locandina film 23 edizione - Il cineforum "Il posto delle fragole"

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locandina film 23 edizione - Il cineforum "Il posto delle fragole"
CINEFORUM F.I.C.
e MOVIEPIU’ presentano
1° RASSEGNA 23° EDIZIONE 2016-2017
Proiezioni presso la Multisala Movie planet
BELLINZAGO NOVARESE
Viale della libertà 231
Inizio delle proiezioni alle ore 21,15
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CINEFORUM F.IC
e Moviepiù presentano
1° RASSEGNA 23° EDIZIONE 2016-17
Multisala Movie Planet
BELLINZAGO NOVARESE
Inizio proiezioni ore 21,15 Ingresso soci 4,00 € tessera annuale per 32 film 10,00 €
Giovedì 29 settembre
Giovedì 6 ottobre
Giovedì 13 ottobre Il
Giovedì 20 ottobre
Giovedì 27 ottobre
Giovedì 3 novembre
Giovedì 10 novembre
Giovedì 17 novembre
Giovedì 24novembre
Giovedì 1 dicembre
Mercoledì 7 dicembre
Giovedì 15 dicembre
La memoria dell’acqua
di Patricio Guzman
Al di là delle montagne
di Jia Zhang Ke
condominio dei cuori infranti di Samuel Benchetrit
L’età d’oro
di Emanuela Piovano
Appena apro gli occhi
di Leyla Bouzid
Le confessioni
di Roberto Andò
Seconde generazioni (Africa) di autori vari
Sole alto
di Danibor Matanic
I ricordi del fiume
dei Fratelli De Serio
Truman
di Cesc Gay
Il cielo può attendere
Ernst Lubitsh
Microbo e Gasolina
di Michel Gondry
Approfondimenti su www.cineforumilpostodellefragole.it
Contatti telefonare al 3405273720
e mail : [email protected]
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Giovedì 29 settembre
La memoria dell’acqua
di Patricio Guzman
Il film, vincitore dell’Orso d’argento per la migliore
sceneggiatura alla 65esima Berlinale
sinossi
Un bottone di madreperla incrostato nella ruggine di una
rotaia in fondo al mare: è una traccia dei desaparecidos di
Villa Grimaldi a Santiago, il grande centro cileno di
detenzione e tortura sotto la dittatura di Pinochet. Un fiume
che scorre e il tintinnio delle cascate: è la canzone dell’acqua
alla base della cultura dei Selknams, popolazione nativa
sudamericana trucidata dai colonizzatori. Due massacri, e la
memoria dell’acqua: sono le chiavi narrative per raccontare la
storia di un Paese e delle sue ferite ancora aperte, per
percorrere il Cile e la sua bellezza, il Cile e la sua violenza, tra la crudezza della storia e la poesia
della natura.
cast&credits
Titolo originale – La memoria del agua
Regia e sceneggiatura – Patricio Guzmán
Fotografia – Katell Djian
Montaggio – Patricio Guzmán, Emmanuelle Joly
Musica – Hughes Marechal, Miguel Miranda, José Miguel Tobar
Scenografia – Pamela Chamorro
Con – Raúl Zurita, Patricio Guzmán (voce narrante)
Produzione – Renate Sachse, Bruno Bettati, Jaume Roures per Atacama Productions/Valdivia
Film/Mediapro/France 3 Cinéma
Distribuzione – I Wonder
Durata – 82’
Origine – Cile/Francia/Spagna/Svizzera, 2015
La memoria e l'oblio
Fabrizio Liberti
La visione di un film di Patricio Guzmán, oltre a costituire un piacere estetico, è soprattutto
un’esperienza etica ed emozionale che ti lascia senza fiato, una visione che si fa necessità, per
capire chi siamo davvero e da dove veniamo. Guzmán, prima ancora di essere un regista, è un
testimone privilegiato per aver avuto l’occasione di partecipare come militante e autore del
monumentale diario visivo La battaglia del Cile (La Batalla de Chile, 1974-1979), a quella
straordinaria esperienza politica e sociale che fu Unidad Popular, satura di grandi speranze ma
soffocata col sangue di Allende e di migliaia di sostenitori dalla giunta golpista di Augusto
Pinochet. La vita di Guzmán e la sua attività come regista da allora sono rimaste ancorate a quegli
eventi drammatici, come se il tempo non fosse mai davvero trascorso. Tutta la sua produzione
successiva non si discosta dallo scopo di raccontare quei giorni ma soprattutto dal tentativo di
comprendere ed esorcizzare quella sofferenza lacerante. Ciò che negli anni si è trasformato, è lo
stile che lui utilizza per ripensare quegli eventi.
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Orso d’argento a Berlino nel 2015, La memoria dell’acqua è il suo ultimo lavoro, e si può
considerare un ideale dittico e un sequel di Nostalgia della luce (Nostalgia de la luz), un film del
2010 già trasmesso in televisione e
che il distributore italiano ha
scelto di far uscire anche al cinema
quasi in contemporanea con La
memoria dell’acqua. Da Salvador
Allende del 2004 ma soprattutto
con questi due film, Guzmán ha
abbandonato
la
narrazione
convenzionale e diretta propria del
documentario, per avventurarsi in
un racconto affascinante e dolente
che prende le mosse dai grandi
misteri della scienza e della vita. Egli sembra la materializzazione di Niccolò, il regista protagonista
di Identificazione di una donna (1982), che non riuscendo a comprendere il suo scacco personale
immagina un film di fantascienza in cui un'astronave, avvicinandosi al Sole, riesca a carpire i
segreti della creazione dell'universo e quindi anche della sua vita.
Guzmán non rinuncia all’uso della prima persona per agganciare il suo spettatore, ma si affida a
una costruzione che ricorda tanto quella spirale aurea raccontata con maestria da Sergej Michajlovič
Èjzenštejn in La natura non indifferente. Il ritmo all’inizio è pacato, quasi circadiano. La sua voce
suadente ci parla di stelle, di acqua come matrice della vita nello spazio e sul nostro Pianeta, e di
come il concetto del passato leghi indissolubilmente il lavoro dell’astronomo e quello
dell’archeologo. Poi, quasi senza rendercene conto Guzmán, attraverso lucide e straordinarie
invenzioni narrative, con una velocità che aumenta impercettibilmente ma senza soluzione di
continuità, ci mette dinanzi al vero oggetto del suo discorso, ovvero la lotta feroce tra la necessità di
ricordare e la tentazione di dimenticare, tra la memoria e l’oblio. E allora ci conduce agli inferi,
dove la chiave della soglia è un evento legato a una storia, a degli esseri umani.
Sono molti gli orditi che associano i due film in un'unica trama coerente. Innanzi tutto la nostalgia
per quell’innocenza perduta quando il regista era solo un adolescente appassionato dei racconti di
Jules Verne e di astronomia. Un tempo in cui il Cile appariva come un piccolo paradiso terrestre
lontano dalle brutture del resto del mondo e il presidente poteva passeggiare tranquillamente nelle
vie di Santiago. Poi il legame tra il Nord e il Sud, tra il deserto di Atacama e la Patagonia. Ancora,
la straordinaria affinità tra lo sfruttamento dei minatori di Atacama e il genocidio delle popolazioni
indigene della Patagonia e tutti e due gli eventi apparentati con lo scientifico sterminio dei
sostenitori di Allende. Infine la necessità di dare conto della ricerca dei corpi dei desaparecidos,
sparpagliati tra il deserto di Atacama, i vulcani andini (che dovrebbe rappresentare il fulcro del
prossimo lavoro di Guzmán) e il mare della Patagonia. Un viaggio anche geografico attraverso il
suo amato Cile per cercare di comprendere a che punto è il processo del confronto col passato di
quel Paese.
A un’altezza compresa tra duemila e i quattromila metri nel Nord del Cile , incorniciato dalle
Ande c’è il deserto di Atacama, il luogo più asciutto del Pianeta e con i cieli più limpidi, tanto che
la notte è rischiarata dalla potente luce che giunge dalle stelle. Atacama, suolo marziano, terra di
passaggio, cammino naturale per uomini e lama. In questo luogo, a partire dagli anni Settanta, sono
stati costruiti i telescopi e i radiotelescopi più potenti del mondo, protesi nello spazio alla ricerca dei
segreti della nascita dell’universo. Nostalgia della luce inizia proprio qui, con immagini di telescopi
che si muovono alla ricerca delle stelle e che sembrano quelle di Contact (id. 1997). È in questo
luogo che Guzmán articola il suo discorso, fatto di immagini stupende che non hanno nulla da
invidiare a quelle del «National Geographic Magazine» e che fanno da corollario alle struggenti
storie che ci propone. «Un documentario è come la musica da camera, ha bisogno di rispetto e
silenzio», ha detto il regista, e una musica dolce e discreta, abbinata alla sua voce suadente ci
accompagnano nel racconto di come in quei luoghi lavorino due categorie di scienziati legate a
doppio filo dal loro comune obiettivo: tornare indietro nel tempo.
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Queste categorie sono quelle degli astronomi e degli archeologi, i primi cercano l’origine del
mondo, i secondi tracce dell’origine dell’uomo su questo Pianeta. La nostalgia della luce di cui ci
parla Guzmán è innanzi tutto
quella che permette agli astronomi
di leggere eventi primordiali che
ci giungono solo ora dallo spazio
profondo dopo aver attraversato
distanze inimmaginabili. Quelle
immagini sono storia, come lo
sono anche quelle che riprende il
regista, perché, come ci spiega un
astronomo, nel momento in cui
arrivano alla videocamera sono
già passati diversi millisecondi da
quando hanno avuto origine, e
perciò fanno già parte del passato,
proprio come la luce che giunge dalle stelle. Ai piedi delle cupole dei telescopi ci sono altri
messaggi che arrivano da tempi lontani e che appassionano gli archeologi; pitture rupestri
precolombiane e corpi mummificati conservati grazie al clima particolare di quel deserto.
Accanto a loro vi è un’altra categoria di ricercatori, non riconosciuta dalla scienza ma che compie
un lavoro non meno importante e sicuramente più doloroso. Si tratta dei parenti dei desaparecidos
che a distanza di tanti anni ancora cercano i resti dei corpi dei loro cari gettati nelle fosse comuni
scavate nel deserto dai militari. «Vorrei che i telescopi non guardassero verso il cielo ma verso il
basso, verso la terra per ritrovare il suo corpo», dice una di quelle madri che ancora si aggira in quei
luoghi. A poca distanza dai telescopi che sondano la cupola stellata, i campi creati per i minatori
che lavorarono lì all’inizio del Novecento, la giunta golpista li aveva trasformati in campi di
concentramento, con l’unica accortezza di circondarli di alte palizzate riempite di filo spinato. Con
l’entrata in scena di questi speciali ricercatori, il ritmo del documentario accelera sempre più e lo
spettatore viene trascinato in un maelstrom frenetico di emozioni fortissime.
Iniziano le madri e le sorelle degli scomparsi che raccontano la pena della loro ricerca e soprattutto
il dolore di quando hanno ritrovato frammenti dei loro cari. Poi la testimonianza di Luis Henríquez,
un sopravvissuto del campo di detenzione di Chacabuco. L’uomo racconta della passione dei
prigionieri per quel cielo limpido e dei loro studi dell’astronomia attraverso strumenti costruiti
artigianalmente, che vennero poi proibiti dai militari perché temevano che le stelle potessero
guidarli in un’ipotetica evasione. Poi c’è il racconto dell’architetto Miguel Lawner, colui che nei
cinque anni di detenzione ha conservato nella sua memoria ogni dettaglio del campo che ha poi
ricostruito nelle stupefacenti incisioni fatte durante l’esilio in Danimarca. Una memoria
straordinaria la sua ma la nemesi non ha pietà. Infatti sua moglie è stata colpita dall’Alzheimer e il
regista ci regala una muta inquadratura piena di commozione dei due seduti vicini su una panchina,
che diventa un’imponente metafora del Cile di oggi stritolato nella lotta tra la memoria e l’oblio.
Infine il gorgo dell’emozione raggiunge il suo apice con la testimonianza della giovane astronoma
Valentina Rodriguez alla quale il nonno ha insegnato a guardare il cielo. Nel 1975 Valentina, all’età
di un anno, fu arrestata con i nonni dalla polizia di Pinochet. Loro dovettero rivelare il nascondiglio
dei suoi genitori perché la polizia minacciava di ucciderla e questi si aggiunsero all’interminabile
lista dei desaparecidos. Un dilemma morale devastante che fa dire a Valentina di sentirsi come un
prodotto che ha un difetto di fabbricazione che però non si nota, felice per la vita che i nonni le
hanno dato, monca però dell’affetto dei suoi genitori. Un muro rivestito con le immaginette sbiadite
di ceramica che ritraggono i volti di migliaia di scomparsi ribadisce l’importanza della memoria che
per Guzmán è come la forza di gravità, sempre al lavoro per tenerci attaccati alla terra e solo chi ha
memoria riesce a vivere nel fragile tempo presente, perché chi non ce l’ha non vive da nessuna
parte.
Con La memoria dell’acqua egli riprende il doloroso cammino della memoria e stavolta, oltre che
con lo spazio, lo mette in relazione con l’acqua, l’elemento fondamentale della vita, racchiusa in un
quarzo ritrovato nel deserto di Atacama come nelle galassie più remote nello spazio. La vita e
l’acqua sono state portate sul nostro Pianeta dalle comete e l’acqua è la frontiera più importante del
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Cile e nella Patagonia Occidentale, quando la Cordigliera delle Ande digrada nel mare, forma un
arcipelago di centinaia di isole, pieno di pioggia. Un habitat che per secoli è stato dominio assoluto
delle
cinque
popolazioni
indigene, nomadi dell’acqua, che
con le loro canoe compivano
viaggi che oggi sembrano
impossibili. Anche qui il regista
ripropone
il
suo
ritmo
spiraliforme con il quale mette in
relazione quel luogo così
selvaggio
con
i
misteri
dell’universo.
