoli. Sul limite estremo dell’orizzonte,
a sinistra, il Gargano, di cui si vede solo una parte, chiude la pianura. A dritta, di là
dall’Ofanto, il terreno si solleva un poco, mostrando subito un primo altipiano sul
quale è costruito Lavello, che vide morire Corrado IV nel 1252; più lontano verso
il mare, s’ergono le colline sulle quali è Canosa tanto ricca di monumenti e di
memorie latine e medioevali; e finalmente un po’ più a destra, ha inizio la rocciosa
catena delle Murge.
Dal lato opposto si scorge la valle, sempre più stretta e profonda, dell’Ofanto
superiore che discende dalle alte ed aspre montagne della Basilicata, da presso
Pescopagano, montagne d’aspetto torvo e sinistro che ben si addice al ricetto di un
F. Lenormant
La valle dell’Ofanto
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popolo di eroici briganti qual’è stato quello degli antichi Lucani.
Le pendici della valle più prossima a noi son coverte di boschi e di campi disseminati di solitari ciuffi d’alberi, e in fondo si scorge un ponte antico a tre luci, il
ponte dell’Olio, l’antica stazione di Pons Aufidi degli Itinerari Romani, dove la via
Appia, nel suo primitivo tracciato, varcava il fiume andando da Benevento a Venosa.
Poco più avanti, in linea retta, dall’altro lato della valle, è il borgo di Monteverde,
pittorescamente posto a cavaliere d’un dirupo che forma come l’avanguardia delle
montagne in cui si nasconde l’antica Aquilonia, una delle città del piccolo popolo
degli Irpini, della quale il nome moderno è Lacedonia, curioso esempio della conservazione popolare degli antichi nomi locali, poiché esso si approssima assai più
alla forma osco-sannita, nota per le monete, di Akudunniu, anzi che a quella latina
di Aquilonia.
Ancora un breve tratto fra i boschi di querce, e finalmente si è in vista del
Vulture...
[Tratto da Attraverso la Puglia e la Lucania, FRANÇOIS LENORMANT, 1883]
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Impressioni di viaggio
Paolo Schubring
Scrittore e viaggiatore tedesco, visitò la Puglia nella metà dell’Ottocento. Nel
testo qui riportato Schubring si produce in una descrizione abbastanza fedele
della vasta pianura del Tavoliere delle Puglie.
Si crede generalmente che la Puglia sia un deserto monotono, un paese privo di
attrattive speciali e proprie della regione italiana. Ma «chi crede a questo cartello,
non mangia vitello». L’immenso piano della campagna leggermente ondulata, il
mare così maestoso, il cielo così infinito e sereno costituiscono una trinità grandiosa
e singolare. In tutto si riscontra il carattere orientale, e specialmente nell’intensità e
nella purezza de’ colori. L’aspetto della campagna muta, nella notte stellata, è poi
indimenticabile! Plutarco racconta di un uomo, che, avendo visto il Giove di Fidia
a Olimpia, ne aveva riportato una tale impressione, da ripetere sempre: «Chi ha
visto una volta la testa fidiaca di Giove, non può diventare del tutto infelice». Lo
stesso si può dire della beltà unica e maestosa della campagna pugliese.
Il rapporto dell’uomo con la natura ha sempre in special modo richiamato la
mia attenzione, e già a scuola io intuivo la diversità di sentimento naturale ne’ Salmi
e nell’Iliade, senza saperla comprendere. Più tardi mi stupì l’indifferenza del medio
evo per la natura, specialmente perché, nonostante questa indifferenza, i trovatori
cantavano sempre sullo stesso tono l’amore insieme con la primavera. Alfredo Biese
mi ha insegnato nel suo noto libro su Lo sviluppo del sentimento della natura nel
medio evo e nell’età moderna, che il sentimento della natura come unità, come un
giuoco di forze infinite, chiuse misteriosamente, non prospera nell’animo primitivo o ancora mezzo barbaro, ma che una tale aspirazione verso la grande unità invisibile sorge primieramente nello spirito ben educato, che indaga al di là dell’utile e
del benessere materiale. Così solo si comprende come i Crociati, che tornavano
dall’Oriente, vantassero in modo puerile i gioielli d’oro e d’avorio de’ reliquiari
bizantini, e i broccati persiani, e le sete arabe, senza far cadere parola sul carattere
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Verso Sud
D. Grittani
della contrada, o almeno mostrarsi stupiti del suo aspetto singolare.
Per intendere la natura come unità, e capire il paesaggio come veduta, bisogna
aspettare le grandi conquiste del Rinascimento. I poeti hanno festeggiato la natura
prima de’ pittori: i diari del Petrarca e di Enea Silvio Piccolomini sono più vecchi
rispettivamente di due e di un secolo della pittura del paesaggio presso i Veneziani.
L’arte del paesaggio non ha però raggiunto la perfezione nel paese dove nacque. Già
da lungo tempo questo genere di pittura ha iniziato la sua marcia trionfale attraverso il nord dell’Europa, e in questo secolo specialmente i Francesi ne hanno ottenuto
il primato. Gl’Italiani, al contrario, ancora oggi, non accettano, di fronte al sentimento intimo, la pura immagine del paese. Questo popolo, così sviluppato artisticamente, non vede e non dipinge né il paysage intime, né, quel che a lui dovrebbe
essere più simpatico, il paesaggio eroico. Furono artisti tedeschi e francesi quelli che
scoprirono il fascino della linea continua, e trovarono il profilo delle catene montuose, nude, non coperte d’alcun bosco, la cui magnifica linea ci fa pensare al maestoso ritmo della vita ascendente e discendente. Questa purità lineare de’ pendii
meridionali, che l’occhio gusta così intensamente, considerata al lato economico
costa abbastanza cara. Un disboscamento privo di ogni precauzione, ha denudato i
paesi del bacino mediterraneo. Il piccolo arbusto, che spontaneamente germogliava, è stato, sin dalle radici, rovinato dalle capre, come la grande selva è stata distrutta
dall’uomo. L’unico bouquet d’alberi, singolarmente folto, che rimane ancora, come
testimone della vecchia e verde maestà de’ boschi mediterranei, è il promontorio
Athos nella Calcide. Qui i monaci vietano l’entrata alle femmine, così che anche la
capra è compresa nella clausura! La sciocchezza umana ha una volta fatto bene a sé
stessa! Non si può descrivere il modo che oggi tengono i pellegrini sul Gargano e a
Bari, per dimostrare la loro devozione al Santo: è più una prurigine dei sensi che un
elevarsi della mente e del cuore. Cupi suoni animaleschi vengono emessi; le lingue,
che leccano il suolo, diventano sanguinanti; il piegarsi, l’alzarsi, il baciare sudici
sassi, il mercanteggiare la manna, è tutto un quadro oltremodo indegno. E, sulla
moltitudine piagnucolante e in ginocchio, sta il coro de’ preti in abito violaceo, che
girano gli occhi e sorridono dolcemente, guardando intorno. Possono andar superbi dell’opera loro: essi sono padroni della massa, ma a qual prezzo! La povera gente
s’abbruttisce nella sua libidine, i preti benedicono!
Anche qui il passato può nuovamente venire a toglierci dallo sconforto dell’oggi. La dominazione bizantina non ha potuto mai consolidarsi nel Tavoliere; la storia
del paese principia co’ Normanni. Questi hanno diretta la loro sistematica conquista della penisola da Melfi, che era proprio la loro cittadella. La conquista del Tavoliere riuscì, relativamente, facile; molto più facile del distretto del Catapano greco.
E, come segno della loro vittoria, essi ampliarono, sulle alture dei monti a nord-
P. Schubring
Impressioni di viaggio
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ovest di Foggia, la colonia greca di Troia, che fu la sede del loro Arcivescovo, la città
d’incoronazione de’ Re Normanni.
Troia, adagiata su di un monte, non può restar nascosta al viaggiatore che percorre la strada ferrata da Foggia a Napoli; ma raramente il turista si va a ficcare fin
lassù. Un unico charà-bancs mette in comunicazione la stazione di Giardinetto con
la sommità del monte. Lassù manca un albergo, un caffè. Potemmo avere esclusivamente de’ maccheroni in un portone, dove cavalli, asini, un cane, quattro polli, e
undici bambini banchettarono con noi. La cara gioventù ci attorniò poi così fitta,
durante la nostra visita alla cattedrale, che ce ne rammentammo per due giorni e
due notti.
Ma la cattedrale è così singolare, che si perdona alle stesse pulci! La sua costruzione risale a’ primi tempi del secolo XII; nel 1119 doveva essere già compita. Il
piano superiore della facciata, come ha giustamente rilevato il Mothes, rimonta al
secolo XIII. Questa facciata è la più splendida dell’Italia meridionale. Una poderosa
cornice orizzontale la distingue in due piani, di cui l’inferiore è diviso in diverse
arcate, il superiore è adorno di un ricchissimo cornicione interrotto nel mezzo da
un rosone gigantesco. Questa disposizione differisce totalmente dal tipo delle altre
costruzioni pugliesi. La tradizione lombarda, che fa le pareti intere, e articolate
soltanto da due lievi pilastri, non è rispettata; qui si è invece provato a ornare la
parete in un modo, che ricorda subito la cattedrale di Pisa, sorta proprio allora, e
ritenuta e ammirata come una meraviglia del mondo. È chiaro che i Normanni
volevano fabbricare le loro chiese diversamente da quelle della regione che conquistavano. Essi trovarono a Bovino, nelle vicinanze di Troia, una colonia di Pisani,
che, il traffico della metropoli commerciale toscana, costituiva la stazione e l’emporio dell’esportazione di Levante. L’edifizio meraviglioso della cattedrale pisana, consacrata al culto nel 1118, diede il modello per la chiesa dell’Incoronazione di Troia.
L’alternarsi delle pietre nere e bianche, l’ornamentazione de’ quadrati angolari, la
pianta con la navata trasversale sporgente, il colonnato dell’abside son tutte reminiscenze di Pisa. I Normanni non aveva un’arte propria, quando nel principio del
secolo XI irruppero nella Puglia. In Sicilia essi si sottomisero all’arte araba; in Puglia
cercarono di importare almeno l’architettura di un’altra provincia italiana.
Oltre questo di Troia, vi sono tre altri edifici, eretti dalla colonia pisana per
commissione de’ Normanni: la cattedrale di Foggia, la chiesa oggi mezzo distrutta
dell’abbandonata Siponto, e la cattedrale di Benevento, ricostruita nel secolo XI.
Troia ha nella sua cattedrale due porte di bronzo: quella del portale maggiore
sorpassa in splendore, bellezza e ricchezza tutte le altre dell’Italia meridionale, fatta
eccezione di Benevento. In essa la tecnica bizantina del niello contrasta ancora con
la fusione indigena del rilievo. Io non conosco ceffi d’animali più stupendi de’ leoni
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Verso Sud
D. Grittani
e de’ cani che portano gli anelli de’ battenti di questo portone; e così pure sono
lavorati in modo singolare i corpi scagliosi e inanellati de’ draghi anguiformi che
recano i battenti della porta. Le porte sono state fuse a Benevento: la grande nel
1119, la piccola nel 1127. Doveva esser questa una chiesa molto ricca, se poté far
costruire due simili porte di bronzo, allorché una tale decorazione era riguardata
come l’ornamento più prezioso e più costoso di una chiesa.
Se la cattedrale di Troia ci conserva vivo il ricordo della magnificenza de’ principi normanni, gli altri edifici di queste contrade ci riconducono col pensiero della
signoria normanna, all’indimenticabile svevo Federico II. In Germania i Gesuiti
tentarono di falsare e di distruggere la memoria di questo imperatore, a vantaggio
del nonno Barbarossa, ma il paese, nel quale Federico ebbe la sua sede e morì, non
se n’è lasciato defraudare. Per qual motivo l’imperatore, cui apparteneva mezzo
settentrione, venne qui a scegliersi per residenza la piccola città di Foggia e non
Palermo fu la sede del suo governo? La spiegazione è facile a darsi: a Palermo non si
sentiva abbastanza sicuro; i nobili palermitani non avevano dimenticato le sanguinose giornate di Enrico VI, sebbene l’oppressore fosse finalmente perito, a loro
vendetta, per mano della propria moglie. Ma a Foggia Federico era sicuro: nelle
vicinanze di Lucera aveva stanziati, quali guardie del corpo, 20.000 Saraceni, che
più volte dettero prova della loro grande fedeltà. E presso questa guardia, in Ferentino,
egli morì.
Le mura del castello di Lucera, che è stato molto ingrandito sotto gli Angioini,
sono ancora in piedi. Nella grande corte, fiancheggiata da diciotto torri, vediamo,
con gli occhi della nostra fantasia, avvicinarsi le vecchie truppe orientali: neri cavalli
con gualdrappe rosse, feroci condottieri con mantello azzurro, turbante e scimitarra;
quivi, predominante in mezzo a uno stuolo di dame dagli occhi lucenti, la bella
Fartima, che regalò al suo imperatore il prediletto Manfredi; e poi tutta la suppellettile orientale variopinta, alla rinfusa, con tutta la sua clamorosità, con tutta la sua
stupefacente stranezza, un quadro davvero multicolore, che avrà spesso ricreato
l’occhio d’artista di Federico, quando egli entrava per la «Porta de’ Saraceni». Certamente Castel del Monte, il castello di caccia presso Andria, come edificio, è più
importante; ma Lucera ci rammenta la presenza dell’Oriente, lo splendore della
mezzaluna nel cuore d’un paese continuamente attraversato da’ Crociati. E non è
veramente strano? L’imperatore stesso intraprese una crociata contro gl’infedeli, che
allora egli medesimo aveva fatto stabilire nel suo proprio paese, senza punto esigerne la conversione.
Del palazzo di Federico a Foggia è rimasto ben poco; solo un pregevole arco con
fogliami e aquile ricorda la scomparsa magnificenza. Forse in avvenire l’edificio
verrà restaurato e isolato con la stessa cura che si spese per il palazzo di Teodorico a
P. Schubring
Impressioni di viaggio
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Ravenna; così si avvantaggerebbe molto la nostra conoscenza dell’architettura profana degli Staufen, e costruzioni come il palazzo imperiale di Gelnhasen, vicino a
Francoforte, si comprenderebbero forse meglio nella loro origine. L’impero tedesco
ha un obbligo di fronte a questi monumenti dell’arte sveva nel mezzogiorno d’Italia: i castelli dell’imperatore svevo, che nella sola Puglia son diciassette, dovrebbero
essere isolati, esaminati e illustrati. Questa sarebbe un’impresa che ci converrebbe
assai meglio di qualche spedizione in Oriente.
Il movimento nazionale che con tanta passione avvampò per trent’anni, e scavò
un profondo abisso fra sé e il passato clericale, ha dato fino a oggi pochi frutti. Si
parla più di quel che non si agisca: ecco il male. Di fronte alle insostenibili condizioni economiche si vive in una precarietà permanente, alla quale sembra che si sia così
bene abituati, che ogni energica innovazione viene risentita come rigorosità. Il contadino pugliese, per assicurarsi il sole, suole avvolgere un panno intorno alla poppa
della capra madre, e quindi i piccoli capretti cadono estenuati, o tuttalpiù crescono
mezzo morti di fame. L’ingenuità di un tal calcolo s’incontra qui a ogni passo: se si
ha da vivere per domani, si può andare a letto soddisfatti. Io conobbi in Puglia de’
genitori, che avevano preso in abbonamento un palco al teatro, possedevano una
bella carrozza, ergevano degli splendidi monumenti sepolcrali, ma tralasciavano
per tutto l’anno di pagare la tassa scolastica per i loro figliuoli. Se possono con una
qualunque parola insignificante trarsi fuori, per dieci minuti, da una situazione
scabrosa, credono di esserne usciti onorevolmente.
Da lungo tempo non sono più assuefatti alla lealtà e alla schiettezza: è evidente
che dicono quel che nel momento è opportuno. Il più delle volte ciò ha la sua
origine nella politica, nelle elezioni: un candidato sacrifica spesso mezzo patrimonio per una campagna elettorale: se egli vince, bene; se no, circa cinque famiglie
restano rovinate per venti anni. Come si può a capo di una certa rettitudine con un
simile governo parlamentare?
Il paese qui geme affannosamente sotto il peso di spaventevoli tasse. Le imposte
dirette, massime quelle sulla ricchezza mobile, sono sproporzionatamente alte. Ma
soprattutto le indirette gravano in particolar modo, come una maledizione, sulla
popolazione povera. Infatti per ogni bottiglia di vino si debbono pagare dodici
centesimi di gabella comunale, e il pane quotidiano non può introdursi esente da
dazio. Oltre a ciò esistono i molti monopoli: il tabacco e il sale sono immensamente
cari.
Spesso i contadini fanno tre quarti d’ora di corsa verso il mare con l’intento di
risparmiar pochi grammi di sale per i maccheroni, che vengon cotti nell’acqua
marina. Tutta questa miseria si potrebbe sopportare, se lo smercio fosse in qualche
modo agevolato; ma appunto per i prodotti del suolo dominano ancora metodi
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Verso Sud
D. Grittani
primitivi. Se a Bari negozianti tedeschi non avessero, da sessanta anni a questa
parte, diretta l’esportazione de’ vini, degli oli e delle mandorle, il paese se ne starebbe ancora oggi derelitto in mezzo alla sua divina ricchezza. Lo Stato ha fatto poco
per migliorare la tecnica agricola, per riguadagnare terre paludose e malariche con
la piantagione di alberi, con l’imboschimento di terreni poveri e privi d’acqua.
L’antico sistema del subaffitto fa poi che l’ultimo fittaiuolo guadagni pochissimo
lavorando molto.
Si potrebbe, innanzi a queste negligenze dello Stato, con una stretta di spalle
passare all’ordine del giorno, se il povero popolo, per le sue buone qualità, non
meritasse tutta la nostra compassione. Per quanto possano essere corrotti i diecimila
altolocati, altrettanto sono sincere, pure, fedeli le classi inferiori.
Chi viaggia nel treno diretto conosce soltanto l’ingenua impudenza di questi
poveri diavoli, che si attaccano come mignatte a forestieri, da’ quali sperano un
qualche momentaneo sollievo alla loro dura sorte. Ciò non è affatto piacevole, ma
nondimeno è naturale comprensibile. Però si guardi ora un poco l’operaio e il contadino italiano non eccitato da nessun inglese. In lui si trovano ancora le virtù
semplici e pur tanto difficili della sincerità, della gratitudine, della modestia, della
castità.
In questa gente non vi è nulla di falso, tutti hanno il pregio di un tatto interiore
così delicato, che di rado ci pentiamo della schietta famigliarità loro accordata. Io
ne ho incontrati alcuni che non concepivano la mancia; altri la prendevano, ma la
portavano ai loro genitori. L’attaccamento ai genitori è proprio commovente. Un
giovane di 36 anni, per rispetto, non fumava in presenza del padre, quantunque
questi lo invitasse. Tali piccoli tratti sono notevoli, poiché ci danno la misura del
sentimento, che poi si manifesta in casi più importanti. Che cosa non ci sarebbe da
fare con tali uomini! Le donne, per abitudine, frequentano le chiese, sebbene la
diffidenza verso i preti sia molto forte; gli uomini le accompagnano di rado, perché
di domenica si continua a lavorare. Donde prende questa gente i sentimenti suoi
più alti e benefici? Lo Stato si presenta più di frequente come vampiro, che come
benefattore, e per lo più si accosta a loro nella dogana e nella caserma, due istituzioni assai odiate. Quindi, solo stimolo al bene, resta l’amore per la famiglia e un
innato impulso di preparare ai figli un avvenire migliore del proprio.
Pure dovrei parlare soltanto d’arte. Ma si vedono tante cose quando si viaggia in
regioni dove i treni diretti sono poco conosciuti. Le strade ferrate, in Puglia sono un
argomento doloroso, che non si può toccare sine ira. «Si spende tanto», «non si
arriva mai», ecco quel che si sente dire tutti i momenti. Ad eccezione della Spagna,
nessun paese europeo può gloriarsi di un servizio così strascinato e costoso. Ma è
meglio non parlarne.
P. Schubring
Impressioni di viaggio
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Una delle più belle gite che si possano intraprendere da Bari, è quella per Bitonto.
La via costeggia il mare, quindi attraversa estese piantagioni di olivi, la cui forma
stranamente fantastica mi ricorda sempre le antiche Driadi e fate boscherecce.
Bitonto deve il suo splendore e il suo duomo all’Imperatore Federico II e al
padre di costui, Enrico VI. La città fu una volta potentemente fortificata, e conserva ancora gli avanzi delle vecchie porte e delle mura, che han fatto buona prova in
qualche assalto. Il Duomo in questi ultimi tempi, sotto la direzione dell’abile architetto Ettore Bernich, è stato liberato dagli ornamenti sovraccarichi, con i quali lo
avevano coperto nel secolo XVIII; così esso offre la più chiara idea di quelle costruzioni lombardo-bizantine, che ho già descritte nei precedenti articoli. All’esterno
risalta lo splendido corridoio de’ matronei (tribunale per le donne), la cui favolistica
animalesca, selvaggiamente fantastica, illustra bene il capriccio inventivo di quel
tempo. Si notano inoltre sontuosi portoni nella facciata occidentale, con ricche
sculture (sull’architrave Cristo e i dodici apostoli; più su la Madonna con degli
angeli; ai lati, l’intero sistema planetario; sul davanti due leoni, modellati così bene
da sembrar vivi), e nel portone della parete meridionale si può forse scorgere l’influenza saracena. Ancor più rilevanti sono, nell’interno, l’ambone e il pergamo,
ambedue del principio del secolo XIII. Pur troppo l’ambone non è conservato nella
sua primitiva forma (con doppia entrata); però, anche così ridotto, produce un
effetto grandioso, in grazia della sua purezza di stile. Si nota subito che l’età contribuì con tutte le sue forze per erigere una tribuna di così gran valore, in omaggio alla
parola di Dio marmi, figure, ornamenti di vetro, colori, nulla è risparmiato. Il
leggio viene portato dall’aquila superba, che ci rivela il protettore svevo; uno schiavo nudo, ginocchioni, la sostiene, ed è proprio una di quelle guardie saracene, che
Federico aveva acquartierate a Lucera. Del resto non mancò lo stesso imperatore:
una balaustra della scala rappresenta mentre viene ossequiato dai vassalli. Si comprende l’unione, in quei tempi, dell’imperatore col clero, anche se l’imperatore
scrivesse, così, a caso, un libro De Tribus impostoribus (Federico non ha di certo
composto il libro, ma lo avrebbe ben potuto scrivere). Sugli antichi capitelli delle
arcate poggiano le alte pareti superiori, in cui si aprono le trifore delle logge. L’intelaiatura del tetto, scoperta e dipinta, accresce l’impressione dell’architettura leggera,
e pur così saldamente piantata. E adesso ancora una gita alla tanto rinomata Canosa, che nell’antichità godette d’una fama universale per la sua fabbrica di vasi; poi,
dal 216, celebre perché immediata al campo di battaglia di Canne; e finalmente nel
secolo XI, nota come resistenza d’un nobile normanno. La battaglia cominciò alle
cinque del mattino e sembrò dapprima favorevole ai Romani; ma verso mezzogiorno la sorte cambiò: i cavalieri di Annibale, che erano stati posti accortamente, lontani dal fiume, e che perciò godevano piena libertà di movimento accerchiarono da
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Verso Sud
D. Grittani
oriente. Dei 90.000 Romani, così dice la tradizione, ne caddero 70.000! Quale
strage dobbiamo immaginarci, se con spade e lance furono scannati, da 40.000
nemici, 70.000 uomini, in quattro ore? Canosa nella sua antica cattedrale di S.
Sabino possiede una costruzione puramente bizantina de’ secoli X e XI. L’ideale
dell’agia Sofia presente all’architetto, che cercò di riprodurlo modestamente. I preziosi avanzi di questo antico tempio, la sedia episcopale e l’ambone, giacciono oggi,
infranti, nel granaio, e la grande Confessio è sorretta da travi di legno. Al contrario
il mausoleo del Duca Boemondo di Taranto (morto il 1110) è ben conservato. Fu
costruito durante la vita del principe, ed è un vero gioiello architettonico. La parte
inferiore, rettangolare, coperta tutta di marmo e sostenuta da colonne e capitelli
all’antica, viene coronata da una graziosa cupola ottagonale, il cui profilo e le cui
colonnine non hanno pari. Anche qui abbiamo una porta di bronzo, metà bizantina in niello d’argento, e metà saracena con ornamentazione plastica e geometrica.
L’artista si chiama Ruggerus Melfiae Campaniae. Per l’aggiunto di Campaniae si
vuole riconoscere in questa Melfi, Amalfi; ma ciò nonostante si ritiene trattarsi di
Melfi in Basilicata, avendosi sicura notizia della fonderia di questa città normanna.
In ogni modo la porta è stata fusa in terra italiana, quantunque la tecnica sia bizantina.
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Il Tavoliere
Giuseppe Ungaretti
Giuseppe Ungaretti (Alessandria d’Egitto 1888 - Milano 1970). Quelle dedicate alla Capitanata dal poeta caposcuola dell’ermetismo sono pagine che commuovono per la loro straordinaria intensità. Si tratta di prose che videro per la
prima volta la luce come articoli della Gazzetta del Popolo, dal febbraio al
settembre 1934. Successivamente le prose vennero raccolte in un volume intitolato Deserto e dopo (a proposito del quale Luigi Paglia, studioso foggiano
docente di letteratura, deve ritenersi tra i più profondi conoscitori) contenente
autentiche dichiarazioni d’amore nei confronti di una terra, la Capitanata,
che deve aver riservato a Ungaretti un’indimenticabile accoglienza. Per l’appunto da Deserto e dopo sono estratti tutti i brani riportati in questa antologia, suddivisi - ci auguriamo opportunamente - a seconda delle aree geografiche
che l’illustre poeta visitò e descrisse con commovente sentimento.
Foggia, il 20 febbraio 1934
Fontane
Non saprei dirvi dove potreste trovare una cosa più sorprendente e commovente, e augurale, delle tante fontane che s’incontrano oggi fra le palme, arrivando a
Foggia. Foggia e le sue fontane! Non è quasi come dire un Sahara diventato Tivoli?
L’acquedotto non c’era. Finalmente questi Pugliesi a furia di sperare e di gridare
avevano ottenuto che fosse progettato e s’incominciasse a costruire. Questo lavoro
da Romani era stato intrapreso: l’uomo, così forte, come dicono i santi, perché
l’unico fra gli esseri viventi a sapersi debole, aveva raccolto e alzato nelle sue povere
braccia un fiume, l’aveva con una grazia mitica voltato dall’altra parte del monte…
alla fine, sì, c’era l’acquedotto; ma in mezzo ai litigi andava in malora. Alcuni tratti
di diramazione, sì, erano arrivati sino alla Capitanata; ma chi credeva più che dovessero portarci l’acqua? Ed ecco che negli abitati ora è arrivata, l’acqua e le fognature, l’acqua e l’avvenire. Ed ecco che antiche città hanno ritrovato una furia di
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Verso Sud
D. Grittani
sviluppo così lieta come se ora appena fossero state fondate. Fontane monumentali!
Certo in tutta la Puglia l’acqua potabile ha un valore di miracolo, e c’erano nella
regione zone più secche, tutto sacco; ma dove più amabile mi parrà la voce della
volontà, se non in quest’acqua ultima arrivata? Spezzando la luce del sole, è la più
festosa di tutte. L’amante del sole, l’hanno chiamata i poeti. Egli, il sole, la copre di
gioie, come s’è visto. Non solo, e subito mi viene incontro l’altro suo simbolo: il
fulgore d’uno scheletro, nell’infinito. Quale merito ci sarebbe altrimenti ad addomesticarlo? Sarà perché sono mezzo Affricano, e perché le immagini rimaste impresse da ragazzo sono sempre le più vive, non so immaginarlo se non furente e
trionfante su qualche cosa d’annullato. Mi commuoverebbe altrimenti così a fondo, un sole reso gentile? Voglio dire che anche qui ha regno il sole autentico, il sole
belva. Si sente dal polverone, fatti appena due passi fuori. Penso con nostalgia che
dev’essere uno spettacolo inaudito qui vederlo d’estate, quand’è la sua ora, e va, nel
colmo della forza, tramutando il sasso nel guizzare di lacerti. Non v’è un rigagnolo,
non c’è un albero. La pianura s’apre come un mare. Vorrei qui vederlo nel suo sfogo
immenso, ondeggiare coll’alito tormentoso del favonio sopra il grano impazzito. È
il mio sole, creatore di solitudine; e, in essa, i belati che di questi mesi vagano, ne
rendono troppo serale l’infinito; incrinato appena dalla strada che porta al mare. E
a notte, ancora solo le pecore saranno a muovere le ombre, ammucchiate sotto i
portici d’una masseria sperduta.
[Tratto da Deserto e dopo, GIUSEPPE UNGARETTI, Mondadori, Milano 1961]
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Dal Subappennino al Tavoliere
Raffaele Nigro
Raffaele Nigro (Melfi 1947). Dell’autore del memorabile romanzo I fuochi
del Basento (Premio Campiello 1987) resta quasi anonima una raccolta di
prose intitolata Viaggio in Puglia, pubblicata dalla editrice Laterza di Bari
nel 1991. I brani che dell’autore lucano - ormai barese di adozione - abbiamo
scelto, raccontano dell’inizio del viaggio dal Fortore al Salento, per la cui stesura
Nigro non rinuncia ai propri tratti della narrazione favolistica.
«Svegliati, andiamo».
La luce si insinua tra gli interstizi delle serrande, aiuta il martellìo della sveglia a
gettarmi dal letto. Sono le sette e bisogna partire. Livia si gira nel letto, cerca riparo
nel buio delle lenzuola. La luce disegna la piccola curva acquattata sotto le coltri. Fa
ancora freddo, siamo alle soglie dell’estate ma l’estate non viene.
Nella penombra sfilo via dal letto, percorro il corridoio in cerca di interruttori,
apro le serrande dello studio, della cucina. Il sole ha accesso di colori la siepe di
edera e ligustri, ha svegliato i gatti; una tribù di gatti si stiracchia sulle cappotte delle
automobili parcheggiate nel recinto condominiale. È tardi, proprio tardi.
«Svegliati, Livia, andiamo».
Leggera come una gatta appare in fondo al corridoio, sale con gli occhi ancora
socchiusi, strofinandosi le braccia incrociate. L’autoclave già fa sentire il suo lamento, giù, dagli scantinati, mentre la casa si inonda di luce, man mano che sollevo le
serrande, con fragore di listelli.
Sono i rumori famigliari, le voci ripetitive della quotidianità. Il rubinetto del
bagno, l’acqua che gorgoglia nel lavandino, il fischio della caffettiera, il ronfo del
Quattro e del Quattro Sbarrato, gli autobus che scendono da Carbonara e da Ceglie
verso il cuore della città. L’autostrada ha di bello i motel. Non sei mai solo. Ti fermi
per un pieno di carburante e intanto puoi consumare un cappuccino al bar, con un
cornetto alla crema e marmellata e acquistare i quotidiani; La Gazzetta del Mezzo-
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Verso Sud
D. Grittani
giorno per la cronaca regionale, la Repubblica e Il Corriere della Sera per tutto il resto.
Mastichi e scorri con gli occhi, un sorso e una voltata di pagina. C’è odore di aria
pulita, dentro e fuori del bar. Le bariste ritardatarie vengono annodandosi il grembiule. Il barista sta nel retrobottega, lo senti armeggiare tra casse e scatole, intuisce la
nostra presenza, si attarda, poi eccolo, che si stropiccia gli occhi, si sistema il berretto bianco sui capelli, apre la valvola del vapore o infila una tazza da caffè sotto la
macchina a pressione.
Livia si aggira tra le teche di vetro. Vi sono boccacci di peperoni, melanzane e
pomodori in aceto e olio; barattoli di funghi porcini; confezioni di mandorle secche; ciotole di ceramica locale e cianfrusaglie. Livia si perde come in un paese di
meraviglie, acquista poco o niente, il viaggio sarà lungo e ne troverà di cose belle. È
giovane, Livia, ama i vestiti attillati e i capelli lunghi. Le invidiano una pelle di
porcellana.
L’autostrada per Candela pare disegnata con la riga, poche le curve difese dagli
eucalipti che ad ogni inverno muoiono di gelo. E pochi i saliscendi, almeno fino a
Canosa, poi si arrampica verso il falsopiano di Cerignola e ridiscende alla valle
dell’Ofanto. Candela sta su un cocuzzolo. Dal terremoto dell’80 appare annunciata
da una folta schiera di prefabbricati. Di sera è una punteggiatura di luci sui primi
contrafforti del Subappennino. Feudo dei principi Doria il paese è stato teatro, nel
settembre 1902, di una forte sollevazione di braccianti. I carabinieri aprirono il
fuoco, furono uccise otto persone.
Spaccando Candela a mezzo a mezzo, si giunge a Rocchetta Sant’Antonio. Nell’87
visitammo il paese su invito del sindaco. Livia ha parenti per parte di madre, ma
non c’è mai stata occasione di conoscerli. L’invito del sindaco nasce da una ragione
singolare. In un mio romanzo, I fuochi del Basento, ho immaginato che la protagonista femminile, Concetta Libera Palomba, sia nata nel paesino sulle montagne, a
metà Settecento, e che abbia poi sposato Francesco Nigro di Melfi. Grande festa
dunque in nome di un fantasma letterario.
Il paese domina la valle dell’Ofanto. In periferia, i resti della rocca e, in centro,
un ricordo marmoreo di Francesco De Sanctis, passato per Rocchetta durante il
suo viaggio elettorale del 1874.
Mentre attraversiamo il falsopiano dove Pirro sconfisse i romani, non riesco a
fugare un moto di stizza. Da anni, ventotto vagoni carichi di liquami di magnesio
provenienti da Bolzano sono bloccati presso la stazioncina sull’Ofanto. Erano destinati a una discarica abusiva in territorio di Monteverde, uno dei tanti cimiteri di
rifiuti venduti con mano camorristica a qualche industria settentrionale. Fermati
da un pretore a Rocchetta, sono rimasti lì, nella comoda dimenticanza di Dio e del
mondo giudiziario e amministrativo.
R. Nigro
Dal Subappenino al Tavoliere
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A destra nel fondovalle, la strada prosegue verso Sant’Agata, quindi per Accadia
e infine per Deliceto.
Deliceto è un serpente steso tra colle d’Elce e monte Silecchia. Un castello normanno in pietra nera lo domina. A vederlo dalla vallata sottostante pare un bastione sospeso sulle colture di olivi, viti a spalliera ed elci. De iliceto, da un bosco di elci,
pare prendere nome il paese e un elce è raffigurato nel suo stemma. Ma la bellezza
del paesaggio sta tutta in quella rocca mastodontica che chiama alla mente i castelli
lavici di Melfi e Lagopesole e poco quelli in travertino e in tufo della Puglia marina.
A sud di Deliceto, su un falsopiano che guarda il fiume Carapelle, c’è il collegio
di Santa Maria della Consolazione. Tiriamo al collegio senza entrare in paese. Ad
aspettarci è padre Pennetta, redentorista. «Il caffè l’avete preso?» Si toglie di testa il
berretto e ci fa strada tra i corridoi freddi e puliti. «Qui dentro dormiva sant’Alfonso, ma come vi ho già detto al telefono, non date retta a fantasie, non è vero che
abbia scritto qua la Cantata dei pastori. Oddio, può anche darsi, ma è solo una voce.
Noi non abbiamo trovato alcun documento». Dal refettorio viene odore di cucina.
Nella casa sono rimasti pochi religiosi. «Ecco, questa fu la stanza di san Gerardo
Maiella». Finalmente sfila di sotto al braccio la pubblicazione voluminosa che si è
tenuto bella stretta finora, è la Storia meravigliosa di san Gerardo, raccontata da
Nicola Ferrante. «L’avevo qui per farvene dono».
«Padre Francesco – gli dico – io sono qua per dare un’occhiata alla fortezza.
Sono in giro di sopralluogo per un documentario televisivo. Non che un progetto
abbastanza vago e un titolo provvisorio: Il paese di pietra. Ci darete spero il piacere
di essere nostro ospite a ristorante?». L’aria è come impregnata da una sorta di mito,
un’aria serafica. Da piccolo ho imparato ad amare e temere la figura di Gerardiello.
Mi portò una volta mia madre in pellegrinaggio a Caposele, insieme a mio nonno.
La statua del santo era stata riprodotta più volte a grandezza naturale e sistemata in
vari ambienti. Era l’immagine di un giovane emaciato e tisico. Mi colpiva l’espressione dei suoi occhi, sempre rivolti al cielo. Mi colpivano le storie devote che raccontava il nostro accompagnatore, padre Massimiliano, da un microfono nel pullman. Storie che mi hanno accompagnato fino agli anni universitari, quando ho
avuto un impatto fortissimo con le organizzazioni della sinistra extraparlamentare
barese. E le impalcature hanno preso a vacillare.
Linguine al peperone e capretto, in un ristorante di periferia, mentre padre
Francesco mi racconta dei santi di casa. «Sant’Alfonso accettò l’eremitaggio di
Deliceto alla fine del 1744. Era spossato da una lunga campagna apostolica. Vi
restò due anni, a scrivere e meditare. Parlava molto bene del paese nelle sue lettere.
Dice che ci sono magnifici boschi e acqua in abbondanza. Acqua di paradiso, dice
lui, con una fontana propria della Madonna e con la peschiera per cui si può
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Verso Sud
D. Grittani
adacquare in ogni tempo il giardino e si possono fare delle verdure». Tre anni dopo,
nel 1749, arriva in collegio san Gerardo. È un ragazzotto così mingherlino che
pensano subito di aver fatto un brutto affare. «Un giorno, durante la ricreazione, un
superiore dice a Gerardo di portare della neve in sagrestia per farne un sorbetto. Il
ragazzo corre in giardino e ne porta una brancata. Il superiore è uscito. Allora Gerardo
posa la neve sul bancone dei paramenti e corre a chiamare il superiore. «Venite che
altrimenti la neve si scioglie tutta».
«Dove l’hai messa?» chiede il superiore. «In sagrestia, sul bancone». Il povero
superiore si dà una manata in fronte. «I miei paramenti… chissà come me li avrai
conciati». Si precipitarono in sagrestia. La neve s’era già sciolta e sgocciolava. Il
superiore spaventato aprì il bancone e tirò fuori le pianete e i camici. Erano tutti
asciutti».
Ripartiamo nel primo pomeriggio senza aver potuto visitare il castello in restauro. Ripartiamo con una promessa di ritorno a Deliceto coi permessi della sovrintendenza e in più tranquillità. «Mio marito ha perso la strada della fede – ha detto – e
solo voi gliela potete far ritrovare». Padre Pennetta le ha donato alcune medagliette
dei santi redentoristi e della Madonna.
Ci accostiamo a Troia con lo stomaco in subbuglio per l’andirivieni dei tornanti
del Subappennino. Una bibita in un ristoro alla periferia del paese e saliamo a piedi
verso la cattedrale, tra vicoli medievali che sanno di fumo, stretti e grigi, rovinati
nella loro purezza architettonica da superfetazioni, da rivestimenti in ceramica e in
marmo, da pitturazioni non in armonia con la seriosità che il tempo ha consegnato
alle pietre, sfregiati da fastidiosi infissi di anticorodal. Poco prima della cattedrale,
ecco la casa De’ Pazzi, alla quale appartenne Miale da Troia, uno dei tredici italiani
della Disfida di Barletta. Saremo ospiti di un pittore del posto. Un autore dalla
mano popolareggiante, docente a Brera, Leon Marino. Marino è un compagno che
ha scelto la linea dura. Avvelenato contro gli scempi urbani non sa capire la scelta
annacquata di Achille Occhetto. Prima che in cattedrale, vorrebbe portarmi in casa,
per mostrarmi le sue tele, ma vale la pena approfittare delle ultime ore di luce e
anteporre la visita della cattedrale. Strada strada mi parla dei suoi compagni, delle
lotte sostenute, dal Sessanta in qua, a fianco ai contadini. Mentre saliamo su per un
corso leggermente in pendenza, incontriamo alcuni giovani che si accodano a noi,
mi mostrano un foglio mensile di tendenza che con sacrifici di ogni genere stampano a Foggia, «La Refola». Marino ne cura l’impostazione grafica, disegna vignette
satiriche contro i politici locali e contro i parlamentari italiani, con gusto naif ma
fortemente irridente e sarcastico. Ma all’improvviso ecco la cattedrale. Una costruzione straordinariamente imponente. Qui comincia la vera Puglia di pietra, quell’Apulia maior che annovera le grandi cattedrali, i mastodontici castelli nati tra età
R. Nigro
Dal Subappenino al Tavoliere
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longobarda e angioina che Pina Belli d’Elia, Stella Calò Mariani, Karl Willemsen e
Cesare Brandi hanno saputo raccontare con competenza. La città nasce secondo le
cronache nel 1019 per volontà del catapano Basilio Boioannes, a difesa della Puglia
dai longobardi di Benevento. Leon Marino sostiene adducendo informazioni di
storici locali che nacque sui resti di una città romana, Aecae, saccheggiata dai goti
nel VII secolo. Roccaforte bizantina, Troia resta comunque legata al rito latino e
dedica la sua cattedrale a Santa Maria Assunta. Anno di fondazione incerto, ma da
collocare a trent’anni dalla fine del Mille. Le sue mura ricordano comunque guerre
sanguinose tra i normanni Altavilla e i bizantini.
La cattedrale, a croce latina, sta tutta raccontata nella facciata, anzi, nel rosone.
Ne ha undici di raggi, sono colonnine che si collegano con archi intrecciati. Tra le
colonne è un puntagiorno nella pietra, un colabrodo di fori a losanghe stellette
quadratini croci che deve aver fatto impazzire gli scalpellini. Immagino i cantieri di
virtuosi dello scalpello, uomini che i notabili pagavano con un piatto di lenticchie,
accosciati tra i blocchi di pietra, tutti pieni di volontà di stupire per la propria
capacità di ricavare l’impossibile dalla roccia. Da un cantiere nascevano cento capitelli, mille statue, altrettante bestiole, grifi, basilischi, leoni cornuti e uccelli caudati,
incubi notturni, sogni felici, fiori di favole e di leggende. Arrivava un architetto, un
giovane con la faccia rasata, munito di carte imperiali, o con un seguito di cassieri,
decideva, tacciava disegni, acquistava marmi belli e pronti, dava indicazioni. L’architetto assemblava i pezzi, a volte era un capomastro e ne sapeva più di cinquanta
architetti, guidava i lavori, dalla costruzione delle impalcature alla copertura delle
infrastrutture. Il più delle volte non lasciava il proprio nome sui marmi, sentiva che
in troppi avevano gettato il sangue attorno a un edificio, troppe teste e troppe mani.
In un affresco nella chiesa di San Donato a Ripacandida, questi architetti sono ai
piedi del grande edificio dell’Arca con carte e squadri. Vestono abiti eleganti con
cappe e calzerotti di fattura angioina, a differenza dei manovali che si arrampicano
sulle impalcature e indossano ridicole vestagliette corte, strette in vita da legacci o
pendenti a campana.
Il rosone è protetto da un archivolto a tre arcate concentriche tempestate da
sculture bizzarre. La facciata è tagliata orizzontalmente in due da un cornicione. La
parte superiore è dominata dal rosone, l’inferiore da sei arcatelle su lesene che affiancano l’arco del portale. Una porta di bronzo, risalente al 1119, opera di Oderisio
da Benevento, ospita la figura dello stesso scultore insieme a Cristo Giudicante e a
un paio di committenti, il conte Bernardo e il vescovo Guglielmo. E ancora Oderisio
è l’autore delle formelle in bronzo della porta sulla fiancata destra della chiesa.
Ma a che servono le descrizioni, se non a raccontare a chi sta lontano un luogo
irraggiungibile? A nulla servono se la bellezza va goduta coi propri sensi. Il viaggia-
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Verso Sud
D. Grittani
tore dei nostri tempi forse deve limitarsi a suggerire chiavi di lettura, raccontare le
proprie emozioni. La civiltà delle immagini ha ucciso quella della parola descrittiva.
Per il resto, i monumenti sono dove li lasciammo, e attendono di essere visitati.
Leon Marino si sbraccia per fare spazio alle tele. Un mondo incantato di contadini, preti volanti, donne chiuse da fazzolettoni, nella sobrietà di una pittura
fintamente infantile, racconta la vita di Troia e delle sue campagne. Ma c’è sempre
una punta di amarezza, di ironia, di scontento nelle sue figure, un briciolo di dadaismo. Come in una maternità dove la Madonna regge un Bambino che orina in un
piccolo vaso da notte.
Poi si decide per un ristorante con cucina casareccia. Prima di uscire, il pittore di
Troia mi fa dono di un quadro, è una crocifissione sui generis. Due contadini
stanno sollevando la carcassa di un maiale e attorno tre donne si danno da fare con
recipienti. Il racconto può apparire blasfemo, ma Marino sa quanto per la famiglia
contadina abbia potuto significare il sacrificio del maiale. La crocifissione è dunque
costruita sulla scorta di maestri del Due e Trecento fiorentino, ma con sobrietà e
sintesi iconografica.
Dormire si dorme a Foggia.
Martoriata dal terremoto del 1731 e dalla seconda guerra mondiale, la città ha
compiuto sforzi enormi per risorgere. Ma del centro storico restano angoli, piccoli
scorci, reliquie sperse nel mare di caseggiati popolari degli ultimi decenni. Una
cattedrale romanica ricorda coi suoi pochi resti normanni il fasto del passato. Vi è
annessa la cripta dell’Icona Vetere. Una icona bizantina attorno alla quale vortica la
stessa origine della città. Esisteva, dice la leggenda, nei pressi dell’attuale sito di
Foggia, un villaggio stretto da paludi, Borgo del Gufo, a poca distanza da Arpi,
l’antico insediamento dauno. Sulle paludi del Borgo, alcuni pastori videro attorno
al Mille tre fiammelle galleggianti. Accanto alle fiammelle, galleggiava un quadro
dell’Assunta avvolto da veli, l’Icona Vetere o Madonna dei Sette Veli. Il quadro
chiamò devoti dai paesi circostanti e li convinse a costruire un nuovo abitato.
Proprio sulla via per Arpi sorgono alcuni palazzi seicenteschi di grande bellezza.
Insieme al palazzo imperiale di Federico II costituiscono le reliquie di una città che
svevi e angioini lasciarono ricca di testimonianze, la città di un’intera famiglia di
architetti medievali, Bartolomeo e i figli Gualtiero e Niccolò. In questo palazzo nel
1241 morì la terza moglie dell’imperatore, Isabella d’Inghilterra. Federico volle che
venisse trasportata ad Andria e sepolta a fianco alla seconda moglie, Jolanda di
Brienne, nella cripta della cattedrale. E in questo palazzo si ammalò l’imperatore
nell’invernata del 1250. Qui fu trasportato da Fiorentino già cadavere, qui il suo
corpo venne imbalsamato per il trasporto a Palermo.
Di icone, la Puglia è ricca. Esse testimoniano gli scambi che per secoli si sono
R. Nigro
Dal Subappenino al Tavoliere
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intrecciati tra Mezzogiorno e paesi di cultura greco-bizantina. Se ne sono censite a
tutt’oggi un’ottantina, eseguite tra XI e XVIII secolo, secondo alcuni da artisti ciprioti o mediorientali, secondo altri da maestri locali. Si fanno allora i nomi di
Angelo Bizamano, Demetrio Bogdano e dell’otrantino Giovanni Maria Scupula.
Fascinosi i nomi delle madonne raffigurate: Madonna della Madia, della Fonte,
dell’Idria, dei Sette Veli. Un ricco catalogo curato dall’infaticabile Pina Belli d’Elia
ha tentato di censirle una volta per tutte, a corredo di una mostra di icone. Ma la
mostra ha suscitato un vespaio. Le chiese di Monopoli e di Foggia si opponevano al
prestito. La diocesi foggiana non autorizzava infatti a mostrare in pubblico il volto
della Madonna dei Sette Veli, nascosto da sempre agli stessi fedeli foggiani, come
l’icona fosse il corpo vivo di Maria e non una tavola di conifera. La città resta,
nonostante le trasformazioni sociali, la capitale del Tavoliere, il granaio del Mezzogiorno. Non a caso, una delle etimologie che si assegnano al nome di Foggia è
foveae, fosse per il grano. Sede della Regia Dogana della Mena delle Pecore in età
aragonese e borbonica, si è trasformata dopo la bonifica dei suoi territori, in più
punti malarici, in capitale dell’agricoltura, sede di un’importante fiera del bestiame
e dei prodotti della terra. Né si dimentichino le aspre lotte sindacali e antifasciste,
con Trematore, Fioritto, Maitilasso, Cannelonga, Allegato, Pontone e altri fondatori
dei partiti di opposizione di Capitanata. Avvenimenti piccoli e grandi e uomini di
cui diffusamente discorrono le indagini documentatissime di Michele Magno e
Raffaele Colapietra.
La cultura della città, mi pare affidata oggi alla sua ricca biblioteca provinciale, al
teatro Umberto Giordano e all’editrice Bastogi, di Angelo Manuali. Da Foggia si
sale a San Severo. La città dà di vino e morga anche lontano dall’autunno. Una
periferia sviluppatasi in modo selvaggio nasconde un centro storico ricco di testimonianze architettoniche barocche e rococò. Il Medioevo, presente negli edifici
della cattedrale e della chiesa di San Severino, non riesce a dare un’impronta alla
città, che appare segnata dalla presenza prepotente dei conventi cinque e seicenteschi.
Benito Mundi, che oggi dirige la biblioteca comunale intestata a un tipografo quattrocentesco emigrato a Milano, Angelo Minziano, ha dato l’anima per l’apertura di
un museo archeologico cittadino. Per anni ha lavorato con alcuni amici della locale
sezione dell’Archeoclub, con loro ha condotto ricerche nella vicina grotta Paglicci,
dove sono state rinvenute presenze in età neolitica. Finalmente, Mundi può oggi
restarsene tutto il giorno tra le teche di vetro, innamorato della civiltà sanseverina.
Ci accoglie infatti tra quelle sale rese luminose dal sole di fine maggio, un convento
francescano incamerato dal comune, restaurato e adattato a museo. Un altro convento, appartenuto ai Celestini, oggi ospita l’amministrazione comunale.
Incerti se proseguire per Lucera o ripiegare verso Monte Sant’Angelo, ci conce-
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Verso Sud
D. Grittani
diamo, in compagnia di Mundi, una mattinata piacevole in una masseria agrituristica, in contrada Santa Giusta, a pochi chilometri da Castelfiorentino. La masseria
fu feudo dei Di Sangro, signori di Torremaggiore. Vi praticavano la caccia. L’ultimo
esponente della famiglia baronale, il principe Michele Di Sangro, privo di eredi,
donò negli anni Cinquanta la tenuta alla propria governante, Elisa Crogan, che a
sua volta donò tutto al comune di San Severo, con l’obbligo di istituire una fondazione per l’incremento dell’agricoltura. Il castelletto dove la ricca famiglia trascorreva primavera ed estate, è ora pericolante e richiede un intervento consistente. Mundi
vi ha fatto trasportare alcune sculture mastodontiche, le ha collocate ai margini
della strada d’accesso e ha fatto trasformare le stalle in ristorante e ambienti per
pernottare. I magazzini sono stati trasformati in museo della civiltà contadina. Salendo sui terrazzi, si intravede nella distanza il castello di Lucera.
In quel castello sono tornato alcuni anni orsono per assistere ad un evento teatrale. Giorgio Albertazzi aveva realizzato, pasticciando tra idee e testi di alcuni autori italiani viventi, tra i quali Sanguineti e Ruggeri, uno spettacolo orbitante attorno
alla figura di Federico II di Svevia. Federico vi fece trasferire gli arabi quando si
interruppero con loro i rapporti di amicizia. In questi luoghi venne a morire, qui
fece costruire edifici. La sua ombra vive a Lucera e nelle campagne della Daunia, si
allunga sulle città turrite della costa, fino a Brindisi, e in ogni città lascia una leggenda, un riferimento ad azioni furbe, di volpina prepotenza. A Motta Montecorvino
dirime una questione tra due famiglie, rivali per via di una promessa sposa che non
accetta di convolare a nozze per terrore della prima notte. Federico avrebbe fatto
portare presso di sé la donna e le avrebbe insegnato in concreto il da farsi. A Bari si
scontra con san Francesco. A Gioia del Colle Bianca Lancia si uccide per amore di
lui e lascia nella pietra impressa la forma del proprio seno.
Ma a San Severo, Federico è poco presente. D’altro canto sembra si disfacesse
della città donandola ai Templari. Qui è nume tutelare Raimondo Di Sangro, il
principe mago che avrebbe tentato la via della mummificazione dei corpi e avrebbe
praticato in pieno Settecento la magia naturale avvalendosi delle regole di chimica.
L’aria si è riscaldata e ci convince a salire a Monte Sant’Angelo. Inutilmente
tento di mettermi in contatto telefonico con Pasquale Soccio, il curatore della Scienza
Nuova di Vico. Abita da anni a Foggia, ma in realtà vive sui treni e in auto. Soccio
è una meraviglia della natura. Cieco da diversi anni, continua a studiare e a mandare a memoria opere intere con l’aiuto di giovani lettori che registrano per lui su
magnetofono il contenuto dei libri. Soccio ha studiato in maniera approfondita il
brigantaggio postunitario che ha avuto in queste contrade molti proseliti, ha scritto
libri sulla storia minore di Lucera e del Gargano, qui, gode, com’è giusto che sia, di
molto rispetto. Insieme a Nino Casiglio, narratore della microstoria e dei miti di
R. Nigro
Dal Subappenino al Tavoliere
63
questi paesi, è certamente la figura più rappresentativa di quell’intellettualità della
provincia italiana innamorata dei raccordi tra storia patria e storia nazionale.
Nel primo pomeriggio, dopo una capatina alla cantina sociale per un rifornimento di bianco di San Severo, ripartiamo per Monte Sant’Angelo.
[Tratto da Viaggio in Puglia, RAFFAELE NIGRO, Laterza, Bari 1991]
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Garofani rossi per Fausto
Vasco Pratolini
Vasco Pratolini (Firenze 1913 - 1991). Fondatore con Alfonso Gatto della
rivista letteraria “Campo di Marte”, Vasco Pratolini è ricordato soprattutto per
Il quartiere (1943), Cronache di poveri amanti (1947), Le ragazze di San
Frediano (1949), Metello (1955) e l’opera della sua maturità Lo scialo (1960).
Scaltro e apprezzato cronista, Pratolini commentò per Il nuovo Corriere di
Firenze molte tappe del Giro d’Italia, a proposito del quale il 4 giugno 1947
descrisse la fiera pedalata di Fausto Coppi per le strade di Capitanata.
È fuori dubbio, ormai: nel subcosciente del signor Cougnet, specchiatissima
persona, dimora un seviziatore. Non potendo trovare polvere, mulattiere, sentieri
di campagna, ostacoli naturali e trabocchetti, riuscendogli impossibile compensare
la relativa lunghezza della tappa di oggi con un tracciato da cross country, ha disposto la partenza per l’una dopo mezzogiorno. Dico le una dopo mezzogiorno: al 4 di
giugno, precoce estate, lungo le strade del Tavoliere, allorché l’asfalto diventa fango
nero e appiccicoso, le zolle sono aride come la pomice, e il sole scava il cervello e
contorce i tronchi degli ulivi.
Con la sua faccia di vecchio ufficiale coloniale, la pipetta in bocca, Cougnet s’è
avventurato per primo, a testa eretta e scoperta, incontro alla calura. Ci siamo buttati sulla sua scia a dorso nudo. Il capo riparato dal berrettino donatoci dalla WilierTriestina, fidando nel vento protettore che la macchina solleva correndo (mi è mancato il coraggio di mettermi al piccolo trotto sul camioncino della Wally. Ho rimandato l’appuntamento a uno dei prossimi giorni).
Dietro di noi, il Circo ha snodato la sua processione. Eravamo tanti penitenti
che si recavano da Bari a Foggia per un voto. Ci guidava un uomo diabolico, dall’aria di certosino. I corridori hanno offerto la schiena al sole con la stessa disinvoltura con cui il Santo famoso si distese sulla graticola.
I paesi ci attendevano al loro solito con l’intera popolazione bella e schierata, da
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Verso Sud
D. Grittani
Modugno a Ruvo, da Andria a Canosa, ciascuno con un traguardo a premio, ciascuno col suo bambino e il suo cane che traversano la strada all’ultimo istante,
ciascuno con le sue scritte e i suoi festoni. Bitonto ci ha accolto con la sirena di una
schiacciasassi aperta a tutto vapore e il macchinista che saltava sulla grossa ruota per
la gioia. Al di là del ponte sull’Ofanto solitario, un malinconico signore in nero
agitava stancamente un fazzoletto: un corridore, era una maglia viola della Welter,
passando glielo ha strappato di mano.
A Corato l’equilibrista Maggini, che si esibiva nella volata, è precipitato dal filo
per l’imprudenza di una spettatrice, appoggiatasi ai cavalletti di sostegno. È stata
una caduta fortunata per lui e per lei, ma intanto anche il bel Luciano ha versato le
sue goccie di sangue sull’arena. Alla tibia di Serse, al femore di Covolo, alla testa e
alla mano di Desmet, di cui ci insegue la nostalgia, aggiungete, insieme al braccio di
Ronconi, alla coscia di Brotto, alla caviglia di Bresci, al sedere di Zanassi, il ciglio di
Maggini: anatomica esemplificazione del martire del Circo, ricoperto di cerotti e
ingessature.
Ma la campana suona anche per i seviziatori; ed è stato quando a Cougnet è
venuta a mancare la complicità del sole, giusto alle porte di Cerignola. Avevamo
preceduto la processione, stavamo fuori la soglia di un bar centellinando una granita di caffè con panna degna dei maccheroni di Foggia che fra poco mangeremo;
allorché il cielo si è abbassato sulla terra nascondendo il sole, l’aria si è fatta improvvisamente ventilata e le prime goccie della pioggia estiva ci sono cadute addosso
mescolandosi al sudore. Ce ne siamo rallegrati per le schiene dei corridori. I quali,
come subitamente rinviviti, hanno messo la testa sul manubrio e l’acceleratore alle
moltipliche. Così, anche a Foggia, mercé l’arrivo frazionato, il Circo ha salvato la
faccia. Una faccia che si sta facendo grinzosa. Grinzosa e tuttavia feroce e sorridente
dopo le volate finali. E l’eccitazione degli spettatori a cambiarle i connotati. Non il
vincitore del giorno, Conte, Bertocchi o Ricci, ma Bartali e Coppi sono le calamite.
Oggi, come a Roma, Gino I è caduto nella tagliola. La folla lo premeva da ogni lato;
emergevano sulle teste i moschetti dei gendarmi disperatamente impegnati a proteggere il campione; due giovani frati francescani facevano leva delle mie spalle e di
quelle di un collega per vederlo un attimo da vicino. Coppi, invece, era riuscito a
dileguarsi. Tre uomini lo andavano cercando di qua e di là, framezzo alla marea,
smarriti ma dignitosi, con un fascio di garofani rossi infiocchettato. Erano i rappresentanti del P.C.I. di Foggia, che a nome dei compagni volevano rendere omaggio
a Fausto che ha fama di simpatizzante.
[Tratto da Il nuovo Corriere di Firenze, VASCO PRATOLINI, Firenze 4 giugno 1947]
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Le pietre si muovono
Maria Marcone
Maria Marcone (Foggia 1931). Una vita trascorsa tra la scuola e la scrittura,
Maria Marcone ha firmato con Le pietre si muovono una delle pagine più
significative della nuova letteratura meridionale, descrivendo il tragico «sfollare» dei foggiani verso la vicina Troia, nel disperato tentativo di sfuggire ai bombardamenti del secondo conflitto mondiale.
(...) Ogni casa splendeva di un bianco accecante, e non c’erano più nella strada
le ombre dei palazzi, ma cumuli enormi di macerie giacevano sotto il sole; squarci
di interni si vedevano qua e là, con un quadro appeso alla parete, o un comodino in
bilico sull’orlo di un pavimento crollato, o un lampadario di cristallo rimasto appeso a un lembo di soffitto, luccicante al sole come se avesse le lampadine accese.
Stesso spettacolo si manifestò ai miei occhi, quando in uno dei bombardamenti che
mi sono presa in testa, uscii dal rifugio e tra tanta distruzione, calpestando cumuli
di macerie e forse frammenti di membra umane, mi avviavo verso la strada per
Troia (lungo quella che è l’attuale via Vittime Civili) con mio padre e mio fratello
alla ricerca di un qualsiasi mezzo di fortuna che ci avesse portato a Troia, dove gli
altri familiari erano in ansia. Lungo la stessa strada, chiamata allora via Napoli, che
era già quasi aperta campagna, ora è un’ampia strada con la stessa denominazione e
con bei palazzi nuovi; in questa strada su Porta Troia (o Porta Napoli) vi era una
piccola bottega di fabbro-meccanico: era di origine troiana e risiedeva a Foggia da
moltissimi anni, non conosco il nome, ma lo chiamavano dialettalmente “CottCott” (a Troia “Cott-Cott” è la trippa bollita con i condimenti): lì era una specie di
recapito e di deposito per i troiani in arrivo e in partenza o che si servivano per il
trasporto di merci da e per Troia del “vetturino” concittadino Eleuterio Aquilino
che andava e veniva quotidianamente e che perdette un figlio che lo aiutava, vittima appunto dei bombardamenti. Colà ci recavamo a piedi quel giorno appena
usciti dal rifugio dopo il bombardamento per trovare qualche mezzo di fortuna per
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Verso Sud
D. Grittani
raggiungere Troia. Fu durante il percorso che tra i cumuli di macerie raccolsi dei
“souvenirs” che ancora conservo: una scheggia di bomba ancora caldissima quando
la raccolsi, un Crocifisso dal quale nella caduta si era staccato il Cristo e una grossa
fotografia-ricordo di una qualche cerimonia militare in cui si vede il Re Vittorio
Emanuele III al centro circondato da alcuni alti ufficiali, ma con su ancora oggi una
rossa macchiettina di sangue.
[Tratto da Le pietre si muovono, MARIA MARCONE, Mursia, Milano 1989]
PARTE III
Foggia
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Foggia al tempo di Federico II di Svevia
Ernesto Kantorowicz
Ernesto Kantorowicz (1895 - 1963). Celebre studioso tedesco di storia medievale, autore dell’opera I due corpi del Re (1957) e soprattutto del pregevole
saggio Federico II di Svevia (1939). Da quest’ultima opera, che rappresenta la
più attendibile e compiuta biografia dell’imperatore svevo, è tratto il brano qui
riportato.
Si dimentica facilmente che nonostante tutta la giurisprudenza e la dottrina, la
gran Corte era pur sempre una Corte medioevale, ininterrottamente, per decenni,
centro di vita cavalleresca e cortese, che poté così avere in Italia il suo pieno sviluppo. Poiché la Corte di Federico apparteneva a tutta l’Italia molto più della Corte
normanna. Infatti non è Palermo la residenza abituale dell’imperatore, per quanto
egli abbia celebrato con espressioni di entusiasmo le bellezze e le delizie della sua
terra ereditaria, in realtà gli splendori della Corte di Federico a Palermo sono piuttosto leggendari, perché l’Imperatore negli ultimi anni si recò una volta sola in
Sicilia, per reprimere la rivolta di Messina nel 1233. Palermo era nominalmente la
capitale del regno, ma la sua posizione geografica incomoda a raggiungersi, sia con
una pericolosa traversata marittima, sia con una lunghissima marcia terrestre, fece
sì che Federico stimò opportuno di prendere dimora là dove era il nucleo più forte
dello Stato, ossia nelle province verso Nord. La Puglia, le province costiere dell’Adriatico, la Terra Laboris, l’odierna Campania erano per Federico la terra promessa: egli stesso si chiamava l’uomo d’Apulia e la sua vera e propria patria fu la
terra che univa quelle due province, la Capitanata e la Puglia intorno al golfo di
Manfredonia. Fino ai tempi di Federico, la Capitanata aveva avuto poca importanza, e se per quasi un secolo le fila della politica europea conversero nel Tavoliere di
Puglia, se Foggia divenne città nota in oriente come in Occidente, lo si deve soltanto alla predilezione di Federico per questa provincia, predilezione che aveva senza
dubbio base politica. Ivi Federico si trovava nel punto più vicino al teatro delle sue
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Verso Sud
D. Grittani
lotte, cioè all’Italia centrale e settentrionale e poteva tenersi sempre pronto ad intervenire personalmente; ma soprattutto il luogo costituiva un buon punto d’osservazione per ciò che accadeva a Roma. Altri elementi contribuirono anche alla scelta di
quella località come quasi abituale soggiorno di Federico, poiché le terre ora deserte
e sassose, pascolo a greggi vaganti, erano allora ricche di boschi, di amene valli, di
fertili campi e, se non offrivano gli splendori lussureggianti e quasi tropicali di
Palermo, né gli incanti del Golfo di Napoli, favorivano però la grande passione del
sovrano per la caccia, tant’è vero che egli soleva passare l’inverno a Foggia e l’estate
fra i monti. Molto probabilmente la maggior attrattiva fu appunto la vergine bellezza della campagna non ancora sfruttata, campo aperto a tutte le iniziative, e
infatti Federico riuscì meravigliosamente a trasformare quei luoghi.
Là c’erano i castelli da lui stesso fatti erigere. Già nel 1223 fu cominciata la
costruzione di quello di Foggia, la cui iscrizione diceva che Federico aveva innalzato
la città regale ai fastigi della dignità imperiale. Ben presto ne sorsero altri, castelli per
villeggiatura, casine da caccia, casali di campagna a cui di solito era annesso un
podere o una masseria.
Quali misteriosi e inverosimili festini devono essersi svolti dietro le mura silenziose di quei castelli! Un cronista del tempo descrive il castello di Foggia come un
palazzo marmoreo adorno di statue e colonne verde antico, di leoni, di vasche
marmoree, e narra di feste grandiose in cui si alternavano cori e rappresentazioni, e
gli occhi erano rallegrati dalle vesti di porpora degli attori. Di questi, alcuni venivano creati cavalieri, altri ricevevano distintivi ed onorificenze. I divertimenti si susseguivano tutto il giorno e continuavano la notte al lume delle fiaccole. Un altro
cronista narra le meraviglie dei cortili interni, quando fu accolto nel castello il figlio
del re d’Inghilterra Riccardo di Cornovaglia che tornava dalle Crociate. Il conte,
stanco e sfinito dal lungo viaggio nella calda stagione, ebbe dapprima ristoro di
bagni, salassi e corroboranti, quindi si passò ai divertimenti. Con sua grande meraviglia ascoltò musiche strane, suonate su strumenti mai visti, ammirò i giocolieri e
le danzatrici saracene che eseguivano balli fra loro, scivolando leggermente su grosse sfere, sul pavimento liscio e lucente al ritmo di cembali e castagnette. Addirittura
leggendaria è la descrizione delle feste che avevano luogo alla Corte quando centinaia di cavalieri d’ogni paese, ospiti di Federico, raccolti sotto seriche tende assistevano a rappresentazioni date da artisti venuti da ogni parte del mondo, o le ambascerie di altre potenze offrivano all’imperatore i doni più strani e preziosi, o i messi
del re Prete Giovanni gli portarono, per esempio, una veste di amianto, un filtro di
giovinezza, un anello che rendeva invisibili e la pietra filosofale. Si raccontavano
inoltre meravigliose storie sul misterioso astrologo di Corte Michele Scoto, il cui
solo nome faceva rabbrividire e che, fra gli altri miracoli, un giorno di gran caldo,
E. Kantorowicz
Foggia al tempo di Federico II di Svevia
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per desiderio dell’imperatore, fece quello di attrarre nubi temporalesche e produrre
una benefica pioggia.
La cortese cavalleria, la pompa e lo splendore della Corte di Federico si spensero
con lui.
[Tratto da Federico II di Svevia, ERNESTO KANTOROWICZ, Garzanti, Milano 1939]
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Foggia
Jocelyn Brooke
Il poeta Jocelyn Brooke giunse a Foggia, con gli eserciti alleati, nei mesi immediatamente successivi ai feroci bombardamenti del luglio 1943, rimanendo
sensibilmente colpito dalla città semidistrutta. La sua lirica Foggia apparve per
la prima volta nei quaderni di poesia Botteghe Oscure (n. II, anno 1948).
Mi sporgo dalla finestra
Nella sera glaciale,
E vedo il crepuscolo d’inverno
Dissolvere le dirute mura;
e il tramonto ostile fiammeggia
Sulla secca e vuota corteccia
Del sobborgo cittadino, e cade
Come un dito accusatore
Sulle chiese sventrate,
Sulle piccole case rotte
Spaccate come giocattoli; o indugia
Per le strade e cerca
Con la perizia d’un poeta
I piccoli, i trascurati
Segni dell’antica, invincibile
Vita che senza sosta,
Tutta innocente e improtetta
Ora si rinnova: il bimbo
Che giuoca con un cerchio, la donna
China sul fornello,
E i lastricati con la lanugine
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Verso Sud
D. Grittani
Del tenero verde primaverile
Di finocchio selvatico e cicoria.
Ed ora, calando la sera,
Le case ruinate si adergono
Scialbate di luna, bianche come ossa,
Presso l’orlo della città, dove i campi
Fluiscono dolcemente nell’ignoto
Paese oscurato dalla guerra;
E la porta appena illuminata
Offre la sua visione incorniciata di buio
(Una natura morta di Chardin);
E i fuochi sul lastricato
Che ardono per il pasto serale
Come per una festa,
Sfidano la dura costrizione
Della Guerra e l’urgente, maschio assalto
Del preparato disastro:
Segnale luminoso per i futuri
Giorni sorridenti
Quando di nuovo i fuochi festivi
Nella strada e sulla piazza avvamperanno
E i getti e le candele romane
Sprizzeranno la loro ingenua lode
Delle sgargianti immagini di santi,
Riscattando con ore liete
Questo duro tempo senza amore;
E la gente tornerà a danzare
Nelle strade parate di fiori,
Tra lo scorrere del vino nuovo.
[Poesia tratta dai quaderni di Botteghe Oscure, JOCELYN BROOKE, n. II del 1948, traduzione di Salvatore
Rosati]
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Clizia a Foggia
Eugenio Montale
Eugenio Montale (Genova 1896 - Milano 1981). Il grande poeta ligure, nominato Senatore a vita nel 1967 e insignito del Premio Nobel nel 1975, ispirato dal sentimento che nutriva nei confronti di Irma Brandeis (avvenente “musa”
alla quale l’autore di Ossi di Seppia dedicò molti componimenti), descrisse
una sua visita immaginaria alla stazione di Foggia. Nel 1956 questa visita
assunse forma di racconto, e venne pubblicata dall’editore vicentino Neri Pozza
con l’emblematico titolo Clizia a Foggia. La conoscenza di questa prosa - che
descrive con impareggiabile maestria la fissità di un «meriggio» trascorso sotto
l’afa di una città senza più connotati a causa della guerra - si deve in particolar
modo a Paolo De Caro, docente foggiano tra i più rispettati studiosi italiani
dell’opera montaliana. Tuttavia il primo letterato foggiano che se ne occupò fu
il filosofo Pasquale Soccio, che inserì il racconto Clizia a Foggia tra i contributi
letterari della sua monografia sentimentale Omaggio a Foggia (Adda Editrice,
Bari 1974).
I binari erano incandescenti sotto il torrido cielo di Foggia. Al di sopra del loro
barbaglio i vagoni color vinaccia, la fontana secca, i tronchi d’albero legati insieme
(assurda anticipazione dell’inverno) sembravano sul punto di sciogliersi come gomma. Balenò nitida per un secondo la visione dell’ultimo respingente del treno che si
allontanava con dolcezza quasi per suggerire l’idea che una corsetta di cento metri
avrebbe permesso di raggiungere il vagone di coda. Ma nel tempo che Clizia impiegò a valutare le forze che le restavano dopo due giorni passati nell’afa di Foggia, i
cento metri s’erano fatti centocinquanta, duecento. Troppi. Erano le tre del pomeriggio. Clizia sedette con precauzione sull’orlo di un sedile della sala d’aspetto e aprì
l’orario. Fino alle sette non c’erano treni, poi un accelerato l’avrebbe trascinata per
venti ore verso il nord. Guardò in alto col gesto istintivo, rassegnato e disperato
insieme, con cui negli ex-voto delle chiese di campagna coloro che sono in bilico
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Verso Sud
D. Grittani
sull’estremo pericolo cercano in cielo qualcuno che li aiuta, si afferrano quasi con
gli occhi a qualche simbolo della loro interna fiducia. Ma il soffitto della sala d’aspetto
non si schiuse ad alcuna consolante apparizione. Le apparve invece in tutta la sua
lubrica e funebre pompa una lunga pavesata di acchiappamosche gialli, punteggiati
di macchie nere, sibilanti, quasi urlanti dello spasimo di tante agonie riunite. Al
centro della striscia più vicina un grosso ragno nero affondato in quella viscida
superficie non si muoveva più. Come aveva potuto giungere fino al centro della
striscia? Clizia si fermò su diverse ipotesi. Poi concluse che una corrente d’aria doveva essere stata la causa della sciagura; appeso al filo della sua bava il ragno s’era certo
calato attraverso gli spazi della sua aerea architettura e il ciclone l’aveva sorpreso,
spingendolo verso le sabbie mobili di quel fatale approdo.
Esaurita l’indagine Clizia uscì sulla piazza. La valigetta di fibra era leggera ma le
bruciava come un’ortica la mano accaldata. I bar della città non sono allegri, in
piena estate, per le squadriglie di mosconi che succhiano voracemente clienti e
consumazioni. E Clizia aveva disdetto la camera all’albergo. Provò un attimo di
desolato smarrimento, poi la salvezza le si presentò improvvisamente nello spazio
verde di un enorme manifesto murale. Nel salone del Municipio (che subito immaginò ombroso e ricco di morbide poltrone) i celebri professori Dobrowsky e Peterson,
delle università di Bâton Rouge e dell’Istituto Avatar di Charleston (Sud Carolina)
avrebbero svolto un importante dibattito sulla metempsicosi. Se qualcuno del pubblico si fosse prestato erano previsti esperimenti pratici del più alto interesse. L’ingresso costava poche lire.
Poco dopo Clizia entrò in un portoncino adorno di stenti limoni e di fronde di
pino. Alcune frecce la guidarono fino al salone. Un’ombra di navata la accolse e la
ristorò. Nella sala c’erano forse una quindicina di persone che si tenevano
prudentemente discoste dal tavolo dei due oratori, già fermi, in attesa, al loro tavolo. Due uomini diversi; uno calvo, allampanato, occhialuto, vestito di nero, l’altro
pingue, rossiccio, in shorts e camicia di seta cruda.
Girava fra il pubblico un inserviente, o forse un discepolo dei due maestri, e
distribuiva opuscoli a pagamento. Clizia ne acquistò uno. In prima pagina un disegno riproduceva Pitagora nel tempio di Apollo a Branchide. Dal pallio tendeva il
braccio e l’indice verso uno scudo appeso a una parete. Dal suo viso maschio e
quadrato come quello dei giovinetti che l’attorniavano usciva una nuvoletta bianca
nella quale era scritto a grossi caratteri: «Ecco lo scudo che usavo quand’ero Euforbo
e Menelao mi ferì!» Nell’interno dell’oscupolo l’episodio era spiegato minutamente
e non mancavano cenni sulla vita e le opere del sommo filosofo. Clizia lesse due o tre
pagine. La sua energia di neofita scemava man mano che dalle finestre aperte il fresco
di navata cedeva al caldo e minacciosi si affacciavano i primi sciami delle mosche.
E. Montale
Clizia a Foggia
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Si spostò indietro di alcune file, nell’angolo più buio, sfuggendo allo sguardo
indagatore del professor Peterson: e fu così che perdette a poco a poco contatto col
mondo esterno, affondando per conto proprio in una palude nera ma non spiacevole.
Le parve dapprima che al mondo non esistesse più alcuna forza di gravità. Si
sentiva leggera, molleggiata su otto lunghissime zampe terminanti in soffici peli che
attutivano dolcemente ogni passo: se così si può dire, perché di passi propriamente
detti non si trattava nella sua marcia, bensì di frazioni di passi portati avanti ora da
questa ora da quella zampa, in un ordinato movimento che si creava da sé, senza
che lei si affaticasse a dargli impulso o direzione. Vedeva il mondo secondo una
prospettiva orizzontale, non verticale come le pareva ricordare quella dell’uomo,
piantato su due trampoli e procedente ad angolo retto con la terra. A questa nuova
visione contribuiva certo la posizione del suo corpo prono in avanti, disteso sulle
sue basi press’a poco come il soldato negli esercizi dell’«ordine sparso», ma anche la
strana disposizione degli occhi, otto come le zampe e messi a semicerchio intorno al
capo, tanto che – cosa sconosciuta agli uomini – una buona parte della pianura
circostante le appariva simultaneamente accrescendo la sua illusione di spazio e di
libertà. Degli occhi, poi, due erano come appannati, un po’ miopi di giorno, ma
pure in questo Clizia vide una ragione che tendeva a darle una libertà anche maggiore: e infatti, appena scesa la sera, furono essi a entrare in azione, a illuminarle le
tenebre, a renderle più facile il lavoro della tela.
La sua tela era bella, solida e ben tessuta, la più bella che riuscisse a scorgere
lungo le quattro pareti di quel cortiletto di marmo bianco in mezzo al quale una
piccola fontana cantava notte e giorno spandendo il suo getto su uno strato di
muschio morbidissimo. Veniva talora a passeggiare nel cortile un giovane vestito di
bianco (ma dove l’aveva già visto?); col braccio ripiegato oltre l’orlo del pallio sorreggeva un libro che scorreva passeggiando su e giù per il portico, assente da ogni
altra cosa. E accadeva ch’egli si fermasse e guardasse attentamente la tela. Anche di
notte venne una volta a guardarla, e a lei parve che il giovane si accorgesse del
bell’effetto che faceva la rugiada lungo le sottili trame dell’ordito, illuminata dalla
luna. Mentre guardava il lavoro l’enorme viso del giovinetto non perdeva la sua
espressione assorta e intensa. Pareva che la tela continuasse quasi i suoi pensieri,
s’inserisse negli argomenti del libro che leggeva camminando lungo il portico, dal
mattino alla sera.
A volte altri ragazzi venivano a trovare il giovinetto dal bel viso quadro. Sedevano con lui accanto alla fontana, o sullo zoccolo che circondava il portico, non di
rado proprio sotto il capitello che Clizia abitava. Parlavano, sfogliavano libri e pergamene, spinte dai loro gesti piccole onde d’aria arrivavano alla tela facendola on-
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Verso Sud
D. Grittani
deggiare, il movimento ridestava ancora per un secondo le mosche invischiate e
ormai intorpidite nell’agonia (qualcosa nella bava del ragno doveva toglier loro la
vitalità, almeno a giudicare dalla poca resistenza che opponevano una volta cadute,
facili prede ormai pronte ad essere abbracciate e succhiate). Spesso i giovinetti
sbocconcellavano cibi e quando se ne andavano, il ragno scendeva a far bottino di
briciole, di chicchi e talvolta di bucce dolciastre. Fu così che in un caldo pomeriggio
egli avvistò appoggiata sullo zoccolo sottostante una fila di piattini colmi di una
polpa dolce, bionda, odorosissima. Si appese alla tela e si calò, ahimè, con troppa
furia per l’ingordigia, lungo il filo che si allungava man mano, sempre più: guardava il suo filo di sotto in su, stendersi stendersi così lucente e forte, con una specie di
ebbrezza, di orgoglio. Quando si accorse di ciò che stava succedendo, era troppo
tardi, il suo orrendo destino era segnato. Il nettare biondo e molliccio l’aveva afferrato per la peluria del dorso, si dimenò, si scosse, sputò fuori tutta la sua bava per
rafforzare il filo e tentare di risalire. Nello sforzo il capo gli fu imprigionato, poco
dopo anche una zampa affondò in quella viscida palude. Un odore dolciastro, nauseabondo si addensava su di lui, il corpo gli si induriva. In un anelito di suprema
disperazione, di schifo senza limiti, stava buttando il capo indietro per affrettare la
morte quando una mano posata dolcemente sul braccio la svegliò.