Poi poco a poco rivela uno dei
segreti più protetti del suo Paese,
ovvero lo sterminio di quelle
popolazioni indigene della Patagonia per favorire lo sfruttamento coloniale di minatori, agricoltori e
allevatori. Tra crudeli cacce all’uomo e lo sterminio silenzioso operato dei virus portati dai coloni,
sotto lo sguardo complice delle missioni cattoliche, i pochi superstiti di quelle popolazioni così fiere
sopravvivono ai margini di una civiltà impostagli con la forza. La ricchezza del loro linguaggio
rischia di andare perduta per sempre e Guzmán ci mette al corrente di un piccolo segreto e cioè che
per quelle popolazioni parole come “polizia” e “dio” per noi così cruciali, non esistevano… Ancora
una volta il regista ci racconta la fine di un mondo innocente che lui ha sfiorato da bambino quando
una parte della famiglia viveva lì, in una casa con il tetto di zinco dove il rumore della pioggia lo
tranquillizzava e lo proteggeva, rumore che lo ha perseguitato tutta la vita.
Poi inizia la vertigine, quando Guzmán ci racconta la struggente storia ottocentesca di Jemmy
Button, un indigeno che fu imbarcato su un nave inglese al comando del capitano Fitzroy.
Incaricato di mappare quelle coste e il primo a ritrarre i volti degli indios, il capitano decise di
portare con sé in Inghilterra quattro indigeni da civilizzare, tra questo proprio Jemmy che fu
comprato per un bottone di madreperla e visse per un anno su un pianeta sconosciuto, passando
dall’età della pietra alla rivoluzione industriale. Poi improvvisamente fu riportato nel suo mondo
dove visse e morì come un alieno, mai più reintegrato. Un bottone di madreperla che collega la vita
di Jemmy a quella di Marta Ugarte, una desaparecida il cui corpo venne restituito dal mare,
trasportato dalla corrente di Humbolt. Il ritrovamento ha rivelato pagine di orrori che arrivano
dall’isola di Dawson, il luogo in cui vennero segregati gli indios ai primi del Novecento e dove
molti decenni dopo vennero rinchiusi gli avversari di Pinochet. I corpi dei detenuti uccisi venivano
impacchettati in una specie di sarcofago insieme a un pezzo di rotaia, poi il tutto veniva gettato in
mare aperto dagli elicotteri dell’esercito. Il pacco di Marta venne confezionato male e la sua storia
ha acceso i riflettori su altre centinaia di compagni di sventura. Nel 2004 un magistrato dispose
delle ricerche su quei fondali e tra i vari reperti, ora conservati a Santiago del Cile a Villa Grimaldi
(uno dei luoghi deputati per la tortura), c’è quello di un bottone di madreperla saldato a un
frammento di rotaia.
I due bottoni, quello di Jemmy e quello di Villa Grimaldi, raccontano la stessa storia, una storia di
sterminio. La crudeltà degli sgherri di Pinochet è sottolineata anche dalle parole del poeta Raúl
Zurita, che si sofferma sull’atrocità di non rendere i corpi delle vittime, se pensiamo che anche
Achille riconsegnò a Priamo quello di suo figlio Ettore, ma soprattutto sull’impunità di cui godono
ancora oggi gli autori di quegli assassini, ed è come se le vittime fossero uccise una seconda volta.
A distanza di quasi cinquant’anni da quegli avvenimenti, l’anima di Guzmán è ancora sofferente per
quelle ferite profonde e come per Niccolò di Identificazione di una donna, egli cerca sollievo
sondando i misteri del cosmo e perciò afferma che se l’acqua che dà vita all’universo e al nostro
Pianeta ha davvero una memoria, allora avrà sicuramente memoria e pietà di tutte quelle vittime
inermi e così forse non saranno morte invano.
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Giovedì 6 ottobre
Al di là delle montagne
di Jia Zhang Ke
sinossi
1999. La giovane Tao è contesa da due amici, Liangzi,
operaio in una miniera, e Zhang, rampante proprietario di
una stazione di servizio. La ragazza sceglie il secondo e lo
sposa. Liangzi, che ha perduto il lavoro a causa di Zhan,
decide di emigrare altrove. Grazie al marito, Tao ottiene il
benessere e un figlio, cui il padre dà nome Dollar. 2014.
Malato di tumore, Liangzi ritorna a Fenyang per farsi
operare e chiede un prestito a Tao, che nel frattempo ha
divorziato da Zhang, stabilitosi a Shanghai con il figlio e
un'altra donna. Dollar raggiunge la madre per una breve
visita e partecipa distrattamente al funerale del nonno
materno. 2025. Zhan, coinvolto in affari sporchi,si è dovuto
rifugiare in Australia e Dollar vive sempre con lui, ma
decide di separarsi dal padre e non proseguire gli studi. Ha una relazione con un'insegnante di
cinese, Mia, che ha molti anni più di lui.
cast&credits
Titolo originale – Shan He Gu Ren
Regia e sceneggiatura – Jia Zhang-ke
Fotografia – Yu Lik-wai
Montaggio – Matthieu Laclau
Musica – Yoshihiro Hanno
Scenografia – Liu Qiang
Costumi – Li Hua
Interpreti – Zhao Tao (Tao Shen), Zhang Yi (Zhang Jinsheng), Liang Jin-dong (Liangzi), Dong
Zijian (Zhang Daole, detto Dollar), Sylvia Chang (Mia), Han Sanming (l’amico di Liangzi)
Produzione – Shozo Ichiyama, Nathanaël Karmitz, Jia Zhang-ke, Ren Zhongl-un, Liu Shiyu,
Patrick Andre, Rémi Burah, Olivier Père per Office Kitano/MK Productions/XStream
Pictures/Shanghai Filmgroup Corporation
Distribuzione – BIM
Durata – 131'
Origine – Cina/Francia/Giappone, 2015
Le usure irreversibili
Roberto Chiesi
Il titolo originale di Al di là delle montagne corrisponde a quattro ideogrammi cinesi – Montagna,
fiume, vecchio, amico – che formano un'espressione proverbiale: «I vecchi amici sono come la
montagna e il fiume», ossia un'amicizia di lunga data resisterà per sempre. Il quindicesimo film di
Jia Zhang-ke racconta, invece, il guastarsi di un'amicizia fin dal prologo, ambientato nel 1999,
all'alba del nuovo millennio, perché il sentimento di affetto e complicità che unisce tre ventenni–
due maschi, Liangzi e Zhang, e una donna, Tao (interpretata dall'intensa Zhao Tao, volto
emblematico del cinema dell'autore di Platform) – non resiste agli attriti provocati dalla rivalità dei
due giovani, entrambi innamorati della ragazza come in un mélo della migliore tradizione. Il 1999
non è un anno casuale: è l'anno che precede in Cina l'avvento di Internet, dei telefoni cellulari, della
costruzione delle autostrade. Il momento in cui le nuove generazioni di cinesi riponevano
ingenuamente tutte le loro speranze nell'avvento di una nuova epoca.
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Siamo a Fenyang, nella provincia dello Shanxi, città natale di Jia Zhang-ke, dove ha già girato
Xiao-Wu, Platform e alcune scene di Il tocco del peccato (2013). Il film si apre mostrando Tao che
balla e canta un motivo di
successo degli anni '90, Take
Care di Sally Yeh, che, con
un'altra canzone ricorrente
nel film, Go West dei Pet
Shop Boys, riflette le
aspirazioni di felicità e
benessere.
Il
triangolo
amoroso
è
raccontato
all'interno
di
una
dimensione adolescenziale
che, dopo la rottura fra i due
amici, sembra trascinarsi nel
tenero rapporto casto fra Tao
e Liangzi, finché non
interviene Zhang a imporre una scelta alla ragazza, mostrandosi ferito nei sentimenti ma risoluto.
Nella sequenza in cui per l'ultima volta condividono tutti e tre lo stesso spazio, l'inquadratura si
stringe su un personaggio o due, mentre dell'altro si sente solo la voce e così si instaura la tensione
di ciò che dal fuori campo potrebbe accadere d'imprevedibile. Tao è in mezzo a loro, incapace di
controllare la situazione e non immune dal sospetto che, nella sua scelta, sia intervenuto il calcolo di
optare per chi le poteva garantire un futuro più comodo. Se l'armonia dei tre amici è rovinata in
modo irreversibile, sembra ipotecata anche la passione amorosa fra Tao e Zhang, ossessionato dalla
prospettiva dei soldi che guadagna e guadagnerà, tanto da non rinunciare a trattare affari al cellulare
anche quando indossa l'abito bianco delle nozze.
Già nel prologo si accumulano meschine bassezze – l'automobile tedesca rossa fiammante che
Zhang ostenta e usa come mezzo di seduzione nei confronti di Tao; il ricatto nei confronti
dell'amico Liangzi per indurlo a desistere dal corteggiare la ragazza (Zhang gli comunica di avere
acquistato la miniera dove lavora, quindi gli promette di aiutarlo a fare carriera, poi, di fronte al
rifiuto, lo licenzia) – indizi di una ridicola e esiziale esterofilia – il nome “Dollar” assegnato al
figlio neonato – e l'accensione di derive violente (Zhang vuole addirittura acquistare un'arma per
uccidere il rivale e nasconde dell'esplosivo nel portabagagli) che, a differenza del precedente film di
Jia Zhang-ke (Il tocco del peccato), rimangono implose, o meglio si limitano a scoppiare in modo
innocuo e senza conseguenze, come la dinamite sotto la crosta del ghiaccio, davanti alle acque del
fiume Giallo, o un aereo schiantatosi al suolo sotto gli occhi di Tao, in una sequenza quasi onirica.
La coppia del nuovo millennio che formano Zhang e Tao, lui nella sua vorace e proterva vacuità,
lei nell'acquiescenza all'energia aggressiva del marito, si configura quindi come un'immagine della
nuova gioventù cinese nel momento in cui il Paese sta per subire il fascino e la progressiva
contaminazione del consumismo globalizzato: una gioventù che non esita a sacrificare come
ingombrante ogni vecchio idealismo (i sentimenti di Liangzi, che ha il difetto di mancare
d'ambizione e di essere povero) con un'ansia di futuro che sembra reificarsi nei colori squillanti
degli abiti indossati da Tao, pennellate di rosso nel grigiore ferroso dei cromatismi dominanti la
quotidianità.
Il tessuto delle immagini del 1999 non è omogeneo ma composito e deriva dalla mescolanza di
sequenze girate con una mini DV dal vivo e per le strade nel 2001 – quando ancora l'autore non
pensava a questo film e voleva solo prendere appunti per un possibile documentario – con il fidato
direttore della fotografia Yu Lik-wai, ad altre, girate stavolta nel 2010 con una mdp più
perfezionata, l'Arriflez Alexa, e infine quelle realizzate durante le riprese del film, con le camere
digitali di oggi, perché il regista voleva mostrare fisicamente i vertiginosi cambiamenti intervenuti
in pochi anni e imprimere così anche un ossimoro visivo: alcune immagini del passato sono più
sgranate e approssimative rispetto a quelle del presente, che, come vedremo, raccontano invece una
situazione di disfacimento.
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Il linguaggio perduto
I due segmenti narrativi successivi, ambientati il secondo a distanza di quindici anni (2014) e il
terzo di altri undici (2025), mostrano l'usura del tempo che ha accentuato quei fenomeni di
degradazione suggeriti nel prologo. Nulla è rimasto com'era: Liangzi ha costituto una famiglia e si è
rifatto una vita continuando a lavorare nella povertà di sempre ma è gravemente malato e deve
ritornare a Fenyang per cure costose che lo obbligano a chiedere soldi ai pochi amici di un tempo,
come Tao. Anche il matrimonio di quest'ultima non ha resistito al logorio del tempo e Jia Zhang-ke
cela in ellissi i motivi (peraltro immaginabili) del suo divorzio da Zhang, ormai trasferitosi a Hong
Kong. L'euforia del 1999 ha lasciato il posto alla crisi – nelle città di provincia le miniere di carbone
chiudono – una crisi che sta agendo in profondità. Lo vediamo nel genere di infanzia vissuta da
Dollar quando arriva in aereo da Shanghai per raggiungere la madre. Non solo la vita quotidiana in
Cina gli è estranea – Tao gli cucina i ravioli per condividere con lui quella tradizione comune a tutti
– ma anche la lingua del bambino è imbastardita dalle parole americane di cui è infarcita, per
espressa volontà paterna.
Alle temporalità differenti dei
segmenti corrispondono diversi
formati delle inquadrature: per il
1999 viene adottato il consueto
1,33, poi nel presente l'1,85, ossia
inquadrature più ampie, e per il
futuro il CinemaScope, ossia il 2,40.
Ma all'espansione dell'immagine
corrisponde il rimpicciolirsi delle
esistenze individuali, soffocate da
un'alienazione e da una perdita
dell'identità culturale che erano già
al centro di film quali The World
(2004), Still Life (2006), 24 City (2010) e Il tocco del peccato. Il 2014, ossia il nostro presente,
diviene quindi il tempo di due ritorni alla città d'origine – i viaggi di Liangzi e di Tao, della vecchia
Cina popolare e della nuova borghesia esterofila – sotto il segno della morte della cultura
tradizionale e della morte tout court: il vecchio e saggio padre di Tao, infatti, muore nel sonno in
una sala d'aspetto. La figlia perde la sua calma e la sua imperturbabilità: urla e piange
disperatamente, come se la morte del genitore avesse esposto e reso vulnerabile la sua emotività.
Anche il suo comportamento col figlio diviene più aspro e insofferente, registrando così gli effetti
della deformazione provocati dalla sofferenza.
Dollar è costretto dalla madre, con cui ha già una scarsa familiarità e confidenza, a partecipare al
funerale del nonno ma il rituale e il senso stesso di tutto ciò gli sono completamente indifferenti. Di
Liangzi non si saprà nulla: la sua sorte cadrà in ellissi e questo sembra suggerire più un esito
funereo che la salvezza. Il futuro dell'ultima parte (2025), in effetti, somiglia al presente con
qualche lieve aggiornamento tecnologico. Si svolge in Australia, dove Zhang si è rifugiato col figlio
per mettersi in salvo da affari sporchi andati a male che lo hanno compromesso. Lo rivediamo
quindi invecchiato e adattatosi ad un'esistenza oziosa con altri vecchi come lui, fuori dai giochi.
Jia Zhang-ke suggerisce la definitiva corruzione della sua ascesa e caduta nelle immagini
fuggevoli dell'arsenale di pistole e armi che giacciono inutilizzate sul tavolo del suo soggiorno, nei
colori freddi e asettici di un interno completamente anonimo. Altri gadget sono i tablet futuribili,
unica superficie di comunicazione di gente che non comunica più. La formazione di Dollar si è
compiuta in quella terra dove, come in altre, tanti cinesi sono immigrati e non parla né comprende
più la lingua materna tanto che per parlare con il padre deve ricorrere ad un'interprete. Se
nell'infanzia Dollar era un'emanazione del padre Zhang, alle soglie della maggiore età il ragazzo
appare, invece, un individuo senza radici, spaesato e incerto (1) ma che ha la volontà di staccarsi dal
genitore. Puramente istintivo, cerca un amore compensativo nella sua insegnante di cinese (che ha
più o meno l'età di sua madre), senza pensare ad una relazione effettiva, autonoma e duratura, con
lei.
Al di là delle montagne si conclude mostrandolo esitante, forse in procinto di ritornare a Fenyang
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dalla madre: il finale rimane aperto su questa eventualità che rimane fuori campo. Vediamo, invece,
Tao, sobriamente invecchiata, che, in una bellissima e straziante sequenza, balla da sola ancora Go
West dei Pet Shop Boys, davanti al fiume che sembra pietrificato, in una solitudine e desolazione
assolute, ma con un'energia che, anche pateticamente e dolorosamente, continua a esistere.
(1) Un'immagine di spaesamento nel film è anche il personaggio che trasporta un'alabarda con un
pennacchio rosso, che Jia Zhang-ke ha voluto inserire come allusione a «Wang Gong, il dio della
guerra, significa non il dio dei combattenti ma il dio della lealtà, dell'equità, nei combattenti che
hanno spirito cavalleresco. È molto importante nella tradizione cinese. […] Ho avuto l'impressione
di vedere un personaggio della tradizione che cammina senza sapere dove andare, il che mi
sembrava rappresentare la perdita dei valori tradizionali. Non hanno più la loro funzione nella
società» (Cfr. Entretien avec Jia Zhang-ke. Le temps devenait le centre de tout, a cura di Michel
Ciment e Hubert Niogret, «Positif» n. 658, dicembre 2015, pag. 30).
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Giovedì 13 ottobre
Il condominio dei cuori infranti
di Samuel Benchetrit
sinossi
Si alternano le storie di tre inquilini che abitano
nell'immobile periferico di una città imprecisata:
Sternkowitz, divenuto temporaneamente disabile in seguito
a un malore, incontra un'infermiera alla quale racconta di
essere un fotografo; l'adolescente Charly ha una nuova
dirimpettaia, l'ex attrice Jeanne Meyer, che ha spesso
bisogno del suo aiuto; sul tetto dell'immobile atterra per
errore l'astronauta statunitense John McKenzie che viene
ospitato da una signora maghrebina, Hamida, fino a che la
NASA lo manda a prelevare…
Titolo originale – Asphalte
Regia – Samuel Benchetrit
Soggetto: – dai racconti 1er étage face ascenseur e l2eme étage face ascenseur, in Cronache
dall'asfalto di Samuel Benchetrit
Sceneggiatura – Samuel Benchetrit, Gabor Rassov
Fotografia – Pierre Aïm
Montaggio – Thomas Fernandez
Musica – Raphaël
Scenografia – Jean Moulin
Costumi – Mimi Lempicka
Interpreti – Isabelle Huppert (Jeanne Meyer), Gustave Kervern (Sternkowitz), Valeria BruniTedeschi (l'infermiera), Michael Pitt (John McKenzie), Tassadit Mandi (la signora Hamida), Jules
Benchetrit (Charly), Mickaël Graehling (Dédé), Larouci Didi (Mouloud), Abdelmadjid Barja (il
figlio della signora Hamida), Thierry Gimenez (il signor Gilosa)
Produzione – Ivan Taïeb, Marie Savare, Julien Madon, Alexander Akoka per La Caméra
Deluxe/Maje Productions/Single Man Productions/Jack Stern Productions/Emotion Films UK/Film
Factory/OCS
Distribuzione – Cinema
Durata – 100'
Origine – Francia/Gran Bretagna, 2015.
Sei solitudini e tre cadute Roberto Chiesi
Samuel Benchetrit (classe 1973) è un artista poliforme che in sedici anni di attività ha pubblicato
quattro testi letterari – Récit d'un branleur (2000), tradotto in Italia come Diario di un cazzeggiatore
(editore Perrone); il libro autobiografico Cronache dall'asfalto, uscito in tre tomi dal 2005 al 2010;
Le Cœur en dehors (2009) e Chien (2015) –; ha inoltre diretto a teatro Jean-Louis Trintignant e la
compianta figlia Marie in Poèmes à Lou (1999) di Guillaume Apollinaire e Comédie sur un quai de
gare (2001), di cui è autore lo stesso Benchetrit, così come della pièce Moins deux (2005). Come
regista cinematografico ha realizzato due cortometraggi – Saint Valentin (1995) e Nouvelle de la
tour L (2000) – e cinque lungometraggi – Janis et John (2003, edito in Italia soltanto in tv), J’ai
toujours rêvé d’être un gangster (2008), Chez Gino (2011), Un Voyage (2014) e Asphalte (2015)
che, ribattezzato Il condominio dei cuori infranti, è il primo suo film a essere distribuito nelle sale
italiane, accolto da un discreto successo.
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Il mondo dove ha ambientato la sua opera letteraria più nota, Cronache dall'asfalto, è la banlieue
in cui è cresciuto e proprio da due storie di quel libro derivano due dei tre soggetti di un film che ne
intreccia tre: Sternkowitz, un
uomo semi immobilizzato su
una sedia a rotelle, s'innamora
di un'infermiera e, ispirandosi
al film di Eastwood I ponti di
Madison County, tenta di
sedurla facendole credere di
essere stato un avventuroso
fotografo; un astronauta che per
un errore di calcolo della
NASA, finisce sul tetto di
quello stesso immobile e viene
ospitato
da
un'anziana
maghrebina. La terza storia, un
soggetto originale, racconta della strana coppia formata da Charly, un adolescente che vive solo, in
perenne assenza della madre, e dalla sua dirimpettaia Jeanne Meyer, un'attrice già protagonista di
film d'autore negli anni Settanta, tanto decaduta da essersi ridotta a risiedere in quel modesto
immobile.
Asphalte segna il ritorno alla frammentazione narrativa di J’ai toujours rêvé d’être un gangster,
rivisitazione del noir che, con la commedia Janis et John, costituiva finora l'esito più interessante
del suo cinema. In entrambi Benchetrit aveva rivelato una vena surreale che giocava sul carattere
paradossale e lunare delle situazioni e sul rovesciamento beffardo dei codici dei generi, non senza
una vena manieristica alimentata da echi di film e autori diversi, che conferma anche nell'ultimo
film, dove ricorda a tratti il cinema di Kaurismäki e di Roy Andersson, ma con una grazia
malinconica e una laconicità densa di sottintesi che gli appartengono.
Nonostante il successo riscosso dal libro, il progetto di Asphalte è stato difficile da condurre in
porto per lo scrittore-regista, che aveva iniziato a lavorarci già dal 2008. Gli insuccessi commerciali
di Chez Gino, un interessante anche se discontinuo tentativo di misurarsi con la commedia
all'italiana, e del drammatico Un Voyage, che rimane nell'ambito dell'esercizio di stile, avevano
scoraggiato i produttori e soprattutto i potenziali distributori. Ripercorrere la genesi del film fa
emergere una serie di modifiche che l'autore ha dovuto apportare al progetto originario: Sternkowitz
era in origine un uomo anziano e Benchetrit avrebbe voluto Trintignant per quella parte. Il grande
attore aveva accettato ma poi aveva dovuto rinunciare per problemi di salute. Quindi il regista ha
deciso di ringiovanire il personaggio e ha finito per trovare l'interprete ideale nel'attore-regista
Gustave Kervern, un originale “clown” del cinema europeo di oggi, che ritrova qui un ruolo simile a
quello di Piccole crepe, grossi guai (2014) di Salvadori. Per il personaggio dell'attrice Jeanne
Meyer, Benchetrit aveva contattato addirittura Sofia Loren, poi le aveva preferito Faye Dunaway,
che però le assicurazioni non volevano garantire. Pensò allora a Isabelle Huppert (anche in questo
caso ringiovanendo il personaggio) e quando l'attrice decise di accettare la parte, il progetto poté
veramente decollare. L'apporto di un'interprete magistrale come la Huppert, così sottile e intensa, fu
determinante per lo smarrimento e la fragilità sottopelle che conferì al personaggio.
L'immobile degli incontri inattesi La banlieue, nel Condominio dei cuori infranti, diviene un
teatro di solitudine e depressione dove si riflette e condensa il malessere della vita quotidiana nei
grandi centri urbani. È appunto la solitudine che accomuna tutti i personaggi, sia quelli che vivono
nella grigia claustrofobia di un immobile anonimo (che nella realtà stava per essere demolito ed è
stato trovato da Benchetrit a Colmar, in Alsazia), sia quelli che vivono altrove e vengono incontrati
dai primi in circostanze ora realistiche (Sternkowitz e l'infermiera), ora insolite (Charly e l'attrice),
ora comicamente surreali (la signora Hamida e l'astronauta). Ma dalle dinamiche degli incontri
emergono sempre le rispettive solitudini e il desiderio inespresso che i personaggi covano da chissà
quanto tempo di stringere un rapporto umano che viene declinato in senso materno (Hamida, il cui
figlio è detenuto in carcere, e l'astronauta), paterno (Charly e l'attrice, nel cui rapporto, con un altro
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paradosso, è l'adolescente a comportarsi come un adulto, dandole consigli per ritornare sulle scene e
addirittura dirigendola e filmandola in un provino) e sentimentale (Sternkowitz e l'infermiera).
La storia di Charly e Jeanne è probabilmente quella dalle dinamiche più sotterranee e sottili: il
ragazzo si lega alla donna non perché lei possa alleviare la carenza di una figura materna quanto per
soccorrerla nelle difficoltà pratiche
in cui Jeanne, essendo sprovveduta
di fronte ai problemi di tutti i giorni,
incappa di frequente. Al tempo
stesso, Charly, ragazzo ”selvaggio”,
abbandonato a se stesso, scopre
grazie all'attrice e ai film che lei gli
mostra in videocassetta (il film è
ambientato in un'epoca imprecisata
che sembra più identificabile negli
anni Ottanta che non nel presente), il
cinema come un ragazzo di banlieue
non l'ha mai visto (il film che
vediamo è La merlettaia di Goretta,
dissimulato sotto un titolo fittizio).
Il condominio dei cuori infranti
pullula di oggetti che rimandano,
ancora, alla solitudine e all'abbandono in cui vivono i personaggi: oltre alla carcassa squallida
dell'immobile, c'è la cyclette che Sternkowitz si procura e a cui si dedica ossessivamente, fino a
collassarci sopra; gli scatoloni che riempiono l'appartamento di Jeanne come relitti di un naufragio;
le bottiglie di latte che Charly beve dal frigo e che sono destinate solo a lui e così via. Dall'esterno
proviene spesso un forte e sinistro stridio che instaura un'inquietudine destinata poi a dissolversi
quando si scoprirà la causa.
Sternkowitz, Jeanne e l'astronauta, oltre a essere soli, sono accomunati anche dal fatto di essere
caduti da una condizione a un'altra e Benchetrit ha dichiarato di avere concepito questo intreccio di
storie intorno al motivo della caduta che anch'esso viene declinato in tre variazioni diverse. Nella
storia dell'astronauta e della vedova maghrebina, lo scrittore-regista scherza con una situazione
impossibile che però gli permette di trattare, senza didascalismi e con levità, il tema del dialogo fra
culture diverse, dialogo che deve fare a meno delle parole, perché Hamida non parla una parola
d'inglese.
Se l'astronauta è caduto (materialmente) sul tetto dell'appartamento di Hamida, in un certo senso
anche la donna è caduta in un'esistenza più difficile tanto tempo prima, con la scomparsa del marito
e l'incarcerazione del figlio. Fortunatamente Benchetrit evita ogni pietismo e privilegia il ritratto di
una donna animata da una positività popolare e schietta, felice di alleviare il peso del proprio
isolamento con questo intruso venuto dallo spazio.