Vide l’uomo in shorts e l’uomo in nero curvi su di lei.
«Signora – disse il primo – lei è un soggetto veramente eccezionale. Voglia salire
sulla cattedra ed esporre ciò che ha sognato. Vuol dirmi il suo nome, la sua professione, qualcosa di sé? È di questa città? Lavora qui, studia, viaggia?»
«No, canto – disse Clizia tanto per dire qualche cosa (e infatti canticchiava
spesso per sé).»
«Signore e signori – tuonò il prof. Dobrowsky in pessimo italiano, rivolto al
pubblico – forse abbiamo qui una reincarnazione della Malibran o della divina
Saffo. Ma no, è impossibile, sarebbe un salto troppo forte nel tempo. Vuol dirci
signorina chi ha sognato di essere? Questo sogno dev’essere rivelatore della sua precedente esistenza. Si lasci andare, parli con abbandono.»
Clizia guardò dinanzi a sé e vide che le quindici persone di prima erano diventate forse una trentina.
«Ecco – disse in preda a un imbarazzo enorme che rasentava un sentimento di
pudore offeso – ecco, io credo di aver sognato di essere un ragno, sì, un ragno nel
cortile della casa di Pitagora, almeno mi pare di averlo riconosciuto dal viso.»
Il pubblico scoppiò in un’enorme risata e il prof. Dobrowsky si fece rosso fino
alle orecchie.
«Signora – disse – lei si burla della scienza, non è degna della facilità con cui la
mia ipnosi ha agito su lei. Si rende conto della perfezione che occorrerebbe per
E. Montale
Clizia a Foggia
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passare in un sol balzo dallo stadio di ragno a quello di essere umano? Parli sul serio,
ci dica dunque chi ha sognato di essere.»
«Un ragno nel cortile di Pitagora – ripeté Clizia, mentre le sghignazzate del
pubblico salivano al soffitto e il professor Peterson la prendeva per un braccio e
l’accompagnava alla porta ammonendola a non partecipare più a esperienze troppo
più serie di lei.»
Si ritrovò quasi di corsa nella strada, strinse con rabbia la valigetta, emise un
piccolo gorgheggio per risentirsi viva e guardò l’orologio che portava al polso. Mancava appena un quarto d’ora alla partenza del treno, il pomeriggio foggiano era
terminato.
[Tratto da La Farfalla di Dinard, EUGENIO MONTALE, Neri Pozza, Vicenza 1956; Mondadori, Milano
1960)
83
La prima rappresentazione alla Scala
del Re di Forzano e Giordano
Eugenio Montale
Il teatro lirico, preso troppo frequentemente di mira dai compositori di drammi
a tinte forti e di convenzionali duetti d’amore, trova talvolta opportuno ristorarsi
alle più modeste e dilettose fonti della novella e della fiaba, in cui l’immaginazione
e la grazia, il colore del pittoresco e l’arguzia della satira possono benissimo armonizzare insieme e divenire materia d’arte. Questa opportunità deve essere stata sentita da Giovacchino Forzano e Umberto Giordano scegliendo la materia allegoriconovellistica del Re, andato ieri sera in scena alla Scala diretto da Arturo Toscanini.
(...) Il pubblico, preparato dalla conoscenza della trama a intonare le proprie
impressioni al genere, ha fatto buon viso al nuovo lavoro e con sei chiamate, delle
quali quattro fragorose dirette a Toscanini e a Giordano e le ultime due anche a
Forzano, si è dichiarato soddisfatto. La sala era magnifica, stipate apparivano le
gallerie ed esauriti erano i posti di platea.
(...) Alle prese con questo Re di carta pesta, il maestro Umberto Giordano aveva,
come principale compito, da usare dei mezzi infiniti della musica per scolpire il
comico della novella, sfiorare delicatamente le tenui corde affettive di Rosalina e
Colombello, immergere la rappresentazione scenica in un’atmosfera di musicalità
fiabesca, entro la quale sarebbe avvenuta la fusione degli elementi reali coi fantastici
e giustificata la presenza, in qualche punto, del grottesco.
(...) Ora Giordano, a modo suo, cioè impiegando i noti mezzi d’invenzione di
cui egli diede ripetute prove di poter disporre, è pervenuto a non rallentare il movimento dell’azione scenica.
(...) Diretta da Toscanini, l’esecuzione procedette snella, equilibrata, colorita.
Lo strumentale di Giordano, pregevole in quanto afferma la mano sicura dell’autore e non manca di particolari interessanti, è uscito nitido dalla concertazione. L’elemento vocale di palcoscenico, sia solistico che corale, si è armonizzato nelle tinte,
conservate nei toni discreti di un dinamismo di buon gusto. Allestita da Forzano,
l’opera aveva assicurata a sé una interpretazione scenica perfettamente corrispondente alle intenzioni del librettista.
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Verso Sud
D. Grittani
(...) La parte di Rosalina sembra scritta apposta per Toti Dal Monte, tanto bene
a lei si adattano i passi agili scritti da Giordano e il carattere del personaggio concepito da Forzano. La sicurezza del canto della Del Monte, sempre facile, pronto,
nitido, ha avuto ragione della struttura della musica, cosparsa di virtuosismi.
(...) Apprezzata è stata pure la Pampanini come Nedda. Alla fine degli atti,
Toscanini e gli altri interpreti sono stati ripetutamente acclamati al proscenio.
[Articolo tratto dal Corriere della Sera, Milano 13 gennaio 1929. Il poeta ligure siglò questa recensione
con le iniziali G.C., sebbene l’intervento sia senz’altro da ricondurre al periodo delle prime collaborazioni
con la memorabile Terza Pagina del quotidiano milanese]
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Due lettere inedite
Umberto Giordano
Umberto Giordano (Foggia 1867 - Milano 1948). Il foggiano più illustre di
ogni tempo nacque - in una bella casa dell’allora via della Peschiera, oggi via
Pescheria - dal farmacista Ludovico Giordano e la napoletana Sabata Scognamillo. Allievo del Conservatorio Musicale di Napoli, che frequentò assieme a un
altro compositore destinato alla celebrità come Francesco Cilea, il maestro foggiano conobbe la popolarità grazie al Concorso Musicale per «opere prime in un
solo atto» bandito dall’editore musicale Sonzogno nel 1888 (com’è noto il concorso fu vinto da Cavalleria Rusticana del livornese Pietro Mascagni, ma
Giordano pur classificandosi sesto con l’opera Marina ottenne importanti riconoscimenti). Compositore tra i più stimati del movimento musicale verista di
fine Ottocento, Umberto Giordano scrisse opere come Andrea Chénier (1896),
Fedora (1898), Siberia (1903), Mese Mariano (1910), Cena delle Beffe
(1924) e Il Re (1929) destinate a firmare alcune tra le più felici del cammino
della lirica italiana nel mondo.
Le due brevi lettere che pubblichiamo in questa antologia sono entrambe indirizzate al Commendatore Pecorella (l’allora direttore del Teatro Dauno di Foggia, istituzione successivamente dedicata al grande compositore foggiano) ed
entrambe di significativo valore storico. La prima perché succede alla definitiva
nomina, avvenuta quando il maestro era ancora in vita, del Teatro Comunale
Umberto Giordano; la seconda perché commenta, con poche amare righe scritte
otto mesi prima della morte, la mancata nomina di Senatore che invece andò al
celebre Maestro Arturo Toscanini.
Milano, 21 ottobre 1947
Carissimo amico Pecorella
avete ricostruito il teatro che porta il mio nome, avete organizzato le superbe
rappresentazioni di Chénier, avete diretto i festeggiamenti in mio onore, avete colmato di cortesie la mia consorte e avete fatto... l’impossibile.
Verso Sud
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D. Grittani
Come posso ringraziarvi? Mi limito a dirvi semplicemente grazie di tutto cuore.
So che spesso siete a Milano e vi prego venirmi a stringere la mano ché ne avrò gran
piacere.
Con cordiali saluti
Umberto Giordano
Milano, via Turini 2
7 marzo 1948
Carissimo Comm. e amico
ricevo in questo momento la vostra gradita. Ringrazio voi e i miei amici concittadini per l’affettuosa premura presso il Governo: ma ormai è troppo tardi. Il Governo ha nominato il M. Toscanini. Vi stringo affettuosamente la mano
Umberto Giordano
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Il Piano delle Fosse
Giuseppe Ungaretti
Venosa, il 22 agosto 1934
Piazza ovale che non finisce più, d’una strana potenza. È tutta sparsa di gobbe,
sconvolta, secca, accecante di polvere. Da un lato la chiude una fila di carri obliqui
sulle ruote nelle profondità dei quali i fichidindia messi in mostra fanno come un
mosaico coi loro colori gelati. Grandi scommesse a chi ne mangerà di più, e c’è chi
arriva a mandarne giù anche cento.
Mi sono avvicinato a una delle tante gobbe. Dietro aveva come le altre una
piccola lapide. Smossa la terra, tolte le assicelle apparse sotto, s’è aperto un pozzo e
dentro s’alza un monte di grano. Questa piazza a perdita d’occhio nasconde dunque l’uno accanto all’altro un’infinità di pozzi, conserva il grano della provincia che
ne produce 3.000.000 di quintali, e più. Altro che grotta di Alì Babà.
Ho visto cose antiche, nessuna m’è sembrata più antica di questa, e non solo
perché forse il Piano c’era prima di Foggia stessa, come fa credere la curiosa analogia
fra “Foggia” e “fossa”, ma questo alveare sotterraneo colmo di grano mi riconduce a
tempi patriarcali, quando sopraggiungeva un arcangelo a mostrare a un uomo un
incredibile crescere e moltiplicarsi di figli e di beni.
Nessun luogo avrebbe più diritto d’essere dichiarato Monumento Nazionale.
[Tratto da Deserto e dopo, GIUSEPPE UNGARETTI, Mondadori, Milano 1961]
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Foggia e il Tavoliere
Guido Piovene
Guido Piovene (1907-1986). Scrittore vicentino legato al filone del cattolicesimo veneto, autore di un pregevole saggio-inchiesta sulle bellezze della nostra
penisola dal titolo Viaggio in Italia, da cui è tratto il brano che segue: descrizione ironica e disincatata della terra e degli abitanti del Tavoliere.
Quella pianura vasta e di un solo colore, un tempo tutta verde perché tutta
pascolo, più tardi tutta gialla perché coltivata a grano, il Tavoliere della Puglia, è con
la Sardegna ed alcune zone interne della Sicilia troppo scarsamente abitata. Si deve
ai cattivi governi se una terra fertile, dove qualsiasi coltura risulta possibile, fu abbandonata gradualmente dagli uomini. Il cosiddetto regime di Tavoliere, voluto
dai Borboni, che si protrasse fino al 1865 con il breve intervallo di Gioacchino
Murat, proibiva le coltivazioni per riservare il pascolo a beneficio dell’erario. Il Tavoliere era il maggiore sbocco delle greggi che scendevano sui tratturi attraverso il
Fortore dalle montagne molisane e abruzzesi. Le cronache ci parlano di quell’immensa landa verde in cui si protrasse, fino a meno di un secolo fa, la vita senza data
della pastorizia. Decine di migliaia di animali vi pascolavano: pecore, capre, vacche,
cavalli, bufali. Era un West italiano. Anche Foggia mescolava nell’aspetto e negli usi
i caratteri di una cittadina del Texas a quelli d’una cittadina borbonica. Capitale del
regno più vasto del bestiame nomade, era anche il maggiore mercato del bestiame e
della lana grezza. Ferdinando II, appassionato di cavalli, vi andava con la scorta dei
suoi ufficiali; ed in quel piccolo West napoletano si faceva baldoria, si stringevano
fidanzamenti, si giocava d’azzardo. Molti, raccontano le cronache, venuti a vendere
bestiame, ritornavano senza bestiame e senza danaro. Tenuto a bella posta incolto,
con abitanti fissi sempre più rari, il Tavoliere decadeva a plaga selvaggia. Le acque
impaludavano vasti tratti di terra; i venti di mare spingevano verso l’interno i miasmi
delle paludi; si diffondeva la malaria. Gli alberi furono distrutti: in provincia di
Foggia, il feroce diboscamento ha lasciato soltanto un’isola, la Foresta Umbra del
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Verso Sud
D. Grittani
Gargano. La miseria de’ pochi abitanti superstiti stabilì un regime di furti, di rapine
e di abigeati.
Sulla distruzione degli alberi, che abbiamo constatato in Sardegna, in Calabria,
in Lucania ed altrove, dovuta all’odio del pastore, che non tollerava un’ombra dove
pascolava il suo gregge, ed aborrendo quella datagli dalle fronde cercava per sé
stesso l’ombra delle prode dei fossi, vorrei aggiungere qualche riga. La miseria la
spiega, ma una miseria convertitasi in moralismo. Non solamente l’albero è giudicato dannoso perché prende un pezzo di terra, ma aborrito come predone, perché
“ladro di terra”. È un sentimento d’invidia per l’essere improduttivo (o almeno
ritenuto tale), che non lavora, che non sgobba, eppure pretende di vivere: un atto di
primitiva giustizia contro l’ozioso, il parassita, di cui si mette in causa, il diritto alla
vita. È una condanna moralistica, l’esecuzione capitale di un presunto reo.
La legge del 1865, che abolì il regime di pascolo, non ripopolò il Tavoliere ma
provocò la nascita del latifondo. La pianura fu infatti divisa da speculatori che vi
instaurarono una sola coltura, la coltura del grano, che non esigeva grandi capitali,
strade, abbondante mano d’opera stabile. Due sole operazioni erano infatti necessarie, la semina e la raccolta. Non sorsero né case, né pozzi, né stalle, né alberi.
Dall’uniforme color verde dell’epoca pastorale, la pianura passò all’uniforme color
giallo dell’epoca cerealicola, egualmente deserta, sotto il sole ed il vento. La siccità la
rendeva inadatta a colture più ricche. E l’emorragia demografica continuò in tutto
il primo quarto del secolo. Alcuni villaggi della provincia si sdoppiarono riproducendosi per emigrazione oltre Oceano, e soprattutto in California.
La rinascita vera del Tavoliere esigeva perciò una bonifica a fondo della terra
divenuta ostile. Era necessario immettervi colture più varie e più ricche sottraendole al monopolio della coltura cerealicola, e perciò popolarla; ma anche distogliere
parte degli abitanti dall’agricoltura per instaurarvi un’economia meno semplice.
Lavori di bonifica furono infatti compiuti disordinatamente agli inizi del Regno. Il
Consorzio formato nel 1933 costruì case e borgate. Una bonifica più integrale ed
organica, iniziata nel dopoguerra, è ora in corso con grandi mezzi; e questa fase di
passaggio si riflette anche nell’aspetto di Foggia.
Foggia era stata pressoché distrutta dai bombardamenti aerei, che vi fecero 18
mila morti. La sua ricostruzione fu spettacolare. Nonostante la decimazione, gli
abitanti salirono dai 62 mila censiti nel 1936 a 116 mila. Parte per l’immigrazione
dalla provincia, parte da altre regioni, e perfino dal Nord. Tra l’altro Foggia è uno
dei centri ferroviari e stradali più importanti d’Italia. Circa sessanta autolinee vi
fanno capo. Se non lo sviluppo industriale, quello commerciale fu enorme, elevando il tenore di vita. Più carne, più vino, più dolci, più telefoni, più energia elettrica.
Inoltre Foggia è al centro dell’opera di bonifica. La sua ambizione di diventare uno
G. Piovene
Foggia e il Tavoliere
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dei perni della vita meridionale, e di competere con Bari, è palese. Certo ha uno
slancio più forte di qualsiasi altra città della Puglia. Perciò Foggia ci appare oggi una
città interamente moderna, o meglio, una città in cui il moderno, che occupa la
facciata, trascina i resti anonimi di una vecchia decaduta. L’attrattiva maggiore è nel
suo disegno spazioso di grande città in embrione, nelle strade del centro, ampie,
ben arieggiate, nell’acqua squisita, nel vento fresco. Vi sono palazzi, negozi appariscenti di frigoriferi e di biancheria fine; anche se per la strada si incontrano ancora
l’asino e il mulo. Vista sotto tale scorcio la città dà l’impressione della ricchezza; ma,
addentrandosi nei suoi quartieri, ecco le case decadute ad un piano solo, di genere
coloniale; e, dicono le statistiche, nonostante l’impulso edilizio stupefacente, 20.000
persone vivono ancora in grotte, in caverne, in baracche. Più che crescere
gradatamente, il moderno sembra essere esploso, sovrapponendosi in modo vistoso
alla vecchia anima meridionale, abitudinaria, guardinga. Si direbbe che la casa cambi più rapidamente degli animi e delle usanze, e sia troppo grande per essi. Forse un
emblema del Sud, nella fase attuale, si scorge in certi interni, grigi ed affollati, dove
nello squallore spicca la macchina bianca di un frigorifero lussuoso. Prima di diventare vero il moderno attraversa una fase retorica. Ma impressiona lo sviluppo fisico
della città, la cadenza della trasformazione, la rapidità della corsa.
La provincia di Foggia è prevalentemente agricola. L’industria più importante è
una cartiera, proprietà dello Stato, con una buona produzione di cellulosa. Vi sono
industrie alimentari, mulini e pastifici. La centrale del latte e lo stabilimento per
sgranare il cotone sono sorti nel dopoguerra. Tra le risorse più importanti bisogna
citarne almeno due: il sale delle saline di Margherita di Savoia, raccolto ma non
lavorato in loco, e la miniera di bauxite presso San Giovanni Rotondo. Ma cellulosa
e sale sono industrie statali, e la bauxite della Montecatini. Dopo la perdita dell’Istria
quella citata or ora è l’unica miniera di bauxite italiana, e fornisce 270 mila tonnellate di alluminio all’anno. Si ritiene che nel Gargano vi siano altri giacimenti rimasti intatti. Piccole industrie, specie della pelle e del cuoio, potrebbero attecchire. Un
notevole guadagno, connesso con lo sviluppo della bonifica, si avrà dall’apertura
della centrale ortofrutticola. In questa grande plaga agricola fino ad oggi infatti è
mancato il modo di conservare frutti ed ortaggi, così che si è dovuto vinificare con
uva pregiata da tavola perché non si avevano i mezzi di mantenerla fresca. Si arrivava all’assurdo che pere, pesche ed albicocche, prodotte nel foggiano, erano conservate nei frigoriferi delle città del Nord, Milano, Verona, Bologna. Lo stesso per gli
agrumi, che maturano tardi in Puglia, quando sono finiti quelli siciliani.
Il Tavoliere pastorale, più tardi cerealicolo e latifondista, era la plaga più scarsa di
strade in Italia, paludoso per vasti tratti, soggetto alle tragiche piene di torrente privi
di regola. Le tre prime necessità erano costruire strade, eliminare le paludi, imbri-
92
Verso Sud
D. Grittani
gliare i torrenti. Coi fondi della Cassa del Mezzogiorno le strade sono state adesso
portate a mille chilometri circa, raggiungendo così l’indice medio italiano, e la
situazione appare nell’insieme soddisfacente. Di 30.000 ettari circa di acque nocive, oltre 20.000 sono stati già prosciugati, redimendo il terreno alla coltura. È sparito ad esempio il cosiddetto lago Contessa. Le restanti paludi, specie verso Manfredonia, spariranno tra breve. Terreni acquitrinosi o sabbiosi intorno ai graziosi laghi
di Lesina e di Varno, ai margini del Gargano sulla costa marina, sono stati pure
redenti, per coltivarli a cotone e ad ortaggi. Questa bonifica non è esente da controversie. A Lesina, per esempio, 1500 ettari sono stati occupati dai contadini via via
che uscivano dalla palude, onde il conflitto con i quattro o cinque proprietari degli
acquitrini. Un esperimento, finora compiuto su 500-600 ettari, dovrà estendersi su
tremila: e cioè ricoprire le terre sabbiose con terra fertile dal fondo dei laghi.
Frangiventi di alberi si stanno qui piantando come in Sardegna. La bonifica, dalla
pianura, via via risale sulla collina. E per quanto riguarda specialmente la parte
idraulica, con l’acquisizione di nuovi vasti terreni alla coltura, il 60 per 100 può
considerarsi compiuto. Meno rapida invece procede la trasformazione. Bisogna
coltivare più vigneti ed ortaggi; dare impulso alla zootecnia, finora scarsa e nomade;
far sorgere una rete di industrie derivate. Un radicale cambiamento delle condizioni
ambientali richiede inoltre l’irrigazione più diffusa. Dovranno provvedervi soprattutto le acque del Fortore e dell’Ofanto. L’invaso dell’Ofanto, già finanziato, irrigherà 10.000 ettari circa intorno a Cerignola. Opera più cospicua sarà la costruzione di una diga e la formazione di un lago artificiale, disciplinando le acque del
Fortore, torrente fino ad oggi infausto. Il Fortore corre, tra monti, ai confini, delle
province di Benevento e Campobasso; in una bella e povera zona, priva di ferrovie,
percorsa ancora dalle mandrie, rigata dai tratturi delle transumanze. Da lì le acque
dovrebbero irrigare 60.000 ettari circa delle pianure sottostanti.
La bonifica è legata alla riforma agraria. Se pochi vi sono i coloni, il Tavoliere
presenta forse la maggiore concentrazione di braccianti d’Italia. Una enorme massa
di circa 70.000 braccianti, che ha Cerignola e San Severo come principali centri:
soggetta alle vicende delle stagioni, ai capricci della siccità. La grande proprietà,
dopo il frazionamento iniziato tra le due guerre, ha ricevuto un altro colpo dalla
riforma. L’estensione media delle proprietà classificate come grandi è passata da
500 a 250 ettari. A differenza di altre parti d’Italia, non si è espropriato solo pascolo,
ma anche vigneti ed oliveti, assumendo come criterio non la qualità del terreno, ma
il reddito del proprietario. Sei borgate rurali sono sorte, in aggiunta a quelle dell’anteguerra. I braccianti, stipati in Cerignola, San Severo e in altri centri, formicai di
lavoratori dei campi ma lontani da campi, secondo il costume del Sud, sono stati in
parte assorbiti dalla piccola proprietà. Ma le quote assegnate ai braccianti risultano
G. Piovene
Foggia e il Tavoliere
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troppo piccole perché vi possano vivere da contadini senza un’attività complementare; e soltanto le industrie potrebbero venire incontro al forte aumento demografico.
Bonifica e trasformazione del Tavoliere delle Puglie sono una grandiosa impresa;
tanto che non era possibile iniziare se non di qui il nostro giro della Puglia, per altri
motivi stupenda. Lucera, con la splendida fortezza svevo-angioina, Troia con la sua
cattedrale dalle porte di bronzo capricciosamente scolpite, che mescola il bizantino
all’arabo ed al toscano, ci introducono nel meraviglioso e composito stile romanico
pugliese, a poca distanza da Foggia. Ma la grande bellezza turistica della provincia è
il Gargano. Promontorio montuoso, intorno al quale la letteratura è scarsa in paragone alle sue attrattive, e che perciò conserva qualche segreto, mi è apparso diverso
da quello che le descrizioni altrui mi avevano prefigurato. Pensavo ad una montagna selvatica, scura, aspra, tendente all’orrido; mi sono trovato davanti ad una delle
terre più greche d’Italia, nel senso del grazioso e del lieve. Con l’aiuto della stagione,
vedevo un passaggio dolce, fiorito, quale si incontra nei poeti greci più lirici; coi
mandorli metà bianchi di fiori e metà verdi di foglie, i greppi ricoperti di ireos
selvaggi di colore violetto, e i gruppi degli olivi contorti sopra la roccia. Anche i
villaggi, dalle case basse e intonacate a calcina, erano di una pulizia luminosa. Gli
asini e i muli, le pecore, le capre nere attraversandoli spiccavano su quel bianco, e
andavano ad abbeverarsi a fontane di marmo da poema cavalleresco, ricchezza di
paesi poveri e fino a ieri isolati dal mondo. Nel mezzo delle strade le donne lavorano
a maglia, e i banditori portano le notizie e le ordinanze del Comune. Un’aria classica, civile, per antichità. Se l’orecchio non mi ha tradito, ho udito un contadino
rivolgere a una donna un complimento mitologico: «O Giuno!». Ai margini delle
grandi concentrazioni bracciantili, è una terra di contadini, pastori e pescatori. Si
pesca lungo tutta la costa, fino al golfo di Manfredonia, e nelle isole Tremiti al largo;
in quei paesetti marinari, splendenti e scarni, che sono Peschici e Vieste. Leggera è
anche la foresta cosiddetta umbra, non si sa bene se in memoria degli umbri, antichi abitatori di queste terre, o solamente perché è ombrosa; posta in alto sul monte,
unico avanzo delle foreste che coprivano il promontorio. Vi predomina il faggio,
albero chiaro, ma vi crescono l’agrifoglio e il tasso venefico; ed è popolata di uccelli,
folta ma senza orrore.
Sul Gargano si accavallarono, lasciando ciascuna un deposito, genti diverse di
passaggio. La preistoria, la Grecia, Roma e il Medio Evo vi lasciarono i loro segni,
non tutti ancora messi in luce. Nelle Tremiti, belle e poco note, secondo la leggenda
fu sepolto Diomede. Il santuario di Monte Sant’Angelo fu il più famoso nel medio
Evo. Mitologia pagana, magia, devozione cristiana si confusero in modo pressoché
inestricabile. Il Gargano poi cadde in un oblio quasi totale, da cui solo ora si solleva.
Agricoltura e pastorizia vi danno poco reddito. Squisita la pesca, e ricca di pesce
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Verso Sud
D. Grittani
pregiato, oltre ad anguille e capitoni nei laghetti costieri; ma condotta ancor oggi
con sistemi artigiani, senza trasporti organizzati, tanto che si è dovuto talvolta ributtare il pescato a mare. Questa situazione provoca forti malumori politici che
contrastano stranamente con il grazioso arcaismo ambientale. Il turismo potrà alleviarla quando il Gargano sarà conosciuto di più. Lo amarono soprattutto viaggiatori stranieri, più curiosi degli italiani delle bellezze rare e di una vita primitiva, in cui
mitologie diverse sembrano continuare a vivere. Già costruita è un’ottima rete di
strade; si progetta ora una serie di piccoli alberghi, come quello esistente nella Foresta Umbra. Vicini a Manfredonia sorgono in solitudine due squisite chiese romaniche, Santa Maria di Siponto e San Leonardo; presso la prima sono in corso scavi
archeologici sull’area dove sorse Siponto, altra città scomparsa. Che cos’era, che
cos’è il Gargano, lo si vede a Monte Sant’Angelo. Il suo castello fu sede di principi
e re. La basilica fu la più famosa meta medievale di pellegrinaggi, e l’itinerario
garganico fu forse l’unico in Italia paragonabile ai grandi itinerari di pellegrini che
rigarono di fiumi umani il suolo francese e spagnolo. Fu il santuario nazionale dei
longobardi: qui si inginocchiarono papi, san Francesco d’Assisi, san Tommaso
d’Aquino, santa Caterina da Siena, e i crociati in procinto di partire per la Terra
Santa in omaggio all’Arcangelo guerriero. Da una basilica superiore si scende, per
una scala sotterranea monumentale, fino alla grotta dove, secondo la leggenda,
apparve l’Arcangelo. Entra da un’apertura l’aria e l’odore del mare, mescolandosi
sotto le volte a quelli dei ceri, della muffa e dei devoti. Ancora oggi al santuario
salgono, nelle feste, quasi 500.000 pellegrini all’anno. Ma nei giorni normali ogni
splendore è spento. La borgata sorge su greppi pietrosi dai quali si domina il mare
in lontananza; l’occhio per giungervi sorvola anfratti tra cui spunta qua e là un
ulivo, qualche ciuffo di grano che contende la vita ai sassi.
A Monte Sant’Angelo, dove mi fermo qualche ora, serpeggia nella piazza una
curiosa effervescenza. Gli animi sono travagliati dalle parole, misteriose come quelle
liturgiche, che hanno udito ai comizi. È una povera popolazione, ed esce da un
inverno duro, in cui la neve l’ha bloccata con minaccia di fame. Adesso attribuiscono
agli agiati del borgo sterminate ricchezze, giganteschi egoismi, cupidigie leggendarie.
I due o tre signorotti escono dai loro limiti modesti per entrare nella mitologia. La
parola che odo ripetere più spesso nell’atto di accusa è “azionisti”, possessori di azioni: è una parola liturgica, che si pronuncia con mistero, abbassando la voce. L’immaginazione cammina. Di un tal proprietario, sul cui nome s’insiste, domando che
cosa possegga. Siamo in cima al paese, di dove si scorge un vasto panorama di alture
che scendono verso mare: «Tutto quello che vede è suo», dice l’uomo che mi sta
accanto, nominatosi mio cicerone d’autorità, e con un gesto circolare abbraccia tutto
il panorama. Guardo più attentamente e vedo un’unica sassaia rotta da precipizi, tra
G. Piovene
Foggia e il Tavoliere
95
cui spunta qua e là un ulivo, qualche ciuffo di grano trapelante fra i sassi: disgraziato
nababbo! Col mondo padronale ho un incontro subito dopo. Una vecchia padrona,
forse di novant’anni, seduta davanti alla casa, sorveglia due serve al lavoro. L’una
stende la biancheria, l’altra setaccia la farina, la quale si ammucchia cadendo in una
specie di ampia culla di legno. Commetto l’errore di chiedere qualche spiegazione a
lei, volgendo le spalle alla vecchia; chiedo se tutti facciano il pane in casa. Mi risponde che fanno in casa tutto il pane e in parte la pasta; in parte invece l’acquistano alla
bottega. La vecchia alle mie spalle, offesa che la serva parli al suo posto, agita i piedi
a nocche, coperti solo dalle calze, e starnazza. «La pasta che si compera nelle botteghe
è per loro due che hanno i denti, ma per me è troppo dura. Io mangio quella fatta in
casa.» Mi scopre le gengive nude e si rinchiude in un silenzio ingrugnato. Essere la
padrone e mancare dei denti sono due titoli d’onore che si confondo, e insieme le
danno il diritto a cibarsi più nobilmente. San Giovanni Rotondo, dove abita Padre
Pio, è poco lontano da qui: e Padre Pio è una specie di presenza occulta a cui tutti
ricorrono per le loro necessità. La monaca che mi ferma per chiedere un posto in
macchina non fa che ringraziare Padre Pio durante il viaggio. Perduta la corriera, l’ha
invocato dicendo: «Padre Pio, mandatemi una automobile». È ancora più sicura che
sia stato lui a mandarmi quando le dico che mi appresto a fargli una visita. Padre Pio
ha detto: «Mandiamole quel signore che sta per venire da me».
Per arrivare a Padre Pio, bisogna passare attraverso questa efflorescenza magica,
di cui la gente lo circonda fino a nasconderlo, non riuscendo a dividere il suo
concetto d’un santo da quello d’un mago. Da questo si è più disturbati che attratti.
La lettura delle anime, le lotte con i demoni, l’ubiquità… Appena giunto a San
Giovanni Rotondo, ricevetti lo sfogo di un giovane settentrionale impiegato quaggiù. Si era presentato tre volte a Padre Pio per confessarsi, ed era stato rimandato tre
volte senza assoluzione. Lo strano è che mi narrava queste ripulse in topo apologetico,
come una prova di più della perspicacia del monaco francescano; quasi offrendo sé
stesso e la sua provvisoria dannazione per testimoniarne la gloria. Parlavamo nell’atrio di un albergo. «Qui» mi disse «una sera, mentre stavo con altri quattro, il
commendator X, l’ingegner Y, ecc., scoppiò improvvisamente un profumo di viola
così forte, che ne rimasero storditi. Io solo non sentivo nulla». E mi guardava con
un’aria avvilita, scuotendo il capo su sé stesso; anche quel castigo, quel segno, la
privazione del profumo, diventavano un motivo d’ammirazione, una testimonianza della santità dell’uomo che sa giudicare e punire. «Ma Padre Pio» gli chiesi «era
qui nell’albergo?» «Oh no» rispose il giovane con il sorriso col quale si accolgono le
domande ingenue «stava in cella, a mezzo chilometro».
«E manda il profumo così lontano?» Nuovo sorrisetto. «Qui è niente; in Egitto,
in Alaska…»
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Verso Sud
D. Grittani
Questa vicenda delle assoluzioni negate per straordinaria forza di penetrazione
nelle anime fa parte della leggenda di Padre Pio. I motivi per cui Padre Pio può
respingere sono, da quanto mi raccontano, i più semplici e più ortodossi. Il matrimonio volontariamente infecondo; non ricordare quante volte si è perduta la Messa, dimostrano così di annettervi poca importanza.
In Egitto, in Alaska… Come se fosse scaturita da quell’atmosfera magica, sceso
in paese vi trovai l’unica centenaria della mia vita. Era già nella farmacia dove entrai:
un fantoccio di cenci fluidi, nei quali il corpo si perdeva senza disdegno. La pelle del
volto pendeva come i cenci nello stesso senso, così che vesti, corpo e volto indistinti
sembravano colare insieme. Aveva posato sul banco dieci lire e una bustina: il farmacista prendeva con un cucchiaio alcune pastiglie di gomma verde ed avvolte
nello zucchero, e le metteva dentro alla bustina contandole. D’un tratto uscì dai
cenci non una voce, ma uno strido di topo: «Di più, di più. Non lo sapete che devo
mangiare per quattro giorni?».
«Quante ne volete mangiare?» ribatté il farmacista «quattro al giorno, per caso?
Due, due, dovete prenderne». La vecchia farfugliava che aveva fame; ed ottenute
alcune pastiglie di più, uscì stringendo la bustina.
«Ha visto» spiegò il farmacista. «Le ho detto due al giorno perché si limiti a
prenderne quattro; se le dico quattro, è capace di mangiarne anche sei… Credo
bene, che non mangi altro; che cosa dovrebbe mangiare alla sua età? Ha cent’anni
passati. Sono pastiglie di mentolo: se le mette sotto la lingua e continua a succhiare
per la giornata intera. Lo zucchero la nutre, e il mentolo la tiene su. A cent’anni ce
n’è d’avanzo…»
Poi, tornato all’albergo, di nuovo miracoli, miracolati. Ecco un diplomatico
americano, un ebreo convertito, tra la moglie ed i figli, nell’attesa agitata della mattina dopo. Secondo il suo racconto, un frate gli era apparso miracolosamente negli
Stati Uniti, venticinque anni fa, persuadendolo alla conversione, senza palesargli il
suo nome. Solo recentemente lo riconobbe in una rivista illustrata, e si precipitò in
Italia per ringraziarlo. Non conoscevo ancora il drappello delle devote, trasferitesi
qui per stare sempre presso il Santo, ricavando da vivere dal commercio degli oggetti sacri. All’alba, prima della Messa, si stringono intorno alla porta della piccola
chiesa perché nessuno entri prima di loro. Quando la porta s’apre, irrompono nella
chiesa, occupando le prime due file davanti all’altare e le ali del breve passaggio che
uscendo dalla sagrestia Padre Pio è costretto a percorrere. Appena appare lo aggrediscono, per toccarlo, mettersi in vista, competere nello zelo, facendolo vacillare, talvolta pestandogli i piedi piagati dalle stimmate. Giacché Padre Pio ha le stimmate;
le mani e i piedi traforati, e una piaga al costato; e i buchi delle mani coperti di una
lieve crosta che sanguina.
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Foggia e il Tavoliere
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Più su di questo, vi è l’opera e la persona dell’unico uomo vivente che, almeno
nel nostro Paese, abbia fama di santità. Nei giorni in cui lo vidi si preparava l’inaugurazione ufficiale dell’immenso ospedale (la Casa sollievo della sofferenza), fissata
per il 5 maggio, perché il 5, mi dicono, è il numero di Padre Pio, e ha segnato gli
eventi principali della sua vita. La costruzione, lunga 188 metri, con una superficie
di 6000 metri quadrati, è sorta dove fino a pochi anni fa si vedeva soltanto un
conventino sperduto tra i greppi sassosi, sopra una povera borgata di montanari del
Gargano. Adesso il conventino scompare di fronte all’ospedale, alle costruzioni
civili, agli alberghi che salgono verso di esso sulla rampa; si assiste alla nascita d’una
città intorno alla fama di un uomo. Un altro grande ospedale è in progetto. Confesso che quello già sorto, mentre lo visitavo, ed ammiravo la modernità degli impianti, mi parve fin troppo pomposo e troppo carico di marmi. Ma l’impressione fu
corretta quando entrai nel convento che genera questo sfarzo. È il convento più
povero e sgangherato ch’io conosca. Le celle, intraviste dal corridoio, sono come le
camere dei contadini del Sud; i muri devono essere umidi, se si giudica dai vecchi
frati, che camminano un po’ sbilenchi. Eppure Padre Pio riceve qua dentro, da
tutte le parti del mondo, molti milioni al giorno che fluiscono nell’ospedale, in
lavori che costano miliardi, dai quali il conventino sarà sommerso come le vecchie
casupole anacronistiche nascoste tra i grattacieli delle città.
Padre Pio non si muove dal convento: non si occupa dei lavori che promuove, se
non per sollecitarli, e li abbandona ai tecnici. Dire Messa è per lui l’avvenimento
capitale della giornata. Nelle altre ore, prega e confessa. Queste opere riprendono in
lui, come in antico, un valore di funzione pubblica. Dorme poco, si nutre di qualche erbaggio e di un bicchiere di birra. La Messa è alle cinque della mattina ad un
altare secondario della chiesetta. La folla comincia però ad assediare di notte la
porta chiusa. Quella Messa che, benché normale, dura un’ora abbondante, è un
evento drammatico, che porta Padre Pio di sbalzo molto più su della leggenda
diffusasi intorno a lui. Mi limito a ricordarlo nell’emozione di quel dramma, lasciando giudicare ad altri la sua fama di santo magico, su cui non saprei dire nulla.
Padre Pio dice Messa in uno stato, certo autentico, di estasi e di rapimento: non un
rapimento immobile; un rapimento travagliato, in cui si alternano sentimenti diversi, con una specie di altalena tra l’ebbrezza e l’affanno. Le mani, che durante il
giorno ricopre con mezzi guanti di lana, sono nude all’altare e mostrano la grande
macchia rossiccia delle stimmate. Si vede che gli dolgono; e specialmente soffre nel
genuflettersi, come lo richiede il rito, pesando sul piede sinistro. Allora si aggrappa
all’altare; un’ombra di dolore fisico gli appare in faccia, come nel sonno dei malati,
che soffrono del male ma ne sono incoscienti; e si mescola ad una sofferenza maggiore. È chiaro che il frate rivive, anima e corpo, il sacrificio di Cristo; più che una
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Verso Sud
D. Grittani
Messa, il suo è un colloquio con Cristo, concitato a momenti, ed in altri disteso. I
sentimenti discordanti, di gioia o d’angoscia, che palesa sul volto, sono suscitati in
lui dalla vicenda a cui partecipa. Ho visto Padre Pio togliersi dalla manica un fazzoletto, adoperarlo, e poi gettarlo sull’altare; la sua Messa è, nel tempo stesso, tragica
e confidenziale. Qualche ora più tardi, ritrovai Padre Pio nel corridoio del convento, dove soltanto gli uomini sono ammessi. Non vidi niente in lui dell’indovino né
del mago. La cerchia intorno a lui comprendeva fedeli di ogni professione e ceto,
dottori, ingegneri, industriali, operai, pastori della montagna. Erano tutti uniformati
dal sorrisetto beato ed un po’ melenso col quale bevevano le sue parole, senza staccargli un istante gli occhi di dosso, e cercando, appena possibile, di afferrargli una
mano per baciarla. In mezzo, Padre Pio scherzava, raccontava modesti aneddoti,
proverbiosi, gli stessi che si ascoltano nelle case dei contadini, e hanno come orizzonte la vita e i costumi della campagna. Nessuna sottigliezza intellettuale. Credo
che soffrisse ancora, almeno a giudicare dal passo, vacillante, guardingo, da persona
che cerca di pesare il meno possibile; ma quel nodo di sentimenti, alcuni dei quali
affannosi, suscitati in lui dalla Messa, gli si era sciolto in gioia. Nell’occhio grande,
sferico, tale che riempie le palpebre e dà loro una forma fortemente convessa, un
occhio dove si direbbe che gli oggetti della visione s’ingrandiscano come traversando una lente, vi era un’espressione di gioia assoluta. Appena fuori del convento,
ripiombai nell’informe aspirazione alla magia che alita in queste terre; quasiché un
sentimento religioso vagante cerchi dove può il suo oggetto, pronto a farsi calamitare.
Un crocchio di donnette si era raccolto intorno a una signora bionda, seduta in
automobile in mezzo al piazzale.
«Americana?»
«No».
«Capisci l’italiano?»
«Certo, sono italiana».
«Italiana è, capisce l’italiano!» cominciò a strillare una donna. «Quanto è bella!
Che pelle tiene!» Le toccava la guancia per il finestrino aperto, si baciava la punta
delle dita: «Santa martire! Santa martire!». Tutte le donne a turno toccavano quella
guancia, per baciarsi le dita, per farsi il segno della croce: «Santa martire! Santa
martire!». L’aggredita si difendeva e strillava a sua volta. «Non sono Padre Pio! Non
sono Padre Pio!». Egli convoglia le credenze della nostra regione in cui la magia ha
lasciato più profondi residui; qui polarizzate da un Santo, ed altrove da maghi e da
guaritori profani. La Puglia è ricca di folclore interiore: il folclore esteriore, che si
dispiega in pittoresche usanze arcaiche, è quasi estinto. Una viaggiatrice inglese, nel
1889, trovò i villaggi del Gargano con gli uomini tutti in costume, e le donne
coperte d’oro come Madonne. Nulla si vede oggi di simile. Altra usanza era la
G. Piovene
Foggia e il Tavoliere
99
cosiddetta ditt, rappresentazione teatrale all’aria aperta, simile ai maggi reggiani e
toscani, diversa però nello spirito, non desunta cioè dai poemi cavallereschi. Tre
personaggi fissi vi intervenivano, Pulcinella, il demonio e San Michele. Anche questa usanza è scomparsa. Una difficoltà nel capire l’Italia è il contrasto tra la persistenza
di sedimenti arcaici nelle coscienze, e la veloce sparizione delle espressioni più visibili, l’irruzione di una modernità di superficie. La Capitanata, con Foggia, è una
Puglia sui generis, il cui aspetto oggi più preminente è la bonifica dei campi e la
trasformazione delle colture. La vera Puglia comincia più a sud; e si può vederla,
secondo gli umori, come una regione povera, o come un paradiso terrestre dell’agricoltura, dove raggiungono il primato, rispetto alle altre regioni d’Italia, il vino e la
vite, l’oliva e il mandorlo, il tabacco ed il fico, l’avena e la melacotogna.
[Tratto da Viaggio in Italia, GUIDO PIOVENE, Mondadori, Milano 1957]
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Omaggio a Foggia
Pasquale Soccio
Pasquale Soccio (San Marco in Lamis 1907). Figlio di un fabbro ferraio e di
una casalinga, Pasquale Soccio va senza dubbio annoverato tra le personalità
culturali più autentiche della Puglia. E non solo, dato che il pensiero di Soccio
ha prepotentemente varcato i confini continentali grazie a L’autobiografia,
poesia e scienza nuova di Gian Battista Vico, saggio di straordinaria lucidità
pubblicato nella collana Grandi Libri Garzanti (Milano 1983). L’opera più
nota di Soccio è stata infatti tradotta in numerose lingue e adottata dalla
prestigiosa Stanford University (California). Oltre ad ospitare alcuni brani tratti
da Omaggio a Foggia (Adda 1974), questa antologia si fregia dell’onore di
riservare a Soccio un posto da protagonista nello splendido racconto Gargano
sessantuno di cui è autore il poeta Roberto Roversi (vedi capitolo dedicato al
Gargano).
Io dormo sul tuo cuore antico, o Foggia, e sogno oro di grano, oro di lana.
Dove una volta confluivano i tratturi e si apriva il gibboso piano delle fosse,
arche ricolme del frutto più cospicuo della tua terra, e dove ora invece il cemento
tutto ha sepolto, io sono giunto, con la mia dimora, come a una estrema riva; e
guardo estatico il tuo volto di oggi e di sempre.
Con onde di messi, onde di greggi, in luce bionda si desta la tavola che ti contiene. In una cornice azzurra, che va da monte a monte, percorsa ad oriente dalla
fuggitiva letizia delle onde adriatiche, immenso appare il tuo volto sulla piana immensa. ‘Hai per sede lo spazio, il deserto hai per matrice’. Al centro, onnivisibile
faro d’orientamento, la verticale di un’opera di fede: sull’anonima nebbia delle case,
prone e povere, vigile sale e ardita la cattedrale. Il campanile è l’asta puntata di un
compasso ideale che con felice giro geometrico di vasto respiro circoscrive uno degli
spazi più armoniosi nella divisione delle province italiane. È un dito proteso
imperiosamente verso l’invisibile, verso orizzonti senza confini, verso l’infinito.
Di giorno, quando i venti, non più domati dai monti intorno, dilagano
102
Verso Sud
D. Grittani
tripudiando nella piana a gara con bufali e cavalli superstiti, sta come saldo pennone fra tempeste di venti e di eventi.
Di notte, quando si spalancano cieli favolosi di stelle e il Tavoliere a specchio,
con la razionale disposizione delle sue città, imita e riflette la quiete stellare, esso
addita una luce che trascende quelle visibili.
Allora i treni, che, come i venti, con infrenato slancio hanno caracollato lungo le
giogaie appenniniche, sfrecciano in pianura e intonano il canto fermo della velocità; e come fulgide meteore sono calamitate dal tuo lago luminoso.
Fragile voglia al vento e della sorte, dopo incerto peregrinare con la mia dimora
(non so se ultima), sono stato collocato dal destino nel punto dove tu, nascendo,
avesti culla e giovine vita: qui il tuo spazio originario estua nel tempo, e cioè dove
sorgiva e foce danno già vigoroso corso al fiume della tua storia, divenendo con
onde impetuose città di frontiera, fatale crocevia della storia umana.
Sento ora in me l’invito filiale ad ardere di consapevolezza nell’ascoltare e sentire
la tua voce, nel riconoscere l’espressione del tuo volto.
Oggi sono come ago di bussola che vibra magnetizzato dal tuo sguardo e oscilla
tra i due poli del Vulture e del Gargano, visibili insieme da qui in giorni di chiarìa e
che cingono di sereno la bionda pagina del Tavoliere.
Da una pianta amica scende per un filo di ragno una goccia d’acqua di mattutina rugiada e rimane sospesa nel vuoto.
Riflette l’arco del tuo centro antico e si immilla di luci. È una goccia di sole, che
si illumina d’immenso. La sua vita fugace dipende da un breve moto d’aria, da un
lieve brivido del vento. (Così la mia vita: un pensiero sospeso nella coscienza, pronto a vanire nell’infinita serenità). Ma in questo preciso istante, in questa goccia di
umore s’incentra, s’addensa e riflette l’intero universo dauno dal Gargano all’Appennino. Lo slancio d’orizzonte che offre questa mia dimora, incombente sulle
umili case dell’antico centro, accende una esaltazione inebriante. Oggi, dunque,
sono io una luminosa stilla di gioia: la trasparenza effimera della coscienza; labile
punto di luce reale e mentale. Uno scatto della memoria provoca una consaputa
fata Morgana, e fantastica e delira con ombre e oggetti, eventi ed esistenze.
Sia pure caduco al primo vento della sorte, sento di essere quella convergenza di
luci, che si esalta a questi vertici singolari di spazio e di tempo.
E mi tormento d’essere opaca, irrequieta materia; aver dentro grovigli di pensieri, sensi al dolore; creatura esposta al capriccio del caso: non poter essere fermo
specchio del tuo cielo, il riso del tuo mattino. (...)
[Tratto da Omaggio a Foggia, PASQUALE SOCCIO, Adda, Bari 1974]
103
Foggia
Eugenio Bennato
Artista impegnato nella ricerca delle più antiche sonorità, uomo profondamente innamorato della Capitanata, Eugenio Bennato ha trovato nei “Cantori di
Carpino” i suoi ideali compagni di un viaggio a ritroso nel tempo, sulle tracce
delle autentiche radici popolari garganiche. Quello che segue è il testo della
canzone Foggia, dedicata dal cantautore alla città capoluogo della Daunia.
Nella canzone si noterà un chiaro riferimento a Renzo Arbore, al quale Bennato si rivolge con la frase «tu che viene ’a Foggia e vuò fa o napulitano, tu nun ti
si accorto e’ niente... »
Foggia è chella musica
che nasce int’ o paese
e che more dint’e case
addò se ferma o viento
c’attraversa la campagna
tutta spine e tutta rose
addò se ferma o tiempo
e addeventa tarantella
addò nu santo dorme sott’e stelle
Foggia è chella musica
ca dura na jurnata
e chi ’a sente è furtunato
(Foggia è chello ca è passato
e c’ancora adda venire)
E tu pozza girare
comme gira lu sole lu sole
Verso Sud
104
e tu pozza sentire sentire
o profumo ’e na rosa d’amore
E’ na musica meridionale
ca nun siente a la televisione
è na rosa ca fa’ annammurare
è a chitarra e’ Matteo Salvatore
Tu che viene ’a Foggia
e vuò fa o napulitano
tu nun ti si accorto e’ niente
e Napule se sape
fa a furtuna ’e chi s’a venne
e Foggia è sulamente
terra antica e terra amara
de rose e de canzoni mai sentute
Tu che viene ’a Foggia
e vuò fa o napulitano
forse nun l’e cunusciute
(Foggia è chello che è passato
e ca ancora adda venire).
[Tratto dall’album Angeli del Sud, EUGENIO BENNATO, 1995]
D. Grittani
PARTE IV
San Severo
107
Pianura
Umberto Fraccacreta
Umberto Fraccacreta (San Severo 1892 - 1947). Apprezzato poeta, fine traduttore dal francese, Umberto Fraccacreta dedicò non molte liriche alla sua
terra natale. Tra queste segnaliamo gli emozionanti versi di Pianura, che riportiamo in questa antologia.
In questi versi v’è la trasparenza
che abbaglia l’infinita mia pianura,
la quale niuna forza mai misura
se cuor non l’accompagna in sofferenza.
Lieve ombra che non cangia la parvenza
vi disegna la grama alberatura,
mentre già ebre dalla gran caldura
le cicale rinforzan la cadenza.
Travaglio e sete il giorno, ma la notte
variegata di lucciole e di stelle
è l’oasi che affranca dalle lotte.
E il pino solitario è l’incensiere
che anela le boscaglie delle belle
pendici, a cui s’inchina il Tavoliere.
[Poesia tratta da Elevazione, UMBERTO FRACCACRETA, Cappelli, Bologna 1931]
109
I confini territoriali del
“Monasterium Terrae Maioris”
Antonio Casiglio
Antonio Casiglio (San Severo 1921 - Foggia 1995). Tra i più rispettati scrittori
degli anni Settanta, Nino Casiglio ha firmato con Il conservatore (Vallecchi
1972), Acqua e sale (Rusconi 1977, Premio Napoli nello stesso anno), La
strada Francesca (Rusconi 1980) e La dama forestiera (Rusconi 1983) alcune
tra le opere più brillanti dell’ultimo ventennio della narrativa italiana. Al punto che, un aneddoto piuttosto ricorrente, racconta di una cena consumatasi a
Bologna nella metà degli anni Ottanta durante cui, interrogato sul più originale dei narratori italiani, Umberto Eco senza esitazioni avrebbe fatto il nome
del sanseverese Casiglio.
Tuttavia lo scrittore tendeva a non dimenticare mai le proprie origini di studioso e ricercatore, tant’è che si riteneva molto soddisfatto più che dei propri romanzi di una relazione-saggio che tenne in occasione di un convegno sulla
storia di San Severo. In questa sede pubblichiamo integralmente l’intervento
che personalmente Nino Casiglio consegnò al curatore di questa antologia, con
la significativa dedica «questa pietra in saccoccia, per quando tirerà un po’ di
vento».
Nel suo recente, attentissimo studio su San Severo nel Medioevo Pasquale Corsi
ha messo giustamente in evidenza la difficoltà di definire adeguatamente il confine
del territorio di Terra Maggiore sul versante di Civitate. Il monastero possedeva
beni in molti luoghi; ma la documentazione confinaria sul suo tenimento si riduce
ai nn. 11 (a. 1152) e 21 (a. 1192) del Leccisotti. È vero altresì che una migliore
conoscenza dei territori di Dragonara, Plantiliano, Fiorentino, Casale Novum, Bantia
o Vanzo e San Giovanni in Piano ci consente oggi di escludere con maggiore o
minore sicurezza alcune terre dall’ambito di Terra Maggiore e di trarre quindi alcune conferme negative. Indipendentemente da siffatto genere di conferme e dai dati
ricavabili attraverso l’analisi dei toponimi presenti nella documentazione spicciola,
110
Verso Sud
D. Grittani
è opportuno riesaminare i due documenti fondamentali, dai quali mi sembra possibile trarre conclusioni in parte diverse da quelle già note.
Ad evitare fastidiosi riscontri, è bene riportare qui almeno il dispositivo essenziale delle due confinazioni conservatesi.
N. 11: … omnes terras universaque tenimenta, que sunt a vallone de Radicosa a
loco ubi via Lucerina iungitur cum ipso vallone de Radicosa et sallendo per ipsam
Radicosam ubi sunt ilices et sallit usque ad serram quae Ferratam se clamat, et descendit
in rivum de Camerato, et dimisso rivo transit et vadit per limites collis Sancti Martini
et per quandam cupam, quae est proxima ecclesie Sancti Nycolay de Viridamento, ad
flumen Viridamenti in loco ubi monticellus stat super ripam ipsius fluminis subter
ipsam ecclesiam Sancti Nycolay; quae terrae et tenimenta sunt in proprium et designatum
territorium ipsius monasterii, ita ut quecumque terre vel tenimenta sunt infra predictos
fines et terminos usque ad alia confinia dicti territorii Terre maioris, monasterium ipsum
firmiter habeat et proprietario iure in perpetuum possideat.
N. 21: De prima parte incipit a Radicosa et salit per illum vallonem unde stant
illices et descendit usque ad serram et deinde vadit usque ad rivum Ferrandi. De secunda
parte vadit per rivum Ferrandi usque ad finem eiusdem rivi Ferrandi. De tertia parte
incipit a fine predicti rivi et vadit in cyrcuitu usque ad viam Lucerinam et sicut vadit
via Lucerina et vadit usque Radicosa. De quarta parte incipit a via Lucerina ubi iungitur
cum Radicosa et sallit a Radicosa ad vallonem ubi stant supradicte illices et vadit ad
primum finem.
Si sa che la seconda confinazione è in realtà la più antica, in quanto la conferma di
Tancredi riporta un privilegio di Roberto il Guiscardo risalente al 1067, che a sua
volta conferma un precetto del catapano Boiano. Ma una seconda e importante
differenza tra il n. 11 e il n. 21 sta nel fatto che, mentre il n. 21 intende dare una
completa anche se sommaria confinazione dell’intero tenimento, col n. 11 invece si
intende restituire a Terra Maggiore una quota parte del tenimento, che era stata
usurpata. Il conte Roberto, richiesto più volte (nella sua sede di Civitate) di assicurare
la restituzione delle terre usurpate che si trovano ex illa parte Radicose et ex illa parte
vici (intendo rivi come nella confinazione che segue) de Camerato, vale a dire, per
l’osservatore posto a Civitate, rispettivamente sulla destra del Radicosa e sulla sinistra
del canale del Frassino, che convoglia nello Staina le acque della contrada Cammerata,
si porta nel monastero e riconosce gli antichi confini, in modo che Terra Maggiore
eserciti pacificamente il suo diritto di proprietà infra predictos fines et terminos usque
ad alia confinia dicti territorii Terre maioris. L’esigenza comporta quindi una confinazione
più particolareggiata. Questa diversità, per così dire, di scala non va trascurata.
Inoltre occorre correggere due errori del Leccisotti. Egli ha ritenuto, sulle orme
del Barone, che il Viridamentum fosse il Fortore; ma sappiamo ora che è invece lo
A. Casiglio
I confini territoriali del “Monasterium Terrae Maioris”
111
Staina: il Martin ha opportunamente citato l’uso del toponimo “Guardamento”
nella relativa carta tratturale della reintegra Capecelatro. È possibile aggiungere che
il toponimo si ritrova nella carta Michele della locazione di Guardiola, per denominare due contrade contigue (Dragonara 421 e Cantigliano 424) nel corredo descrittivo dell’atlante Della Croce e ancora in alcune carte dell’Ottocento (Archivio
di Stato di Foggia, Atti privati reg., F. 336, marzo 1843; Piante top., Atlante 17, n.
36). D’altronde il cartolario di Sculgola offre una conferma negativa di questo dato
di per sé certo, distinguendo inequivocabilmente in numerosissimi luoghi il Fortore
dal Viridamentum. Inoltre l’analisi topografica del cartolario, che ho in corso di
pubblicazione, consente di constatare che il territorio di Dragonara si spingeva sulla
destra dello Staina con Santa Maria in Aulicina, confinando col territorio di
Plantiliano e probabilmente, a S. di Mezzana delle Ferole, con Terra Maggiore.
In secondo luogo, il Leccisotti parla di “confine settentrionale” del tenimento.
L’espressione è impropria, data la dislocazione di esso, di cui il n. 21 mostra di tener
conto, facendo perno su due punti sicuri, il Radicosa e il Ferrante e descrivendo
nella prima parte l’intero angolo nord-occidentale e nella quarta il tratto esclusivamente settentrionale, mentre il n. 11 unifica i due tratti e analizza particolareggiatamente il primo dei due, che è oggetto della contestazione. Ma soprattutto il Leccisotti
ha ritenuto che il confine dal Radicosa si spingesse verso Civitate. A parte l’incongruità
(a Civitate sarebbe rimasto ben poco), il confronto tra il n. 21 e il n. 11 e la lettura
della confinazione del n. 11 sui fogli 155, II SO, e 155, III SE dell’I.G.M. portano
a conclusioni diverse. La confinazione del n. 11 è in senso antiorario, prima da E
verso O, poi, seguendo la conformazione del tenimento, da NO verso SE.
Si parte dall’incrocio di una Via Lucerina col Radicosa. Questo punto, ancorché
non accertabile con assoluta sicurezza, è presente anche nel n. 21 e costituisce la
chiave della confinazione. Va quindi esaminato con particolare attenzione. A suo
tempo il Fuiano ha ritenuto che si tratti di una via da Lesina a Lucera per San
Severo. Di qui una conferma della posizione equivoca di San Severo e del suo
territorio, solo in parte ricadente nel tenimento del monastero di San Pietro. Se
tuttavia la strada del n. 21 è la stessa del n. 11, non sembra che possa trattarsi della
Lesina-San Severo-Lucera, indipendentemente dalla validità in sé stessa dell’affermata importanza della così detta “via del pesce”. Proviamo infatti a rileggere la
confinazione del n. 21 tenendo sotto gli occhi i fogli 155 (San Severo) e 163 (Lucera) allegati alla nota opera dell’Alvisi. In base al n. 21 il confine (secondo tratto)
segue il Ferrante fino alla sua confluenza nel Triolo. Nel terzo tratto il confine,
risalendo verso N attraverso E, parte da questa confluenza formando un arco (vadit
in cyrcuitu) fino ad una Via Lucerina, che segue per un certo tratto fino al Radicosa.
È difficile pensare che essa coincida con l’itinerario Lucera-Motta del Lupo-Ser-
112
Verso Sud
D. Grittani
pente (ad E di San Severo), giacché in tal caso includerebbe contrade come quella
di Bantia o Vanzo, che sappiamo aver avuto vicenda feudale del tutto indipendente. Ma neppure l’itinerario Lucera-San Severo-Lesina può essere accettato facilmente. In questo caso, infatti, la Via Lucerina avrebbe raggiunto il Radicosa parecchio ad E di Torre della Gramigna, che sappiamo essere appartenuta a San Giovanni in Piano prima di una permuta che intorno al 1375 consentì ai Celestini di
mettere radici in San Severo e portò Torre della Gramigna, almeno in parte (54
versure) e per vie finora sconosciute, tra i beni del monastero femminile sanseverese
di San Lorenzo. Indipendentemente dalla natura giuridica dei possessi, non è facile
accettare l’idea di una enclave di San Giovanni in Piano nel territorio dotale di San
Pietro. E se la Via Lucerina doveva raggiungere il Radicosa ad O di Torre della
Gramigna, occorre pensare ad una delle numerose vie che collegavano e collegano
Lucera con la zona di Civitate, tagliando il Radicosa a N di Torremaggiore o a NO
di San Severo.
È difficile dire quale di esse fosse all’epoca maggiormente battuta e quindi meglio rispondente alla comprensibilità della confinazione quando i documenti furono redatti. Questo discorso non modifica quanto finora si è concordemente pensato, che cioè l’arco confinario dal Triolo risalisse verso N (probabilmente senza includere la contrada Motta del Lupo) fino alla contrada Vignali e, passando tra i tenimenti
di Casale Novum (ad E) e Sant’Andrea (ad O), piegasse verso San Severo.
Un problema particolare, che finora era sfuggito all’attenzione degli studiosi e
che in questa sede non sono in grado di chiarire interamente, riguarda il territorio
di Casalorda, a SE di Santa Giusta e a SO di Sant’Andrea. Esso, in base alla
confinazione del n. 21, rientra nel territorio di Terra Maggiore, in quanto posto
sulla sinistra del Ferrante. E in epoca moderna, nell’ambito del feudo dei principi di
Sangro, rientra nel tenimento di Sant’Andrea. Ma non è nominato nelle conferme
pontificie dei beni di Terra Maggiore e risulta feudo autonomo non solo nelle numerose menzioni dei Registri Angioini (cfr. i voll. 4°, 21°, 22°, 23°, 26°, 35°, ad
vocem), ma anche, che è assai più, nel Catalogus Baronum (C 321). Occorre pensare
che circostanze a noi ignote abbiano portato alla sua separazione successivamente al
privilegio di Roberto il Guiscardo (1067) e anteriormente alla redazione ordinaria
del Catalogus, senza che Terra Maggiore abbia avuto interesse a darne atto, secondo
la tendenza a mantenere aperte e impregiudicate le questioni del genere.
Con questa premessa, tentiamo ora la lettura della confinazione del n. 11. Dall’incrocio della via Lucerina il confine procede lungo il Radicosa verso O fino ad un
vallone caratterizzato dalla presenza di lecci. In verità le querce erano diffuse ovunque, fino a tempi recentissimi, lungo i valloni torrentizi che nel Tavoliere settentrionale confluiscono tutti nel Candelaro. Nel caso particolare bisogna pensare ad uno
A. Casiglio
I confini territoriali del “Monasterium Terrae Maioris”
113
dei due valloncelli che danno vita al Radicosa, a quello per esempio che ora fa da
confine tra i comuni di Torremaggiore e San Paolo. Di qui il confine sale alla serra
Ferrata e discende al rivo de Camerato. Non voglio dire che l’attuale toponimo
Ferrauto abbia a che fare con Ferrata; ma il confine attuale sfiora la coppa de Totra,
che ben può essere quella che una volta era definita serra: un’altura accidentata, un
piccolo massiccio che pendenze, vegetazione ed acque dovevano rendere disagevole. Di qui il confine scende ad un rivo che sembra non poter essere se non il canale
del Frassino, che congloba appunto le acque provenienti dalla contrada Cammerata.
Passato il canale, il confine segue il piede di un colle che sembra essere quello immediatamente ad E della contrada Mezzana delle Ferole. Di qui il confine raggiunge lo
Staina (I.G.M., F. 155, III SE) per cupam, passando cioè per una gola, un avvallamento, là dove un monticello (quote 77 e 74) sovrasta la riva (quota 48), dalle parti
e un po’ più in basso della chiesa di San Nicola de Viridamento, che dovremo porre
poco più a S, sull’altura tra le masserie Pesacane e Creta Bianca. Rare volte accade di
ritrovare, come in questo caso, tanta concordanza tra i dati documentari e i segni
attuali.
Occorre precisare che la chiesa di San Nicola de Viridamento nelle conferme di
Alessandro III (a. 1168) e di Onorio III (a. 1216) è indicata come pertinente a
Dragonara. Quest’angolo nord-occidentale del tenimento di Terra Maggiore sarebbe dunque confinante col territorio di Dragonara. Ma bisogna anche tener presente a) che la chiesa di San Nicola de Viridamento non è mai citata nel cartolario di
Sculgola; b) che la secca citazione di un colle Sancti Nicolai in Martin, n. 70 (p.
126), non autorizza l’identificazione; c) che una chiesa intitolata a San Nicola esisteva nell’abitato di Dragonara e che ad essa sembrano riferirsi le svariate citazioni
di terre “di San Nicola” in diverse contrade del territorio di Dragonara (Navaratorio,
Oguale, San Biagio, Querceto), che comunque non hanno a che fare con la zona di
cui qui ci occupiamo; d) che infine solo un rapido accenno in Martin, n. 11 (p. 22),
ad un fons Salzule contiguo a terre Sancti Nicolai consentirebbe un ipotetico riferimento a San Nicola de Viridamento, in base alla sussistenza del toponimo “Salsoletta”
a N della contrada Voiragni ed a NE del passo e ponte del Porco. Pertanto il problema del confine tra Terra Maggiore e Dragonara non si può ancora considerare
risolto.
Riepilogo qui brevemente le conclusioni:
1) Mentre il n. 21 del Leccisotti dà una confinazione generale del territorio, il n.
11, con cui si intende restituire terre usurpate nell’angolo nord-occidentale, contiene dati parziali ma più particolareggiati. Esiste dunque tra i due documenti una
differenza di scala.
2) Occorre correggere due errori del Leccisotti. Egli riteneva che il Viridamentum
114
Verso Sud
D. Grittani
fosse il Fortore; sappiamo invece che è lo Staina. Inoltre egli parla inesattamente di
un tratto “settentrionale” del territorio, descritto più genericamente dal n. 21 e più
particolareggiatamente dal n. 11. In realtà il n. 21 descrive nel primo tratto l’angolo
nordoccidentale e solo nel quarto tratto la parte confinaria esclusivamente settentrionale, mentre il n. 11 si occupa specificatamente dell’angolo nordoccidentale.
3) Entrambe le confinazioni nominano una via Lucerina. Si è pensato, dal Fuiano,
che si tratti di una via da Lucera a Lesina. Ma essa non può essere né quella che
saliva da Lucera per Motta del Lupo e Serpente, perché in tal caso avrebbe incluso
una parte del territorio di Vanzo o Bantia, di cui conosciamo la vicenda feudale
estranea a Terra Maggiore, né la Lucera-San Severo-Lesina, perché passa ad E di
Torre della Gramigna, che sappiamo essere appartenuta a San Giovanni in Piano
anteriormente ad uno scambio avvenuto nella seconda metà del XIV secolo. Tenendo conto anche della prospettiva in cui i documenti sono stati redatti, occorre
pensare ad una delle parecchie strade che da Civitate scendevano e scendono verso
Lucera, oltrepassando il Radicosa a N di Torremaggiore o a NO di San Severo.
4) Sui fogli 155, II SO e III SE dell’I.G.M è possibile riconoscere con insolita
chiarezza il tratto confinario descritto dal n. 11: partendo da E verso O, da uno dei
valloncelli da cui nasce il Radicosa all’attuale coppa de Totra, poi al canale del
Frassino che raccoglie le acque della contrada Cammerata, poi lungo il piede di un
colle (ad E della contrada Mezzana delle Ferole), poi allo Staina, passando per cupam
(un avvallamento in ombra nettamente riconoscibile nella fotografia aerea), là dove
un monticello (quote 77 e 74) sovrasta la riva (quota 48).
A questo punto desidero aggiungere alcune considerazioni, problematiche e
non conclusive, sul rapporto tra Terra Maggiore e l’insediamento di San Severo,
riferendomi ai termini della questione, quali sono stati riesaminati da Pasquale
Corsi, con la completezza che gli è solita, nel recente studio sopra citato.
Metterei il problema in questi termini: ammesso che lo sviluppo dell’insediamento nel corso del XII secolo resta indissolubilmente legato ad iniziative del monastero di Terra Maggiore, la nascita dell’insediamento è conseguenza di un’iniziativa istituzionale del monastero o, viceversa, l’iniziativa è essa stessa una conseguenza di insediamenti di altra origine, che il monastero ha orientato e guidato? Spiegare
il celebre documento del 1141 (in nostra… curia apud Sanctum Severum; actum in
Castello Sancti Severini) come l’espressione di una fase di indistinzione tra i due
toponimi mi sembra un’ipotesi non meno delle altre bisognosa di dimostrazione.
Lo stesso Corsi e il Fuiano hanno messo in giusta luce il documento tremitense del
1059 contenente la donazione di due chiese, di San Severino e di Santa Lucia, da
parte dei due Bocco, padre e figlio, abitanti di Civitate, mediante atto rogato a San
Giovanni in Piano. Nel mio breve studio sul casale Sancte Lucie apparso nel 1984,
A. Casiglio
I confini territoriali del “Monasterium Terrae Maioris”
115
ho mostrato come il magnum tenimentum sia da porsi per necessità nell’immediata
periferia orientale di San Severo, tra le porte di Foggia e di San Nicola. Il documento tremitense avrebbe così un duplice riferimento alla situazione insediativa
sanseverese. Aggiungo che solo da qualche anno si comincia da noi a dedicare
concreta attenzione al fenomeno delle chiese private, al così detto Eigenkirchenrecht,
di cui trovo per ora che si sono interessati il Martin e il Vitolo. E nell’XI secolo il
fenomeno doveva essere rilevante, così come stretto doveva essere il nesso tra vita
religiosa e vita economica là dove l’estensione di un tenimento richiedeva la presenza in loco della mano d’opera.
Un altro punto da tener presente è la velocità del mutamento sociale. Il ritmo
degli eventi non è costante e tra l’inizio dell’XI secolo e l’inizio del XII il passaggio
dai Bizantini al Ducato Normanno e poi al Regno comportò mutamenti accelerati,
così come nel corso del XII secolo la messa a cultura di terre in presenza di una
scarsa densità di popolazione fu un fenomeno inusuale e destinato ben presto ad
esaurirsi. La disputa fra i cleri di San Nicola e di Santa Maria per il possesso del
vicino tenimento di Santa Lucia sembrerebbe adattarsi meglio all’idea di mutamenti piuttosto rapidi nei rapporti di proprietà che non all’altra, della veloce crescita quantitativa di un casale inizialmente molto piccolo. E ancora: se il monastero di
San Pietro diede prova di capacità promozionale, la diede solo a San Severo e non
nella più vicina Torremaggiore, che ebbe una formazione assai più lenta e tortuosa.
Ed è strano che si sia preoccupato solo di questa sorta di fiore all’occhiello. Per
questo lo schema, da cui del resto anche Corsi è ben lontano, del Castrum nato e
cresciuto come una zucca mi riesce poco persuasivo.
Né l’incastellamento va inteso necessariamente come costruzione di un luogo
forte; può essere anche l’istituzione di un sistema di norme attive e passive in un
ambito spaziale definito, il che non mancherebbe nel caso di San Severo. Non
dunque un nucleo precocemente arricchitosi di sobborghi; bensì l’istituzione di un
luogo preferenziale che con la sua regolamentazione contribuisce a cementare un
insediamento più rado e casuale.
Se qualcosa di simile è accaduto a San Severo tra l’XI e il XII secolo, sarebbe
agevole spiegare la posizione relativamente debole del monastero ai tempi di Federico II, che disponeva certamente della forza, ma era in grado anche di utilizzare strumenti giuridici sofisticati là dove le circostanze lo consentissero. E perfino il tardivo
statuto aragonese basato sulle tre parrocchie di Santa Maria, San Nicola e San Giovanni potrebbe far pensare non solo, come fa il Corsi, ad una temporanea rarefazione
di anime, ma anche a perplessità nella posizione giuridica di quella che restava la
primitiva struttura organizzativa della baronia monastica, ormai ridotta in commenda.
Aggiungo che anche la pianta della parrocchia di San Severino – ferma restando
116
Verso Sud
D. Grittani
la scarsa leggibilità complessiva del centro storico per l’inserimento di ampie dimore signorili in epoca relativamente tarda e posteriore al terremoto del 1627 – presenta in via Lucchino (quale continuazione di via Imbriani) e in vico Granata segni
interpretabili come tracce di una primitiva recinzione che escludeva le altre tre
parrocchie. Risulta evidente in ogni caso che sul confine orientale il tenimento di
San Pietro era lontano dal coincidere non solo con l’attuale territorio comunale di
San Severo, ma anche col suo demanio, quale risultava nel 1577, all’atto del secondo definitivo infeudamento ai principi di Sangro, e con zone come quella di Santa
Lucia, su cui non pare che San Pietro potesse vantare un diretto dominio.
Posta sul confine del tenimento di San Pietro, la città sembra aver mantenuto a
lungo storicamente i segni di un’origine anomala.
[Estratto dagli Atti del 12° Convegno Nazionale sulla Preistoria, Protostoria, Storia della Daunia, ANTONIO
CASIGLIO, San Severo 14-16 dicembre 1990; Atti, Tomo I, Tipografia Dotoli, San Severo 1991]
117
San Severo
Andrea Pazienza
Andrea Pazienza (San Benedetto del Tronto 1956 - Bologna 1988). L’eclettico
e geniale disegnatore che ha rivoluzionato il fumetto italiano ha vissuto molti
anni della sua vita a San Severo, città a cui era legato da un conflittuale rapporto di amore e odio e dove, tutt’ora, riposano le sue spoglie.
Esiste una ferocia razziale inaudita nei confronti dei meridionali; il meridionale
è accettato solo in due casi: o quando è perfettamente integrato e risponde nel gesto
e nel comportamento a una serie di proposizioni non meridionali che non gli appartengono; oppure quando ha un enorme carisma e riesce a imporre con fatica e
con intelligenza e comunque in modo improbo (perché dovrebbe?) la propria
meridionalità, sia che si tratti di autori sia che si tratti di semplici macchine targate
con sigle meridionali.
La mia meridionalità è una meridionalità alla Mohammed Alí, in termini di
difesa da quello che è uno sfruttamento da una serie di cose che io condanno
enormemente.
San Severo è una città orrida da un punto di vista di situazione politico-gestionaleamministrativa. Il potere ha questa gamma: ci sono dei ricchissimi, c’è il Country
club, lo Sporting club, il Lions club, il Rotary club, c’è gente che gira con delle
macchine incredibili e si va a comprare le scarpe a Bologna, c’è tutto un mondo di
medici che si sono arricchiti restando nell’ombra senza aver mai scritto su una
rivista medica; che hanno partecipato solo a congressi tennistici, perché si giocavano tutte le loro carte a livello tribù di medici. Vedi il torneo nazionale medici
ospedalieri di Chiavari... Poi ci sono avvocati soprattutto notai che hanno guadagnato sulla povera gente, sul reddito della popolazione, tantissimi, poi c’è un sacco
di droga accompagnata alla noia più totale e c’è un centro autogestito per tossicomani... Poi c’è una campagna meravigliosa, della gente bellissima: la gente che
lavora nelle campagne. Io di San Severo ho dei ricordi che son fatti di sberleffi,
118
Verso Sud
D. Grittani
litigavo con dei monelli tremendi e mio fratello, che si chiama Michele detto
Macaluso, che si buttava come un tornado nella mischia, lui aveva dodici anni, io
quindici, e seminava il panico fra i miei assalitori. Poi ho passato un periodo tra i
sedici e i diciotto anni a rissare stupidamente, prendendole e dandole, specialmente
d’estate.
A San Severo, si era venuto a creare per caso un piccolo nucleo di artisti, ognuno
con una propria fede e una propria direzione. A questo proposito devo fare due
nomi: Marcello D’Angelo che si è saputo conquistare il nostro affetto e la nostra
amicizia con grande amore e poi Enrico Fraccacreta che da ragazzo aveva un umorismo dal quale tutti noi abbiamo attinto, non so, però, che fine abbia fatto la sua
creatività.
Erano estati bellissime, lunghissime, passate con la fila degli ombrellini, l’altalena sul mare, piogge di romani e milanesi in fila con i juke-box.
[Tratto da Paz, ANDREA PAZIENZA, scritti, disegni, fumetti a cura di Vincenzo Mollica, Einaudi Stile
Libero, Torino 1997]
PARTE V
Lucera
121
Lucera, colonia saracena degli Hohenstaufen
Ferdinand Gregorovius
Ferdinand Gregorovius (1821 - 1891). Storico tedesco, viaggiatore coltissimo,
dotato di un invidiabile senso estetico, Gregorovius ha scritto sulla Capitanata
pagine dalla cui fedeltà storica e pertinenza non si può prescindere. Le sue
descrizioni rappresentano tutt’oggi un punto fermo per chiunque intende avventurarsi in una qualsiasi ricerca letteraria che riguardi la Daunia. Il testo
qui riportato fa parte di un ampio saggio intitolato Nelle Puglie (Edizioni
Barbera, 1882).
Da un pezzo io nutrivo il desiderio di visitare nelle Puglie Lucera, Manfredonia
e il Gargano, il Promontorio sull’Adriatico, il vero Hagion Oros dell’Occidente, il
monte celebre pel suo pellegrinaggio. Solo nella primavera del 1874 potei appagare
il desiderio mio.
Miei compagni, nelle escursioni attraverso il bel paese della Puglia, furono mio
fratello e Raffaele Mariano, col quale, venendo egli da Roma, ci eravamo data la
posta a Caserta, ed ivi infatti c’incontrammo.
A parecchi Tedeschi il nome di questo giovane di molto ingegno non dev’essere
sconosciuto. Egli è uno de’ più caldi ammiratori della Germania e della sua cultura;
e, come tale, ha fatto spesso sentire la voce sua. I migliori articoli nel Diritto, nel
ragguardevole giornale che a viso aperto confessa le simpatie germaniche e sostiene
l’alleanza dell’Italia con l’Alemagna, si devono alla penna di lui, o a quella del suo
sagace amico Maraini, proprietario del giornale. Mariano è discepolo del Vera, il
capo e fondatore della scuola egheliana a Napoli. Egli ha dato fuori una serie di
scritti e di saggi, qualcuno anche in francese, fra i quali mi piace menzionare soprattutto un esame critico della filosofia italiana contemporanea, da lui dedicato al mio
venerato maestro Carlo Rosen Franz. Il Vera stesso, che io sappia, non è stato per
anco in Germania riconosciuto in modo condegno ai suoi meriti. Eppure la scuola
di egheliani, fondata da lui, è già uno de’ fattori della cultura odierna dell’Italia.
122
Verso Sud
D. Grittani
Tutto quanto in opposizione al pensiero teologico-scolastico fosse atto a risollevare
le energie della coscienza, l’attività libera e interiore dello spirito; tutto quanto potesse spianare, aprire la via alle idee riformatrici germaniche e redimere, rigenerare
moralmente il paese, immerso in un pieno indifferentismo religioso; tutto ciò ha in
gran parte i suoi seguaci, i suoi propugnatori nella scuola del Vera. Appunto nel
mio viaggio ebbi ad imbattermi in discepoli di lui che ne parlavano con entusiasmo. Il che vuol dire che sulle coste dell’Adriatico, a Barletta e a Trani, m’incontrai
in pari tempo negli amici più appassionati della Germania.
Il 15 maggio muovemmo per Foggia, passando per Benevento: magnifico viaggio, attraverso i bacini del Volturno e del Calore. Ad ogni passo le storiche figure
degli Hohenstaufen, nel momento supremo e drammatico del loro scomparire
dalla scena del mondo, si presentavano vive alla fantasia. Qui, a Telese specialmente, Carlo d’Angiò alla testa del suo esercito in marcia; più in là il campo di battaglia
presso Benevento.
Nell’avvicinarci a Foggia, dopo esserci lasciate alle spalle le regioni montuose,
vedevamo dispiegarcisi via via dinanzi il Tavoliere di Puglia, il grande agone da
tempo immemorabile de’ pastori e delle greggi d’Italia. Esso si stende sino all’Adriatico; il mare però non è per anco visibile, lontano com’è da Foggia parecchie miglia
e nascosto da una elevazione del suolo.