La storia di Sternkowitz offre a Benchetrit l'occasione di alcune gag basate proprio sulla
condizione di diversità fisica che ne ha accentuato la solitudine: vivendo al primo piano, era stato
l'unico condomino a essere contrario all'installazione di un ascensore e quindi si era attirato l'ostilità
degli altri che lo avevano escluso dalla facoltà di usufruirne. Ma in seguito a un malore, egli rimane
temporaneamente paralizzato e quindi è costretto a servirsi di nascosto dell'ascensore soltanto la
notte, quando gli altri dormono. Nelle ore notturne egli può trovare come cibo solo le merendine
vendute dai distributori automatici del vicino ospedale. Proprio in una di queste sue incursioni
alimentari incontra l'infermiera, sola e vagamente depressa come lui.
Anche in questo episodio, come in Janis e John, la mistificazione della propria identità
(Sternkowitz si spaccia per fotografo) tradisce lo scollamento infantile di un personaggio dalla
realtà e il disperato desiderio di attaccarsi al rapporto con un altro. La finzione patetica delle
fotografie che devono testimoniare di viaggi mai avvenuti (infatti sono state scattate dalla finestra di
casa o rubate dal teleschermo domestico) offre un veicolo di comunicazione più efficace delle
parole come lo è la finzione del provino fra Charly e Jeanne, dove il ragazzo, reso padre precoce
dalle esperienze che ha presumibilmente vissuto, aiuta l'attrice a depurarsi dei suoi artifici recitativi
e a esprimere l'autenticità degli affetti.
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Giovedì 20 ottobre
L’età d’oro
di Emanuela Piovano
sinossi
Al principio e in conclusione, un'auto arriva e un'auto se ne
va. All'inizio tra le prime luci dell'alba; alla fine in piena
notte. In entrambi i momenti sul parabrezza scorrono non
solo il riflesso dell'asfalto, del paesaggio e delle luci
artificiali, interne o esterne all'abitacolo. Sulla superficie del
vetro si avvicendano pensieri, visioni e memorie del
protagonista, il giovane architetto Sid. Nell'incipit possiamo
immaginarli. Nello scioglimento si mostrano come immagini
proiettate. Tra questi estremi, e tra le loro potenziali
differenze, sta la scommessa del sesto film di Emanuela
Piovano: può il ricordo incidere sulla scorza impenetrabile di
un presente assoluto? O, più semplicemente: i valori del
passato, oltreché sconfitti, sono anche irrimediabilmente
perduti ed inutili?
Regia – Emanuela Piovano
Soggetto – dal romanzo L'età d'oro – Il caso Véronique di Francesca Romana Massaro e Silvana
Silvestri
Sceneggiatura – Francesca Romana Massaro, Emanuela Piovano, Gualtiero Rosella, Silvana
Silvestri
Fotografia – Marc Van Put
Montaggio – Roberto Perpignani
Musica – Franco Piersanti
Scenografia – Sergio Cosulich
Costumi – Lia Morandini
Interpreti – Laura Morante (Arabella), Dil Gabriele Dell'Aiera (Sid), Gigio Alberti (Jean), Eugenia
Costantini (Vera), Pietro De Silva (don Sandro), Stefano Fresi (Alberto), Giulio Scarpati (Bruno),
Giselda Volodi (Rosaria), Elena Cotta (la signora Furchì), Adriano Aprà
Produzione – Barbara Ancarani, Davide Rizzo per Kitchenfilm/Testukine/Rai Cinema
Distribuzione – Bolero Film
Durata – 94’
Origine – Italia/Francia, 2016.
L’utopia in discussione Alberto Zanetti
L'età d'oro è dedicato ad Annabella Miscuglio (1939-2003), che nel film diventa Arabella, figura
rilevante della scena intellettuale tra anni Sessanta e Ottanta. Innanzitutto per l'attività svolta
nell'ambito del Filmstudio, il cineclub di Trastevere avanguardia della cinefilia italiana. Poi per la
militanza, in particolar modo nei movimenti femministi: sua, ad esempio, l'ideazione del festival
“Kinemata. La donna del cinema”. Infine per la carriera di cineasta, prima da posizioni
sperimentali, successivamente in televisione con la partecipazione a numerosi progetti innovativi
come, ad esempio, Processo per stupro, girato nel 1978 nel tribunale di Latina. Il suo nome è legato
peraltro al caso controverso di AAA offresi (1981), ritratto del mondo della prostituzione che destò
scandalo ancora prima dell'uscita, fu bandito dalla RAI e costò alle autrici (oltre a Miscuglio, Maria
Grazia Belmonti, Anna Carini, Rony Daopulo, Paola De Martiis e Loredana Rotondo) un lungo e
doloroso procedimento penale.
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Il film nasce proprio a partire da un libro, L'età d'oro – Il caso Véronique di Francesca Romano
Massaro e Silvana Silvestri, che ricostruisce contesto, sviluppo e conseguenze della vicenda
giudiziaria. In generale, Miscuglio rappresentò un punto di riferimento per la scena culturale
romana. Così la definisce uno dei personaggi del film: «L'opera di Arabella è sempre stata al pari
della vita. Le piace
depistare lo spettatore
sottoponendolo a terapie di
puzzle e cacce al tesoro».
La sua casa era meta di
artisti,
intellettuali,
giovani. Tra essi anche
Emanuela
Piovano,
proveniente da Torino, che
con questo film omaggia
un'amica e maestra. Lo fa
distanziandosi dalla realtà
metropolitana e sfumando i
riferimenti
troppo
stringenti all'attualità e alle
biografie individuali.
L'età d'oro inizia con il
ritorno di Sid nella cittadina della costa pugliese dove la madre Arabella si è esiliata – o è stata
esiliata – ma in cui ha mantenuto la passione di un tempo costruendo e animando una sala
cinematografica. Arabella è morta: amici e collaboratori si danno appuntamento per ricordarla. Più
che a una storia, il film si affida così a una successione di incontri, attese, confessioni. Il passaggio
da una situazione all'altra è sottile, talvolta accennato e subito interrotto, come suggerisce anche la
colonna sonora di Franco Piersanti.
Il “regno” di Arabella (la sala cinematografica) è una città nella città. Quello che la circonda non
riesce a penetrarla, giustapposto al pari delle inquadrature fisse che rivelano la composizione di
interni ed esterni. Come se tutto (la Storia) fosse già accaduto e i personaggi si limitassero a vivere
traiettorie parallele prive di sintesi: Jean si avventura in affari poco trasparenti, Bruno ha scelto di
diventare magistrato per fare carriera e allontanarsi dai guai dell'impegno politico, don Sandro
sembra indeciso tra la vocazione per Cristo e quella per il cinema, l'assistente Vera ha un ruolo
indefinito: segretaria, studente, cineasta (insomma, una giovane di oggi), la giornalista Rosaria non
riesce a liberarsi da entusiasmi, traumi e sconfitte della trascorsa militanza.
Se le cose non possono essere attraversate o colte in profondità, nondimeno ci si può ancora
aggrappare alle loro superfici. E a quella per eccellenza: lo schermo. Nel mattino del suo arrivo Sid
vede se stesso bambino proiettato nell'arena in un vecchio film della madre. E nel corso della
giornata gli schermi si moltiplicano: moviole, smartphone, monitor di computer, pellicole, il
parabrezza dell'auto di cui si accennava all'inizio. Le immagini sono autobiografiche e sperimentali.
Richiamano il cinema underground, ma anche la “facilità” del digitale odierno. Anzi, in questo
“incontro” tra la sperimentazione di un tempo e la quotidianità tecnologica di oggi sembra possa
instaurarsi un dialogo, quasi che il cinema sopravviva alle sue mutazioni insieme agli esseri che
continuano ad amarlo.
La cittadina si trasforma così in una utopia realizzata di “cinema diffuso”, memore delle intuizioni
di Rossellini e Zavattini. Ma è un'utopia malinconica. Più che dalla vita il “paese del cinema” è
abitato da fantasmi e ombre. A partire proprio da Arabella. Essa appare al figlio. Dialoga con lui.
Cerca di recuperare il tempo perduto dandogli “lezioni di sguardo”. L'età d'oro è anche un film del
lutto e della perdita. Diverse sequenze in interni – in prevalenza nella residenza di Don Sandro
dove, in un certo senso, Arabella si è reclusa – esplorano le gradazioni della penombra che, se
talvolta rivelano, più spesso nascondono; un'atmosfera accentuata per contrasto dalla solarità
mediterranea e dal bagliore dello schermo.
In questa continua transizione tra luce e oscurità sta la chiave di una narrazione costruita su
passaggi, trasalimenti, fratture: se il cinema è come la vita, anch'esso non avrà chiusura. Ed è
probabilmente su questo aspetto che non riescono a conciliarsi i sopravvissuti. Forse perché non
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colgono che esso è, al medesimo tempo, una possibilità e un limite: possibilità di assecondare il
divenire delle cose, ciò che accade, e cioè di essere liberi, aperti, ricettivi; limite di una condizione
dove ogni legame si dissolve e nulla resiste agli aspetti “negativi” del cambiamento. Il destino della
generazione che in questo film si interroga è forse proprio quella di un'oscillazione paradossale tra il
desiderio di vivere al di là di qualsiasi compromesso e la tentazione, continua, di ricadervi.
Nelle ultime parole che Arabella
rivolge al figlio si affaccia la
maturazione
di
questa
consapevolezza: «Per me è troppo
tardi per riparare agli errori che
sicuramente ho fatto. Ma sono
sicura di una cosa, cioè che noi ti
abbiamo dato qualcosa che non
dovresti sottovalutare. Noi ti
abbiamo dato uno sguardo. Ti
abbiamo insegnato a guardare il
mondo conservando la capacità di
stupirti ed emozionarti». Sid
abbandona la serata che la cittadina
dedica alla madre: non sappiamo se
lo scambio generazionale si compia. Ovvero se il cinema e la cultura siano ancora in grado di
assolvere quella funzione “genitoriale” nei confronti dello spettatore e del cittadino un tempo
rivendicata da Truffaut e Daney.
Queste tematiche, in fondo, si riflettono nel titolo stesso. Che cos'è “L'età d'oro”? Naturalmente si
tratta del leggendario film di Buñuel del 1934 che si dovrebbe proiettare nella veglia. Il riferimento
è chiaro: come il capolavoro dello spagnolo fu per anni vietato per offesa al pudore e alle istituzioni,
così la vita di Arabella/Annabella è stata segnata dalle persecuzioni: la storia “novecentesca” del
cinema è stata anche un “martirologio”, osservava Deleuze. E un sentore di sacralità, o di
un'interrogazione su di essa, pervade diversi punti del film.
Ma il richiamo all'avanguardia costituisce anche una scelta di campo per un'arte capace di
sovvertire lo stato delle cose o anche, solo di farle scartare, in un attimo decisivo, dall'ordinario:
«Trasformare il mondo, cambiare la vita». Il surrealismo, di marca “lieve” e grottesca, da Buñuel
seconda maniera, sembra più volte affiorare: si pensi all'apparizione del critico Adriano Aprà che
viene trasportato su un motocarro per le strade della città; o alla figura interpretata da Elena Cotta,
un'anziana divisa tra la passione per il cinema e la rivendicazione dei diritti di proprietà usurpati
dallo schermo dell’arena che le impedisce di vedere l’orizzonte. Lo stesso corteo che ha per meta la
sala cinematografica può ricordare il funerale irriverente e dadaista di Entr'acte. La pellicola di
Buñuel però non si trova: il cinema del passato forse è irrecuperabile.
Nella serata conclusiva viene così proiettato una sorta di documentario fatto di interviste ad
Arabella e ai frequentatori della sua sala, rappresentanti di un pubblico trasversale in fase
d'estinzione (l'intellettuale, l'ignorante, il frivolo…) che un tempo si sarebbe definito “popolo”.
“L'età d'oro” è allora quella che abbiamo alle spalle? Se anche così fosse non è detto che la
meditazione su di essa sia vana. Il ricordo riguarda la dignità, è qualcosa di minimo ma tenace come
per il vecchio Miralles del romanzo Soldati di Salamina di Javier Cercas che ricorda i giovani
caduti con lui sui fronti di Spagna, dell’Africa, delle Ardenne: «… perché, sebbene siano morti da
sessant'anni, non sono ancora morti del tutto proprio perché lui si ricorda di loro. O forse non è lui a
ricordarsi di loro, ma sono loro che si aggrappano a lui, per non essere del tutto morti». La nostalgia
può essere anche un valore o l’indizio di qualcosa che continua a resistere.
La camera oscura e la bacchetta del rabdomante
Intervista a Emanuela Piovano
– Arabella come Annabella Miscuglio. Come e in che "seguito" hai vissuto questo eccezionale
personaggio?
– Negli anni Ottanta appena laureata venivo sempre in “missione” a Roma mandata da Paolo
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Gobetti che per risparmiare mi faceva prendere la cuccetta in treno andata e ritorno. Daniele Segre a
Salsomaggiore 1982 mi aveva presentato Annabella cui il Festival aveva dedicato ampio spazio con
il loro I fantasmi del fallo e Maschi si nasce non si diventa. Il gruppo (lei, Roni Daoupoulos e altri)
era appena reduce dallo scandalo di AAA Offresi. Io avevo appena iniziato la mia “carriera” (meglio
dire avventura) aiutando Gabriella Rosaleva a montare il suo Processo a Caterina Ross. Così
facemmo amicizia e quando andavo a Roma mi fermavo sempre da lei e da suo figlio Piero, proprio
sopra al Filmstudio che all’epoca era chiuso.
– Il film si svolge in Puglia, dove Arabella aveva costruito un'arena e formato un cineclub. Perchè
non la Roma del Filmstudio?
– Perché non abbiamo voluto fare una biografia o una ricostruzione. Abbiamo decalato anche gli
anni (oggi Annabella avrebbe quasi ottant’anni, la nostra Arabella ne ha cinquantasettecinquantotto) e immaginato
un personaggio come ce ne
sono ancora molti sparsi per
il Paese, soprattutto nelle
provincie, perché nei centri
urbani il fenomeno dei
cineclub è davvero finito. In
questi anni ho avuto il
piacere di accompagnare i
miei film nelle più remote
contrade dove scoprivo
ogni volta un’eccellenza e
una passione che ritengo
saranno il motore di un
rinnovamento.
– Puoi dirmi qualcosa sull'eclettico impegno della Miscuglio, sul suo talento professionale, sulle
sue debolezze…
– Annabella era figlia del suo tempo. Il centro sperimentale all’epoca era praticamente in
dismissione dopo le contestazioni del '68, Marco Ferreri lo dirigeva con una certa apertura anche ai
non iscritti, Annabella e Roni erano molto legate a lui. C’era una grande contaminazione di
linguaggi ed esperienza. Sul piano filosofico era una seguace di Raoul Vaneigem, che aveva
tradotto. La vita innanzitutto doveva essere rivoluzionaria, l’arte ne sarebbe stata l’espressione o,
meglio, la testimonianza. La debolezza forse era un po’ di dispersione, una quasi allergia a voler
portare a termine i progetti che restavano per lo più aperti. Ma anche questo, secondo me, era una
caratteristica della cultura dell’epoca.
– Ho avvertito, nel film, echi di Vertov (le "poltrone magiche" dell'arena) o del Wilder di Che cosa
è successo tra tuo padre e mia madre (Avanti!)… davvero, come mi hai detto en passant, non ci
avevi pensato? Ci sono altri richiami?
– Confermo, ma certo Vertov è dentro di me. Durante i miei anni all’ANCR ho potuto cibarmi di
una straordinaria collezione di classici che Gobetti faceva maniacalmente registrare a noi giovani
dalle televisioni.(era l’epoca dei ladri di cinema). Un archivio che né l’Università né altri enti
avevano. Non c’erano neppure i vhs e le registrazioni venivano fatte su Betamax. Poi toglievamo
pazientemente tutti gli inserti pubblicitari… pertanto sì penso che il film contenga comunque l’idea
che questa elegia come tu giustamente la chiami sia anche un’elegia ai vari linguaggi del cinema.
– Mi colpiscono, in L'age d'or, il vuoto e il disadorno. Un vuoto liricamente celebrato negli esterni
di paesaggio, e invece dimesso negli interni: pochi primi piani, prospettive d'ambiente allungate…
un disadorno insistito, appunto…
– Sì l’idea centrale è il tema della camera oscura, quella che già i rinascimentali usavano e che
quindi preesiste all’invenzione del cinema. Questo perché il tema del film è l’apparizione: la madre
che non c’è, il ricordo di sé quando si ritrovano le cose che eravamo e non siamo più, come i filmini
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di famiglia. Mi piaceva pensare che noi attaccavamo la macchina da presa con un tempo di
esposizione abbastanza lungo affinché dall’oscurità potessero apparire forme. Se vuoi è anche il
Mito della Caverna… ovvero mentre il tempo presente può permettersi una camera partecipe,
indagatrice, pedinante, il tempo del passato mi sembra debba essere quello dell’attesa. E poi credo
sempre che la Camera sia un po’ la bacchetta del rabdomante e più sta ferma più si accorge se c’è
acqua da qualche parte!
– La frantumazione. Il tuo mi sembra un film che la subisce consapevolmente e ne fa motivo sia
tematico che stilistico: tanti schermi, di formato diverso, tante contaminazioni. Poi il titolo giusto e
il film sbagliato, la proiezione in pieno giorno…
– Sì appunto, la frantumazione era anche la cifra dell’underground, anche se volutamente non
l’abbiamo portato sul piano delle associazioni libere… ipnagogiche, eccetera… ma abbiamo
ricondotto tutto all’infanzia. Perché oggi l’underground suona un po’ intellettualistico, mentre forse
il fanciullino che è in noi può meglio raccontare le paure, l’irritazione e di conseguenza lo scandalo
che non smettono di dettare ancora oggi tutte le azioni (artistiche o non artistiche) votate alla
passione, e quindi al disordine, alla sperimentazione, agli aspetti oscuri della storia, come le madri
ad esempio, o le censure. La proiezione in pieno giorno si contrappone al buio dell’apparizione
della madre fotopatica. È come dire: il ricordo si costruisce di notte, nel buio, nell’attesa, ma la sua
restituzione è una festa, è nel sole, deve vedere davanti a sé e non soltanto rivolgersi all’indietro. Il
cinema cui in questo film si rende omaggio è un film dell’inconscio che però guarda avanti e ne fa
un motore di rivoluzione.
– Come hai organizzato il lavoro con Franco Piersanti? Le sue musiche, come spesso accade, mi
sono parse eccellenti, specie nel momento in cui si "frantumano" a loro volta, cioè quello della
celebrazione funebre in arena.
– Franco ha lavorato in parallelo e prodotto delle musiche molto libere e molto sperimentali, quasi
stravinskiane. Personalmente ho ancora forzato di più la mano e le ho montate per contrasto invece
che per somiglianza. Così ad esempio il funerale ha una musica che Franco aveva pensato per la
scena del giocoliere, quella su cui avevamo montato la vera musica cui la scena si ispira e che è Les
Enfants du Paradis. Ma io volevo che il funerale fosse giocoso, un po’ come Entr’acte di René
Clair cui la scena è ispirata.
– E con gli altri collaboratori: sceneggiatori, scenografo, direttore della fotografia, del montaggio?
– Con gli sceneggiatori abbiamo fatto un lavoro molto affascinante ma anche molto difficile.
Abbiamo iniziato a buttare giù cose soprattutto con Silvana Silvestri, che aveva frequentato
Annabella prima e più di me, come a snocciolare un album di ricordi. Poi Gualtiero Rosella su
nostra indicazione ha cercato di trovare un’unità narrativa più moderna, relazionale, lui ha molto
lavorato sulle relazioni. Con lo scenografo abbiamo lavorato per sottrazione, come avete rilevato.
Proprio per questo discorso dell’assenza, perché di fatto ci troviamo con un personaggio che è
assente. Laura Morante incarna un personaggio disincarnato, esistente solo nel nostro ricordo. E
questa possibilità ci è offerta soltanto dal cinema. Ma tuttavia bisognava dare un segno di
disincarnazione, e quindi ad esempio Dil Gabriele che interpreta il figlio non la guarda mai negli
occhi, ci sono piccole indicazioni sotto traccia sia nella recitazione che nella scenografia che
indicano una non presenza di quella presenza, pertanto il figlio a tratti quasi le passa attraverso, e lei
esce dall’ombra. Come dire è la camera oscura che pian piano rileva i dettagli, forse ci mette in
comunicazione con essi senza che noi li avvertiamo nello spazio reale. Con la fotografia abbiamo
lavorato unicamente con luci naturali. Ogni scena ha una luce diversa dettata dalla lampada
esistente scelta con lo scenografo. Abbiamo immaginato il personaggio di Arabella come allergico
alla luce, una specie di Euridice o di regina della notte, e questo sempre per questo omaggio al
cinema inteso come la luce senza la quale non ci sono forme. Infine il montaggio: Roberto ha voluto
costruire un’ulteriore gerarchia e portare in primo piano il rapporto madre figlio, che per noi era
soltanto una spina dorsale da cui si dipanavano a raggiera le storie parallele degli altri personaggi.
Io ho condiviso questa scelta in nome di un’ulteriore dato di modernità: il fatto cioè che oggi un
film debba comunque lavorare molto sulle emozioni.
(Intervista a cura di Tullio Masoni)
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Giovedì 27 ottobre
Appena apro gli occhi
Canto per la libertà
Leyla Bouzid
Titolo originale – À peine j'ouvre les yeux
Regia – Leyla Bouzid
Sceneggiatura – Leyla Bouzid, Marie-Sophie Chambon
Fotografia – Sébastien Goepfert
Montaggio – Lilian Corbeille
Musica – Khyam Allami
Scenografia – Raouf Helioui
Costumi – Nadia Anane
Interpreti – Baya Medhaffer (Farah Hallel), Ghalia Benali
(Hayet), Montassar Ayari (Borhène), Aymen Omrai (Ali),
Lassaad Jamoussi /Mahmoud), Deena Abdelwahed (Inès),
Youssef Soltana (Ska), Marwen Soltana (Sami), Najoua
Mathlouthi (Ahlem), Younes Ferhi (Moncef), Fathi
Akkeri (Jghal), Saloua Mohammed (Hamida)
Produzione – Sandra De Fonseca, Imed Marzouk, Anthony Rey, Nathalie Mesuret, Bertrand Gore
per Blue Monday Productions/Propaganda Production/Hélicotronc
Distribuzione – Cineclub Internazionale
Durata – 102’
Origine – Tunisia/Francia/Belgio/Emirati Arabi Uniti, 2015
In coincidenza con il Festival dei Diritti Umani della Triennale di Milano, che in questa prima
edizione ha come fil rouge la condizione della donna e prevede una sezione sulla Tunisia di oggi, a
cinque anni dalla rivoluzione che cacciò dal paese Ben Ali dopo ventitré anni di dittatura, e in
relazione con il Sole Luna Doc Film Festival, che nella scorsa edizione ha presentato un
documentario, Hello Democracy, sui giovani tunisini al voto, in cui spiccano le parole e le lacrime
di gioia di una ragazza che non si capacita di essere arrivata a questo dopo anni, esce uno dei
pochissimi film tunisini distribuiti nelle sale italiane, Appena apro gli occhi – Canto per la libertà,
firmato dalla figlia di Nouri Bouzid, Leyla. Il padre, che ha studiato cinema in Belgio e poi è
tornato in Patria, ha pagato con cinque anni di carcere e con aggressioni e minacce la fedeltà alle
sue idee; lei, che ha studiato a Parigi prima letteratura e poi regia (a La Fémis), vive tra la Tunisia e
la Francia e ha voluto con questo film mostrare la situazione del suo Paese nel 2010 cioè prima
della “Primavera araba”, per ricordare a chi lo sta dimenticando il clima di chiusura, controllo,
terrore che si respirava con la dittatura, in primo luogo per le giovani donne che volevano essere
libere ed esprimere sentimenti e pensieri attraverso l’arte, in questo caso il canto.
Bouzid racconta infatti la storia di Farah, diciottenne diplomata a pieni voti che la madre indirizza a
medicina mentre lei vorrebbe studiare musicologia, che canta in un gruppo che usa l’oud elettrico
per mescolare un punk-rock tendente all’indie alle melodie tradizionali arabe, parlando del proprio
Paese e dei suoi problemi allo scopo di provare a cambiare le cose («Paese di polvere, le tue porte
sono chiuse e portano sfortuna», Mon pays; «Ho visto un mondo distrutto e situazioni mortali – e
così tanti cuori che sono stati spenti», Oiseau de nuit; «Appena apro gli occhi vedo la gente privata
del lavoro, del cibo e di una vita fuori dal suo quartiere […]; vedo la gente che si esilia […], in
pellegrinaggio verso la morte […]; vedo la gente spenta, immersa nel sudore; le sue lacrime sono
salate, il suo sangue è rubato e i suoi sogni sono sbiaditi», À peine j’ouvre les yeux); e che per
questo e per il comportamento libero e ribelle che manifesta, cioè che non ha paura di mostrare,
viene arrestata e trattenuta dalla polizia. Racconta Farah anche nella sua inquietudine di adolescente
che scopre il mondo, che si innamora e che insegue una vocazione, e che deve rapportarsi a una
madre che sembra non capirla e ad un padre che, per non aver preso la tessera del partito, è costretto
a lavorare lontano dalla sua famiglia; e racconta in particolare la relazione madre-figlia anche dal
punto di vista della donna (Hayet) che si rivede nella ragazza, con il suo impasto di ingenuità e
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autenticità, di istinto e cuore, di innocenza e coraggio e sete di libertà, e che proprio per questo
cerca di proteggerla in qualche modo da se stessa (il film tra l’altro, che doveva intitolarsi Dieu
protège ma fille, era in origine molto più incentrato sulla figura materna).
Detto questo non è
facile rendere l’opera
a parole, riferendosi
ai contenuti e ai temi
o tentando possibili
richiami (I gatti
persiani, Timbuctù,
The Idol, la band
libanese
Mashrou’
Leila per la musica,
Mustang,
Much
Loved, Acrid per la
condizione
della
donna nel mondo
arabo),
perché
Appena apro gli occhi – Canto per la libertà è innanzitutto un film “fisico”: un film che si “sente”
con il cuore e i sensi aperti, fatto di melodie che cullano ma che scivolano in un attimo nel punk più
distorto (Khyam Allami ne è l’autore), di colori tra il rosso della passione e l’azzurro del cielo di
Tunisi al crepuscolo, di volti ripresi da vicino nella loro verità, compresi quelli degli uomini delle
riprese reali nei bar e nei mezzi pubblici della città di notte, pudica e lussuriosa; di momenti magici
come quelli della musica (il primo concerto ma anche quello sulla spiaggia, e le infinite prove…),
della corsa in auto con Hayet impazzita per la preoccupazione, della scena iniziale pelle contro pelle
e anima contro anima, di quella finale del canto che la madre aiuta Farah a ritrovare, perché sa cosa
significa e sa anche cosa significa rinunciarci, anche se sembra la cosa più saggia. Ma soprattutto
ricordiamo le attrici: Ghalia Benali la madre, cantante, attrice e danzatrice nota in patria, e Baya
Medhaffer la figlia, capelli ricci e amore per la vita, movimento e passione. Sempre.