Per ore intere l’occhio è intento a riguardare una lunga distesa di montagne di
un bel celeste azzurro, che qual gigantesca muraglia rocciosa si protende in direzione di ovest ad est. È il Gargano, dove noi presto rivolgeremo i passi, come ad una
delle mete delle nostre peregrinazioni.
Ad occidente la pianura pugliese è cinta da poggi e colline, disposte in forma di
emiciclo, estremi contrafforti che manda giù l’alta giogaia dell’Appennino. Essi
separano i bacini del Candelaro e del Cervaro da quello del Fortore, che scorre a
settentrione. Qui e là sulle alture spiccano castelli e città parecchie. Due soprattutto
ne osservammo di lontano con la più viva curiosità: Troia e Lucera, l’una monumento della dominazione bizantina nelle Puglie, l’altra la famosa colonia saracena
degli Hohenstaufen.
Foggia è posta nel mezzo appunto del Tavoliere, su di un terreno affatto piano.
È il capoluogo della Capitanata, e sino nel medio evo una delle più ragguardevoli
città della Puglia. L’importanza sua la deve all’imperatore Federico II. In questa
regione Foggia era la residenza da lui preferita. Non le bellezze naturali, ma la positura
geografica gliela rendevano assai rilevante. Evidentemente, i pressi di Foggia potrebbero senza grande sforzo essere ridotti nel più bel giardino che sia mai stato. Ed
è vero pure che tutto all’intorno le si dispiega un ampio e splendido orizzonte. Se
non che, la città giace sulla pianura del Tavoliere, ove quasi non vedi albero né filo
F. Gregorovius
Lucera, colonia saracena degli Hohenstaufen
123
d’acqua; onde gli ardori del sole estivo vi devono, dal maggio all’ottobre, essere
addirittura insopportabili. Bastano pochi passi, e tu ti trovi qui in un vero deserto,
coperto di pascoli e popolato d’armenti. E bisogna correre ore ed ore, prima di
arrivare al golfo di Siponto o Manfredonia, o di aver raggiunto le ubertose campagne di Cerignola, di Canosa e di Barletta. Nulladimeno, già al tempo degli
Hohenstaufen, Foggia era un punto centrale, ove venivano ad intrecciarsi le grandi
strade, che menano ad Ancona, Napoli e Roma da un lato, e dall’altro a Bari e a
Brindisi. Ed oggi essa è rimasta ancora tale, il centro, cioè, di parecchie strade ferrate. Similmente, questa sua giacitura fa della città un emporio pel commercio e per
gli scambi dell’Italia Meridionale; epperò essa fiorisce e vien su con rapido moto, ed
è destinata ad un avvenire di più in più considerevole.
Appunto ne’ giorni in che noi vi fummo, la città era in gran movimento. Doveva aver luogo una esposizione industriale ed agraria, ed era stato all’uopo costrutto
un enorme baraccone. L’inaugurazione doveva essere onorata della presenza del
principe ereditario, Umberto. Sembra che di Foggia si voglia fare un centro agricolo
per le province meridionali. I prodotti naturali convergono qui, sul mercato, in
grande copia da tutta la provincia; ed il ceto de’ mercatanti vi abbonda. Oggidì
Foggia conta già 30.000 abitanti. È una grande città, bene edificata, con strade e
piazze dall’apparenza tutta moderna, e sempre animate da gran calca di gente.
Meno alcune chiese, fra le quali primeggia il Duomo, Santa Maria, notevote
edifizio del XIII secolo, tutto il medio evo vi è scomparso.
Del grande palazzo, residenza di Federico II, non rimane che un meschino
avanzo, incastrato nella facciata di una casa privata: un arco in stile romano. Nel
punto di congiunzione de’ pilastri si veggono due aquile imperiali in pietra. L’iscrizione, ben conservata su di una tavola di marmo, ricorda che Federico II fece edificare il palazzo nell’anno 1223: Hoc Fieri Jussit Fredericus Cesar Ut Urbs Sit Fogia
Regalis Sedes Inclita Imperialis. L’architetto si chiamava Bartolomeo, come è detto in
un’altra epigra: Sic CesarFieri Jussit Opas Istum Proto Bartholomeus Sic Construxit
Illud. Una terza iscrizione suona così: A. Ab Incarnatione MCCXXIII. M. Junii XI.
Ind. R. Dno. N. Frederico Imperatore R. Sep. Aug. A. III. Et Rege Sicilie A. XXVI. Hoc
Opas Feliciter Inceptum Est Prephato Dno. Precipiente.
Innanzi a quest’ultimo avanzo del palazzo imperiale, ove, tutto assorto nella sua
idea di dominare sull’occidente e sull’oriente, consigliandosi col suo fido cancelliere
Pier delle Vigne, e divisando i piani e i mezzi di condurre innanzi la sua lotta
strepitosa con i Guelfi d’Italia e col Papato romano, il più geniale degli Hohenstaufen
fece sì sovente dimora, nessun Tedesco può fermarsi senza sentirsi addentro commosso. In codesto palazzo morì, nel 1241, la moglie dell’Imperatore, Isabella d’Inghilterra. Essa fu sepolta non a Foggia, ma nella cripta del duomo di Andria, ove era
124
Verso Sud
D. Grittani
pure già stata deposta la prima moglie di Federico, Jolanta di Gerusalemme.
Per quanto glielo consentivano le circostanze, specie le guerre insistenti che senza posa lo costringevano a correre innanzi e indietro dalle Alpi alla Sicilia, e a dover
sempre lasciar daccapo il suo prediletto paradiso delle Puglie, il grande Imperatore
abitò volentieri nel palazzo di Foggia. Il suo primo rescritto, emanato da questa
città, è del febbraio 1221. Più tardi, nel 1225, quando il castello era stato terminato
tutto, vi passò i mesi di maggio e giugno. Dal 1228 in poi, vi sono solo pochi anni
ne’ quali l’avervi egli dimorato non appaia con certezza da documenti. Da Foggia
egli poteva agevolmente visitare le altre sue residenze e i suoi castelli di caccia e di
delizie nelle Puglie, in Andria, per esempio, e il magnifico Castel del Monte, ovvero, dall’altro lato di Foggia, Castel Fiorentino e Lucera.
Oltre lo svago della caccia, furono, senza dubbio, queste condizioni di luogo
eccezionalmente favorevoli che indussero anche i successori di Federico a fare, come
lui, di Foggia una lor residenza. Manfredi, il quale tolse la città al Papa, e poi più
tardi il vincitore suo Carlo d’Angiò soggiornarono spesso a Foggia. Carlo I si fece
edificare ne’ pressi, in pantano, un castello di caccia. Nella Cattedrale di Foggia
vennero celebrate le nozze tra la figlia di lui, Beatrice, e Filippo, figlio dell’imperatore di Costantinopoli Balduino. Ed egli stesso, Carlo, morì in Foggia appunto.
Noi prendemmo a nolo una carrozza, la quale doveva portarci prima a Lucera,
e poi, passando di nuovo per Foggia sul golfo di Manfredonia.
Lucera è alla distanza di due ore da Foggia. Vi si va per un’ottima strada che
corre diritta, quasi freccia, dall’una all’altra città e sempre attraverso la estesa pianura, sino al punto in che questa, leggermente elevandosi, va formando una cinta di
poggi. Via facendo, passammo innanzi a ville e fattorie, ma rare e sparse in mezzo
ad un paesaggio languido e morto, la cui ampia distesa però è in lontananza circoscritta da superbe montagne, mentre a manca sulle verdeggianti alture si mostra la
bizantina Troia. Incontrammo un drappello di carabinieri che servivano di scorta
ad un trasporto di malfattori, i quali dalla Corte d’Assise di Lucera avevano già
sentito pronunziarsi la condanna. Oltre di questo, nulla: la strada era totalmente
deserta: dopo un’ora di cammino comincia lievemente a salire.
Lucera stessa è posta su di una eminenza. Simile a promontorio, questa s’inalza
sul piano, per poi ricadervi in alcuni punti ripidamente. La catena di colli, che
chiude qui e domina il Tavoliere di Puglia, esigeva per le sue condizioni naturali che
vi si mettesse una città fortificata. Nacque così in antico la sannitica Lucera Apulorum.
Caduto l’Impero Romano, il paese fu in principio goto; poscia divenne un vero
pomo della discordia tra Bizantini e Longobardi. Ai Duchi longobardi di Benevento
lo tolsero i Normanni. Finalmente Federico II fece della città il più forte baluardo
del suo regno.
F. Gregorovius
Lucera, colonia saracena degli Hohenstaufen
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Essa ora ci si presenta dinanzi come una città di qualche considerazione, abitata
da 15.000 anime all’incirca, assisa sulla collina verde di pampani e di piante fruttifere,
con avanzi qua e là delle antiche mura, con alcune torri del tempo feudale, con una
piccola cupola da’ colori variopinti e luccicanti, i quali a noi, che sapevamo i Saraceni
di Sicilia aver quivi abitato non meno di ottanta anni, ci dettero l’impressione di un
non so che di arabo. Avremmo dovuto entrare per la porta di Foggia e battere la
strada principale della città; ma la si lastricava appunto a nuovo; dovemmo quindi
fare il giro delle mura, ed entrammo per la porta di Troia.
Qui parve quasi ci muovesse incontro quella serena quiete, tutta propria in Italia
alle città storiche di provincia, il cui fascino meraviglioso e attraente non ha l’uguale
nel mondo. L’aria calda e soleggiata è pregna e mossa tutta dall’alito del passato.
Tempi e culture, scomparse da secoli, mandano da’ loro monumenti una elettrica
potenza: è il magnetismo della storia. Qui nulla di nebbioso, nulla di romantico,
come nel settentrione. Ogni avvenimento si disegna innanzi alla fantasia netto,
limpido, tranquillo, come le linee cilestri e il porporino delle montagne laggiù, nel
lontano orizzonte.
Lucera, formata di strade e piazze d’ordinario anguste e piccole, è costruita come
la più parte delle città italiane medievali; ed anche, come queste, quasi tutta imbiancata. L’Italiano del Mezzogiorno è diverso in ciò dal Latino. Egli non ama
vedere le case dello scuro color naturale della pietra. Le imbianca invece, e non bada
né molto né poco alla riflessione solare che abbaglia. Così intanto, sotto l’imbiancatura, antichi edifizii perdono ogni carattere: gli è come se si coprisse con tela mobili
eleganti. Questa deplorevole manía di dar di bianco a palazzi per vetustà rispettabili
s’è oramai fatta generale in Italia: sciocca esagerazione della tendenza, che di presente domina, a voler tutto rimettere a nuovo. In Bari, per esempio, l’antico e pittoresco palazzo del Gran Giudice Roberto, della famiglia un tempo potente de’ Chyurlia,
di colui che fu il carnefice giuridico di Corradino, lo trovai tutto pulito di calce e,
come può immaginarsi, spogliato totalmente di ogni effetto architettonico. Sciaguratamente, codesta febbre dell’imbiancare si è dall’anno 1871 inoculata anche in
Roma, dove già ad alcuni vecchi palazzi è stata tolta via la loro vernice storica. Non
manca che di vedere affidato all’imbianchino il Colosseo e Castel Sant’Angelo:
allora la vecchia Roma vorrà parer bella davvero e nuova di pianta!
Del resto, quanto a Lucera, non si creda che essa faccia impressione peculiarmente insolita o antica. Pur troppo, anche in essa lo stile e il gusto moderni la fanno
da un pezzo da padroni. Le chiese però e i chiostri e le maravigliose rovine del
castello stanno lì, con la loro impronta di originalità, a rendere ancora testimonianza de’ tempi andati.
La famosa fortezza de’ Saraceni trovasi a un quarto d’ora dalla città. A guardarne
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Verso Sud
D. Grittani
le alte e lunghe mura di uno scuro cupo, e le torri che ancora in parte si tengono in
piedi, l’impressione che se ne riceve è grandiosa. S’aggiunga, che il castello s’erge in
mezzo ad una maestosa solitudine, sulla cima di un’altura brulla, i cui fianchi,
coperti di erba o nudi e incrostati di pietra gialla, scendono giù in linee lunghe,
ovvero scoscesi e ripidi. Allorché le venti torri, ond’era munito, e tutta la cinta della
sue mura erano intatte, dev’essere stato una fortezza di prim’ordine. Ed era infatti la
chiave delle Puglie e, così al tempo di Federico II, come a quello di Manfredi e di
Corradino, il vero punto d’appoggio della dominazione degli Hohenstaufen nell’Italia Meridionale.
Vediamone la costruzione. Una muraglia in mattoni e pietra cinge intorno e
chiude la superficie della collina. Addossate alla muraglia si elevano quindici torri
ad angoli retti, equidistanti l’una dall’altra. Questa era la cittadella, il quartiere arabo fortificato. Dal lato poi verso la città, si congiungeva ad essa, occupandone un
angolo, la parte veramente essenziale della fortezza, il castello o palazzo dell’Imperatore, da lui abitato allorché era a Lucera. Quivi aveva pure sua dimora il castellano
saraceno.
Questo palazzo imperiale formava un quadrato perfetto. Stava di faccia alla
città. Un fosso con ponte levatoio ne proteggeva l’ingresso. Era pure munito di
parecchie torri, delle quali due rotonde; e di queste una, un vero colosso, è pressoché perfettamente conservata. La porta guardava la città, mentre dagli altri lati la
collina forma un dirupo inaccessibile.
Oggidì il superbo edifizio mostra solo le sue grosse mura di cinta. Delle camere
nel palazzo dell’Imperatore sono appena riconoscibili le vestigia di una delle grandi
sale. Qui e là si veggono avanzi di scale e di stanze rovinate. All’interno, del resto,
tutto è vuoto e deserto: il grande edifizio è ridotto oramai a ricovero di capre e di
pecore.
La fortezza fu edificata da Federico II nel 1233, dappoiché ebbe represso il
disperato sollevamento de’ Saraceni in Sicilia. Dove fosse anch’egli stato un fanatico
come Ferdinando il Cattolico o Filippo di Spagna, avrebbe rimandato i Maomettani
in Africa, ovvero, a maggior gloria di Dio, li avrebbe tutti fino ad uno fatti sgozzare.
Invece egli trapiantò i prodi, operosi ed abili figliuoli dell’Oriente sul continente, in
Puglia.
Il loro trasmigrare ebbe luogo a più riprese. L’imperatore assegnò ai Saraceni per
dimora alcune città, come Lucera, Girofalco, Acerenza. Un desiderio intenso per
l’amato luogo natío, donde erano stati con la forza strappati, li spingeva a fuggire di
nascosto in Sicilia. Allora Federico, per ovviare a codeste fughe, pensò unire insieme tutti i Maomettani in un luogo solo, a Lucera. Ciò accadde nell’anno 1239.
Ancora nel 1245 vennero colà trasportati dalla Sicilia gli ultimi Saraceni. Così nac-
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que la colonia Lucera Saracenorum. Solo per errore il nome di Lucera fu scambiato
con l’altro di Nucera, nel quale ultimo luogo non furono mai Saraceni.
Questi stranieri in Puglia si trovarono su di una terra che uomini della stessa
razza loro avevano calpestata e in parte anche dominata già, secoli innanzi, allorché
a Bari sedeva un Sultano arabo, e tutto il paese del Gargano era in possesso di
Saraceni. Essi presero adunque a Lucera dimora fissa e stabile, in sul principio di
mala voglia e pieni di odio verso l’Imperatore, che non sapevano considerare altrimenti che qual tiranno e quale usurpatore del legittimo possesso degli antenati
loro, della bella Sicilia; poscia, da veri orientali, rassegnandosi al fato; in fine con
sincero amore e fedeltà pel loro Sultano, il grande Imperatore, l’accanito avversario
del Papa, l’amico spregiudicato e illuminato dell’Oriente e de’ suoi colti dominatori.
Così Lucera divenne la tomba degli Arabi di Sicilia, la cui storia toccò quivi al
termine suo.
Nel tempo in che i Saraceni vi furono trasferiti, la vecchia città giaceva nel più
profondo scadimento, tuttoché un vescovo vi tenesse ancora presso la cattedrale la
sua residenza. Il numero degli abitanti cristiani non poteva esservi che assai scarso,
e quindi impotente rispetto ai pagani nuovi venuti. Nulladimeno, Federico separò
da prima le due comunità, diverse per razza e per fede. Accanto alla vecchia, gettò le
fondamenta della nuova Lucera, ch’è appunto il quartiere fortificato, alla cui
edifıcazione gli avanzi dell’antichità, allora esistenti ancora in gran copia, fornirono
i materiali.
Michele Amari, lo storico de’ Saraceni di Sicilia, è dell’opinione che gl’ingegneri, che costruirono la fortezza, fossero, senza dubbio, arabi. Di ciò per altro mancano le prove; ed è d’altronde poco verosimile, avendo Federico II a sua disposizione
numerosi architetti indigeni.
Nel recinto della cittadella noi possiamo raffigurarci la piazza d’arme e le caserme de’ guerrieri saraceni, gli arsenali e le fabbriche di ogni natura ed anche le moschee. Più tardi si saranno via via andate estendendo anche di fuori, quasi sobborghi, le abitazioni del popolo arabo. La colonia, amministrata e retta dal Kadì di
Lucera, era numerosa, ancoraché il numero di 60.000 anime, che notizie del tempo
registrano, sia da tenere per esagerato. Protetta dall’Imperatore, essa salì tanto in
fiore che divenne un centro di attività industriale di qualche considerazione. Gli
Arabi avevano infatti portato seco dalla patria, dalla Sicilia, gli elementi e le nozioni
di ricche industrie; e così si videro sorgere a Lucera fabbriche di armi e telai ed
officine di eccellenti lavori in legno.
L’Imperatore vi pose una cultura di razze arabe, e vi faceva pure allevare cammelli. Egli vi teneva altresì serragli di bestie feroci, importate dall’Africa; e i leopardi
specialmente venivano addestrati alla caccia. Senza dubbio, il palazzo di Federico
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Verso Sud
D. Grittani
era messo con lusso orientale; affinché le forme della corte imperiale nelle Puglie
continuassero ad essere saracene, come lo erano state quelle de’ re normanni a
Palermo. Oggi ancora si pretende mostrare ove fosse a Lucera il posto dell’Harem
imperiale, assai ben provvisto e custodito da enunuchi. Egli cercava abbellire la sua
colonia in ogni possibile modo. Pare non la dimenticasse neppure nelle sue lontane
imprese guerresche. Allorché nel 1243 assediava Roma da’ monti Albani, portò via
due figure antiche di bronzo per collocarle a Lucera. Ed anche da Napoli vi fece
trasportare statue.
Spesso l’Imperatore sarà venuto da Foggia a Lucera per osservare i progressi
della colonia ed intrattenersi nello splendido castello, ov’egli teneva anche in serbo
il suo tesoro. Da’ suoi Regesti, pubblicati da Huillard-Brébolles, appare, veramente,
ch’egli passasse a Lucera solo l’aprile del 1231, l’aprile del 1240 e il novembre del
1246; ma tanto più numerose sono le date della residenza da lui fatta nella vicina
Foggia.
Come può immaginarsi, la fondazione di una colonia saracena nel bel mezzo
della Puglia era pel Papa una spina negli occhi. Ne’ secoli andati, solo a costo di
grandissimi sforzi, la Chiesa di Roma e gl’imperatori di Germania avevan potuto
riuscire a mettere un termine alle incursioni degli Arabi in Italia e a distruggere i
loro fortilizi nella Campania. Ed ora era appunto l’Imperatore medesimo che
insediava codesti infedeli nel cuore d’Italia per servirsene contro la Chiesa ovvero il
Papa. E di qui, dal fatto di Lucera, i suoi avversarii accaniti pigliavano soprattutto
motivo per scaraventare addosso al grande Imperatore tutte le colpe, tutte le accuse,
trattandolo da empio pagano e nemico di Cristo. Il Papa levò presso il mondo
intero i suoi clamori contro Federico, come colui, che con animo deliberato abbatteva la religione cristiana e trapiantava il paganesimo in un’antica città vescovile
d’Italia. Sembra infatti che gli Arabi si permettessero parecchi atti di violenza contro la popolazione cristiana di Lucera e delle campagne circostanti. Essi giunsero
insino, almeno così venne riferito a Roma, a devastare la cattedrale del luogo; anzi
dovettero finire addirittura per impadronirsi di tutta Lucera, tanto che la comunità
de’ cristiani vi venne quasi interamente meno.
Giammai monarca non ebbe sudditi più grati né più fedeli. Per Federico II i
Saraceni di Lucera erano i suoi pretoriani, i suoi zuavi, i suoi turcos. La loro cavalleria leggiera, che combatteva con lance e dardi avvelenati, era il solo nucleo permanente dell’esercito imperiale. La loro grande caserma era l’arsenale sempre ben fornito e sempre parato alla lotta dell’impero contro il Papato. In molte spedizioni
bellicose questi Maomettani misero a sacco e fuoco vescovadi e monasteri cristiani,
e contro di essi non servivano scomuniche né anatemi papali.
Con grande insistenza la Chiesa esigeva la conversione al Cristianesimo del ter-
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ribile popolo pagano. E Federico lasciava libero l’adito a Lucera a missionari francescani; benché poi con ironico sorriso sulle labbra facesse convenire insieme alla sua
mensa vescovi e Saraceni di distinzione e di merito. A costringere intanto i suoi
fedeli soldati a mutar fede e religione non pensava punto, ché la conversione ne
avrebbe spuntato le armi nella lotta contro il Papa. Federico sentiva piuttosto ammirazione per la religione de’ suoi Arabi, le cui forme di culto forse trovava meno
superstiziose di quelle della Chiesa romana; e, ad ogni modo, era sicuramente una
religione meno ostile all’autorità dello Stato.
«O Asia felice, o felici monarchi dell’Oriente, cui l’invenzione del Papato non
procaccia affanni,» così scriveva egli una volta al genero suo Vatazes.
E, più tardi, anche il re Filippo di Francia esclamava: «O felice Saladino, che
non ha nulla da soffrire per opera de’ Papi».
Da quei tempi ci separano lunghi secoli. Nulladimeno ancora al giorno d’oggi
esclamazioni di tal genere potrebbero essere sentite, specialmente dalla bocca dell’Imperatore di Germania.
La vista della fortezza saracena riconduce la mente a tempi di vera grandezza.
Chi sappia per poco toccarne le mura con la bacchetta magica della fantasia, le vede
a un tratto popolarsi di figure storiche della più notevole delle epoche nella vita
dell’Europa. Arrampicandoci su e giù, sotto le raffiche di un vento impetuoso che
ad ogni istante minacciava precipitarci dall’alto de’ merli, noi tre compagni di viaggio eravamo lì, quasi rappresentanti della nuova Germania e della nuova Italia. Con
intimo compiacimento andavo ripensando che l’amico italiano era figliuolo di quella
Capua stessa, ove il geniale Pier delle Vigne ebbe i suoi natali; e che mio fratello
aveva combattuto la grande guerra germanica contro la Francia; la guerra che ha
dato nel mondo il colpo di grazia al guelfismo e distrutto per sempre il potere
temporale de’ Papi.
Con noi intanto s’era per caso unito un giovane prete di Lucera, che ci faceva da
guida. Guardandolo, egli mi appariva, malgrado delle sue maniere gentili e premurose, come il rappresentante del campo de’ furiosi avversari di Federico II, e come
l’ombra tenebrosa, che s’accompagna con la libertà dello spirito e per lungo tempo
non se ne lascerà staccare.
Dal castello di Lucera la fantasia mi spinse repente di là da’ monti splendidi
della luce e del sole di Puglia. Nella remota Germania, nella Svevia leggendaria, il
paese degli Hohenstaufen, io rividi le rovine di un altro castello. Con stupore misurai le lunghe vie della storia, per le quali la stirpe eroica di Federico di Buren dal suo
svevo castello avito erasi condotta sin qui, sin nelle terre pugliesi; e con stupore mi
tornavano pure in mente gl’intimi legami, che congiungevano Hohenstaufen con
Lucera e la sua fortezza.
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Verso Sud
D. Grittani
Solo poche ore di cammino separano Hohenstaufen da Hohenzollern. All’Impero germanico occorsero però non meno di sei secoli interi di storia per percorrere
il breve tratto. Il termine suo non lo ha toccato che il 1870. L’Impero tedesco si è
ricostituito sotto la dinastia degli Hohenzollern, la quale ha ripreso in sua mano e
continua la missione degli Hohenstaufen.
La identica lotta, già combattuta con Roma dagl’Imperatori svevi, si è presto
riaccesa con uguale ardore. E la Germania, sorta appena alla nuova esistenza d’impero nazionale, appare scissa e divisa di nuovo in partiti di guelfi e ghibellini, in
seguaci dell’Impero e della Chiesa. Il fenomeno sembra sorprendente: pure può
recare maraviglia solo a chi ignori il processo della storia e il concatenamento de’
suoi eventi. Codesto deplorevole risorgere dell’antica contesa incaglia, senza dubbio, il tranquillo ordinamento dell’Impero, cui nemici palesi o nascosti attorniano
ed insidiano; ma è storica necessità. Forse l’esistenza nazionale della Germania è
destinata a non potere per lungo tempo ancora trovare assetto sicuro e pacifico,
quale toccò in sorte all’Inghilterra, compiuta che ebbe la sua rivoluzione. Il principio della Riforma costringe la nazione germanica a portare nel seno suo quegli
elementi contrari ed opposti, sui quali riposa lo svolgimento della vita interiore
dell’Europa. Codesto principio ha posto in Germania la sua sede e il suo centro.
Ciò se non fu conseguenza al tutto diretta delle proprietà specifiche spirituali della
nazione germanica, lo fu, certamente, del fatto di essere stato ad essa per secoli, a
partire da Carlo Magno e dagli Ottoni, commesso il potere imperiale. Dato il fatto,
era inevitabile pel popolo tedesco l’impigliarsi in una lotta incessante col potere
papale e col Cristianesimo della Chiesa romana.
Il moto degli spiriti in Europa sembra come descrivere un circolo perenne, ove
tutto ritorna e si ripete lo stesso. Chiesa ed Impero, Papa ed Imperatore vi tengono
sempre l’attitudine medesima, come già al tempo di Federico II e di Gregorio IX.
In realtà, antichi pensieri organici giacciono nel fondo della cultura nostra, intorno
ai quali questa s’aggira tuttora, comunque la costituzione politica ed ecclesiastica
del mondo sia in molti rispetti mutata. L’Imperatore germanico, che oggi seguita a
combattere il principio gerarchico del successore di Gregorio IX e d’Innocenzo IV,
non è più lì, solo, non compreso dal tempo suo, come il geniale Federico II. E,
d’altra parte, il pertinace nemico, che gli sta di contro, non dispone più de’ mezzi
smisurati, de’ molti alleati, come al tempo in che la Chiesa, per opera di Gregorio
VII e d’Innocenzo III, s’era levata nel mondo al grado di unica potenza ideale, di
universale organismo spirituale; e la teologia, nel campo della scienza, esercitava
dominio illimitato; e i nuovi Ordini de’ Francescani e Domenicani avevano destato
nella cristianità tutta quanta un ardore, una febbre di fede religiosa; e le Crociate
valevano ancora come le più nobili, le più eccelse imprese politiche di principi e
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Lucera, colonia saracena degli Hohenstaufen
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popoli. Alla Chiesa di Roma, a codesta magica potenza che teneva sotto di sé il
mondo intero, che disponeva di sì gran copia di elementi, e trovava di più nello
spirito democratico e nazionale degl’Italiani il suo alleato, il grande Hohenstaufen,
non sostenuto che dal suo proprio genio, non appoggiato tampoco dalla Germania, la quale era pure la sua base naturale, doveva solo opporre resistenza. E facile
immaginare quanto dura, quanto spaventevole dovett’essere per lui la lotta con
Roma, se oggi ancora le difficoltà, fra le quali per la contesa ecclesiastica il suo
potente successore, il capo dell’Impero tedesco, si è cacciato, appaiono pur sempre
immense!
In vero, a petto della potenza ond’era in possesso all’epoca degli Hohenstanfen,
e che investiva tutte le forme della vita, la Chiesa romana odierna è ridotta ad un
meccanismo privo d’anima e di spirito. La Riforma religiosa germanica, cui il principio ghibellino di Federico II fu una delle presupposizioni, le rapì assai più che non
fosse il dominio di molte terre e popoli. Essa l’ha interiormente impoverita ed
esinanita. Tutto ciò che un tempo formava la grandezza sua, la scienza e le idee
umane e civilizzatrici, sono diventate patrimonio del mondo della Riforma. E tutto
ciò che da tre secoli a questa parte ha forza di muovere e spingere innanzi le società
europee, è il risultato della efficacia del principio della Riforma.
Il Papato romano, nel quale oramai la Chiesa cattolica s’è raccolta e concentrata
tutta, ha cessato di essere una potenza mondiale, un regolatore della civiltà. Nessun
pensiero pieno di senso profetico e di avvenire; nessuno che sia in grado di entusiasmare l’umanità e trascinarla può mai più sprigionarsi dal chiuso e cupo recinto del
Vaticano. La fede ha perduto la sua forza. La scienza e la critica vanno ogni giorno
più decomponendo il Cristianesimo storico e dommatico. Qual valore, quale importanza ha oggi la teologia a confronto del tempo di Tommaso d’Aquino? Gli
ordini monastici, per cui mezzo soprattutto il Papato potette una volta esercitare il
suo potere universale sui popoli dell’Europa, sono spariti. L’ultimo per ragion di
tempo, l’ordine de’ Gesuiti sbandito ed esiliato, va in parte errando pel mondo.
Quando si pongono a raffronto le idee contenute nella dottrina gesuitica con le
regole di quella de’ Francescani, appare evidente che intima sostanza delle prime
non è più la religione del Cristo, ma la politica della Curia romana. È, in una
parola, il programma dell’assolutismo papale. Ora il principio dell’infallibilità del
Papa o, ch’è lo stesso, dell’annientamento della ragione nella Chiesa e dell’assoggettamento del pensiero in generale, può essere forse concepito quale idea destinata a
suscitare l’entusiasmo dell’umanità? Può l’umanità riporre fede in un domma, che
a scopo supremo dello svolgimento suo le mette dinanzi l’al di là, l’avvenire
estramondano? Domande siffatte non si può ascoltarle: non vi si può rispondere
che con un sorriso.
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Verso Sud
D. Grittani
Nulladimeno, questo Papato gesuitico-romano, grazie alla tradizione, al suo
meraviglioso sistema di accentrata unità, al gran numero di coloro che fidamente e
ciecamente gli aderiscono è ancora, assai potente. Ed è vero; esso dispone ancora di
una forza politico-sociale. Esso costituisce sempre un centro tradizionale di unità
per l’immensa moltitudine che professa una intuizione dommatica circa l’ordinamento e il governo del mondo e della vita. Onde gli si schierano intorno tutti i
partigiani del Cristianesimo concepito nelle sue forme viete e scadenti, tutti gli
elementi che aspirano alla conservazione e al legittimismo, e in generale tutti quei
che cercano l’ideale loro nella fede autoritaria del passato. Di riscontro a codesto
partito sta l’altro, il quale muove dal principio della determinazione autonoma ed
intrinseca di ogni singolo individuo, cui è comunanza politica lo Stato moderno, il
quale si svolge libero ed estraneo alle differenze confessionali.
Nel luogo de’ guelfi e ghibellini di un tempo si sono oggi sostituiti la Chiesa e lo
Stato, ovvero, rispetto alla Germania, la Chiesa dell’assolutismo romano e papale, e
l’Impero moderno e irrazionale.
Malgrado di Roma e de’ Gesuiti, l’Impero tedesco s’è oramai costituito sotto la
dinastia protestante degli Hohenzollern. Sulla base solida della Germania unificata
ed elevata ad esistenza nazionale il nuovo Imperatore può tenersi più saldo, più
possente che non i più grandi degli Hohenstaufen e lo stesso Carlo V. Ciò è appunto perché il domma della dominazione universale di Roma nell’ambito dell’Impero
germanico è venuto meno per sempre. Esso però continua, pur troppo, a vivere nel
Papato; ed il combatterlo, sino a che non sia caduto morto anche in questo suo
campo proprio, è in parte il contenuto e lo scopo della lotta del tempo presente, la
lotta del mondo moderno col passato. Scopo siffatto s’erano a tempo loro prefisso i
ghibellini; ma non lo raggiunsero. Il principio della monarchia universale essi pretendevano attribuirlo a sé. E gli Hohenstaufen caddero pure, poiché dell’Italia, di
un paese straniero, vollero fare la base pratica di un impero che doveva abbracciare
il mondo. L’Italia è patrimonio mio: diceva Federico II; ed il Papa affermava esattamente lo stesso. Roma, lo Stato della Chiesa, l’Italia, a partire dalla favolosa donazione di Costantino, erano stati il fondamento sempre agognato e, più o meno,
anche realmente e praticamente mantenuto della dominazione universale de’ Papi.
Ed occorre aggiungere che codesto fondamento era per lo meno più prossimo e più
naturale ad essi che non agl’Imperatori tedeschi. Nel medio evo gl’Imperatori sapevano che senza l’Italia la loro monarchia universale era impossibile: non altrimenti
erano convinti i Papi rispetto alla dominazione alla quale essi pure aspiravano. Ora
il fondamento del dominio papale è stato tolto via: esso è caduto per sempre nel
1870. Distruttori dello Stato della Chiesa sono stati appunto i ghibellini, gli
Hohenzollern.
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Lucera, colonia saracena degli Hohenstaufen
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Dall’alto del castello di Lucera io riandava le fasi e lo svolgimento di questo gran
processo storico. E, pieno di gioia, mandai un saluto all’ombra dell’immortale
Hohenstanufen, che Dante stesso, comunque il più entusiastico de’sostenitori dell’idea dell’Impero e della monarchia universale che vi si connetteva, pure, qual pio
e fedele cattolico, non poté a meno, tenendolo per eretico e saraceno, di cacciarlo
giù nel profondo inferno e di metterlo a giacere in un letto di fuoco.
Quale non sarebbe lo stupore di Federico II, se gli fosse dato oggi di riveder
Roma! Quel trono temporale, tutto jeratico e per nulla cristiano, che a lui non
riuscì abbattere, è ora finalmente gettato per terra: il Papa, che si tien chiuso in
Vaticano, abbandonato dalle potenze politiche, come una volta lo fu egli stesso,
Federico: un prigioniero libero e volontario, e non per tanto prigioniero vero e
reale, siccome colui che i nuovi tempi hanno relegato a star chiuso là entro: a pochi
passi poi da lui assiso tranquillamente sul trono di Roma il discendente de’ sovrani
della piccola Savoia, divenuto Re d’Italia e, come tale, riconosciuto e circondato
delle felicitazioni di tutti gli Stati, di tutti i popoli della terra!
Anche morto Federico II, i Saraceni continuarono a rimanere a Lucera fedeli,
irremovibilmente legati con la Casa sveva, cui infrattanto il Papa studiava ed affrettava i modi di strappare le Puglie. Solo ad essi Manfredi andò debitore dell’aver
potuto salire sul trono del padre suo. Egli veramente non iniziò la sua splendida ed
eroica carriera che appunto in codesta fortezza di Lucera. Quivi nel novembre 1254
venne a cercare e trovò salvezza dopo la sua fuga audace da Aversa, attraverso le
montagne del Sannio. Giunto alle porte di Lucera e datosi a conoscere, i Musulmani,
giubilando, lo condussero nella fortezza e lo proclamarono loro Signore. E quivi
egli sentì di avere una base solida e sicura. Onde poté quindi scacciare i nemici dalla
vicina Foggia, e poscia da Troia, donde il cardinale legato, Guglielmo Fieschi, messo in fuga, andò a riparare a Napoli presso il Papa.
Nulla aveva più forza di esacerbare quest’ultimo, quanto il durare della colonia
saracena di Lucera. Vani erano i tentativi di conversione da parte della Chiesa. Ed
invano pure venivano rivolte istanze a Manfredi, perché rimandasse in Africa i suoi
Maomettani. Egli non se la sentiva di disfarsene, vedendo in essi i più fidi guerrieri
ed alleati suoi. Come suo padre, amava tenerseli intorno; onde i preti e Carlo d’Angiò lo nominavano il Sultano di Lucera.
Sul campo di battaglia presso Benevento gli Arabi pugnarono valorosamente e
caddero a migliaia. Prima di muovere contro l’Angioino, Manfredi aveva affidato
alla custodia della guardia saracena di Lucera la sua giovane e bella consorte, Elena
di Epiro, e i suoi figliuoli. E qui, a Lucera, fu portata alla sventurata la nuova che
suo marito era caduto. Priva di consiglio, in preda alla disperazione, essa fuggì con
i figlinoli a Trani per imbarcarsi e cercar rifugio in Epiro. Ma il castellano della
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Verso Sud
D. Grittani
fortezza consegnò le vittime ai persecutori che già le cercavano ed inseguivano dappresso.
I Saraceni di Lucera abbattuti, costernati, conclusero con l’usurpatore vittorioso
un trattato, pel quale fu loro consentito di continuare, quali sudditi di lui, a vivere
e governarsi con le istituzioni e le leggi date loro dagli Hohenstaufen. Però, già
nell’anno 1267, allorché il giovane Corradino si apprestava alla spedizione in Italia,
essi fecero sventolare di nuovo da’ merli della loro fortezza il vessillo di casa sveva.
Lucera fu allora il centro di riunione e la base e il sostegno dei ghibellini dell’Italia
del mezzogiorno, e quindi oggetto di massima inquietudine pel Papa come per
Carlo d’Angiò.
Dietro le insistenti sollecitazioni del primo aveva il secondo mandato un esercito a cingere d’assedio la fortezza, la quale però respinse vittoriosamente tutti gli
assalti. Nell’aprile 1268 Carlo stesso, obbedendo al volere del Papa, venne in persona di Toscana nella Puglia per sottomettere Lucera. Ma dovette poscia levare daccapo l’assedio per andare incontro all’ultimo degli Hohenstaufen, Corradino, che per
la via Valeria veniva giù verso il lago Fucino.
La battaglia presso Sgurgola decise della sorte dell’infelice. Caduto lui, Lucera
venne nuovamente assediata. I Saraceni si difesero con disperato coraggio, sino a
che il 28 agosto 1269, un anno dopo la disfatta di Corradino, furono per fame
costretti ad arrendersi. Il loro numero s’era via via assottigliato di molto. Nulladimeno,
anche ora, benché privati delle loro franchige, seguitarono a tenere per sé Lucera.
Anzi, nel 1271, si sollevarono ancora una volta contro l’odiato Angioino, il vassallo
del Papa, facendo risorgere a Lucera un falso Corradino. Ridotti di nuovo alla
sommissione e crudelmente puniti, restarono non per tanto ad abitare nella loro
cittadella, imperocché in fondo l’Angioino stesso riconosceva l’importanza di questa colonia di prodi guerrieri. Egli fece anzi munire anche più la fortezza, e gran
parte delle mura e delle torri esistenti è appunto del tempo di Carlo I. Molti decreti
di questo re si riferiscono al compimento del Castello di Lucera, il quale, come
prima, serviva anche di luogo di custodia pel tesoro reale.
Quando in fine ogni speranza in una possibile restaurazione de’ ghibellini fu
morta, e gli sventurati figliuoli di Manfredi giacevano sepolti ne’ sotterranei di una
prigione, i Saraceni, spinti dal sentimento della propria conservazione, si misero al
servigio degli Angioini. E questi si avvalsero di loro nel medesimo modo che avevan
fatto gli Hohenstaufen. Nella guerra del Vespro Siciliano Carlo II li mandò a combattere contro Aragona sotto le insegne della Croce e sotto gli occhi del Legato
papalino.
Il Papa intanto domandava in maniera categorica l’esterminio de’ pagani; e Carlo
II cedette finalmente al comando di lui. Senza motivo al mondo fece prendere
F. Gregorovius
Lucera, colonia saracena degli Hohenstaufen
135
d’assalto la fortezza e trucidarvi i Saraceni che vi eran dentro. I pochi che scamparono, rimanendo superstiti, vennero costretti ad abbracciare il Cristianesimo. Le
moschee furono abbattute dalle fondamenta. La cattedrale cristiana venne riedifıcata.
Insino l’antichissimo nome di Lucera si volle barattare con quello di Santa Maria,
senza che però avesse forza di attecchire e mantenersi.
Così, dopo una durata di quasi ottant’anni, si estinse, nel 1300, la città de’
Saraceni. Già nel 1525 Leandro Alberti trovò la cittadella caduta in rovina e diventata ricovero di animali. La storia di essa meriterebbe davvero di essere trattata in
modo speciale da qualche conoscitore a fondo delle cose arabe. Anche non avendo
per sé grande importanza, formerebbe sempre un capitolo attraente della storia de’
Saraceni di Sicilia. Ed è da deplorare che Michele Amari non abbia più colorito il
disegno che ne aveva concepito. Allorché cominciò la sua dotta e seria opera su’
Musulmani di Sicilia, non gli fu dato consultare che solo in parte gli atti dell’Archivio di Stato di Napoli; mentre, a quanto egli assicura nell’Introduzione, in tale
Archivio, ne’ Registri della Casa Angioina, sono a centinaia i documenti che si
riferiscono ai Saraceni di Lucera. Per un uomo come l’Amari di sì rara potenza di
lavoro non dovrebbe anche oggi esser diffıcile il mettere insieme da tali documenti
una storia degli Arabi di Lucera.
Chi dalle mura della fortezza giri intorno intorno lo sguardo, abbracciando le
belle campagne pugliesi, splendide ed irradiate da un elisio etere azzurro, vede
dispiegarglisi dinanzi un teatro veramente unico e, come in uno specchio, apparirvi
concentrati e riflessi tutti gli eventi storici dell’Italia Meridionale. Romani, Cartaginesi - laggiù in fondo s’intraveggono i campi di Canne, il luogo della famosa battaglia di Annibale - Goti, Longobardi, Saraceni, Bizantini e Normanni, i Crociati, di lì, da quelle coste, salparono essi la prima volta - gli Hohenstaufen, gli Angioini,
gli Aragonesi, gli Spagnuoli, i Francesi: egli vede passarsi via via innanzi allo sguardo
l’una dopo l’altra tutte queste apparizioni e i fatti e le gesta che vi si congiungono!
Tutto all’intorno un orizzonte veramente meraviglioso! A settentrione la catena
del Gargano dal color di porpora; e un po’ a sinistra in lontananza il mare luccicante e l’isola di Tremiti, che emerge dal seno suo, come di mezzo a uno specchio
d’argento. Ad oriente, di là da Foggia, l’Apulia Plana che si stende ampia, soleggiata
sino al golfo di Manfredonia. Verso occidente e mezzogiorno le pendici maestose
dell’Appennino beneventano e più in qua le montagne di Campobasso e di Boiano.
Da quest’ultimo lato, a poche miglia di distanza, dirimpetto alla campagna lucerina,
una catena di verdeggianti colline, sulle quali si disegna spiccatamente l’antica Troia.
Il classico nome di questa città ci conduce assai lungi, riponendoci nella memoria luoghi e tempi omerici. La fondazione sua però non risale più in là degli inizii
dell’XI secolo. Troia è una delle città pugliesi edificate da’ Bizantini. Il Catapano
136
Verso Sud
D. Grittani
Bugianus la fece costruire nel tempo in che la gente longobarda nelle Puglie, oppressa da’ Greci, insorse. E già nel 1022 la nuova Troia era luogo così ben munito
che l’imperatore Enrico II, nella sua spedizione nell’Italia Meridionale, dovette cingerla in tutta regola d’assedio e darle l’assalto. Oggi conta seimila abitanti, e di
specialmente notevole non ha che l’antica cattedrale.
Di ritorno dal Castello, visitammo in Lucera alcune chiese: Sant’Antonio Abate, una volta appartenente all’Ordine de’ Cavalieri Teutonici, il quale al tempo degli
Hohenstaufen ebbe ricchi possessi nelle Puglie; San Domenico; e poi il Duomo.
Questo è opera degli Angioini. Dell’antica cattedrale vescovile i Saraceni di Federico avevano fatta una moschea, e poiché fu abbattuta e ridotta ad un mucchio di
macerie, il successore di Carlo d’Angiò risolvette, nell’anno 1300, di far edificare di
pianta la cattedrale Santa Maria. Due anni più tardi, benché non per anco finita,
venne già consacrata. Dopo del Castello, è il più ragguardevole monumento della
città e come il suo centro architettonico: edifizio gotico a tre navate, di armoniche
proporzioni, semplice e dignitoso nelle forme. La facciata è una cuspide ad angolo
ottuso, con un finestrone rotondo, e tre porte gotiche in tufo calcareo bruno. Le sta
alato il non alto campanile, terminato in cima con un ottagono. Indarno, entrato
dentro, cercai monumenti od epigrafi che ricordassero il passato: ovunque in Italia
esse vanno scomparendo dalle chiese. Solo nel battistero esiste ancora una statua in
marmo del fondatore della chiesa: figura giovanile dall’aspetto leggiadro. Le mani
tiene conserte sul petto, e con i piedi, strano davvero!, poggia sopra due cani, i quali
piegano sotto il suo peso. Sul piedistallo si legge scritto in caratteri moderni: Carolus
II. Andeavensis A. S. MCCC. Templum Deo et Deiparae Dicavit. Il sarcofago, cui la
figura in origine era annessa, disgraziatamente non esiste più.
Il giovane prete, colui che ci fu guida al Castello, ci condusse pure a visitare la
biblioteca comunale, posta nel palazzo appunto del Comune. Vi occupa due camere ben pulite. Fra le altre cose, mi venne mostrata tutta una serie di manoscritti,
moderne compilazioni di documenti concernenti la storia di Lucera. Tale storia
invero non è stata per anco sufficientemente descritta. Nel 1861, pe’ tipi di Salvatore Scepi, in Lucera, si ebbe bensì una storia della città, scritta da Giambattista
d’Ameli, barone di Bineto e Meledugno; ma è libro codesto che non tien conto di
alcuna esigenza scientifica. Nella biblioteca non ci era che un lettore solo, dal quale
fatto, per altro, io voglio astenermi dal trarre sfavorevoli conclusioni circa le abitudini e tendenze studiose della città. Queste, di certo, non si distingueranno per
operosità e fervore, benché il liceo di Lucera goda buona fama.
[Tratto da Nelle Puglie, FERDINAND GREGOROVIUS, traduzione di Raffaele Mariano, Barbera Edizioni,
Firenze 1882; ristampa anastatica La Terrazza Editrice, Pianoro di Bologna 1975]
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Lucera
Riccardo Bacchelli
Riccardo Bacchelli (Bologna 1891 - 1985). Nel 1929 l’autore del Mulino del
Po, invitato dal suo amico di studi universitari Giustiniano Serrilli di San
Marco in Lamis, si recò in visita sul Gargano dove soggiornò dal 19 marzo al
15 aprile restando affascinato dalle tradizioni e dal paesaggio di questa ineguagliabile terra. E proprio da San Marco in Lamis, Bacchelli inviò al quotidiano
La Stampa una serie di articoli che furono pubblicati nella primavera stessa del
1929. Soggetto di questi articoli, ciascuno dei quali fu successivamente raccolto
nell’antologia Italia per terra e per mare (Rizzoli 1952), il fascinoso Gargano
e la cordialità che Bacchelli qui conobbe.
Si entra in Lucera da una porta militare, per una strada rustica e in pendìo, e
naturalmente si ha la testa piena dei saraceni e del secondo Federico. Dei famosi
saraceni, ch’egli trasportò qui dalla Sicilia, rimangono soltanto il ricordo e certi
orridi ceffi moreschi, che furon messi a far da capitelli e da ornati sugli stipiti e negli
angoli, per far paura ai ragazzi, diresti, e per commemorare le giornate in cui di teste
vere musulmane s’addobbarono i muri della città. E anche di lui, dell’imperatore
scomunicato, «martello della Chiesa Romana, luxuriosus, epicureus», rimane poco.
Il castello, dominatore di una delle più belle vedute di Puglia, fra gli Appennini e il
Gargano sulla gran distesa del Tavoliere, dov’egli ebbe palazzo e fortezza, è in massima parte costruzione degli Angioini; di svevo serba ben poco; ed è solatia rovina,
dove intorno brucano le pecore sotto la guardia vigile dei cani da pastore, e dove
solo della Torre della Regina resta tanto da risuscitare nella fantasia le eleganze
architettoniche che l’abbellirono. E il vento primaverile, che stormisce nelle feritoie
e nelle breccie del fiero recinto, par che dia al sole schietto la melanconia dell’ala del
tempo, lieve cosa senza rimedio. Qui, nel luogo dove i distruttori del sangue svevo
costruirono poi il castello, il lussurioso epicureo tenne il serraglio delle belle fiere e
dei leopardi da caccia e delle bellissime femmine e degli abbominevoli eunuchi.
138
Verso Sud
D. Grittani
Qui campava da rinnegato alla moresca, ridendosi dei monitori papali e dei missionari che non riuscivano a convertire la «peste musulmana» da lui introdotta in
terraferma. Qui anche, vicino, era una moschea dei suoi fidatissimi saraceni della
colonia lucerina.
Cotesto tedesco fantastico seppe molte cose, ma ignorò quel che si offende, e
non si offende impunemente, quando si oltraggia la religione del popolo. A noi lo
insegna il ribrezzo, che dura ancora dopo tanti secoli, in Lucera, e che si esprime
nella leggenda. La tavola dell’altar maggiore in Duomo è fatta d’una grande e bellissima lastra di pietra la quale era la sua mensa in Castel Fiorentino, dove morì. E
stata posta lì come segno d’espiazione? Certo è che il popolo lucerino favoleggia che
del Duomo Federico si fosse fatto un lupanare di donne, e che proprio sul luogo
dell’altar maggiore avesse messa la latrina. Favola; fra l’altro il Duomo è opera posteriore, di Carlo II lo Zoppo. Ma la fantasia è forte ed acre, e tenace il disprezzo
popolare lucerino. Eccone un esempio. C’è accanto alla porta di sinistra, una pietra
tombale incastrata nel muro. Colui che vi è effigiato, un innominato gentiluomo, a
quel che pare dal vestito, del Seicento, non ha, che si sappia, altra colpa che quella
d’avere una faccia brutta e maldisponente, da segnato da Dio: il popolo s’è messo in
testa che sia il traditore Pier delle Vigne; e i vecchi lucerini, nonostante la sorveglianza e i divieti del sagrestano e dei canonici, ritengono di farsi un merito collo
sputargli in viso. Traditore, essi lo detestano, non già dell’odiato Federico, ma della
fede, eretico come il padrone, e dannato suicida. In quella loro giustizia, che non
guarda per il sottile, né alla decenza, non possono ammettere che il capitolo della
cattedrale tenga nella chiesa quella statua, e così l’ingiuriano. Quest’odio e quell’atto dura da secoli, e il nostro mondo, che a forza di decenza rischia d’ammollire il
maschio vigore dei sentimenti, convien non dimentichi che detestare tradimento e
traditori è, anche se in atti sconci, effetto di principii sani. Un tempo le genti si
uccidevano per la fede, ed era una ragione più nobile che per il petrolio e le materie
prime. Ma imparo da un’acuta e dotta monografia dello storico Egidi, che anche la
distruzione dei saraceni di Lucera, dei quali Carlo lo Zoppo fece metterne ventimila a fil di spada dal suo ministro Pipino da Barletta fra il 15 e il 24 agosto del 1300,
fu un’operazione finanziaria, un esproprio delle terre demaniali concesse agli infelici musulmani non che da Federico, anche da Carlo I, e da lui stesso, lo Zoppo,
travagliato dalla guerra perpetua e dal bisogno orrendo di denaro e di frumento.
Non ho l’autorità di discutere né di dubitare. Sotto ogni fatto della storia c’è
quel fattore economico, ma la storia non sarebbe la storia, anzi l’uomo non sarebbe
l’uomo, e non opererebbe storicamente, se non anche avesse motivi d’altro genere:
primo e capitale, quello della religione e dei sentimenti.
Quel povero Carlo lo Zoppo, che combattè non so quante battaglie e credo che
R. Bacchelli
Lucera
139
le perse tutte; che cominciò il regno in prigionia; che, quando Ruggiero di Lauria
l’ebbe preso nella battaglia del Golfo di Napoli, sentì i capitani e le ciurme siciliane
discuter lungo la traversata se era da tagliargli il collo o da metterlo a prezzo di
riscatto; disprezzato già da suo padre (uno dei migliori cavalieri che mai fossero,
secondo il suo gran rivale Giacomo d’Aragona), il quale, quando seppe la rotta
navale e prigioniero il figlio e morti molti dei suoi migliori: «Così fosse morto lui disse - quel prete imbelle e sconsigliato!» quel povero Carlo lo Zoppo è effıgiato in
una statua tombale che ho vista nel Duomo di Lucera, e che mi ha mosso la fantasia.
Prete, lo chiamava suo padre, che pur era religiosissimo ma da quell’energico
soldato e politico che fu, perché, nato più per le devozioni che per le armi, si narra
che avesse la tenda piena di libri e di insegne sacre e di reliquie; prete, perché era
debole di corpo, eccitabile, fantasioso, e facile a credere alle predizioni e ai voti. In
tutta la sua vita travagliosa e nel suo regno, si scorge una specie di sbaldanzita
tenacia nella sventura, che par più adatta a un penitente rassegnato, che a un re e
guerriero.
Povero Carlo! Se devo confessare la verità, ciò che più mi persuade che nell’operazione sui saraceni di Lucera ci fu veramente qualcosa di un eccidio religioso, di
una notte di San Bartolomeo (24 agosto anche questa; vedi i casi e gli incontri delle
date!) è il suo ritratto.
(La cattedrale di Lucera, città dai bei portali, è una grande opera che sorge da un
terreno disuguale; e l’industria degli architetti, invece di spianarlo, che sarebbero
stati buoni tutti, s’è ingegnata coi contrafforti arditi e varii a sostenerla sulla disparità del terreno, in modo da farne una fabbrica piena di naturale imprevisto e di
grazia ardita). Lo Zoppo giace a mani in croce, mani piccole in posa stanca e d’abbandono; ha indosso una corazza tutta lavorata, e quasi si direbbe che il corpo
gracile v’abbia da poco smesso di respirarvi dentro, e che gli fosse di fatica; una
spada troppo grande per lui gli pende rigida e pesante dal fianco. Ha le mascelle
lunghe e il mento rotondo; le guancie, se posso dir così, affusolate; la fronte testarda
e nella quale non si suppongono né molte né grandi né fervide idee. Per altro è una
fronte nobile, e tutto l’uomo ha quel che esprime, sia anche in significato di decadenza, la parola «signorile». Il segno della tenacia sfortunata, e che sa d’esserlo, è fra
occhio e occhio; una specie di corrugazione testarda e smarrita; sulla bocca infantile
e imbronciata c’è uno scontento e un cruccio che non riesce ad esser crudele, ma
che è tanto amaro da far credere che crudele possa essere stato. Gli occhi, che dovettero esser grandi e prominenti, sembrano arresi or ora a una grande stanchezza.
Se questi fu lo Zoppo, par di leggergli in volto proprio quel tanto d’eccitabile e
turbato che produce in certe anime il fanatismo; maniera di devozione diversa e
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Verso Sud
D. Grittani
certo tanto inferiore a quella che nei maggiori spiriti di santi si chiama carità, e
carità severa magari; ma adattata a fargli deliberare quel macello del 24 agosto
1300.
E ci sarà stato anche il movente economico, a intrudersi in quella ch’egli avesse
pensato come una vendetta di Dio: e ne sarà stato men contento e men certo di sé;
e gli sarà cresciuta la paura dell’inferno e il cruccio della coscienza, e l’ostinazione e
l’orgoglio stanco, figli quasi sempre della tristezza e della disgrazia.
Se questi fu lo Zoppo. Infatti mi dicono alcuni cortesi e colti amici lucerini, lo
scrittore Colucci, l’avvocato Gifuni e il professor Catalini fra gli altri, che si tratta di
una attribuzione tradizionale e incerta.
Ebbene, io trovo la risposta nel libro, che essi mi hanno regalato in ricordo di
Lucera, di un celebre lucerino. Il Bonghi registra questo detto del Manzoni: «La
storia è assai grande, e più assai dubbia. Ottavio Castiglione, uomo dottissimo, fınì
per non crederne più nulla». Per me, credo che quella statua rappresenti davvero re
Carlo II, e mando verso la quieta e ventosa Lucera queste fantasticherie di una
mattina fresca di primavera in Duomo, quando fui a visitare, e tanto mi piacque, la
città civile e colta e giuridica.
[Articolo apparso sul quotidiano La Stampa nella primavera del 1929; successivamente pubblicato nel
libro L’Italia per terra e per mare, RICCARDO BACCHELLI, Rizzoli, Milano 1952]
141
Lucera, città di Santa Maria
Giuseppe Ungaretti
Lucera, il 15 maggio 1934
Scriveva Gregorovius ricordando la sua entrata a Lucera: «Ti viene incontro la
quiete tutta propria in Italia delle città storiche di provincia. È cosa d’una seduzione
che non ha l’uguale nel mondo».
In un delta oblungo, e come sposando il silenzio, il Duomo è fermo su una terra
a onde.
Duomo della città di S. Maria. Ma commemora lo scatenamento d’un furore.
La pietra cotta e la cruda, stinte, patinate, penetrate l’una nell’altra, hanno avuto
dal tempo un’unità di giallo leggermente ombrato: è una facciata alta, impettita,
piallata, orba con quel suo finestrino nel rosone, tagliente, coperta dal tempo di un
colore di grido represso.
Ora che l’archeologo può sbucare segreto da una stradicciola e frugare in giro
dietro le lenti cogli occhi affamati, si può gettare un’occhiata nei solenni portali
settecenteschi di cui la città è ricca, arrivare a quello del Palazzo Ramamondi, di
gesso ercolanense, affondato in quinte, e a bell’agio vedere che tutti finiscono in
una corte piena di carri, carrette, d’arnesi per lavorare la terra e d’una carrozzella nel
mezzo, così decrepita che le mani vi scappano a turarvi gli orecchi per paura che
non si metta anche da ferma a cigolare; possiamo incontrare ragazzi del Real Collegio dove fu alunno Salandra, che passeggiando ripassano le lezioni con una serietà
di statue; su e giù per la stessa strada, potrete osservare avvocati calmi discutere ore
intere e accanto, passando, un prete in orazione può sentirsi come in un chiostro, e
alzare appena gli occhi dal breviario per un salutino; ecc.: è questa la quiete?
Giambattista Gifuni, direttore della Biblioteca Municipale, che m’accompagna
e che conosce mirabilmente la storia della sua città per un amore che da secoli
hanno da padre in figlio nella sua famiglia, mi fa segno d’avviarci. Ed ecco per dare
il garbo all’abside, che la terra a onde s’è messa a girare come dentro una chiocciola,
e i nostri passi con essa; ma presto tutto sembra immutabile e lo stesso colore
dell’aria, arrivati come siamo a un punto dove è unico motore l’architettura.
142
Verso Sud
D. Grittani
Ora, per l’annodarsi stretto dei contrafforti, la mole fa da sporgenza a sporgenza
effetto di galoppare tra altissimi agguati: è un’elegante mole con un nonnulla di
calligrafico, pericolosa e anche serena, come s’addice a fabbrica provenzale trecentesca
ancora ammaliata d’Oriente, sorta sotto il più largo cielo del mondo sulle rovine
fumanti d’una moschea.
Ma appare più di tutto, assediata e presa d’assalto dalle cose così com’è rimasta,
nave gonfiata dall’affanno umano, veramente la forza dalla quale nascono o rinascono
e vanno alla ventura città. Città di S. Maria!
Ci basterà del resto fare due altri passi ed entrare nel Duomo per vedere gli stessi
fantasmi approvare Gifuni d’avere nel suo scritto intorno alle “Origini del ferragosto lucerino”, opposto all’Egidi che non tanto la ragione economica quanto la passione religiosa mosse Carlo II a radunare un esercito e, al comando del “valoroso”
Maestro Razionale della Curia Reale Giovanni Pipino da Barletta, spedirlo addosso
a Lucera a farvi “macello” dei “tanto arditi et grandi Saracini cani” che la popolavano.
Entrati in Duomo, il primo fantasma a farsi riconoscere – e che or ora, a quell’esterno dell’abside frutto di un’educata violenza, già avremmo potuto immaginare
presente – è Dante.
Carlo I d’Angiò, Carlo II d’Angiò: il Nasuto, il Ciotto, come Dante li ha crucciato soprannominati per sempre, sono qui nel centro del loro trionfo. Dicono che
il Ciotto sia quel giovanotto di marmo dagli occhi pieni di sonnolenza, il cui viso
paffuto chiede il grazioso ovale al mento sottile e che giace coi piedi poggiati sui
cagnolini in una cappella laggiù in fondo. Era uso tramandare sui cenotafi il più
leggiadro aspetto d’uno scomparso? E quindi d’un uomo attempato non doveva
rimanere che la memoria del suo corpo giovane? Uso amabile, il che non impedisce
alla statua d’essere d’un’esecuzione dozzinale, nonostante il giudizio di Riccardo
Bacchelli, il quale, avendo una volta da interpretare in modo penetrante come sa il
carattere del Ciotto, le dedicò alcune delle sue frasi ornate. Opera più originale, o
anzi addirittura geniale, è un altro giacente che entrando vedrete alla vostra destra,
tenuto in alto da due mensole. Da quel suo vestire che infagotta dall’inguine in su
sbuffando alle spalle e in giù fascia, si capisce che è un gentiluomo della seconda
metà del Cinquecento. Ma guarda un po’ e chissà perché, la gente l’ha voluto Pier
delle Vigne. Eppure è gente che qui s’è stabilita al posto dei “Saracini cani”, cari e
fedeli agli Svevi; e dunque non certo perché tradì Federico – che non tradì – gli
sputano in faccia, lo chiamano “Segnato da Dio!”, “Sansone”, “Traditore!”. O,
maltrattandolo, vogliono essi manifestare il loro atavico e cattolicissimo rancore nel
medesimo tempo che contro lo scomunicato Federico, e contro i suoi “grandi et
arditi Saracini”, contro specialmente Pier delle Vigne che fu l’atleta, il Sansone,
G. Ungaretti
Lucera, città di Santa Maria
143
appunto, dell’Impero, l’uomo dotto che dettava le grandi pagine nella polemica di
fuoco con Onorio III, Gregorio IX e Innocenzo IV?
Questa schiettezza d’animo dei Lucerini, quest’ostinazione nell’odio, anche questo
è dantesco. Spostano le mensole, Piero giace sempre più su, cercano colle buone e
colle cattive di convincerli che non è educazione; ma uno schizzo ogni tanto, ciac,
lo raggiungerà sempre: mirano a quel suo povero naso acciaccato.
Statua orrenda nella sua impeccabile eloquenza: è uno scheletro beffardo, uno
scheletro vivente: tutta l’amarezza del Seicento…
Gli sputi sono una bella prova dell’errore dell’Egidi.
Ma ce n’è ancora un’altra: siamo entrati in sagrestia e ci fanno vedere alcuni
oggetti del tesoro, e il sagrestano alza un vecchio camice di lino, lo alza colle braccia
in alto e non basta, sale su una sedia e non basta, sale su una scala: è un camice di
quasi tre metri, c’è entrato dentro il fantasma d’un gigante. Appartenne al beato
Vescovo Agostino Cassiota da Traú, il quale era un Domenicano, e non bastava, era
uno che, anche senz’essere Domenicano, al solo vederlo si era piccini e si tremava.
Fu qui dal 1317 al 1323 per sradicare i resti dell’eresia musulmana. Compito per il
quale nella mente del popolo è rimasta l’idea che a finire di schiacciare tanto mostro
ci voleva Ercole in persona, e un Ercole spietato. Omaggio reso al valore del nemico, valore dunque leggendario, e prova lampante – poiché dal sentimento alla fantasia non trova altra via per manifestarsi se non nella leggenda – del carattere in
prevalenza religioso di tale inimicizia.
Vollero perfino cambiarle nome. Urlarono i fanatici neo-Lucerini: «Città di
Santa Maria!».
Ma è più difficile cambiare di nome che di naso, e Lucera rimase Lucera, come
la chiamano le storie antiche di Roma che la segnalano per la sua fedeltà.
Gifuni torna alla sua biblioteca e mi fermo nel giardino del Municipio.
È un vasto rettangolo che dà strapiombando nell’infinito della pianura. Fra le
piante vi sorprende duramente un enorme leone di scavo, un leone romano di
bardiglio, steso minaccioso sulle zampe anteriori. Fu trovato nel 1830 insieme a un
altro uguale, ma a pezzi, «le cui ossa – come dice in un suo quaderno un antenato di
Gifuni – furono buttate al vento».
Ora guardo la città nel suo panorama e penso: «L’Egidi non deve avere avuto
tutti i torti ragionando come ragionava. L’errore suo fu di non far dipendere mezzi
– quelli economici nel caso che esamina – da ciò ch’è sempre fondamentale negli
impulsi umani: la nostra vita morale».
E penso che l’argomento meriterebbe uno svolgimento apposito tanto più che
mi permetterebbe di rivedere certe mie riflessioni sull’architettura; e la Lucera dei
Saraceni col Federico e il Manfredi rimpianti da Dante non merita forse un artico-
144
Verso Sud
D. Grittani
lo? Starò dunque a Lucera coi miei quattro lettori, anche la prossima volta. C’è
un’altra memoria di Federico: un segno vivo: non ci sono piccioni qui in piazza;
ma, come sulla Leonessa e il Leone, sul campanile si alza il falco, e si ferma sull’aria:
ha trovato nelle ali infiniti equilibri…
Figli dei figli di quei falchi ch’egli ha fatto venire qui per mettersi in grado di
dettare il suo trattato di falconeria?
Mentre starai per partire, il tempo si guasterà. Apparirà nel cielo un affrettarsi di
nuvole nere. Come succede sempre, alla imminente bufera le pietre balzeranno.
Nell’arretrarsi dei loro sangui e dei loro ori che fra il Leone e la Leonessa incupiranno,
esse assumeranno una nettezza strana: un giorno consumato ringiovanirà, astratto,
eterno, nudità finalmente lucida…
[Tratto da Deserto e dopo, GIUSEPPE UNGARETTI, Mondadori, Milano 1961]
145
Lucera dei Saraceni
Giuseppe Ungaretti
Lucera, il 5 giugno 1934
Quando t’apparirà da lontano l’arco ogivale di Porta Troia e vedrai, in un volgersi immenso di solitudine, Lucera, dal chiarore infinito del grano, balzata sui suoi
tre poggi, potrà succederti che alcuni fra i più avventurosi fantasmi della storia
vengano a mettersi allato.
Avvolto nel vento leggero che muove la loro invisibile cavalcata, seduto in fondo
a una carrozzella stridula, forse di loro, che per accompagnarti corrono lentissimi,
t’accorgerai mentre, a poco a poco vedendo dall’ombra d’un muro la povera bestia
attaccata alla tua vettura uscire con tutto il lungo tenebrore del suo corpo, udendola
nel sole accrescere la solitudine col suo trotto invalido, andavi pensando che la
grande malinconia superstito dell’800 è il cavallo.
Ti sembrerà che uno dei fantasmi stia dicendo: «Ben Abu Zunghi, farete ordinare per ciascuna delle nostre signore un manto foderato di martora, due camicie e
due veli di lino, una gonnella colla mazzetta a fibbia… Capito?»
L’altro ha risposto baciandosi la mano e portandosela solennemente alla fronte e
al cuore. Ha capito: ha capito la lode indiretta; ma non ve ne accorgereste che da
segni impercettibili: da vvero eunuco ha una pelle senza età, e ora dalla gioia gli s’è
tesa sulla faccia più del solito; da vero guardiano di harem ha gli occhi giallastri, che
per un momento ora la crudeltà non oscura.
L’Imperatore, senza parlare, alzando un dito, lo rimanda con quelli del seguito,
gli sorride di nuovo…
Legata al cavallino impaziente di Federico II, ora t’accorgerai che dietro la sella
c’è una bestia dagli occhi bendati. Bruscamente egli s’è girato, la scioglie, la prende
in braccio, la lancia, e di lì a poco quella bella pantera di Barberia gli torna con una
gazzella fra i denti…
Senza lasciare la preda, la bella fa le fusa, strusciandosi alle gambe del cavallo…
A questo punto, il “Poeta e Fautore di Poeti” crederà giunto il tuo turno della
sua attenzione: «Vedi, m’è caro d’essere Cesare (“l’ultimo” Cesare, dirà Dante) e
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Verso Sud
D. Grittani
(saranno ancora, a suo riguardo e del suo bennato figliuolo Manfredi, prole di
Dante) m’è caro quindi di seguire in modo eroico e non plebeo la superbia. E per
questo alla mia Corte, e dandone io stesso l’esempio, la lingua parlata salirà i primi
gradini della poesia colta, e dal luogo del nostro Seggio Regale le prime poesie
scritte in italiano si chiameranno per sempre siciliane… Sei sorpreso di trovarti qui
fra questi Arabi, di vedere là quei cammelli? Lo so, dolce sorpresa per te, che ti fa
ritrovare l’infanzia e la prima giovinezza trascorse nei loro focosi paesi… In Sicilia
baroni e… monaci me li avevano messi contro… Li ho sconfitti, e, sottomessi, li ho
trasferiti in massa qui: ventimila Infedeli fra vecchi, donne, fanciulli, uomini… Su
quelle alture segregate e come sole al mondo, è il loro accampamento vivace… In
quella città peripatetica, li ho trasformati da nemici nei miei cavalieri più sicuri…
Non è stato difficile: anch’io li conosco e voglio loro bene da quando ero piccolo…
Perché ho scelto Lucera? Guardala: per la stessa natura del terreno, città non solo
alta, ma tonda: città militare di quella perfetta forma che Vitruvio prevedeva “affinché il nemico sia da più lungi scoperto”… Ora, guarda quella strada scoccata come
una freccia: si conficca laggiù a venti chilometri, nel cuore di Foggia… Ecco: ho
capito che Lucera poteva essere come il mastio di Foggia, come il possesso di tutto
il Tavoliere… Pane e armenti e tributi a volontà: ti sembra poco per uno che fa la
guerra?
«Dunque avrebbero ragione l’Egidi e il Lenormant sostenendo che Vostra Maestà, e il Nasuto e il Ciotto, e più tardi Francesi e Spagnuoli contendendosi il possesso del Regno di Napoli, non avevate precipitandovi sulla Capitanata se non
motivi economici?»
«Economici? Ai miei tempi, questa parola non c’era ancora… Certo, certo…
Avevo la mia fede… Nessun vero Capitano, né Alessandro, né Cesare, né Napoleone hanno fatto la guerra se non per una fede… Ogni tempo ha la sua…»
E così dicendo colui che da piccolo chiamavano “il fanciullo di Puglia”, sparve…
Federico è quello che è: un uomo grande, e cioè un uomo più che dei suoi
tempi, di tempi che aiuterà a nascere. Impersona il Medioevo, la parte epica del
Medioevo che è germanica, che è feudale, e nello stesso tempo si dà a promuovere
l’Umanesimo, il che è come dire che s’era gettato a capofitto in un’azione contro sé
stesso.
Economia, economia?
No, sono tanti i lieviti, era la natura, la storia, la Provvidenza: l’uomo è condotto
misteriosamente…
Quando sarai arrivato già dentro Lucera, al Belvedere, e da quell’ameno paesaggio ti sporgerai sul precipizio che va a cadere dove la pianura fugge, la città ti apparirà che si inalbera simile a un promontorio, a un salire dalle sue porte militari per
G. Ungaretti
Lucera dei Saraceni
147
amabili pendii verso il brusco orrore del vuoto. Tenderai allora l’orecchio per sentire
se dall’alto d’un minareto non s’alzi ancora almeno un grido… Non ci sono più
minareti in questa che fu “la Città senza Croci!”. E come saranno state, come sono
immaginabili di mattoni, “non bianche”, le moschee?
Dei “Saracini cani” non è rimasto nulla: qualche vasetto, qualche pezzetto di
ceramica…
Le memorie qui sono romane o angioine. Roma, Roma, Roma qui non finirà
mai di risuscitare: la sua antichità in questa terra è inesauribile e l’altro giorno ancora in mezzo al Belvedere s’è aperta una fossa e s’è messa a buttare pargoli in fasce,
giovi, veneri, bracci, piedi, falli: una vera montagna di terrecotte votive…
Di Federico II non è rimasto se non un enorme slancio di pietre come una
cappa sbranata che sta su per miracolo; se non un movimento raccapricciante di
pietre paragonabile per audacia solo alla volta della Basilica di Massenzio. D’una
residenza che dovette essere una delle meraviglie del mondo a giudicare da Castel
del Monte, questo rimane…
Ma come nascenti da questo bellissimo rudere, ecco dal Belvedere vedrai che là
in cima si svolgono, invece della Cittadella araba, i 900 metri di cinta della fortezza
alzata dal nasuto. È come una corona posata, e da questo punto sembra che basterebbe un venticello a smuoverla.
Salirai. La vedrai nelle sue pietre sbiadite, d’un rosso e d’un giallo quasi bianchi,
mossa e annodata nella sua quadratura da ventidue torri poligonali, e dal Leone e la
Leonessa, moli cilindriche altissime e grosse d’una vertigine unica sulla ripidità
della scarpa. Dal lato meridionale, sotto ci sono le fornaci, coi loro laghetti fra il
grigio della creta che verrà cotta: una miniatura: un vero presepio colle pecore che
ora passano: ahimè, una gran disgrazia per la fortezza! Quei fornaciai coi loro scavi
hanno fatto sì che ora sono lesionate e pendono la Leonessa e tutta la cortina colle
torri da quella parte. Trattandosi di terreni appartenenti al Comune, non dovrebbe
essere difficile concedere ai fornaciai altre cave in punti, che non mancano, dove la
loro opera non sarebbe se non proficua. Entrerai nella fortezza: nessuna rovina
produce un maggior effetto di ampiezza disabitata, di piazza morta e senza confine… Nessuna m’ha lasciato un uguale senso d’opacità del destino, un senso così
esagerato di scoramento…
Vedrai ancora i fantasmi; il deserto della fortezza si popolerà dei Provenzali di
Giovanni Pipino da Barletta… E, ecco, dal lato di Levante che guarda Lucera e
Foggia, i “Saracini cani” tentano un estremo assalto: lo squallore della fame ha reso
sguaiati quegli artigiani fini, e i Provenzali li uccidono come per giuoco, e agli uccisi
alle volte spaccano sghignazzando lo stomaco per mettere allo scoperto la poltiglia
del poco trifoglio strappato e divorato eludendo la sorveglianza…
148
Verso Sud
D. Grittani
Lo Svevo non ha lasciato qui che un brandello di muro? C’è qui un altro suo
segno: l’altare del Duomo e quella sua mensa di Castel Fiorentino, alla quale invitava a sedere insieme vescovi e ulema per ridere nel vederli guardarsi in cagnesco. Non
fu guerra religiosa? E perché quella mensa è stata messa lì, se non in segno di riparazione?
[Tratto da Deserto e dopo, GIUSEPPE UNGARETTI, Mondadori, Milano 1961]
PARTE VI
Rocchetta Sant’Antonio
151
Rocchetta la poetica
Francesco De Sanctis
Francesco De Sanctis (Morra Irpino, oggi Morra De Sanctis 1817 - Napoli
1883). Il celebre storico della letteratura italiana pubblicò un’originale opera
autobiografica dal titolo Un viaggio elettorale (1876), diario romanzato che
racconta le vicissitudini della candidatura di De Sanctis alle elezioni politiche
del 1875 nel collegio Foggia-San Severo.
Decretata la rinnovazione del ballottaggio, dissi: ora vado io là. E andai. Venivano meco due miei concittadini, Achille Molinari e Salvatore Derogatis.
Giunsi a Foggia domenica sera, il 10 gennaio. L’altra domenica era il dì posto
per il ballottaggio. Avevo sei giorni innanzi a me.
Capitai improvviso in casa di Giovanni de Sanctis, dov’era pure un albergo.
Colui me lo aveva fatto conoscere uno di quegli amici che la mente porta seco sino
alla morte, Giorgio Maurea.
«È qui Giorgio?» domandai.
«No, è partito ieri. Ma ci sono tutti i vostri amici di Foggia, che sarebbero tanto
lieti di stringervi la mano.»
«Sarà per un’altra volta. Ora acqua in bocca. Ho bisogno che San Severo ignori
il mio arrivo qui. Non voglio ch’essi dicano: De Sanctis è stato a Foggia, e non è
venuto a vederci».
Rimasi solo. I miei pensieri andavano veloci, come i miei passi... Se io andassi a
San Severo! Tre quarti d’ora, e sarei a San Severo. Cosa è l’uomo! Io ho là un nido
riposato e sicuro, là stimato da tutti, amato da molti, e debbo correre appresso alle
ombre, cacciarmi tra monti e dirupi in paesi meno civili, dove pochi mi conoscono,
e nessuno quasi mi comprende, e dove il mio nome è trastullo delle loro piccole
lotte e piccole passioni. Tu non sei più un giovinotto, mi dice Marietta mia; pensa
che t’incammini verso la vecchiaia. E ora, nel cuore dell’inverno, con tanti anni
addosso... Ma respinsi questi pensieri come una tentazione. Questa è, dissi tra me,
152
Verso Sud
D. Grittani
quella tale seconda voce, che è sempre una traditora. Ubbidiamo alle prime ispirazioni che vengono dal cuore. Maggiore è il sacrifizio, e più grande sarà la soddisfazione della coscienza.
Alto là! rispose un’altra voce. Tu posi, come un Iddio. Guarda bene in queste tue
ispirazioni del core, e ci troverai un po’ di passioncella, un po’ d’impegno, un
dispettuzzo, e forse anche una piccola vanità. Tu non vuoi apparire uno sconfitto.
Mi esaminai, e sentii che questa voce non avea tutto il torto. E rimasi perplesso.
Camillo de Meis aveva un po’ di ragione, quando mi chiamava un Amleto vagabondo tra le voci del pensiero.
Io non sono un Amleto, ma sono pigro, e non mi movo se non ho una buona
spinta dagli avvenimenti. Ma se mi movo, io vivo là entro e ci metto tutto me, o
scriva, o insegni, qualsiasi cosa io faccia. Piccola o grande, buona o cattiva, una
passione c’era in me che mi traeva seco. Ed io non l’analizzai più; le ubbidii.
La mattina giunsi a Candela, e trovai per avventura alla stazione un agente di
casa Ripandelli. Antichi legami, avevo con quella casa, fortificati da nuova amicizia
col mio Ettore, già mio collega, perfetto gentiluomo e perfetto amico. Non trovai
nessuno, ma quel bravo agente, saputo il mio nome e la mia intenzione, mi fece gli
onori di casa, e mi si offerse compagno al viaggio.
Fu spedito un corriere a Rocchetta di Sant’Antonio, la porta del mio collegio da
quel lato. Doveva annunziare il mio arrivo, e consegnare una mia lettera al Sindaco.
Chi fosse il Sindaco, non sapevo. Ma, conoscendo le piccole gelosie de’ paesi, è
stato sempre mio costume di indirizzarmi ai sindaci, come quelli che rappresentano
tutta la cittadinanza.
Scrivevo al Sindaco: «Vengo costà, diretto alla casa comunale, la casa di tutti, e
voglio parlare a tutti gli elettori, senza distinzione. Ne dia avviso specialmente all’arciprete Piccoli, mia vecchia conoscenza.»
Alcuni non credettero vera la lettera. Nelle lotte elettorali tra gli altri bei costumi
ci è falsar telegrammi e lettere. È proprio sua questa lettera? E mentre disputavano
fu annunziata la mia carrozza. Allora si posero a cavallo tutti, e mi vennero incontro.
Alla voltata mi fu mostrato quello spettacolo. Gridavano: Viva! Mi salutavano
con le mani, impazienti di stringer la mia. E la faccia mi raggiò, come se l’anima
fosse scesa lì.
Fra molta folla giunsi alla casa Comunale, e mi feci presentare gli elettori ad uno
ad uno. Strinsi la mano a parecchi, e tra gli altri a Ippolito e Piccoli, che passavano
per miei avversari.
Poi dissi così: «Saluto con viva commozione Rocchetta, la porta del mio collegio
nativo. Il luogo dove son nato è Morra Irpino; ma la mia patria politica si stende da
F. De Sanctis
Rocchetta la poetica
153
Rocchetta insino ad Aquilonia. Io vengo a rivendicare la patria mia. Dopo un oblio
di quattordici anni, voi miei concittadini, travagliati da lungo ed ostinato lavoro di
parecchi candidati, avete all’ultima ora improvvisata la mia candidatura, ed avete
intorno al mio nome inalberata la bandiera della moralità. Siate benedetti! E possa
questa bandiera esser principio di vita nuova! Voi mi avete data una maggioranza
notevole. Eppure quell’elezione gittò il lutto nell’anima mia. Io vi avevo telegrafato:
Bravi gli elettori che intorno candidatura improvvisata inalberarono bandiera moralità! Auguro a quella bandiera strepitosa vittoria domenica. La domenica venne, la
vittoria ci fu, e mi parve una sconfitta. Non mi sapevo dar ragione di tanto accanimento nella lotta, e del gran numero di voti contrari, e di certe proteste vergognose,
che gittavano il disonore su questo sfortunato collegio. E in verità vi dico, che se
quell’elezione fosse stata convalidata, con core sanguinante, ma deciso, vi avrei abbandonato. Ma benedissi quelle proteste che indussero Giunta e Camera a decretare la rinnovazione del ballottaggio. Era in questione l’onor mio, l’onore dei miei
elettori. Ed io dissi: fin’ora sono stato in Napoli spettatore quasi indifferente di
quella lotta. Non debbo io fare qualche cosa per questi elettori? Non mi conoscono,
sono involti in una rete di menzogne e di equivoci. Io ho pure il debito d’illuminarli, di dire la verità, di togliere ogni scusa agli uomini di mala fede. Ed eccomi qui in
mezzo a voi, miei cari concittadini. Ed ecco la verità. Il Collegio è diviso in due
partiti che lottano accanitamente, comuni contro comuni, cittadini contro cittadini, ed io non sono qui che il prestanome delle vostre collere e delle vostre divisioni
È così che volete rendere la patria a Francesco de Sanctis No, io non potrei essere
mai deputato di un partito per schiacciare un altro partito; non posso essere lo
scudo degli uni e il flagello degli altri; io voglio essere il deputato di tutti, voglio
lasciare nella mia patria una memoria benedetta da tutti. Mi volete davvero? Volete
che io passi gli ultimi miei anni in mezzo a voi? Stringete le destre, sia il mio nome
simbolo della vostra unione. Ed io sarò vostro per tutta la vita.»
La commozione fu grande. Vidi alcuni piangere; altri, avversari ieri, amici oggi,
stringersi le mani. Tutti applaudivano.
Ed io soggiunsi: «Signor Sindaco, ho pranzato a Candela, voi ci farete una cenetta,
e voglio fare io il padrone di casa, voglio invitare i signori Ippolito e Piccoli. Mangeremo lo stesso pane, berremo lo stesso vino, faremo un brindisi a Rocchetta unita e
prospera.»
Benissimo! benissimo! Tutti batterono le mani. Rocchetta non dimenticherà
più quel giorno.
Prese allora la parola l’Arciprete Piccoli. Giovine e asciutto di viso, occhi vivi,
avea nella fisionomia una cert’aria di finezza che non ti affida interamente. Rotto
agli affari, uso a destreggiarsi mescolato in lotte locali, rimpiccolito in quel paesello,
154
Verso Sud
D. Grittani
mi parve che in teatro più vasto sarebbe riuscito un buon diplomatico. Mi disse
molte gentilezze, con certi giri di frasi, che volevano dire: vedi, anch’io ho fatto i
miei studi.
Parlò poi Ippolito. Faccia austera, aria risoluta, parola semplice e diretta. Disse
che, dissipato ogni equivoco, Rocchetta sarebbe stata unanime e desiderava che
questo giorno fosse stato il preludio di unione sincera e durevole. Erano sentimenti
di buon cittadino. Gli strinsi la mano con effusione.
Notai un prete, molto attento al mio dire, ma sentii che non avevo fatto presa su
di lui. Era in quel viso non so che di oscuro e compresso. Più tardi troverò io la via
di quel cuore.
Dopo cena, mi coricai subito. Sentivo sonno. Ma che sonno e sonno! Mi passavano innanzi le ombre della giornata. Vedevo l’arciprete Piccoli a cavallo correre,
correre con quel suo cappello a tre pizzi, che mi parea sventolassero. Ferma, ferma.
E tutta la cavalcata dietro. Come galoppava bene quel prete! Il povero Alfonso, ch’è
il letterato del luogo, tirava forte le redini e faceva sì e no sul cavallo che poco lo
capiva. Un altro prete mi stava accanto, rubizzo e mezzo secolaresco, con aria sicura, su di un cavallo che andava passo passo in grave atteggiamento, come uno di
quei cavalli educati da Guillaume. Rocchetta si avvicinava, e quel gruppo di case in
quel chiaroscuro mi parevano uomini che m’attendessero e gridassero: Viva! Le
immagini si confusero: ero stanco e sentivo freddo. E mi accoccolavo, e mi strofinavo le gambe. Mi volsi dall’altro lato, non c’era verso di dormire. Ed ecco un suono
di chitarra giungermi all’orecchio, con un canto a cadenze e a ritornello, tra gran
folla di contadini, che battevano le mani e mi gridavano: Viva! Bravo Rocchetta,
diss’io. Mi accoglie a suon di poesia. E tesi l’orecchio, ma non potei raccapezzar
verbo di quella canzone. Lungo tempo cantarono e gridarono; forse quella brava
gente avrebbe voluto vedermi, sentirmi. Poi a poco poco si fe’ silenzio, ma quel
suono mi errava deliziosamente nell’orecchio. Io mi applaudiva di quell’accoglienza. E se tutti gli altri comuni rassomigliano a Rocchetta, chi potrà più separarsi da
questo collegio? Che potenza ha la parola, pensavo, la parola sincera e calda che
viene dal cuore! Io conquisterò con la mia parola tutto il collegio, e la mia conquista
sarà un beneficio, lenirà i costumi, unirà gli animi. Ma la voce del buon senso
rispondeva: credi tu di poter fare miracoli? Sei ben certo che tu, proprio tu hai
procurata questa riconciliazione? Qui la materia era già ben disposta. Sarà il medesimo a Lacedonia? E un qualcuno m’aveva già detto: a Lacedonia non sarà così.
Fantasticando, sofisticando, mi addormentai.
La mattina girai un po’il paese. Faccie allegre e sincere, bella e forte gioventù. A
destra, a sinistra, gruppi che mi salutavano. Volli vedere cantanti e sonatori, e dissi
loro che volevo battezzare quel paese così allegro, e lo chiamai Rocchetta la poetica.
F. De Sanctis
Rocchetta la poetica
155
E vennero le visite. Rividi la Luisa, a cui ero stato fidanzato giovanissimo, ora
madre felice di robusta e allegra prole. «E, buon per te - le dissi - che si fecero le
nozze. Che vita avresti avuta appresso a me! Prigioni, esili e miseria. Tu hai avuto
più giudizio di me, e ora sei ancora una rosa». Fui in casa Piccoli. E mi venne
incontro un altro prete, faccia chiara e aperta che faceva contrasto con l’aria arguta
del fratello arciprete. Vidi casa antica, illustrata dalle immagini degli antenati, guardata con sospetto da case nuove di gente laboriosa e industriosa. Feci altre visite.
Attento! dicevo tra me. Un tal prete Marchigiani non visitato mi divenne in Sessa
nemico inespugnabile. Eppure dimenticai uno, quel prete dal viso oscuro. E credo
che me ne volle. Credo.
Giunse il sindaco di Lacedonia con parecchi altri. Si fece una sola cavalcata e via
a Lacedonia. Io mi sentivo purificato. Venuto con un disegno non ben chiaro, e con
molta passione, alla vista dei miei concittadini non ci fu in me altro sentimento, che
di riacquistar la mia patria. Essi m’avevano già conquistato; dovevo io conquistar
loro, guadagnarmi i loro cuori. E la cosa mi pareva facile. Rocchetta la poetica aveva
trovato il motto dell’elezione. Nel partire, serrandosi intorno a me, gridavano:
«Tutti con tutti.»
Ed io, rapito, risposi: «E uno con tutti.»
Era realtà? Era poesia? In quel momento era realtà. Le mani si levarono. Pareva
un giuramento. Tutti ci sentivamo migliori.
[Tratto da Un viaggio elettorale, FRANCESCO DE SANCTIS, Napoli 1876]
157
Passaggio in ombra
Mariateresa Di Lascia
Mariateresa Di Lascia (Rocchetta Sant’Antonio 1954 - Roma 1994). Per la
prima volta la provincia di Foggia sale sul gradino più alto del Premio Strega,
e lo fa con un romanzo caratteriale ambientato in una terra arida di grandi
eventi ma non certo di emozioni. Passaggio in ombra, così come Il Gattopardo, pur essendo un’opera postuma s’impone nel più prestigioso premio letterario
italiano, e così come capitò per il memorabile romanzo di Giuseppe Tomasi di
Lampedusa (“cestinato” dalla Einaudi per volontà di Elio Vittorini) diviene un
bestseller dopo essere stato rifiutato dai più grandi editori italiani. Tranne che
da Gabriella D’Ina (direttore editoriale della Feltrinelli) che lo pubblica nel
gennaio del 1995, a pochi mesi dalla morte dell’autrice.
Nella casa dove sono rimasta, dopo che tutti se ne sono andati e finalmente si è
fatto silenzio, mi trascino pigra e impolverata con i miei vecchi vestiti addosso, e le
scatole arrampicate sui muri scoppiano di pezze prese nei mercatini sudati del venerdì. Ormai sono libera di non perderne neanche uno, e ho tutta la mattina per
stare in mezzo alle baracche a rovistare a piene mani, fra stoffe colorate e sporche
che qualcuno, per sempre sconosciuto, ha indossato tanto tempo fa.
(...) Da ragazza mi vestivano come un’attrice del cinema, e io guardavo il mondo con i miei occhi di pupa di pezza, lunghi e ricciuti come le ali, di una farfalla.
Nessuno si accorse mai che l’occhio destro era completamente cieco per una macchia che mi era venuta fin da bambina, contro la quale non hanno saputo fare nulla
neanche i medici che poi ho incontrato nella vita.
Avevo i capelli biondi e una testa leonina che si faceva guardare quando camminavo, immersa nei miei pensieri, e le macchine si fermavano bruscamente per non
travolgermi sulla strada. Ho vissuto in ogni città di questo paese e non ho potuto
fermarmi, inseguita com’ero sempre dai mille mostri atroci della mia fantasia. Sono
andata pellegrina di strada in strada, di casa in casa, cambiando pure i bar dove mi
158
Verso Sud
D. Grittani
piaceva prendere il caffè della mattina, perché non trovassero le mie tracce. Le
tracce dei miei racconti di principessa esule su questa terra senza anima, dove i miei
polmoni hanno trovato difficile perfino respirare. (...)
[Tratto da Passaggo in ombra, MARIATERESA DI LASCIA, Feltrinelli, Milano 1995]
PARTE VII
Bovino
161
Il vallo di Bovino
Pietro Paolo Parzanese
Pietro Paolo Parzanese (Ariano di Puglia 1809 - Napoli 1852). Poeta, docente
di teologia, autore delle opere Canzoni popolari (1841), Canti del Viaggianese
(1846) e della tragedia pubblicata postuma Sordello (1911). Abile traduttore
di Hugo, Byron e Lamartine, compose la prosa Il vallo di Bovino durante un
viaggio in Puglia compiuto nel 1845.
Tacito, solo, e senza compagnia, me ne portavano i tre sparuti ronzini, attraversando le pianure di Camporeale le quali si stendevano come un tappeto di verzura
un cotal poco gialleggiante; ed il sole inviandovi su qualche raggio furtivo, vi suscitava mille gradazioni di colori bellissimi. In questo prendemmo a discendere verso
la valle irrigata dal fiume Cervàro, e guardammo con un po’ di stizza rotti i canali e
dissipate le acque che mettevano nella fontana fabbricata per comandi di Re Carlo
III, in capo al ponte. Io non sono di quelli che vogliono scritte in latino eziandio le
tabelle de’ barbieri e de’ macellai: ma qualora mi viene sott’occhi una bella epigrafe
latina, scritta con attica semplicità, e che non sia una noiosa ripetizione delle solite
frasi imparate a scuola, me ne viene un gran piacere all’animo, e parmi di sentire
rinascere nel mio petto la dignità de’ nostri avi conquistatori del mondo.
E però non fu mai, che passassi d’innanzi alla fontana di Camporeale, che non
rileggessi la stupenda iscrizione di Mazzocchi uno di quegli uomini di cui il simile
non può impastarsi così presto. Che severità di stile! che nitor di parole! e come ne
balza chiaro e nettissimo il concetto! Fu un tempo, che mi adoperai a volgere in
italiano la epigrafe mazzocchiana: come vi sia riuscito non so; ma questo è utile
studio a chi volesse addestrarsi a scriverne delle italiane.
Questo cammino, o viandante,
innanzi per lo stroppio degli animali
immeritatamente detto
CAMPO-REALE
162
Verso Sud
D. Grittani
CARLO RE DELLE SICILIE: P. A. F.
PROVVEDENDO ORA A TANTO DISAGIO.
APPIANATO IL SENTIERO
ED AGGIUNTE LE DELIZIE DI UN’ACQUA PERENNE,
IL. LUOGO AL NOME ACCONCIÒ
A. D. MDCCXXXVII.
In sul finire della discesa, e propriarnente dove il fiume facendo gomito divide
Principato Ulteriore da Capitanata, stavasene diritto e immobile, come una statua,
un giovinotto vestito con uno di quei camicini, che oggi dì si usano per viaggio da’
forestieri, siano signori baroni, siano venditori di coperte o di zolfanelli. All’avvicinarsi della nostra carrozza si appressò anch’egli, e in buono italiano disse al cocchiere:
- Potrei avere un posto in carrozza? - Signore non posso accontentarvi; dacché dentro non si vuol compagnia: se
volete acconciarvi ... - Sulla tua seggiola: tanto meglio, chè almeno potrò fumare senza recar fastidio
a nessuno: e così dicendo, già saltava lesto e svelto per adagiarsi in sul di fuori: ma io
non glielo consentii, e lo pregai volesse entrare in carrozza.
Era un buon francese, il quale per i suoi negozi dimorava da parecchi anni nel
nostro regno, ed allora viaggiava alla volta di Foggia. un po a piedi un po’ in vettura
come gli tornava più opportuno; ma ciò solamente per giovanile bizzaria, a quanto
mi parve; perchè la borsa aveva piena di bei gruzzoletti di oro e di argento.
Non passarono tre minuti, ed eravamo già entrati di uno in altro ragionare, con
quella disinvolta speditezza ch’è tutta propria de’ Francesi. Nelle lettere e nella storia
mezzanamente informato, I’italiano parlava con qualche nettezza; ne’ modi pieno
di urbanità e di cortesia. Non essendo letterato di professione, nè viaggiatore poeta,
di noi e delle nostre cose parlava senza disprezzo: e la bontà del nostro ingegno
confessava non temer paragone, nè per nemico volger di tempi potersi arrugginire.
Ascoltandolo così parlare a me venivasi allargando il cuore, e se non fosse stato
segno di troppa dimestichezza, me lo avrei abbracciato e baciato quel buon francese. Quanto diverso da molti suoi concittadini, i quali in versi e in prosa vomitano
ogni mille bestemmie contro il nostro paese! O Esopo, e dove te ne stai, che non
vieni a ricantare in faccia a costoro la favola dell’asino che tira un calcio al leone?
Intanto che io così fantasticava e guardava la nebbia che lenta levavasi dal Cervàro,
come fumo che sbocchi dal fondo di una fomace; il Francese con grande curiosità
stavasi a sbirciare per entro una lente i due villaggi di Savignano, e di Greci, che
l’uno contro l’altro si guardano dalla cima di due monti ripidi, scoscesi, selvaggi.
Sono come due castelli fabbricati a guardia dell’ingresso che mette in quella lunga
gola chiamata il Vallo. Su per una viottola che serpeggia un lato del monte, a sinistra
P.P. Parzanese
Il vallo di Bovino
163
tutta scheggiata e pietrosa, salivano in fila, come le grù, una quindicina di fanciulle,
recandosi ciascuna sulle spalle accomodato a due funi un fascio di legna: e con
molta armonia cantavano a coro una canzone, che nè io intendeva, nè il mio compagno.
«Udite, come vanno di accordo quelle voci, e quanta passione si chiude in quel
canto: ma per tendere che io faccia l’orecchio non ne capisco una parola: è pur
difficile la vostra lingua!»
«Voi v’ingannate. Signore’ io gli risposi; giacchè le parole di quel canto non sono
mica italiane; e per quanta pratica io abbia di quella buona gente, non mi è riuscito
giammai di impararne la lingua!»
«Se non vi spiegate più chiaro’ è come se udissi il borbogliare di un fiasco.»
«Eppure la cosa è naturalissima. Gli abitanti di quella terra situata lassù a sinistra
non sono che una colonia di albanesi, venuti per quanto si dice a combattere contro
i vostri avi, e capitanati dal celebre Scanderberg; or come potremmo intenderne la
lingua, ch’è tuttora quella de’ loro padri?»
«Ora capisco: e mi ricordo di averne udito a parlare anco in Napoli, dove mi han
detto delle cose curiose intorno a’ costumi ed all’indole di cotesti albanesi italianizzati.»
«Ma di questi costumi molto già si è perduto, e fra pochi anni, non rimarrà forse
neppur memoria delle usanze superstiziose ed un po’ selvagge di questo popolo.
Nella Basilicata sono molte terre di albanesi, poste qual dentro le gole de’ monti, e
quali presso i boschi: contrabbandieri e banditi ferocissimi furono ne’ tempi passati, e molte istorie si raccontano di loro, piene di ferocia e di sangue. Guardate
quell’uomo sulla porta della taverna, che ora mi fa di cappello: consideratene l’aspetto:
quegli è un albanese. Bruna la carnagione, neri i capelli, fiera la guardatura, tumido
il labbro; di questa stampa son quasi tutti gli albanesi, risoluti e di cuore. Gelosi
delle loro donne, fino a lasciarsi per esse condurre a feroci delitti: ospitali sì, che un
forestiero è sempre il ben venuto, e siede con loro presso il focolare come se fosse
della famiglia. Usano come bevanda pregiata un vino generoso entro cui sono bolliti aromi forti ed inebbrianti; e pel forestiero ve ne ha sempre la sua tazza: lo chiamano
vino caldo (ingroght).
Nelle nozze e ne’ mortori hanno particolari cerimonie, ed usanze tradizionali.
Alla nuova sposa la madre del marito presenta un pane, una pentola di olio, e forse
anche la conocchia; nel che vuole raffigurarsi la cura delle domestiche faccende,
dalla suocera ceduta alla sua giovine nuora, come per riposarsi nella vecchiezza. Nè
il fidanzato recasi la sposa a casa senza aversela prima conquistata; perchè gli è
mestieri rapirla di mezzo ad un cerchio di fanciulle, che tenendosi pcr mano le
danzano attorno, e la difendono di tutta forza; onde spesso avvienc che qualche
povero giovine nc riporti delle busse e delle ferite.
164
Verso Sud
D. Grittani
Tra le donne ve ne ha delle belle con occhi neri pieni di baldanza una bellezza
come quella delle arabe, se ci dicono il vero i viaggiatori. Amano il canto, e la voce
hanno limpida e passionata. In una canzone di amore che mi venne traducendo
parola per parola un mio amico albanese, si vede chiaro, che in questa gente anche
la più delicata passione è senza sguaiataggine, e piena di vero affetto. Sono due
fidanzati che cantano a vicenda. Udite, se vi piace:
«La donna mia è tra le belle bella:
Nero l’occhio ed il crin
La vidi all’alba e mi parea la stella
Che si affaccia al mattin.
- L’amico mio è bello e giovinetto
Come un grappolo di or.
A vederlo appoggiato al suo schiappetto
Sentii tremarmi il cor.
La donna mia va sola alla fontana
Che sta in fondo al burron:
Da una macchia mentr’ella si allontana,
io ne odo la canzon.
L’amico mio va solo alla foresta».
[Tratto da Un viaggio di dieci giorni in Puglia, incluso nell’opera Poliorama pittoresco, Anno X, PIETRO
PAOLO PARZANESE, Napoli 1845]
PARTE VIII
Cerignola
167
Lettera da Cerignola
Justus Tommasini
Viaggiatore tedesco che attraversò la Puglia verso la prima metà dell’Ottocento,
Tommasini descrisse l’esperienza del suo faticoso viaggio in un suggestivo diario
dal quale abbiamo estratto questa lettera scritta da Cerignola nell’autunno del
1825.
Cerignola, 26 ottobre 1825
Anche la strada che da Trani porta a Barletta costeggia il mare. Fra le due località
si vedono meno campi coltivati di quanti non se ne vedano in genere sulla costa.
Barletta è una città dall’aspetto un po’ antico, con case alte, costruite con lastroni di
pietra calcarea. Le opere di fortificazione che la circondano sono di scarsa importanza. Fuori della città si erge un castello di modeste proporzioni. Il porto ha un
aspetto strano. Il molo, infatti, si incunea nel mare sino all’altezza di un secondo
molo trasversale fonnato in parte da una roccia naturale, a ridosso del quale si
trovava un numero infinito di brigantini. Era da Napoli che non ne vedevo tanti in
una volta. Da questo molo si ha uno scorcio stupendo su tutta la costa, ma soprattutto sul Gargano che si protende a sinistra verso il mare. Per godermi il panorama
non mi è certo mancato il tempo. Mi avevano detto, infatti, che, per ritirare il mio
passaporto, non essendosi il sottintendente ancora alzato, sarei dovuto ripassare
dopo due o tre ore.
Avrei volentieri visitato le rovine di Canne che si trovano non lontano da qui,
non tanto per le rovine in sé che saranno sicuramente di epoca posteriore e di scarso
interesse, ma per la particolare configurazione del Canne della Battaglia. Il passaporto rilasciatomi da quei maledetti organi di polizia mi vieta, però, ogni deviazione dall’itinerario prestabilito.
Da Barletta sino all’Ofanto la strada costeggia il mare. Dopo avere attraversato
il fiume su un lungo ponte di legno. ci s’inoltra verso l’interno dove continua la
serie di masserie e di terreni coltivabili. San Cassano, un piccolo centro abitato, si
168
Verso Sud
D. Grittani
trova a poca distanza dalla strada; a sinistra, dove incominciano a delinearsi i contorni delle prime montagne. Si scorge, in cima ad una roccia, Castel del Monte, e,
a destra, verso il mare, l’importante Casale della Trinità e, nelle prossimità, le saline.
La campagna è ora meno coltivata con delle masserie sparse qua e là mentre la
carrozzabile, come già nel tratto Taranto-Lecce, a tratti è interrotta.
Cerignola è una cittadina passabile con una locanda piú che discreta. L’oste,
napoletano di nascita, mi ha chiesto i numeri del lotto, che gli ho dato, e, per
ricompensanrmi, mi ha offerto una bottiglia di ottimo vino che, come mi è stato
subito precisato, non sarebbe stata messa sul mio conto. Auguro a quel galantuomo
che la sua bottiglia gli ritorni centuplicata, ma, quand’anche vincesse, è certo che
non ne avrò alcun merito.
Verso sera, provenienti da Bari, sopraggiunsero due cavalieri che subito riconobbero in me la persona di cui avevano già sentito parlare per via dell’arresto. Il
primo cavaliere, un uomo un po’ grossolano, eccessivamente premuroso e gentile’
mi dà l’indirizzo di una locanda di Foggia, la cittadina dove sono diretto, dove
pernottare e si rallegra sin d’ora del piacere che avrà di rivedermi. È chiaro che ha in
mente qualcosa, ma non sono così bravo da indovinarlo.
[Lettera di Justus Tommasini tratta da Viaggiatori tedeschi in Puglia nell’Ottocento, a cura di TEODORO
SCAMARDI, Schena, Fasano 1992]
169
Da Cerignola a Canne della Battaglia
Friedrich Leopold Stolberg
Friedrich Leopold Stolberg (Bramstedt 1750 - Sondermühlen 1819). Apprezzato poeta tedesco, dopo la conversione al cattolicesimo Stolberg compose il poema apocalittico L’avvenire (1781) e il saggio Storia della religione di Cristo
(1806-18). Sul finire del Settecento visitò a lungo la Puglia, regione dalla
quale restò suggestionato al punto da ambientarvi gran parte dell’opera Viaggio in Germania, Svizzera, Italia e Sicilia (1822).
Barletta, 4 maggio 1792
(...) A Cerignola, cittadina ben costruita, si rinviene ancora una pietra miliare
romana con un’iscrizione del tempo di Traiano.
Nella locanda si radunarono molte persone e, secondo l’usanza locale, anche la
nostra stanza venne invasa dalla gente che ci guardava a bocca aperta come se fossimo delle marmotte. Ci ponevano domande sulla nostra terra natia, sul nostro viaggio e poi parlavano del loro paese, del campo di battaglia di Canne, delle antichità
della zona. Il nostro gentile oste mandò a chiamare un certo Signor Giovanni
Danielle, un giovanotto molto istruito che era ben informato e della regione e degli
scrittori antichi. Con grande calore ci parlò del suo conterraneo Orazio, la cui città
Venusium (ora Venosa) dista da Cerignola soltanto 18 miglia. Da lui appresi che
l’Atabulus, che secondo Orazio dissecca i monti della Puglia, sarebbe un vento
d’oriente scottante, chiamato ora dai pugliesi Altino. Egli ci fece vedere, da un colle,
il golfo di Manfredonia e il Monte S. Angelo. Con il tempo limpido si dovrebbe
scorgere anche Manfredonia e i resti dell’antica Arpi, fondata da Diomede. Non
lontana da Cerignola si trovava l’antica Salapia, le cui rovine conservano il nome
Salpe. Don Giovanni possedeva una casa di campagna proprio vicino a Salpe, dove
dei lavoratori, mentre zappavano la terra, alcuni anni fa, rinvennero un vaso antico
di grandi dimensioni, la cui imboccatura era sigillata accuratamente con piombo.
Nella speranza di trovarvi del denaro, l’aprirono ma vi era soltanto dell’acqua molto
170
Verso Sud
D. Grittani
profumata. È usanza in tutta l’Italia del Sud e Sicilia di chiamare le persone con il
loro nome di battesimo. Ma insieme al nome non si usa dire Signore, ma Don. Alla
stessa maniera degli inglesi che mettono Sir davanti al nome del baronetto e del
Cavaliere: Sir Isac, come Don Giovanni Don Giuseppe ecc.
Colmi di delusioni per essersi ingannati, capovolsero il vaso, versando questa
preziosa acqua di nardo, che diffuse, per ben tre giorni,un profumo gradevole nei
dintorni. Si sa bene quale importanza attribuissero gli orientali, ma anche i greci e
i romani, a quest’acqua di nardo.
Durante la nostra passeggiata si era sparsa la voce della presenza di alcuni strani
forestieri, e così si unì a noi un cospicuo seguito di curiosi. Alcuni ci seguirono
persino nella stanza. L’oste pregò Iacobi di annotargli i nostri nomi con relativi
indirizzi, in modo da potersi, per sua tranquillità, informarsi per lettera se eravamo
ben rientrati.
Don Giovanni ci ha accompagnato oggi a Canosa e a Canne, divenuta molto
famosa per le vicende dei romani. Attraversammo il fiume Ofanto, l’Aufidus degli
antichi. Già in questa stagione si abbassa notevolmente e a metà estate dovrebbe
trasformare il suo largo letto di ciottoli in un ruscello; però in autunno e in inverno
diventa impetuoso, meritandosi l’appellativo longe sonans, datogli da Orazio (IV,
od.), ancora talvolta dovrebbe inondare i campi come al tempo dei poeta, che
paragona questa corrente al giovane guerriero Claudius, figliastro di Augusto:
Sic tauriformis volvitur Aufidus qui regna Dauni praefluit apuli, cum saevit
horrendamque cultis diluviem meditatur agris.
La Canosa odierna occupa soltanto una parte dell’antica città di cui si vedono
ancora alcune tombe, una porta e i resti delle mura. Volentieri avremmo rintracciato la tomba della buona Busa, una nobile matrona che, dopo la battaglia di Canne,
aveva rifornito generosamente di cereali, vestiti e denaro quattromila profughi romani, ai quali i cittadini di Canosa avevano dato alloggio, e per questo essa fu
elogiata pubblicamente dal Senato (Tit. Liv. XXII c. 52). Su consiglio di Orazio,
avevamo portato con noi del pane da Cerignola e avevamo fatto molto bene. Nam
Canusi lapidosus. Il pane di Canosa è in effetti ancora oggi duro come la pietra e
peggiore di quant’altro io abbia trovato in Italia, dove in molti luoghi il pane è
cattivo. A buon diritto si attribuisce ciò alle macine dei mulini che a Canosa sono
troppo morbide. Ma com’è mai possibile che gli abitanti da oltre diciotto secoli non
abbiano pensato a procurarsi macine più idonee?
Nella chiesa principale, un edificio gotico per il resto insignificante, vi sono sei
colonne di verde antico. Vicino a questa chiesa è sepolto il Cavaliere Boemondo,
reso immortale dalla Gerusalemme Liberata di Tasso. Con Livio alla mano ammirammo il campo di battaglia di Canne. In quale maniera la visione di quei luoghi fa
F.L. Stolberg
Da Cerignola a Canne della Battaglia
171
rivivere le vicende del passato, dando forma e colore alle loro ombre errabonde!
La descrizione di Livio è eccellente! Potremo chiaramente vedere dove si trovava
Annibale che schierava l’ala sinistra verso l’Aufidus e l’ala destra sulle dune, dalla
parte del mare. E come i romani avevano in faccia il vento di Sud-ovest che spirava
dal monte Volture (ventum Volturum) e, nello stesso tempo, il sole del pomeriggio.
La battaglia si svolse nel periodo della vendemmia. Come allora, anche adesso il
sole scottante del pomeriggio ci colpiva e il vento di Sud-ovest soffiava dal Volturno
sulla pianura sabbiosa, sollevando con sé polvere.
Non si è voluto comprendere come mai i romani fuggitivi abbiano cercato di
salvarsi verso Canosa e non attraverso il fiume ! L’Ofanto infatti d’estate si abbassa
sempre più in modo da poter essere attraversato; anche una parte della legione
romana, che era accampata sull’altro lato, era passata all’attacco attraversando il
fiume. Ma non si tiene conto però che, nella ritirata generale, i fuggiaschi si riversarono in tutte le direzioni e che soltanto un piccolo manipolo, a cui forse l’ottima
cavalleria cartaginese aveva tagliato ogni via di salvezza, era riuscita a rifugiarsi a
Canosa. Né si può escludere che lo stesso Annibale abbia gridato al suo esercito
vincitore: fermatevi, risparmiate i vinti!
Sotto una duna scorre una sorgente rumorosa ricca d’acqua. La tradizione vuole
che Paulus Emilius, mentre le sue ferite lo dissanguavano, si fosse qui dissetato
prima di morire.
Questa intera regione è molto brulla. Vicino a Barletta si trovano però magnifici
campi di grano e vigneti, le cui viti non si tirano su più di un cubito. Si sostiene che
in questa maniera il vino maturi nel migliore dei modi, poiché il calore della terra,
attraverso il terreno roccioso, penetra meglio negli acini dei grappoli. Il vino di
questa zona è un rosso forte e focoso. Dato che si vende a buon prezzo, come da noi
la birra, il vino era diventato per gli svizzeri, che tempo fa occupavano Barletta,
causa di danno e pericolo per la quantità smisurata da loro trangugiata. (...)
[Lettera sessantanovesima di Friedrich Leopold Stolberg tratta da Viaggio in Germania, Svizzera, Italia e
Sicilia, Amburgo 1822; inclusa nella raccolta Viaggiatori in Puglia dalle origini alla fine dell’Ottocento, a cura
di MARIA LUISA HERRMANN e ANGELO SEMERARO, Schena, Fasano 1990]
173
Al capezzale di mia madre
Nicola Zingarelli
Nicola Zingarelli (Cerignola 1860 - Torino 1935). L’autore del primo Vocabolario della lingua italiana, pubblicato nel 1922 e tutt’oggi strumento imprescindibile per la conoscenza del nostro lessico, in questa lettera confessa al suo
amico Michele Barbi come le preoccupanti condizioni di salute della madre lo
riportino, di tanto in tanto, nella natìa Cerignola.
Napoli, Sabato Santo 24 marzo 1894
Carissimo,
tu ti sarai meravigliato del mio silenzio, ma sappi che ho avuto mia madre in
pericolo di vita, e ho dovuto accorrere al suo capezzale, laggiù a Cerignola, dove
sono rimasto sette giorni. Ti manderò gli articoli subitissimo. Desideravo da te
l’indice delle Prose o Operette Morali del Leopardi pubblicate costà dal Piatti il 1834.
Il numero mancante della I serie del Bullettino è l’ottavo. Ma avendo ricevuto sino
all’undicesimo, non so se dopo ne sia uscito qualche altro. Presi l’impegno di fare
una edizione delle Op. Mor. del Leopardi per le scuole, e son quasi al termine. Ma
è stato un lavoro faticosissimo per me, che son avvezzo a fare le cose senza leggerezza. Buona Pasqua e credimi aff. mo amico
Zingarelli
NA,
[Lettera di Nicola Zingarelli tratta da Carteggi di Nicola Zingarelli, a cura di CARMEN PRENCIPE DI DONpubblicato con gli auspici della Società Dauna di Cultura, Apulia Editrice, Foggia 1979]
175
Ho ingannato persino il Sindaco
Pietro Mascagni
Pietro Mascagni (Livorno 1863 - Roma 1945). Il compositore, tra i maggiori
interpreti del verismo musicale italiano, dimorò a Cerignola per almeno cinque
anni, dal 1887 al 1892, periodo durante cui diresse la Compagnia Luigi Maresca
e compose - o quantomeno ultimò - le opere musicali Cavalleria Rusticana,
Amico Fritz, Rantau, Guglielmo Ratcliff e Silvano. In queste due lettere
scritte a Vittorio Gianfranceschi, il maestro toscano descrive la sua permanenza
nella cittadina dauna e la grande gioia dovuta alla nascita del figlio, avvenuta
proprio a Cerignola. Avvenimento che per qualche mese fu costretto a nascondere, poiché non ancora sposato con Lina Carbognani (la compagna parmigiana
con la quale Mascagni condivise la propria abitazione cerignolana).
17 febbraio 1887, Cerignola
«Mi scritturai a Napoli con una compagnia d’infimo ordine, con una paga molto
misera. Siamo stati oltre Napoli, a Benevento, a Foggia e poi qui a Cerignola. Io mi
ero scritturato perché a Napoli non potevo più vivere (ho lasciato un monte di
debitucci che vado pagando giornalmente, privandomi di un sigaro) [e sappiamo
che il sigaro fu un compagno inseparabile per il musicista] - e fino a quindi giorni fa
ci è stata sempre la speranza di venire al Fossati» [un teatro che a Milano allestiva
spettacoli di operette di ottimo livello]. «Adesso è svanita questa speranza e la compagnia andrà in Sicilia, dico andrà perché è pure probabile che la Compagnia si
sciolga, qui a Cerignola abbiamo fatto bruttissimi affari e regna un grande malumore. Se la compagnia si scioglie, io mi trovo a morire di fame. Stando qui a
Cerignola, ho incontrato molta simpatia in tutta la cittadinanza e parecchi signori
mi hanno domandato se sarei restato qui a dare lezioni di pianoforte».
176
Verso Sud
D. Grittani
10 luglio 1887, Cerignola
«Il periodo più brutto era per me il battesimo del bambino ed anche quello ho
superato in un modo provvidenziale. Si trattava di ingannare persino il Sindaco,
che è il mio più forte protettore e che mi ha affidato le figlie… Cerignola è un paese
antico, bigotto, superstizioso, e Dio ne guardi se si sapesse che la donna che sta con
me non è mia moglie!». Ma come aveva sistemato il Maestro la sua situazione di
coppia illegale, in quel tempo davvero pericolosa per una carriera? È proprio vero
che un buon amico si trova sempre e in questo caso sarà un «impiegato municipale,
addetto alle nascite, ai matrimoni ed alle morti», questo giovane si è mostrato tanto
mio amico che io ho voluto che fosse compare del bambino; io gli ho detto tutto, e
ho pensato a regolare le cose in maniera che nessuno ha potuto dubitare della
nostra legittimità di marito e moglie. Però per mille ragioni ho promesso a me
stesso di sposare in realtà questa donna che merita tutto.
[Lettere di Pietro Mascagni tratte da Mascagni ritrovato 1863/1945: l’uomo, il musicista, Edizioni Sonzogno, Milano 1995]
PARTE IX
Manfredonia
179
L’angelo di Manfredonia
Norman Douglas
Norman Douglas (Tilquihillie, Scozia 1868 - Capri 1952). Scrittore inglese,
visse a lungo nell’Italia meridionale, terra da cui trasse ispirazione per i suoi
romanzi Terra di sirene (1911), Vento del Sud (1917), Vecchia Calabria
(1915) e Ultima messe (1946). La prosa che abbiamo scelto per questa antologia gli fu suggerita da un viaggio in carrozza compiuto da Manfredonia a
Monte Sant’Angelo nel 1915.
Chiunque guardi una carta geografica del promontorio del Gargano vedrà che
è cosparso di nomi greci di persone e luoghi, Matteo, Marco, Nicandro, Onofrio,
Pirgiano e così via. Non c’è da stupirsene, perché queste regioni orientali erano in
contatto con Costantinopoli sin dai tempi antichi e lo spirito di Bisanzio ancor le
sovrasta. Fu su questa montagna che l’Arcangelo Michele, durante la sua prima
apparizione nell’Europa occidentale, si degnò di comparire a un vescovo greco di
Siponto di nome Laurenzio; e sempre, da allora, una caverna, santificata dalla presenza di questo alato messaggero di Dio, è stata la meta di milioni di pellegrini.
La roccaforte di Sant’Angelo, metropoli del culto europeo degli angeli, è sorta
attorno a questa grotta devota e onorata; nei giorni di sole le sue case sono chiaramente visibili da Manfredonia. Coloro che desiderino offrire la propria devozione
al santuario non possono far meglio che portarsi appresso Gregorovius, come cicerone e mistagogo.
Invano attesi una bella giornata per scalare le alture. Infine decisi di farla finita e
andarvi, con qualsiasi tempo. Fu convocato un vetturino e le trattative per partire il
mattino successivo furono portate a termine. Sessantacinque franchi, cominciò a
dirmi, era il prezzo pagato da un inglese l’anno precedente per una visita di un
giorno al sacro monte. Forse è anche vero, gli stranieri sono pronti a far qualsiasi
cosa, in Italia. O forse me lo disse solo per «incoraggiarmi». Ma oggidì è piuttosto
difficile riuscire a incoraggiarmi. Ricordai all’uomo che c’era un servizio di diligen-
180
Verso Sud
D. Grittani
ze che faceva andata e ritorno per un franco e mezzo e già quel prezzo mi sembrava
piuttosto esoso. Avevo visto tante grotte sante in vita mia! E, in fin dei conti, chi era
questo San Michele? Il Padreterno, per caso? Nulla del genere: solo un angelo qualunque. Ne avevamo a dozzine in Inghilterra. Fortunatamente, soggiunsi, mi era
già stata fatta l’offerta di unirmi a un gruppo privato per raggiungere la vetta in
carrozza, una quindicina di persone dietro un minuscolo cavallino. E questa, come
lui ben sapeva, era una spesa di pochi centesimi. E anche in tal caso, il cielo minaccioso... Sì, ripensandoci, forse era più saggio rimandare del tutto l’escursione. Un’altra
volta, il cielo permettendo. Accettava un sigaro a ricompensa del suo disturbo per
esser venuto fin qui?
Con rapidità stupefacente e travolgente le sue pretese scesero a otto franchi. Fu
il tabacco a compiere il miracolo. Un signore «che dà qualcosa in cambio di niente»
(questa era la sua logica) – be’... non si può mai sapere che cosa si può riuscire a
ricavarne. Si accetti il prezzo e si corra il rischio! Affidò il sigaro alla tasca del suo
panciotto per fumarselo dopo cena e se ne andò, vinto ma raggiante, entro di sé, di
accesa aspettativa.
Quando aprii gli scuri mi si parò dinanzi agli occhi una mattinata orribile:
raffiche di pioggia e nevischio battevano contro i vetri. Ma non importava. La
carrozza era ferma da basso e dopo la detestabile parvenza di prima colazione che è
quanto basta per volgere i pensieri dell’uomo più equilibrato al suicidio e al delitto
– quando impareranno i meridionali a mangiare una prima colazione decorosa a
un’ora decorosa? – ci mettemmo in viaggio. Il sol faceva apparizioni di una brevità
irritante, per lasciarsi subito dopo inghiottire da un’oscurità pesante e, del percorso
che facevamo, vidi solo il vecchio tracciato sassoso che taglia qua e là le ventun
svolte della nuova strada carrozzabile. Cercai di raffigurarmi i prìncipi normanni,
gli imperatori, i pontefici e altri diecimila pellegrini celebri che si arrampicavano
per quei pendii rocciosi – scalzi – in giornate come questa. Dovette essere messa a
dura prova persino la pazienza di San Francesco d’Assisi che compiva il pellegrinaggio con loro e che, secondo Pontano, fece qui, come era su abitudine, un piccolo
miracolo, en passant.
Dopo circa tre ore di viaggio raggiungemmo la città di Sant’Angelo. A quell’altezza di 800 metri faceva un freddo pungente. Seguendo il consiglio del vetturino
scesi subito al santuario; secondo lui là sotto avrebbe dovuto far caldo. La grande
festività dell’8 maggio era passata, ma torme di fedeli continuavano ad arrivare; e
avevano un aspetto pittorescamente pagano, negli indumenti sudici e cenciosi, con
i bordoni sormontati da rami di pino e con la bisaccia.
Nelle massicce porte di bronzo della cappella, che erano state fatte a
Costantinopoli nel 1076 per un ricco cittadino di Amalfi, sono infilati anelli metal-
N. Douglas
L’angelo di Manfredonia
181
lici, che il vero pellegrino deve percuotere furiosamente per attirare l’attenzione
delle potenze divine sulla sua visita e che, nella perorazione, bisogna ancora una
volta battere con la massima forza affinché il compimento dell’atto di adorazione
possa essere debitamente segnalato: a giudicare dal frastuono la divinità deve essere
assai dura d’orecchio. A volte esse sono stranamente sorde.
I ventiquattro pannelli di queste porte sono ingenuamente incrostati con raffigurazioni smaltate di apparizioni di angeli assai svariati: alcune di esse recano iscrizioni e la seguente è degna di nota:
«Prego e imploro i preti di San Michele di pulire questi cancelli una volta l’anno
come ho ora mostrato loro, affinché abbiano sempre a essere lindi e lucenti». La
raccomandazione evidentemente non è stata eseguita da un bel po’ di anni.
Entrati dal portale si scende una lunga scalinata in mezzo a uno sciame fitto di
straccioni devoti e maleodoranti, sino a un’ampia caverna, la dimora dell’arcangelo.
È un’anfrattuosità naturale nella roccia, illuminata da candele. Qui la sacra funzione procede con accompagnamento di vivaci arie d’opera eseguite da un organo
asmatico; l’acqua sgocciola senza sosta dalla volta rocciosa sulle teste devote dei
fedeli inginocchiati, che coprono il pavimento, con candele accese in mano, dondolandosi estatici e biascicando e salmodiando. Una scena veramente irreale. E il
vetturino aveva indovinato, quanto alla differenza di temperatura. Fa caldo laggiù,
un caldo umido come in una serra. Ma l’aroma non può essere descritto come
un’emanazione floreale: il bouquet di tredici secoli di pellegrini sporchi e sudati.
«Terribilis est locus iste» dice un’iscrizione all’ingresso del santuario. Verissimo. In
posti del genere si capiscono le usanze, e forse l’origine, dell’incenso.
Ciò nonostante mi ci soffermai e i miei pensieri tornarono all’Oriente, da dove
sono derivate queste pratiche misteriose. Ma una folla orientale di fedeli non mi
commuove come queste masse europee di fanatici; non mi persuado mai a considerare dei pellegrini così appassionati senza una certa dose di inquietudine. Date loro
il nuovo Messia, e tutta la nostra arte e le nostre conoscenze faticosamente accumulate, tutto ciò che riconcilia l’uomo civile con l’esistenza terrena, viene buttato ai
quattro venti. La società può trattare con i suoi criminali, ma sono gli entusiasti
appassionati come quegli altri che costituiscono la minaccia alla sua stabilità. Riflessioni amare: ma il viaggio in salita aveva raggelato la mia solidarietà umana; e inoltre, quella cosiddetta prima colazione...
Mi lasciai alle spalle quella torma strisciante. Salii i gradini, e approfittando di
un raggio di sole, mi arrampicai là dove, sopra la città, sorge un’orgogliosa rovina
aerea nota come il Castello del Gigante. Su una delle sue pietre è incisa la data 1491
– una certa Regina di Napoli, si dice, fu uccisa tra quelle mura ora crollanti. Questi
sovrani furono uccisi in tanti castelli che ci si chiede come abbiano mai trovato il
182
Verso Sud
D. Grittani
tempo di vivere, se pure per poco; la costruzione è un rudere e il suo portale è
chiuso; ma nemmeno provavo un gran desiderio, in quel gelido soffiar del vento, di
perlustrare l’interno privo di tetto. Potei tuttavia osservare che questa assurdità feudale reca un numero, come ogni casa abitata di Sant’Angelo, il numero 3.
Questo è l’ultimo spasso del governo italiano: rinumerare le abitazioni di tutto il
regno, e non solo le abitazioni occupate da esseri umani, ma mura, vecchie rovine,
stalle, chiese, anche un occasionale stipite o una finestra. Si divertono un mondo
con questo gioco, che promette di continuare a divertirli per un periodo di tempo
illimitato – in effetti finché non si inventerà una nuova moda. Nel frattempo, fintanto
che questa mania perdura, mezzo milione di funzionari dallo sguardo allegro, ardenti di giovanile vigore, vengono assunti per affiggere questi numeri, che poi segnano con fare sbrigativo su una quantità dieci volte maggiore di agende, e registrano in migliaia di archivi municipali, in tutto il paese, per scopi amministrativi imperscrutabili ma di enorme importanza. «Abbiamo gli impiegati», come mi disse
una volta un deputato romano, «e pertanto essi debbono pur trovare qualche cosa
da fare». In complesso, quel giorno il tempo mi tolse l’appetito della ricerca e dell’esplorazione. Sulla strada che conduceva al castello ebbi occasione di ammirare la
bella torre e di rimpiangere che, a prima vista, non esistesse alcun punto vantaggioso
dal quale la si potesse rimirare per benino; fui anche colpito dal numero di piccole
raffigurazioni di San Michele, di un genere ultra giovanile; e infine, da certi vegliardi
del luogo, ben sbarbati. Questi venerandi e decorativi briganti – perché tali sarebbero stati fino a pochi anni prima – se ne stavano ora pacifici sulla soglia di casa con
addosso un mantello di pesante lana marrone, che donava loro assai, portato a mo’
di burbus. L’indumento mi interessava, poteva essere un’eredità degli arabi che avevano dominato su questa regione per qualche tempo, spogliando il sacro santuario
e lasciando che il loro ricordo fosse perpetuato dall’attiguo Monte Saraceno. L’indumento, d’altra parte, potrebbe esser venuto dalla Grecia: è raffigurato sulle statuette
di Tanagra ed è portato dai moderni pastori greci. Anche da quelli sardi... Potrebbe
anche essere una forma primordiale di abbigliamento dell’umanità.
La vista da questo castello deve essere stupenda nelle giornate limpide. Mentre
me ne stavo lì, guardavo l’entroterra e ricordavo tutti i luoghi che avevo avuto
intenzione di visitare – Vieste e Lesina con il suo lago, e la Selva Umbra, il cui stesso
nome suggerisce il pensiero di radure rugiadose; quand’erano remote sotto nuvole
così scoraggianti! Non le vedrò mai. La primavera esita a sorridere su questi gelidi
altipiani; siamo ancora nella morsa dell’inverno.
Aut aquilonibus
Querceta Gargani laborant
Et follis viduantur orni.
N. Douglas
L’angelo di Manfredonia
183
Così cantava il vecchio Orazio, dei venti garganici. Scrutai l’orizzonte, alla ricerca del suo Monte Vulture, ma tutta quella zona era ammantata in una grigia cortina
di vapore: solo lo Stagno Salso – laghetto salato dove il Candelaro dimentica le sue
acque mefitiche – brillava di una luce decisa, come un lenzuolo di piombo lucidato.
Presto la pioggia riprese a cadere e mi indusse a cercar rifugio tra le case, dove
intravidi la figura familiare del mio vetturino, seduto con aria sconsolata sotto un
portico. Sollevò lo sguardo e osservò (in mancanza di meglio da dire) che mi aveva
cercato per tutta la città, nella tema che mi fosse capitato qualche guaio. Fui intenerito da quelle parole; così intenerito che deposi un franco nel palmo riluttante della
sua mano e lo invitai a comperarsi qualcosa da mangiare. Un franco intero... Ah!
pensò indubbiamente lui, «la mia teoria del vero signore: comincia a funzionare».
Eravamo appena a metà della giornata. E tuttavia ero già disgustato dell’angelica
metropoli e i miei pensieri cominciarono a volgersi di nuovo in direzione di Manfredonia. A un angolo della strada, tuttavia, alcune sciolte vociferazioni in inglese e
in italiano, che nulla mi avrebbe indotto a lasciar perdere qui, mi colpirono; provenivano – in apparenza – dai visceri della terra. Mi fermai ad ascoltare, scosso nell’udire un linguaggio scurrile in una città santa come questa; poi, spinto dalla curiosità, scesi una lunga rampa di gradini e mi trovai in uno scantinato. Lì un gruppo di
emigranti stava bevendo e giocando a carte – gente allegra; una buona metà di loro
parlava inglese e, nonostante alcune frasi irriverenti, presto mi conquistarono con
un «Ecco! Bevete questo, signore!».
Il cupo scantinato era un istruttivo pendant alla grotta dell’arcangelo. Un nuovo
tipo di pellegrino si è evoluto; pellegrini convinti che la traversata fino a Pittsburg
non sia più impegnativa di un viaggio in carrozza a Manfredonia. Ma la loro cantina era impregnata di un odore di vino versato e di fumo di tabacco, invece della
sottile Essence des pèlerins des Abruzzes fleuris e, ahimè, l’oggetto della loro adorazione non era l’angelo caldeo ma un’altra forma orientale egualmente antica: Mammone.
Parlavano molto di dollari; e udii anche diverse allusioni poco ortodosse al «commercio dell’angelo», commercio che loro definivano ormai «sfruttato»; nonché
un’osservazione nel senso che «solo chi è maledettamente stupido rimane in questo
paese». In breve, questi individui erano all’altro capo della scala umana; essi erano i
forti, gli energici: forse gli spietati; ma sicuramente gli intelligenti. E per tutto il
tempo il calice faceva il giro del gruppo, con gioviale ripetizione, e tutti erano
d’accordo che, qualsiasi potessero essere gli inconvenienti di Sant’Angelo, non v’era
nulla da ridire sull’alcool del luogo. Era, in verità, un prodotto divino: un vino di
montagna di nobile pedigree. Questo pensavo mentre risalivo faticosamente le scale,
rallegrato da questo incidente della caverna che faceva concorrenza all’altra, e leggermente stordito dal fumo del tabacco. E qui, appoggiato allo stipite della porta,
184
Verso Sud
D. Grittani
stava il vetturino che aveva indovinato dove mi trovavo, per un suo oscuro intuito
massonico di solidarietà. Il suo volto si aprì in un sorriso vacuo, e vidi presto che
invece di rafforzare la propria costituzione con sano cibo aveva sperimentato i metodi alcolici per difendersi dall’inclemenza del tempo. «Solo un bicchiere di vino spiegò -. Ma il cavallo non è assolutamente ubriaco».
Quel quadrupede era pari all’eccezionalità della situazione. Gloriosamente indifferenti al nostro destino, scivolammo verso il basso, in un vertiginoso ma magistrale volo planato da quella città di montagna piuttosto riprovevole. Un accogliente scoppio di sole salutò il nostro arrivo in pianura.
Culto cavernicolo
Perché l’arcangelo esaltato ha scelto come dimora questa cella maleodorante
invece di qualche tempio ben costruito alla luce del sole? A simbolizzare un raggio
di luce che penetra nelle tenebre, così vi verrà risposto. È più probabile ch’egli vi sia
penetrato da guerriero distruttore, per scacciare quella forma pagana, che Strabone
descrive come dimorante in quel malsano recesso, e per impossessarsi dell’antro in
nome del Cristianesimo. Sant’Angelo è uno dei tanti luoghi ove Michele ha eseguito il compito di un Ercole cristiano, a simiglianza di quello antico che ripulì le stalle
di Augia.
Per il resto, questo culto cavernicolo è più antico di qualsiasi divinità o diavolo.
È il culto del principio femminile – un residuo di quell’ossessione aborigena dell’umanità di rifugiarsi in qualche antichissimo crepaccio nel sacro grembo di Madre Terra che ci dà cibo e che ci riceve dopo la morte. Le apparizioni, antiche e
recenti, nelle grotte non sono altro che le spiegazioni popolari di questa oscura
brama primordiale; e i gerofanti di tutti i secoli hanno capito il valore commerciale
del sacro brivido che penetra nel cuore dei fedeli, in queste caverne, dando loro una
risonanza di fatti divini. E così qui, proprio vicino all’altare, i preti vendono frammenti della cosiddetta «Pietra di San Michele». Il commercio è attivo.
La statuetta dell’Arcangelo, conservata in questa cappella sotterranea, è un’opera del tardo Rinascimento. Pur risentendo di quell’elaborazione leziosa che allora
cominciava a contaminare l’arte e la letteratura locale – ed è legata al nome del
poeta Marino – è tuttavia figura di una virilità passabile. Ma quelle innumerevoli
altre, nelle chiese o sopra le porte, raffigurano davvero l’uccisore del drago, il marziale principe degli angeli? Questo fanciullo grazioso dai lineamenti femminili –
può costui essere il Lucifero del Cristianesimo, la Spada dell’Onnipossente? Quis ut
Deus! Avrebbe potuto difficilmente far del male a una mosca.
N. Douglas
L’angelo di Manfredonia
185
Il venerando genio alato di Caldea che ha assorbito l’essenza di tante solenni
divinità, ora, in tardissima età, è entrato in una seconda infanzia ed è diventato
ormai troppo giovanile per il suo rôle, subendo una metamorfosi che va oltre i limiti
della probabilità leggendaria o del buon senso; ogni traccia di divinità e di forza
virile ne è stata spremuta. Così giovane e di bellezza tanto terrena, rassomiglia,
piuttosto, a un bel ragazzetto che si è agghindato, per giuocare, con una spada e un
elmo infantili – vien voglia quasi di divertircisi insieme. Questo non è un guerriero!
C’est beau, mais ce n’est pas la guerre. Gli dei, si dice, son sempre giovani ed una nota
piuttosto sensuale e carnale è essenziale per quelli italiani, se devono riuscire a conservarsi l’amore dei loro fedeli. D’accordo! Non ci serve un veterano sfregiato e
irsuto; ma abbiamo per lo meno bisogno di un personaggio che sia in grado di
brandire la spada, una figura all’incirca come questa:
L’elmo lucente allentato mostrava
il fiore di sua giovinezza nella virilità
in cui finiva l’adolescenza;
dal fianco gli pendeva, scintillante zodiaco, la spada
terrore indicibile di Satana, e in mano sua la lancia...
Ecco! questo è il vero arcangelo.
E il gran drago, quel vecchio serpente, chiamato il Diavolo, e Satana, ha subíto
un’analoga trasformazione. Si è rattrappito diventando un povero piccolo rettile,
appena un vermiciattolo, che quasi non vale nemmeno la pena di schiacciare.
Ma come potrebbe attrarre la gente comune una concezione sublime come
l’eroe apocalittico? Queste figure poderose emergono dal crepuscolo, progenie di
epoche fatali; se ne stanno in disparte, altere dapprima, ma subito la loro luminosa
grandezza è smorzata, il loro profilo altezzoso è offuscato e cancellato dal logorio.
Sono trascinati al livello dei loro adoratori più infimi perché l’intero gregge adatta il
proprio passo a quello dell’agnello più debole. Nessuna divinità che abbia rispetto
di sé sopporterebbe un simile trattamento – di essere volgarizzata e resa comprensibile a una folla. Le divinità capite dalle masse cessano di essere efficaci; gli egiziani e
i bramini l’hanno capito. Non si tratta di dare agli dei la possibilità di interpretarli
in modo incongruente e sleale. Ma il volgo non ha idea alcuna del decoro e della
correttezza: non sa mantenersi alla giusta distanza; si prende costantemente delle
libertà. E, alla fine, anche il più orgoglioso degli dei è costretto a cedere.
Vediamo questa fatalità anche nella stessa parola Cherubino. Che diversa immagine suscita questo bimbo paffuto e frivolo di fronte al bel Ministro di Dio cinto da
una spada di fiamma! La vediamo nella Madonna italiana in cui, nonostante ogni
possibile novità assimilata dalla sua mente, bisogna presupporre una certa gravità
186
Verso Sud
D. Grittani
d’atteggiamento, e che, pur tuttavia, diventa di giorno in giorno di una leziosità
sempre più infantile; nel suo Figliolo che – quanto meno da queste parti – ha
abbandonato tutti gli attributi seri di virilità e si è ridotto a poco più di un bambolotto. Era la stessa cosa ai tempi antichi. Apollo (che San Michele ha soppiantato),
Eros, e Afrodite – tutti passano attraverso un processo di edulcorazione deterioratrice.
Le nostre creature più belle, quand’hanno superato l’apogeo del loro vigore, sono
esposte all’assalto e alla distruzione da parte di una tendenza insidiosa al diabete.
È questo istinto bamboleggiante dell’umanità che ha ridotto San Michele alla
sua attuale condizione. E un influsso estraneo ha operato nella medesima direzione:
il graduale rammollimento delle maniere entro i tempi storici. Quella svirilizzazione
che va di pari passo con il crescente benessere sociale. La divinità riflette i propri
creatori umani e il loro ambiente; divinità grandiose o battagliere diventano superflue e, infine, incomprensibili nei giorni monotoni della pace. Per sopravvivere, le
nostre divinità (come il resto di noi) devono possedere una certa plasticità. Se
recalcitrano, vengono silenziosamente esonerate dalle loro funzioni e dimenticate.
Questo è quanto è accaduto in Italia al Dio Padre e allo Spirito Santo, che sono
svaniti dall’Olimpo volgare; mentre il diavolo, grazie a quella versatilità spregiudicata per cui va famoso, resta sempre giovane e popolare.
Le nozioni d’arte del Cinquecento sono pure da condannare; in effetti, per quel
che riguarda le forme angeliche dell’Italia meridionale, l’influsso del Rinascimento
è stato affatto malefico. Estranee a questo suolo, esse sono dapprima del tutto ignote – nessuna è raffigurata nelle catacombe napoletane. Subito dopo, viene il breve
periodo della loro gloria artistica; quindi il sincretismo del Rinascimento, quando
questi messaggeri alati furono amalgamati con gli amoretti pagani e presero a svolazzare in quello sciocco stile barocco attorno alla Regina dei Cieli, secondo il modello
di quegli indecorosi piccoli geni al servizio di una Venere di cattiva scuola. Quello
stesso istinto che degradava un Eros giovanile nell’infantile Cupido fu il colpo mortale inferto all’antica dignità e alla santità degli angeli. Oggidì vediamo la cattiveria
di tutto ciò; siamo tornati al buon senso e riusciamo ad apprezzare quella rinascita
tanto lodata al suo vero valore; e i nostri scultori moderni vi metteranno insieme un
angelo rispettabile, un adolescente grave, secondo i migliori canoni del gusto – nel
caso voi possediate ancora la fede che un tempo imponevano tali opere d’arte.
Noi viaggiatori ci familiarizziamo con la discendenza di questo messaggero celeste ma è difficile supporre che i fedeli che ora si affollano davanti al suo santuario
sappiano gran che di queste cose. Come sarà possibile scoprire i loro veri sentimenti
per questo grande santo grottereccio e per la sua vita e le sue azioni?
Be’, se ne può avere una vaga idea attraverso gli opuscoli che vendono sul posto.
Ho acquistato tre di questi moderni trattatelli, stampati rispettivamente a Bitonto,
N. Douglas
L’angelo di Manfredonia
187
a Molfetta e a Napoli. Il Canto Popolare in onore di San Michele contiene questa
strofa:
Nell’ora della morte
Ci salvi dall’inferno
E a Regno Sempiterno
Ci guidi per pietà.
Ci guidi per pietà. Questa è l’eredità di Mercurio. Poi, La storia e i miracoli di
San Michele si apre con un gioviale dialogo in versi tra l’arcangelo e il diavolo intorno all’anima; finisce con un elenco particolareggiato, in venticinque strofe, dei miracoli fatti dall’angelo, come ad esempio l’aiuto alle donne durante il parto, la cura
dei ciechi, e altre meraviglie, in tutto e per tutto simili a quelle elaborate da più
umili santi terreni. Infine la Novena in onore di San Michele Arcangelo stampata nel
1910 (terza edizione) con l’approvazione ecclesiastica, ha il seguente notevole paragrafo sulla Devozione per le sacre pietre della grotta di San Michele.
«È assai salutare aver stima per le pietre che sono prelevate dalla sacra grotta, in
parte perché da tempo immemorabile sono sempre state venerate dai fedeli e anche
perché sono classificate come reliquie di sepolcri ed altari. Inoltre è noto che durante la pestilenza che afflisse il Regno di Napoli nell’anno 1656, Monsignor G. A.
Puccini, arcivescovo di Manfredonia, raccomandò a ciascuno di trasportare devotamente sulla propria persona un frammento della pietra sacra in virtù della quale la
maggioranza fu salvata alla pestilenza, e questo aumentò la devozione a loro tributata».
Il colera è in aumento e questo può spiegare la rapida vendita delle pietre in
questo momento.
L’opuscolo contiene anche una litania in cui i titoli dell’arcangelo vengono enumerati. Egli è, tra le altre cose, Segretario di Dio, Liberatore delle Infernali Catene,
Difensore nell’Ora della Morte, Custode del Pontefice, Spirito della Luce,
Prudentissimo tra i Magistrati, Terrore dei Demoni, Comandante in Capo degli
Eserciti del Signore, Sferza di Eresie, Adoratore del Verbo Incarnato, Guida dei
Pellegrini, Accompagnatore dei Mortali: Marte, Mercurio, Ercole, Apollo, Mitra –
quali antenati più nobili può desiderare un angelo? E tuttavia, quasi che queste
funzioni complicate e responsabili non fossero sufficienti per le sue energie ne ha
altre venti, tra cui c’è quella di Custode della Sacra Famiglia – che, a quanto pare, ha
bisogno di un protettore, un Monsieur Paoli, come qualsiasi terrestre monarchia.
«Assurdità blasfeme!» mi par di sentire esclamare qualche metodista. E si può
esser senz’altro tentati di schernire questi pellegrini, per i più illuminati dei quali si
188
Verso Sud
D. Grittani
stampa questa roba. Perché essi sono indubbiamente una folla repellente: vecchie
sporche per il viaggio, controfigure per la Maga di Endor; ragazze anemiche scapigliate,
dall’aspetto attonito; ragazzi troppo deboli per maneggiare una vanga a casa loro, di
modi pateticamente rozzi, con bocche spalancate e occhi che esprimono tutta una
gamma di emozioni incontrollate, dalla gioia più selvaggia all’idiozia vera e propria.
Come ci si rende conto, in fondo a questa grotta, dell’effetto che, su alcuni uomini
colti dell’antichità, come Rutilio Namaziano, deve aver avuto il culto nelle catacombe, in mezzo a quei primi convertiti cristiani, a quegli «uomini che rifuggivano
dalla luce», trascinati com’erano dalle stesse classi sociali verso gli stessi oscuri riti
sotterranei! Persone simili non si possono né amare né rispettare. E simulare compassione nei loro riguardi sarebbe più consono alla loro religione che alla mia.
Ma è facilissimo capirlo. Per tredici secoli il movimento dei pellegrini ha continuato a esistere. Tredici secoli? No. Il luogo in tempi antichi era un oracolo e sappiamo
che luoghi simili erano frequentati da uomini niente affatto meno barbari e bigotti
dei loro rappresentanti moderni – non c’è errore più grande che quello di supporre
che le folle dell’antica Roma e di Atene fossero più raffinate delle nostre («Demostene,
signore, parlava a un’assemblea di bruti»). Allora diciamo che, per trenta secoli, una
divinità ha attirato i fedeli al suo santuario – Sant’Angelo è diventato un vuoto pneumatico, per così dire, che deve essere periodicamente riempito con elementi della
campagna circostante. Questi pellegrinaggi sono nel sangue della gente: da bambini
vi sono accompagnati; da adulti vi portano la prole; quando hanno la barba grigia i
loro passi incerti sono sorretti da pellegrini come loro, gentili e più robusti.
Pontefici e imperatori non si arrampicano più per quei pendii: il sentimento
della pietà è calato, tra i grandi della terra; questo è sicuro. Ma i raggi della luce che
toccano i rami più alti non hanno ancora penetrato il sottobosco rigoglioso ed
effervescente. E allora, che altro si può offrire a questi montanari? La loro è una vita
di miseria avvilente e rivoltante. Non hanno giuochi o sport, non hanno corse di
cavalli, club, mostre di bestiame, caccia alla volpe, politica, caccia ai topi, o una di
quelle tante gioie che rendono diversa la vita dei nostri contadini. Non sono sfiorati
da alcun tocco di umanità, non ricevono marmellate o coperte da gentili dame, e
nessun medico gioviale si interessa dei loro figlioli; non leggono giornali o libri e
mancano loro persino le blande eccitazioni fornite dal contrasto tra anglicani e
dissidenti, o dal romanzo d’amore della figlia del vicario, o dall’ultima lite del
signorotto con la moglie – nulla! La loro esistenza è quasi animalesca nella sua
vacuità. Li conosco, ho vissuto tra loro. Per quattro mesi l’anno sono stivati in tane
umide che non si possono definire stanze, dove un inglese riterrebbe disonorante
tenere un cane – stivati in uno squallore incredibile per chi non lo vede; per il resto
del tempo si affannano, con il sudore della fronte, a strappare qualche spiga di
N. Douglas
L’angelo di Manfredonia
189
grano dall’ingrato terreno calcareo. Le visite all’arcangelo – quei picnic invernali e
autunnali – sono la loro unica forma di divertimento.
Si dice che l’affluenza sia diminuita dall’inizio del 1900, allorché ne venivano
solitamente trentamila l’anno. Può esser benissimo; ma immagino che questo non
sia tanto dovuto a un grado crescente di illuminazione quanto allo spopolamento
provocato dall’America; molti villaggi sono stati di recente ridotti alla metà del loro
numero precedente di abitanti.
E qui si inginocchiano, la candela in mano, sulle pietre umide di questa caverna
malsana e maleodorante, fissando rapiti l’idolo che sorride mellifluo, solleticati nella
loro sensibilità da preti risplendenti che recitano biascicate frasi in latino, mentre
l’organo sopra il loro capo suona brani ansimanti de «La forza del destino» o il valzer
del «Mefistofele» di Boito... certo deve essere una pregustazione del Paradiso. Ed è
assai probabile che questi siano «i poveri di spirito» cui è riservato quel regno. Questa
potrebbe esser definita una forma adulterata del Cristianesimo. Forse il fondatore di
questo culto l’avrebbe ritenuta disgustosa; ma questo è un altro problema e, adulterata o meno, è quanto meno viva e palpitante, il che già costituisce più di quanto si
può dire per certe altre varietà. Ma l’arcangelo, come era inevitabile, ha subito un
triste mutamento. Il suo più bell’attributo di Apportatore di Luce, di Apollo, non gli
appartiene più; è stato requisito e assorbito dalla «Luce del Mondo», il suo nuovo
padrone. A una a una, le sue funzioni gli sono state strappate, salvo nominalmente,
come succede a uomini e angeli insieme, quando prendono servizio sotto padroni
«gelosi». Che resta ora di San Michele, il gerarca lucente? Può egli ancora sopportare
la luce del sole? O forse si è ridotto a un Hermes spettrale, un lugubre psicopompo
che china la testa in una gloria rimpicciolita e che non guida più le anime degli
uomini verso l’alto, bensì verso il basso – giù, alle smorte regioni delle cose che sono
state? E trascorrerà molto tempo prima che anche egli sia gettato da qualche fiammeggiante demone dal volto di Gorgone negli stessi regni di Minosse, nel cupo
sottomondo dove risiedono Saturno, e Kronos, e altri ideali frantumati e in pezzi?
Così meditavo quel pomeriggio, scendendo in carrozza per il pendio di Sant’Angelo, comodamente al riparo dal temporale, mentre il generoso vino di montagna mi
scorreva rapido nelle vene, scaldandomi la fantasia. Poi, finalmente, il sole uscì in un
improvviso scoppio di luce, aprendo uno squarcio tra i vapori e rivelando l’intera
catena appenninica, insieme con l’appuntito cratere di Monte Vulture. Lo spettacolo
mi rallegrò e mi fece pensare che una giornata simile sarebbe stata degnamente completata da una visita a Siponto, a poche miglia al di là di Manfredonia, sulla strada di
Foggia. Ma abbordai l’argomento con cautela, temendo che il vetturino potesse obiettare
a questo lavoro in più. Fu tutto il contrario, invece. Mi ero guadagnato il suo affetto
e mi avrebbe accompagnato da qualunque parte avessi desiderato. Solo a Siponto?
190
Verso Sud
D. Grittani
Perché non a Foggia, a Napoli, ai limiti della terra? Quanto al cavallo, il viaggio gli era
indifferente, del tutto indifferente: non c’era cosa che gli piacesse di più della corsa
davanti a una carrozza; inoltre «è suo dovere» dichiarò l’amico. Siponto è tanto antica
che si dice fosse stata fondata da quel leggendario Diomede che fece la stessa cosa per
Benevento, Arpi e altre città. Ma questo record non soddisfa Monsignor Sarnelli,
storico della città, secondo il quale essa era già fiorente quando Sem, figlio di Noè, ne
divenne il re. Regnò all’incirca nell’anno 1770 dalla creazione del mondo. Due anni
dopo il diluvio aveva cento anni e, a quell’età, ebbe un figlio, Arfaxad, dopo la cui
nascita visse ancora cinquecento anni. Il secondo re di Siponto fu Appulo, che regnò
nell’anno 2213... Più tardi qui dimorò San Pietro che vi battezzò alcune persone.
Di Siponto non resta nulla; nulla, ad eccezione di una chiesa e anche questa
costruita di recente; è dell’XI secolo; una chiesa famosa, nello stile pisano, con
colonne di marmo lavorate, e appoggiate con ornamenti romboidali a leoni, e altre
eccellenti lavorazioni nella pietra che rallegrano l’occhio. Essa era stata sede arcivescovile e le sue belle sedie episcopali sono ora conservate a Sant’Angelo; e si può
ancora fare omaggio all’autentica Madonna bizantina, dipinta su legno da San Luca,
dalla carnagione scura, dal naso lungo, e dallo sguardo fisso, che regge l’Infante sul
suo braccio sinistro. Terremoti e incursioni saracene hanno rovinato la città che è
rimasta del tutto abbandonata quando Manfredonia fu costruita con le sue pietre.
Di antichità pagane vi sono, sparsi qua e là, pochi capitelli, e così pure colonne
di granito nella strana, antica cripta. Un pilastro se ne sta tutto abbandonato in un
campo e, vicinissimi alla chiesa, ve ne sono altri due, in piedi, il più grande di
cipollino, abbellito da una patina di lichene dorato; una testa di pozzo in marmo,
mezzo consumata per l’uso delle funi, si trova sepolta nell’erba lussureggiante. La
pianura su cui sorgeva la grande città di Sipus è ora coperta di aspra vegetazione. Il
mare si è ritratto dalla sua antica spiaggia, e bestiame semi-inselvatichito pascola sul
luogo di questi antichi moli e palazzi padronali. Non resta una pietra. La malaria e
la desolazione regnano supreme. È un luogo profondamente malinconico. E tuttavia fui contento di quella rapida visione. Avrò ricordi cari e duraturi di quel santuario – il travertino della sua struttura elaboratamente scolpito, che brilla di un colore
fulvo aranciato nel tramonto; e della pianura abbandonata, più oltre, piena di visioni fantomatiche del passato.
Quanto a Manfredonia, è un luogo piccolo e triste dove il vento di mezzogiorno
geme e le montagne sono velate nelle brume.
[Tratto da Vecchia Calabria, NORMAN DOUGLAS, Londra 1915; ristampato da Martello, Milano 1962,
tradotto da Grazia Lanzillo e Lidia Lax]
191
Santa Maria Maggiore Sipontina
Giuseppe Ungaretti
Poi dalla solitudine si sprigiona una colonnetta, e le fanno seguito a pochi passi,
su leoni, le colonne che, fra le scure sopracciglia di archi ciechi, reggono in una
facciata deserta il ricco portale di Santa Maria Maggiore di Siponto.
Questa è dunque quell’arte solenne che dicono pisana, che un giorno a Lucca
dolcemente mi svelò la Patria, che mette nel silenzio d’una pagina d’orazioni il
rilievo prezioso dell’iniziale miniata.
Non me ne intendo, ma non stupirei se questa cattedrale in mezzo al prato fosse
davvero il primo esempio del costruire monastico e guerriero nel quale il Medioevo
si provò a fondere le esperienze del suo rincorrere la visione del mondo, dall’innocente epica dei Mari del Nord alle erudite voluttà della svelta Persia. La nascita
d’un’architettura significa il principio d’una chiarezza spirituale e d’una volontà
vittoriosa. Perché nell’era cristiana non dovrebbe essere stata per prima questa terra,
questo ponte dei Crociati, a immaginare saldamente, nella pietra murata e ornata,
un’unità fra Occidente e Oriente? Sono le cose che mi commuovono di più, come
di vedere, dopo la spedizione d’Alessandro, il canone di Fidia insinuarsi nella scultura indiana di 23 secoli fa.
Perché questa regione pietrosa non dovrebbe essere una madre d’architettura? È
venuta su dal tormento della pietra: dalla pietra, vittoria della forma sopra un
immemorabile caos. Prolifica d’ogni sorta di pietre: dura, macerata, terra della sete:
ci vorrebbero forse altri eccitamenti per inventare una forma?
Nella sua desolata vecchiaia, Santa Maria Sipontina impartisce difatti oggi ancora la lezione più moderna. Dal faticoso svolgersi di due quadrati, guardate come
al terzo la sua pianta ottiene che, sovrapponendosi di volo, 4 pilastri e 4 ogive e… 4
muri, e… (avete indovinato!) «quattro» colonne compongano alla cupola la salita
potente d’un doppio spazio di cubi. Più cubisti di così… Non c’è da ridere: semplicità e ordine apriranno sempre le vie del sogno.
Siamo usciti.
I passi del sagrestano sono silenziosi come se andasse a piedi nudi. Per uno
192
Verso Sud
D. Grittani
strano mimetismo anche i nostri passi si sono fatti impercettibili. Siamo scomparsi.
Al poco chiaro che può mandare un sanguigno di colonne, ci siamo ritrovati,
sorpresi.
Scorgiamo all’altare in fondo, in un cavo d’abside, gli occhi sbarrati d’una statua
di legno dipinto. Sono gli enormi occhi bizantini, dimentichi del tempo. Solo Picasso
potrebbe dirci perché i Bizantini sono così vicini ai selvaggi. Ripensavo – cogli
occhi fissi a quello sguardo insensato, laggiù… – allo Scima che per occhi mette
all’idolo pezzetti di specchio. Sarà mai rappresentata meglio l’insensibilità d’una
vista eterna davanti al passare?
Sparse come guardie, le gentili colonne – e sono… (bravi!) 4x4 – per il loro
regolare i giuochi ora evidenti della volta, via via che avanziamo sembrano dividere
il buio addirittura a tende, a scostarle.
Vediamo anche quattro colonnoni; ma ci devono stare per prolungare e fortificare da questa cripta, i pilastri della chiesa di sopra; cercano di non disturbare e
ritraggono più che possono nell’ombra la loro corpulenza.
In tali penombre, presso la statua di legno arrampicandosi negli angoli, appariscono apparecchi ortopedici, grucce a mucchi, e vestitucci di tulle polverosi, inverosimili sulla durezza e la freddezza della pietra.
A questo punto scopriamo appesi al muro – è uno scoppio – tutto un fiorire di
quadri su rame. Di solito il popolo racconta bene, è la sua facoltà, e ne è prova
questo genere di quadretti di voto. Ma questa volta le immagini hanno una vivacità
straordinaria: sia che si faccia vedere uno che con una tavola sotto il braccio si getti
dal piroscafo squarciato da un siluro, e riesca a raggiungere riva coll’aiuto di quella
tavola; o si discorra d’un bambino che, caduto sotto cavalli impennati, attaccati ad
un carro pesantissimo, passato il carro, mentre gli astanti urlano ancora disperati, si
alzi e sorrida; ovvero s’indichi un albero schiantato dal fulmine mentre lo potano, e
il potatore resti a cavallo d’un ramo della mezza pianta rimasta ritta, e guardi in giro
come per dare i numeri al lotto; ecc. ecc. Il dramma è nel mare e nella nave, è nei
cavalli impennati e negli astanti, è nell’albero e nel fulmine; non è mai in chi si
salva. Ci sia o meno la volontà, c’è sempre il miracolo, c’è sempre la fede che rasserena.
Stanno nella polvere e nel grigio, lì abbandonati i ricordi della sofferenza. L’uomo, si diceva incominciando, è debole e lo sa, e perché lo sa, per miracolo divino o
per volontà, che è miracolo umano – e di solito le due forze si alleano – la sua
condizione, e la sua dignità, è di superarsi. Per questo quando s’è salvato – come ha
visto l’artista – è al di là di sé, al di là del dramma, egli è valore spirituale, e il
dramma langue e perisce nella natura delle cose.
Allora il sotterraneo mi s’è riempito di pellegrini.
G. Ungaretti
Santa Maria Maggiore Sipontina
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Non c’era nessuno.
C’erano impronte di piedi, impronte di mani, graffi sulla pietra, e un nome
dentro ciascuna mano o ciascun piede. Pellegrini che erano arrivati qui cantando,
anzi gridando: a piedi scalzi con il loro passo rapido, anzi impetuoso com’è la fede.
E finalmente il loro piede aveva calcato il suolo sacro, la loro mano aveva toccato la
pietra benedetta. Ne resti memoria per sempre!
Sentirò per tutto questo mio correre dietro l’acqua, in su e in giù, dal Gargano
a Caposele, il passo del pellegrino. E se non ne sentirò il passo, ne vedrò la traccia.
Siamo tornati al prato. È il tocco. Ora si vede meglio come qui il sole detesti
l’inverno. Ora ha potuto finire di aprirgli – direbbe Leonardo Sinisgalli, un giovane
poeta delle parti d’Orazio, quasi di queste parti la mano superba e la noia del giorno
ed esso, vinto, può prendere, come un presagio di primavera, un calore carnale.
[Tratto da Deserto e dopo, GIUSEPPE UNGARETTI, Mondadori, Milano 1961]
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La giovine maternità
Giuseppe Ungaretti
Manfredonia, il 6 marzo 1934
Là fu Siponto
Siponto non è più che un nome musicale. Un Diomede laureato e il giavellotto
fendente l’aria sopra la fuga d’un cinghiale: la celebrazione del fondatore d’una città
in maremma, nel suono d’oro d’una moneta.
Per tutta la riviera adriatica – come è del Tirreno, Enea – corre voce di questo
Diomede dalla barba fiorita, e sono indecisi perfino quelli di Comacchio se vantarsi
di discendere da lui o da Noè.
La moneta è visibile nei musei. Ma perché il mito che porta i due rivali omerici
a prosperare sui due lati della terra italica, non dovrebbe essere verità? È come una
prima figura di quel mistero che avvierà sempre ogni sogno epico a sciogliere i suoi
drammi sotto la chiarezza del nostro cielo.