Paola Brunetta cineforum
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Da Sentieri selvaggi
Tunisi 2010, quella che i media occidentali hanno definito come “la primavera araba” è alle porte, e
l’adolescente Farah ne incarna suo malgrado le istanze, per la semplice ragione di cantare in una
band che esprime i disagi della
sua nazione, nonché nel non
voler nascondere le proprie
passioni, e rifiutare altri percorsi
al di fuori da quelli da lei
decisi.L’abilità della giovane
regista Leyla Bouzid risiede
tra le altre cose nel modo
fluido e scorrevole ma non
superficiale tramite il quale
aggiunge elementi alla trama,
che parte componendo il ritratto
di un’adolescente e dei conflitti
che
deve
affrontare
per
affermare se stessa, per poi ampliare gradualmente il quadro, includendo la rappresentazione degli
effetti dirompenti della repressione politica sulle vite delle persone, ma lo fa senza tradire l’istanza
di fondo nel voler rappresentare in maniera intima e realistica la giovane protagonista, che come
ogni altra ragazza della sua età sogna, ama e vive. In tal senso l’intento della Bouzid risulta chiaro
nel volerci mostrare “da dentro” la nascita di una rivolta, negli attimi cruciali che ne precedono la
scintilla. Quella di Farah è una vera e propria guerra, svolta su più fronti che si rivelano
interconnessi gli uni con gli altri (quello “naturale” del confronto con le restrizioni imposte dalla
famiglia, e quello innaturale nel dover reprimere le proprie istanze di fronte alla cieca brutalità del
potere), ma è combattuta con le armi della giovinezza, della vitalità, della gioia.
L’universo femminile è rappresentato come una forza dirompente, che tramite le due
meravigliose protagoniste, Farah e sua madre Hayet, espone una visione della femminilità in cui
l’autocoscienza e l’autodeterminazione non negano ma rinforzano la potenza dell’eros e della
corporeità, che in un contesto come quello mostrato dalla Bouzid assumono un valore
rivoluzionario. In tal modo la fisicità e la musicalità di Farah la rendono “colpevole” agli occhi del
regime per la propria mancanza di limiti. Oltre a quello della regista sulla coppia di protagoniste,
ancora più importante è lo sguardo di amore che la madre Hayet rivolge alla figlia, anche se la
pienezza di tale sentimento emerge progressivamente, e con esso le sfumature di orgoglio e
doloroso rispecchiamento.
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Giovedì 3 novembre
Le confessioni
di Roberto Andò
sinossi
In un albergo di lusso in Germania sta per riunirsi un G8 dei
Ministri dell’economia pronto ad adottare una manovra
segreta che avrà conseguenze molto pesanti per alcuni Paesi.
Con gli uomini di governo, ci sono anche il direttore del
Fondo Monetario Internazionale, Daniel Roché, e tre ospiti:
una celebre scrittrice di libri per bambini, una rock star e un
monaco italiano, Roberto Salus. Accade però un fatto tragico
e inatteso e la riunione deve essere sospesa. In un clima di
dubbio e di paura, i ministri e il monaco ingaggiano una
sfida sempre più serrata intorno al segreto. I ministri
sospettano infatti che Salus, attraverso la confessione di uno
di loro, sia riuscito a sapere della terribile manovra che
stanno per varare, e lo sollecitano in tutti i modi a dire quello che sa. Ma le cose non vanno così
lisce: mentre il monaco – un uomo paradossale e spiazzante, per molti aspetti inafferrabile – si fa
custode inamovibile del segreto della confessione, gli uomini di potere, assaliti da rimorsi e
incertezze, iniziano a vacillare…
Regia – Roberto Andò
Sceneggiatura – Roberto Andò, Angelo Pasquini
Fotografia – Maurizio Calvesi
Montaggio – Clelio Benevento
Musica – Nicola Piovani
Scenografia – Giada Esposito
Costumi – Maria Rita Barbera
Interpreti – Toni Servillo (Roberto Salus), Daniel Auteuil (Daniel Roché), Pierfrancesco Favino (il
Ministro italiano), Moritz Bleibtreu (Mark Klein), Connie Nielsen (Claire Seth), Marie-Josée Croze
(il Ministro canadese), Richard Sammel (il Ministro tedesco), Johan Heldenbergh (Michael Wintzl),
Togo Igawa (il Ministro giapponese), Aleksey Guskov (il Ministro russo), Stéphane Freiss (il
Ministro francese), Julian Ovenden (Matthew Price), John Keogh (il Ministro americano), Andy de
la Tour (il Ministro britannico), Giulia Andò (Caterina), Ernesto D'Angelo (Ciro), Lambert Wilson
(Kis), Lisa Eichhorn (la donna misteriosa)
Produzione – Angelo Barbagallo, Fabio Conversi per Bibi Film TV/Barbary Films/Canal+/Ciné+
Distribuzione – 01
Durata – 100’
Origine – Italia/Francia, 2016
La caricatura del potere
Alessandro Lanfranchi
Le confessioni è un film disturbante. Sebbene non sia un thriller (né tantomeno un horror) l’ultimo
lavoro di Roberto Andò confonde, sorprende e, in maniera del tutto inaspettata, destabilizza.
Recuperando la dimensione economico-politica di Viva la libertà, pellicola pluripremiata ai David
di Donatello 2013, il regista palermitano torna a inquietare l’universo dei potenti attraverso un
racconto limpido, cristallino, dai toni grotteschi e surreali che non rinuncia, tuttavia, a inaspettati
squarci metafisichi.
Ambientato nel Grand Hotel Heilingendamm in Germania, va in scena, echeggiando l’autentico
G8 avvenuto proprio in quei luoghi nel 2007, un rinnovato Gruppo degli Otto capeggiato dal
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Direttore del Fondo Monetario Internazionale Daniel Roché (interpretato da un convincente Daniel
Auteuil). In questo lussuoso paradiso, i politici più influenti della Terra devono discutere
l’approvazione di un trattato economico segreto destinato a impoverire i Paesi più in difficoltà e,
viceversa, ad avvantaggiare quelli
più ricchi. Accusando la critica
mossa dalla stampa di essere troppo
incuranti dell’opinione pubblica, in
via eccezionale e a mo’ di palliativo,
gli oligarchi decidono di invitare tre
ospiti
estranei
al
mondo
dell’economia:
un
eclettico
musicista presidente di una celebre
ONG, una milionaria scrittrice per
bambini impegnata a contrastare la
povertà nel mondo, e il mite
intellettuale
monaco
certosino
Roberto Salus (Toni Servillo).
D’improvviso un avvenimento sconvolge il summit: una mattina il presidente del FMI nonché
ideatore del progetto luciferino, viene trovato morto soffocato da un sacchetto di plastica nella sua
stanza. Non si sa se sia un omicidio oppure un suicidio, l’unica certezza è che Daniel Roché, quella
stessa sera, aveva invitato il monaco nella sua stanza per confessarsi. Si innesca così un puzzle
narrativo diviso tra presente e passato da un montaggio ellittico che stordisce e disorienta tanto lo
spettatore quanto i personaggi. Se da una parte i vari Ministri dell’economia vivono con estrema
confusione il recente suicidio, allo spettatore viene chiesto non solo di comprendere le ragioni di
quel tragico avvenimento ma di giudicare secondo moralità l’animo, le intenzioni e le
preoccupazioni di quei politici. In questo modo la pellicola si snoda in due direzioni: il giallo
classico che ruota attorno alla morte del banchiere e il racconto morale che vede come protagonista
Salus, religioso integerrimo, devoto e depositario di valori assolutamente antitetici rispetto a quelli
ostentati dai ministri.
Se di prim’acchito il collante tra queste due vie sembra essere il ritrovamento del cadavere di
Roché, in verità ciò che unisce la dimensione etica a quella investigativa è la straniante e grottesca
comicità dei protagonisti. In questo senso Le confessioni è un lavoro disturbante: sebbene racconti
una vicenda drammatica che coinvolge i potenti della Terra (persone losche, meschine, prive di
umanità, interessate all’accumulo di denaro) contrapposti a un monaco silenzioso e rigoroso, Andò
adotta uno stile surreale, contradditorio, volto a ridicolizzare in modo caricaturale ogni personaggio.
È esattamente la caricatura del potere, enfatizzata da battute colte, ricercate (numerosi i riferimenti a
Pascal e Sant’Agostino, a partire dal titolo) e talmente forzate da strappare inevitabili sorrisi di
scherno al pubblico, l’aspetto più interessante del lungometraggio. Accantonati il suicidio quale
escamotage narrativo e la ricostruzione della vicenda attraverso insipidi flashback, Le confessioni
rivela una forza satirica capace di scardinare e mettere in evidenza le dinamiche del potere.
Questo sarebbe esattamente il compito del certosino Salus, invitato speciale in un incontro atipico,
riservato, distante dal suo modus vivendi e proprio per questo in grado di far ritrovare il senno ai
ministri degli otto Paesi più potenti al Mondo. A colpi di stucchevoli aforismi il monaco scoperchia
il vaso di Pandora e accanto a un becero egoismo e una fama insaziabile di denaro vede uomini
smarriti, in preda a deliri di onnipotenza, incuranti della povertà e completamente assorbiti da una
fede cieca nell’Economia. È questo un altro tassello interessante del lungometraggio: Andò intuisce
che la nuova religione non trova più al suo vertice Dio bensì l’Economia. Il cineasta palermitano,
forse non in maniera del tutto consapevole, mostra come quei potenti ministri, rinchiusi in un
bellissimo palazzo, siano in realtà privi di qualsiasi potere fattivo: l’economia si è incuneata a tal
punto nella vita che ogni tentativo soggettivo di disciplinamento risulta essere impossibile.
Il mercato è la nuova carne, il nuovo spirito e l’unica autentica ancora di salvezza: nemmeno
all’edulcorata religiosità di Salus è possibile alcunché. Non è un caso che il presidente del FMI
venga definito dai colleghi come un profeta, un sacerdote della finanza, un uomo talmente
intelligente da poter prevedere l’andamento della borsa e, più in generale, il futuro tout court. La
fumosa manovra economica, infatti, è una sua creatura; solo lui sapeva il suo effettivo contenuto e,
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dopo la sua dipartita, il trattato sembra godere di vita propria: non essendo mai svelato del tutto,
diviene una presenza fantasmatica, irrappresentabile e proprio perché irrappresentabile incarna
l’essenza stessa del potere. Un potere che costringe la vita e strangola i corpi, ma diametralmente
opposto a quello “tradizionale” esercitato da un sovrano. Quest’ultimo, infatti, esercita la propria
sovranità in modo normativo e quotidiano mentre il potere economico ha la capacità di rendersi
invisibile imponendo, però, a coloro che sottomette, un principio di visibilità obbligatorio.
È per questo che sullo
schermo
vediamo
esclusivamente
sterili
battibecchi tra ministri: il
potere
finanziario,
simbolicamente rappresentato
dal trattato mai rivelato, resta
invisibile
e,
da
buon
burattinaio, manipola i propri
mandanti
attraverso
manifestazioni rituali ‒ come
può essere la ricorrenza del G8.
Per
combattere
questa
onnipotenza, Andò utilizza
l’unica arma possibile: la satira
grottesca
e
caricaturale.
Enfatizzando i dialoghi, ridicolizzando gli accordi tra politici, appiattendo comicamente ogni
profondità psicologica dei personaggi, il regista intacca l’invisibilità del potere e la sporca con la
forza dirompente della risata. L’effetto è di assoluto straniamento poiché si ha la sensazione di
osservare qualcosa di molto serio e importante (la morte improvvisa di un banchiere e la
contrattazione tra ministri) attraverso una lente completamente inadeguata rispetto al contenuto
(dialoghi faziosi, scene surreali, animali inaspettati che compaiono sulla scena), contrasto
disturbante che finisce con l’enfatizzare, appunto, la dimensione ridicola e caricaturale ma, nello
stesso tempo, de-sacralizza la rigorosa necessità delle leggi economiche.
Il riso, dopotutto, non è che una grande forza propulsiva capace di smascherare ogni tendenza
idolatrica e quasi in maniera didascalica, Andò decide proprio di chiudere con una dissolvenza a iris
che non può non ricordare la comicità dissacrante di Chaplin. In fin dei conti, come scrisse un
grande pensatore tedesco, «non con l’ira, ma col riso si uccide» e, nel bene o nel male, Le
confessioni è un film che fa ridere, davvero ridere.
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Giovedì 10 novembre
Seconde generazioni (Africa)
di autori vari 4 cortometraggi
Des enfants dans les arbres (Dei bambini sugli alberi)
Regia: Bania Medjbar
Sceneggiatura: Bania Medjbar
Fotografia: Elin Kirschfink
Montaggio: Laurent Rouan
Suono: Olivier Laurent, Jean Christophe Julé
Musica: Gabriel Yared, Isaac Albeniz
Interpreti: Dorian Aîssa, Sabrina Benhamed, Laetitia Bossetti, Benaissa Ahaouari, Faridah Benkhetache
Produzione: La Luna Productions - Algeria/Francia
Versione originale: francese
Durata: 26'
Contatti: La Luna Productions,www.lunaprod.fr
Sinossi
Un racconto di periferia dai toni magico-realistici. Karim e la sorella Coralie vivono con la madre in una cité che sovrasta
Marsiglia; ogni mattina osservano da lontano l'edificio della prigione dove è rinchiuso il padre e ascoltano la radio che
manda messaggi ai detenuti: una conversazione sempre a senso unico; per Karim è come "parlare all'aria". All'ennesima
perquisizione della casa da parte della polizia, i due bambini si lanciano in bicicletta verso un viaggio iniziatico nella città
con il sogno utopico di liberare il padre.