Un mucchio di monete nelle vetrine: Diomede e la ragazza con la corona di
spighe, e l’uomo che rovescia un leone. Più alcune anfore piantate bene: memorie
di braccia che, alzandosi per trattenere un peso nell’armonia rigogliosa dei passi,
facevano impazzire. È tutta qui, Siponto?
Ci sarebbe anche la cattedrale di cui si parlava l’altro giorno. E una città, finché
una sua pietra sta ancora ritta, non può dirsi scomparsa e meta solo della memoria.
Ma la speranza, perennemente attuale, in un certo senso ha strappato Santa
Maria Maggiore al suo luogo e al suo tempo. Gridando aiuto, si chiama un generoso. Dov’è, che importa? E colla divinità che verrà mai a fare la storia? Eh, lo so che
non si ha storia senza l’arrampicarsi verso lassù come un’edera, delle nostre passioni.
E che, dopo tutto, all’uomo non resta che un pugno di storia.
Che verrà mai a fare la storia? Questa Madonna dai grandi occhi non ha se non
ricovero palese, fra gli unici muri di una metropoli rimasti ritti. Per miglia in giro,
varcando solitudini, dal mare e dalla corona dei monti tutto un popolo nei suoi dolori
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Verso Sud
D. Grittani
la sogna. Una chiesa non ha bisogno di dominare visibilmente un pigiarsi d’abitati
per essere non il segno superstite d’una rovina, ma un nucleo vivo d’umanità.
Anche come semplice lavorata pietra, è così poco ormai Siponto, decrepita pietra com’è. L’arte non la distacca più dalla natura. È, come la stessa Siponto, terreno
anch’essa, stravaganza del terreno.
Non è quasi più nemmeno una memoria anche l’acqua malata che a un re
animoso fece ordinare l’esodo totale degli abitanti e fondare a qualche chilometro
più in là, la città cui dette il nome. Ma forse la malaria non fu che un pretesto, e la
necessità d’avere braccia per la costruzione d’un porto potente consigliò invece il
guerriero.
La memoria delle Paludi Sipontine stanno disperdendola le idrovore. Non ne
resta ormai che un raro barlume viola nel vento.
E in linea diritta davanti alla fu Siponto, l’arco di Manfredonia si volta giusto
nel punto dove, pieno di freschezza e di appetito per l’abbondanza di seppie, lo
sguardo dell’acqua marina si fa moro come quello di gitane.
Azione e fede
Torri, torri che a volte emergono da fondamenta marine e acquistano bellezza
nel variare perenne dei riflessi, torri che si mantengono, nonostante l’altezza, d’una
rotondità cospicua, torri, così carnali, malinconiche sotto i colpi della luce, torri
che a volte armano una cattedrale ai quattro venti, guerra e preghiera, azione e fede
alleate e fuse, ancora e sempre, è ciò che qui non ha paura del tempo. È il modo
cordiale, diremmo, di celebrazione: è celebrare la divinità nell’uomo, cioè soltanto
un momento umano particolarmente intenso, e quella luce che non ci abbandona
mai e che vediamo così bene quando ci facciamo piccini piccini per amore e nei
nostri momenti di disperazione. Un Italiano nella sua arte, anche parlando di morte, celebrerà sempre la vita. Se sono occhi, non avranno l’esorbitata fissità dell’icona, né tanto meno saranno quelli ghiacci e ancora più tremendi del feticcio sudanese.
Noi non abbiamo mai pensato d’annientare la carriera del tempo immaginando,
come gli Egiziani, una lancetta che ne avrebbe segnato senza fine il vano ripetersi. È
un’idea di gente che il deserto circonda. Non mi sono mai meravigliato vivendo
laggiù, che quegli Antichi pensassero che il tempo sia vinto dal tempo stesso, e cioè,
il tempo essendo una misura, sia vinto dalla sua misura. Meridiane colossali, piramidi, una saetta d’ombra che i secoli non denaturano. E l’eterno? Morte! Mummie
nell’orrore, nella cecità delle fosse di quelle piramidi. Per un Italiano poesia invece –
anche se un’idea come quella degli Egiziani gli servirà da termine di rapporto – sarà
G. Ungaretti
La giovine maternità
197
l’illusione di perpetuare l’attimo che ci ha rapito il cuore, di perpetuare la vita d’un
nostro attimo: ecco dove cerca pietà e forza e il divino, la nostra arte.
La casa azzurra e gialla
Con qualche torre che ci seguita, bruscamente entriamo in una selva di
fichidindia. Il ficodindia non è una rarità. L’abbiamo incontrato tante volte a fare
da siepe, o addossato a un rialzo di macerie, o come un’elefantiasi contendere lo
spazio nei campi d’agrumi. Ma un intrico assoluto di questo verde idropico che
tolga il respiro così a lungo, fino ai piedi del monte, può essere una sorpresa. Con
che gioia uno di quegli «ahuan» che mangiano il vetro e i serpenti entrerebbe qui
dentro e divorerebbe le foglie spinose, che evocano perfino la roccia nella loro mostruosità. Ma, sarà per un dolce venticello che muove quella pesantezza, ora tutte
quelle foglie, quelle enormi orecchie sorde, sembrano essere salite sul naso di pagliacci equilibristi.
E alle radici del Gargano, mentre la selva grottesca continua la sua risatina e ora
vi ride alle spalle, e voi tornate invece a pensare a muri merlati nascenti dal mare,
una casa azzurra e gialla vi accoglie sola sola. Un altro miracolo. Nel progetto di
massima del 1902 per la distribuzione dell’acqua non erano compresi i comuni di
Montesantangelo. E se l’acqua non riusciva mai ad arrivare dove avevano allora
stabilito che dovesse arrivare, come avrebbe fatto ad arrivare un giorno lassù in
cima? Nel 1925 si dà ordine che si compili un progetto di massima perché l’acqua
vada fino lassù. Nel 1928 vengono compilati altri progetti esecutivi e i lavori vengono senz’altro rapidamente eseguiti.
Non era una cosa facile. Sono stati risolti ardui problemi d’ingegneria che si
presentavano per la prima volta: con semplicità, come sempre quando si fa sul serio.
Ed ecco che, nella casa gialla ed azzurra, ora si muove l’impianto di sollevamento: sono pompe a stantuffo accoppiate a motori Diesel: sono le braccia e i polmoni
d’acciaio di migliaia di ciclopi che mandano, senza affannarsi, silenziosamente,
come nulla fosse, dallo spazio di poche decine i metri, una quarantina di litri d’acqua al secondo a un’altezza di quasi mille metri. Tutto questo organismo nero fa
l’effetto di un’enorme dissimulata violenza che basta una mano d’uomo a dominare
e a regolare senza sforzo.
[Tratto da Deserto e dopo, GIUSEPPE UNGARETTI, Mondadori, Milano 1961]
199
Sabato Santo a Manfredonia
Leonardo Sinisgalli
Leonardo Sinisgalli (Montemurro, Potenza 1908 - 1981) Poeta fortemente
legato al movimento ermetico - che rappresentò tuttavia senza eccessi di formalismo - autore di Poesie (1938), Campi Elisi (1939), I nuovi Campi Elisi
(1947), La vigna vecchia (1956) e Fiori pari fiori dispari (1945). La lirica
Sabato Santo a Manfredonia rappresenta un emozionante omaggio alla terra
garganica, la cui suggestiva aridità deve aver rievocato in Sinisgalli i paesaggi
brulli della Lucania.
Di qua non resta più nessuno.
Le anitre scivolano
una dopo l’altra
verso la buia sponda.
Gli amici fondano una città celeste.
Ci lasciano alle finestre
contro il mare bruno
come una montagna.
Messaggeri tra vita e morte
i fanciulli si tuffano
a cogliere vermi sott’acqua
e il vecchio pescatore
aspetta che risorgano
con un ramoscello di sangue
tra le dita.
[Poesia di LEONARDO SINISGALLI tratta da Cineraccio, Neri Pozza, Vicenza 1961]
PARTE X
Mattinata
203
Il farmacista di Mattinata
Virgilio Lilli
Virgilio Lilli (Cosenza 1907). Giornalista e scrittore, ha pubblicato Racconti
di una guerra (1941), Gazzettino (1947) e Una donna s’allontana (1959).
Inviato speciale del quotidiano milanese Corriere della Sera, sulle cui pagine il
17 luglio 1959 pubblicò il divertente elzeviro riportato in questa sede.
A una ventina di chilometri da Manfredonia esiste un paese che ha un nome
veramente chiaro e sereno. Si chiama Mattinata. Ma a Manfredonia la gente ve ne
parla non per questo suo consolante nome, bensì a casa di una delle sue due farmacie. A noi, per esempio, accadde di sentirci dire: «Andate a Mattinata a comprarvi
un tubetto d’aspirina o un calmante contro il mal di testa; ma fate attenzione:
prima farmacia a sinistra entrando in paese. Ne vale la pena». Accettammo il suggerimento senza domandarci perché, per un tubetto d’aspirina del quale fra l’altro
non avevamo bisogno, dovessimo fare quaranta chilometri andata e ritorno. Evidentemente volevamo riservarci il piacere (o la delusione) della sorpresa.
Ci sembrò obbligatorio partire al mattino, convinti che un paese con un simile
nome di pomeriggio non ci si sarebbe presentato nei suoi veri panni. Ma il tempo
ci bloccò a Manfredonia quasi fino a sera. Improvvisamente, verso le dieci, scoppiò
una gran tempesta di vento, subito seguita da una tempesta di pioggia e infine da
una tempesta di mare, con onde gialle e sciroppose come fossero di catarro piuttosto che d’acqua. Verso le tre del pomeriggio, poi, una tromba d’aria.
Detto fra parentesi, noi non avevamo mai assistito allo spettacolo d’una tromba
d’aria. Ci trovavamo nell’atrio di un grazioso albergo moderno situato sul mare
all’estremo limite del paese, e contemplavamo l’inferno della pioggia, del vento e
dei cavalloni lungo la costa, quando udimmo una sirena lamentarsi con un grido
lungo, cupo e accorato come in tempo di guerra. Pensammo si trattasse di qualche
nuova difficoltà. Era, al contrario, la tromba d’aria. Constatammo così che le trombe d’aria suonano precisamente la tromba e ci domandammo se per caso esse non
204
Verso Sud
D. Grittani
dovessero il loro strano nome a questa particolarità più che alla forma di imbuto
capovolto che ha il loro risucchio. Si tratta comunque di furie. Questa che ascoltammo con i nostri orecchi nel giro di pochi minuti aveva scoperchiato un grosso
casamento sul mare, abbattuto un lungo muro sulla strada dietro quel casamento e
sradicato una decina di pini.
Sempre detto fra parentesi, noi finimmo col credere che a Manfredonia e dintorni le trombe d’aria fossero di casa, per il fatto che qualche minuto dopo quel
putiferio la polizia era già arrivata sul posto e con la polizia era arrivata una squadra
di operai e di tecnici che già rimettevano ordine, con una efficienza da veri e propri
«specialisti in trombe d’aria». Qualcuno ci informò più tardi che trombe d’aria a
Manfredonia, invece, non se ne vedono quasi mai. Segno che quei pugliesi, i quali
nell’Italia del centro e del nord vengono ritenuti «meridionali sonnolenti, pigri,
infingardi» e via di seguito, hanno i riflessi anche più rapidi di certi settentrionali;
senza contare l’organizzazione. Mentre noi li osservavamo con piacere, così alacri
ed efficienti sul luogo dell’incidente, la tempesta, che s’era alquanto addolcita tanto
da consentirci d’uscire, se ne andò com’era venuta e il sole tornò a splendere come
nulla fosse stato. Lavata dall’acquazzone, Manfredonia appariva ora d’una essenzialità perfino eccessiva, i filari delle sue case avevano assunto una piattezza grafica da
tavola a colori. E a questo proposito vorrei anzi dire di passaggio che nei paesi
marittimi della Puglia, sotto il Gargano, c’è molta Grecia e allo stesso tempo un po’
di Venezia. Non la Grecia, naturalmente, delle acropoli, dei templi, degli stadi, ma
la Grecia d’oggi: la casta e asciutta magrezza dei paesi della costa del Peloponneso,
soprattutto, e anche delle Cicladi. Quanto a Venezia, è chiaro non si tratti del molle
e colorato sfarzo del Canal Grande ma della schematicità teatrale dei suoi quartieri
più poveri: gli stessi intonachi delle mura, le stesse cornici bianche tutt’intorno alle
finestre e alle porte, e per finire l’atmosfera di palazzo che hanno anche le catapecchie,
da quella di palcoscenico, con la gente seduta sugli usci, all’aperto, quasi attendesse
di cominciare una recita: come nei campielli. A parte queste considerazioni d’ordine generale, passata la tempesta ce ne andammo a Mattinata. Il sole era ora fulgido
proprio come di mattina, e sarebbe stato veramente un capriccio letterario insistere
su quel contrasto fra il nome «Mattinata» e il fatto «pomeriggio». Prendemmo
dunque la strada litoranea garganica, che da Manfredonia segue l’intera costa del
promontorio e, dopo Mattinata, andrà a Vieste, a Peschici, a San Menaio, a Rodi
Garganico fino a lambire la laguna di Varano per poi innestarsi, a San Severo, sulla
Foggia-Termoli. Si tratta di una delle strade più splendenti del mondo, una di
quelle che si contano sulle dita di una mano, come la amalfitana, la GuernavacaAcapulco al Messico, quella costiera (occidentale) di Shikoku, in Giappone, la Atene-Capo Sunion in Grecia, eccetera. Dentro il sole, dopo il lavacro d’una pioggia
V. Lilli
Il farmacista di Mattinata
205
tempestosa, su questa strada i colori del mare, del cielo, delle rocce, dei fiori di
campo e della campagna, non solo ma il colore dell’asfalto perfino sembra sia l’occhio a crearli nello stesso momento che li guarda; tanto immediata è la loro presenza e immacolata la loro purezza. (E quanti italiani del centro e del nord conoscono
sia pure la sola esistenza d’una simile meraviglia?).
A Mattinata, sulla sinistra della via centrale arrivandoci da Manfredonia, ci recammo alla farmacia indicataci. E ci sorprese che la via centrale, appunto, si chiamasse corso matino (con un t solo a differenza del nome del paese che ne ha due).
Anzi ne domandammo un po’ qua un po’ là una spiegazione, subito: e alcuni ci
dissero che il paese essendo esposto a Oriente, il sole lo scopre appena si leva dal
mare, di primo mattino, e così gli ha dato il nome (passandolo anche alla sua strada
principale); altri che quel nome non ha niente a che vedere col sole e il mattino, ma
che si tratta d’una derivazione linguistica greca o addirittura sanscrita della quale
non sanno di più.
Fuori della farmacia non notammo nessuna insegna che ce ne dicesse il nome o
il nome del proprietario; soltanto, al di sopra della porta riparata da una tenda di
lunghi fili di perline colorate, una lanterna anch’essa colorata faceva trasparire attraverso i vetri smerigliati una piccola croce rossa. Superata la porta ci trovammo in un
locale più profondo che largo, immerso in una gradevole penombra, diviso vagamente in due settori: un settore verso la strada con vetrine e armadi alle pareti, e un
settore più interno col bancone di vendita dietro al quale, del resto, altre vetrine e
armadi si incollavano alla parete. Un ampio retrobottega o studio infine, si intravedeva da una porta semiaperta sulla parete di fondo, con scaffali, armadi, vetrine e
uno scrittoio maggiolini davanti a una poltrona con tappezzeria rosso vermiglio. Il
farmacista era un uomo di mezza età, piuttosto piccolo e asciutto, di viso abbronzato, regolarissimo e di modi riservati, ma con qualche bruschezza. Non vestiva il
camice bianco dei farmacisti e si muoveva fra i clienti, la più parte contadini, come
un ufficiale fra la sua truppa, con affetto, cioè, e autorità. Lo aiutava nel suo lavoro
una ragazzetta dagli occhi nerissimi, incantati. Noi gli chiedemmo un tubetto di
aspirina in attesa che avvenisse qualcosa di interessante; ma egli ce lo dette cortesemente come in una qualsiasi farmacia del mondo. Ci disponevamo così, ad andarcene piuttosto contrariati (ma nello stesso tempo incerti se dire al farmacista: «Ebbene, che cosa c’è di nuovo e di bello qua dentro?»), quando, abituati gli occhi alla
penombra, notammo nelle vetrine e negli armadietti più prossimi alla porta d’uscita oggetti piuttosto insoliti nelle vetrine e negli armadi delle farmacie. Si trattava di
anfore di fattura greca, di lacrimatoi che parevano usciti allora da tombe precristiane,
di piatti, vasi, ampolle, e poi monili, e poi specchi, e poi perfino spilli eccetera
eccetera la cui età andava visibilmente sopra i due millenni.
206
Verso Sud
D. Grittani
Sorpresi, buttammo uno sguardo più attento sulle vetrine e sugli armadi dietro
il bancone: anch’essi contenevano oggetti archeologici o comunque da museo. E ne
contenevano teche e scaffali ai lati del bancone, insieme con lumi a petrolio del
secolo scorso, assai lunghi e gracili, forse napoletani, e a ceramiche cinquecentesche
e ottocentesche, di Faenza, di Napoli e anche pugliesi, a pezzi di cultura barocca e
altro. Tutto, per la verità, un poco confuso, forse di proposito, nell’intento che una
disposizione da catalogo non sfreddasse l’intimo calore di quel mescolarsi di così
disparate testimonianze del tempo. Avvedutosi del nostro interesse, d’altra parte, il
farmacista, sempre impegnato a servire i suoi taciturni clienti, ci fece segno con la
testa di entrare nel retrobottega, e di dare un’occhiata a nostro comodo alle sue
collezioni. Così noi facemmo; e trovammo il solito grazioso e prezioso confondersi
di oggetti di scavo con oggetti di più recente antiquariato e perfino con qualche
ciaffo. Ciotole romano-campane, vasi di Ruvo, brocche e anfore italiche, greche e
simili sugli scaffali, e perfino sul pavimento di quel bizzarro laboratorio chimicofarmaceutico, alitavano decisamente intorno una atmosfera romana da via del
Babuino e da Villa Giulia allo stesso tempo, sia pure in diciottesimo; fra una terracotta e l’altra s’avvertiva perfino la presenza enigmatica degli etruschi, molto grecizzati
come mi pare avvenga particolarmente al sud, ma forse per questo più dolci e
cordiali. Unica testimonianza d’oggi, una foto grande come un manifesto mostrava
una bellissima ragazza in costume garganico, la quale volgendo le spalle all’obiettivo metteva elegantemente in luce un ampissimo scialle; ed era la figlia di lui, del
farmacista.
Né mancava San Michele. Questo arcangelo così congeniale ai cattolici anglosassoni è intensamente amato dai pugliesi che, sul Gargano, lo considerano una
specie di padre della patria e lo venerano nel santuario di Monte Sant’Angelo sotto
le spoglie d’una piacevole scultura attribuita al Sansovino. Nel laboratorio-studiomuseo nel quale ci trovavamo, di San Michele ce ne era una vasta collezione d’esemplari, fra i quali una copia abbastanza preziosa di quello sansoviniano.
È necessario dichiarare ora che un uomo come questo farmacista archeologo è la
stessa Puglia in carne ed ossa? Il figlio tipico di una civiltà che riesce a fondere senza
stridori certi fatti della vita essenzialmente umani nel senso anche più pratico della
parola con certi fatti della intelligenza essenzialmente umani nel senso anche più
fantastico della parola. (Quanto alla nostra personale esperienza, la più simpatica
aspirina della nostra esistenza è ovvio rimarrà quella di Mattinata).
[Articolo di VIRGILIO LILLI tratto dal quotidiano Corriere della Sera, Milano 17 luglio 1959]
PARTE XI
Rodi Garganico
209
Fotogrammi di Rodi Minor
Giuseppe Cassieri
Giuseppe Cassieri (Rodi Garganico 1926). Autore tra i più originali della narrativa italiana, il garganico Giuseppe Cassieri è noto soprattutto per la sua
opera d’esordio La cocuzza (1960), quindi per Ingannare l’attesa (1979, Premio Selezione Campiello), per lo sferzante romanzo Diario di un convertito
(1985) e per Un asino al patibolo (1983, Premio Ennio Flaiano per il teatro).
La prosa Fotogrammi di Rodi Minor, che qui viene riproposta integralmente,
apparve in versione notevolmente ridotta sulle pagine culturali del quotidiano
La Gazzetta del Mezzogiorno il 23 agosto del 1989.
Pare assodato che il Giannone, tutto preso dai suoi impegni storici e
giusnaturalistici, precocemente coinvolto in circostanze politiche che dovevano allontanarlo per sempre dalla nativa Ischitella, non abbia lasciato alcuna impressione
autobiografica sulla piccola Rodi, pur a tiro d’archibugio dalla casa dove venne alla
luce.
Non uno strappo lirico, non un atteggiamento stupefatto dinanzi alla natura
che da monte a mare, a lago, passando per boschi e valloncelli, si compendiava in
un guazzetto alla Poussin.
Dimenticanza troppo grave all’occhio dei rodiani perché memorialisti coevi e
posteriori a Pietro Giannone, specie Michele Rotunno e Antonio Vaccaro, non
facessero del loro meglio per restringere nelle Appendici i meriti di chi minacciava
di guadagnarsi la posterità nonostante quella e altrettali lacune.
E anche quando, pochi decenni orsono, un prefetto di Foggia, imbeccato dall’alto, suggerì ai sindaci garganici di intitolare una strada all’autore del Triregno,
nella piccola Rodi prevalse l’antico dispetto sul sussurrato rispetto, e il Consiglio
municipale pervenne alla deliberazione di chiamare Corso Giannone una sconnessa fettuccia extramurale. Forse l’ubicazione della targa in quell’angolo derelitto fu
soltanto genericamente irriguardoso: la periferia e basta; ma non si può escludere
210
Verso Sud
D. Grittani
che un ispirato giustiziere abbia suggerito quel «Corso» per applicare una sorta di
contrappasso. Di che, in fondo, si era occupato l’autore del Triregno, parlando di sé,
nella Vita? Per caso dei trastulli dell’infanzia al cospetto degli aranceti, dei gagliardi
oliveti, dei giganteschi olmi e lecci, delle acque zampillanti al tocco di ogni verga?
Per caso delle anguille e dei capitoni del Varano, con un sospiro nostalgico per
gli eccezionali arrosti alla griglia, in una combinazione aromatica di menta e rosmarino? O delle dolci colline agrumifere da cui contemplare le Diomedee (non ancora
volgarizzate in isole Tremiti) avvolte nell’oro del mito? Niente, niente in quelle
pagine «raspose» che fosse spia di uno spirito innamorato della sua terra, lusingato
di portarne in giro le tracce. Quel pochissimo che vi aveva dedicato, ricostruendo
gli anni dell’infanzia, ecco in che si distillava: nome e cognome («ci mancherebbe!»
commenta scandalizzato il Rotunno) dei genitori e di qualche stretto parente; nome
e cognome del prete che gli insegnò grammatica latina; e dopo siffatte minutaglie
l’episodio a piene lettere dell’imbarazzo viscerale, sicuramente grave («ma dov’è
quel fanciullo che non ne ha avuto e non ne avrà?» – vedi A. Vaccaro) per cui
Pietruccio stette tra vita e morte. E insistendo sui dettagli – con tutto quello che
c’era da dire sulla popolazione e sul paesaggio – quale meraviglia giunge a insinuare
il grande storico? L’imbecillità, l’ignoranza dello speziale («sissignore, sarà stato vero,
ma carità di patria richiedeva di non perpetuar il qui-pro-quo di un conterraneo» –
M. Rotunno, ibidem) che aveva venduto alla madre del malatino chissà che famigerato purgante, se gli fece rischiare la liberazione precoce dell’anima.
Nessun dubbio che l’avesse scampata «col favore di un Arcangelo» e che Pietruccio
fosse rimasto così traumatizzato da quella «profluvie», da risultare per contrasto
molto stitico in veste di autobiografo. Ma si poteva liquidare in due pagine sommarie e fortemente «realistiche» l’ellenica bellezza dello «Sperone d’Italia» (M. Rotunno
e A. Vaccaro all’unisono) e partirsene da mercenario? Meglio, allora, il totale rigetto. Si aggiunga che un contemporaneo dell’ischitellano, Giacomo Ventrella, frate
cappuccino di incerta provenienza, scrivendo la sua «Istoria apula», usciva a dire, a
coronamento di un inno antropico: «Qui, a Rodi minor, figlia diletta della Rodi
major, innanzi che gli uomini abitarono gli dei». Si aggiunga che il frate, in agonia,
volle essere trasportato dai confratelli sulla loggia del convento per godersi in un’estrema panoramica la dimora dei buongustai pagani, parafrasando nei gemiti il verso
riferito a S. Cristoforo: «Rodi videas, postea beatus eas…». Si tenga presente questo
parallelo sapientemente ravvicinato dal Rotunno e dal Vaccaro, e si spiegherà l’abbondanza delle monografie ventrelliane nelle contrade del Promontorio, nonché
l’intestazione del Belvedere all’appassionato cappuccino, col corsivo: «Rodi videas,
postea beatus eas».
Un po’ più elaborato, se si vuole, del «Vedi Napoli e poi muori», ma appunto
G. Cassieri
Fotogrammi di Rodi Minor
211
per questo in armonia con la struttura notevolmente orgogliosa dei rodiani (a proposito, il Rotunno si batte per Rodî in disaccordo col Vaccaro che propone rodiesi)
i quali, se accettano di discendere da Rodi Egeo, disdegnano legami di lingua e di
sangue con le città del Tirreno, alla stessa stregua che da sempre disdegnano Roma
e Garibaldi (l’una per non aver provveduto, nei fasti consolari, a una ramificazione
dell’Appia, l’altro per non avervi fatto tappa nel suo zingaresco viaggio nel meridione), né si sgomentano di affrontare l’economia di mercato avventurandosi da soli
nel mondo. Tanto che oggi non c’è volantino compilato dalla Pro-Loco che non
riporti il verso del Ventrella, e finanche sulla «Frankfurter Allgemeine Zeitung»,
fidando sul romanticismo germanico, le inserzioni che vi fanno comparire gli affittacamere concludono col: «Rodi videas…».
Cosa dunque troveranno, appena approdati, i visitatori stranieri e, similmente,
gli italiani attratti dal medesimo slogan? Per la verità, di Omero non è accertabile
alcunché, e perfino il Rotunno e il Vaccaro debbono convenire che l’«omerico» vale
per definizione augurale, nel senso che un luogo così fatto sarebbe immensamente
piaciuto a Omero. Su questo non si può dar loro torto. Rodi minor si pronuncia a
sprone sullo spartiacque del medio e basso Adriatico dopo che – un’illusione ottica
cui difficilmente si sfugge – ha «chiesto» alla campagna circostante di potersi sfoltire
di alberi, coprirsi di caseggiati insolitamente alti, e bagnarsi tra gli scogli.
Per essere situata, come si diceva, al punto di congiunzione del basso e medio
Adriatico, accade che il paesino sfugga a ogni determinismo meteorologico e il
campo cursorio dei venti e delle piogge obbedisca a una circoscritta validità ambientale. Questo non vuol dire che la sua posizione sia assolutamente privilegiata
rispetto al resto del Gargano e che nella risacca si spengano per magìa le ire del
grecolevante; ma è innegabile che un certo favorevole gioco di correnti si attui se
l’inverno si congloba nell’autunno, se l’estate è lunga ma ombrosa, se la primavera
si traduce in una frenesia di aranci fioriti. Giacché questa è, infine, la riprova della
straordinaria mitezza: la predominanza di agrumi sugli oliveti e sulle altre colture.
Scarsi i cereali, rari gli eucalipti, defilati i cipressi e, segno di squisita attenzione della
dea Pomona (il Ventrella, il Rotunno e il Vaccaro in perfetta coincidenza di vedute),
la varietà della frutta; dai fichi che maturano in cinque qualità e resistono sui rami
da giugno a novembre, ai fichidindia della durezza di una cassata e del colore di un
fiocco cardinalizio, prugne e susine, percoche e pere spadone, amarene e nespole,
uva moscata, carrube grasse col miele che scorre come tiepido mercurio nella guainella
e, si capisce, la regina del corteo, l’arancia. Quest’ultima, i rodiani hanno faticato
un paio di secoli per imporla come la migliore del Mediterraneo, ma non avendo
ottenuto autorevoli riscontri, hanno fatto sapere in Sicilia, in Calabria, a Sorrento
212
Verso Sud
D. Grittani
che la riconoscevano essi come tale ed erano superflue ulteriori tavole rotonde.
Vittoria più facile, e forse mai contestata, l’ebbero viceversa con i limoni.
Agronomi, docenti universitari, esportatori e medici di chiara fama non esitarono a
individuare nel grado di acidità del limone rodiano una caratteristica che lo poneva
automaticamente in una posizione di gran rilievo «su scala internazionale».
Durante il colera del 1866, le statistiche assicurano che fu possibile risparmiare
qualche migliaio di vite umane proprio in virtù dei rodianissimi limoni, mentre a
San Severo, a Foggia e più lontano l’epidemia faceva tale strage da generare empietà
nei sopravvissuti. Non si contarono i morti che poi non erano veramente morti ma
appena presunti, seppelliti in fretta, con manifesti segni di «sepolti vivi». Anche
nella piccola Rodi, ci tramanda un memorialista più equanime del Vaccaro e del
Rotunno, Luigi Vigliaroli, un’anziana signora, colpita da semplice collasso, venne
sepolta in un bagno di calce nella Chiesa del Crocifisso su istanza del figlioccio
sconvolto dall’idea del contagio.
Ma subito il Vigliaroli aggiunge che furono i bravi trabaccoli rodiani a sfidare i
divieti delle autorità sanitarie, a caricare la stiva del prezioso prodotto e a trasportarlo nottetempo in Dalmazia, allorché nel 1893, nel 1907 e nel 1913 taluni centri di
quella regione furono investiti dal disastroso morbo.
Conti alla mano, non si può comunque negare che arance e limoni siano qui
diventati un lusso da principato di Monaco. Con tutta la protezione della Vergine
della Libera e la benignità atmosferica, ogni quattro, cinque, sei anni si verifica la
«gelata»: a due gradi partono i limoni e a tre gradi sotto zero marciscono le più
superbe arance. Il che significa non solo fallimento del raccolto in atto, bensì pregiudizio per moltissime piante ferite nel tronco.
Se la natura rispetta i suoi cicli a un lustro dalla gelata è probabile che il raccolto
venga su pieno, sì che molti agrumieri saldano i debiti, imbellettano la casa, mandano i figli all’università. Se però nelle annate di recupero Spagna e Israele inondano il mercato a prezzi concorrenziali, la completezza del raccolto paga un cospicuo
tributo alla scarsa possibilità di reggere il confronto. Al quinto, al sesto o al settimo
anno, stando alle statistiche, il gelo ricompare e il paese torna a radunare «le sue
lacrime e le sue preci» dietro il manto della Vergine della Libera portata in processione dal Santuario al Belvedere, nella speranza, – mai assecondata, a detta dei
memorialisti – che le falde di neve si posino impunemente sull’aurea scorza.
Accertato infine, come pure è stato accertato, che Rodi minor è atavicamente
edonistica, e la sua fisionomia tradisce quel tanto di fragile e iridescente che è nel
carattere delle civiltà bizantine, essa vanta qualcosa che i paesi garganici della mezza
montagna non possono assolutamente eguagliare: la nessuna inclinazione alla
rissosità, all’avarizia, al crimine.
G. Cassieri
Fotogrammi di Rodi Minor
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I registri della Pretura permettono di riscontrare come sia inequivoco questo
aspetto sociale: contro la ridda dei delitti consumati, nel giro di trent’anni, in agro
di Carpino, Cagnano, Sannicandro, San Marco, San Giovanni, il rapporto è di uno
a mille. Il furto più frequente a Rodi minor avrebbe fatto impazzire di tenerezza
Goethe, se costui si fosse spinto sullo «Sperone» (vedi il Vigliaroli, ibidem) «anziché
perdere tanto tempo a Napoli»: l’innocente e davvero omerica concupiscenza di
fichi che trova appagamento nelle «uccelline», nelle «verdesche», nelle «cipressuole»,
nei «faraoni». Per i cinque mesi in cui matura e si moltiplica questo frutto prodigioso, chi non ne possiede in proprio non resiste alla tentazione d’intrufolarsi nelle
campagne altrui, arrampicarsi sulle piante, allentarsi la cinta e starsene lì accovacciato
fino all’estinzione del desiderio. Non a caso, volendo dire nel gergo rodiano fare
scempio di qualcosa, si dice comunemente: «È stato conciato a pedafico» (cioè ad
albero di fico follemente strapazzato).
Metastasi espressiva in cui è da leggere a un tempo il piacere della trasgressione
in sé e il trionfo papillare della sensualità.
[Testo di GIUSEPPE CASSIERI, pubblicato non integralmente dal quotidiano La Gazzetta del Mezzogiorno,
Bari 23 agosto 1989]
PARTE XII
Peschici
217
Peschici
Antonio Baldini
Antonio Baldini (Roma 1889 - 1962). Tra i più illustri rappresentanti del
movimento letterario La Ronda, con il magistrale elzeviro Indicazione del
Gargano a uno straniero dubbioso (pubblicato dal Corriere della Sera il 18
giugno 1925), Antonio Baldini ha firmato alcune delle pagine più belle che
siano mai state dedicate alla cosiddetta “montagna sacra”. Nel racconto che
segue, pubblicato nella raccolta di novelle Italia di Bonincontro, si noti curiosamente come Baldini potrebbe essere ritenuto presago della fortuna che (ben
settantatre anni dopo, cioè nel 1998) avrebbe regalato a Peschici la straordinaria vincita di 63 miliardi al SuperEnalotto. Lo si noti, soprattutto, nel passo che
recita «Che favola mai è questo vostro paese? Garantisco che potrebbe fornire
ottimi scenari e argomenti a qualunque favola, leggenda o romanzo...»
«E così non siete mai stato in Italia?»
«Oimè signore! è mio desiderio, studio e proposito antico conoscere personalmente vostra bella Italia.»
«E, di grazia, che aspettate a decidervi? Sento che conoscete già così bene la
nostra lingua e mostrate d’essere informato delle cose nostre antiche e moderne
assai meglio di tanti italiani.»
«Grazie. Qui sta il male. Intanto vi dirò che una delle ragioni che mi tiene dal
venire in Italia è che Alinari l’ha già tutta fotografata.»
«E che male vi ha fatto con questo il povero Alinari?»
«Che oramai Italia, senza esserci stato mi pare di conoscerla lo stesso.»
«Che mi dite!»
«Che vi dico? Venezia e la Ca’ d’oro, va bene? Firenze e il Ponte vecchio, va bene?
Napoli, Pompei, il cratere che fuma, la grotta azzurra, va bene? il dolze far niente, il
campanil di Pisa, pergole d’Amalfi e di Sorrento, il Colosseo, templi di Girgenti e
di Pesto sotto la luna, va bene? – sono oramai cose troppo conosciute, troppo
218
Verso Sud
D. Grittani
suonate, sempre e dovunque sentite dire, da mio padre, da mio nonno, da mio
suocero, e passate e ripassate per tutte le salse di colore e di parole; e io conosco per
prova, signore, la delusione di ritrovar sul posto la cosa che c’eravamo immaginata
né più né meno di come proprio ce l’eravamo immaginata. Vostra troppo famosa
Italia mi desta molto affanno, signore. Domando: non ci sarebbe forse modo di
entrare in lei da una porta di servizio dove non fosse nulla di famoso da vedere? non
avreste, tanto per cominciare, un paese senza conosciute rovine, senza gondole,
senza Garibaldi, senza torri che pendono, senza grotte che parlano, senza monti che
fumano, senza tarantella, senza pescatore che accomoda le reti, senza tramonti al
sugo di tomate? Scusate come parlo, mio signore. Non è detto che anche io a tempo
e luogo non stimerei dovermi incontrare con vostri panorami e monumenti universalmente noti, ma un momento di respiro nel principio, oh pregherei molto,
signore! Arrivarci di fianco, di sorpresa, incognito, quasi per combinazione, questo
vorrei: non capitargli incontro a suono di musica, come in viaggi di nozze, ciceroni
in testa e vetturali in coda, mio signore. E il campanile pendesse pure quanto gli
pare, il Vesuvio fumasse pure con tutto il suo comodo, e la grotta fosse pure azzurra
a suo talento, ma vorrei che venuto per me il momento di vederle, tutte queste
meravigliose cose non avessero aria di darla a intendere come a un primo venuto.
So bene, signore, che il difetto non è tanto nelle cose quanto nella memoria già
guastata da troppe letture sull’argomento e nei miei occhi che hanno già veduto
troppi quadri, troppe stampe, troppe oleografie, «Santuzza credimi», troppo Alinari.
Voi, mio signore, avete l’aria di ridere; ma io torno a domandarvi: non avreste,
per anticamera del mio soggiorno in vostro paese, da consigliarmi Italia di prova, di
mezza luce, senza storia, per soli amatori, fuori delle zone troppo illustrate, bella
senza cornice e all’insaputa di Alinari, di Dante, Carducci, Gregorovius, d’Annunzio, Bertacchi? da poterci fare un po’ di quarantena innanzi d’affrontare la gran
tràppola aperta al forastiero? Vi siete reso conto, signore, di quello che senza offesa
per nessuno io voglio dire?»
«Perfettamente. E vi dirò che io credo d’aver avuto per le mani quanto di meglio
farebbe al caso vostro e di altri che si possano trovare nelle vostre condizioni. Ascoltate. Che ne direste, se invece della grande Italia allungata da N. a S. pei viaggi di
nozze coi grandi Espressi, vi dessi, come voi chiedete, una minuscola Italia di prova,
che andasse invece da O. ad E., ancora «nuova per queste scene» e senza la più
piccola traccia di strada ferrata? una piccolissima Italia, ancora inedita, quintesenziata,
con degli abitanti sui generis, con un appennino e dei laghi tutti per lei, e con un
assaggio assai compendioso e istruttivo (sopra una lunghezza di settanta e una larghezza di quaranta chilometri circa) del colore e delle caratteristiche di paesaggio e
di cultura di molte, se non di tutte, le altre terre italiane di maggiore spicco: voglio
A. Baldini
Peschici
219
dire con un poco di Liguria e un poco di Sicilia, un poco d’Istria e un poco di
Toscana, un poco d’Umbria e un poco di Calabria, un po’ di Capri e un po’ di
Ciociarìa? Che ne direste?»
«Accettato. Ma esiste questa terra veramente?»
«Pensate dunque che bellezza! una piccola Italia così poco conosciuta dagli stessi
italiani che anche tra le persone colte molti non sanno, facendo il suo nome, dove
lasciar cadere l’accento; una vera piccola Italia ricca di boschi, di storie, di santità, di
leggende, della quale il Baedeker non dice nulla e probabilmente lo stesso Alinari s’è
dimenticato. Vi va? si combina?»
«Corpo di mondo, io domando se esiste veramente la terra che voi dite.»
«Esiste. Un’ora di mulo vi fa salire, dalla regione dei fichi d’India, dove abbondano i capperi sulle mura arroventate dal sole, a quella delle carboniere nelle gole
umidissime del monte. Una mezz’ora di carrozza vi trasporta dalle agrumifere terre
ancora profumate dalla canzone di Mignon alla rada turchina delle ecloghe pescherecce del Sannazaro. Una corsa a ruota libera in bicicletta, per ottime strade, attraverso pascolo e foresta, vi fa riuscire, giù da un grigio e scorbutico villaggio di
Schiavonìa nella piazza deserta e abbagliante d’un paese tutto arabo sul mare. Gli
ulivi che accuratamente coltivati per tutto un fronte di colline fanno tornare a
mente certi dolci aspetti dell’Umbria francescana, per poco che salga la costa voi li
vedete uscir di terra grandi e selvaggi come quelli del gebel tripolitano.
E voi, voi che mostrate d’aver in tanto sospetto i motivi troppo pittoreschi della
nostra vita regionale, dove io vi voglio portare potrete lasciarvi servire tranquillo. Le
facce che incontrerete per le vie di quei monti è difficile che le abbiate viste in altre
vetrine. Nel paese che dico debbono far presto a invecchiare, perché di giovani se ne
vedono pochi: e invecchiando non pigliano quell’aria arzilla, benigna, quella comune dolce figura d’attaccabottoni che sullo scenario d’una qualunque piazzetta
italiana si può sempre facilmente figurare in polpe goldoniane di scrivano pubblico
o in berretta di «pescatore-affonda-l’esca»; ma dal loro viso di serio e buon galeotto
tutto tagliuzzato di rughe traluce una certa chiusa illirica tristezza. Quello che offrono è un figurino assurdo, come chi dicesse un barcarolo di montagna. Essi e le loro
famiglie vanno a bisdosso dell’antico cavallo pugliese, che nei tempi dei tempi fu
incrociato coll’arabo; e quando il cavallo memore dell’antica generosità fa uno scarto escon dal gruppo nugoli di mosche.
Paese incrostato di storia più di qualunque altro; ma con questo di buono, che
lì la storia non fa più rumore di quanto ne possan fare nei meriggi estivi le onde del
mare e le fronde del bosco: e quando tutto tace anch’essa tace e schiaccia il pisolino
dell’erudito locale nella libreria senza pretese. I monumenti che ci sono cercano di
non farsi vedere o spuntano con tutta discrezione da un verde di giardini profuma-
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Verso Sud
D. Grittani
ti. Per lo più sono vecchie torri alzate un giorno invano sul litorale contro i pirati
turchesi che desolarono a varie riprese la regione, e che ora, rimbiancate di calce,
servono d’alloggio alle guardie di finanza. Potete fidarvi, signore. Qui la storia non
abbaia e non morde. Sonnecchia. Ma come talora il buon vino dà forza mirabile a
quei sapori misti di cedro, di fragole e di popone che son chiusi nella polpa
dell’ananasso, così nell’ardente silenzio di questa regione voi potrete a momenti
gustare senza troppa fatica come un sapore misto delle varie civiltà che lentamente
una dopo l’altra vi si sono posate nel fondo, ogni volta lasciandovi qualche cosa di
nuovo e d’inconfondibile per secoli dei secoli sulla faccia dei più poveri abituri,
nell’aria stessa, nei visi degli abitanti, nei costumi, nella favella e fin nella bardatura
degli animali domestici: trasmissioni e influenze longobarde, bizantine normanne,
saracene… »
«Che favola mai è questo vostro paese?»
«Garantisco che potrebbe fornire ottimi scenari e argomenti a qualunque favola, leggenda o romanzo, ecloga o poema, tanto è vario, animato, risentito, pittoresco; e non ancora sfruttato. Chi voglia vederlo, c’è il sasso dove prima apparve
all’Occidente Michele Arcangelo ancora sonante del suo lungo volo attraverso il
mar di Venere. Chi voglia ricorrervi, c’è perfino un santo in carne e ossa e con tanto
di stímmate, in un bianco convento di Minori Cappuccini. Chi li preferisca, troverà sul monte scenari di bosco e caverne, dove ancora non s’è bene spento il ricordo
dei briganti che sul primo tempo del Regno assaltavano la corriera postale italiana
al grido di viva Francesco secondo! E ci sono castelli e torri in rovina che la sera della
domenica s’empiono di suonatori di chitarra con dei berretti che non avrete mai
visto gli uguali sulle stampe che dite. E ci sono i grossi paesi del monte, candidi sulla
roccia a ottocento e più metri sul mare, colle più capricciose accostature e incrociature
di casa con casa, di scale esterne, arconi, terrazze, poggiuoli, che sia dato vedere per
tutto l’Adriatico. Vanno le nere capre per le strade e le piazze, pare impossibile,
senza insudiciare. La gente coglie tutti i pretesti per portare le seggiole sul marciapiede e siede soddisfatta guardandosi attorno. Le ragazze restano in piedi sull’uscio
o sedute sul primo scalino. Tra le bianche case senza cornicione il giorno non finisce
mai di tramontare e attorno alle minuscole finestre filze di bucce d’arancio messe a
seccare pare che trattengano per loro conto la luce del sole fino a scuro. Secca
allegria, questa per tutto diffusa decorazione di bucce, che sta a significare né più né
meno che questo: che una delle più invidiate ricchezze del luogo non potendo
essere inoltrata per mancanza di mezzi di comunicazione nei varî mercati di consumo marcisce sul posto e la gente non ne riesce a salvare e utilizzare che la sola
corteccia. Secca allegria che lega meravigliosamente con quella dei balestrucci che
rigano indefessi l’aria tra le rocche dei camini. Sull’ora più fresca finalmente anche
A. Baldini
Peschici
221
le famiglie della borghesia tiran su gli storini dipinti e comparendo colle sèggiole sul
poggiuolo si assidono in ordinata mostra.»
«Il bel paese che voi mi dipingete!»
«Scendiamo alla marina, signore. Verdi, allegri, lucenti d’agrumi s’affacciano
uno dopo l’altro sul mare deserto i colli del buon lavoro e deliziosi viottoli vi si
perdon fra mezzo salendo. Su pei colli si vedono qua e là fitte incannucciate difendere i giardini dai crudi venti del nord, e dietro l’incannucciate, gli alberi punteggiati d’oro e caldi di sole sorridono come donne dietro il ventaglio. Però sulla strada
litorale che il mare lambisce fanno miglior difesa contro i venti e il sale lunghe mura
arcate che pel tesoro ombroso e profumato che celano al nostro sguardo possono
con una certa insistenza far pensare anche alle bianche mura di un harem. Vi dico
che di notte, alla viva luce delle stelle, quando un’arietta vagante porta in giro mescolati odori di pino e d’arancio e nel silenzio cullato dal mare fa cigolare un fanale
che rabesca d’ombre strane quel muro di clausura, vien davvero la voglia di dargli la
scalata… I paesi costieri scoprono i lumi un dell’altro protesi sul vuoto mare e
vedono alterne accendersi e spegnersi le luci dei fari. Davvero non so in qual altro
paese d’Italia possa esserci un silenzio così alto. Il treno più vicino si ferma a settanta
chilometri. I pazienti coltivatori dormono in pace nelle loro villette in cima ai colli
e dimenticando la frutta andata a male per anni e anni nei fossi ascoltano in sogno
il fischio lontano della ferrovia che il sottosegretario deputato del luogo ha promesso in questi giorni alla nobile terra del Gargano.»
[Tratto da Italia di Bonincontro, ANTONIO BALDINI, Sansoni 1940]
PARTE XIII
Monte Sant’Angelo
225
Descrittione del Monte Santo Angelo
Leandro Alberti
Leandro Alberti (Bologna 1479 - 1553). Frate domenicano, a seguito di un
lungo viaggio compiuto al servizio del generale dell’ordine Francesco Silvestri
da Ferrara pubblicò la vastissima opera Descrittione di tutta Italia nella quale
si contiene il sito di essa, l’origine e la signoria delle città et de’ Castelli,
risalente all’anno 1550. Da questa è tratta la Descrittione del Monte Santo
Angelo, prosa che si rivelò un utile strumento per chi - qualche anno dopo riprese a battere i lunghi sentieri della fede della Via Sacra Langobardoruum.
Seguitando poi il lito ritrovasi la città di Manfredonia posta sopra la sassosa rupe
del golfo del mare del monte Gargano, che riguarda al Settentrione. Fu edificata
questa città di Manfredi Ré, figliolo di Federico II. Imperatore nell’anno 1200. da
che prese la nostra fragil carne il figliol di Dio, e la nominò dal suo nome Manfredonia, che avanti era detta porto di Capitanata, secondo Pondolfo Collenuccio nel
4. lib. dell’hist. del regno. Et la fece detta Manfredo essendo roinato Ciponte, e
trasferico il seggio archiepiscopale quivi da Siponte, avvenga che si nomini esso
Arcivescovo Sipontino. Ella è assai civile, e di popolo ben piena. Appresso al lito si
vede una fortissima Rocca, la quale gli anni passati essendo venuto in questi luoghi
Odetto di Lautreco Capitano di Francesco primo Ré di Francia per racquistare il
Regno con gran numero di soldati, e havendo aquistato molti luoghi di Puglia non
puotè mai però haverla ne meno la città, anzi sempre costantissimamente si
mantenennero nella fede di Carlo V. Imper. Fuori della città al lito si vede un
artificioso Molo per sicurezza delle navi che quivi vengono con le mercantie. Quivi
si veggono alquanti scaglioni di pietra per scendere dal Molo alle navi. In uno de i
quali, sono fomate le forme de i piedi della Signora Bona già figliuola di Giovan
Galeazzo Sforza Duca di Milano, e d’Isabella d’Aragona sua consorte Duchessa di
Barri, ove si fermò (dovendo scendere alle navi per passare il mare Adriatico, e
andare in Polonia per consorte di Sigismondo Ré) per chiedere perdono, e buona
226
Verso Sud
D. Grittani
licentia con lagrime alla sua madre. Et oltra le dette forme, così è scritto nel sasso.
Quì si fermò la Reina di Polonia, quando chiese venia, e licentia à Madama Isabella
sua madre Duchessa di Milano, e di Barri. Furono alcuni che dissero che fosse
edificata questa città, ove era Apeneste. Ma invero assai di lunga si ingannano costoro; imperò ch’egliè dipinto da Tolomeo Apeneste (come dimostrerò) di là da
Siponte, secondo la sua misura, e non di quà. Et non li bastando questo errore,
dipoi entrano in uno maggiore (non ricordandosi haver detto che quivi fosse
Apeneste) dicendo più avanti vi fosse Vibarno citato da Tolomeo, e posto ne i
Mediterranei de i Pugliesi Daunij; imperò che Manfredonia è appresso il lito del
mare. Seguitando pure il lito da un miglio, appare sopra la sassosa rupe, alle radici
del monte Gargano la roinata città di Siponte, nominata Sipontum da Plinio, Strabone, Pomponio Mela, e da Tolomeo, ma i Greci Sepiuntem lo addimandano,
overo Sypie come dice Mela; e Silio Italico nell’ottavo libro lo dice Sipum, e littora
Sipus. Fu addimandato dai Greci Sepiuntem per li pesci sepij gettati alla riva del lito
dall’onde marine, che ivi si veggono in grande abbondanza, come etiandio insino al
presente appareno. La fu nominata Sipa, e fu edificata de Diomede (come vuole
Strabone) discosto da Salapia 150. stadij, cioè circa venti miglia. Ora giace rovinata,
ma pur si vedono tali vestigi d’edifici, che facilmente si può dare sententia, che fosse
nobile, e magnifica città. Vi si vede altresì la chiesa maggiore quasi tutta in piedi,
ove era stato dato principio ad una sontuosa cappella di pietre quadrate, che poi
rimase così. Appresso il lito (sotto però gli edifici sfasciati) vi è una bella Fontana di
chiare acque che abbondantemente trascorrono alla Marina. Et questa Fontana
soccorreva à i bisogni della città. Molte volte ne fa mentione Livio di questa città,
tra i quali è nell’ottavo libro, e nel trentesimoquinto, ove scrive che Spurio Postumio
Console fece intendere al Senato, come caminando intorno a ciascun lito del mar
dell’Italia, havea ritrovato abbandonate due Colonie, cioè Siponte lungo il lito del
mare supero, e Bussento appresso il mare infero. La onde il Senato creò tre huomini
che conducessero à quei luoghi habitatori, cioè L. Scribonio Libo, M. Titio, Gn.
Bebio Panfilo. Et nel 34. havea dimostrato come la fosse dedutta colonia da i tre
huomini, cioè da D. Giunio Bruto, M. Bebio Panfilo e M. Elvio, e che fu partito il
paese, che già era degli Irpini. Fu molto felice essa città insino a’ tempi de’ Saracini,
che soggiugarono tutta Puglia, e habitarono insino a i tempi di Carlo Magno, onde
ne furono poi scacciati. Ma avanti che si partissero di questi luoghi, prima saccheggiarono questa città, e uccisero tutto il popolo, e così la lasciarono abbandonata, et
portarono con loro tutte le ricchezze di essa nell’Africa. Così dicono alcuni, descrivendo la roina di quella. Ma altri scrivono che ella talmente fu guasta dalle civili
fattioni, che intravennero fra i cittadini: e altri narrano essere divenuta quella à
tanta calamità per li grandi terre moti. Forse che sono concorse tutte tre queste cose
L. Alberti
Descrittione del Monte Santo Angelo
227
à condurla à tanta roina, come hora si trova. Fu Arcivescovo di questa città ne’
nostri giorni Niccolò Perotto da Sassoferrato, huomo bene intelligente, non solamente di lettere latine, ma altresì Grece, come dimostrano l’opere da lui lasciate.
Parimente fu Arcivescovo di essa Giovan Maria di Monte, meritevolmente Cardinale della chiesa Romana, uomo di singolar prudentia, et di buone lettere ornato. Il
quale fu poi creato sommo Pontefice nell’anno di nostra salute 1550. a gli 8. di
Febraro, e coronato a i 24. del detto con grandissima pompa; e fecesi nominare
Giulio III. Più avanti passando pur lungo il lito, vedesi il luogo ove era Apeneste
totalmente roinata, della quale altra memoria non ritrovo, eccetto quella fatta da
Tolomeo. Poscia ritrovasi Monte Gargano. Et per essere una curiosa descrittione
questa di detto Monte, a me par di narrarla tutta di mano in mano; ancor che non
osservi l’ordine, perché comincierò dal lito, che sarebbe cosa difficile di ridurla a tal
ordine.
Descrittione del Monte Santo Angelo
Questo monte è dimandato Gargano da gli antichi scrittori, tra i quali è Strabone, Plinio, Pomponio Mela, Verg. nel II lib. quando dice. Victor Gargani condebat
Iapygis. Et Lucano nel 5. Apulus Adriacas exit Garganus in undas. Et Oratio, nel 2.
de i Carmini dice Querceta Gargani laborent, e Silio Italico nel 8. lib. e in molti
altri luoghi, e Livio, e Tolo. con altri assai scrittori, e parimente Faccio degli Uberti
nel cap. I del 3. lib. Dittamondo quando dice. Simile modo quando ei fu noto /
Monte Gargano, la dove Sant’Agnolo / In fin’ a lui non mi parv’ire in voto. / Con
quell’istudio che fa la tela il ragnolo / ci studiavamo per quel camin alpestro. / E
passavamo hor questo hor quel rigagnolo.
Avanti che più oltre io entri alla descrittione di questo monte, voglio avisar à i
lettori, com’è stata fatta memoria di esso monte da quegli autori antichi che furono
innanzi che mai S. Michele Arcangelo vi si dimostrasse, come narrano l’historie. La
onde chiaramente si vede esser favola quella che si legge nell’apparitione di S. Michele, che’l detto monte acquistasse il nome da Gargano huomo ricco, il quale
havea grand’armenti d’animali, e che volendo saetare il bue da lui fuggito, fosse egli
dalla saeta (che tornò à dietro) ferito; Imperò che di monte centinaia d’anni egli è
ricordato esso monte Gargano da gli antichi scrittori, avanti che fosse detta
apparitione di S. Michele. Lasciando questa regione, entrerò alla descrittione di
esso monte. È questo monte Gargano molt’alto, e evvi faticosa via da poterli salire.
Nel qual sono alquante piacevoli selve, ma benché in più luoghi sia privo d’alberi,
nondimeno vi si raccogliono molte specie di sanevoli erbe per l’infermità. Dal lato
228
Verso Sud
D. Grittani
che risguarda al mare (come etiandio dimostra Str.) si distende un braccio di monte
verso l’oriente, lungo 320. stadij, o siano da 40. miglia. Nasce questo alto monte
dall’Appellino, dalle cui radici esce una schiena molto alta, 2. miglia larga e 20.
lunga. La quale passata, comincia il monte alzarsi a poco a poco, e così facendo esce
molto alto, grande e largo, ben però fruttifero. Entra poi tanto nella marina, che
quella gli circonda le radici che finiscono alla pianura da 200. miglia, avvenga che
Plinio dica 134. Egli è in molti luoghi precipitoso, dal lato, che risguarda al mare,
ove manda fuori quel braccio avanti descritto, secondo il riporto di Str. Pensò Diomede di far una fossa per spartire esso braccio dal resto del monte, acciò ch’entrandovi, l’acque marine, ne risultasse un’isola, ma non poté esequire il suo disegno,
essendo sforzato a ritornare alla patria, ove si morì. Sono in questo monte alquanti
luoghi da descrivere. Et prima veggonsi alquanti Laghi da pescare. Tra i quali vi è il
lago di Varrano, che gira intorno 30. miglia, ove sono alquante castella cioè Caprino,
Cognato, Iscitella, e nella faccia dell’antidetto braccio di monte, la città di Bestia
così dal volgo nominata in vece di Vesta, imperò che quivi ne’ tempi antichi era il
tempio dedicato a Vesta (secondo il Razano). Quindi a 10. miglia vedesi Vestice
castello, et passato tutta la piegatura di detto braccio, la città di Rode, qual nomina
Str. Ureum (ch’era picciola ne’ suoi tempi) e Pomp. Mela, Uris, ma credo, sia corrotto il lib. et voglia dire, Uryas. Et Pli. nomina i cittadini di essa, Irini. Ma il dotto
Barbaro nelle correttioni Pliniane dice, ch’è guasto il li. di Pli. e ch’l vuol dire Hyrini,
adducendo in testimonio Tolo. Eustathio, e Erodoto, che dicono che fosse Hyria
una Colonia della Giapigia. Vero è, che Tolo accordandosi con Dionisio Afro, la
nomina Hyriun, e non Hyria, come dice il Barbaro. Secondo però alcuni si doverebbe
nominare dal volgo Rore, e non Rode, perché quivi scende dal Cielo tanta temperata rugiada, che fa produrre i campi con gli alberi buoni, e saporiti frutti. Da
questa città si partì Alessandro Papa III. con 13. Galee dategli da Guglielmo Normano
per varcare a Vinegia a pacificarsi con Federico Barbarossa Imperatore, come narra
Biondo nell’historie. Termina a questo promontorio il Seno Ionio, e comincia
l’Adriatrico, secondo Tolomeo (avvenga che altri dicano detto Golfo Ionio finire a
Brindisi, secondo ch’è detto disopra). Disegna Hierio Tolomeo nel golfo Adriatico,
ov’egli comincia. Par che questo monte Gargano con alcuni altri luoghi vicini si
deono nominare Giapigia, della quale opinione par che fosse Verg. quando disse.
Victor Gargani condebat Iapygis arces. Sì come dichiara Servio dicendo, esser la
Giapigia parte di Puglia, ov’è il monte Gargano. Per hora altro non dirò di questa
Giapigia, imperò che riservo più in giù à favellarne. Seguitando il camino lungo il
lito del mare, ritrovansi alcuni luoghi di poco affare, e per tanto li lascierò senz’altra
mentione. Di riscontro à questi luoghi, vedesi nel mare S. Maria di Tremite, già
dette l’Isole di Diomede, delle quali nella descrittione dell’Isole attenenti all’Italia
L. Alberti
Descrittione del Monte Santo Angelo
229
ne parlerò. Più avanti pur seguitando il lito, ritrovasi la foce del fiume Fiterno, hora
Fortore, appresso il lago di Lesina, come si dimostrerà più avanti. Havendo descritti
i luoghi littorali posti alle radici del monte Gargano (hora di S. Angelo nominato)
passerò alla descrittione de i luoghi posti fra quello. Ritrovasi primieramente in
cima di detto monte il castello di S. Angelo così è nominato dalla devotissima
spelonca consecrata all’Arcangelo San Michele, della quale presto ne parlerò. Giace
adunque questo castello sopra il monte, et sopra l’alta rupe, che risguarda al mare
ove è fabricata Manfredonia sei miglia discosto. Egli è ben’habitato, et è forte luogo,
ove lungo tempo dimorarono i Saracini, a dispetto de’ Christiani, per essere il luogo
forte di natura, e abondevole delle cose necessarie per il loro vivere, che si cavano di
quei luoghi del monte. Insino ad oggidì si vedono le sepolture nel sasso cavate,
secondo i loro malvagi riti, e profane cerimonie. Vi si raccogliono le cose per il
vivere de’ mortali, et fra l’altre, buoni vini vermigli. Quivi si vede la devotissima
Spelunca, et sacrato Tempio dedicato a San Michele Arcangelo, la quale fu ritrovata
(manifestandola il S. Angelo) nell’anno della gratia 586. a gli otto di Maggio essendo Pontefice Romano Gelasio, e Imperatore Zenone, et Arcivescovo di Siponte
Lorenzo, per essere stato ferito il servo di Gargona dalla propria saetta, c’havea tirata
al bue del padrone, ch’era avanti la foce di detta spelunca. Io ritrovo gran differentia
dell’anno che fu ritrovata questa spelunca, conciosia cosa che Giacomo Filippo
Pelanegra dica che fu nel 536. da che il figliuolo di Dio s’incarnò, tenendo il seggio
di Pietro Gelasio, e l’Imperio Zenone. et Sigisberto dimostra che fu questa cosa
l’anno secondo di Gelasio 2. et il 17. di Zenone, dell’avenimento di Christo 492.
onde ritrovo che vi sarebbe differenza di 44 anni tra questi dui. Imperò che il
Pelanegra vi darebbe 44. anni piu che Sigisberto. Et perciò credo che’l sia in errore,
perché nel 536. era Papa Giovanni secondo, et Imperatore Giustiniano primo.
Talmente è disposta essa spelunca, come scrive Giacomo Filippo Pelanegra Troiano,
in un suo libracciuolo, che mi fu dato da i Venerandi sacerdoti i quali servono a
questo luogo, essendovi io andato nel 1525. È un luogo, non da humano artificio.
e ingegno, ma da essa natura Angelica cavata a posta dentro un vivo sasso
nell’antedetto monte, ove si comincia ad entrare da cima per una porta di marmo
grandissima, da i Signori del Regno fabricata, posta al Mezo giorno. Et in quella si
discende continuamente per 55. gradi verso il Settentrione. Et se le spesse fenestre,
con artefatte, nel rotto sasso, non illuminassero le marmoree scale, ivi non si potria
gire comodamente senza lume artificiale. Nel fine de i quali, si ritrova un Cimiterio
in piano scoperto, ove sono molte cappelle, e sepolture. Fra queste, avanti che si
entri nella santa grotta, a man sinistra, se ne vede una bella con l’insegne de i Puderichi
gentil’huomini Napolitani, anticamente signori del luogo. Appresso questa Capella,
per un’altra porta lavorata di arteficioso metallo, s’entra nella santa spelonca, Né
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Verso Sud
D. Grittani
avanti che’l sole esca dell’onde del sottoposto mare Adriatico, e che copra le spalle
del monte, ivi è lecito a persona entrare. questo uscio guarda all’Occaso. A man
destra si vede la maravigliosa Grotta, casa del santissimo Arcangelo Michele distesa
verso l’Oriente, tutta d’un pezzo, e viva pietra, sempre puro humore distillante:
horrida, bassa, e oscura: Credo non ad altro fine, e ornamento fatta che per la salute
dell’anime nostre. Nel mezzo trovasi un picciolo Coro, ove si saglie per quattro
gradi. Ma come ti avicinerai al sacro altare dell’Angelo poco più in alto, e elevato, ò
vogli ò nò, sei costretto di venerare detto luogo, ivi si vede il pargoletto Altare
consacrato dal santo Angelo vestito di un’altro sopr’altare manualmente fatto, ove
si celebra le più parte le quotidiane messe. Né questo luogo è aperto à tutte le
persone. Indi non poco discosto è un Fonte picciolo di divin liquore, sempre
scaturiente, che gli huomini della Città usano quasi in tutte le infirmità, per sanissima
medicina. Da man sinistra sono più altri altari, capelle, e altri luoghi secreti da dir
messa. Et tra gli altri vi sono due altri altari, che furono fatti dal S. Angelo. Vi sono
anco quei luoghi di sopra da orare, non fatti apposta, ma produtti dalla natura in
esso sasso, per invitar i mortali à contemplatione, e penitentia. Il suolo della spelunca
è di bianco, e di rosso marmo dipinto. Dalla parte di fuore, cioè disopra della
Grotta, è un verde, e folto boschetto, d’altissimi alberi ottuso carco, et vestito. Sopra
i rami, de i quali pende grandissima quantità di pietre d’ogni sorte, che su per il
monte alcuni pelegrini portano al collo per loro voti, et divotioni, et ivi poi l’appicano
con le sue orationi. Egli è certamente cosa maravigliosa a veder questo boschetto
conciosia cosa che per molto spatio di questo monte, non si vede alcun’albero. La
onde par più tosto miracolo, che cosa naturale a vedere tanti alberi, et così grossi nel
vivo sasso radicati. Fummi narrato (essendo quivi) che ne’ tempi di Carlo ottavo Re
di Francia, il qual soggiugò il Reame, nel 1494. fu tagliato uno de’ detti alberi da un
Francese, il che fatto divinamente ne rimase morto. Etiandio nella detta spelonca
vidi una bella Croce di chiaro cristallo, lunga circa un palmo, e mezo, la quale
secondo quei venerandi sacerdoti, fu quivi ritrovata essendo conosciuta miracolosamente la detta spelunca. Ritrovasi poi nel mezzo di questo Monte, ove è la bella
pianura con vaghi prati, il castello di S. Giovanni Ritordo, ove ciascun’anno nel
giorno di santo Onofro a gli undici di Giugno si raunano i vicini popoli, e havendo
ben considerato la qualità de i raccolti del grano, orzo, e d’altre biade, di commun
parere tassano il pretio a tutte le biave; la qual tassa non può trapassare alcuno. Ne’
lati di questo monte veggonsi in più luoghi vestigi d’antichi edifici, che lascierò per
esser abbandonati. Vero è, che alle radici del detto, da mezo giorno appresso la
pianura fra S. Severo, e Manfredonia, si scorge San Vito assai sufficiente castello di
edifici, ma però abbandonato, per la moltitudine delle serpi, che vi sono, e di continuo l’abbondano. Et ciò non dee parere impossibile, perché anco Solino nel 7.
L. Alberti
Descrittione del Monte Santo Angelo
231
capo. narra come fossero roinate molte habitationi da i Serpenti, e massimamente
nell’antica Calabria, le quali Serpi sono nominate Chersedri. Pur da questo lato,
che risguarda al Meriggio nel principio del monte antidetto, vi è Arignano castello;
e seguitando pur le radici di quello, piegandosi però all’Occidente, ove comincia la
via da salire sopra detto monte d’Arignano, tre miglia discosto, e dal Mare cinque,
si scopre Santo Alicandro castello, e più avanti altrettanto, et due dalla radice del
detto, Precina, assai honorevole castello, e di popolo assai ben pieno. Quivi si vede
un magnifico Palagio fatto da Federico II. Imperatore per cagione, che cacciando
egli in questi luoghi, doppo molte fatiche conquistò un gran cinghiale quivi, e vi
fece ordinare una bella cena, ove vi fu presente esso con tutti i suoi baroni. Il che
fatto volse che in questo luogo a memoria di detta cosa si facesse un castello, e che
se nominasse Apricena dal Cinghiale preso, e mangiato nella cena. Ben’è vero, che
non sapendo il volgo la cagione di tal nome, e etiandio, non sapendolo isprimere, lo
domandarono prima Pricena, poi Precina, e alfine, Procina, in vece d’Apricena.
Poscia essendo fabricato, lo consignò detto Federico ed alcuni soldati vecchi, che
havea condotto seco in Sicilia, per loro riposo. Così scrive Razano. Più avanti
caminando sei miglia verso l’Occidente, si scopre Torre maggiore castello, quattro
miglia vicino al fiume Fortore. Poscia dopo altrettanto verso il Meriggio, vedesi San
Severo dal Monte di S. Angelo similmente quattro miglia lontano. Egliè questo
castello molto, ricco, nobile, civile, e pieno di popolo; e è tanto opulento che non
ha invidia ad alcun’altro di questa Regione. Secondo Strabone nel sesto libro erano
nel territorio Daunio (benché dica il corrotto libro Sannio) circa un picciolo colle
addimandato Driono due Tempij, uno de i quali apparea nella cima del detto
collicello, consacrato à Calcante, ove sacrificavano quelli, che circavano haver risposta da lui, dormendo la notte sopra la pelle d’un Montone negro in terra istesa,
l’altro Tempio era dedidato a Podalirio, e fabricato alle radici del detto collicello,
cento stdij, ò siano dodici miglia, e mezo dal mar discosto. Usciva di questo Tempio
un ruscelletto d’acqua giovevole à tutte l’infirmità de gli animali, Io credo che tai
Tempii non fossero molto discosti da questi luoghi, vicini al monte di S. Angelo.
Descritto il Monte Gargano, ò di S. Angelo co i luoghi posti alle radici di esso
entrerò nella larga pianura di questa Regione, hora Capitinata detta.
[Tratto da Descrittione di tutta Italia nella quale si contiene il sito di essa, l’origine e la signoria delle città et
de’ Castelli, LEANDRO ALBERTI, 1550]
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Monte Sant’Angelo
Arthur Miller
Arthur Miller (New York 1915-2000). Scrittore americano tra gli autori più
rappresentativi del nostro tempo. Secondo marito di Norma Jean Baker (al
secolo Marilyn Monroe), in seguito al discusso suicidio della quale scrisse Dopo
la caduta (1963), opera che per il chiaro contenuto autobiografico gli valse
numerose critiche ma anche la definitiva affermazione come drammaturgo.
Tra i suoi testi teatrali più conosciuti Morte di un commesso viaggiatore
(1949) e Uno sguardo dal ponte (1955).
Apparso per la prima volta sulla rivista Harpers’s Magazine nel marzo del
1951, il racconto Monte Sant’Angelo fa parte della raccolta I dont’ need you
any more (The Viking Press, New York 1967). Fu scritto in occasione di un
viaggio che Arthur Miller compì in Italia nel 1948, allorquando si recò nelle
regioni meridionali del paese accompagnato dal suo amico italo-americano
Vincent Longhi.
L’autista, ch’era rimasto in perfetto silenzio per quasi un’ora, traversando la verde, monotona piana di Foggia, disse d’un tratto qualcosa. Appello, dal sedile posteriore, si chinò in avanti chiedendogli cosa avesse detto. «Quello là davanti è Monte
Sant’Angelo». Appello abbassò la testa per guardare attraverso il parabrezza della
piccola Fiat rumorosa. Poi diede di gomito a Bernstein, che si svegliò risentito.
«Eccolo lassù il paese» disse Appello. Il risentimento di Bernstein svanì, e anche lui
si piegò in avanti. Stettero entrambi così per diversi minuti, guardando quel paese
che gli sembrava situato in un modo così buffo, più buffo ancora di quelli che
avevano visto nelle quattro settimane che avevano passato viaggiando per il paese in
lungo e in largo. Sembrava una minuscola vecchia signora che si fosse appollaiata
sul tetto per paura dei ladri.
La piana davanti a loro restava piatta come una tavola ancora per qualche centinaio di metri. Poi s’innalzava una montagnola, squadrata e rigida come una colon-
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Verso Sud
D. Grittani
na, restringendosi verso la sommità. E lassù, ormai, appena visibile, era accovacciato
il paese; per un momento fu celato da bianche nuvole, poi ricomparve, minuscolo
e sicuro come un porto su un’alta costiera al confine del mare. A quella distanza
non si scorgeva alcuna strada, nessuna via d’accesso sul fianco della colonna.
«Quelli che l’hanno costruito dovevano avere una tremenda paura di qualcosa»
disse Bernstein, stringendosi il soprabito addosso. «Come faranno a salire lassù,
ammesso che qualcuno ci salga!».
Appello, in italiano, domandò all’autista notizie del paese. E quello, che c’era
stato una volta in vita sua e che non conosceva nessun altro che ci fosse stato –
benché risiedesse a Lucera, non molto lontano di lì – rispose, con una cert’aria
divertita, che presto avrebbero visto quanto di rado qualcuno salisse a Monte Sant’Angelo. «I somari che incontreremo scapperanno o si metteranno a scalciare»
disse «e quando entreremo in paese tutti verranno fuori a guardarci. Sono lontanissimi da tutto. Sembrano tutti fratelli, lassù. Non conoscono quasi niente di niente.»
Si mise a ridere.
«Che cosa dice il nostro collega di Princeton?» disse Bernstein.
L’autista aveva i capelli tagliati a spazzola, il naso all’insù, una rossa faccia rotonda e gli occhi azzurri. L’automobile era sua, e benché quando stava con i piedi in
terra parlasse come qualunque altro italiano, seduto al volante con due americani
dietro aveva per tutto ciò che lo circondava un atteggiamento quanto mai divertito
e superiore. Appello, dopo che ebbe tradotto le sue parole a Bernstein, gli domandò
quanto ci sarebbe voluto per arrivare fin lassù. «Forse tre quarti d’ora… Quanto ci
vuole a fare la salita» precisò.
Bernstein e Appello si appoggiarono allo schienale e osservarono l’avvicinarsi
della montagnola. I suoi fianchi, ora si vedeva, erano di una pietra bianca sbriciolata. A questa distanza ravvicinata sembrava che un qualche enorme, mostruoso
martello le avesse dato un colpo terribile fendendone la struttura in milioni di
crepe. Adesso avevano cominciato a salire per una strada di pietre rotte, taglienti.
«È una strada romana» disse l’autista. Sapeva quanto apprezzano gli americani
tutto ciò che è romano. Poi aggiunse: «L’automobile, però, è milanese». Lui e Appello si misero a ridere.
Una polvere bianca cominciava a penetrare nella macchina. Al loro fianco, l’abisso
stava diventando minaccioso. La strada non aveva alcun parapetto, e ogni centinaio
di metri v’era un tornante. Gli sportelli della Fiat tentennavano. Una bianca, finissima polvere si posava sui loro vestiti, sulle loro ciglia. Cominciarono a tossire.
Quando si riebbero, Bernstein disse: «Tanto per farmene un’idea, vecchio mio,
vuoi per favore spiegarmi in tutte lettere perché diavolo ci arrampichiamo su questo blocco di polvere?»
A. Miller
Monte Sant’Angelo
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Appello si mise a ridere e gli misurò scherzosamente un pugno.
«Senza scherzi» disse Bernstein, cercando di sorridere.
«Voglio vedere questa mia zia, ecco tutto» disse Appello, serio.
«Sei proprio pazzo. Devi avere una sorta di complesso ancestrale. Da quando
siamo in questo paese non abbiamo fatto che andare in cerca dei tuoi parenti.»
«Accidenti, sono finalmente qui, e voglio vedere tutti i posti da cui provengo. Ti
rendi conto che due miei antenati sono sepolti nella cripta di quella chiesa lassù?
Dal millecento o giù di lì».
«Oh, è questo il posto dei due monaci?»
«Proprio questo. I due fratelli Appello. Furono tra i fondatori di quella chiesa. È
famosissima, quella chiesa. Si dice che San Michele abbia fatto un’apparizione, qui,
o qualcosa del genere».
«Chi avrebbe immaginato che un giorno avrei conosciuto qualcuno con dei
monaci tra i suoi antenati. Però, continuo a credere che tu sia un po’ tocco, a questo
proposito.»
«Dunque, tu non senti proprio niente, non hai nessuna curiosità per i tuoi
antenati? Non ti piacerebbe tornare in Austria, patria d’origine della tua famiglia, e
vedere i posti dove vivevano i tuoi vecchi? E magari ritrovare una famiglia imparentata con te, o qualcosa del genere?»
Bernstein per un po’ non rispose. Non sapeva esattamente che cosa provava, e si
domandò vagamente se non avesse continuato a vessare l’amico per un fondo d’invidia. Quando erano stati in quel tribunale di provincia dov’erano appesi i ritratti
del nonno e del bisnonno di Appello, entrambi eminenti magistrati; quando avevano passato quella serata a Lucera, dove il nome Appello era indice di onorabilità e
distinzione, e dove il suo amico Vinny aveva avuto quell’accoglienza così calorosa
in quanto era un Appello… in tutti quei momenti Bernstein si era sentito tagliato
fuori, e in certo modo, defraudato di qualcosa. Al principio si era detto che tanta
agitazione era puerile, ma poi, accorgendosi che un fatto dopo l’altro, un cimelio
dopo l’altro, riecheggiavano il nome di Appello, a poco a poco aveva cominciato a
sentire il suo amico combinarsi con la storia di quel paese, e gli era parso che ciò
rendesse Vinny più forte, e anche, in certo modo, meno morto, quando sarebbe
venuta per lui l’ora di morire.
«Io non ho parenti, in Europa, per quel che ne so» disse a Vinny. «E se ne avessi
avuti, ormai sarebbero stati spazzati via tutti.»
«È per questo che ti dispiacciono queste mie ricerche?» replicò Vinny.
«Non dico che mi dispiacciano» disse Bernstein, con un sorriso forzato. Avrebbe
voluto potersi aprire come si apriva Vinny; gli avrebbe dato forza, gli avrebbe dato
un senso di benessere, pensò. Guardavano in giù verso la piana, e parlavano poco.
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Verso Sud
D. Grittani
La polvere aveva schiarito le nere sopracciglia di Appello. Per un attimo Appello
pensò che si rassomigliavano. Erano alti entrambi più di un metro e ottanta, bruni
e larghi di spalle. Bernstein era più slanciato, addirittura scarno, e dalle braccia
lunghe. Quelle di Appello erano più forti, e lui stava un po’ curvo, come se non
volesse apparire alto. Ma i loro occhi erano diversi. Appello aveva un’aria un po’
asiatica, negli occhi, che erano nerissimi, diretti e, per le donne, appassionati. Quelli di Bernstein, più che guardare, fissavano; lui trovava pericoloso che si potessero
scandagliare gli occhi, e per questo, spesso li distoglieva, li abbassava; sembrava
esservi un che di difensivo, nei suoi occhi, di crudele e gentile nel tempo stesso.
Avevano simpatia l’uno per l’altro, non tanto per delle ragioni precise quanto
per delle possibilità, era come se entrambi sentissero di essere opposti. Ed erano
attirati dai reciproci difetti. Con Bernstein accanto, Appello si sentiva distolto dalla
sua irresponsabile sensualità, e in questo viaggio Bernstein aveva spesso il piacere e
la pena di non dover più rinnegare sé stesso. La macchina superò un tornante
strettissimo sollevando una nuvola di polvere, e d’un tratto si trovarono dinanzi la
strada principale del paese. Non c’era nessuno in vista. Ciò che aveva predetto
l’autista si era dimostrato vero… nei pochi fazzoletti d’erba che avevano incontrato
salendo, i somari si erano messi a scalpitare, e dei pastori con ispidi baffi, neri
berretti in testa, e lunghi e neri mantelli, li avevano guardati con la silenziosa attenzione di coloro che conducono una vita remota. Ma qui in paese non c’era nessuno.
L’auto risalì la strada principale, che ora si faceva piana, e d’un tratto furono circondati da persone che uscivano dalle porte, infilandosi la giacca, mettendosi il berretto. Sembravano stranamente uguali, e più irlandesi che italiani.
I due scesero dalla Fiat e controllarono il bagaglio legato sul tetto della vettura.
Appello parlava ridendo con la gente, che continuava a domandare come mai fosse
arrivato fin lassù, che cosa aveva da vendere, che cosa voleva comprare, finché lui
disse chiaramente ch’era venuto soltanto per cercare sua zia. Quando disse il nome,
gli uomini (le donne erano rimaste in casa e guardavano dalle finestre) non diedero
segno di conoscerla, finché un vecchio con un paio di sandali di corda e un berrettino
a maglia da pattinatore si fece avanti e disse che lui quella donna se la ricordava. Si
voltò, e Appello e Bernstein lo seguirono per la strada principale, seguiti a loro volta
da un codazzo di forse un centinaio di uomini.
«Come mai nessuno la conosce?» domandò Bernstein.
«È una vedova. Immagino che starà quasi sempre in casa. Gli uomini della
famiglia morirono una ventina d’anni fa. Suo marito era l’ultimo Appello in questo
paese. Le donne non contano molto qui; scommetto che questo vecchio si è ricordato il nome perché conosceva suo marito, non lei.»
Il vento forte e costante soffiava attraverso il paese spazzando le sue pietre bian-
A. Miller
Monte Sant’Angelo
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che. Il sole era fresco come un limone, il cielo di un azzurro puro, e le nubi così
vicine che le loro chiglie sembravano affondare nella strada accanto. I due americani cominciarono a camminare con la gioia di tutto questo nei loro lunghi passi.
Arrivarono a una casa di pietra a due piani, e percorsero un buio corridoio e bussarono. La guida era rimasta rispettosamente sul marciapiede.
Per alcuni momenti, nell’interno non s’udì alcun rumore. Poi vi fu un frusciare,
a brevi tratti, come di un topo che corresse, si fermasse, si guardasse attorno, riprendesse a correre. Appello bussò di nuovo. La maniglia girò, e la porta si aprì per uno
spiraglio. Una piccola donna pallida, non troppo vecchia, teneva la porta aperta
solo quel tanto che permetteva di mostrare la faccia. Sembrava molto agitata.
«Eh?» disse.
«Sono Vincenzo Giorgio.»
«Eh?» ripeté lei.
«Vincenzo Giorgio Appello».
La mano scivolò via dalla maniglia, e la donna fece un passo indietro. Appello,
col suo sorriso cordiale, entrò, seguito da Bernstein, e chiuse la porta. Una finestra
lasciava che il sole inondasse la stanza, che era tuttavia fredda come una pietra. La
donna era a bocca aperta, le mani congiunte come in preghiera, le dita puntate
verso Vinny. Tutta ritirata in sé stessa, come sul punto di inginocchiarsi, non riusciva a parlare.
Vinny le si accostò, la toccò sulla spalla ossuta, la fece sedere su una sedia. Anche
lui e Bernstein sedettero. Cominciò a parlare della loro parentela, fece il nome di
uomini e di donne; alcuni erano morti, di altri lei aveva sentito parlare ma non li
aveva mai visti in vita sua. Parlava, finalmente, ma Appello non riusciva a capire che
cosa dicesse. D’un tratto uscì di corsa dalla stanza:
«Credo mi abbia preso per un fantasma o qualcosa del genere. Mio zio diceva
che non aveva più visto nessuno della famiglia da venti o venticinque anni. Scommetto che non crede ci sia rimasto più nessuno.»
Ritornò con una bottiglia che aveva nel fondo due dita di vino. Ignorò Bernstein
e diede la bottiglia ad Appello. Lui bevve. Era aceto. Poi lei cominciò a singhiozzare,
e continuava a tergersi le lacrime dagli occhi per poter vedere Appello. Non riusciva
mai a finire una frase, e Appello continuava a chiederle che cosa voleva dire. Non
faceva che correre da una parte all’altra della stanza. Il ritmo delle sue partenze e dei
suoi ritorni alla sedia stava diventando così ossessivo che Appello alzò la voce e le
ordinò di sedersi.
«Non sono un fantasma, zietta. Sono venuto fin quei dall’America…». Si fermò. Dallo sguardo trasecolato, spaventato, che c’era negli occhi della zia era chiaro
che lei non l’aveva affatto creduto un fantasma, ma che le riusciva altrettanto scon-
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Verso Sud
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volgente il fatto che, quando nessuno veniva mai a trovarla da Lucera, uno avesse
potuto pensare a lei dall’America, un posto che esisteva, sì, come esisteva il cielo,
ma, per lei, proprio allo stesso modo. Non c’era alcuna possibilità di intrattenere
una conversazione con lei.
Alla fine se ne andarono, senza che lei fosse riuscita a dire una frase coerente,
tranne una benedizione, ch’era il suo modo di esprimere il suo sollievo che Appello
se ne andasse, poiché nonostante l’indicibile gioia di aver visto con i suoi occhi un
parente del marito, un tale fatto era troppo terribile per le sue implicazioni, e per la
responsabilità che a lei ne derivava di fargli una degna accoglienza.
S’incamminarono in direzione della chiesa. Bernstein non era riuscito a dire
nemmeno una parola. L’emozione di quella donna, così pura, così violenta, così
selvaggia, l’aveva impressionato. Gettando un’occhiata su Appello, si stupì nel vedere che il suo amico aveva tratto dall’episodio nient’altro che una sorta di calma
soddisfazione, come se sua zia si fosse comportata nel modo più normale. Ricordò
confusamente che da ragazzo era andato a far visita a una sua zia al Bronx, una
parente che non era in relazione con la sua famiglia e non l’aveva mai visto. Si
ricordò di come l’avesse forzato a mangiare, gli avesse fatto ganascino, e gli avesse
sorriso ogni volta che lui alzava gli occhi a guardarla. Ma sentì che non v’era nulla di
quest’intensità, in quell’incontro, né ve ne sarebbe stata nemmeno se ora, al prossimo angolo, avesse dovuto incontrare una donna che avesse detto di essere sua parente. Tutt’al più avrebbe provato il desiderio di piantarla lì e andarsene, anche se
era sempre andato d’accordo con i suoi parenti, né li aveva mai snobbati. Mentre
entravano nella chiesa si disse che c’era una parte di lui che non era in circuito con
tutto il resto, ma il fatto che se ne sentisse turbato lo sconcertava, e anche gli suscitava una certa irritazione verso Appello che ora stava domandando al prete dov’erano le tombe degli Appello. Scesero nella cripta, il cui pavimento di pietra era qua e
là coperto d’acqua. Lungo le pareti e ai lati di tortuosi corridoi che si diramavano da
una sala centrale a volte, v’erano delle tombe così antiche, con iscrizioni così consunte, da essere per la maggior parte illeggibili anche con l’aiuto di una candela. Il
prete ricordava vagamente una nicchia degli Appello ma non aveva idea di dove
fosse. Vinny passava da una cripta all’altra con la candela che aveva comprato dal
prete. Bernstein rimase ad aspettarlo all’imboccatura del corridoio, piegando il collo per evitare di toccare il soffitto col cappello. Appello si curvava anche più del
solito, sembrava lui stesso un monaco, o un archeologo, una figura che scompariva
a poco a poco nella lunga oscurità dei tempi in cerca del suo nome su una pietra.
Non riuscì a trovarlo. Avevano i piedi tutti bagnati. Dopo mezz’ora uscirono dalla
chiesa, e appena fuori dovettero difendersi da una turba di ragazzini che vendevano
sudicie cartoline religiose che il vento gli strappava continuamente dalle mani.
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Monte Sant’Angelo
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«Sono sicuro che ci sia» diceva Appello tutto eccitato. «Ma tu non te la sentiresti
di fare una ricerca a fondo, vero?» disse in tono speranzoso.
«Mi seccherebbe prendermi una polmonite» disse Bernstein. Erano arrivati al
fondo di una strada secondaria. Fuori di alcune botteghe erano appesi a testa all’ingiù degli agnelli, le zampe rigide protese sopra il marciapiede. Bernstein strinse la
zampa a uno, e a beneficio di Vinny immaginò una scena alla Chaplin in cui un
monsignore lo incontrasse in questa via, facesse per stringergli la mano, e si sentisse
nel palmo una fredda zampa d’agnello: la faccia mortificata che avrebbe fatto. In
fondo alla via guardarono il cielo infinito e, dall’alto dell’abisso, l’Italia.
«Magari saranno scesi a cavallo giù per questa montagna, con l’armatura addosso… gli Appello» disse Vinny, in tono rapito.
«Sì. È probabile» disse Bernstein. La visione di Appello con l’armatura gli spazzò
via ogni desiderio di prendere in giro l’amico. Si sentì solo, desolato, come gli aridi
fianchi gessosi di questa colonna rotta in cima alla quale si trovava. Sicuramente
nella sua famiglia non v’era stato nessun cavaliere.
Ricordava i racconti di suo padre, del suo paese in Europa, la tinozza piena
d’acqua dove tutti attingevano, lo scemo del villaggio, il barone del posto. Ecco
tutto quello che gliene restava, e nessun motivo di orgoglio, nessun motivo di orgoglio in tutto questo, niente. E del resto, io sono americano, si disse. Però in questo
non v’era la forza, l’intensità della passione di Appello. Guardò il profilo dell’amico
e sentì il calore di quello sguardo sull’Italia, e si domandò se qualche americano si
fosse mai sentito così negli Stati Uniti. Mai in vita sua aveva sentito con tanta
acutezza che il passato poteva essere così popolato, così pullulante di generazioni,
come un’ora fa dalla zia di Vinny. Una tinozza d’acqua, uno scemo di villaggio, un
barone poco lontano… Tutto questo non aveva niente a che fare con lui; provò
come un senso di vuoto e si domandò vagamente divertito se era questo che sentiva
un bambino scoprendo che i genitori che l’avevano allevato non erano i suoi veri
genitori, e che era entrato nella sua casa non dal calore ma dalla strada, da un luogo
pubblico e disordinato…
Cercarono e trovarono un ristorante dove far colazione. Era la margine opposto
della città e sovrastava il precipizio. Dentro, era uno solo, immenso locale con
quindici o venti tavoli; sulla parete di fondo v’era una fila di finestre che si affacciavano sulla piana sottostante. Sedettero a un tavolo e aspettarono che comparisse
qualcuno. Nel locale faceva freddo. Sentivano il vento imperversare contro i vetri
delle finestre, eppure le nubi che passavano a livello dell’occhio si muovevano con
serena lentezza. Una ragazza, la figlia del padrone, arrivò dalla cucina, e Appello le
stava domandando che cosa c’era da mangiare, quando la porta si aprì ed entrò un
uomo.
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Verso Sud
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Guardandolo, Bernstein provò un’improvvisa impressione di familiarità di cui
non seppe trovare la ragione. La faccia era quella di un siciliano, rotonda, scura
come la terra, gli zigomi alti, la mascella ampia. Fu lì lì per mettersi a ridere forte,
poiché d’un tratto gli era venuta l’idea che sarebbe riuscito a parlare con quest’uomo in italiano, e quando la cameriera se ne fu andata, lo disse a Vinny, il quale si
mise a sua volta a osservare l’uomo.
Sentendo i loro sguardi, l’uomo li guardò con un’allegra smorfia del volto e
disse: «Buongiorno».
«Buongiorno» rispose Bernstein attraverso i quattro tavoli che li separavano; e
poi, a Vinny: «Come mai ho questa sensazione, nei suoi confronti?».
«Come diavolo vuoi che lo sappia?» disse Vinny, lieto di poter condividere ora
con l’amico un argomento di comune interesse.
Si misero a osservare l’uomo, il quale, evidentemente, veniva spesso a mangiare
lì. Aveva già posato il cappello su una sedia, la giacca su un’altra, il panciotto su una
terza. Sembrava volesse farsi dei suoi capi di vestiario altrettanti compagni di tavola.
Era alle soglie della mezza età, ma molto rugoso in faccia. E per i due americani
c’era qualcosa di strano nel suo abbigliamento. La sua giacca avrebbe potuto portarla un uomo del luogo; era nera, stretta, spiegazzata, e coperta di povere. I calzoni
erano marrone scuro, molto pesanti, come quelli di un contadino, e le scarpe, di
cuoio spesso, avevano la punta volta all’insù. Ma portava un cappello nero – insolito da quelle parti, dove tutti portavano il berretto – e la cravatta. Si pulì le mani
prima di allentarne il nodo; era una cravatta di seta a strisce gialle e azzurre, un tipo
di cravatta certamente non in vendita da quelle parti, e che nessuno fra quella gente
avrebbe portato. E c’era uno sguardo nei suoi occhi che non era lo sguardo intento
del campagnolo, né aveva l’innocenza degli altri uomini che li avevano guardati
nelle strade di questo paese.
La cameriera tornò con due piatti di agnello per gli americani. Dal suo tavolo
l’uomo gettò uno sguardo interessato alla carne e agli stranieri. Bernstein diede
un’occhiata nel proprio piatto e disse: «C’è un pelo.»
Vinny richiamò la ragazza che stava già dirigendosi verso il nuovo venuto, e le
indicò il pelo.
«Ma è un pelo d’agnello» spiegò lei con semplicità.
Loro dissero: «Oh» e finsero di cominciare a tagliare quella carne leggermente
rosea.
«Dovrebbe vergognarsi, signore, a ordinare carne, oggi.»
L’uomo pareva divertito, ma non si capiva bene se era anche un pochino offeso.
«E perché no?» disse Vinny.
«Oggi è venerdì, signore» disse l’uomo, e sorrise con comprensione.
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Monte Sant’Angelo
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«Ah, è vero» disse Vinny, benché lo sapesse benissimo.
«Dammi del pesce» disse l’uomo alla ragazza, e le domandò, con familiarità,
notizie della madre, che in quei giorni era malata.
Bernstein non era riuscito a staccare gli occhi dall’uomo. Non riusciva a mangiare quella carne, e se ne stava lì a masticare del pane, provando un crescente
impulso di avvicinarsi a quell’uomo e parlargli. Gli sembrava tutta una pazzia. Il
paese, le nubi nelle strade, l’aria fina, tutto stava diventando come un’allucinazione.
Lui conosceva quell’uomo. Era sicuro di conoscerlo. E chiaramente era impossibile. Eppure, contro questa impossibilità si ergeva una sorta di cieca certezza: che se
avesse osato avrebbe potuto mettersi a parlare correntemente in italiano con quell’uomo. Da quando aveva lasciato l’America, quello era il primo momento in cui
non aveva provato il disagio di viaggiare, di sentirsi un viaggiatore. Ora si sentiva a
posto come Vinny, gli parve. Riuscì a immaginare l’interno della cucina, ebbe un’immagine chiarissima di come doveva essere la faccia della cuoca, e il posto dove
appendeva un certo grembiale sporco.
«Che cosa ti succede?» gli domandò Appello.
«Perché?»
«Lo guardi in un modo!»
«Ho voglia di parlargli.»
«E perché non gli parli?» disse Vinny, sorridendo.
«Non so l’italiano, lo sai benissimo».
«Be’, gli parlerò io. Che cosa vuoi che gli dica?»
«Vinny…» cominciò Bernstein, ma s’interruppe.
«Cosa?» disse Appello, avvicinando la testa alla sua e guardando la tovaglia.
«Fallo parlare. Di qualunque cosa. Forza.»
Vinny, gustando la strana emozione dell’amico, guardò verso l’uomo, che ora
stava mangiando, diligente, e con immensa soddisfazione. «Scusi, signore.»
L’uomo alzò la testa.
«Io sono un italiano d’America. Vorrei parlarle. Siamo forestieri, qui.»
L’uomo, masticando con delizia, annuì col suo sorriso cordiale, divertito, e aggiustò meglio la sua giacca appesa allo schienale della sedia lì vicino.
«Lei è di queste parti?»
«Sì, di poco lontano.»
«Come vanno le cose, qui?»
«Lei di che cosa si occupa, se non sono indiscreto?»
L’uomo aveva finito di mangiare. Bevve un’ultima, lunga sorsata del suo vino, si
alzò e cominciò a rivestirsi; si strinse di nuovo il nodo della cravatta. Quando camminava lo faceva con una lenta e ampia falcata, come se ogni passo fosse da conservare.
242
Verso Sud
D. Grittani
«Vendo stoffe, qui, alla gente, e ai negozi, se così si possono chiamare» disse.
Andò al suo fagotto posato su un tavolo e cominciò a disfarlo.
«Vende stoffe» disse Vinny a Bernstein.
Le guance di Bernstein cominciarono ad arrossarsi. Di lì dov’era seduto poteva
scorgere l’ampio dorso dell’uomo, leggermente curvo sopra il suo fagotto. Vedeva le
mani dell’uomo occupate a disfare il nodo, e appena l’angolo del suo occhio sinistro. Ora l’uomo stava togliendo la carta che avvolgeva due pezze di stoffa; ne
spianò con cura le grinze sopra il tavolo. Era come se quella carta marrone fosse del
cuoio prezioso che non dovesse screpolarsi o stazzonarsi malamente. La cameriera
venne fuori dalla cucina con un’enorme pagnotta rotonda di almeno mezzo metro
di diametro. Gliela diede, e lui la mise in cima alla pila di pezze, e un’ombra di
sorriso increspò le labbra di Bernstein. Ora l’uomo riavvolgeva con attenzione la
carta. Rifece il fagotto, lo chiuse con un laccio e lo riannodò, e Bernstein emise una
piccola risata, una risata di sollievo.
Vinny lo guardò, già sorridendo, pronto a ridere con lui, ma sconcertato. «Che
c’è?» disse.
Bernstein trasse un sospiro. C’era un che di trionfante, una nuova aria di sicurezza e di superiorità nella sua faccia e nella sua voce. «È un israelita, Vinny» disse.
Vinny si voltò a guardare l’uomo. «Perché?»
«Per il modo in cui ha fatto quel fagotto. È esattamente il modo in cui faceva un
fagotto mio padre… e mio nonno. Tutta la nostra storia è far fagotto e andar via.
Nessun altro sa essere così tenero e delicato nel fare i fagotti. Solo un israelita sa
legare un fagotto così. Chiedigli come si chiama.»
Vinny era molto divertito. «Signore» chiamò con quella cordialità che la sua
natura riservava ai membri di una famiglia, di qualunque famiglia.
L’uomo, ficcando l’estremità del legaccio entro l’orlo della carta, si volse verso di
loro col suo sorriso cortese.
«Posso chiederle come si chiama, signore?»
«Come mi chiamo? Mauro di Benedetto.»
«Mauro di Benedetto. Già» rise Vinny, guardando Bernstein. «Come a dire
Morris of the Blessed.»
«Digli che io sono israelita» disse Bernstein, gli occhi carichi di un’intensa animazione.
«Il mio amico qui è israelita» disse Vinny all’uomo, che ora si stava caricando il
fagotto sulle spalle.
«Eh?» fece l’uomo, confuso dalla loro improvvisa vivacità. Stava lì, con un sorriso vacuo, cortese, come domandandosi se in tutto questo non vi fosse un qualche
sottile sottinteso americano ch’egli avrebbe dovuto afferrare, pronto a condividere
A. Miller
Monte Sant’Angelo
243
l’umore degli altri.
«Giudeo, il mio amico.»
«Giudeo?» ripeté, mentre il desiderio di stare allo scherzo lo faceva continuare a
sorridere.
Di fronte alla sua persistente incomprensione Vinny esitò. «Giudeo. Il popolo
della Bibbia» disse.
«Oh, sì, sì!» L’uomo annui, sollevato, ora, di non essere stato colto in peccato
d’ignoranza. «Ebreo» corresse. E accennò affabilmente a Bernstein, un po’ imbarazzato, incerto sul da farsi.
«Ha capito che cosa gli hai detto?» domandò Bernstein.
«Sì, ha detto “ebreo”, ma non sembra averci dato peso. Signore,» disse, rivolgendosi all’uomo, «perché non beve un bicchiere con noi? Venga a sedersi qui.»
«Grazie, signore,» rispose l’altro in tono grato «ma devo essere a casa per il tramonto e sono già un po’ in ritardo.» Vinny tradusse, e Bernstein gli disse di domandargli perché doveva essere a casa per il tramonto.
L’uomo a quanto parve non se l’era mai domandato. Scrollò le spalle, rise, e
disse: «Non so. Per tutta la vita sono tornato a casa per l’ora di cena, il venerdì sera,
e mi piace arrivare prima del tramonto. Dev’essere un fatto di abitudine, immagino; mio padre… Vedete, ho una strada segnata. Prima la facevo con mio padre,
come lui l’aveva fatta con suo padre. Siamo conosciuti, qui, da molte generazioni. E
mio padre il venerdì sera è sempre tornato a casa prima del tramonto. È un’abitudine di famiglia, immagino.»
«Il Sabbath comincia al tramonto del venerdì» disse Bernstein, quando Vinny
ebbe tradotto. «E porta anche a casa il pane fresco per il Sabbath. È un ebreo, ti
dico. Domandaglielo, per piacere.»
«Scusi, signore» sorrise Vinny. «Il mio amico vorrebbe sapere se anche lei è
ebreo.»
L’uomo alzò le sue folte sopracciglia non solo per la sorpresa, ma come se si
sentisse in certo modo onorato del fatto che gli si attribuisse qualcosa di esotico.
«Io?» disse.
«Non intendo dire americano», disse Vinny, pensando d’interpretare il significato dello sguardo che l’uomo aveva gettato, volgendosi di colpo, su Bernstein,
«ebreo» ripeté.
L’uomo scosse la testa, come dispiaciuto di non poter compiacere Vinny. «No»
disse. Era pronto per andarsene ma voleva continuare quella conversazione, che era
evidentemente la più interessante che gli fosse capitato di fare da settimane. «Sono
cattolici, gli ebrei?»
«Mi domanda se gli ebrei sono cattolici» disse Vinny.
244
Verso Sud
D. Grittani
Bernstein si appoggiò all’indietro, gli occhi pieni di sconcertato stupore. Vinny
rispose all’uomo, che di nuovo guardò Bernstein, ansioso di capire più a fondo la
stranezza di quella cosa, ma la sua missione lo richiamava altrove. Augurò loro
buona fortuna e si congedò. Andò alla porta della cucina e ad alta voce ringraziò la
ragazza, dicendole che la pagnotta gli avrebbe riscaldato la schiena per tutta la discesa verso la pianura, quindi aprì la porta e uscì nel vento e nel sole, volgendo ancora
un cenno di saluto a loro due.
Tornando verso la macchina continuarono a ripetersi il loro stupore, e Bernstein
raccontò di nuovo come suo padre confezionava i fagotti. «Forse non lo sa, di essere
ebreo, ma come può non sapere che cosa sono gli ebrei?» disse.
«Be’, ti ricordi mia zia, a Lucera?» disse Vinny. «È una maestra di scuola, e mi ha
domandato se tu credevi in Gesù Cristo. Non ne sapeva assolutamente un’acca. Io
credo che i pochi che hanno sentito parlare degli ebrei, in questi paesetti, credono
che siano una qualche setta di cristiani. Una volta conoscevo un vecchio italiano
che credeva che tutti i negri fossero ebrei, e che gli ebrei bianchi fossero solo dei
convertiti.»
«Ma il suo nome…»
«“Benedetto” è anche un nome italiano. Ma “Mauro” non l’ho mai sentito.
“Mauro” è senz’altro di antica origine.»
«Ma con un nome simile, è possibile che non si sia mai domandato…»
«Non è detto. A New York, il nome “Salvatore” diventa “Sam”. Gli italiani sono
famosi per storpiare i nomi; il nome non vuol dire mai molto. Vincenzo diventa
Enzo, oppure Vinny, o addirittura Chico. Nessuno si chiederebbe di dove viene
Mauro, o qualunque altro nome. Chiaramente quell’uomo è ebreo, ma sono sicuro
che non lo sa. Hai visto anche tu, no, com’era sconcertato?»
«Ma, Dio mio, portare a casa una pagnotta per il Sabbath!» rise Bernstein, sbalordito e incredulo, scuotendo il capo.
Arrivarono alla macchina, e Bernstein aveva già posato la mano sulla maniglia,
quando si arrestò volgendosi a Vinny. Aveva un’aria accalorata, le palpebre un po’
gonfie. «È ancora presto… Se vuoi che torniamo alla chiesa, ti accompagno. Puoi
dare un’altra occhiata.»
Vinny cominciò a sorridere, e poi si misero a ridere tutti e due. Vinny gli diede
una pacca sulla schiena, e poi lo afferrò a una spalla, come volesse abbracciarlo.
«Accidenti, scommetto che ora comincia a divertirti, questo viaggio!»
Mentre camminavano di buon passo verso la chiesa, la conversazione verteva
sempre sullo stesso punto. Bernstein disse: «Non so perché, ma mi interessa. Non
solo si comporta come un ebreo, ma come un ebreo ortodosso. E nemmeno se ne
accorge… Non riesco proprio a capirlo».
A. Miller
Monte Sant’Angelo
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«Hai un’aria tutta diversa, lo sai?» disse Vinny.
«Perché?»
«Mi puoi credere.»
«Sai una cosa curiosa?» disse Bernstein, piano, come entravano nella chiesa e
scendevano nella cripta. «Mi sento… a mio agio, qui. Non so come dire.»
Cercavano di evitare le pozzanghere, guardavano entro cappelle, aprivano porte, in cerca del prete. Finalmente apparve, da non si sa dove, e Appello comprò da
lui un’altra candela e scomparve nelle ombre dei corridoi fiancheggiati da sepolcri…
Bernstein rimase lì… Tutto era bagnato, gocciolante, lì attorno. Ampia, dietro
di lui, saliva la scala di pietra, i gradini consunti da milioni di piedi. Dalle narici gli
uscivano sbuffi di vapore. Non v’era nulla da guardare, nient’altro che buio. Buio,
umidità, angustia, un ingresso per l’inferno. Ogni tanto, lontanissimo, gli giungeva
l’eco di un passo, di un altro, poi silenzio. Non si muoveva, cercava dentro di sé
l’origine di un’estasi che non s’era mai sognato esistesse nella sua natura; vedeva
quell’uomo cortese scendere giù per la montagna, camminare attraverso la piana,
per strade segnate a lui da generazioni di uomini, un viandante senza nome che
portava a casa una pagnotta ancora calda il venerdì sera… e inginocchiarsi in una
chiesa la domenica. C’era in questo un’ironia che non avrebbe saputo descrivere. E
tuttavia provava una sorta d’orgoglio. Di che cosa dovesse essere orgoglioso non
avrebbe saputo dire; forse era soltanto perché sotto l’insensato impulso della storia
un ebreo era segretamente sopravvissuto, spogliato della sua coscienza, ma preso
per sempre in quell’inaudita impudenza di osservare il Sabbath in un paese cattolico, sì che la sua stessa inconsapevolezza finiva per essere una prova, una prova muta
come una pietra, di un passato ancora vivo. Un passato per me, pensò Bernstein,
attonito nel constatare quanta importanza ciò avesse per lui, quando in realtà non
aveva mai avuto una religione, e nemmeno, ora se ne accorgeva, una storia.
Scorse la forma di Vinny che si avvicinava per l’angusto corridoio, la fiamma
della candela appiattita dalla fredda corrente d’aria. Sentì che avrebbe guardato
Vinny negli occhi, in modo diverso, ora; la sua condiscendenza era svanita, e con
essa anche un certo imbarazzo. Si sentì più libero, in certo modo alla pari col suo
amico… e com’era curioso, pensò, che prima si fosse sentito in certo modo superiore a lui. D’un tratto, Vinny era ormai vicino, vide che la sua vita era stata coperta da
una sorta d’inconsapevole vergogna.
«L’ho trovata! È laggiù!» Vinny rideva come un ragazzo, indicando il fondo del
corridoio.
«Magnifico!» disse Bernstein. «Mi fa piacere, Vinny.»
Stavano entrambi un po’ curvi sotto il soffitto basso e umido, la voce esalava
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Verso Sud
D. Grittani
dalle loro bocche in echeggianti sussurri. Vinny rimase zitto per un istante, cogliendo la contenuta felicità di Bernstein e scorse in essa la prova che la sua ricerca non
era stata un sentimento meschino. Alzò la candela per vedere meglio la faccia di
Bernstein, poi rise, prese Bernstein per un polso e lo guidò verso la scalinata che
saliva alla superficie. A Bernstein non era mai piaciuto che qualcuno lo tenesse
afferrato, ma nel tocco di questa mano nel buio, stranamente, non v’era alcuna
implicazione di un’odiosa debolezza.
Camminarono fianco a fianco giù per la strada ripida. Il paese era di nuovo
deserto. L’aria odorava di carbone di legna e di olio d’oliva. Qualche pallida stella
era apparsa nel cielo. Le botteghe erano tutte chiuse. Bernstein pensò a Mauro di
Benedetto che scendeva per la strada sassosa e serpeggiante, affrettandosi per arrivare prima del calar del sole.
[Tratto da I dont’ need you any more, ARTHUR MILLER, The Viking Press, New York 1967; apparso per la
prima volta sulla rivista Harpers’s Magazine nel marzo del 1951; tradotto in italiano da Bruno Fonzi per le
edizioni Rizzoli nel 1970]
247
La Montagna dell’Arcangelo
FERDINAND GREGOROVIUS
[...] E così, battendo i denti, giungemmo alfine nella città del Gargano, che deve
all’Arcangelo la sua origine e il suo nome. Essa ci appariva, come se si tenesse arrampicata al raso cocuzzolo del promontorio, in mezzo ad una solitudine grandiosa, col
mare di sotto: un ammasso di bizzarre case imbiancate, sulle quali s’innalzano
fumaiuoli innumerevoli delle più strane forme; e il tutto dominato da un’alta e
scura torre. Le case poggiano sulla noda roccia: alcune seguono a scaglioni il digradar
delle rupi, e folti arbusti di quercia fan loro corona.
Nell’entrare in città, sbattuti dal vento e awolti in un turbinìo di polvere, noi
potemmo immaginarci di esser come arrivati alla dimora di esseri favolosi. La popolazione maschile sembrava esser tutta fuori, in istrada, ed aveva aria di una moltitudine di demonii che andassero su e giù taciturni. Ciascuno di quegli uomini,
causa il gran freddo, s’era imbacuccato nel suo oscuro pastrano, e tirato su il cappuccio. A vederli così tutt’insieme si sarebbero presi per una grande riunione di
cappuccini o d’incappati. E così mutoli s’aggiravano a caso; mentre le campane del
santuario, che ancora non vedevamo, suonavano a distesa.
E del santuario andavamo impazienti in cerca, dopoché in una sudicia cànova
di vino, che aveva qualcosa di un covo di malfattori, ci fummo alquanto riscaldati.
La via che conduce alla cappella, passa per la piccola piazza della città. Ivi, su di una
colonna, sorge una figura in marmo dell’Arcangelo, lavoro che viene attribuito a
Michelangelo. Da un de’ lati s’innalza una grossa e nera torre a due piani, bella
costruzione di Giordano da Monte Sant’Angelo, l’architetto di Carlo d’Angiò. La
piazza rigurgitava di gente. Frotte di pellegrini facevan ressa alla porta del santuario,
dove, nella grotta, la messa era sul punto di cominciare. Il vento fischiava violentissnno
intorno e al di sopra di noi. Una banderuola in ferro, attaccata alla croce del campanile, un San Michele girante, scricchiolava e strideva in modo da mettere ribrezzo.
Come fra il gridìo e lo strepito di spiriti elementari, noi ci awiammo a scendere nel
misterioso regno delle ombre.
La grotta giace profonda nel seno di una rupe, le cui pareti sono nascoste da’
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Verso Sud
D. Grittani
sacri edifizii, e nella sommità è un vecchio arbusto di quercia, a’ cui rami i pellegrini
son soliti appender pietre.
Per scendere giù ai santuarii nella caverna si entra per una porta gotica, poggiata
su due colonne da ciascun de’ lati. Nel mezzo dell’arco acuto siede la Madonna col
Bambino, tra San Pietro e San Paolo, gruppo in marmo eseguito con molta nobiltà
di sentimento. L’epigrafe, ond’è fregiata, in cambio d’invitare il pellegrino ad entrare, sembra fatta apposta per incutergli terrore ed allontanarlo, quasi fosse qui proprio la Santa Sanctorum d’Iside: Terribilis Est Locus Iste, Hic Domus Dei Est Et
Porta Coeli. La porta conduce ad una spaziosa scala discendente, in pietra di cinquanta gradini, al basso della quale si apre una seconda porta gotica. Poiché avemmo varcato la soglia della prima ci vedemmo dinanzi la grande scala, tagliata nella
pietra viva, coperta di archi gotici, fiocamente illuminata dalla luce del giorno, che
vi penetra pe’ fori lasciati dalla roccia stessa.
Attraversammo prima parecchie stanze, gremite di rivenduglioli di mille gingilli
tutti relativi all’Arcangelo: amuleti, medaglie, corone del rosario, rami di pino, conchiglie a mucchi, immagini rozzissime, e specialmente statuette rappresentanti San
Michele; insomma, una fiera a buon mercato. Lungo le pareti, sopra tavole ed assi,
codeste statuette eran disposte a centinaia e delle più svariate grandezze. Sono di
marmo friabile del Gargano e fatte di pezzi: ali, capo, corona, scudo, spada, anche
il piedistallo di legno giallo, si possono staccare pezzo a pezzo, e riporli in una
cassetta. Questo modo tenni io per portarmi felicemente a casa il mio San Michele,
che mi sta ora dinanzi sano e salvo.
Non avevamo fatto la scala, che una torma di sciancati, di storpii, di pitocchi ci
fu intorno, levando alte grida, e impedendoci l’andare oltre. Finalmente ad uno
scaccino riuscì aprirci il cammino, offrendosi pure a servirci da mentore in quel
mondo sotterraneo.
Nello scendere avevamo notato in più luoghi su’ gradini e sulle pareti della scala
l’impronta incisa di mani e di piedi, ciò che destò in noi un senso di orrore. Ora
sapemmo, che sono segni per antica tradizione impressi da’ pellegrini. Così pure le
pareti, come nelle catacombe di Roma, si veggono tutte imbrattate e scarabbochiate
de’ loro nomi.
Per la porta da basso entrammo quindi in una piccola corte quadrata, e qui
rivedemmo di nuovo la luce del giorno. Questo è il più antico cimitero de’ pellegrini. Alle pareti sono addossate alcune tombe; ma niuna di esse va più in su del secolo
XV.
L’atrio mette alla chiesa, la quale è situata in lungo innanzi alla santa grotta. Vi si
entra dal lato orientale della corte, per una porta in stile romano, con imposte di
bronzo che il ricco amalfitano Pantaleone fece costruire, nel 1076, a Costantinopoli.
F. Gregorovius
La Montagna dell’Arcangelo
249
Sopra ventiquattro tavole contengono figure lavorate in niello in istile assai primitivo e ingenuo, ma piene di espressione, le quali rappresentano tutte apparizioni di
angeli: la cacciata dal paradiso de’ primi progenitori, gli angeli in presenza di Abramo
e Giacobbe, di Daniele e Zaccaria, la liberazione di San Pietro dal carcere, e scene
simiglianti, sino all’apparizione di San Michele innanzi al vescovo Lorenzo in Siponto. Sulla porta si leggono le parole leggendarie che l’Arcangelo avrebbe dette a
quel prelato: Ubi saxa pand untur, ibi peccata homimun d imittuntur. E poscia:
Haec est domus specialis, in qua noxialis quaeque actio d il uitur.
La chiesa fu edificata sotto il primo Angioino. Non ha che una sola navata,
ardito lavoro di architettura gotica, per metà tagliato nella roccia. A sinistra è illuminata dalla luce del giorno, e da questo lato è pure il coro con i suoi banchi e stalli
in legno pe’ canonici. A destra si apre l’accesso alla Sacta Sanctorum, alla famosa e
miracolosa grotta, al punto centrale del culto dell’Arcangelo in tutto l’occidente.
L’apertura ha quaranta piedi di larghezza e sedici di massima altezza. Mentre eravamo lì dinnanzi, una strana, una indescrivibile scena ci si offrì allo sguardo, quasi
fıaba la cui azione si svolgesse nelle visceri di una montagna incantata e illuminata.
Se Dante avesse potuto assistervi, n’avrebbe, di certo, fatto tesoro nella Divina Commedia. Folte schiere di pellegrini, che circondati da incerta e fıoca luce parevano
spiriti, gremivano la scala di marmo, che dalla chiesa mette su alla grotta. Si pigiavano e spingevano per salire, o stavan fermi, o anche ginocchioni. Nell’oscuro fondo della spelonca, sull’altare coperto di porpora, ardevano candele, che irradiavano
la bianca figura dell’Arcangelo, il quale pareva battesse le ali. Un sacerdote con un
chiericozzo si muovevano in qua e in là, innanzi all’altare, compiendo fantastici
inchini e genuflessioni. I preti in chiesa cantavano con stentorea voce, e di laggiù
venivano pure a ondate gli accordi dell’organo. Le ombrose volte della chiesa, di
sopra la gola oscura della caverna, il baglior tremolante che ne pioveva fuora, la
solennità de’ canti e de’ suoni, quella calca di gente silenziosa, mutola: tutta questa
vita misteriosa e sotterranea produceva un’impressione che non si lascia esprimere
con parole. Si sarebbe potuto credere che fosse nient’altro che un sogno.
Il prete dell’altare aveva appunto dato principio alla messa; epperò noi eravamo
peritosi a spingerci più in là. Ma lo scaccino, che ci accompagnava, c’invitò a tenergli dietro. Con modi sgarbati e grossolani, senza riguardo di sorta, come se si fosse
stati nella baracca del saltimbanco, ci fece largo tra la fitta moltitudine. Superata la
scala, ci fece penetrare sin presso al jerofante, e lì, quasi dietro all’altare, dovemmo
rimanere.
Veramente, lo stare colà non era per noi poco penoso. Ci eravamo cacciati, quası
ınvasori, in quel luogo, dove si compivano misteri che non ci riguardavano; e ciò
senza nostra intenzione. Del resto, potemmo presto farci accorti che quella tolle-
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Verso Sud
D. Grittani
ranza senza limiti, comunissima in quale che siasi chiesa d’Italia, per cui l’elemento
profano può, come meglio gli pare e piace, andare e venire e aggirarsi nella dimora
del santo, anche qui era ammessa ed esercitata. Dall’altare, è vero, il prete ci volgeva
tratto tratto un’occhiata curiosa, investigatrice: ma si vedeva pure, che, più che con
un rimprovero, l’accompagnava con un sorriso fuggitivo.
La grotta era piena zeppa di pellegrini. Uomini e donne, che ci stavano vicini, o
immersi nelle loro divozioni o intenti a fare le loro sacre gesticolazioni, non ci
guardavano che con piena indifferenza. Infine, se pure qualche scrupolo ancora in
noi rimaneva, venne a liberarcene l’incredibile ingenuità del nostro scaccino. Malgrado della sua condizione officiale di custode del tempio, egli riguardava tanto
poco il Granduca celeste come un essere che bisognasse trattare col dovuto rispetto,
che trovò affatto naturale l’accendere ad uno de’ candelieri, che ardevano sull’altare
stesso, un moccolo attaccato ad una canna, e con esso illuminare in qua e in là, dal
di dietro, la figura dell’Arcangelo, onde noi avessimo agio di vederla in modo più
spiccato. E tutto questo nel momento appunto, che a due passi da noi il canonico
compiva il sacrifizio della messa innanzi alla figura dell’Arcangelo! E non valsero a
nulla i nostri segni di rifiuto, ché egli non vi badò. Certo, la sconcia azione non
potette sfuggire al gran sacerdote dell’Arcangelo; ma il fatto è che nessuno se ne
mostrò sorpreso!
Così presso com’ero, io osservavo la scena meravigliosa con la stessa intensa
curiosità, con la quale Erodoto e Plutarco assistettero un tempo ai misteri in Egitto,
nella Siria e nella Grecia. Spettacolo più singolare non avevo mai visto in mia vita!
Come quadro, illuminato alla maniera di Honthorst, avrebbe rappresentato il sublime del fantastico. Noi stavamo nella più riposta profondità della spelonca, dalla
cui negra volta trapelavano e cadevano su noi gocce d’acqua. Intorno intorno pellegrini genuflessi ed oranti. Dinanzi a noi l’altare illuminato con sopra la figura dell’Arcangelo. Poi il prete e il chiericozzo che cantavano, intercalando il canto con
inchini e riverenze. Più in là, in fondo, vedevamo la scala, letteralrnente coperta di
devoti, e sulla oscura massa che formavano, e anche oltre nella chiesa, scorreva
leggiero e tremolante il barlume delle candele.
Quando pensai che questo culto per un essere creato dalla fantasia, o addirittura
per un fantoccio, venne celebrato identicamente, sempre nella stessa cappella, per
tredici secoli; ch’anzi per la sua origine semitica, superando il nascimento stesso del
Cristianesimo, va a perdersi nella notte de’ secoli remoti; non devo negare che
l’impressione in me fu grande. Questo Arcangelo, prima di assumere la figura che
ora ha, è trapassato per una serie di miti cosmogonici. E la stessa figura presente ha
per sé una storia ignota. Forse l’effigie di San Michele è qui, su questo altare, sin dal
VI secolo. A1 tempo della persecuzione iconoclasta bizantina sarà stata abbattuta; e
F. Gregorovius
La Montagna dell’Arcangelo
251
poscia nel secolo VIII rimessa su di nuovo. Tale qual è oggi, è un lavoro della fine
della Rinascenza una statua di marmo, alta forse tre piedi. L’Arcangelo è coperto di
corazza, con un’alta corona sulla chioma inanellata le ampie ali distese, nella destra
la spada, sulla sinistra lo scudo, e di sopra alla corazza una clamide che cade all’indietro.
Tuttoché armato così marzialmente, pure, al pari di tutti gli angeli, San Michele
fa un’impressione infantile E tutto il culto per lui riveste il carattere medesimo: una
bambinería messa su per baloccarsi. I misteri nella grotta del Gargano non hanno
in verità nulla in sé di orrido o di spaventevole Essi non sono che una fiaba fantastica, come quella dei Castello d’Arturo, di Dororoschen, del Venusberg e del
Kyffllauser: soltanto una fiaba elevata sino all’idealità religiosa. I fedeli qui convenuti a pregare, non parevano dominati né agitati da tetre immagini. Solo una vecchia donna che era accanto a noi, dava qualche segno di movimenti convulsivi
senza posa s’assestava violenti pugni al petto, mentre una giovane, che le stava vicino, aveva in cambio ogni ragione di trattarsi con dolcezza e riguardo.
Io credo che tutti questi pellegrini sotto l’immagine dell’Arcangelo alato non si
rappresentino che un essere celeste, amorevolmente disposto, un salvatore e un
patrono, e soprattutto un genio tutelare. Egli siede presso il trono di Dio, e la
dimora sua è la luce. Che cosa è qui la grotta tenebrosa Stando alla ingenua credenza del pellegrino, è il simbolo della terra o del mondo umano, nel quale è piovuto
dall’alto un raggio del divino. Ma, anche quaggiù, nella caverna, il pensiero del
devoto pellegrino va cercando il suo genio non nelle spaventose tenebre delle catacombe, bensì nelle regioni eteree. E a lui s’offre un’immagine bella e graziosa che lo
rallegra e solleva, e cui non si mescola alcuna rappresentazione del deforme e nulla
che ricordi il tormento, gli affanni e la morte.
Gli angeli o i genii sono le uniche figure non nate a soffrire che i miti cristiani
abbian create o, per dir meglio, ricevute dalle antiche religioni dell’oriente. Esse
sono la più attraente delle creazioni poetiche della cosmogonia asiatica. Nessuna
credenza più dolce e più tenera di quella in un angelo tutelare, che vada svolazzando sul sentiero dell’uomo errabondo. E la figura stessa di San Michele non ha altro
significato, ancoraché la sua lotta con i titani, ribelli del ciclo, gli dia l’impronta di
Ercole. Il culto di lui non ha in sé niente di quella ributtante materialità delle
reliquie e di un magico feticismo, compagna indivisibile dell’adorazione de’ santi.
Invece è e rimane sempre il culto del buon genio e della luce; un culto più umano,
per lo meno più ideale di quello che onora gli altari de’ molti martiri della Chiesa.
Senza dubbio, sapienti come Pitagora e Socrate, poeti come Milton e Klopstock
non gli avrebbero rifiutata la loro adesione.
La vista del grazioso genio non può disporre il pellegrino che ad impressioni e
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D. Grittani
sentimenti miti. Questi, non legandosi a nulla di determinatamente dommatico,
non stando in relazione con alcun fatto della storia ecclesiastica, si risolvono in
fondo tutti in puri concetti universali. Quelle rappresentazioni che la cavalleria nel
medio evo si formò di San Michele, come del cavaliere celeste, come del debellatore
degli infedeli e degli altri nemici della Chiesa, sono venute meno. Solo una propaganda tutta partigiana ha potuto ora tentare di voler fare dell’Arcangelo il gran
maresciallo della rivincita per i disastri toccati nel 1870 alla Francia e al Papato. La
possanza di lui sarebbe destinata ad annientare le conquiste germaniche ed espellere
dal profanato Quirinale il novello Eliodoro. Impresa, per verità, ardua anche pel
buon Arcangelo d’Avranches, ché in fatto di scienza di guerra egli dev’essere rimasto un po’indietr,o rispetto alle esigenze del tempo! E chi sa pure, se codesta impresa, che gli si vuole addossare, egli sia in fine disposto a riguardarla come una missione in servizio del principio della luce? Con la sua fine ironia il geniale Kaulbach ha
dipinto il San Michele tedesco sotto l’effigie appunto dell’Arcangelo, coperto però
il capo dell’elmo prussiano e in atto di sgominare, qual vittorioso riformatore, le
potenze tenebrose del 1870.
Questo intanto è da tenere per sicuro, che l’Arcangelo italiano sul Gargano non
sarà mai per sguainare la spada contro Vittorio Emanuele. Per gl’intenti del
legittimismo e della propaganda gesuitica egli non è accessibile al fanatismo e Don
Carlos ed Enrico V hanno poco a sperare da lui. Allorché gl’Italiani entrarono nel
suo Castel Sant’Angelo, egli non pensò punto a trar fuori la spada e salvare il
Dominum Temporale. In cose di religione nessuna nazione fu ed è più facilmente
accensibile della francese, di che son prova le sue molte e spaventevoli guerre di
religione: gli Albigesi, gli Ugonotti, la notte di San Bartolomeo, le Dragonades e via
di seguito. Nessuna al contrario lo è tanto poco quanto l’italiana. Processioni, come
quelle che oggi in Francia si veggono andare in giro, nessuna potenza sacerdotale,
neppure il comando espresso del Papa, potrebbe in Italia riuscire ad organizzarne, e
volesse il Santo Padre condurle egli stesso in persona al Gargano, a Loreto o a San
Nicola di Bari.
Quando fui a visitare quest’ultimo santuario, anch’esso assai famoso, anch’esso
uno de’ più frequentati pellegrinaggi nel mezzogiorno d’Italia, entrato nella sacrestia,
vidi pendere dalle pareti l’uno rimpetto all’altro, nel migliore buon accordo del
mondo, i ritratti di Pio IX e Vittorio Emanuele. Il re delle Due Sicilie è per antichissima tradizione canonico nella chiesa di San Nicola di Bari. La ecclesiastica dignità
è stata, come prima, senza difficoltà trasmessa anche all’usurpatore. Il clero nell’Italia Meridionale seppe in ogni tempo accomodarsi ai fatti politici compiuti. Quale
sia la dinastia regnante nel paese, a lui è in fondo indifferente. L’essenziale è stato
sempre che lo si lasciasse valere e non si portasse la mano all’esercizio del suo culto.
F. Gregorovius
La Montagna dell’Arcangelo
253
Oggi come pel passato il clero mantiene quasi illimitato l’antico dominio sulla
coscienza delle moltitudini. Le mutazioni quivi occorse hanno avuto carattere puramente politico e nessuno morale. Una inveterata maniera di vivere secondo antiquate abitudini ereditarie vi dura e vi si serba intatta, sostenuta da una superstizione
millenaria; e a niuno è dato preconizzare il come e il quando il culto degli antichi
santuarii italiani abbia a cadere estinto. L’unico cangiamento subito da’ misteri del
Gargano consiste nel numero assottigliatosi degli oblatori di offerte e nell’essere
spariti dalla lista de’ pellegrini e visitatori i nomi d’imperatori e di altri grandi e
potenti della terra. Ma anche ciò potrebbe forse non essere che un fenomeno molto
transitorio. Niuno assicura non possa venire il giorno che un papa 0 un re buon
cattolico non abbia di nuovo a fare la sua comparsa sul Gargano.
La messa era finita e la grotta andava sfollandosi. Allora potemmo osservarla a
nostro agio. Presso l’altare è una pila, che pe’ pellegrini che vi attingono, è una vera
fonte benedetta. Le si leva accanto una vecchia figura dell’Arcangelo: ed è in una
pietra l’impronta di una sua pedata, l’unica reliquia che si abbia di lui. Vedemmo
anche una vecchia cattedra in marmo con una effigie di San Michele ed un’antica
figura di San Giacomo, il cui tempio a Campostella gareggiava nel medio evo con
questo del Gargano. Il pavimento della grotta non è di pietra naturale, ma coperto
di marmo bianco e rosso.
Poiché fummo usciti fuori dall’antro a rivedere le stelle, la procella s’era calmata;
e noi andammo un po’ in giro per la città di Sant’Angelo. Originariamente essa non
comprendeva che ospedali pe’ pellegrini, de’ quali alcuni rimangono ancora oggi.
Già nell’XI secolo era diventata un ragguardevole luogo fortificato, e insieme con
tutto il paese del Gargano formò il centro di un feudo regio, del quale grandi
signori portarono il titolo. I diritti che vi erano annessi, furono chiamati: I’onore di
Monte Sant’Angelo. Federico II ne investì per testamento l’amato figliuolo suo,
Manfredi.
La città conta oggi più di 10.000 abitanti. Le sue case tinte a bianco, ornate
pressoché tutte di una piccola nicchia con entro la figura dell’Arcangelo, sono del
più bizzarro stile: la maggior parte a un sol piano, con scale di pietra scoperte, che
per un uscio a volta menano su di una terrazza. La facciata d’ordinario forma un
quadrato, dove la porta d’ingresso serve al tempo stesso di finestra. All’interno
riboccano di sudiciume. Non una che avesse aspetto alquanto bello e pulito; eppure
di persone ricche non dev’essere difetto in Sant’Angelo. Ci fu raccontato che tengono sepolti sottoterra mucchi d’oro e d’argento, e che traggono la vita più miserabile
che possa immaginarsi; mentre mandano poi i figliuoli a studiare a Napoli.
Dove la città verso l’interno della montagna si termina, si può gettare uno sguardo sulla grandezza selvaggia e deserta del Gargano. Negre foreste di pini e di querce
254
Verso Sud
D. Grittani
vanno così avvallandosi fra i profondi burroni. Pure quasi da ogni parte sono pezzi
di terreno disposti a terrazzi ove vegetano viti ed olivi.
E più in fondo vi sono anche campi di biade, ed orti innaffiati da sorgive che nel
monte non mancano.
Dall’anno 1860 al 1869, questa regione montuosa, al pari degli Abruzzi, brulicava di briganti: oggi è stata purgata di siffatto malore. Il Governo è intento a
congiungere insieme tutti i paesi del Gargano con una rete di strade e di fili telegrafici; il che forse è il mezzo più sicuro per prowedere l’appartato mondo alpestre di
elementi di più alta coltura.
Con un certo tal quale desio spingemmo l’occhio entro gli ascosi recessi delle
montagne e delle valli a noi sconosciute: il poterle percorrere a cavallo dovrebb’essere
un vero gusto. Ma con maggior desiderio ancora guardavo io quell’ammasso di
rupi selvagge, che dal lato d’oriente va a sprofondarsi nel mare. Colà sotto è Viesti,
la remota, la perduta dal mondo. La sua solitudine dev’essere un incanto; ma a noi
non fu dato visitarla. Da Sant’Angelo ci parve meglio tornarcene a Manfredonia,
lieti di aver potuto felicemente compiere il nostro pellegrinaggio alla sede dell’Arcangelo sul Gargano.
[Testo di FERDINAND GREGOROVIUS tratto da Viaggiatori tedeschi in Puglia nel Settecento, a cura di Teodoro Scamardi, Schena, Fasano 1990]
255
Monte Sant’Angelo
Corrado Alvaro
Corrado Alvaro (San Luca di Calabria 1895 - Roma 1956). Scrittore, redattore del quotidiano La Stampa, la sua prima consistente prova narrativa risale
a Gente di Aspromonte (1930) a cui faranno seguito Misteri e avventure
(1930), Vent’anni (1930), L’uomo è forte (1938), Ultimo diario (1959) e
Tutto è accaduto (1961). Con ogni probabilità Alvaro visitò il Gargano nel
1940, lasciandoci nelle pagine che compongono il racconto Monte Sant’Angelo uno struggente ricordo di quel viaggio.
Vi sono popoli che hanno un talento istintivo e storico per l’architettura. E si
capisce per quelli che hanno da celebrare una potenza e da attestare una forza. Ma
s’immagina difficilmente un gruppo di pastori e di contadini che porti una preoccupazione architettonica nella sua abitazione, nel suo forno, nel suo rifugio di montagna. Da Manfredonia a Monte S. Angelo, si va prima per un pendio sul mare, di
poche case sparse tra i campi di olivi e di mandorli, di olivi e di pini d’aleppo. La
montagna è una pietraia deserta là davanti, e si misura dove e come il vento la
tormenta. In una piega del terreno, in una ruga, in una valle, dove il vento non
arriva, qualche albero si leva, una macchia verde descrive la sua pace. Ma salendo
per la strada bianca, quello che era il deserto appare un bastione di pietrame, e non
qui soltanto, ma su tutti i poggi e i monti intorno; alla fine, sull’intero promontorio. Tutto quello che si scorge, dalle valli asciutte alle cime, è una immane opera di
muri a secco che sostengono le terrazze degli olivi, dei mandorli, delle vigne, del
grano. Un movimento a spirale avvolge monte dietro monte, i viottoli serpeggianti
e le strade tortuose rifanno un movimento concorde; il mare che sembra levarsi
inclinato sulla linea dell’orizzonte, è rigato allo stesso modo dalle correnti: tutto è
sullo stesso disegno, simile all’avvolgersi di certe conchiglie. Sulla cima di qualche
poggio sta come un fossile un edificio bianco. Si capisce d’essere capitati entro
un’opera tra le più ingegnose degli uomini e, come succede, si pensa alla natura di
256
Verso Sud
D. Grittani
questi uomini. Una tale opera dei campi è stata compiuta in settant’anni, da quando il Gargano finì di essere un feudo regio coi suoi boschi profondi dell’interno. Il
lavoro parla per gli abitanti. Come lo scatenarsi d’una girandola, questo vortice
diventa sempre più grandioso e più complicato a mano a mano che si risale il
monte. Poche volte la fatica umana dà uno sbigottimento simile. Una donna, nell’autobus, con due occhi di fuoco di notte, posa per un attimo lo sguardo su di voi.
Non vi guarderà mai più. Tutto qui è molto importante. A un certo punto, l’occhio
si abitua a discernere nient’altro che questa immane pazienza. Qua e là nelle valli,
spuntano certi enormi comignoli, e non se ne scorge l’abitazione. Si scorge bensì la
porta incardinata nel masso. La vigna è ancora nuda, i mandorli già verdi con
qualche vecchio fiocco fiorito, colore della polvere, gli ulivi alleggeriti sono gracili;
ma non c’è traccia d’uomo se non questi enormi camini dalla forma di torri, di
campanili, di lanterne, di vecchi casolari, bianchi come la pietra, e un filo di fumo
annunzia che qualcuno è vivo là sotto, chiuso come un minatore. Tutta la terra
attorno è lavorata come una miniera. In fondo alla valle, una borgata è disposta in
riga su quattro o cinque file, seguendo il disegno delle terrazze che la sovrastano per
la montagna, tinta di bianco come tutta la pietra che si vede. Un lembo di terra
miracolosamente in piano, arriva verde di grano proprio fino alla striscia del mare
turchino. Gli stessi comignoli che si sono veduti prima, annunziano la città di
Monte Sant’Angelo, prendono forma sopra al ciglio roccioso del monte, figurano
come le cuspidi di una lontana città turrita e bianca; si scorgono poi i tetti, le case
basse disposte in riga sulla cima, che coprono il monte come un tetto, della stessa
forma, e spioventi come gli embrici d’un tetto, e, sopra, questi comignoli spropositati, a torrione, a elmo, a turbante; se una città moderna dovesse avere i suoi comignoli delle proporzioni di questi, in rapporto all’altezza degli edifici, si dovrebbe
presentare con camini della grandezza delle Torri di Bologna o del campanile di
Pisa. Questi camini dicono tutto: il vento che tira, il freddo d’inverno, la bisogna
del pane. Da una casa esce un tale con un’asse sulla testa, e sopra ci sono due pani di
dieci o dodici chili ciascuno, quanto basta a una famiglia di cinque o sei persone, di
qui, per due giorni. Non avevo mai veduto un pane di questa posta.
A parte la donna dell’autobus, con gli occhi di fuoco di notte, non ho veduto
qui altre donne, fuori, se non vecchie. Una scritta all’ingresso della città avverte che
qui si tocca il quaranta per mille della natalità, la quota più alta d’Italia, a quanto
pare. Ci si accorge subito di trovarsi fra gente dura e gelosa, quella cioè che ha
costruito l’enorme monumento dei bastione delle sue montagne. Tanto dura, che
neppure il matrimonio accade senza dramma.
L’uomo ha spesso bisogno di un atto di forza anche in ciò. Che un contrasto
qualunque coi parenti della sua bella si faccia strada, che lo prenda un dubbio sui
C. Alvaro
Monte Sant’Angelo
257
sentimenti della donna amata, e l’uomo, che fino a quel giorno non è riuscito a
parlare alla sua sospirata se non stando sulla soglia della porta, con la madre muta
testimone, e la fanciulla rifugiata ai piedi del letto, quest’uomo spalleggiato dai suoi
compagni si presenta nella casa di lei, in un’ora in cui ella è sola con la madre, e
quando i suoi compagni con l’inganno o con la forza hanno condotto fuori la
vecchia, egli si chiude la porta alle spalle e diventa signore dell’amata. A ogni denunzia di colpi di questo genere, e dei ratti in campagna, o nel corso d’una festa, i
carabinieri sanno che tutto finirà col pranzo di nozze. Spesso, per la povera condizione degli sposi che non possono redigere lunghe note di beni e di oggetti di
corredo da far leggere solennemente per bocca del notaio davanti al vicinato, e da
far portare alle comari nelle canestre, il ratto è buonissimo rimedio che dispensa da
tante malagevoli formalità. Pensano gli amici a preparare una lauta cena ai due
fuggiaschi, e un buon letto. La mattina dopo, le madri dei due sposi per amore e per
forza, vanno a informarsi se tutto sia andato bene. Il letto è molto alto, le assi sono
sostenute da due alti trespoli, e per salirvi ci vuole una scaletta o una sedia, anche al
prete e al medico quando sarà l’ora.
Quella del ratto è una vecchia usanza illirica. È noto che di là, sull’altra sponda
dell’Adriatico, il rituale del matrimonio comporta anche un ratto simulato, a cavallo, prima della celebrazione. Qui è rimasto l’uso nel suo vigore primitivo. Il ratto
può capitare anche a una donna sorda al richiamo dell’amante, e che per avventura
ami un altro. Tutto finirà ugualmente col matrimonio; ma con quale cuore? E si
tratta proprio d’un richiamo d’amore, al modo degli uccelli e delle fiere, un sibilo
sordo come dei grilli d’estate, cui la donna, se vuol rispondere, si affaccia dietro i
vetri o sulla porta, a cui corre, se è fuori, strisciando lungo il muro fino alla porta di
casa sua. E poi i figli, le grandi famiglie che servono per il lavoro della montagna,
dove sono di pietra anche gli ammostatoi, dove sono scavate nella roccia le gabbie
per i torchi, dove i pani sono grandi come la luna piena, dove il vento è chiamato
lucifero, e suscita nei crudi inverni i racconti delle streghe, dove si lavora fino a
settant’anni e si campa spesso fino a cento, dove gli uomini ripetono sempre la
medesima storia e nascono forti, crescono intraprendenti contadini pastori e artigiani, negati a ogni forma d’industria, ma per quello che sanno fare ricercati in
tutto il Tavoliere, per un buon grande pane sicuro, e che neppure nell’emigrazione
scordano le loro attitudini, rimanendo carpentieri, muratori e imprenditori di lavori stradali e di costruzioni. Hanno il genio dell’architettura come in altri, non più
molti, paesi d’Italia; e davanti alla loro città costruita mirabilmente sullo scrimolo
del monte e su due valli, ci si può chiedere se, per avventura, tante invenzioni
preziose d’architettura, non soltanto popolare, non vanno proposte a modello d’una
moderna architettura povera di idee e pretenziosa, come è quella che ci propone
258
Verso Sud
D. Grittani
stabilimenti balneari e palagi tutti del medesimo stile. Non esiste da noi un documento che metta sotto gli occhi l’arte di costruire una casa come fanno qui, a Ischia,
a Positano, e in pochi altri luoghi, e che rappresenta la forma attraverso cui anni ed
anni si raccomandano alla considerazione dei posteri. Arte di fare scale, passaggi,
portici, di risolvere problemi di pendenze, di prospettive, di variarle infinitamente.
Arte di legare gli uomini ai loro luoghi.
È tanta la vocazione di questi di Monte Sant’Angelo, che essi chiamano pagliai
anche certi rifugi di montagna costruiti di pietra a forma di capanna. I loro avi della
preistoria abitavano qui in caverne che si vedono ancora, adattate già mirabilmente
ad abitazione. Appena il romanico glorioso fece illustre la Puglia, questi montanari
trasportarono sulle loro abitazioni il modello delle facciate di quelle chiese, quadrate e rettangolari, e adattandole, in modo che la più moderata casuccia ha questo
egregio frontespizio. In molti luoghi, è ancora la caverna primitiva sormontata da
un comignolo e chiusa da una di queste facciate. Ed è una caverna il famoso santuario di S. Michele Arcangelo che pare sia apparso qui per la prima volta alla adorazione dei fedeli, prendendo il posto di Apollo che qui aveva un tempio. Poiché egli
lasciò l’impronta del suo piede nudo, i pellegrini di tutta la regione e delle regioni
vicine tracciano sui muri e sulle scale del santuario l’impronta della loro mano e del
loro nome.
Le impronte di quei piedi e di quelle mani sono come una lunga eco delle
sessantamila persone che passano qui ogni anno.
Il sagrestano del tempio, sotto la grotta umida ed enorme che si apre nella chiesa, mi offre una reliquia. Una scheggia del masso. Ancora pietra, la pietra.
[Tratto da Itinerario italiano, CORRADO ALVARO, Bompiani, Milano 1941]
259
La Tomba di Rotari
Giuseppe Ungaretti
Ora ci appare Montesantangelo. Le sue case, per le porte sormontate dalla finestra a balconcino, a questa distanza le diresti una greca che coroni il monte.
Arrivati a Montesantangelo, correte a vedere la cosiddetta tomba di Rotari.
Un’architettura degna di Ispahan! È un monumento misterioso. All’esterno s’alza
come una mole che faccia da testa al monte, e pure portando i segni netti d’un’arte
molto avanzata, non riesce nel suo ritmo a dissimulare non so quale violenza caotica della natura ancora vergine.
Misterioso monumento! Il suo nome la dichiara Tomba di Re Rotari longobardo.
Ma, pare, perché si lesse male una scritta che diceva «Rodelgrimi». Quante volte i
dotti ce l’hanno data a bere, leggendo male! Il popolo la chiama la Tomba di San
Pietro perché attigua alla chiesa di questo nome. Chi la ritiene un campanile, chi
un “sontuoso tipico battistero del XII secolo”, chi tomba e torre di vedetta da principio e poi battistero e chiesa…
Possono avere tutti ragione. Ma come pensa il prof. Giovanni Tancredi che
vuole essermi guida gentile e che questo monumento ha studiato con amore in
tutti i suoi particolari, mettendone alcuni egli stessi in luce, quanto alla data di
costruzione si dovrebbe risalire alla prima metà del XII secolo. Quanto all’essere
tomba, anche a non credere agli esametri incisi che dicono:
Incola Montani Parmensis Prole Pagani
Et Montis Natus Rodelgrimi Vocitatus
Hanc Fieri Tumbam Jusserunt Hi Duo Pulchram
Vale a dire:
Un abitatore del monte di origine parmense, Pagano,
Ed uno nativo di Monte, chiamato Rodelgrimi,
Fecero fare questa bella tomba.
Perché andare a immaginare che tumba, volendo dire volta o cupola, non potrebbe essere una tomba? Tomba la dice il popolo, tomba la dichiarava la leggenda
dotta. E tomba sia, per il fortunato visitatore che in essa si sprofonda.
Verso Sud
260
D. Grittani
Vita trionfante
Il suo colore interno è d’un rosa secco. Un colore che verso l’alto diventa d’una
accalorata luce diffusa.
Si ha veramente l’impressione d’essere scesi in una profondità di tomba, circondati da visioni infernali, come quel potente groviglio che rappresenta l’avarizia tormentata. Ma alzando gli occhi in questo luogo di sogno, ecco un primo conforto:
fra l’accidia e la lussuria, ecco la maternità, ecco la vita trionfante! Teniamo gli occhi
alti, seguiamo gli spazi che salendo prendono a gradi una forma più raccolta, arriviamo alla sommità, lassù, lassù – l’occhio si fa piccolo per arrivare a vedere – e
vedremo un’aria soprannaturale, contenuta come in un guscio d’uovo trasparente
che una freschezza illumina…
Molto probabilmente questa tomba sarà anche un battistero. Non è il battesimo un sacramento dei morti alla grazia? E non li risuscita?
E sembra che ora possano essere sfidate tutte le pesanti leggi che tengono i nostri
passi giù. Si è veramente morti alla materia, è veramente un nascere allo spirito.
Non conta più il nostro peso a questo punto dell’aggirante salita. Conta una felicità
ritmica, conta una divina precisione, è superato e oltrepassato l’inutile, conta la
grazia. Com’è pura i quest’aria di sogno, la giovine maternità…
[Tratto da Deserto e dopo, GIUSEPPE UNGARETTI, Mondadori, Milano 1961]
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Pasqua
Giuseppe Ungaretti
San Michele del Gargano, il 1 aprile 1934
L’angelo nella caverna
Dall’alto, così muoversi a perdita d’occhio, non avevo mai visto il grano giovane. Soggiace appena al suo alito in fiore; ma è un alito immenso, un alito di felicità
finalmente palese, davvero da terra risorta. Un alito di Pasqua, davvero di terra
finalmente di luce. E non lo definisce luce la sua incertezza stessa? Quell’essere
ancora il tremito d’un calore libero da poco lungo lo stelo dalla zolla, d’un calore
che ancora tralasciare non può, nello scorrere oltre la tenerezza dell’erba, qualche
ombra di violenza segreta?
Calando dai monti portato all’infinito in palma di mano, è stamani il Tavoliere
d’una freschezza e d’una felicità…
Ma ecco che una rivolta della strada ce lo nasconde.
Pasqua! Li sentite gli agnellini? Siamo nel paese del grano e delle greggi.
Un giorno un’idea, e conteneva in sé fuse tante altre forme, da una proda bizantina prese il volo e, chiamatasi San Michele Arcangelo, venne a posarsi su questo
monte. Gli sono venute dietro tutte quelle case bianche che vedete, che s’arrampicano l’una dietro l’altra piene di 20.000 Cristiani, sormontate da fitti comignoli
lunghi lunghi, che formano una strana roccia con mille feritoine per farci il nido.
Gli è venuto dietro quel campanile angioino che alza – all’angolo d’un piazzale,
chiuso dentro un’inferriata, ma non è feroce – i suoi 25 metri, come un enorme
cero pasquale, imitando il poderoso e grazioso slancio delle torri ottagonali di Castel del Monte. Ha persino un portale della medesima breccia picchiettata di sangue del monumento svevo.
Dal quinto secolo in qua, gli è venuta dietro questa città di Montesantangelo,
brulicante a 900 metri sul Gargano.
Il suddetto piazzale – noi diremmo corte; atrio esterno, direbbe il saccente: culonne,
262
Verso Sud
D. Grittani
dice meglio di tutti la gente di qui, perché una volta c’era un elce secolare nel
mezzo. La culonne è fatta per li sammecalere - da San Michele – venditori ai loro
banchi di statue del loro santo, da essi stessi lavorate in alabastro che pare allume.
Sono due dinastie di artigiani: gli Iasio e i Parla, e dal tempo dei Re aragonesi hanno
il privilegio di fare e vendere le statue.
Circolano anche nella culonne gridi cristallini di montanine: offrono li mazzaredde,
e con li mazzaredde ciuffi di pino di Aleppo e nastri e tutto l’occorrente perché il
pellegrino non se ne torni a casa senza il suo bordone. Potrà acquistare anche schegge di calcare da portarsi al collo o da attaccarsi al cappello, e se avesse fame, li
fascinedde, l’ostia chiene, li pupratidde, carrube, croccanti, ciambelle di cacio…
Apparve in origine l’angelo all’uomo, dicono, impugnando una spada di sole
che ci chiuse l’Eden. Gli angeli furono da allora le stelle, inaccessibili misure che
guidavano i passi erranti nel deserto. Compresa la stella che condusse alla grotta i
Magi, furono nature pure, assoluta fissità, segnali sicuri, operai adibiti all’eterna
creazione del mondo, api mediatrici fra la divina potenza e l’umano fallire, vaghezza o terribilità balenanti da uno stato di beatitudine perduto, bramato, promesso.
Erano i numeri dello strologare caldeo, e già erano i messi biblici che balenando
gli occhi umani non disdegnavano prendere sembianze umane. E noi, dalle parti
nostre, pronti non eravamo già a togliere le ali a Mercurio; a Ercole, il drago e la
forza; a Apollo, la perfezione d’un corpo che dirada la notte – per cedere a Michele
ogni cosa e farne, quando avrà da piombare sugli idoli, una famigliare immagine?
Qui per la prima volta apparve chiaro in Occidente che il Cristianesimo poteva
vantarsi d’avere schiacciato il drago, il quale era tutte le altre fedi: esse avevano
dovuto trasmettere all’Angelo ogni loro speculazione e ogni loro seduzione. L’apparizione garganica abbagliò tutta l’Europa. Perché stupirsi che i Normanni, tornando dai Luoghi Santi, salissero il Monte per acclamarla? E perché quindi stupirsi che
sino dal settimo secolo, a imitazione di questo San Michele di Puglia, il San Michele a Pericolo del Mare sul Monte Tomba nella Neustria, trovasse in un sasso druidico
rifugio, stringendo tra i due santuari mistico patto di guerrieri?
In un angolo della culonne, fra l’incrociarsi dei gridi, c’è un parlottare che solo
qualcuno ode. È Melo da Bari che nel 1016 chiede ai Normanni d’aiutarlo a cacciare i Bizantini dalla sua Patria. Ah! Qui è nata una cosa da nulla: il Regno delle Due
Sicilie, un avvenimento che darà per quasi mille anni un giro diverso alla storia
d’Italia e alla storia d’Europa e alla Storia.
In fondo alla culonne c’è una facciata con due archi che aprono un portico
nell’ombra, dove una fata con uno spillo dev’essersi gingillata a ricavare figure e
fogliame per due portali ogivali.
Entriamo. Dentro buio ai lati indoviniamo i laboratori delle due tribù de li
G. Ungaretti
Pasqua
263
sammecalere: rappresentano la prima, quattro paia di baffoni scurissimi. Una scalinata ruzzola giù. Udiamo:
Scala sante, pietra sante,
Padre, figliuole e spirite sante…
È il lamento di persone che fanno la scala in ginocchio. Pastori che incominciano a giungere prima di tornare ai loro monti, per ringraziare l’Angelo della buona
svernagione?
Come Santa Maria Maggiore di Siponto è la chiesa dei pescatori, questa è la
chiesa dei pastori. S’è già detto: ogni apparizione d’angeli ci riporta prima di tutto
all’infanzia del mondo: patriarchi, armenti, stelle, solitudine, smarrimento…: pastori…
Non sono più tante migliaia come ai tempi del pascolo forzoso nel Tavoliere;
ma quando saranno quassù in gran numero nella prima ottava del prossimo maggio, si vedrà che sono ancora molti, per fortuna nostra. Una nazione che ha ancora
di questi cuori semplici, non invecchierà mai.
La scala va giù, va di qua, va di là, trova un raggiolino di sole, lo perde; s’incontrano nella penombra a ogni pianerottolo: porte murate, altari, tombe… In fondo
alla scala, finalmente ci siamo. C’è una porta, entriamo: eccoci tornati in pieno
giorno in un cortile; su s’affaccia una ringhiera; a sinistra, al nostro fianco, delle
arcate chiuse da cancelli: altre tombe, un vero cimitero. In fondo, la facciata con la
sua mirabile porta di bronzo eseguita “da mano greca per Pantaleone Amalfitano”
nella “regal città di Costantinopoli”, nel 1076. Sono, dal punto di vista dell’arte, il
tesoro del santuario. Nei 23 riquadri dei 24 che formano le due imposte – nel 24°
c’è un’iscrizione – appaiono figure bislunghe delle quali il bulino ha inciso il contorno, fatto risaltare da un filo d’argento premuto nel cavo. Alle estremità di ogni
contorno intarsiato e dentro uno sparpagliamento di piastrine d’argento intagliate,
s’irrigidiscono piedi, mani e facce. È un giocherellare sottile e goffo di lucettine
sopra una piatta e dura tenebra: non resta di solito molto di più d’una grande
tradizione giunta all’ultimo ieratismo della sua decadenza; ma qui è giunta, nel suo
tremolare, a quella smemoratezza senile che annuncia la primitività.
Entriamo. Attraversiamo una navata gotica. C’inoltriamo. Ci rinveniamo poi
affondati nell’antro. Il luogo è umido, e in mezzo all’oscurità a poco a poco si rivela
una statua corazzata d’oro, attorniata da un tremolare di lucette di candele. È l’Angelo! Vicino a me, aguzzando gli occhi, e per via della corazza di latta che portano,
vedo che ci sono alcuni bimbi. Stanno in ginocchio con l’elmo di latta in mano, e
giocherellano con la spada di latta.
Mi fermo dove l’oscurità è più densa. Ecco, sono bene a contatto ora della
natura cruda. Caverna: luogo d’armenti, e d’angeli dunque: luogo d’apparizioni e
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Verso Sud
D. Grittani
d’oracoli. Ma forse c’è anche stato in questo cuore della terra un uomo anteriore ai
terrori, vicino alla sua origine divina: profetico fantasma di sé, del suo penoso incivilirsi.
Fantasma, dice un poeta, ed è, nella sua cieca sottomissione a certe contingenze
d’ora e di luogo, l’immagine finita d’un tormento che può darsi sia eterno. Può
darsi che una vita umana spesa bene, altro non sia se non un’aspirazione a lasciare di
sé simile immagine. Angeli o fantasmi; ma per chi cerca il valore religioso dell’arte,
per chi ci crede, quale prova questo tendere a esprimersi dell’uomo in tale modo
che, per effetto di poesia, la sua presenza, dipendente da una brevità di vita e da un
variare, permanga sciolta dalla sua vita, e da un luogo e da un’ora. Per gli uni, non
essendo loro ancora negata la grazia incantevole, ci sono sempre gli angeli; per gli
altri che possono essere solo uomini di buona volontà e conoscere solo la grazia
militante, prevarrà l’uomo, quell’uomo che, sulla tela che sogna immortale, non
vorrà stampare se non il proprio fantasma. È quest’ultimo il modo della pietà dell’uomo verso l’uomo: ma, in chi lo pratichi, c’è una fermezza e un’audacia, non so
quale grande fondamento morale; c’è, in questo cercare la storia in sé stessi, cercando un barlume nella notte del proprio bruciare, quasi ricuperata la originale virtù
umana.
Uscimmo. Già era sera.
La sera dei paesi è data dalle donne che vengono sulla porta di casa, dalla piazza
che s’affolla d’uomini, dai ragazzi che s’agitano di più senza che s’oda più il loro
chiasso, dall’attesa d’un avvenimento che è, in questo nascere di primavera, già
tutto nell’aria, anche più che nei cuori. Ora di rapimento. Ora di tono petrarchesco:
Passa la nave mia colma d’oblio…
L’unico modo di rompere il silenzio è di chiudere gli occhi. E m’è rimasta nel
pensier la luce…
[Tratto da Deserto e dopo, GIUSEPPE UNGARETTI, Mondadori, Milano 1961]
PARTE XIV
San Giovanni Rotondo
267
Quelle due fotografie di Padre Pio
Graham Greene
Graham Greene (Berkhampstead 1904 - 1991). Scrittore inglese tra i più apprezzati al mondo, autore dal profondo senso religioso (la sua conversione al
cattolicesimo influenzò tutta la produzione letteraria), compì nel 1949 un lungo viaggio a San Giovanni Rotondo, spinto dalla curiosità di conoscere il cosiddetto “frate dalle stimmate”. Di questo viaggio riferì in una intervista rilasciata
a John Cornwell, pubblicata sul settimanale L’Espresso il 19 novembre 1989.
GRAHAM GREENE: «Nel 1949 andai ad una messa celebrata da Padre Pio in
Italia, nella penisola del Gargano. Vi andai per curiosità. Avevo sentito parlare delle
sue stimmate. Il Vaticano non lo gradiva. Un monsignore che venne a farmi visita
a Roma, disse: “Oh, quella santa frode”. Ma Padre Pio è stato visitato da medici di
ogni credo… ebrei, protestanti, cattolici e senza fede. Aveva quelle ferite sulle mani
e sui piedi della grandezza di una moneta, e visto che non poteva celebrare messa
con i guanti, tirava giù le maniche per cercare di nasconderle. Aveva una simpatica
faccia da contadino ed era un po’ pesante. Ero stato avvisato che le sue messe erano
lunghissime, così mi recai, di primo mattino, a quella delle 5.30, in compagnia
della mia amica di quel periodo. Celebrò il rito in latino e mi era parso che fossero
passati trentacinque minuti. Una volta fuori dalla chiesa guardai l’orologio e constatai che era passata un’ora e mezzo o due ore. E così che sono arrivato ad avere un
minimo di fede in quel mistero. Perché era successo qualcosa di straordinario».
JOHN CORNWELL - Mi accorgo che Greene resta per un po’ trasognato, ma gli chiedo
ugualmente se crede davvero che Dio intervenga nelle vicende umane in forma miracolosa. Con un leggero sorriso scrolla le spalle e dice:
GRAHAM GREENE: «Beh, non so. Ho la sensazione di un mistero. C’è qualche
cosa di inspiegabile nella vita umana e questo è una circostanza importante, perché
le persone comunque non crederanno a tutte le spiegazioni date dalla Chiesa… È
curioso, ma nel mio portafoglio conservo una fotografia di Padre Pio».
268
Verso Sud
D. Grittani
JOHN CORNWELL - Greene tira fuori dalla tasca dei pantaloni un bel consumato
portafogli e ne toglie due piccole fotografie. Nel porgermele mi pare di constatare in lui
un leggero senso d’imbarazzo, come se lui, la quintessenza dell’uomo britannico, fosse
stato sorpreso nel compiere un gesto di stravaganza romana. Una delle foto rappresenta
Padre Pio sorridente, l’altra lo ritrae mentre adora l’ostia durante la messa.
GRAHAM GREENE: «Non so perché conservo queste fotografie nel portafoglio dice. Le ho infilate lì e non le ho mai tolte».
[Da un’intervista rilasciata da GRAHAM GREENE a John Cornwell, pubblicata sul settimanale L’Espresso,
Roma 19 novembre 1989]
269
San Giovanni Rotondo
ANTONIO BALDINI
Nella colonna del dare posso scrivere anche questa: d’esserci entrato per uno a
fare scappar la pazienza a un santo. In una colle altre occasioni mancate potrò
allineare anche l’incontro andato a male col famoso padre Pio da Pietrelcina, altrimenti detto il «Santo del Gargàno».
Per quel che tocca me personalmente dico subito che avrei preferito non essere
della partita e tirar di lungo col grosso della spedizione, che nel suo programma non
aveva creduto d’includere visita di sorta ad alcun santo; ma il mio parere contando
per uno e nell’automobile che mi portava essendoci altri quattro risoluti di sincerarsi
a ogni modo delle stímmate di padre Pio, convenne ch’io facessi il piacer dei quattro.
Mentirei se dicessi che le ragioni che mi sconsigliavano dall’andare fossero innanzi agli occhi della mia mente gran fatto chiare e lampanti; ma comprendevo per
istinto come una visita fatta con quella fretta e in quelle condizioni di spirito dovesse rientrare per l’appunto nella categoria delle cose che non si fanno; e perciò,
salendo al Convento dei Minori Cappuccini di San Giovanni Rotondo, il vecchio
mònito «scherza coi fanti» mi rimbombava nella testa.
Andando incontro al santo con questa cattiva coscienza era forse giusto ch’io
fossi punito; e il santo cominciò col farmi mediocre impressione.
Se veramente ci fosse un Paradiso dove in eterno si dovesse veder risplendere
nella corona eccelsa dei Beati e dei Santi anche la luce di questo padre Pio conosciuto di persona il giorno tale, ora tale, loco tale, in compagnia de’ tali e tali amici, –
che pena mai di rimorso, che figura barbina, che confusione, che vergogna verrebbe
in eterno ad esser la nostra di non avergli reso, mentr’era in noi di farlo, quegli onori
e usato quelle attenzioni e dimostrato quella compunzione che drittamente si convenivano alla persona d’un tanto Avvocato!