Si è scritto
È normale che i bambini sognino di trovare una porta segreta nascosta in un armadio. Karim et Coralie sognano di
trovare la chiave che aprirà la porta delle Baumettes: un universo sorprendente li attende. [8 festival ProvenceTerre de
cinéma]
Il Panorama di Cinémas du Maghreb propone un appuntamento annuale per esplorare e strigere legami con una
cinematografia complessa che si costruisce tra diversi paesi e che trova ispirazione nel mondo contemporaneo e nella
permanenza della propria identità […] Il cuore del pubblico ha pulsato per Des enfants dans les arbres (Panorama des
Cinémas du Maghreb 2010, africiné.org)
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Zakaria
Di Leyla Bouzid
Francia / Tunisia
2013 – 27 min
Zakaria è un uomo
di origini algerine
che conduce
un’esistenza
tranquilla, con la
moglie e i suoi due
figli, in un paesino
nel Sud della
Francia. Alla notizia
della morte del
padre decide di
tornare in visita in
Algeria portando con sé tutta la famiglia. Questa scelta provocherà uno scontro con
la figlia Sarah. Un film che mette a confronto due generazioni sulle questioni
dell’identità e della migrazione.
Leyla Bouzid
Leyla Bouzid nasce nel 1984 a
Tunisi. A 18 anni si trasferisce a
Parigi per studiare prima alla
Sorbona poi alla Fémis. Esordisce
alla regia con il cortometraggio Un
ange passe, nel 2010. Con
Soubresauts, il suo fil di diploma,
vince il Gran Premio della Giuria al
Festival Premiers Plans nel 2012. A
peine j’ouvre les yeux, il suo esordio
alla regia di un lungometraggio, è presentato alle Giornate degli Autori 2015.
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Bobby
Tunisia, 2012, 18 min Regia e sceneggiatura Mehdi M. Barsaoui
Cast Aleeddine Ben, Hamza, Jamel Sassi, Chekra Rammeh
cosa succederebbe se l’integralismo
religioso in Tunisia arrivasse al
punto di proibire la presenza di cani
— animali impuri — nelle case?” Si
chiede il giovane regista tunisino,
alla sua seconda prova dietro la
macchina da presa, che confessa “io
sono cresciuto circondato dai cani,
non
potrei
sopportarlo”.
E sono proprio un piccolo amico a
quattro zampe e un bambino i
protagonisti di questa storia.
Compiuti otto anni, Fares ha il permesso di andare a scuola da solo.
Sulla strada incontra un simpatico cagnolino randagio che comincia a chiamare Bobby. È l’inizio di
una grande Amicizia. Con la complicità della mamma, Fares si prende cura di Bobby contro il
volere del padre, fervente musulmano, che rifiuta i cani in quanto creature impure.
Cortometraggio del tunisino Bobby di Mehdi M. Bersaoui, un regista semiesordiente, ormai
pienamente integrato nel nostro Paese dove vive. Il racconto è la metafora dell’intolleranza vista
attraverso l’amicizia di un bambino e di un cane e la cui vicenda scaturisce dal rifiuto del padre di
avere un animale impuro in casa. Al di là della questione che dipende dall’amore più o meno
profondo per i nostri amici animali, il cortometraggio è una piccola opera d’arte. La cinepresa si
muove dentro la bolla che circonda il giovanissimo protagonista e in cui solo chi gli è complice può
entrare per intero (nelle prime scene i genitori appaiono solo nella parte bassa del corpo, come nei
cartoni di Tom e Jerry).Il film è anche una critica più o meno sottile all’ondata islamista postrivoluzionara ben esplicitata dalla scena in cui il padre guarda in televisione un programma
religioso in cui un predicatore attacca cartoni animati come Topolino e Tom e Jerry (per l’appunto)
invocando la morte di questi personaggi.
Una qualche speranza di un mutamento delle idee accompagna il finale del film.
Mehdi M. Barsaoui nasce nel 1978. Nel 2006 si diploma in montaggio cinematografico all’Institut
Supérieur des Arts Multimédias (Isamm) di Tunisi.
Successivamente, grazie a una borsa di studio italiana, si specializza presso il DAMS di Bologna. Il
suo primo cortometraggio, À ma place, è stato presentato nel 2010 in molti festival di cinema
internazionali.
Qui di seguito, un’intervista in cui il regista spiega come è nata l’idea di questo ‘corto’, vincitore,
tra gli altri, del Grifone d’Oro per il Miglior Cortometraggio nella Categoria Elements +6 del
prestigioso Giffoni Film Festival edizione 2013: “L’idea del film è nata nell’aprile 2011. Passavo le
mie giornate davanti al computer seguendo l’attualità del nostro paese (la Tunisia) sconvolto dalla
rivoluzione. Mi sono soffermato su un articolo che un amico aveva pubblicato su facebook dal titolo
Un progetto di legge per interdire i cani in Iran. Ero scioccato. Io che da sempre sono abituato a
vivere in compagnia di un cane fui scandalizzato di fronte a questa intolleranza che fa dell’Iran un
paese islamista dove la Sharia è la sola fonte del diritto, e che ora vorrebbe interdire i cani dai
luoghi pubblici a causa della loro ‘impurità’. E se un giorno i cani fossero interdetti?” L’idea del
film era nata.
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Giovedì 17 novembre
Sole alto
di Danibor Matanic
sinossi
Croazia. 1991: Jelena (serba) e Ivan (croato), si amano e
vogliono partire per Zagabria, ma la guerra sta per iniziare
ed il fratello di Jelena non accetta che la sorella parta con il
nemico. 2001: Nataša (serba) torna con la madre al paese
d'origine, in una casa semidistrutta dalla guerra. Ante
(croato) si occuperà dei lavori per rimetterla in sesto, ma si
dovrà scontrare con il rancore di Nataša per un popolo che
le ha ucciso il fratello. 2011: Luka (croato) sta andando a
un rave sulla spiaggia a Spalato, ma il suo amico insiste
per fermarsi al loro paese di origine, dove vivono i genitori
che Luka non vede da tempo e la sua ex compagna, Marija,
con la quale ha un conto in sospeso.
Titolo originale – Zenit
Regia e sceneggiatura – Dalibor Matanić
Fotografia – Marko Bdar
Montaggio – Tomislav Pavlic
Musica – Alen Sinkauz, Nenad Sinkauz
Scenografia – Mladen Ozbolt
Costumi – Ana Savić Gecan
Interpreti – Tihana Lazarović (Jelena/Nataša/Marija), Goran Marković (Ivan/Ante/Luka), Nives
Ivanković (la madre di Jelena e Nataša), Dado Cosić (Saša), Stipe Radoja (Bozo/Ivo), Trpimir
Jurkić (il padre di Ivan e Luka), Mira Banjac (la nonna di Ivan), Slavko Sobin (Mane/Dino),
Lukrecija Tudor (Dinka), Tara Rosandić (Petra), Ksenija Marinković (la madre di Luka)
Produzione – Ankica Jurić Tilić, Petra Vidmar, Frenk Celarc, Nenad Dukić, Miroslav Mogorović
per Kinorama/Gustav Film/See Film Pro
Distribuzione – Tucker
Durata – 123’
Origine – Croazia/Serbia/Slovenia, 2015
Amore allo Zenit
Elisa Baldini
«Purché non sia una di loro!», diceva la nonna a Dalibor Matanić (classe 1975, autore croato già
affermato a livello nazionale e conosciuto a livello internazionale, di cui ricordiamo il bellissimo
Fine Dead Girls del 2002), quando gli raccontava dei suoi nuovi flirt. È stata questa frase, così
semplice e così terribile, ad averlo spinto a progettare Sole alto, primo capitolo di una Trilogia del
Sole che dovrebbe completarsi nei prossimi anni. Per motivi anagrafici, Matanić è nato e cresciuto
dentro il conflitto che ha opposto la popolazione serbo-croata, esploso a partire dal 1991 e ancora
oggi lontano dall' aver seppellito rancori e ferite.
Il regista ha probabilmente sentito a livello fisiologico l'urgenza di affrontare il tema più di petto di
come lo aveva fatto nei suoi film precedenti e, oltre alle motivazioni endemiche e non per questo
meno pregnanti, ha raccolto una necessità tutta contemporanea e non strettamente legata alla ex
Jugoslavia: «Non sono l’unico a pensare che il nostro giovane secolo stia coltivando una
preoccupante ostilità verso “l’altro” e gli esempi, purtroppo, non mancano: islamofobia,
neonazismo, razzismo verso gli immigrati» (dalle note di regia).
Da queste premesse è nato Sole alto, un film che avrebbe potuto essere un mattone sullo stomaco
e/o una trattazione didascalica delle ragioni di un conflitto interetnico, ed invece dipana, con
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l'esattezza di un un'apparizione miracolosa, un teorema sull'Amore che, esistendo, annulla le ragioni
di tutto quello che complica e ferisce (e ha ucciso, purtroppo). Ma vediamo con più attenzione come
si sviluppa questo teorema, suddiviso in tre capitoli ambientati a distanza di tre decenni: 1991,
2001, 2011.
Quattro personaggi: due innamorati, due complementari
Matanić ricorre ad una
sceneggiatura (più visiva che
dialogica) scritta con il cesello,
dove tutti gli elementi prendono
posto come mossi nei vari spazi
dell'inquadratura da misteriose
calamite sotto tavolo: simboli,
sguardi, attimi di sospensione
(di cui sono protagonisti
principalmente animali: ragni,
gatti, pecore ed un cane lupo
che sembra un meteorite
precipitato in Croazia da un
film di Lars Von Trier, tanto
che non ci si stupirebbe se a un certo punto si mettesse a parlare). E (per un film che ha come titolo
originale Zenit c'era da aspettarselo) luce. La Luce è uno dei personaggi principali del film, insieme
alla Natura. Al servizio l'una dell'altra, sono due elementi indispensabili che servono al regista per
portare avanti il suo teorema, ed hanno la stessa importanza degli stupefacenti Tihana Lazović e
Goran Marković, una coppia per sei diversi personaggi e tre decenni.
Ambientato negli stessi luoghi (campagne e villaggi vicino Spalato) Sole alto celebra un'ode
indiscussa alla bellezza del paesaggio croato e alla bellezza della Natura in generale, elemento
germinante che si insinua tra le pieghe del dramma, ributta nuovi steli tra le macerie, invita a
tuffarsi anche se è tardi, si è stanchi e si è nel bel mezzo di un incontro amoroso, tramortiti dagli
stupefacenti. È incredibile come Matanić utilizzi la luce come un Manet reso più serioso da Hopper,
e ci tramortisca con una sapienza così studiata da apparire spontanea e carezzevole. La Natura c'è.
Una piccola baia è il luogo da cui si parte, si fugge e in cui si ritorna: mancherà, quando la città avrà
espresso le sue lusinghe, unirà Ante, Nataša e sua madre, quando la città sarà diventato il posto
peggiore in cui stare, porterà illuminazione quando la mente annebbiata dalla fuga avrà smesso di
essere lucida.
Scegliendo saggiamente di fare un film sulla guerra senza mostrare la guerra (ci sono solo uno
sparo ripreso in campo lungo e lapidi mute con nomi scritti in due lingue diverse a segnalare la
morte), Matanić decide di far parlare la vita, e lo fa arrivando all'Amore attraverso la Natura e la
Luce.
Fenomenologia dell' architettura urbana: stipiti, porte, spiragli, soglie
Al lato opposto della Natura, c'è l'elemento costruito dall'uomo per abitarvi, la Casa, simbolo
primigenio di urbanità e civiltà. Altra scelta fondamentale di Matanić: parlare del conflitto serbocroato attraverso conflitti emotivi che si svolgono principalmente all'interno delle mura casalinghe e
che si osservano come palesemente osservati (tantissime le inquadrature che presuppongono
l'occhio della telecamera come spia consapevole al di fuori del centro d'interesse). La questione è:
affrontare il tema spinoso dell'odio interrazziale e politico enunciandone temi e fatti avrebbe potuto
funzionare a livello documentario, magari, ma non sarebbe sicuramente stato così convincente come
mostrarcelo in forma di querelle a tavola, dove sono i rimescolii delle posate sul piatto a dettare
legge e ricordarci che, anche qui, si parla una lingua universale.
L'occhio del regista segue le dinamiche sentimentali letteralmente ossessionato dalle soglie, dagli
stipiti, dagli ingressi. Quasi tutto quello che non si svolge all'aperto (ma non solo) è incorniciato e,
spesso, riflesso: finestre, specchi, fessure nei muri, spiragli che si aprono sul pavimento, sguardi che
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si insinuano dalle travi accostate quando si tratta di una casa smembrata dalla guerra nel secondo, e
più fondante, episodio. Gli scambi umani dal significato più denso si svolgono all'ingresso (e in
silenzio): nel 1991 Jelena comunica con il fratello appena arruolatosi tramite una sigaretta davanti
alla porta di casa, nel 2001 Nataša si innamora di Ante, sporco croato complice della morte del
fratello, appena si presenta al cancello di casa sua e tutto il loro rapporto si sviluppa come un
telefono coi fili giocato da un lato all'altro di un muro, magari carezzando lo stesso stipite; nel 2011
Marija lancia un piccolo segnale di avvicinamento a Luka raggiungendolo sul gradino di fronte alla
porta di casa e rientrando lasciando aperto uno spiraglio.
Se con la Natura e la Luce Matanić ha aperto un discorso universale, con questo profluvio di
cornici dello sguardo anticipa un discorso intimo: autobiografico, anche, e terribilmente
sentimentale. Ma sono le due facce della stessa medaglia.
E l'Amore arriva, come la melodia improvvisa a un cantautore
Due
attori,
sei
personaggi,
tre
episodi. I protagonisti
hanno sempre la
stessa
età,
ma
sembrano invecchiare
con il regista e con il
tempo che passa,
diventando sempre
peggio, come dice
Luka a sua madre.