(Scusa magra sarebbe addurre che la Suprema Sacra Congregazione del Santo
Uffizio abbia già negato una volta di riconoscere qualsiasi carattere soprannaturale
ai fatti attribuiti a padre Pio; scusa magra, una volta che lui fosse veramente assunto
nei Ranghi di Lassù).
270
Verso Sud
D. Grittani
Già dal modo come entrammo di furia, sull’ora più calda del pomeriggio, armati di bastoni, binocoli e carte topografiche, con le sopravvesti in disordine, gli occhiali verdi e gialli rialzati sopra la visiera del berretto, le barbe imbiancate di polvere, le fronti rigate di sudore, gli occhi imbambolati dalla luce, dovemmo al certo
sembrare o una pattuglia scampata per miracolo dall’esplosione d’una fossa petriera,
o meglio ancora degli attori truccati a metà che cercassero l’impresario per bastonarlo. Vedendoci entrare, il converso ch’era dietro a spazzar l’andito a terreno, s’appoggiò esterrefatto al muro.
«Dov’è padre Pio?» chiese Adone Nosari con un tono che non ammetteva replica.
«A quest’ora è in Cappella: in fondo, a sinistra.»
Seduto in uno stallo del Coro, di lato alla finestra che dava sulla valle, c’era tutto
solo un fraticello che a sentirci entrare volse ridente verso noi una faccia gialla di
poca luce ma con due occhietti interrogativi. Pregava? dormiva? conversava cogli
angioli? Noi ci facemmo avanti con inchini, subito cercandogli le mani per vedervi
impressi i segni della passione di Cristo: ma un paio di mezziguanti di lana color
marrone gliele copriva fino alla prima falange delle dita, che teneva posate in punta
della panchetta. «È lei padre Pio?» chiese Nosari senza cerimonie. Il fraticello fece
cenno di sì, sorridendo e guardandoci uno per uno, con quegli occhietti interrogativi di sotto una fronte quadrata di coscritto: e poi con un fil di voce ci chiese donde
venivamo e dove eravamo diretti. Si capiva che il fatto di vederci così impolverati e
quel nostro mezz’arnese da viaggio potesse toccare la sua riposata immaginazione.
Gli dicemmo che venivamo da Roma, via Foggia. Quel nome di Roma, buttato lì
con una certa intenzione, non parve interessarlo affatto. «Da Foggia? e quanto
tempo ci avete messo?» Tutto questo detto con una vocina sottile, come se ci confessasse, e con un’espressione esagerata di meraviglia, come se Foggia fosse in capo
al mondo. Poi volle sapere con chi e perché eravamo venuti sul Gargàno: ma tutto
questo ce lo domandava col tono assente e manierato del maestro elementare che
parla con uomini che già furono suoi scolari con le stesse inflessioni di voce di
trent’anni prima.
Nosari si sentì in obbligo di metter sùbito in chiaro il perché della nostra visita,
e dette fuoco alle prime due tòpiche: esser noi dei giornalisti (e lo sciagurato fece
anche colla mano il gesto dello scrivere) e volerci assicurare coi nostri occhi dei segni
impressi sulle mani del padre.
Padre Pio, senza farsi cadere quel sorriso dalle labbra, ma allungandoci di sotto
in su certe occhiatine pietose e disarmate: «Oh non si può!» disse col suo vocino
senza timbro, di grillo parlante. Seguì un silenzio imbarazzatissimo durante il quale
ci guardammo in viso e ciascuno poté conoscere per la vista degli altri che aspetto
poco simpatico e rassicurante s’avesse tutti, mascherati di polvere a quel modo.
A. Baldini
San Giovanni Rotondo
271
Qualcuno di noi dette un’occhiata alla porta socchiusa alle spalle e Nosari, con
voce più insinuante (ci mancò poco non strizzasse l’occhio) insistette: «Sia buono:
ce le faccia vedere solo un pochino» e con due dita faceva l’atto di chi scosta un
guanto sul dorso della mano. (Dire a un Santo: Sia buono!). Abbuiato, padre Pio
tornò a ripetere che non si poteva.
«È il Vaticano, è Roma che non vuole?»
«Non posso parlare. Perché mi domandate?»
«E le ha anche ai piedi?»
«Ho detto che non posso parlare.»
«E… le fanno male? le dànno fastidio?» (Chiedere a un Santo se le stímate gli
diano fastidio! Le nostre stesse facce, in giro, a quest’uscita, presero un’espressione
stirata di cartapesta). «E ha sempre dei “fenomeni”? Ha operato dei miracoli anche
ultimamente?»
Una volta deciso di vuotare il sacco delle domande, il capotruppa aveva perso
ogni pudore. Giornalisti! Il povero frate si dimenava sullo stallo e una insofferenza
di momento in momento più viva gli si dipingeva sulla faccia: guardava ora noi ora
la porta alle nostre spalle, non si capiva bene se per suggerirci d’uscire o pel timore
che qualcuno del Convento venisse a spiare la figura che gli facevamo fare.
Io me lo studiavo a trenta centimetri di distanza, nel bianco e nel nero degli
occhi, per decidere fra me se quello potesse essere davvero un santo: o anche solo un
mezzo santo. Ma quali punti di riferimento poteva avere la mia osservazione per
leggergli nel cuore e giudicare della santità o meno di quel poveretto? Stava per
perdere la pazienza, questo si capiva benissimo. Ma dov’è scritto che i santi non
debbano mai perdere la pazienza? Io pensavo, puerilmente, che in una congiuntura
simile un vero santo avrebbe trovato la parola da trattenerci o mandarci via col
cuore dolcificato e molle come una pèsca giulebbata. Invece partimmo di lì non
saprei dire se più mortificati, inquieti o beffardi e padre Pio, nell’atto di vederci
partire, non si fidò nemmeno di darci la mano per segno di saluto.
Pel corridoio del Convento, mentre uscivamo dalla Cappella, ecco che come
per caso s’aperse una porta e v’apparve un pieno di frati che evidentemente ci aspettavano al varco per conoscere le nostre impressioni e forse anche, come parve da’
primi motti, per metterci qualche pulce nell’orecchio. Naturalmente ci guardammo dal dare a quei fratozzi troppa soddisfazione: anzi ci mostrammo molto contenti della visita fatta a padre Pio, e vantammo senza risparmio la sua modestia e
discrezione. C’informammo così se facesse ancora dei miracoli e operasse delle guarigioni. Allora fu bello vedere come tutti nel quadro di quella porticina avrebbero
voluto dir la loro, frati colla barba a punta, frati colla barba a corona, frati con tanto
di pancia e tanto di cordone: ma all’infuori d’un sempliciotto entusiasta, che, per la
272
Verso Sud
D. Grittani
gloria dell’Ordine, si capiva che ci avrebbe fatto molto volentieri intendere che
miracoli a San Giovanni se ne facevan sempre, tutti gli altri fratozzi fecero del loro
meglio per farci capire, a forza di reticenze, di sguardi evasivi, di facce compunte, di
mani aperte in alto, di parole messe là senza olio né aceto, a forza di «non so», «non
risulterebbe», «io non c’ero», «io son venuto dopo», come tutti nel Convento tenessero dalla parte del Santo Uffizio contro il povero orante in Cappella.
Nessuno è un grand’uomo pel suo cameriere. Figurarsi se un frate è disposto a
riconoscere un santo proprio nel suo vicino di cella!
Fatto si è che superato l’ingorgo di quei Cappuccini assiepati al varco del coridoio,
ed usciti all’aria aperta, la figura del povero padre Pio mi parve di già lontanissima
e in una luce, che se non era più quella del miracolo, era già un poco quella del
martirio.
[Tratto da Italia di Bonincontro, ANTONIO BALDINI, Sansoni 1940]
PARTE XV
Il Gargano
275
Il Gargano in una relazione
per visita canonica di fine Seicento
Egidio Mattielli
Egidio Mattielli (Stroncone, Terni 1631 - 1712). Umile e dotto sacerdote,
autore delle opere Umbria serafica e Viaggio nelle Puglie, testi di grande valore religioso e storiografico. Il suo viaggio in Capitanata, voluto dal Ministro
Generale dei Frati Francescani, durò dal 17 maggio al 22 giugno 1683, periodo che fu sufficiente a Mattielli per redigere una approfondita analisi sullo stato
delle comunità francescane allora presenti sul territorio. La rivelazione dei preziosi testi di Egidio Mattielli si deve allo storico Tommaso Nardella, che per la
prima volta li pubblicò nella Rassegna di Studi Dauni nel 1976.
Alli 31, hore otto partii da Stignano con il [Padre Francesco delle] Coppe compagno et altro laico, per S. Giovanni in Lamis 4 miglia distante. Caminassimo tre
miglia per una selva su per la costa del monte e trovassimo S. Marco. Terra
popolatissima dell’Abbatia di S. Giovanni in Lamis, che l’ha in commenda il cardinale Pignattelli.
Poi un miglio più su trovassimo il convento di S. Giovanni posto in un poggio
in cima del monte dell’Angiolo e quasi in mezzo a detto monte, poi che da qui a
Procina che sta nell’estremità di esso sono 15 miglia verso tramontana et alla prima
spelonca che sta nell’estremità a mezzo giorno sono altre 15 miglia.
Questo fu antico monastero et abbatia ricchissima de’ Teutonici [sic] sicché
erano padroni di S. Marco e di molte altre Terre per questo contorno, battevano
moneta, havevano vassalli in mare et erano potentissimi. Ma mancati questi et
occupate le terre da molti baroni restò l’abbatia con la terra di S. Marco in commenda
delli monasteri secolari et hoggi l’ottiene l’E.mo Pignattelli che gli rende tre mila
scudi annui d’entrata. La fabbrica di questa chiesa è antica e piuttosto a forma di
rocca o fortezza che di convento con muraglie rosse.
La chiesa è stata modernata da frati con una bella volta, ad essa si ascende con
una scala bella nuova di molti scalini. Ha l’altare maggiore d’intaglio indorato
276
Verso Sud
D. Grittani
riguardevole con la statua di S. Matteo (da cui oggi si chiama per quel che diremo).
Ha altri tre altari… quello di S. Giovanni comprende malamente l’organo e poi doi
del Crocifisso e della Concettione. Il coro di noce bellissimo ma per andarvi bisogna passare per tutta la chiesa entrandovisi da piedi per una porticella picciola che
entra nel cortile. Avanti la porta maggiore della chiesa è una piazzetta bella et a
questa di fuori si ascende per la scala detta. Ha ancor campanile con buone campane. Dal cortile si entra in stanze buone che sono cinque e poi si ascende ad alto,
dove sono altri doi dormitori, ma poco ordinati, con molte stanze, e il noviziato
chiuso che ha diece celle. L’officine sono quasi sotterranee ma però luminose per
essere posto in alto il convento, quale ha horti e selve ma non in clausura, eccetto
un pezzo, che si comincia adesso.
V’è il molino da schiena, tre cisterne et un pozzo, la conserva di neve e li parchi
per l’animali. Hoggi il convento si chiama di S. Matteo perché vi fu portato un
dente di questo S. Apostolo da Salerno, lo diede un cardinale commendatario, che
si conserva in sagristia in un ostensorio d’argento et è in gran devotione appresso
tutta la Puglia per li continui miracoli che fa e le gratie che se ne ricevono, massime
per l’infermità degli animali de’ quali abbonda la Puglia: cavalle, pecore, vaccine,
porci e tutti che toccati con l’oglio della lampada che arde avanti all’altare di esso
Santo guariscono subito e ciò si vede ogni giorno, poi che vi conducono spesso le
massaie intiere a toccargli e vanno sani.
Li più lontani, cioè dell’Abruzzo, Puglia alta, di Bari di Terra di Lavoro che non
possono condurgli, mandano a pigliare un frate con cavalli e lo portano ove bisogna
e questo (sia sacerdote, chierico, laico o tertiario) mette un poco d’oglio in una
conca d’acqua con la quale asperge le mandrie intiere e guariscono subito com’è
stato verificato da persone degne di fede che lo vedono giornalmente non solo frati,
ma preti, baroni e cavallieri.
Per ciò il convento è commodissimo, che da tutta la Puglia riceve grosse limosine
in specie tutti li segnano un polledro indistintamente e quando ha tre anni lo consegnano ai frati; così li vitelli et ogni volta che s’infermano li bestiami; onde alla fiera
di Foggia dove si vanno a pigliare et il Sindico Apostolico li vende si riportano ogni
anno molte centinaia di scudi. Il convento tiene 12 cavalli per servitio de’ frati e
sono belli, ha mandre di porci, pecore. Si calcola che habbia più di tre mila scudi
d’annue limosine, poi che nessuno ardisce negarli anzi tutti la danno copiosa per
amore e timore di S. Matteo. (Oglio della lampada il quale oltre all’animali sana
indistintamente tutte le persone morse da cane rabbioso).
Tiene dieci novitii chierici, 4 o 6 laici, 6 tertiari, sacerdoti quanti pare al provinciale. Il dì di S. Marco li frati vanno alla Terra e fuori d’essa il guardiano si para con
piviale, li ministri con tonicelle, cotte et alla porta della Terra sono ricevuti dal
E. Mattielli Il Gargano in una relazione per visita canonica di fine Seicento
277
Vicario generale, da canonici, clero e tutto popolo; vanno processionalmente precedendo a tutti il guardiano con li frati parati et esso fa portare il pastorale da un
chierico con cotta e con esso canta messa solenne nella Colleggiata e poi ritornano
a casa.
Questo pastorale è di rame indorato, assai antico, e si stima quell’istesso che
usava l’abbate teutonico. Il dì di S. Giovanni Battista il clero e il popolo tutto vanno
al convento processionalmente e sono ricevuti con la croce da’ frati; il Vicario generale canta la messa e mangiano in convento. Il Vicario generale presente è don
Girolamo Perna, è di Gravina, canonico di Venosa, venne a visitarmi con gran
comitiva di preti e gentilhuomini. Esso governa per il cardinale abbate in temporale
e spirituale; il cardinale abbate pro tempore dà ottanta ducati l’anno al convento.
Alli 2, la mattina a hore otto, partii con li miei compagni fra Diego da S. Severo
et il padre Antonino da S. Giovanni per S. Leonardo, tredici miglia distante.
Caminassimo per il monte Gargano quattro miglia sino a S. Giovanni Rotondo, Terra grossa del marchese Caccaniglia [recte: Canaviglia].
V’è di fuori un bel convento de’ Cappuccini, uno de’ Conventuali et un monastero di 40 monache claresse. Inde scendessimo tre miglia alla comunità di S. Giovanni ove ci rinfrescassimo. Quivi è un oliveto grande assai totalmente inculto.
(Molte piscine frequenti della Puglia).
Doppo un’hora ripigliassimo il camino per il piano di Puglia et, fate sei miglia,
giungessimo a S. Leonardo che sta in sito elevato alquanto in quella pianura.
Questa fu antica abbatia de’ Teutonici et hoggi l’ha in commenda il Cardinale
Carlo Barberini et ne ha venti mila scudi d’entrata, consistenti in grani, biade, gran
massarie di cavalli, vaccine et animali minuti. Questo mantiene li frati dandogli 50
ducati, cento barili di vino di settanta carafe, che sono venti boccali nostrali et 50
tomoli di grano, carta di legna, 5 tomoli di sale, castrati, vaccine, porci et tutto ciò
che vogliono onde con questo e con le cerche è convento opulentissimo. Il convento o abbatia ha forma di castello con muraglia merlata e baluardi. Ha una sola
porta, dentro v’è l’hostaria che la fanno li Abruzzesi in tempo d’inverno che vi
tengono le pecore, v’ha hospidale mantenuto dal Cardinale che vi tiene doi ministri
assistenti et il convento che ha forma di palazzo antico nel salone del quale il Cardinale Caetano fece un bel dormitorio con otto o dieci stanze comode e per altro
appartamento stanno l’ufficine alte. A basso sono stalle, conserve con una piazza a
tre cisterne.
La Chiesa è antichissima a doi navate, divise da tre archi grandi di pietra. La
porta maggiore è di bellissime pietre con rilievi bassi et statue alla grande. (Cupola,
campanile, 3 campane). Ha 4 altari et il coro soprano. In essa chiesa sono alcuni
riguardevoli depositi de’ principali cavallieri Teutonici ecc…
278
Verso Sud
D. Grittani
La chiesa piena di voti in specie di catene, ferri, manette è di gran devotione per
tutta la Puglia. V’è una reliquia notabile di S. Leonardo e la testa di S. Donato
martire. Quivi trovassimo il p. provinciale. Mangiassimo et posassimo et poi a 22
hore assieme con lui partissimo per Manfredonia camminando sei miglia per il
piano… un miglio distante della città vedessimo il sito dell’antica Siponto della
quale rimangono pochi segni di ruina et la cattedrale antica, stata rinovata et consacrata l’anni passati dal Cardinale Fra Vincenzo Maria Orsini.
Giungessimo finalmente alle 24 a Manfredonia, città bagnata dal Mare Adriatico; è bislonga, in piano, con molte strade tutte dritte e corrispondenti.
Si vede che è stata ricca e bella con palazzi superbi: ma per il sacco datogli dai
Turchi più volte e miseramente nel 1620, per il teremoto del 1639 e 1643 per la
pestilenza et per altri sinistri accidenti sta poco in ordine. È cinta adesso di buonissime muraglie et terrapieni, baluardi di cannoni con fossi interni et da levante verso
il mare ha una fortezza et città della munitissima et tenuta con gelosia. Al tramontare del sole si chiudono le porte né s’aprono che doppo levato il sole. Il nostro
convento stava fuori un terzo di miglio in buon sito alla marina: ma perché fu il
primo saccheggiato dai Turchi e per il terremoto che lo guastò fu pigliato questo del
1645; è stato lasciato diruto e se ne fabbrica uno nuovo entro la città vicino alla
fortezza. Sono fatti già doi dormitori et uno è bellissimo et contengono 15 stanze
habitabili; l’officine sono tutte ragguardevoli. La chiesa che adesso è picciola ma si
ha da ingrandire è dedicata a Santa Maria delle Grazie. È disegnato un bellissimo
chiostro. È città reggia, v’è il preside e castellano spagnoli. Nella chiesa sono cinque
altari e vi sono lì esposti di alcuni presidi spagnoli.
Alli 3 di giugno martedì il padre provinciale volle condurmi con li compagni
alla Spelonca di S. Michele Arcangelo. Venne anco il reverendo padre guardiano
Salvatore di Foggia. Uscissimo al levare del sole passando vicino al mare sotto la
fortezza. Caminassimo tre miglia per il piano; poscia arrivassimo al convento de’
Carmelitani Scalzi fuori della città dove entrassimo poi per una strada che gira tre
miglia, adagiata [costruita] da Don Pietro d’Aragona, viceré. Giungessimo ad undici hore e ci fermassimo al convento de’ Carmelitani Scalzi fuori della città dove
entrassimo poie per una dritta via ma con molta bella vista [giungessimo] alla Basilica che sta nel fine della città. Si scendono 60 scalini assai larghi a’ lati de’ quali son
alcune cappellete. Si giunge all’atrio piano avanti la basilica, nel quale sono alcuni
depositi dell’arcivescovo e poi per 4 scalini si entra nella basilica che ha le porte di
bronzo mandate già da Costantinopoli. La basilica è stretta, all’entrare della porta è
l’altare di San Lucia nel quale è impresso un Tau da S. Francesco; alla sinistra è il
banco ove si segnano le messe; sopra il coro, più sù la sagristia et in faccia alla porta
l’altare del Santissimo.
E. Mattielli Il Gargano in una relazione per visita canonica di fine Seicento
279
La chiesa in tutto sarà longa 50 piedi, a la destra sopra l’altare di Santa Lucia sta
la sacra spelonca. Infine sta l’altarino sopra il quale apparì l’Arcangelo e vi lasciò il
vesteggio del piede, il pallio e la Croce. Detto altarino è coperto d’altro altare di
marmo, e solo per un fenestrino con porta d’argento si mostra un tantino, se ne
può vedere la strangulazione. Sopra questo sta la statua di S. Michele fatta da
Michel’Angiolo Buonarrota. L’altare ha il palliotto di argento, la scalinata di tre
ordini fatta da Don Pietro d’Aragona, il parapetto dietro tutto d’argento e un
superbissimo e gran baldacchino d’argento del Re Filippo IV [recte: Carlo II], sostenuto da sei mazze d’argento et dodici candelieri. Avanti l’altare ardono nove
lampade. Altari nove stanno davanti alla santa grotta. Sette avanti al Santissimo e
doi o tre altari gran quantità di ceri e dentro la grotta sono altri quattro altarini non
molto ben tenuti, ma però [a] tutti si dice messa.
Al lato dell’evangelio è il pozzo di 60 carafe che se ben si cava [acqua] mai manca
né cresce. La basilica ha quattro dignitari, arcipreti, arcidiacono, doi primiceri, dodici canonici e quattro prebendati. Le dignità portavano le mitre ma gli sono state
levate. Fui ricevuto con urbanità grande da quei signori et in specie dal reverendissimo
signor Don Carlo Gambadoro primicerio, nipote del reverendissimo Giovanni che
mi servì con belli paramenti e con calice d’oro.
Celebrassimo il segretario et io all’altare di S. Michele per la comunità di Stroncone
et il compagno si comunicò. Ci furono mostrate tutte le reliquie e cose notabili ecc.
Et io gli dissi che credevo et era fama per il mondo che la basilica fusse meglio
tenuta. Ci diede il Gambadoro doi crocette e molte pietre della santa grotta ecc.
Et il provinciale cinque statuette picciole et una più grande e tre medaglie di S.
Michele benedetto al suo altare.
S. Angiolo è del prencipe Ierace Grimaldi, genovese.
Tornassimo a pranzo alli Carmelitani. Nel chiostro havendo il padre provinciale
provveduto ecc. Fussimo regalati di pasticci et di selvaggine et di vini che vi son
nobilissimi dal signor primicerio Gambadoro e dall’abate dei padri Celestini che ci
voleva in monastero. Mangiassimo, posassimo, ritornassimo altra volta al santuario
et partendo alle 22 hore giungessimo all’Ave Maria a Manfredonia, aspettati da doi
religiosi et doi soldati che dovevano chiudere.
Alli 4 venerdì visitai il Santissimo e li frati ecc. Il convento ha 25 ducati dalla
città. Ha poche questue. Campa con messe. La città è amorevole ma povera. È
arcivescovo monsignore Moscetta cavalliere napolitano prete Tiberio.
Fuori della città si lavoro il salnitro. La chiesa metropolitana è bellissima rinovata
dall’Eminentissimo Orsini. Adesso è ripiena di suppellettili. Ha quattro dignità e
dodici canonici come il Monte Gargano. Vi sono Domenicani, Celestini,
Conventuali et nostri dentro et doi monasteri di monache dentro, fuori li Cappuc-
280
Verso Sud
D. Grittani
cini. Fui a riverire il castellano della fortezza che è un cavaliere spagnolo molto
cortese et devotissimo della religione. Il convento ha sei cisterne vecchie et doi
nuovi che per anno non hanno acqua. Avanti al convento sono quattro cisterne del
pubblico che spesso patisce d’acqua et bisogna pigliarla a Monte Gargano.
Vi sono alcune sorgenti, ma sono salmastre che servono soltanto per lavare.
[Testo di Egidio Mattielli tratto dalla Rassegna di Studi Dauni, Foggia 1976]
281
Al Gargano
Consalvo Di Taranto
Consalvo Di Taranto (Deliceto 1874 - 1944). Storiografo, poeta e scrittore,
autore di opere importanti come La Capitanata nel 1848 (1910), La Capitanata al tempo dei Normanni e degli Svevi (1925, recentemente ristampata
dalle Edizioni del Rosone, Foggia 1994) e L’infante di Spagna Carlo di Borbone prima della conquista del regno (1928).
Te, mio Gargano, canto
d’Italia aspro sperone proteso in Adria,
te, nuda fortezza titana
coronata di frassini e querce,
che il primo sole dall’onde tremulo
d’oro sorgendo nel nimbo croceo
avvolto, saluta.
Te, mio Gargano, in fiamme d’incendio
canto, se dietro, vette più ardue
il sole calando s’asconde
nel tramonto
di porpora e fiori
amor del sole, Gargano fulgido,
amor del cielo lieto nei secoli,
amor della terra olezzante
di silvestre serpillo e di timo.
Ancor le grotte, gli antri di mistica
penombra effusi, Calcante invocano
ministro ai tuoi riti, paziente
presso all’aria infiorata la nera
Verso Sud
282
D. Grittani
vittima attende, perché su morbida
pelle ancora calda segga l’interprete
de’ sogni e ne scerna il secreto
cinto il capo di quercia e di alloro.
Ma l’età nova fuga le pallide
ombre de’ vati di luce fulgida
innonda la sacra spelonca,
e corusco l’Arcangelo appare
Gargano, esulta di nuova gloria!
Sei divenuto sede degli Angeli,
la dolce dimora che accoglie
d’ogni lido le genti ploranti
Non so, Gargano, l’età novissima
quale prepari nova a te gloria.
I figli che edùchi alla patria
le tue balze sporgenti sul mare
contro al nemico voglion d’Italia
irte d’acciaro che dritto fulmini
Comunque, il lieto sorriso cerulo
splenderà sempre, gargano nobile,
di diva dolcezza negli occhi
dei leggiadri ricciuti tuoi bimbi;
e la soave pace di mistica
gioia compresa, che nelle vergini
pensose dal volto traspare
circonfusa dai raggi che il sole
molle diffonde, splenderà fulgida
serena, avvolta nel baglior roseo
d’un mito tramonto che langue
come in nimbo di gloria immortale.
[Poesia tratta da Canti della Daunia, CONSALVO DI TARANTO, Tipografia Conti, Matera 1924]
283
In Gargano
Riccardo Bacchelli
Da parecchio tempo mi ero impegnato a visitare il Gargano e a venire in San
Marco in Lamis per rinnovare ricordi di Bologna con un mio compagno di Università, che è di San Marco, e che in Gargano e in Capitanata è uomo di conto e di
facoltà, un «galantuomo», come si dice qui.
E l’altro giorno mi presi la corriera automobile a Foggia, per venire a ritrovare
questo mio compagno, addottorato in lettere a Bologna, Giustiniano Serrilli, che
da quindici anni non rivedevo. Del paese in cui l’avrei ritrovato non avevo notizia,
e intanto riguardavo, attraverso la pianura verdissima e un po’ strinata dai freddi di
questa rigidissima annata, quella parte della Capitanata che si stende, piana fra le
piane, da Foggia, capitale delle lane e delle granaglie, al Gargano, che mi cresceva,
macchiato di neve in cima e d’oliveti al piede, innanzi agli occhi di miglio in miglio.
Al piede del Gargano la pianura ondeggia e si avvalla, dando a rivedere
scopertamente d’essere stata fondo di mare quando il Gargano era non so se un’isola o un promontorio di quella terra d’Adria, che i geologi ci fan credere affondata
fra Italia e Balcania.
Superate le prime pendici, cominciano gli avvallamenti, le creste e le spezzature
dei dorsali, che fanno di queste terre un corso e ricorso di valli, un labirinto.
Ed ecco aprirsi, dopo rigogliosi oliveti, sul bordo inaspettato di una deserta
pendice di sassi e di mandorli che paiono stanchi d’aspettar tanto, quest’anno, la
primavera, uno sprofondo aprico ed ameno, e il paese di San Marco in Lamis.
Allo sbarco dalla corriera trovo l’amico, e saliamo nella sua casa patriarcale, e
festeggiamo ben presto i nostri ricordi.
Bella cosa era una volta far lo studente a Bologna. La fierezza delle tradizioni, e
un certo amor dottorale, – Balanzone è la maschera bolognese – affezionavano
all’Università i cittadini, più di quel che in oggi non consenta la vita odierna. L’osteria s’apriva allo studente, come il salotto patrizio accoglieva il professore. E l’eccellenza delle biblioteche attirava forse né più né meno che la premura delle affittacamere; le ragazze bolognesi non erano troppo più avare di favori, che non lo fossero
284
Verso Sud
D. Grittani
di dottrina le illustri lezioni. Così gli studenti accorrevano da molte parti, ma specialmente dal litorale adriatico, fin dal Friuli e fin dalla Calabria. Dalla Puglia poi
erano moltissimi.
Ho detto accorrevano, perché ora non so se l’Università sia più così fiorente: me
lo auguro. Essa in allora eccelleva, oltre che nelle discipline legali, nelle scienze
cliniche e sperimentali ed esatte, e nella filologia. L’amico Serrilli mi ricorda i suoi
studi in materia di trattati di vita cortese nel Cinquecento, e di glottologia. Vario e
dolce ingegno, buon filologo e buon letterato, uomo arguto, non risparmiava, e
non risparmia, certe ridicolezze di alcuni accademici d’allora; e già ci facciamo le
belle risate. Io gli ricordo l’olio, che si faceva venire da questa sua casa, dove adesso
mi ospita. Egli aveva ben ragione di disdegnare quel cosiddetto Chianti e quel
sedicente olio d’oliva, che diffamano la Toscana e la Liguria. E ci riunivamo nella
sua camera di studente a mangiar le insalatine condite col sapido suo olio casalingo,
di quello che sa d’oliva e che non piace a quelli che non s’intendono. La camera era
in via Zamboni, via della Università e classica via degli studenti.
«Risentirai di quell’olio a tavola stasera» mi dice il compagno facendomi vedere le
schede per la bibliografia di un suo lavoro sui dialetti d’Italia. «Anzi, sappi che ho
ricostruito ed ampliato per molte centinaia di ceppi oliveti e vigneti di mia proprietà.»
Egli infatti, rientrato nel suo paese e restituitosi alla terra con passione, non
tralascia la lettura né degli studi, per quanto abbia rinunciato alla carriera, – anzi
forse per questo ad essi più affezionato, – ed esercita con passione ereditaria la
coltivazione dei campi. Per sano affetto della sua terra, è richiesto e lascia desiderio
di sé dove si occupa della cosa pubblica.
Io lo ascolto e guardo la sua prospera e lieta e atticciata figura di umanista abbronzato dal sole; e penso che se maggior numero d’italiani sapesse serbarsi così,
alacre negli studi e nelle opere, colto e curioso senza spaesarsi, un certo stampo
d’uomo tutto nostrano e di civiltà italiana sarebbe più lontano di quel che non sia
da diventare pio ricordo d’una nostra eccellenza e grandezza.
Intanto è venuta sera, e le strade di San Marco sono affollate di abitanti che festeggiano la fine della domenica. È un bello spettacolo questa folla di contadini urbani per
abitazione e per gentilezza. L’amico Don Giustiniano, primaria notabilità del paese e
della regione, deve rispondere a decine e decine di «buona sera», rispettosi e cordiali.
E troviamo anche un giovanotto che ha letto il mio Diavolo al Pontelungo, e che
alla mia domanda se si sia divertito, risponde: «Abbastanza.»
Non sorrida il maligno lettore. Abbastanza vuol dire: «A mia soddisfazione» ed
è sinonimo di «assai», non già di «così così». Ed è un modo sobrio e robusto questo
che mette nella propria soddisfazione un criterio di giusta, non modesta né smodata, esigenza e lode.
R. Bacchelli
In Gargano
285
E io dirò che la rusticale e civile cittadina di San Marco, mi piace «abbastanza».
Sulla cresta della collina prossima v’è un passo, un piccolo giogo, dove San
Marco da un lato e dall’altro il paese di Rignano appaiono come i due piatti di una
bilancia. E quel giogo, che sarebbe sul fulcro, si chiama appunto La Bilancia.
Rignano è paese aereo, posto sullo sperone che più si sporge e più vista di Tavoliere vanta alla parte di terra del Gargano. Vi andai la mattina seguente, e le vie
esigue e scoscese per entro la stipata e salda struttura sorgente dal sasso, mi fecero
sbucare sopra l’aperto, nella parte esterna del paese a picco. Sotto di me la Capitanata e il fondo marino, qua e là paludoso, che cinge il Gargano e dove poltrisce il
torrente Candelaro, stavan sotto una nebbia lieve ed umida, che pareva la fecondità
stessa stesa sui campi e su le verdi germinazioni. L’aria, che su quella rocca è sempre
mossa, e che quest’anno pareva che non volesse più disinvernare, si intorpidiva
dolcemente di quell’umido sentore di fecondità pigra e candida.
A Rignano c’è anche un bell’organo di chiesa, un quadro interessante d’anime
purganti riscattate per intercessione di fedeli del Carmine oranti alla Madonna, e
un bel portale del decaduto palazzotto dei marchesi di Rignano.
Non intendo di scoprire una scuola garganica, per carità, ma mi sono accorto
che v’è in questa regione, come spesso in regioni appartate, un’aria, un fare degli
uomini e delle opere loro, che è stile: e lo stile è proprio di ciò che basta a sé stesso.
«Abbastanza», come diceva il giovanotto di San Marco in Lamis.
Monte Sant’Angelo
Passata la verde piana e l’acqua gialla del pantano mezzo bonificato di Sant’Egidio,
la melanconia di Val Carbonara, triste nei ricordi della squallida fillossera che distrusse i suoi celebrati vigneti, conduce dietro la costa precipite e sotto i denti della
cresta del Monte degli Angeli, aspro contro cielo. Si sale arditamente a ridosso del
monte, e all’ultimo svolto si è sotto, d’improvviso, al castello normanno ingentilito
da bastioni aragonesi.
Il Monte degli Angeli, ultimo dosso della prima catena garganica, è come una
man dritta che sia posata in piano col pollice verso settentrione, poiché all’ingrosso
il massiccio garganico va a ponente a levante, e le altre dita aperte e curve verso il
mare. Infatti a settentrione c’è la ripida valle; davanti ramificano gravine franose e
contrafforti affilati, mentre da mezzodì, come fa il dorso esterno della mano, il
Monte s’arrotonda più dolcemente verso la pianura di Manfredonia.
Nel punto in cui s’articola il dito indice, il paese, anzi proprio la grotta sulla
quale sorge la Basilica, incide il dosso del Monte degli Angeli. La cittadina di Mon-
286
Verso Sud
D. Grittani
te Sant’Angelo s’apre sul lato più aprico ed agiato; dal castello e dalla Basilica si
posson numerare, come da un’aerea spia del Gargano, quante mai cime vedono il
santuario. Venti passi cambiano la veduta del mondo, che da una parte è tutto
monti, dall’altra tutto pianura e mare.
Solo per la scelta del luogo, arte di generazioni come la creazione della lingua,
Monte Sant’Angelo è un capolavoro in un paese, l’Italia, che di tali capolavori
sovrabbonda. Ma non è arte soltanto, poiché qui concorse e precedette all’arte e
con l’arte uno dei più antichi e venerati miracoli della cristianità: cioè l’apparizione
dell’Arcangelo Michele ai pastori e poi al vescovo di Siponto, Lorenzo Maiorano,
nella grotta, che apparve in visione mutata in chiesa angelica.
Dunque la scelta seguì la fede illuminata, e l’arte toccò i fondi e le punte di quel
che al tempo della sociologia si chiamava la «psiche popolare», e che noi ci contenteremo di chiamare, più umanamente, la religione.
Così l’istinto del muratore garganico e la sapienza degli architetti di Re Carlo
Primo d’Angiò, fra i quali nel campanile son ricordati singolarmente i frati Giordano
e Maraldo, proprio di Monte Sant’Angelo, s’unirono in quel che si potrebbe dir
grado eroico, seguendo le parole tramandate, dal 491, che l’Arcangelo disse al vescovo, annunciandogli d’essersi scelta e fabbricata e consacrata da sé a sé stesso la
sua sovrumana basilica i quella grotta. Parole che si leggono sulla porta sinistra della
facciata della scala, accanto a quelle di destra: «Terribilis est locus iste. Hic domus Dei
est et porta Coeli». La visione fu nell’anno di Cristo 491.
La scala, coperta d’alti archi ogivali, severi e puri, è nobile e profonda. D’arco in
arco e di gradino in gradino, operai ed architetti hanno sentita, ornata, venerata la
traccia del sentiero formato di greppo in greppo fino alla grotta dai piedi dei pastori
e dei primi pellegrini. Quel che si dice un sentiero da capre, e l’opera di pietra, che
è quanto mai ardita, dotta e superba, gli tien dietro con umiltà somma, come a cosa
santa, e ne ricava il suo più singolare stile.
Volendo sforzare il concetto, verrebbe fatto di dire che questi mistici costruttori
abbiano inteso di umiliare, in tali fastigi, le origini babeliche dell’architettura, ma il
fatto è che solo una natura semplicemente adorata come visibile intenzione divina
poteva ispirare un partito ingegnoso così semplice e naturale.
E le volte e le ogive angioine sono fedeli e piene di preghiera, come le devozioni
ch’esse accolgono dei pellegrini oranti. Credo che pochi altri luoghi possano far
intendere così sul vivo quel che furono dei fatti come quello delle Crociate. La scala
e la Basilica, che è una delle quattro palatine di regia giurisdizione e come tale si
fregia della croce sabauda, erede di tante dinastie, sono gloria e impronta di Re
Carlo Primo, forte, austero ed anche arcigno e spietato regnante, alta mente politica e guerriera; anche fratello di San Luigi di Francia, crociato con lui e per la vita.
R. Bacchelli
In Gargano
287
Monte Sant’Angelo poi era una devozione dei crociati, che venivano in Puglia per
gli imbarchi.
In fondo alla scala si ritrova l’aria nel cortiletto, sul quale s’apre la Basilica dalla
bella porta bizantina. I pellegrini toccano e baciano, arrivati qui, come per implorar
l’entrata, gli eleganti anelli della porta, lustrati da tante mani. Sull’arco risponde alle
inscrizioni severe dell’atrio una promessa di indulgenza: «Dove s’apriranno i sassi, là
saran rimessi i peccati degli uomini».
Quando ho visitato io la Basilica, non era l’epoca dei pellegrinaggi, che han
luogo specialmente nel mese di Maria; e fu meglio, perché assistere da spettatore
alle scene di fervore e di furore mistico che riempiono la Basilica, mi avrebbe messo
probabilmente in uno stato di curiosità, forse di diffidenza; e discorrerne freddamente ora mi sembrerebbe dilettantesco. Se le mie impressioni là dentro hanno un
merito, è d’essere serene.
La grotta s’apre a destra della porta; a sinistra c’è il coro e una finestra che dà luce
quanta può darne, splendidamente, l’aperto orizzonte sulla profonda valle. In coro
stavan a dir gli uffizi i canonici. Dietro l’altare, dove splende il piccolo e bianco San
Michele del Sansovino, a cui i pellegrini guardano in ginocchio, implorano, s’atterrano, si percuotono, rigano anche di sangue il pavimento, la cupa parete dello speco
e la potente volta che s’incurva fino a mezza la chiesa, stillavano acqua miracolosa,
della quale si beve in un secchiello d’argento, attinta da un pozzetto in fondo alla
grotta.
Credo che senza questo stillicidio perpetuo nella semiluce dei ceri e delle lampade, né la grotta né la chiesa né la stupenda sedia episcopale né le strane e vigorose
scolture remote che paion nate a mezzo dal sasso o in via di tornar sasso, mi avrebber
fatto tutta quell’impressione che mi fecero. Coteste gelide goccie spicciate dal buio
dell’antro, che fan trasalire, cogliendoci in fronte o sulle mani, son l’ultimo tocco di
fedeltà al sasso consacrato, e rigano il pavimento così come cadono sulle mense
sacre, le quali fanno splendere l’oro ed il candore della liturgia e la sontuosità dell’apparato e dell’architettura, sul fondo scabro e squallido. C’è la fedeltà, e c’è il
rispetto intatto e religioso, c’è infine in quel così nudo gocciar d’acqua una sprezzatura
ultima e potente.
In esso termina, e non può andar più oltre, quello sposarsi in fede dell’arte colla
natura, che via via giù per la scala è venuto crescendo. E là finisce ogni anche più
vaga estetica dilettosa in devozione abbandonata ed astratta, in violenza ascetica e
mistica. Fra cose elette e cose orride, come le piaghe di cera degli ex-voto, nell’opera
si legge un pensiero che nulla rifiuta e d’ogni cosa può fare a meno.
Scendendo, non avevo posto mente alle impronte di mani che da secoli i pellegrini disegnano, graffiscono, scavano nelle pareti, scrivendo poi dentro il contorno
288
Verso Sud
D. Grittani
della mano aperta il proprio nome. Sono centinaia e centinaia, e, dove lo spazio è
venuto meno, sono mani su mani, intricate e sovrapposte. Così l’innumerevole
popolo, venuto a piangere ed ardere nella grotta dove vennero a scioglier voti, al
pari di lui, re, imperatori, regine, papi e santi, lascia il suo segno: le mani che servono a pregare, a faticare e a peccare.
Risalendo verso l’aperto, riconobbi in quel bisogno di lasciar il segno della mano
sul punto di tornare, sciolto il voto e l’animo, verso la vita solita, un pensiero da
Giudizio Finale, una di quelle espressioni senza parole, una di quelle follie egualitarie
profonde ed oscure, che covano nell’anima delle plebi. E mi parve un bisogno di
rifarsi, imponendo quel segno corporale, dell’annullamento umano che regna nella
grotta e nel monumento, tutto fondato sulla verità della morte e sulla certezza del
miracolo.
Sulla piazzetta davanti all’atrio splendeva al sole il campanile ottagonale, bellissimo, fatto erigere da Re Carlo dai suoi due frati architetti. E ordinò che fosse
ripreso uguale, forma e ogni dimensione, dai torrioni di Castel del Monte. Quale
sarà stato il pensiero, poiché credo che un pensiero avesse certamente, nel far copiare una parte della più insigne opera sveva, del più grandioso castello di Federico
Secondo? Come mai volle accostare la gloria di Federico con la gloria di Carlo in
Monte Sant’Angelo; il profano castello dell’eresiarca imperiale col cattolico edificio
del vicario della Chiesa? La Puglia era piena di distruzioni d’opere sveve, e di uccisioni di ghibellini; Re Carlo non era contento se, anche dove rifaceva, prima non
aveva distrutto ciò ch’era svevo. Così le mura di Manfredonia anzi, fin del nome
egli era mistico e spietato odiatore; e quando saliva il Monte a pregare e a vedere i
lavori, guardando la sottoposta città e il porto in ricostruzione, ripensava che fin dal
nome aveva voluto toglierle via Manfredi. Infatti tentò di farla chiamare Nuova
Siponto, e non gli riuscì, per una di quelle riottose e segrete pietà umane, che
vivono nell’anima della gente.
Ma l’Angioino senza pietà né del nome di Manfredi né del sangue di Corradino,
intese, se il mio immaginare qui non diventi sogno, di riprendere quel torrione
svevo come insegna ed affermazione di regno. Non solo rinunciando ma dannando
l’impero ghibellino quale l’aveva pensato Federico, con quel torrione egli intese di
proclamarsi erede degli Svevi in quanto erano stati re legittimi del retaggio di Roberto Guiscardo. Forse pensava Monte Sant’Angelo come il luogo della consacrazione e dell’unzione regale, come la Reims della sua nuova dinastia nel Regno antico, mentre di Napoli voleva farne la Parigi.
Il campanile era finito da poco, e Carlo pensava di muovere alla conquista dell’Impero d’Oriente, quando accadde quel che al vincitore di Benevento, all’uccisore
degli Svevi, venne a rammentare ch’era sempre facilissimo conquistare il Regno,
R. Bacchelli
In Gargano
289
difficilissimo sempre tenerlo. A Benevento gliel’aveva dato la diserzione dei pugliesi, ed ora glielo minacciava, antica e grave vicenda, la sedizione dei siciliani a Palermo coi Vespri. Il campanile, monumento della sperata continuità regale nel luogo
dove l’Arcangelo aveva significato la grazia di Dio, era finito da poco, e il re «dal
maschio naso», che anche Dante, con tutte le sue collere ghibelline e cogli amori
imperiali, pone in Purgatorio mentre su Federico calò il sasso eterno dell’arca degli
eretici; il Re Carlo, invecchiato e prossimo a morir di stanchezza in Foggia, salendo
ancora a Monte Sant’Angelo poteva vedere nel porto di Manfredonia parti della
flotta apprestata invano per l’Oriente, o resti, dopo che gliel’ebbe bruciata Ruggero
di Lauria. Poteva anche ripensare le conseguenze del suo guelfo e francese aver
voluto influire e dominare l’elezione papale, che gli aveva fatta avversa la Chiesa,
non meno di quel che l’avesse fatta ostile a Federico la guerra aperta ghibellina.
A pochi passi di distanza c’era, come c’è, la delicata fronte della chiesa di Santa
Maria Maggiore, innalzata dalla pia Imperatrice, dalla smonacata per forza, dalla
caritatevole, che difese i siciliani della sua dote normanna contro la feroce tirannia
del marito Arrigo. Si ricordava Re Carlo che «la gran Costanza» aveva affidato il
piccolo Federico, morendo, alla tutela del Papa, quasi per conciliare i due poteri,
forse presaga, invano, che avrebbero sempre lottato nel Regno?
Risentiva i difetti grandi della sua dominazione straniera e dei suoi rapaci francesi, della conquista sempre fresca di un regno politicamente vecchio già tanto. E la
malaria gli distruggeva le guarnigioni, mentre gli aragonesi s’impadronivano del
mare. Egli pregava: «Signore, poiché mi hai fatto salire tant’altro rapidamente, fa
che almeno la discesa sia lenta».
Quest’immaginazione mi occupò in modo, che non seppi fare abbastanza attenzione al curiosissimo edificio detto, per errore insulso, Tomba di Rotari, e che il
popolo, perdendo i termini come un poeta invasato, chiama addirittura Tomba di
San Pietro. Ma le due strade lunghe e serpeggianti, candide sul grigio sasso, verso le
due conche rigogliose di Manfredonia e di Mattinata, verdi di frumento, cupe di
stupendi, doviziosi oliveti, mi condussero verso una nuova meraviglia. Poco si legge
sulle pendici del monte di lontano o dalla cima, ma coll’approssimarsi vi si scorge
quel che han fatto in quello sterminato frastaglio di valli e di lavine queste genti e la
lor fame di terra. È tutto un correre e ricorrere di muretti a secco; ogni palmo di
terra fertile è sostenuto, ogni greppo cercato e frugato. La terra lavorata «a coppola»,
recata dalle donne coi cestelli preziosamente, nutre magri frumenti e mandorli
esercitati dal vento, e qua e là modesti olivi. Ma come l’amano queste famiglie, che,
in più del lavoro, fanno ogni giorno miglia e miglia di monte per recarvisi, o, nei
tempi di stagione buona, vivono in cavernette della roccia! C’è qualcosa dell’amor
difficile e da lontano nella loro fame di terra.
290
Verso Sud
D. Grittani
I mandorli nell’annata rigida e tardiva non s’arrischiavano a fiorire, e stavano
timidi, nudi, al sole limpido sui monti, sul mare, sui boschi garganici e sul Tavoliere; sulla fatica e sulla speranza degli uomini, che hanno imposto su queste ripe il
loro lavoro, come i pellegrini han segnato di mani gremite le pareti della santa scala.
Sentii dire che il disboscamento, relativamente recente, non fu utile pensiero, ed
è cosa che si sa; le colture granarie e olearie lassù non sono le più opportune, ho
saputo; ma non avevo animo a pensare all’economia, come non l’ebbi dentro la
grotta a pensare ai concetti della mia filosofia razionale.
Strade e paesi
La strada che risale fra mandorli doviziosissimi, e che lungo le coste di Monte
Jacotenente, fra i boschi di querce rade e poi giù per le pendici del Chanconcello fra
vallate di lecci dall’ombria notturna e dalla lucente foglia, conduce a Vieste, è un
beneficio della guerra. Fu compiuta per certe necessità dalla Regia Marina, la quale
sento dire che la facesse anche progettare da ingegneri incaricati.
Se così è veramente, non c’è che da rallegrarsi colle attitudini stradali della Regia
Marina. Specialmente nella prima parte, a mezza costa del Jacotenente e, prima,
nell’uscir fuori dalle conche di Matinata e di Mattinatella, la strada si svolge e sale
con una maestosa ampiezza, con agevole e forte struttura, che ad ogni girar di spalla
l’offrono già percorsa e la promettono innanzi all’occhio ammirato, con piacere di
architettura vera ed espressa.
Ed è una buona strada, sulla quale possono sbizzarrirsi gli automobilisti; se i
muli dei carbonai e i cavalli riottosi e non avvezzi dei carrettieri, non gli si parin
davanti in qualche svolto. Nel qual caso il severo e chiuso volto del montanaro
garganico esprimerà con disdegno d’ogni parola tutte le maledizioni e i malaugurii,
onde procedere ornata nel suo cammino la polverosa e spetezzante civiltà meccanica.
Erma, solenne, accompagnata dalla vista del mare, va la strada fra selve, selvette
e prati. Tutto era, quando vi passavo, ancor strinato dall’inverno, e le quercie brusivano
colle lor foglie secche al vento. Solo le prime voci degli uccelli annunciavano la
primavera. Sulle cime e negli anfratti la neve persisteva, scintillando il sole senza
forza su di essa, come una rigida minaccia.
Ma su Vieste che si protende, che s’adagia sopra il declino d’uno scoglio nel
mare, bianca, moresca e marina, simile nell’indolenza a una bella creatura spossata
voluttuosamente dal bagno, che si sia sdraiata sul letto dello scoglio per prendere il
sole facendosi baciar i piedi dal mare, su Vieste dal nome leggiero e gentile come
l’esistenza d’un primo bacio socchiuso, il sole è già vivo, la luce, se non il calore, è
R. Bacchelli
In Gargano
291
già estiva. Il mare è in tutto il grande incitatore di precoci primizie.
Due grandi golfi e due spiaggie fuggenti, lunate, si aprono a levante e a ponente
di Vieste. A mare le sta la rada breve, dove si tirano in secco le paranze, e un breve
scoglio vicino le alza davanti la torricella del fanale. Dietro sonnecchia il castello, col
semaforo e le antenne da segnali al posto dei cannoni sugli spalti.
Il piroscafo bisettimanale delle Tremiti radeva l’isolotto del fanale, e animò,
come sanno animar la stesa del mare i battelli, la gentilezza deserta delle onde primaverili. Dalla parte delle scogliere, sui golfi, volavano, o si posavano con quei loro
atti impacciati e possenti quando s’acquattano sull’acqua o se ne rilevano, stormi di
gabbiani. Alcune massaie versarono in mare cestelli d’immondizie, e i rauchi volatori
vi s’avventarono, facendoci godere la più bella giostra e schermaglia e ronda di voli,
che si potesse desiderare. Fremevano al vento fresco le lunghe braccia, le gracili
impalcature e i cordami delle gran reti a bilancia, che si sporgono sull’Adriatico
pescoso dalle rupi nelle vicinanze d’ogni paese della riviera garganica. E dappertutto vi sono gabbiani, come, dappertutto, la storia racconta terremoti e rovine di
saraceni, di pirati dalmati, di turchi bestiali in questi paesetti, ai quali oggi il mare
dà tanta pace quanta già diede guerra nei tempi andati.
Ma la maggior dolcezza della costiera è da Pèschici a Rodi, che si guardano di
lontano, candide sulle loro due rupi alte ai capi della spiaggia piena d’amenità.
Pèschici era il paese poverissimo, senz’acqua, affastellato sullo scoglio, dove pare
ancor timoroso. La gente viveva in parte in caverne scavate dentro la roccia tenera,
e, da quel che si vedeva dentro gli usci delle casupole anguste e luride, quelli che
stavano in caverne non stavan peggio. Veramente a Pèschici la miseria stringeva il
cuore, e vi si conosceva la mancanza di molte cose di prima necessità. Ebbene,
Pèschici ha nome d’essere il paese che dà le più belle ragazze del Gargano. Io non
potrei giudicarne, perché la bella giornata le aveva condotte ai campi sui lavori, e in
genere le ragazze sono tenute molto strette e in ritegno. Ma fui informato da alcuni
giovanotti buoni conoscitori, e il fatto mi piacque molto, prima per senso di giustizia, poiché era equo compenso della povera Pèschici, ricca solo d’una vista superba
marina; poi per il bellissimo sberleffo che questo fenomeno faceva all’igiene, della
quale io sono nemico, dato che forse farà scemar le epidemie (se è vero), ma di certo
sparge e cresce all’infinito per il mondo il fastidio dei paurosi, dei fissati, dei saccenti
e intromettenti, risanatori, educatori, rigeneratori, eugenisti, e simili salutisti ficcanasi.
Che nel più povero e sporco paese nascessero le più belle ragazze, quanto mi
piacque! E devon esser belle assai, giudicando da quel che ho potuto scorgere passando.
Ornate di collane e orecchini maiuscoli di vecchia filigrana, velate col fazzoletto
o collo scialle, laboriose e riposate, salde donne sono le garganiche; contente dei
292
Verso Sud
D. Grittani
loro uomini, contenti questi di loro: gran principio di ordine e di civiltà. L’impressione era confermata poi dalla quantità e dalla salute dei bambini, che formicolavano per le strade.
Passato Pèschici, attraversai l’ultimo lembo della grande pineta che veste il monte e la costa in quel punto; e poi cominciano gli aranceti di Rodi. Ma, voltando a
monte, presi la strada che conduce a Vico, entratura alla regione dei grandi boschi
interni. E da Vico andai a Ischitella, aprica e ben murata, dove un Pinto, Principe
d’Ischitella, elevò ai primi del Settecento un palazzo di castigata grazia mirabile; e
approfittai d’un lento tramonto aureo ed argentino per scendere coll’automobile a
Carpino, bianca sul gran piano verde, e a Cagnano, mentre il Monte d’Elio incupiva
contro il cielo crepuscolare, e la vasta palude pigra del lago di Varano trascolorava.
Questo lago, e l’altro di Lesina, diffondevano la malaria in questa parte del Gargano, fertile e pur bellissima. Nei prati e nei seminati, più cupi, nelle roccie e nei
monti, nel color del mare e degli uliveti pallidi, c’era una gravità, una melanconia,
che ben si sposava e si rivelava coll’ora cadente, come per contro a Mattinata s’era
rivelata e sposata fin nel nome del paese l’ora sorgente del giorno: era il colore della
costa settentrionale e occidentale, di contro al colore orientale e di mezzodì dell’altra costa.
Dalla regione dei due laghi, dove i tentativi di bonifica e di prosciugamento
sono una storia lunga ed ardua, tornavamo verso Rodi. Ora nel Varano, che fu base
d’idrovolanti durante la guerra e che potrebbe esser porto superbo, si tenevano
aperte due foci per uso delle barche e per renderlo salino e risanarlo e impedir la
malaria. Ma quando era palude d’acqua dolce, era pescoso, specialmente di capitoni
celebratissimi.
Uno della comitiva, un ghiottone, fece la riflessione, dolente molto, che se ne
vanno i capitoli dal lago. Sua unica scusa poteva essere che la malaria la conosceva
per averla avuta, e maligna.
Ma che non son capaci di sfidare i golosi?
Colloquio con uno che un giorno sarà forse sugli altari
San Marco in Lamis, se non nacque, si ingrandì come ospizio di pellegrini
longobardi, i quali si recavano per la via di San Severo (l’altra è quella di Manfredonia) a venerare la grotta e l’impronta dell’Arcangelo Michele sul famoso Monte
Sant’Angelo. E un storico tedesco, il Gotheim, fa l’ipotesi che questa devozione
longobardica sia la forma cattolica assunta presso i convertiti di Teodolinda dal
culto pagano del guerriero Odino. E questo potrebbe anche dimostrare una delle
ragioni per le quali i longobardi si sono fusi così bene coi latini; se è vero, come è
R. Bacchelli
In Gargano
293
vero, che una delle più spiccate e delle più belle attitudini italiane nel gran trapasso
fu quella che salvò nel cattolicesimo popolare tanta e così poetica parte del paganesimo,
e specialmente del più umano, che fu quello rustico. Lungo questa via, che per un
incerto seguito di valli carsiche e lungo le pendici di terraferma del Gargano conduce fin dietro la parte interna e dirupata del Monte degli Angeli, dove la aggredisce
con ardite svolte; quel che a San Giovanni Rotondo si vuol che fosse, ribattezzato in
Chiesa di San Giovanni, il tempio rotondo di Giano, dio della pace, poco saprebbe
dire, ma c’è la tradizione, e una quantità di ètimi, veri o favolosi, la testimoniano.
Quel dio italico, dio delle porte e d’ogni entrata e d’ogni cosa che s’inizia, e del
cominciar del giorno e del capodanno, protettore d’ogni opera che gli fosse consacrata sul principiarla, e dio di pace, fu dunque molto onorato in queste valli; e si
spiega. Mi immagino che i contadini lo invocassero per le semine, e che gli consacrassero, sull’aprire, il solco degli aratri, gli innesti, le piantagioni, le opere delle loro
stagioni varie e immutabili. L’agricoltura è arte di speranze fiduciose e di molti inizi,
perciò molto augurale nelle sue devozioni, e Giano non si onorava solo qui; ma qui
si trova, lungo queste valli, un Jancuglia, ossia Jani Culla, un Rignano, ossia Ara Jani,
uno Stignano, ossia Ostium Jani, e Pirgiano, ossia Castello di Giano. San Giovanni,
dove la tradizione pone il tempio, è nel centro della regione in costiera, dalla parte di
terra, dove le selve furon dapprima vinte, dove si stabilì primamente l’agricoltura,
dove si rifugiavano gli esuli cacciati dalle città distrutte del piano, e dove le memorie
riposarono e si trasmisero, col sangue e coi costumi, più intatte, difese e separate
dalle insidie e dalle tentazioni del mare, dai saraceni e dai turchi, e dai pirati.
Lungo questa via, a Stignano, a San Marco e a San Giovanni, vi sono oggi dei
conventi francescani, ai quali si svolge e si sofferma la devozione dei pellegrini,
mentre gli abitanti dei paesi li visitano con quelle feste che tengon vive, nelle ricorrenze sacre, le cerimonie di propiziazione del paganesimo ingenuo campagnolo.
Così nel santuario di Monte Sant’Angelo si mostra, poco distante dall’altare che
copre l’orma dell’Arcangelo, il segno a T che lasciò nella roccia San Francesco,
quando vi arrivò in pellegrinaggio, e non voleva entrare per umiltà, e s’appoggiò
colla faccia alla roccia vicino all’entratura, e la segnò così colle orbite e col naso,
mentre pregava chiuso contro il sasso.
Noi non crediamo ai miracoli, troppo si sa. Resta a comprendere il miracolo per
il quale le turbe, ignoranti di Odino e di Giano, abbiano con una leggenda chiarita
così sicuramente tanta storia, unendo in due segni sul sasso il culto angelico della
Chiesa primitiva con quello che gli storici chiamano «il moto francescano».
Parliamo solo di storia, come a me conviene, e riconosciamo che le favole e le
allucinazioni dei caprai d’Abruzzo e dei contadini del Tavoliere sanno trovar termini molto ma molto più espressivi che non gli storici.
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Verso Sud
D. Grittani
Alcuni di questi conventi furono in origine benedettini e cistercensi, e oggi sono
francescani, come quello di San Matteo, o abbandonati, come quello di Stignano
cadente. Altri sono dei cappuccini; e questi nella loro rozza semplicità sbiancata,
ricordano vivamente; ma Stignano cadente dà l’immagine di quel che fu il passaggio di guerre e di pestilenze e di carestie.
In un convento di San Benedetto non manca mai un cortile con un bel pozzo
nel mezzo. E c’è, elegantissimo fra l’erbaccia, a Stignano; c’è nel cortile austero ed
alpestre di San Matteo, il quale domina dall’alto, severo e forte e bastionato, fra le
roccie, la valle, che accoglie in basso, il viandante, soavemente fra colli leni ed olivi,
col sagrato sereno e la piana fronte della chiesa di Stignano.
Quando vi fui, aveva smesso di piovere da pochi giorni, e c’era ancor la muffa
fresca nel refettorio, poiché l’acqua trapela dai tetti e franano pezzi ed angoli di
muro nei corridoi quadrati, dove le esigue finestre aprono viste amenissime sull’apertura della valle nel piano. Muffa, tristezza, rovina e minaccia di rovine: fuori il
sole di marzo brilla, come se vi fosse piovuto di fresco, sugli olivi e sul frumento
verde. In uno dei due chiostri un ignoto, un pittore forse di quelli che hanno riempito di ex-voto un corridoio di San Matteo, ha affrescate le lunette colle storie della
vita di San Francesco. Sono pitture del genere popolaresco, nelle quali un’ingenua
audacia o una scorrezione timida possono conferire molta forza e carattere figurativo. In Gargano se ne vedono molte, e, attorno ai suoi numerosi ed antichi santuari
miracolosi, colla fede si è stabilita una certa unità e continuità di tradizione pittorica particolare. Quanti ne stanno infracidando sulle pareti bianche e umide! Cerignola ha molta e speciale devozione per San Matteo, ed essendo città di grandi
armenti e di commercio di ciuchi e di cavalli, vi ha mandato molte storie di pericoli
e di miracolati con bestie da tiro e da sella. Ma pare che il tempo migliore per
quest’arte sia stato nel secolo scorso, quando la diminuita bravura dei pittori e
l’esempio della fotografia indussero, così mi è parso, gli artisti a sforzare certe qualità di evidenza, che nell’arte istintiva ed ignara toccano, collo sforzo appunto, valori di stile popolaresco. Scende da queste raccolte di vignette un senso fra penoso e
consolato della pena e del pericolo quotidiano. Oggi si tende a mandar la fotografia
in abito delle feste, con iscrizioni narrative. Non si salva più niente, salvo l’intenzione dei fedeli. I Padri cortesissimi ed accoglienti di San Matteo mi indicarono dalla
loro stupenda loggia una sorgiva, dove i pagani venivano a bagnar d’acque sacre a
Giano le bestie ammalate. Il popolo, poiché nel convento si venera un dente di San
Matteo, ha favoleggiato che l’Evangelista abbia fatto il viaggio che stavo facendo io,
e mostra la pietra dove, inginocchiandosi egli per bere, sarebbe rimasta l’impronta.
Io andavo a visitare un cappuccino del convento di San Giovanni Rotondo,
Padre Pio, del quale i giornali hanno discorso già più di una volta, e che porta le
R. Bacchelli
In Gargano
295
stimmate come San Francesco. La sua fama di santo va lontana e chiama molta
gente, quantunque, mi fu assicurato da persone degne di fede, egli, obbediente ai
superiori, cerchi di non aumentarla. Avviandomi al convento, che sorge solitario
coi suoi cipressi e il bianco recinto in una stesa di magre erbe e di sassi, io mi tenevo
in una disposizione equanime, non prevenuta dalla incredulità e neanche da quella
voglia di meraviglie, che è quanto ci resta della fede antica nei miracoli. Insomma,
ero disposto a rispettar un fatto ed a scrutare un uomo senza vana curiosità, ma
fermamente. So bene quanto si possano spiegare scientificamente simili fatti, e so
benissimo quanto non si spieghino scientificamente lo spirito umano, la storia e
quel che si chiama vocazione.
Dopo visto e parlato con questo cappuccino, non so se ho discorso con un
santo, e di ciò se mai dovrà liberare a tempo suo la Chiesa, ma so di aver trovato un
uomo il quale, per quanto ha mostrato a me in un’ora di colloquio agevole e sereno,
porta l’insegna di ciò che deve percuotere più di ogni altro mistero la sua coscienza
di fedele, o per lo meno costituire la più possente ed insidiosa tentazione d’ogni
peccato dello spirito, con una chiara fierezza negli occhi, e con dignità modesta di
frate e di sacerdote.
Lo trovammo che stava facendosi rifare la tonsura da un fraticello, e la macchina
da radere, visibilmente disaffilata, gli dava notevoli strappi ai capelli. Per qualche
minuto egli, che ci voltava le spalle, non si addiede della nostra presenza; e sottostava
alla fastidiosa operazione, a spalle tonde, rispondendo con affettuosa condiscendenza alle facezie del frate barbiere, che lo rimproverava di curar poco il taglio dei
capelli. Quando s’accorse di noi, non mutò atteggiamento né umore.
Padre Pio porta i mezzi guanti per celare le stimmate, e svia la conversazione se
qualcuno gliene fa parola. Discorremmo del più e del meno, scherzando anche, e
non capii se nel parlare d’argomenti seri egli si esprimesse con giustizia e criterio,
come faceva, per naturale buon discernimento e per esercizio di studio. Diceva cose
fini con parole illetterate, di solida semplicità insolita. Così, discorrendo di un suo
detrattore invelenito, si espresse con risoluzione e fermezza, con una severa carità,
che mi dissero molto sulla saldezza convinta dell’animo suo. Questa nasceva da un
non so che di più spontaneo e nativo della umiltà ascetica e degli esercizi spirituali,
che avevano contribuito a fortificarla.
Parlando d’una ritrattazione del detrattore (pare, assai violento e velenoso), e
dicendosi che costui pareva dire e fare sul serio nel pentirsi, il frate disse: «Questo lo
spero per lui; per me non ne ho bisogno». Delle stimmate e dei miracoli non si
discorse, quasi ci fossero usciti di mente. E questo, per quel che ne posso dir io con
criterio naturale, mi fece al ripensarci più disposto alla meraviglia ed al rispetto
insieme.
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Verso Sud
D. Grittani
Tale è stato il mio incontro con uno che un giorno sarà forse sugli altari, e che
vive nella valle che fu di Giano, ed è oggi francescana, in Gargano.
Le isole delle acque verdi
Il piroscafo che fa servizio, mare permettendo, due volte la settimana, per le
Tremiti, dà fondo davanti ad ogni rada dei paesi costieri da Manfredonia a Rodi,
sollecitando colla sirena i barcaiuoli.
Li sollecita specialmente il sabato mattina, perché in quel giorno il piroscafo
Epiro rientra a Bari, sua sede, dove l’equipaggio passa la sera di sabato e la domenica
in famiglia. Non gli si può far carico d’aver fretta; non si può far torto ai barcaiuoli
di stare all’orario; e allora, dopo mattutine zufolate, che sveglian tutti gli echi delle
pinete sopra San Menaio, e delle rupi di Pèschici, e delle rade ampie di Vieste,
avvengono sotto bordo bellissime contestazioni in lingua pugliese, che mi pare
molto adatta a distinguere, sottilizzare, disputare e pungere, tanto nei baresi dell’Epiro
quanto nei rivieraschi delle barche. Sola differenza l’accento, che è netto e sobrio
quello dei garganici, quanto quello dei baresi è vocalizzante e spampanato.
Intanto passeggieri e carico s’imbarcano e sbarcano e la partenza rasserena i
contendenti. Ma questo succede al ritorno. L’arrivo alle Tremiti avviene per l’ora del
tramonto.
È noto che fin dai tempi dei Borboni esse furono adibite a luogo di relegazione
e confino. Sul piroscafo Epiro s’incontran sempre dei coatti in traduzione, ai quali,
come son tolte durante la navigazione le manette, è resa un po’ di quella confidenza
che il popolo non nega a coloro che, purgando essi la pena del malfatto, non è
nostro compito giudicare. Cordialità e confidenza lontanissime da ogni umanitarismo
sentimentale di qualunque sorte; che provengono, più che da ispirazione, dalle
«opere della misericordia»; e che il popolo nostro, profondo nella rettitudine del
suo buon senso, ricava da un antico e sanissimo concetto della colpa purgata.
Quando, come capita, il coatto, ex-carcerato o magari ex-galeotto, sia un gioviale compare, e il mare sia calmo, allora fra massaie, mercanti di pesce e contadini che
popolano generalmente la Terza dell’epiro, e coatti benevolmente sorvegliati, senza
confidenze per altro!, dai carabinieri, allora il gioviale coatto è capace di farsi il
divertimento della traversata.
Quando poi riprende le manette all’arrivo, cambia faccia e non è più lo stesso
uomo, si conosce, né per sé né per gli altri. Io non ho mai ricevute le manette (è una
cosa che può benissimo capitare), ma tutti mi dicono, quelli che le han provate, che
per capire bisogna provare.
Mi ricordo che all’imbarco un ammanettato scivolò sui gradini del modo di
R. Bacchelli
In Gargano
297
Rodi, e battè duramente, senza potersi aiutare colle mani, l’osso sacro sul calcestruzzo.
Era un giovinastro pieno di sangue. Se fosse stato libero, chi sa qual impeto
d’imprecazioni avrebbe avuto il suo sfogo. Invece si rialzò più presto che poté,
guardò il gradino dove aveva battuto, non lievemente, e gli vidi la faccia di colui che
deve sempre tacere, di quello che il torto è sempre suo: faccia di protervia invilita.
Dopo un paio d’ore scarse di traversata, si palesa attorno alle Tremiti, già ben chiare
e rilevate sull’orizzonte, il fatto per cui su tutta la costa si dice appunto, per dire
andar coatto: esser mandato alle acque verdi. San Nicola, San Dòmino e Capperara, cogli scogli del Cretaccio e della Vecchia, il gruppo principale di quell’unico
arcipelago della costa italiana in Adriatico, si offrono allo sguardo unite e raccolte
attorno al seno d’acqua che fa golfo e porto naturale fra San Dòmino, San Nicola e
il Cretaccio. Di lontano paiono anzi una sola schiena collinosa. A tutte le ore del
giorno, ma sopra tutto quando il sole tramonta, e all’occhio di chi vi naviga da
levante, le acque intorno e davanti le Tremiti appaiono verdi, non del verde che si
vede sul mare alla superficie specialmente all’alba, ma d’un singolare verde, che par
venuto dal fondo. Tutto lo spessore del mare par che sia verde; i colori del tramonto,
vittoriosi e cangianti in cielo e sui monti del Gargano a poppavia e sulla costa Italia
e sul lontano Appennino, quando è chiaro, e sul mare ovunque sia negli altri punti,
lì di prua sulle acque delle isole perdono la partita, spariscono in quel colore di
smeraldo, che di tutti gli splendori del tramonto, lungi da smorzarsi, prende foga,
lucentezza, profondità, quasi che se ne nutra.
Su quell’acque posano, radono, volteggiano stormi numerosissimi di gabbiani,
che, nel venir meno del sole e nello scomporsi crepuscolare della luce in color,
paiono neri.
Sono i compagni di Diomede, poiché quando l’eroe, che sarebbe stato il primo
dei greci se lo scettro non fosse stato di Agamennone e la gloria di Achille, venne a
compiere il suo fato in Apulia, i compagni lo seppellirono in queste isole, e furon
mutati dagli dèi in gabbiani, che le amano e che non le abbandonarono più.
È una di quelle leggende che sapevan trovare i greci, ma, se ti capiti l’occasione,
lettore mio, non perderla di visitare le isole Tremiti; e mi ringrazierai.
È buona regola, nel visitare i paesi, far in modo che resti voglia di tornarci.
Siccome il piroscafo arriva per l’ora del crepuscolo e riparte innanzi l’alba, posso
ben dire d’averla seguita questa regola; e che mi sia rimasta voglia di tornarci si
spiega.
Tanto più, se vi dico che l’isola di San Nicola è una sorprendente e solenne cosa.
Figuratevi una scogliera ardita tutta cinta di fortificazioni assai ben conservate. Si
sale per un sentiero e per alcune scale difese da muri e da ridotte, e comandate dagli
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Verso Sud
D. Grittani
spalti del gran castello. In pochi luoghi ho sentito che cosa fosse un «bello e forte
arnese» di guerra, come laggiù. Era un’abbazia benedettina, e dicesi che i frati ci si
trovassero così bene e animosamente a battagliar coi mori, coi saraceni e coi dalmati
scorridori del mare, che finirono per farsi molto più guerrieri che monaci, tanto che
nel duecento il papa li sostituì coi cistercensi. A questi seguirono i canonici lateranensi,
che respinsero nel 1567 la flotta di Solimano II. Dentro la cerchia prima delle
mura, in un ripiano, c’è lo squallido villaggio delle caserme, che dànno alloggio a
pian terreno agli abitanti borghesi dell’isola, pescatori, commercianti, appaltatori, e
al primo piano ai coatti. I quali passeggiavano negli spiazzi, chiacchierando.
Io badavo a salire in fretta al corpo centrale della fortezza, dov’è il convento e la
chiesa. E giunsi appena in tempo per ammirare cogli ultimi bagliori del giorno quel
limpido e prezioso esemplare di architettura del primo Rinascimento, che è la facciata di Santa Maria. Non mi rincresce della breve luce, perché questa brevità di
tempo aggiunta alla sorpresa dispose l’animo mio ad accogliere con una specie di
appetito festoso e tripudiante la ricca gentilezza e grazia toscana di quel portale e
della facciata.
Vi si scorgono i segni di cannonate inglesi durante le guerre napoleoniche. Dopo,
San Nicola ha subìto qualche tentativo di aeroplani austriaci; e ora una pace stupenda scendeva colla notte sull’isola monastica e guerriera. Il parroco fu tanto cortese da aprirmi la chiesa, e visitai il bellissimo e fastoso pavimento a mosaico, alcune
opere insigni di legno e di pittura, e la mummia del Beato Tobia, protettore dei
pescatori tremitani, a cui essi attribuiscono la grazia particolare di non perdersene
mai uno in mare; tutto a lume di candela, come pure i refettori, i dormitori e i
lunghi corridoi dei frati, dove ha sede la direzione della colonia penale.
In un torrione di Carlo II d’Angiò – poiché in questa fortezza han lavorato, si
può dire, tutte le dinastie del Regno – certi coatti bandisti si esercitavano e provavano musica. Tornati che fummo sullo spiazzo fra le caserme, era l’ora della ritirata, e
sentii parlare il patrio dialetto. Eran certi bolognesi, ladri ed allegri, mi fu detto, i
quali si rivolgevano motti «che il tacere è bello». Ebbi la tentazione, lo confesso, di
dire: «O bolognesi, io sono della vostra terra», ma poi mi trattenni per varie ragioni,
ed anche perché non mi facesser suonare dietro le spalle nel buio qualcuno di quei
patrii motti e suoni sconci.
All’ospitalità nei paesi garganici non è dato né permesso sottrarsi, e il signor
Santoro, isolano di San Nicola, mi diede da cena e mi fece graditissima compagnia
fino alla mezzanotte e all’imbarco, raccontando qual è la strana vita dei coatti e dei
borghesi nella colonia (San Domino è coltivata dai coatti ed assai fertile), e parlandomi dei suoi figli pescatori ed abilissimi nuotatori. Aggiungasi che il vino delle
Tremiti, dono del sasso e del mare, è ottimo e secco: la serata passò in un lampo.
R. Bacchelli
In Gargano
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Mi destò assai per tempo la sirena, che sollecitava i barcaiuoli di Rodi; e poi
dall’alba a mezzogiorno, ora dell’arrivo a Manfredonia, mi godetti la costa. Fino a
Vieste l’ho già descritta; da Vieste, dove volge, a Manfredonia, è tutta impervia e
deserta. Non si vede segno d’uomo fuor che le torri di guardia antiche e in rovina
che si seguono, visibili una dall’altra, di capo in capo, in modo da passarsi l’allarme
ai tempi che furono.
La costa dirupata dal mare e dai terremoti è tutta un seguito meraviglioso di
caverne e di altissimi archi naturali, scavati in una roccia bianca d’un caldo biancore
giallino sul mare azzurro cupo, sul quale giocavano il vento, il sole, la scia e gli
ultimi gabbiani, che ci seguirono fin sulla bocca del porto di Manfredonia.
Le arance dell’Unità Italiana
Si dice che sia tanto soave l’odor degli aranceti sul lido di Rodi Garganico, da far
venir le lacrime agli occhi quando è il tempo della fioritura.
Gli aranceti e i limoneti riempiono tutte le vallette e vestono ogni dosso di
quella costiera, dove affiorano, a nutrirli, molte polle d’acqua gaia. A difendere
dagli strapazzi del vento boreale le fioriture delicate ed il frutto greve, i coltivatori
han tirato su, con scienza accorta e paziente, spalliere e filari e siepi di leccio e di
alloro. Così, coi densi fogliami, onore della virtù militare e poetica, i coltivatori
sviano le infilate, rompono i mulinelli e i golfi, disfano insomma i perniciosi giuochi del vento. Colla pesca, l’agrumeto è il primo guadagno del paese.
Poco prima della guerra, sarà, mentre racconto, un quindici anni, il trabaccolo
chiamato Unità Italiana era il più nuovo di quanti n’aveva la spiaggia. Anzi il padrone non l’aveva ancor pagato. Navigava così per mare col pensiero dei debiti a
bordo.
Veramente il trabaccolo, dipinto di nero con una fascia bianca, era un battello
da stimarsene, calafato e padrone; e già nelle burrasche dell’inverno aveva fatto due
volte buona prova di qualità nautiche. In quanto a qualità veliere, era dei più veloci
e dei più utili e maneggevoli. Per questo, costava anche il suo prezzo, diceva il
calafato quando dava una capata sulla spiaggia per covarsi il credito, come non
fossero bastate le cambiali!
Ai primi di aprile, il padrone caricò arance per la Dalmazia, e stivò l’Unità
Italiana fin che ce ne poté uno. Poi fece in coperta una fila di cassette e di cesti, e,
non contento, imbarcò pure non so quanti sacchi di buccia d’arancio.
Occorre infatti sapere che la buccia d’arancio serve per cavarne essenza; e le
distillerie di Dalmazia ne comprano. Guadagno piccolo, ma il guadagno si misura
sul bisogno dei bisognosi e non sulle sazietà degli abbondanti.
300
Verso Sud
D. Grittani
Insomma, il padrone aveva fatto un carico tale, che sul ponto dell’Unità sparivano gli uomini dell’equipaggio: un fratello del padrone, giovine, un vecchio marinaio, un figlio mozzo. Non è da credere, perché la barca si chiamasse Unità Italiana,
che il padrone fosse liberale, cosa di cui aveva un’idea vaghissima, o libero pensatore,
cosa di cui non aveva nemmeno l’idea. Insomma, col nome di Unità Italiana egli
era del tutto alieno ed ignaro di toccar la questione del potere temporale e del
patrimonio di San Pietro. Queste erano questioni che riguardavano il Papa di Roma
e il parroco di Rodi: quanto a lui, era devoto della Madonna della Libera, e aveva
battezzata la sua barca patriotticamente, per un riflesso dei giornali del tempo di
Tripoli. Anzi per quella guerra era stato richiamato, e non è escluso che il concetto
dell’unità italiana gli fosse nato ascoltando qualche regolamentare «scuola morale»
tenuta dagli ufficiali all’equipaggio, durante le lunghe crociere e gli ancoraggi nelle
rade di Derna o di Tobruc.
La Madonna della Libera arrivò a Rodi sulle onde, e si posò sopra un sasso, il
quale si conserva sotto l’altare, scampando ai turchi, dice il latino dell’iscrizione. È
una bella immagine bizantina e, forse, invece di turchi, si trattò, come per il solito
fu di queste immagini recate in Italia dal mare, della greca persecuzione degli
iconoclasti, quando l’imperatore Leone Isaurico volle dare il suo esempio anche lui
di ciò che producono principi temporali in vena di teologare.
Turchi o greci, la Madonna ha la sua chiesa sull’entrata di Rodi dalla parte di
ponente, venendo dal lago Varano; chiesa «a divozione dei navigatori» dove gli exvoto appesi dietro l’altare a decine, dipingono grazie ricevute in mare, e che s’ingrandisce e si adorna per offerte e lasciti di rodiotti paesani o fortunati in America
e non immemori.
L’«Unità Italiana» recava a bordo, fissata sulla ruota di prua e protetta da un
vetro, un’immagine benedetta della Madonna, e padrone ed equipaggio la rispettavano più che potevano, anche col tempo buono. Con quello cattivo, poi, l’invocavano con gran fede.
E bisogno ne ebbe, quella volta che salpò col carico d’arance, il padrone, quando fu sotto Lissa. Avevan fatto ottima traversata, e la notte, quando cadde il vento,
era così calma, che si addormentò anche il timoniere sul trabaccolo colmo, odoroso
di catrame fresco e di buccia d’arancio. La luna in cielo terzo e cristallino, illuminava la groppa dell’isola a proravia. Le vele pendevano.
Dormivano da un paio d’ore, perché, quando il vento li destò, la luna s’avviava al
tramonto; un turbine boreale si scagliò sull’Unità Italiana. Le vele fecero uno schianto solo, e sparirono; il mare fremeva tenuto giù dal vento, e le due furie dell’aria e
dell’acqua ogni tanto levavano una schiuma volante di polvere d’acqua. Il trabaccolo,
spinto al largo, camminava fra una nube di tal polvere d’acqua. Il trabaccolo, spinto
R. Bacchelli
In Gargano
301
al largo, camminava fra una nube di tal polvere: pareva che non toccasse acqua, o che
fosse nel ribollio di una cascata. Il timoniere aveva preso un colpo di barra nel costato, quando il vento aveva girata la barca al largo con quelle maniere che sono soltanto
sue, e piangeva le sue costole. La luna al tramonto guardava la perdita di quegli
uomini. Il colpo di vento smise com’era venuto. Il trabaccolo si fermò, come se
avesse ritrovata acqua sotto la chiglia; si rivide Lissa fatta piccola e lontana, e il resto
dell’equipaggio uscì a guardare i danni, dolorosi sopra tutti il padrone e il fratello.
E non sapevano ancora quel che li attendeva, perché si combinarono due tempeste di vento contrastanti, e per tutt’il giorno, senza vele, rotto alla fine anche il
timone, furono spinti e ricacciati dal largo alle isole e dalle isole al largo, aggirati,
sconquassati, sbalzati sopra un mare rabbioso e accanito. Il vento vorticoso, pieno
di rèmoli, aveva sgombrato e spogliato la coperta, pulita. E primi naturalmente
eran partiti i sacchi delle buccie d’arancio, volatili.
L’equipaggio, ricordando gli ex-voto, non aveva altro aiuto che quello d’invocare la Madonna della Libera, quando a notte il vento si decise, e si buttò in una gran
tempesta spiegata di bora. Persero di vista la terra, e il mare ingrossato, dopo d’aver
tentato di smantellare il fasciame coi colpi brevi, cominciò a lavorare coi colpi
lunghi ed alti per vedere di rovesciare l’Unità Italiana. Ma il trabaccolo aveva mostrato quanto era saldo, e ora faceva vedere come era ben equilibrato.
Sull’alba li accostò un vapore, che poté mandare una scialuppa e gettare un
cavo. Ma quando si trattò d’imbarcarsi nella scialuppa, il padrone volle dall’ufficiale
l’assicurazione che il vapore avrebbe preso a rimorchio l’«Unità Italiana». Altrimenti non si sarebbe mosso dal bordo; e il fratello, che era suo socio e vedeva la rovina
comune nella perdita del trabaccolo nuovo e da pagare, fece l’atto di ributtarsi a
bordo dell’«Unità» anche lui. Il capitano del vapore, un postale abbastanza grosso e
lussuoso, non capiva quel che stessero a perder tempo in discorsi, e bestemmiava
dietro i vetri del binoccolo, mentre scialuppa e trabaccolo ballavano a contrattempo sulle onde. Pareva che il tempo volesse migliorare.
L’ufficiale finalmente non credette di far male promettendo e giurando, con
grandi urli a quel testardo, che l’«Unità» sarebbe stata rimorchiata fino a Bari, prossimo scalo. Allora il padrone, traballando nei colpi di mare, andò a prua, si volse alla
Madonna, e le disse: – Lascio la barca e il carico a Voi e al vostro aiuto –.
E a bordo, incurante totalmente della stizza del comandante, lui e il suo sparuto
e bagnato e affamato equipaggio volevano far la guardia al cavo. Quei pochi passeggeri che non soffrivano mal di mare, il vennero a vedere, e volevano farsi raccontare
la traversia, ma cavarono poche parole. Allora si levarono la voglia di fotografare il
gruppo dei salvati. L’impaccio e la noia erano accresciuti dal fatto di non aver indosso nemmeno gli abito loro proprii, che erano ad asciugare.
302
Verso Sud
D. Grittani
Intanto il padrone fu chiamato dal comandante per le notizie da mettere sul
giornale di bordo, e il mare si rimise a infuriare. La rotta del vapore si trovava ad
essere proprio nel filo del vento, e ogni tanto un colpo di mare buttava l’Unità
Italiana a sbattere contro la poppa del vapore.
Bisognò che si rassegnasse anche il padrone; fu tagliato il cavo del rimorchio, e il
trabaccolo fu visto ancora per dieci minuti beccheggiante in balia delle onde, levando su la prua come se avesse cercato l’aria prima d’inabissarsi.
I due fratelli non dissero una parola.
Fin allora non avevan voluto mangiare, ora che il sacrificio era fatto e che almeno da mangiare avevan gratis, ne approfittarono per il giorno di digiuno passato, e
per quelli venturi. Poi dormirono fino a Bari sulla loro miseria.
A Bari presero il treno, e avevan pure scherzato con certi conoscenti incontrati
alla capitaneria del porto, che li fece fornir di biglietti dalla questura per il rimpatrio. In treno poi c’era un piacevole suonatore di mandolino, e le ore passarono
veloci. Soltanto arrivando colla diligenza in vista delle case bianche di Rodi, risentirono la loro disgrazia; peggio quando ogni cosa e il calafato li condussero a ripensare d’aver perduta la barca e di doverla pagare.
La mattina dopo per tempo, – fra tutto eran passati tre giorni – il padrone sente
bussare all’uscio, e un vocio per la strada. Chiamavan lui a gran voce; rimpiangeva
che non l’avesser lasciato dormire, perché il dispiacere faceva come le botte e cresceva maturando; ecco, ad apertura d’uscio, gli invasero la casa. Allora credette di
sognare e di non essersi svegliato. L’Unità Italiana aveva navigato verso Rodi da sé
sola, e s’era venuta ad arenare quella stessa notte sul greto dalla parte di ponente.
Due pescatori l’avevan scoperta, a poche centinaia di metri dal paese. Rodi è sulla
rupe, tutto fatto a scale, ma il padrone non toccò un gradino, e volò più che non
scendesse.
Oggi un ex-voto nella chiesa della Madonna della Libera mostra l’Unità azzuccata
sul greto, e quando il trabaccolo, ormai vecchio d’onorata età, non è in navigazione,
si può ancor vedere, nero con fascia bianca, ancorato in rada o al secco sulla spiaggia
di Rodi Garganico.
Fu potuta ricuperar sana, per quanto maltrattata, anche buona parte del carico,
che fu messo in vendita sulla spiaggia, dove tutti convennero a mangiar delle arance
del miracolo.
[Tratto dagli articoli apparsi sul quotidiano La Stampa nella primavera del 1929; contenuti nella raccolta
di racconti L’Italia per terra e per mare, RICCARDO BACCHELLI, Rizzoli, Milano 1952, tranne il brano Le arance
dell’Unità Italiana]
303
Conquista del sasso
Giuseppe Ungaretti
Il Gargano è il monte più vario che si possa immaginare. Ha nel suo cuore la
Foresta Umbra, con faggi e cerri che hanno 50 metri d’altezza e un fusto d’una
bracciata di 5 metri, e l’età di Matusalemme; con abeti, aceri, tassi; con un rigoglio,
un colore, l’idea che le stagioni si siano incantate in sull’ora di sera; con caprioli,
lepri, volpi che vi scappano di fra i piedi; con ogni gorgheggio, gemito, pigolìo
d’uccelli…
Ma queste pendici che vanno giù verso Manfredonia sono tutto sasso. Salendo
da questo lato verso Montesantangelo la vegetazione è tutt’altro che facile. Ma questa è la giornata degli spettacoli commoventi. Giù, vedete, si estende a perdita d’occhio la pianura: terra, terra. E con tanta terra a due passi, guardate questi montanari: vanno a cercare la loro terra avara col cucchiaino; e quando trovano nel sasso un
interstizio: giù quel granellino di terra. Sono arrivati così, conquistando un millimetro dopo l’altro, a rendere fruttuoso anche questo versante, e ora è tutto diviso a
terrazze che fanno l’effetto di snodarsi sul suo dorso come lentissimi bruchi.
Mi dice uno che sta zappando: «Avresti dovuto vedere quest’estate! Il nostro
grano era alto così! Il più bello di tutta la Capitanata!»
Mi dava del tu, davvero era un Antico!
[Tratto da Deserto e dopo, GIUSEPPE UNGARETTI, Mondadori, Milano 1961]
305
La Foresta Umbra
TOMMASO FIORE
L’autore dello splendido romanzo Il cafone all’inferno (Einaudi 1955), punto
di riferimento di ogni movimento poetico pugliese degli anni Settanta (a tal
proposito corre d’obbligo citare l’antologia Poeti di Puglia e Basilicata, Adriatica Editrice da lui curata), compie nelle pagine de La Foresta Umbra un giro
attorno a quell’universo naturale che sembra appartenergli nella vita prima
ancora che nella letteratura.
La cosa più bella della Foresta è il vivaio Giacomelli, dietro all’albergo, presso
uno straccio di pineta, con qua e là un misto capriccioso di lecci, di castagni, di
cipressi. Io guardavo quella novità senza saper andare innanzi, allorché il mio accompagnatore mi disse: «Tutto sarà spoglio tra breve, l’inverno di verde non resta
che qualche abete dietro l’albergo, pochi tassi, qualche vialetto di “busso” e gli
agrifogli che pungono le mani.
Aprimmo un cancelletto: lo spiazzo, di non più che un ettaro quadrato, scendeva a vari ripiani con aiuole ben ordinate di piantine, ognuna col suo cartello: pino
nero, castagno, ornello, pino bianco, abete, cipresso a felci per villa, cipresso per
cimiteri.
Al ritorno entriamo nella casuccia del capo vivaista: subito la contadina ci fa
vedere che i suoi marmocchi non sono più sporchi, come poco fa: «Bisogna lavargli
ogni mezz’ora». Ma più che altro le balza il cuore di gioia, ché possiede finalmente
una casa, non lì, non quella catapecchia che è fredda, ma giù, a Vico. «È fatta coi
nostri sacrifici, risparmiando cinquemila lire al mese.» Non devon essere molte le
famiglie di lavoratori in questa condizione! Anche il marito ne è assai contento,
sebbene avvezzo a parlar poco è come impacciato. Il suo compito è di mettere in
terra da quaranta a cinquantamila piante all’anno; la zona di rimboschimento è a
Jacotenente, a sette chilometri di qui,e lui ne fa quindi-venti ettari all’anno. Anche
lui avrebbe il suo orario di lavoro, sulla carta, sette od otto ore; in realtà si trova
306
Verso Sud
D. Grittani
all’opera più di dodici ore al giorno, deve rimaner sempre a disposizione di chi
comanda, tacere e ubbidire.
Invece per tutto quello spazio non si vede la gioia di u fiore, nemmeno un
garofano, appena in un vaso il solito basilico fogliuto. La donna si scusa: «Non sono
appassiontata di fiori, nemmeno a Vico ho fiori. Mio cognato mi avea offerto dalie
assai grandi e belle, tutti veniamo qui a strapparle, senza nemmen chiedere permesso. Allora io mi sono accattivata dal dispetto: non ne pianto più.
Poi aggiunse: «Non sapete? È proibito tener fiori qui.»
«Davvero? È proibito allevar fiori sul terreno del vivaio» speiga il marito. Povera
foresta!
Finalmente raggiungono contrada Signor Marchi, dove si scorge al lavoro nientemeno che un unico carbonaio, con moglie e figlia. Come mai? La stagione con è
questa ed io ormai disperavo di veder carbonai all’opera.
Di regola si lavora solo da settembre a metà giugno, lo appresi l’anno scorso a
Monte. Vi sono a Monte non meno di settecento carbonai, tutti alla dipendenza
d’impresari, ma non ne impiegano che due o trecento. A cottimo, lavorando giorno e notte, si arriva a ricavar 470 lire a quintale; il cottimista può produrre sino a un
quintale e mezzo e dunque valore di 700 lire, sempre lavorando giorno e notte. A
giornata invece si hanno ottocento lire.
«Magro compenso» esclama l’operaio e mi addita la moglie e la figlia che lavorano con lui, dormono con lui in quelle impossibili baracche.
«Quasi come gl’Indiani, i paria dell’India! Se la ditta ti mette le marche, prendi
227 lire al giorno di disoccupazione, più ottanta per i bambini, ma solo i giorni
feriali. Altri mettono insieme il loro lavoro, due o tre persone, e si avvicendano per
andar al paese, a cambiarsi. Sei stato in India?»
«Sì, tre anni, ho visto con gli occhi miei. Non stiamo meglio di quelli là.»
In quel momento a poca distanza verso la strada, s’ode uno sbattere, un trepestio,
il guaito di un cane: accorriamo tutti, primo il carbonaio. La povera bestiola giace a
terra, senza forza, vicino a lei un serpentello verde, un guardapassi, morto ormai,
con la schiena spezzata. Gli occhi del cagnuolo, attraverso il folto pelo. Poi d’improvviso scatta su, corre alla baracca, a pochi passi, subito ne ritorna con qualcosa in
mano, mentre noi siam rimasti lì costernati, senza saper che fare. Lui invece, eccolo
di nuovo in ginocchio, con la sinistra afferra il cane per il muso, lo rovescia, e con la
destra incide con la lametta sulla ferita, a croce. Il sangue spiccia dal petto, la povera
bestia è salva.
Di sera, dopo cena, a starsene all’aperto, sull’orlo della strada, il cielo è così basso
sul nostro capo che pare tutto una via lattea. Vedremo lampeggiar gli occhi di
qualche lupo, attraversando una radura? Qualche schioppettata darà uno strappo al
T. Fiore
La Foresta Umbra
307
silenzio immobile... No, gli operai-contadini se ne stanno tranquilli (non manca
qualcuna delle loro donne), sdraiati per terra o poggiandosi a un panchetto, come
se facessero parte dell’immobilità senza tempo del bosco e delle cose...
È facile che la conversazione cominci dalle bestie.
«Oggi i lupi son spariti dalla Foresta Umbra, sono stati completamente distrutti, come meritavano; li ha ammmazzati col veleno la Forestale.»
«E le volpi?»
«Se non lo sapete, la volpe è amica e comare della lepre. Dunque allorché comare
volpe s’incontra in comare lepre, la prima cosa si mette a scappare, come avesse
paura, finge di allontanarsi, non vuol disturbare la sua comarella.
Allora la lepre resta lì a guardare come stupita, offesa di quelle maniere di comare
volpe, finché l3altra, che le è madrina, quasi è costretta a fermarsi e si volge, torna
indietro. Allora tutt’e due si salutano e si abbracciano da vere comari, e così si
danno a giocar insieme, si rovesciano per terra, si rotolano, si stringono di sotto e di
sopra oora l’una ora l’altra, finché coglie la volpe il momento e afferra la comarella
sempliciotta alla gola, l’ha uccisa d’un colpo e per prima cosa si beve quel sangue, si
toglie la sete. Qualche volta sul più bello ecco il cacciatore arrivare, ammazza la
volpe e si prende la lepre, la vittima e la falsa traditrice.»
«Ma ora volpi non se ne vedono più, quasi, nella Foresta: quelli della penna al
cappello preparano loro buoni bocconi. Allorché muore un ciuco, quella carne ora
vien destinata alle volpi, come già una volta ai lupi. Ne fanno polpette avvelenate:
ho visto io mettere il velene nella carne, con i guanti. Restano stecchite dopo un
minuto.»
«E i cacciatori? Non è proibita la caccia?»
«Sì, nella Foresta, ma i caprioli si spingono fuori del bosco, per mangiare; l’erba
di fuori è più saporita. E allora... »
«Qui tra gli alberi nessuno li distrurba; arrivano dinanzi a noi, rimpetto alla
casa, pascolano tranquillamente a gruppi di tre o quattro. I ragazzi scendono in
mezzo a loro e non hanno paura.»
Colui che ha parlato da ultimo con la sua voce dolce è un bel pezzo di giovane;
soffre di postumi di pleurite, che si è buscata soldato in Africa; basta una minaccia
di maltempo per abbatterlo. È proprio lui che è stato alla mensa degli Americani e
conferma che erano migliori degl’Inglesi, più democratici.
«Ma la politica è un’altra cosa - dice uno si sa.»
E tutti si trovano d’accordo.
«Mi ha detto compare Pasquale, il fornaio di Monte, che un giorno, camminando per la vasta campagna della Russia, era priogioniero, scorse un cespuglio, l’unico
della pianura, e si mise a frugarvi dentro.
308
Verso Sud
D. Grittani
C’era, sotto, un pezzo di legno, su cui una testa di morte era stata intagliata, ed
insieme un piccolo volume. Sulla copertina era scritto: «I nostri pronipoti, leggendo la storia, troveranno che i loro padri hanno ucciso gente senza nemmeno conoscerla. Uccidete il mostro della guerra!»
«Hai visto tu il libro?»
«No, ma lo posso vedere quando voglio. Ora, ogni volta che il fornaio m’incontra, mi ripete: Compare, i nostri pronipoti, leggendo la storia... »
Il cielo sembra curvarsi su di noi, le costellazioni stan ferme, grondano di luce.
Uno alza la mano e fa segno alla puddara...
309
M’ascolti tu, mia terra?
(Ode al Gargano)
JOSEPH TUSIANI
Joseph Tusiani (San Marco in Lamis 1924). Senza dubbio fra le personalità
culturali più illustri della Capitanata. Docente di Letteratura Italiana presso
l’Università di New York, traduttore dall’italiano all’americano di Michelangelo,
Machiavelli, Tasso e Boccaccio, autore di romanzi, saggi nonché curatore di
numerose antologie di poesia italiana. Nonostante il suo impegno letterario
abbia assunto dimensioni ormai planetarie - Tusiani è di continuo chiamato a
tenere lezioni e conferenze in tutte le università del mondo - il “professore
sanmarchese” non perde occasione per rinvigorire il proprio legame con il luogo
natìo, a cui ha dedicato numerosi componimenti dal sapore nostalgico ma di
straordinaria intensità.
Terra natale, io non ho mai sofferto,
io non ho pianto e non son mai partito,
se alla mesta pupilla,
che ti ritrova, tu sei bella ancora
e sei materna. Forse per selvaggi
mari avanzò la sola mia paura;
forse per venti e valli e per sere
illuni procedé, sempre sgomento,
il mio pensier solitario;
ma l’anima, qual sangue tra le vene,
passò per le tue radici eternamente
e l’uomo restò bimbo e fu sereno.
Serena, sí, tu sei, mia terra grande,
or che sí vergine e vasto l’azzurro
sopra di te tangibile s’espande
310
Verso Sud
e ti chiama sua terra;
e l’onda a te rifluisce, scontenta
delle raggiunte distanze infinite,
ed ecco canta e ti chiama sua madre.
Qui mi son io fermato, su quest’erba
che sempre rigermoglia,
e con l’orecchio trepido ho seguito
nel fiottar del mio sangue il lieve, arcano
crescere della foglia
e 1’appressar del tuono di lontano.
E quando poi crosciò sui sassi stridula
tutta la pioggia improvvisa, il tuo volto
ho visto asperso e splendere
d’umida meraviglia,
chetando nelle tue sacre spelonche
il mio terrore fino al nuovo sole.
Ecco il sole è già parte di te, parte
di me, sí basso che quasi ci tocca
con l’ultimo suo dir melodioso.
E sta su quella roccia a brucar l’erba
imporporata la capra (e ci pare
che mangi il sole), e su questo declivo,
che sente il fresco favellar del mare,
sta presso il gregge il pastorel silente,
lieto di regger sull’aperta mano
un cielo d’oro e per la prima volta fatto da te, sua madre, madre nostra un vestito di raggi.
E son campane lontane e campani
vicini, ed è la sera,
questa cosa tranquilla
che inumidisce la nostra pupilla
all’improvviso e ci fa te guardare
pensosamente prima della notte.
Quando la notte è grigia, ed il grillo ed io
sembriamo i soli spiriti viventi
sotto un ciel ch’or si apre or si discopre
all’occhio malinconico assonnato,
D. Grittani
J. Tusiani
M’ascolti tu, mia terra?
l’ultimo fil di ristoppia che brucia
esala una fragranza di frumento
fiore. Ah no, veglia lontano e canta
una fiaba di vita un vecchio, e ascolta
un pastorello, e dè religione
questo silenzio della giovinezza
al detto del profeta. Il mare tace,
anch’esso ad ascoltare, e ancora un poco
il vecchio canta, e sulla stessa pietra,
che serve da giaciglio,
nella mobile notte sono immoti
il bianco capo e i lievi ricci biondi.
Ora il silenzio gli abissi profondi
colma, e la notte l’attonito cuore
che veglia. E vegli tu. Terra d’amore,
anche sul mio pensiero.
Io so che sotto il rigido tuo ciglio
trema perl figlio il tuo pianto di ieri,
il tuo pianto del sole. E so che dentro
il tuo marmoreo cuore è la speranza
di nuov’erbe e d’uccelli e di pastori,
è la stessa preghiera che non manchi
domani il dolce volo e la pastura
ad ogni tua novella creatura.
Madre, io ti canto la lode notturna
ancora, e tu m’ascolta,
come udivi una volta il mio canto di maggio!
Io son tornato dai mari lontani,
e se pur sembri in allegrezza spento
ogni anno amaro, non potrà nessuno
annullare il passato e ricondurre
al seme antico il già perfetto fiore.
Era sí lieve, ai miei dí, questa pianta,
ch’io con mano piccina ne scotevo
tutta per me la brina;
ed ora è tronco, e la mano robusta
tocca a scorza e non più nuoce ai rami.
Ma in quest’albero forte scorre ancora
311
312
Verso Sud
l’umore del tuo grembo immacolato.
Immacolato io mi sento tuttora
(eppur m’han fatto rude gli anni e il male)
come si fosse fermato il mio giorno
alla sua prima aurora
senza il declino alla sua prima sera.
E costumi ho veduto
diversi e gente diversa e, per vivere,
anch’io quasi ho dovuto
scordare i tuoi linguaggi e i tuoi silenzi
e le tue selve fiere ed incorrotte.
E ho imparato a dormir la mia notte
senza i tuoi cieli, per sentirmi pronto
a correre affannato, il dí seguente,
allo stesso tramonto.
E qui correvan liberi e veloci
i tuoi venti, e sui greppi e dentro ai solchi
saltellavano le lepri e nascevan viole.
Tu non conosci il mondo sotto il sole,
o severa montagna
che amo. Or, di noi due,
io non so dire chi più sappia e valga:
io, che ho appreso il soffrire de’ fratelli,
o tu, che sotto la pioggia che bagna
e rode, all’alba nuova ancora possiedi
l’innocenza di ieri.
Io non lo so, perché sapere il male
è forse un po’ dimenticate il bene.
Ma certo vive senza l’uomo il fiore,
e l’uomo è triste senza un fiore almeno.
Tua la grandezza soltanto, se, al seno
immune ritornati,
si soffre di non essere più frammento
vivo di te, come il boccio dormente
beato, e come quei pastori avvinti
in un unico sonno
quasi dolore e amore
stretti per sempre in un’intensa vita.
D. Grittani
J. Tusiani
M’ascolti tu, mia terra?
M’ascolti tu, mia terra? All’infinita
tenebra (a me sembra infinita, eterna)
il grillo ancora invia
il suo messaggio antico, ed alla luna
esce a guizzar la serpe, e sul pantano
canta la vecchia vicenda la rana,
ed or si sente nascer sulla via
una canzone; è il carrettier che torna.
In questo mondo innocuo e tranquillo,
in pace sí sovrana,
forse son io soltanto
che parlo a te questo linguaggio strano,
questo amarissimo inutile pianto.
Io so che tu m’ascolti. Ha roso il vento
e portato nell’onda
un masso di tua roccia, e sette inverni
han gravato i tuoi fianchi seppellendo
nelle nevi i tuoi fiori e sette aprili
han ferito di gioia il tuo grembo,
ed hai sofferto lacerazioni
d’uomo e schianto di nembo.
Eppur sei buona ancora e sei materna.
E tutto perdoni,
mia terra, e il tuo silenzio è più che voce
al fior che, nato nell’idea eterna,
questa notte, fra breve la corolla
aprirà sulla zolla
stupita, a me che, giunto qui per mille
gestazioni amare, qui rinasco
e dico all’ure: «O mistero di gloria
dove nascere è bello io sono nato!»
Uomini e cose, udite! Il fiore è nato
e il fiore brama il sole, e vuol l’infante
la vita. Aspetta il vento giù la vela
spiegata e ad esser bella attende il raggio
la rugiada ch’esiste e non si svela
ancora. Io sento che è segno d’aurora
questo brusio tra le cime, quest’alito
313
314
Verso Sud
sopra la vetta più grande, su tutte
le vette. Io ti conosco,
fremer di cento cerri, canto d’arpa
timida e tinnula, or che ogni sogno
sembra finire in colore, e il colore
sembra mutarsi in cuore
d’iomo. Correte, accorrete alla festa
del monte che si dora,
della foresta che bella si desta
al giomo! È tardi già: quel che fu oro
è croco, e cresce già sopra la crosta
glabra un filo di bianchissimo crespo,
e in un mar di candore la notte è naufragata,
e in tutta questa luce il mio dolore.
D. Grittani
315
Ex voto
Alfonso Gatto
Alfonso Gatto (Salerno 1909 - 1976). Tra le numerose testimonianze letterarie
lasciate quale “futura memoria” delle pietre del Gargano, figura anche la breve
ma bellissima Ex voto dell’indimenticato poeta Alfonso Gatto. Una prosa che
prima apparve nella raccolta Carlomagno nella grotta (Mondadori 1962,
silloge ripubblicata col titolo Napoli N. N., Vallecchi 1974) e che poi venne
inclusa nel famoso Diario Pugliese.
Da Vieste a Manfredonia la strada sale e scende tra foreste d’ombra e orizzonti
di luce, in una solitudine quasi assoluta rotta ogni tanto dalla presenza di un boscaiolo o dallo strombettare di una vecchia macchina di funzionari. Il mare s’affaccia
da ogni parte, è una piazza azzurra che ruota sotto il piede del promontorio. Si vede
il Gargano levarsi con forza dal litorale soffiato giù giù sino alla bianca cattedrale di
Trani: la sua altezza è intensa da quella soglia. Mattinata, nella valle, è più felice del
suo nome. Montagne fitte fitte di muretti, a gironi verso il cielo, e, nei ripiani,
contadini che battono il grano, gli uni sugli altri come nei quadri dei primitivi. Le
piccole case di Monte Sant’Angelo, uguali, allineate sui gradoni della roccia: il tetto,
il balcone, la porta: una stanza sopra una sotto. Gli arcangeli degli ex-voto uscendo
dalle nuvole si fermano a parlare. Ma il duro del paese è nel santuario scavato col
freddo dei marmi dentro la roccia. La stiva è carica di voti e di candele, tentenna nel
buio ove salmodiano i ciechi.
[Tratto da Carlomagno nella grotta, ALFONSO GATTO, Mondadori 1962]
317
Gargano sessantuno
Roberto Roversi
Roberto Roversi (Bologna 1923). Al poeta emiliano, fondatore assieme a Francesco Leonetti e Pier Paolo Pasolini della celebre rivista letteraria Officina,
l’occasione di un viaggio in Capitanata si presentò nel 1961, allorquando in
compagnia dei registi Carlo Di Carlo e Aldo D’Angelo raggiunse l’entroterra
garganico per realizzare un documentario cinematografico. A fare da “guida” a
Roberto Roversi si prestò il prof. Pasquale Soccio, che non mancò di mostrare
all’autore del Motore del Duemila (canzone portata alla popolarità da Lucio
Dalla) gli incantevoli tratti di montagna ispiratori di Gargano sessantuno.
In un brogliaccio del ‘61 trovo queste varie indicazioni molto dirette e molto
sommarie, che qua trascrivo lasciandole nella loro onesta e ingenua tempestività:
oggi parto da solo per il Gargano dove troverò la troupe di Di Carlo per girare i due
documentari. È un agosto molto caldo e molto sereno, un cielo tutto spianato ma
mordicchiato da piccoli fori di colore più accentuato, chiazze di azzurro peregrino,
come semi intravisti nel corpo polposo e rosso del cocomero. Sono in Abruzzo da
tempo, dove sto bene; naturalmente. Qui i rumori arrivano portati sul movimento
cauto e aggraziato, ma con una aggressività in controluce, dell’aria. Soprattutto il
passaggio dei treni, così vicino al mare, è un teatro continuo; fischiano come nel
Texas. Il breve viaggio di trasferimento è stato tranquillo e abbastanza solitario, per
niente avventuroso. L’asfalto si attaccava alle gomme dell’Appia, che sbuffava come
un cavallo intimorito indaffarato intorno (non ancora dentro) alle sabbie mobili. A
destra e a sinistra della strada, spesso vicina al mare e con cespi di gerani crocchianti
ai lati, i contadini accendevano falò per bruciare le stoppie e fumi bianchissimi,
spessi come un nebbione bolognese, s’alzavano a coprire ogni cosa. A occhi chiusi si
entrava nel nulla, nel limbo di Dante o nel cuore del mondo, ed era emozionante
ogni volta uscirne fuori e toccare o sfiorare di nuovo pietre e foglie.
Il Gargano mi piace. È così silenzioso o, meglio, è così solitario. Non una terra
318
Verso Sud
D. Grittani
abbandonata ma una terra ancora da scoprire. Strade sempre in curva sfiorano pendii pieni di olivi contorti scuri e risucchiati come le mani dello zio Rigo; e il verde
scuro, quel verde scuro, ha una solennità da poema greco, intimorisce. Quasi che
fossero lì ancora a tutela di tombe di guerrieri oppure di splendidi adolescenti toccati
da una sorte infausta o di donne caute e attente, vissute nell’attesa e nella pazienza.
Spesso si incontrano greggi che avanzano lentissime ingombrando la strada e le prode. E i pozzi davanti alle piccole masserie, gli asini che aspettano vicini ai muri,
immobili, trapassati ogni tanto da brividi improvvisi per scacciare le mosche. Pecore,
asini, ulivi e l’acqua raccolta tutelata difesa con il sentimento delle pietre perché
neanche un goccio vada perduto; l’impressione immediata di una parsimonia attiva,
di un obbligo di attenzione e di cautela per sottrarre ogni cosa, ogni piccolo bene, ai
giri e ai tiri abbastanza perversi della sorte. Aggiungo che, muovendomi, percepisco
il senso di una continua salita verso l’alto, un costante progredire in su ma gradevole,
abbastanza armonico, senza strappi e senza paura; specie perché è un continuo snodarsi di curve da purgatorio dantesco e certamente, ripeto almeno per me, con il
sentimento di una progressione liberatrice, per la conquista di un po’ più di luce, di
un po’ più di spazio a vantaggio della sorpresa del cuore. Per liberarlo dai chiodi della
terra. Non trovo altre spiegazioni. Ma poi anche i cani. I cani ci sono, ad ogni svolta,
ad ogni porta, a tutti i pozzi, fra le gambe di tutti gli asini. Abbaiano poco ma è subito
chiaro che sono lì a vigilare con una indifferenza astutissima, simulano il sonno con
il muso fra le zampe e invece seguono ogni movimento intorno, con occhi lucidi nei
quali si riflettono come in uno schermo atti voli persone, passi. Perfino le voci sembrano passare attraverso quegli occhi. Scattano all’improvviso in piedi con una rapidità e una agilità – e una furia – da pantera; quando con l’intelligenza dell’esperienza
deducono che è necessario intervenire o prevenire… Ci muoviamo spesso, adesso,
fra boschi spettacolosi, e così imponenti. Ho imparato lì dentro perfino a decifrare
alcune voci, ma tutto è come bisbigliato quasi che passasse attraverso il fiato di un
altro. I rumori o i suoni rapidi leggeri e vaganti sono cento ma nessuno infatti è
gridato. La foresta è rispettosa del silenzio e a me pare che stia attenta ad ascoltare sé
stessa. La foresta vigila e guarda; aspetta. Non lascia niente al caso. Gli alberi, così
grossi e alti che sembrano perdersi nel vuoto, mi danno la sensazione che adagio, ma
senza fatica, tutti insieme si mettano in movimento strisciando le ultime foglie, quelle più leggere fresche trasparenti, contro il cielo. La forma delle nuvole mi ricorda i
quadri dei veneziani, i grandi del Cinquecento, che con nubi o in grangia e colore e
con tempeste annunciate o in atto avevano un conto aperto e rapporti diretti. Nuvole grandi, gonfie di un latte giovane, che trasmigrano in fretta come uccelli di passo.
Alle volte hanno il bordo affumicato quasi che trascinandosi così un poco affannose
avessero strisciato sulla terra, sugli alberi, o sul dorso di una montagna.
R. Roversi
Gargano sessantuno
319
Nei paesi non siamo ancora entrati, dato l’oggetto delle nostre riprese. Ma siamo spesso al lago di Varano e al lago di Lesina. Fra i canneti della riva, al primo
approccio, mi a colpito un canotto ormeggiato, in completa solitudine, ma fresco
di vernice e con una solidissima gomena, che aveva a prua, tutta dipinta di rosso,
una mitragliatrice ruotante della prima guerra mondiale, per la caccia delle anatre.
Dicono: ne cadono a decine per volta. In una battuta anche due trecento. Un
macello. Sul bordo del lago i pescatori vivono all’estate in capanne immerse fra i
canneti, come in un paesaggio africano perso nel sogno. Tanto che si potrebbe
immaginare che si muovano intorno, attenti ma tranquilli, i leoni. Così vicino al
mare! I pescatori, allineati sulle chiuse, afferrano i cefali con le mani. Ieri sera hanno
acceso un fuoco preparandoli per noi. Ciò che mi colpisce è la straordinaria compostezza del loro comportamento. Niente di volgare o di approssimato, con l’abitudine al rispetto di regole antiche che sono ormai, così mi sembra, educazione del
sangue. Hanno capanne con interni poveri, essenziali, ma fra gli oggetti d’uso,
quasi sempre, ecco un bicchiere, una ciotola, un sasso, una immagine di secolare
fattura che la terra ha riconsegnato perché potessero continuare a collegarsi con la
propria storia; e le proprie storie. Sono sempre più coinvolto con il passare dei
giorni in questa educazione, cultura rituale (non espansa ma abbastanza cauta nel
lasciarsi visitare) che mi sfiora ma che tuttavia sento che mi aiuta passo dopo passo
a crescere, ad allargare e completare i dati della mia comprensione generale. Anche
il pane, per esempio, con quelle forme e soprattutto con quell’odore d’albero bruciato all’aria aperta, vicino al mare, farina e foglie… Poi l’altro giorno ho avuto
un’altra esperienza, di persone e di situazione, emozionante. Ho conosciuto il prof.
Soccio nella sua casa di campagna, in un posto isolato alto sul mare. È una persona
che mi fa soggezione e nello stesso tempo induce ad aprirti, a corrispondere, a non
frapporre intermittenze nel piacere anzi nella necessità di comunicare; e di continuare a farlo. Questa capacità naturale, che è rara, di sciogliere lacci e barriere per
lasciare corso all’ordine delle parole e delle emozioni, correlate ai vari problemi, è
proprio dei veri maestri. Sono passate alcune ore che non saprò e non potrò dimenticare. Per noi, che avevamo trascorsa la giornata sotto il sole per le interminabili e
talvolta tediosissime riprese ha stappato una bottiglia del 1898, un vino nero impeccabile – che si spandeva nel palato, sollecitandolo, come fa l’ombra sulla terra
quando è portata da una nube. È un atto che ci lega emozionalmente alla percezione reale del tempo, alla scansione dei moti della storia; e non credo sia troppo
ingenuamente retorico se uno come me, obbligatoriamente cittadino, e di una città
conficcata nella schiena solida e polputa di una pianura senza mare, pensa (anzi,
direi, può sentire dentro al pensiero) che un tale vino era già nella bisaccia dei
soldati di Roma. Dalle mie parti invece la storia è solo da museo, catalogazione di
320
Verso Sud
D. Grittani
oggetti e di dati. Con il prof. Soccio si può parlare di tutto. Passavano le ore in
questo modo, è arrivata la notte profonda, con un cielo tanto scuro che sembrava
illuminato; in giardino, con la campagna intorno – io, Di Carlo, il professore e un
suo giovane parente – seduti, a me è precipitato addosso come l’irruzione improvvisa di un vulcano senza fuoco il sentimento anzi la sensazione reale dell’infinito
dilatato sopra di noi nel palpito di tutte le luci del cielo; e quella altrettanto e forse
anche più emozionante, conturbante, del silenzio totale; completo. Il mondo era
vivo ma in quel momento niente si muoveva; la natura era lì eppure sembrava
trattenersi per non intaccare la perfezione di quel momento indicibile – che poteva
ripetersi sera dietro sera. Era come se la terra, anche la terra, aspettasse qualche
evento particolare e inglobasse inghiottendo rapidamente ogni sia pure piccolo
fruscio – avida di quel momento di assoluta sospensione. Infatti, era tanto il silenzio che si aspettava qualcosa. Si muoveva perfino sulle nostre braccia, sul collo come
un fiato trasparente delle cose. Era qualcosa di inesplicabile che questa terra conservava e dunque difendeva a segno della propria sovranità, della propria cultura; e
della propria storia. Durò a lungo, per me. E io ho finito per accasciarmi quietamente nel sonno, per entrare a piedi nel regno dei sogni magici – dove non c’è più
una fine per la vita dell’uomo.
Devo questo spaccato di meraviglia al prof. Soccio, uomo di studio che non
dimenticherò. Sono ripartito dal Gargano muovendo poi da S. Giovanni Rotondo,
che è un paese tutto bianco e molto grande. Dove c’è padre Pio. Grandi palazzi e un
muoversi di tanta gente. Mentre mi allontanavo girando le curve, e da lontano,
calando la sera era tutto illuminato come una città del nord. Con abbondanza di
luci terrestre, che il buio non beve. Pensavo ai pescatori, che a quell’ora non avevano acceso ancora le loro lampade, o le avevano già spente. E al prof. Soccio che,
forse, era già seduto nel suo piccolo giardino a contemplare la notte. Portavo con
me due forme di pane…
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Oltre l’isola dei coatti qualcuno ha chiamato
Anna Maria Ortese
Anna Maria Ortese (Roma 1914 - Rapallo 1998). Narratrice e giornalista,
nata in una famiglia molto povera, Anna Maria Ortese si distinse nel panorama letterario italiano ormai quarantenne grazie a Il mare non bagna Napoli
(1953). Poi fu la volta di Poveri e semplici (1964) e del suo primo romanzo
L’iguana (1965) che però non riscosse la fortuna che invece avrebbe meritato.
Seguì la tormentata opera Il porto di Toledo (1975), quindi un lunghissimo
silenzio narrativo rotto soltanto da Il cardillo innamorato (1993). La prosa
che qui riportiamo fa parte invece della bellissima raccolta di impressioni di
viaggio dal titolo La lente scura (1991).
Il Gargano mi ha offerto un tale numero di sorprese, in due giorni, che ancora
adesso ne serbo l’immagine di un paese stregato. Qui, la bellezza celeste delle cose,
ha isolato e perduto gli uomini. In alcuni momenti, sembra non vi sia altro che
beatitudine, subito dopo avvertite la presenza di un nero sconforto. Dopo le selvagge impressioni della sera precedente, fra la spiaggia e gli antri domestici di Peschici,
e una lunga notte trascorsa nella locanda di Rodi, minacciata da presso dal vento e
dal mare, che in quell’incertezza del buio esasperavano la loro potenza, non credetti
a me stessa, quando la mattina dopo, aprendo le imposte, vidi davanti alla casa un
mare liscio e celeste e grande, che nella luce nuovissima del giorno brillava con la
stessa freschezza, faceva sentire la stessa voce favolosa dei mari apparsi a Omero
nella sua Iliade.
Sotto la finestra, certi pescatori, seduti su uno scalino, alcuni fumando, chiacchieravano. Ai loro piedi, grovigli di reti molli e intricate come chiome, e cestini
anche neri, dove guizzava ancora, silenzioso e fulgente, il pesce azzurro e rosato. La
stagione era finita, sulla spiaggia non si vede altro. Andai in cerca del fotografo, e
seppi che la sua ardimentosa «topolino» stava poco bene, e in attesa che il meccanico la aiutasse a riprendere le forze, decidemmo di dare un’occhiata a Rodi. Facem-
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Verso Sud
D. Grittani
mo una strada sola, tutta rampe, quella che dalla piazzetta di Rodi porta al mare,
credo si chiami via Ferrucci.
Da tutt’intorno, cominciava ad affacciarsi gente, apparivano busti nelle finestre
piccolissime, come mezze figure in una cornice chiara. C’era molta infanzia, seduta
per terra, come in tutta Italia, bambini vestiti alla meglio, coi cenci dei grandi,
creature la cui esistenza è affidata, come quella dei fiori selvatici, alla bontà del cielo,
alla clemenza dei venti, bambini protetti da ben poche cose, al mondo, salvi per
caso, cresciuti per puro miracolo. Mentre le donne parlavano e ci raccontavano la
loro vita e il numero dei figli, con una specie di gentile lamento, vedemmo venire su
da una rampa bianchissima sul fondo turchino del mare, un fraticello minuto, di
poco più di cinque anni.
Levava un piedino dopo l’altro, nell’impaccio della tonaca, difendendosi con una
manina lo sguardo. La sua testina brillava al sole, come una pallida arancia, e più
pallide erano, quando le scorgemmo, le sue guance, le labbra. Era Tonino Fontanarosa,
che questo inverno è stato malato e la sua mamma gli ha fato un saio, per voto, ma
ancora non è sanato. Vedendoci, sorrise appena e aggrottò le sopracciglia. I suoi chiari
occhi erano tutti arrossati, e a mala pena sopportava la luce del sole, ma circa questo
particolare, nessuno seppe dirci niente, se non «malato... malato... ». Il fotografo fece
scattare molte volte l’obiettivo, e tutti erano molto contenti, ora, sia Libera Altomare,
che nella sua vita era stata sempre messa da un lato, sia Colajanni Maria, che seduta
sulle scale andava pulendo la verdura, sia Russo Concetta, ch’è molto stimata fra tutti
perché possiede un paio di occhiali, sia Lina di Lelle, ch’è una graziosa ragazza, e altri.
E tornò, a ritroso, il paesaggio della sera prima. Ecco Peschici sotto il sole. Questa volta entriamo diritti in paese, abbagliati da una luce ardente, che accorcia o
elimina ogni ombra. Non c’è che bianco e azzurro. Sembra una favola. La macchina rimane in bilico tra una strada e un marciapiede che si rassomigliano tanto da
confondersi, circondata dai soliti cacciatori di lampadine, e noi ne usciamo storditi,
ma ansiosi di conoscere finalmente Peschici.
Dopo due minuti di strada, eravamo sicuri di aver raggiunto uno dei posti più
squisiti del mondo. Forse, era il punto più alto della collina. Alla nostra sinistra,
non era che un ricamo bianco, con appena qualche nota di azzurro e di rosso, data
dai fiori e dall’erba, trama nivea di case, terrazze, scalette, balconi. In fondo a tutto
il cobalto assoluto del mare. Donne e bambine uscivano ogni tanto dalle case,
vestite di nero e raramente di chiaro, come sembra usi in tutta la Puglia, portando
sul capo, con cura paziente, grandi latte per la benzina, e si dirigevano verso un
pozzo bianchissimo, situato dove la stradetta terminava, contro la grande luce del
mare. Tutta Peschici, ci dissero qua e là, era piena di quei pozzi. Solo dieci case
erano provvedute di un elementare servizio igienico, e in quanto alle fontane non
A.M. Ortese
Oltre l’isola dei coatti qualcuno ha chiamato
323
davano acqua per qualche ora. Ce lo dissero, quelli che stavano seduti sulle porte,
uomini e donne, con un sorriso curioso: dove la vergogna era diventata divertimento, e l’ira un sorriso e una sassata. In non vedevo la Puglia da moltissimi anni, e ora
mi andavo lentamente ricordando ch’era stata sempre così, un’esistenza sprovveduta e ferice, un sole tremendo e una terra dimenticata, dove il livello di vita nelle
campagne era poco più su di quello animale. Non eravamo che a poche centinaia di
chilometri da Roma, col suo Governo, le Ambiasciate, i miliardi profusi come le
lampade elettriche, e qui cadeva l’ombra delle caverne.
La signora Lucrezia Falco, ex presidente delle Dame cattoliche, e ora, insieme a
suo marito, l’ex maresciallo dei carabinieri Vincenzo Massa, proprietaria della locanda dove ci fermammo a mangiare, non dava però molta importanza a tutto
questo. Anadando e venendo dalla cucina, invasa dal fumo della legna ci parlò
invece delle altre benemerenze di Peschici: tre chiese, di cui una in campagna, un
asilo retto dalle suore, alcuni locali scolastici per le elementari, un piccolo presidio
con un brigadiere e due carabinieri, un regolare servizio di Finanza, con due o tre
appuntati e qualche guardia, un ambulatorio per gli incidenti minimi, mentre per
un pronto soccorso più serio bisognava recarsi a Foggia o a S. Severo. Ci parlò
soprattutto, quasi religiosamente, dei quattro o cinque grandi proprietari di terre di
Peschici: Della Torre, Martucci, Vigilante, Martella. A ciascuno di questi nomi, la
voce le si addolciva, gli occhi mandavano reverenti lampi.
La luce del giorno era giunta a quel punto che pare stia ferma, in uno splendore
caldo, e un po’ triste, che dà sangue alle rocce e al cielo, ed è il momento preciso che
comincia a mancare. Erano le cinque del pomeriggio, e lasciata la macchina sul
bordo della strada, camminavamo con gli occhi alle porticine oscure delle grotte. Il
chiarore del tramonto doveva entrare là dentro, attraverso l’esile trama delle tende,
assai bello, come una luce di speranza e insieme di morte. Molti ragazzi ci seguivano, come sempre, viluppo di granchi e di uccelli. Erano neri, vivissimi, e fra tutti
spiccava la testa stranamente aggressiva, rapata, di Maria di Mele. Sotto la strada, si
stendeva quieto, senza una sola cresta, il mare. Là in fondo, molto lontano, c’erano
le Isole Tremiti, con la loro colonia di coatti. «Bellu giovane, fammi la fotografia!»,
gridava continuamente, in quella gran pace, la voce metallica e dura di Maria di
Mele. Essa era poco più grande di un gatto, ma intere generazioni di pirati fremevano in lei. Ripeteva il suo grido ogni cinque secondi, con uno scatto dove trapelava
sempre più viva la meraviglia e l’ira di non essere obbedita. Non le bastano le lampadine, ne aveva già ottenute due o tre, lasciandosi sui compagni e strappandole
loro a colpi di unghia, voleva la fotografia; nei suoi occhi nerissimi e lucidi di volatile, appariva il vigore e il tremito di un coltello. «Bellu giovane, fammi la fotografia!».
Il mio compagno di viaggio non le dava troppo retta, andava invece guardando su,
324
Verso Sud
D. Grittani
alle porte che si aprivano nella roccia. Si affacciò, a una di quelle, una donna con un
bimbo in braccio, e subito, spaventata, si ritrasse: non così in fretta che il sole che si
spegneva di fronte, nel mare, non le mettesse un baleno sui denti.
Ci accostammo a un’altra porta, e qui, dopo qualche titubante, carbonelli Mattea,
moglie di un bracciante, acconsentì a farci entrare. Era una donna giovane, un po’
sciupata, con un sorriso sincero. Alzò appena una mano come a dire «tutto qui», e
lasciò che guardassimo. C’era la miseria, in quell’antro, ma tutto era in ordine, quieto, pulito: il letto sotto la bassa volta di roccia, per gli sposi e i due bambini, il tavolo
con i ritratti, i cestini e gli utensili di cucina attaccati in giro, i fasci di legna, gli abiti
e la roba da rammendare accantonati in un angolo. La voce della donna, quando
parlò, era incerta come il sorriso. Non si lamentò del suo alloggio. Disse soltanto di
sperarne, in seguito, un altro, «di vera pietra, più grande». Questo misurava forse tre
metri, era stretto e umido. «E come lo paghereste?», io dissi. Essa si confuse. Ammise
che suo marito guadagnava quattrocento lire al giorno solo per tre mesi l’anno.
Riudivamo dalla strada, sempre più accesa e insistente, la voce di Maria di Mele,
che implorava e comandava una fotografia. Fosse l’ora, o le cose che avevamo viste,
cominciava a farci paura quell’esserino. Lasciando la moglie del Carbonelli, e mentre riscendevamo pensierosi la scaletta, pregai il fotografo di accontentarla. Essa
cominciò a saltargli intorno, con l’inquietudine di un lupo, allarmata e orgogliosa
insieme. Per calmarla, mentre il fotografo andava innestando una lampadina, le
chiesi di ripetermi il suo nome e cognome, e mi accinsi a scriverlo in un taccuino.
Non ho mai visto un cambiamento più repentino e straordinario in una fisionomia. Da adulto e cattivo, quel viso si rifece infantile, tenero. I lineamenti si
distesero; gli occhi piccoli e foschi si allargarono e risero. Una grande, una meravigliosa risata di gioia. Poi, guardando i compagni, guardando le rocce, e la gente
ch’era affacciata alle rocce e guardando l’aria e il mare, e come bevendo e godendo
improvvisamente di tutto, cominciò a gridare: «Mi ha scritta e mi basta, mi ha scritta
e mi basta, mi ha scritta e mi basta.»
Il fotografo aveva scattato qualche fotografia, ma essa era già corsa via. La ritrovammo più tardi nella macchina, seduta accanto alla guida, con gli occhietti buoni,
ma fieri e felici come quelli di una signora: con una faceva dietro i vetri, ai compagni che la guardavano estatici, vaghi segni di saluto. Fu forza farla scendere a terra.
Non ci odiava più, pensava. L’avevamo scritta, legata a qualche cosa, a qualcuno:
oltre tutto quel mare, oltre l’isola dei coatti, oltre i boschi e le pietraie di questa
terra, qualcuno aveva chiamato il suo nome, a cui la sua infanzia era cara, le aveva
fatto intravedere l’approdo a una civiltà, un giorno, una vita.
[Tratto da La lente scura. Racconti di viaggio, ANNA MARIA ORTESE, Marcos y Marcos, Milano 1991]
PARTE XVI
Isole Tremiti
327
Le Isole Tremiti
Émile Bertaux
Émile Bertaux (Fontenay-sous-Bois 1869 - Parigi 1917). Storico dell’arte, docente all’Università di Lione, tra le sue opere vanno citate Le tour du monde
(1899), L’art dans l’Italie méridionale (1904) e Donatello (1910).
Da Rodi vedevo l’arcipelago delle Tremiti stagliarsi sull’orizzonte del mare e non
potevo resistere alla tentazione di recarmici per guardare da vicino le isole che, col
Gargano e il Tavoliere, un tempo hanno dato vita al regno fantastico di Diomede.
Molti ricordi storici mi spingevano là. Se non potevo sperare di scoprire la tomba di
Giulia, nipote i Augusto, che morì esiliata in questo scoglio sperduto, contavo di
trovare alcune rovine dell’abbazia che, al tempo della potenza benedettina, fu un
Monte Cassino in mare aperto. Noleggiai dunque una barca di pescatori in una
bella mattinata e un buon vento di scirocco. Il viaggio fu accidentato. I marinari,
prudenti come i compagni di Ulisse, evitarono di lasciarsi trascinare dal vento contrario, diritto sulle isole. Seguendo l’usanza antica, costeggiarono la montagna fino
alla punta che separa le due lagune di Lesina e di Varano, e che dista da Tremiti non
più di venti miglia marine. Ma a mezzogiorno cadde la calma, che i marinai dell’Adriatico chiamano la «bonaccia morta». Dopo avere appreso in poche ore tutte le
bestemmie che un pescatore del Gargano può proferire contro i Santi e Cristo in
persona, quando è scontento di loro, arrivata la sera, gettammo l’ancora dinanzi alla
spiaggia deserta di Varano e dormimmo, né bene né male, nella barca stessa, sotto la
vela. L’indomani prima dell’alba, il vento di terra ci trascinò al largo e alle undici del
mattino, più di venti quattro ore dalla partenza da Rodi, sbarcavo finalmente alla
piccola «marina» dell’isola di San Nicola. Carabinieri e guardiaciurme, armati fino
ai denti, ci aspettavano sulla spiaggia: quest’isola, infatti, come l’Elba e una delle
Ponza, oggi funge da bagno penale. Tiro dalla tasca l’autorizzazione ufficiale a visitare le prigioni e le caserme, che mi era stata concessa, con la più perfetta cortesia,
dal governo italiano, e, sotto buona scorta, mi incammino per sentieri coperti,
328
Verso Sud
D. Grittani
oltrepassando postierle fiancheggiate da torri e percorrendo tutto un dedalo di
fortificazioni del XVI secolo. Il direttore della prigione mi riceve molto amabilmente, mi invita a pranzo e mi fa preparare una stanza. Un pomeriggio e un’intera
mattinata sono appena sufficienti per esaminare attentamente il terreno e le costruzioni. Le Tremiti sono tre: l’isola di San Nicola, cinta dalle costruzioni dell’abbazia
fortificata, oggi trasformata in luogo di detenzione; l’isola di San Domino, interamente boscosa o coltivata, dove i benedettini facevano un eccellente vino che serve
ancora alla messa del buon prete dell’isola vicina, e di cui io posso, conoscendolo,
vantare l’aroma e il bouquet. L’isola Caprara, molto più piccola delle altre due, è
arida e deserta. Dall’alto del faro dell’isola di San Nicola si scorge ad est Pianosa,
dove, con una buona vista, si possono distinguere due capanne di pescatori. Più
lontano ancora, proprio in mezzo all’Adriatico, è Pelagosa che non appartiene più
all’Italia. Da pochi anni, l’Austria ha in possesso quest’isola deserta, come res nullius:
il che provocò le proteste violente del deputato Carlo Imbriani, il terribile ragazzo
dell’irredentismo. Ho potuto, nel corso di un viaggio a bordo del Sénégal, passare a
mezzo miglio da Pelagosa. Quest’isola è un sorella delle Tremiti, così perfettamente
identica alle isole italiane, da sembrare uscita dallo stesso blocco di calcare. Della
stessa formazione sono le grandi isole dalmate, di cui la più vicina è Lagosta. Si deve
dire però che le Tremiti, con la foresta di San Domino e la faccia pelata di Caprara,
sembrano un piccolo Gargano con le sue due regioni, una arida, l’altra verdeggiante,
che un cataclisma avrebbe mandato in pezzi. E nel vedere le pareti frantumate di
queste isole, che sembrano essere state violentemente separate, si è presi dall’evidenza di questa ipotesi, messa in luce da Suess: la montagna italica e le isole vicine
hanno fatto parte di un grande continente adriatico, un giorno crollato, come le
isole dalmate.
L’abbazia, così arditamente costruita su questi scogli, che sembrano pronti essi
stessi a sprofondarsi in un terremoto, non ha conservato costruzioni anteriori alla
fine del secolo XVI. Solo la chiesa contiene pezzi considerevoli di un pavimento
istoriato del XII secolo e un magnifico retablo veneziano di legno scolpito e dorato.
La faccia, decorata con buone sculture, porta i buchi delle palle di cannone che nel
1809 la flotta austro-russa lanciò contro il battaglione cisalpino che difendeva l’isola, in nome di Napoleone. Già, nel XVI secolo, la superba fortezza dei benedettini,
allora in possesso dei Regolari Lateranensi, aveva resistito coraggiosamente all’attacco dei vascelli turchi, comandati dal pascia Pialy. Quando volli lasciare l’isola, il
vento si era alzato, e, per ritrovare la terra ferma, dovetti prendere una barca di
pescatori dell’isola di San Nicola e far rotta per Termoli. La bora aspra e fredda
sollevò la barca leggera; le onde alte spumeggiavano e sbattevano contro la bordatura. Un branco di delfini apparve sulla nostra scia e ci sfidò alla corsa. Allora io mi
E. Bertaux
Le Isole Tremiti
329
ritenni fuori del nostro secolo in questo battellino, simile a quelli che avevano portato verso la montagna cinta di nuvole, i pirati ellenici o illirici, in mezzo ai familiari
delfini che ascoltavano la musica delle isole greche popolate di poeti, e che avevano
trasportato sui flutti dell’arcipelago il cantore di Lesbo. I gabbiano che sfioravano la
barca, lanciandoci un grido di richiamo, non erano i compagni di Diomede che
Zeus, dopo la morte dell’eroe, trasformò in uccelli marini? Così mi lasciavo andare
sul filo dei ricordi classici, quando un marinaio si mise a intonare una canzone
contrastante col ritmo lento e doloroso dei canti dei montanari del Gargano. Un
nome mi colpì: «Caserio!». E capii, ascoltando altre prole che suonavano stranamente sulla bocca di questi uomini semplici: «Sociale», «l’Internazionale»… Un
altro marinaio, trascinato dall’esempio, prese a cantare l’«Inno dei lavoratori». Quelli
che avevano portato questi canti di nuove battaglie nell’isola di Diomede, di Giulia
Augusta e dei monaci di San Benedetto, erano gli ottocento uomini di ogni nazione, di ogni sorte, che il capriccio di un ministro dittatore aveva riunito su quest’isola, in cui dovevano trovare, secondo un amabile eufemismo, il domicilio forzato,
domicilio coatto. Gli isolani di Tremiti cantavano al mare le canzoni sovversive
degli «anarchici» di Crispi.
[Tratto da Le tour du monde, tomo IV, giugno 1899, traduzione di Antonio Motta]
PARTE XVII
Poesie
333
Lettera a Padre Pio da Pietrelcina
Gabriele D’Annunzio
Sebbene l’archivio del Vittoriale parli di un incontro tra Padre Pio e il poeta
abruzzese, è davvero difficile stabilire se nell’agosto del 1924 i due grandi personaggi storici si siano davvero incontrati. Certa è invece questa appassionata
missiva che il vate inviò al frate delle stimmate, invitandolo a fargli visita «nel
suo eremo».
Mio fratello,
so da quante favole mondane, o stupide o perfide, si è offuscato l’ardore verace
del mio spirito. E per ciò m’è testimonianza della tua purità e del tuo acume di
Veggente l’aver tu consentito a visitarmi nel mio Eremo, l’aver tu consentito a un
colloquio fraterni con colui che non cessa di cercare coraggiosamente sé medesimo.
Caterina la Senese mi ha insegnato a “gustare” le anime. Già conosco il pregio
della tua anima, Padre Pio. E son certo che Francesco ci sorriderà come quando
dall’inconsueto innesto prevedeva il fiore e il frutto inconsueti.
Ave.
Pax e bonum malum et pax
Gabriele D’Annunzio
[Lettera indirizzata a Padre Pio in San Francesco, pubblicata su Il Vittoriale del 28 novembre 1924]
335
Tavoliere controvento
Elio Filippo Accrocca
Elio Filippo Accrocca (Cori, Latina 1923 - Roma 1997). Poeta e critico d’arte,
insegnò per alcuni anni all’Accademia di Belle Arti di Foggia. Tra le sue opere
più significative Reliqua umana (Scheiwiller 1955), Ritorno a Portonaccio
(Mondadori 1959) e Siamo non siamo (Rusconi 1974).
L’indomito segno toglie la maschera agli «oggetti»
che tu assapori dentro, senza inganni,
mescolati nel gesto che riaffiora
da remote radici: volti umani
incisi dall’iperbole
che sa il raccolto stento della vita.
Mani da pesa ove si culla il fiato
dei figli, come dono
d’un mistero svelato,
hanno solchi di terra, arata febbre
nel possesso del nulla...
Ma lo zoccolo dei tuoi cavalli
s’impenna come furia
scagliata controvento ed è l’attrito
del ferro sulla pietra. Una scintilla
riaccende il fuoco delle cattedrali
esposte sopra il grano.
Spazio e rabbia maturano parole
come fionde per il nuovo alfabeto...
[Poesia tratta da Siamo non siamo, ELIO FILIPPO ACCROCCA, Rusconi, Milano 1974]
337
Dal pattume dei secoli...
Cristanziano Serricchio
Cristanziano Serricchio (Monte Sant’Angelo 1922). Tra le voci più originali
della nuova poesia pugliese, più volte segnalato dal Premio Internazionale Eugenio Montale, di Cristanziano Serricchio vanno citate le sillogi poetiche L’occhio di Noè (Rebellato 1960), Stele Daunie (Lacaita 1976), Poesie 19781992 (Editori Associati 1993) e la più recente Polena (Tracce 1997).
Dal pattume dei secoli frantumi di vicende
setacci, e cossi taglienti come gridi
tramutati in onde larghe di gabbiani
che antichi miti ammucchiano nel mare.
Non danno più vita gli innumerevoli
uteri scavati nella roccia: vi si attorce il fico
con amare radici e il ramarro snida
la vipera gonfia d’accecante veleno.
Le parole sono ancora pietre rotolate fra i dirupi
del tempo, spettrali teste a pinnacolo
sui tondi coperti delle tombe-culle
senza nome o nenia che s’alzi dopo l’alba.
Il linguaggio del neolitico dauno
come il mio il tuo di sempre e di domani
ha lo stile geometrico della ceramica
dipinta a bande rosse e nere,
ma fesso come il vaso frammentario
nel terriccio che setacci sotto l’alta estate
e l’insopportabile cicala nell’etera luce.
[Poesia tratta da Stele Daunie, CRISTANZIANO SERRICCHIO, Lacaita, Manduria 1976]
339
Sante Mattéie
Giacomo Strizzi
Giacomo Strizzi (Alberona 1888 - Torino 1961). Della romantica poesia dialettale di Giacomo Strizzi, caso quasi unico nel panorama letterario italiano, si
sono occupati tra gli altri Eugenio Montale, Tommaso Fiore, Pier Paolo Pasolini
e Francesco Piccolo. Tra le sue raccolte poetiche più conosciute Fattarédde e
quatrétte (Il nuovo Belli 1959).
Juste a sante Mattéie,
muccecate u quatrate
d’o cacciune ‘rrajate,
ndo delirie d’a fréve,
com’a n’aspeda-surde,
pe ‘ntéerre ze sturcéve.
Cercènne, a pòvra mamme,
stujarle, pe nu pizze
d’u maccature, a vócche,
iisse sgregnave: - Arràssete,
oie, ma’ ncóre te mòccheche! -
[Poesia tratta da Fattarédde e quatrétte, GIACOMO STRIZZI, Il nuovo Belli, Roma 1959]
341
Viaggio in Puglia
Maria Luisa Spaziani
Tra gli autori che questa antologia si onora di ospitare figura anche Maria
Luisa Spaziani, la celebre poetessa torinese la cui vita è ormai indissolubilmente
legata a quella del grande Eugenio Montale. Difatti, continuamente invitata a
conferire sulla figura poetica del Premio Nobel genovese, dev’essere capitato che
di transito per la Puglia la Spaziani non abbia opposto resistenza al suo istinto
creativo, dando così vita ai versi qui riportati.
Cinquanta minuti d’aereo nel tratto Roma-Brindisi
danno assurdi complessi nei confronti di Orazio.
Lui sobbalzava a ogni ciottolo, beveva a ogni taverna,
se fosse morto per strada sarebbe ancora là.
Noi corriamo corriamo ma il diavolo sghignazza
perché sa, vecchio saggio, la vera verità.
I gesti e i movimenti si annullano a vicenda
e i trentamila giorni sfumano, a Thule o qua.
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Lamento per il Sud
Salvatore Quasimodo
Salvatore Quasimodo (Siracusa 1901 - Napoli 1968). Ovvio annoverare il
Premio Nobel del 1959 tra i maggiori poeti della letteratura contemporanea.
Durante un viaggio verso Milano, dove Quasimodo insegnava presso il Conservatorio Giuseppe Verdi, il poeta siciliano fu costretto a sostare per alcune ore in
Puglia a causa di un’anomalia al locomotore del treno su cui viaggiava. La
poetica immobilità del panorama, fissata attraverso il finestrino, gli suggerì i
versi da tutti conosciuti col titolo di Lamento per il Sud.
Oh, il Sud è stanco di trascinare morti
in riva alle paludi di malaria,
è stanco di solitudine, stanco di catene,
è stanco della luce della sua bocca
delle bestemmie di tutte le razze
che hanno urlato morte con l’eco dei suoi pozzi
che hanno bevuto il sangue del suo cuore.
Per questo i suoi fanciulli tornano sui monti,
costringono i cavalli sotto coltri di stelle,
mangiano fiori d’acacia lungo le piste
nuovamente rosse, ancora rosse, ancora rosse.
Più nessuno mi porterà nel Sud.
E questa sera carica d’inverno
è ancora nostra, e qui ripeto a te
il mio assurdo contrappunto
di dolcezze e di fuori
un lamento d’amore senza amore.
345
Da Foggia a Lucera correndo...
GIUSEPPE UNGARETTI
Da Foggia
a Lucera correndo
con i suoi fari inquieta
....................................
[Poesia tratta da Un grido e paesaggi, GIUSEPPE UNGARETTI, Mondadori, Milano 1952]
347
Segnorina pugliese
Luciano Luisi
Luciano Luisi (Livorno 1924). Nato da padre pugliese, Luciano Luisi ha conservato di questa regione (e della Capitanata in particolare) un ricordo molto
vivo. Critico d’arte e letteratura, nonché egli stesso pregevole poeta, Luisi per
alcuni anni ha insegnato all’Accademia di Belle Arti di Foggia, curando le
pubblicazioni di molte case editrici locali ed elevando notevolmente il dibattito
culturale foggiano dei primi anni Ottanta.
Ha sapore di menta quest’aria
che allontana l’azzurro dalle pietre.
La prima ombra inventa
una precaria tenerezza in te.
(Tra i pini dell’Ardenza
perdersi in questo fiato
che ha dilatato il cielo e riconduce
i sogni a una pervenza!)
Al tuo paese
l’estate è una campana
che chiama ad una festa.
Ma qui, sulle strade di polvere,
le viole non fioriscono, qui batte
le pietre il passo duro dei soldati
a cammini a cercare una freschezza
con una inquieta nostalgia di prati.
Cammini sui confini
della piazza, cammini verso il mare
Verso Sud
348
tra gli archi ove s’impiglia
il vento della sera e ti protendi
all’inasprito volo dei gabbiani.
(Forse la vita è oltre, ove non giunge
l’ombra di queste guglie, ove finisce
un tempo e un altro s’apre all’imprevisto
e un evento è li domni, da tentare).
Ma basta un cenno e torni senza pena,
e dici parole d’amore.
(vengono vannogli stessi soldati,
non hanno nome, non sanno come ti chiami).
Torni
al giardinetto della statua equestre
(il mare è sugli scogli a disperare),
costretta come un albero alla terra,
ma dal tuo cuore sale
uno svolo di sogni sulla piazza.
Ora la bocca che conosce il fiato
di mille solitudini si placa
nel fuoco innocuo d’una sigaretta.
(Anche fumare è accendere nell3aria
un segno vivo, una bandiera umana
di speranza, se da lontano stride
l’ultima ruota in fuga lungo i Fossi).
Tu sorridi a chi passa:
meno vuota è la notte.
[Poesia tratta da Un pugno di tempo, LUCIANO LUISI, Guanda, Parma 1967]
D. Grittani
349
Stringe l’inverno...
Michele Urrasio
Michele Urrasio (Lucera 1937). Poeta raffinato, persona schiva e riservata, ha
firmato opere che hanno suscitato l’interesse di Giorgio Bárberi Squarotti e
Mario Sansone. La poesia riportata in questa sede è tratta da una delle raccolte
più significative del poeta lucerino, cioè L’infinita pazienza (con prefazione
proprio di G.B. Squarotti, Edizioni del Rosone 1992).
Stringe l’inverno delle nostre fughe
il campanile a picco sul Tavoliere riarso.
Lungo la balza scoscesa rotolarono
- a brani - i sogni che si illusero
di saperci uomini sicuri
nel perimetro del mondo sconfinato.
Dalle gole dell’Est un vento
impietoso disperdeva le nostre attese.
[Poesia tratta da L’infinita Pazienza, MICHELE URRASIO, Edizioni del Rosone, Foggia 1992]
351
Dedicata alla mamma
ANDREA PAZIENZA
Dormi, dormi, dormi
dormi almeno tu che puoi dormire.
Io penso a te, tu non pensare a me.
Tu pensa ad un cavallino d’argento,
tu pensa ad un trenino
che con i fari accesi ti diverte,
tu pensa ad una mano che t’accarezza.
Io penso a te,
tu non pensare a me.
[Poesia tratta da Paz, ANDREA PAZIENZA, scritti, disegni, fumetti a cura di Vincenzo Mollica, Einaudi
Stile Libero, Torino 1997]
353
I pellegrine d’Incurnate
Raffaele Lepore
Raffaele Lepore (Foggia 1923 - 1989). Poeta dialettale iniziatore della lunga
tradizione dei componimenti in vernacolo foggiano, autore di molte commedie
rappresentate con fortuna anche in città dell’Italia settentrionale. Di Raffaele
Lepore abbiamo scelto - ci auguriamo in sintonia con la sua ironia - la lirica I
pellegrine d’Incurnate, che affronta con un certo disincanto l’aspetto ameno
della religiosità.
Scennèvene all’appide ’i pellegrine
’a caruvane indère, ’a cendenare,
d’Abbruzze, da ’u Gargane, d’Appennine:
gènde de tutt’età, ck’a vèra fède.
N’ôme ck’a Croce jève annand’ annande,
n’âte ck’u cambanille jève arrète;
na voce ’ndunàve: «Viva Maria!»,
’u core respunnève tutt’anzîme:
«Maria sempre evviva!» e ’a latanije
cundenuave sèmbe, ’nze fermave!
Gènde ca jève scàveze, chiagnève,
suffrève, pregàve, nen se stangàve!
Quann’ arruvave annand’ o Sanduàrie,
fatte ’i trè gire atturn’ atturne ’a Chise,
ck’i denucchie pe ’ndérre e i vrazze alàrie
sta génde lucculàve, e qualchèdune
trasènne inde, sèmbe ’ngenucchiate
s’avvecenave, lènga strascenùne
fin’a l’altare andò stève ’a Madonne;
cercave ’a grazie e i lacreme sengère
354
Verso Sud
D. Grittani
cadèvene pe ’ndèrre tonne tonne.
Ditte i raziune, e avute ’u sègne ’mbronde
d’o prèvete, cke l’uglie d’a Madonne,
’i pellegrine èrene già pronde
p’ascì a gruppe oppure ’a specciulate.
Finalmènte ind’o vósche se magnave:
na merènne purtàte ind’a mappàte.
Ma prime de turnà, è bangarèlle
ognune jève pe purtà ’u recûrde:
’u cavallucce, ’a ’ndrite ck’i nucèlle,
’a medagliozze, ’a pupe de cartone,
i pènne gialle e rosce p’u cavalle,
na zènne de cupète, o nu pallone.
... ’A Croce annande e ’u cambanîlle arrète,
pegghiave a vie de Fogge ’a cumbagnije:
n’Avemmarie... nu mùzzeche ’a cupète.
[Poesia tratta da Quann’ère uaglione, RAFFAELE LEPORE, Foggia 1967; ristampa a cura dell’Associazione
Cittadina Foggia Viva, Foggia 1997]
PARTE XVIII
Citazioni
357
«Foggia è la città più brutta del mondo, assieme a Calcutta nelle Indie e a La Paz
in Bolivia».
Alberto Moravia
[Dichiarazione rilasciata durante una conferenza tenutasi a Foggia, presso il Cine Teatro Ariston, nel
dicembre del 1971. A questa dichiarazione seguì nei primi anni Ottanta un elzeviro pubblicato dal Corriere
della Sera a firma di Giorgio Manganelli, il quale conveniva con Cesare Brandi circa le molte bellezze della
Capitanata e condannava, invece, apertamente le incaute affermazioni di Moravia]
«Ma con tutti i posti che ci sono al mondo guarda dove mi è venuto a portare.
Nella rada di Foggia, perché la pianura concilia la riflessione intellettuale».
Vittorio Gassman
[Brano tratto dal testo dello spettacolo teatrale Camper, di Vittorio Gassman, con Vittorio Gassman,
Alessandro Gassman e Sabrina Knaflitz. Testo pubblicato dalla Longanesi, Milano 1994]
«Antò Lu Purk, priogioniero nel buio dello scompartimento respirava male, a
labbra dischiuse. Stava sognando una festa di genitori e figli all’interno di un centro
sociale occupato. A Foggia città».
Silvia Ballestra
[Brano tratto dal racconto intitolato Dams, sogni a Foggia, contenuto nella raccolta di racconti Compleanno dell’Iguana, Transeuropa, Ancona 1991]
«Questa piazza di Lucera soddisfava l’austerità e la bellezza che cercavamo. Per
questo abbiamo deciso di girare qui questo film».
Massimo Troisi
[Dichiarazione rilasciata durante un’intervista concessa sul set del film Le vie del Signore sono finite, aprile
1987]
358
Verso Sud
D. Grittani
(...) A Rodi Garganico fecero indigestione di anguille, a Vieste di carrubbe. A
Polignano furono derubati del timone dentro le grotte Palazzesi. A Brindisi trovarono un vaglia della famiglia, a Torre Chianca furono derubati del pagliolo e fecero
indigestione di frutta.
Piero Chiara
[Brano tratto dal romanzo Il piatto piange, Mondadori, Milano 1962]
(...) Il monte Gargano già si allontana, di un azzurro poco più che intenso del
cielo. Si distingue ancora il profilo da cittadella crociata di Monte Sant’Angelo e la
falcatura luminosa, celeste, del golfo di Manfredonia.
Lalla Romano
[Brano tratto da Diario di Grecia, Einaudi, Torino 1974]
359
Bibliografia
AA. VV., Narratori di Puglia e Basilicata, a
cura di M. SANSONE - S. PAOLO, Mursia,
Milano 1966.
AA.VV., Poeti dauni contemporanei, a cura
di C. SERRICCHIO - A. MOTTA - C. SIANI,
Editrice Apulia, Foggia 1977.
AA.VV., Viaggiatori antichi e moderni in terra di Bari e Foggia, Edizioni del Baricentro,
Bari 1992.
AA.VV., Mascagni ritrovato 1863/1945 l’uomo, il musicista, Casa Musica Sonzogno,
Milano 1995.
AA.VV., La Capitanata, Rassegna di vita e
di studi a cura della Biblioteca Provinciale
di Foggia, Provincia di Foggia, A. XXXIIXXXIII 1995/1996 n.s. 3 - 4.
A. CASIGLIO, I confini territoriali del “Monasterium Terrae Maioris”, Atti del 12° convegno nazionale sulla Preistoria - Protostoria - Storia delle Daunia, Archeoclub D’Italia, Tipografia Dotoli, San Severo 1990.
A. CECERE a cura di, Viaggiatori inglesi in
Puglia nel Settecento, Schena, Fasano 1991.
M. HEERRMANN-A. SEMERARO a cura di,
Viaggiatori in Puglia dalle origini alla fine
Ottocento, Schena, Fasano 1991.
M. MARCONE, Le pietre si muovono, Mursia, Milano 1989.
A. MOTTA a cura di, In viaggio per le terre
dell’Arcangelo, Comunità Montana del Gargano, Tip. Calderini, Bologna 1991.
A. MOTTA a cura di, In viaggio per la Magna Capitana, poeti, scrittori e viaggiatori tra
Otto e Novencento in Capitanata, Bastogi,
Foggia 1994.
A. MOTTA a cura di, La terra dell’Ofanto,
Piero Lacaita Editore, Roma-Bari-Manduria 1998.
R. NIGRO, Viaggio in Puglia, Laterza, Bari
1991.
A. PAZIENZA, Paz, scritti, disegni, fumetti a
cura di VINCENZO MOLLICA, Einaudi “Stile
Libero”, Torino 1997.
G. PIOVENE, Viaggio in Italia, Mondadori,
Milano 1965.
C. PRENCIPE DI DONNA a cura di, Carteggi
di Nicola Zingarelli, Società Dauna di Cultura, Foggia 1979.
T. SCAMARDI a cura di, Viaggiatori tedeschi
in Puglia nel Settecento, Schena, Fasano
1990.
T. SCAMARDI a cura di, Viaggiatori tedeschi
in Puglia nell’Ottocento, Schena, Fasano
1992.
P. SOCCIO, Omaggio a Foggia, Adda Editore, Bari 1974.
M. URRASIO, L’infinita pazienza, Edizioni
del Rosone, Foggia 1992.
361
Indice alfabetico degli autori
Accrocca, Elio Filippo 335
Alberti, Leandro 225
Alvaro, Corrado 255
Augias, Corrado 7
Bacchelli, Riccardo 137, 283
Baldini, Antonio 217, 269
Ballestra, Silvia 357
Bennato, Eugenio 103
Bertaux, Émile 327
Brooke, Jocelyn 75
Casiglio, Antonio 109
Cassieri, Giuseppe 209
Chiara, Piero 353
D’Annunzio, Gabriele 333
De Sanctis, Francesco 151
Di Lascia, Mariateresa 157
Di Taranto, Consalvo 281
Douglas, Norman 179
Fiore, Tommaso 305
Fraccacreta, Umberto 107
Gassman, Vittorio 357
Gatto, Alfonso 315
Giordano, Umberto 85
Greene, Graham 267
Gregorovius, Ferdinand 121, 247
Kantorowicz, Ernesto 71
Lenormant, François 35, 39
Lepore, Raffaele 353
Lilli, Virgilio 203
Luisi, Aldo 19
Luisi, Luciano 347
Marcone, Maria 67
Mascagni, Pietro 175
Mattielli, Egidio 275
Miller, Arthur 233
Montale, Eugenio 77, 83
Moravia, Alberto 357
Nigro, Raffaele 55
Northall, John 17
Ortese, Anna Maria 321
Parzanese, Pietro Paolo 161
Pazienza, Andrea 117, 351
Piovene, Guido 89
Pratolini, Vasco 65
Quasimodo, Salvatore 343
Romano, Lalla 358
Roversi, Roberto 317
Saint Non, Abbé de 29
Sansone, Mario 7
Schubring, Paolo 45
Serricchio, Cristanziano 337
Sinisgalli, Leonardo 199
Spaziani, Maria Luisa 341
Stolberg, Friedrich Leopold 169
Soccio, Pasquale 101
Strizzi, Giacomo 339
Tommasini, Justus 167
Troisi, Massimo 357
Tusiani, Joseph 309
Ungaretti, Giuseppe 53, 87, 141, 145,
191, 195, 259, 261, 303, 345,
Urrasio, Michele 349
Zingarelli, Nicola 173
Finito di stampare
nel mese di ottobre 2000 presso
il Centrografico Francescano. Foggia
per conto di
Claudio Grenzi Editore
ISBN 88-8431-034-2
Terzo millennio
Collana di studi
della Provincia di Foggia
1 Verso Sud
a cura di Davide Grittani
testi di
Elio Filippo Accrocca
Leandro Alberti
Corrado Alvaro
Corrado Augias
Riccardo Bacchelli
Antonio Baldini
Silvia Ballestra
Eugenio Bennato
Émile Bertaux
Jocelyn Brooke
Antonio Casiglio
Giuseppe Cassieri
Piero Chiara
Gabriele D’Annunzio
Francesco De Sanctis
Mariateresa Di Lascia
Consalvo Di Taranto
Norman Douglas
Tommaso Fiore
Umberto Fraccacreta
Vittorio Gassman
Alfonso Gatto
Umberto Giordano
Graham Greene
Ferdinand Gregorovius
Ernesto Kantorowicz
François Lenormant
Raffaele Lepore
Virgilio Lilli
Aldo Luisi
Luciano Luisi
Maria Marcone
Pietro Mascagni
Egidio Mattielli
Arthur Miller
Eugenio Montale
Alberto Moravia
Raffaele Nigro
John Northall
Anna Maria Ortese
Pietro Paolo Parzanese
Andrea Pazienza
Guido Piovene
Vasco Pratolini
Salvatore Quasimodo
Lalla Romano
Roberto Roversi
Abbé de Saint Non
Mario Sansone
Paolo Schubring
Cristanziano Serricchio
Leonardo Sinisgalli
Maria Luisa Spaziani
Friedrich Leopold Stolberg
Pasquale Soccio
Giacomo Strizzi
Justus Tommasini
Massimo Troisi
Joseph Tusiani
Giuseppe Ungaretti
Michele Urrasio
Nicola Zingarelli
Edizione fuori commercio riservata alla Provincia di Foggia
La pianura s’apre
come un mare.
Vorrei qui vederlo
nel suo sfogo immenso,
ondeggiare coll’alito
tormentoso del favonio
sopra il grano
impazzito.
Giuseppe Ungaretti