Jelena e Ivan hanno
la spensieratezza e la bellezza totale della giovinezza, che li colpisce in fronte come il Sole alto che
ci sorprende fin dalla prima inquadratura, Nataša e Ante sono già più vecchi, disperati, soli. Nataša
si muove nella propria casa distrutta come un adolescente autistico sopraffatto dall'inedia, ma cova
un rancore già adulto, nichilista; l'inquadratura che ci mostra il volto di Luka, stupito dell'arrivo
sulla soglia di Marija, è stupefacente: sembra lo sguardo di un vecchio, scavato da rughe profonde.
Matanić non ha potuto esimersi dal rappresentare l'evoluzione di una generazione, la sua, che è stata
sorpresa dalla guerra, ha dovuto farci i conti e poi dimenticarla, come si tende a voler fare di tutte le
cose tragiche.
Nel 2011 le case sono intatte, ricostruite, nuove, ma i giovani sono alla ricerca di una “breccia nel
muro” e lo sguardo, fino ad adesso lucido tanto da averci permesso di citare Hopper, diventa
confuso, liquido. La razionalità perduta da due popoli e da una generazione ha per Matanić un'unica
ancora di salvezza: l' Amore. Il secondo episodio è in questo senso il più potente, è il vero capitolo
della rinascita, e la tragedia salvifica che porta con sé pesa tutta sulle spalle di Nataša. Decide di
odiare Ante appena lo vede, ma il suo corpo si ribella: la sua débâcle, infatti, è letteralmente fisica,
ed è questo che fa di Sole alto un film profondamente carnale, viscerale.
Per lasciar scorrere il fil rouge da romanzo sentimentale Matanić si serve di un altro linguaggio
universale, la musica: Ivan richiama la sua Jelena con la tromba come un pifferaio magico, che
sbruffa le sue note in faccia al nemico; per sedurre Ante Nataša suona all'unisono con lui che lavora
gli strumenti della propria inedia. Nel 2011 la musica è diventata elettronica e incalzante, si può
ascoltare solo se alterati. Quando Luka si tuffa in acqua il rumore rimane fuori. Dentro di lui torna il
silenzio, e di fronte a lui compare, come in un L'Atalante balcano fuori tempo massimo, il volto
dell'Amore.
30
Giovedì 24novembre
I ricordi del fiume
dei Fratelli De Serio
sinossi
Il Platz è stata una grande barraccopoli lungo gli argini del
fiume Stura a Torino dove vivevano oltre mille persone di
diverse nazionalità. Sgomberata e smantellata di recente,
una parte delle famiglie che vi vivevano sono state trasferite
in case normali. Il documentario dei fratelli De Serio segue
gli ultimi mesi di esistenza del Platz e i conseguenti
trasferimenti, fra lacerazioni, drammi e speranze vissuti
dalle persone coinvolte.
Regia, sceneggiatura e fotografia – Gianluca e Massimiliano De Serio
Montaggio – Stefano Cravero
Produzione – Alessandro Borrelli per La Sarraz Pictures/Rai Cinema
Distribuzione – La Sarraz Pictures
Durata – 96’
Origine – Italia, 2015
Nelle immagini è inscritta una metodica
Matteo Marelli
«Chi sarà a raccontare. / Chi sarà. / Sarà chi rimane». Questi versi di Giorgio Bezzecchi
(originariamente in "romanes"), ripresi da Fabrizio de André per la chiusa di Khorakhané (A forza
di essere vento), funzionano come postilla anche per I ricordi del fiume, il documentario di
Gianluca e Massimiliano De Serio presentato all'ultima Mostra Internazionale d'Arte
Cinematografica di Venezia in una prima edizione di centoquaranta minuti e proposto ora in sala in
una nuova versione di novantasei minuti che meglio mette a fuoco il gesto registico dei due gemelli.
Il film, come il brano, si confronta col tema della migrazione e dell'emarginazione; l'occasione di
riflessione è lo sgombero del Platz, la più grande baraccopoli d'Italia cresciuta incontrollata alla
periferia di Torino, sulle rive del fiume Stura. Un pozzo di storie d'ordinaria povertà, che raccontano
di vite arrangiate disposte a qualsiasi rimedio per una parvenza di quotidianità (ché, come dice
Giovanni Lindo Ferretti, «se difetta o manca la sostanza tocca alla forma essere limite invalicabile
all'esistenza. Preziosa comunque»). Anche di fronte alle macerie che avanzano si cerca comunque
di salvaguardare l’idea stessa d’umanità .
I De Serio si avvicinano a questo brulichio di presenze che ha gremito la periferia nord di Torino
con tatto, sensibilità, discrezione, pudore (quelle qualità già dimostrate in Sette opere di
misericordia); lo fanno senza idee preconcette, soprattutto in termini di messinscena (e la doppia
versione del documentario sembra confermare questa ipotesi di film che s'aggiusta nel suo farsi);
sanno di essere degli estranei, di aver bisogno di qualcuno che gli indichi un sentiero o un percorso,
che li guidi nella perlustrazione. E questo qualcuno, all'inizio, è un bambino, che i due registi
seguono e da cui sembrano ricevere indicazioni di sguardo. Quella che si delinea, da subito, è
un'idea di “cinema di prossimità”, inteso quindi come dispositivo relazionale, dove l'istanza filmica
è prima di tutto esperienziale. L'immagine è una zona di contatto, la traccia di un rapporto di
conoscenza, la visualizzazione di un incontro, possibile soltanto partendo da un gesto di reciproca
generosità, di condivisione. La regia si lascia prendere da un moto di corrispondenze: aprendosi agli
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stimoli che riceve, interagendo con ciascuna delle persone con cui si trova ad attraversare uno
spazio e un tempo comuni.
Messi davanti all'imminente scomparsa, per gli abitanti del campo nomadi si profilano due strade:
quella del rimpatrio in Romania, o il trasferimento in appartamenti ad affitto progressivo. E una
volta viste prendere confidenza coi nuovi ambienti a queste persone non si sa onestamente cosa
augurare; estranee, da sempre, alle logiche, e quindi alle regole, di uno stile di vita che per abitudine
riteniamo “socialmente accettabile”, quando, come ci mostrano i De Serio, si trovano costrette a
reinventare la loro idea di abitare in funzione delle nuove sistemazioni, ecco che di riflesso ci arriva
tutta la violenza normativizzante dei nostri spazi domestici. Persone che da sempre hanno
rimodulato la propria dimora a seconda della necessità, adesso si trovano costrette a ripensarsi per
poter essere conformi agli standard abitativi impostigli. L'immagine che ci arriva, quindi, è quella di
una casa come struttura disciplinare. E lo spettro che avanza è quello che, per esempio, da tempo ci
mostra anche Pedro Costa con il suo cinema (per la prima volta, ora, nelle sale italiane, con Cavalo
Dinheiro): di uno sradicamento da cui non potrà che dipendere l'alienazione urbana.
La forza del gesto registico dei De Serio è quella di muovere queste riflessioni senza predisporre
la scena, ma, come evidenziato Giulio Sangiorgio sulle pagine di «FilmTv», lavorando d'accumulo.
I registi non hanno un nemico da attaccare (la stessa polizia, che interviene per rendere effettivo lo
sgombero, è ripresa senza inquadrature giudicanti o eccessi didascalici – anche se l'avvertimento
che un uomo del
campo dà al
bambino con cui
sta
chiacchierando,
dopo che questo
gli ha confidato
di voler fare da
grande
il
poliziotto, lascia
intuire come il
confine
tra
ordine pubblico e
derive securitarie
sia spesso labile:
«Rispettare
la
legge, applicare la legge ma non abusare della legge»), e neppure una tesi da dimostrare, cosa che
avrebbe potuto portare a una schematizzazione del libero fluire delle storie raccolte nel corso di un
lungo periodo di riprese: «Di solito, fin dai sopralluoghi, progettiamo la struttura dei nostri film
servendoci di disegni veri e propri, più o meno astratti.[…] In questo caso, invece, non abbiamo
fatto dei veri sopralluoghi, avevamo un’idea del Platz che poi non si è rivelata del tutto precisa e
abbiamo iniziato direttamente a girare mentre esploravamo il luogo, con un approccio molto
spontaneo in cui il disegno del film si componeva giorno dopo giorno: la struttura di I ricordi del
fiume rispecchia quindi questo approccio, da un lato, e la struttura stessa della baraccopoli,
dall’altro» (1).
Come già detto i De Serio sono estranei alla realtà del Platz (e noi come loro), la scoprono
facendocela scoprire: l'immagine d'apertura dà effettivamente la sensazione di varcare una soglia
sconosciuta, come se da stranieri entrassimo in una terra selvaggia. Con onestà lo sguardo dei
registi rifiuta qualsiasi punto di vista onnisciente e di conseguenza angolazioni univoche e definitive
(del resto, si sa, nelle immagini, quando queste non barano, è inscritta una metodica. Non si tratta
della valutazione di elementi stilistici esteriori, quanto del rilievo di uno stile che ha la forma di un
problema). Non abbiamo mai una visione totalizzante del campo, perché la macchina da presa si
immerge fino ad affondarvi. Ci troviamo smarriti in uno spazio labirintico («Io seguirò questo
migrare / seguirò / questa corrente di ali» recitano i versi conclusivi di Khorakhané) dove dietro
ogni porta si spalanca un'improvvisa insorgenza (un chiesa dove vengono officiate messe cantate;
un bar con tanto di area-biliardo), una nuova storia che ridisegna la traiettoria.
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Il bambino, che all'inizio si era lasciato seguire permettendo quindi l'ingresso al campo, ritorna nel
finale. La dinamica è la stessa: lui davanti a dettare il passo e la mdp subito dietro. Ora però le ruspe
hanno fatto il loro dovere e al posto del Platz resta soltanto un paesaggio detritico, una landa di
macerie. Ai De Serio, che sono rimasti, il compito di raccontare: «Fare questo film, per noi (come
del resto fare qualunque documentario), voleva dire trattenere i ricordi, dare un'opportunità in più
alla vita di essere ricordata. Voleva dire presentare un luogo vittima di pregiudizi come è nella
realtà, o almeno più vicino alla sua realtà, rispetto all'immagine stereotipata dei giornali, dei politici
in continua propaganda. Questo luogo simbolico e cruciale delle nostre periferie, ora destinato a
dissolversi nel nulla, di volta in volta è stato il capro espiratorio delle nostre mancanze, o carne
pronta per il macello delle campagne elettorali, per inutili e dannosi interventi “di emergenza”. Il
cinema può andare oltre questa immagine comune, viziata dai vari opportunismi» (2).
(
1) Gianluca e Massimiliano De Serio in Claudio Panella (a cura di), Visions du réel. I ricordi del
fiume, «Filmidee.it», www.filmidee.it/article/915/article aspx.
(2) Gianluca e Massimiliano De Serio, I ricordi del fiume, pressbook, pag. 6.
33
Giovedì 1 dicembre
Truman
di Cesc Gay
GENERE: Commedia , DrammaticoANNO: 2015 ΑTTORI: Ricardo Darín, Javier Cámara,Dolores
Fonzi, Eduard Fernández, Àxel Brendemühl, Pedro Casablanc, José Luis Gómez
SCENEGGIATURA: Tomàs Aragay, Cesc Gay FOTOGRAFIA: Andreu Rebés
MONTAGGIO: Pablo Barbieri Carrera PRODUZIONE: BD Cine, Impossible Films, Instituto
Nacional de Cine y Artes Audiovisuales (INCAA) DISTRIBUZIONE: Satine FilmPAESE: Spagna,
Argentina DURATA: 108 Min
Da My movies
Il madrileno Thomas parte dal Canada dove si è trasferito per recarsi dal suo migliore amico
Julian, attore argentino trapiantato a Madrid. Tomas ha solo quattro giorni da trascorrere con Julian,
e sa che il suo amico ha poco tempo da vivere. Ma entrambi rifiutano di inscenare un addio,
preferendo entrare insieme nello spaesamento che precede la morte, e che comporta anche decisioni
pratiche non più rimandabili. Fra queste la più difficile riguarda Truman, il cane di Julian, per cui si
dovrà trovare una casa e una famiglia, dato che il suo padrone non potrà più occuparsene. E anche
in questo Tomas non lascerà solo il suo amico, costi quel che costi.
Il regista spagnolo Cesc Gay compie un piccolo miracolo: raccontare gli ultimi giorni di un uomo
senza pietismo o retorica dei sentimenti, commuovendoci nel profondo, facendoci sorridere (e
ridere) nonché riflettere sull'importanza delle relazioni fra le creature viventi, compreso Tru(e)man,
"vero uomo" in quanto esempio di mascolina fedeltà e dedizione. Fedele e devoto è Tomas che,
come ogni vero amico, non molla mai, ma lo sono anche le donne della vita di Julian e il figlio
Nico. Ognuno, parente prossimo o conoscente occasionale, reagisce alla dipartita imminente
secondo le proprie umane capacità, riservando delusioni o sorprese. E Julian reagisce a tutti con
quell'onestà e franchezza che gli derivano dal ribaltamento delle priorità che avviene in chiunque si
confronti
con
la
morte.
Cesc Gay affronta la storia di Truman con altrettanta onestà e franchezza, sviluppando una
narrazione autentica, creando un gruppetto di personaggi totalmente credibili e inevitabilmente
amabili: separarsi da loro sarà difficile per gli spettatori come lo è per Tomas staccarsi da Julian, e
viceversa. La sceneggiatura non ha un solo momento di inautenticità o di furbizia (compreso
l'utilizzo del cane a scopo straziante), una sola caduta di stile o di tensione emotiva, anche se quella
tensione viene spesso stemperata dall'umorismo che deriva dalla profonda assurdità non già della
morte, ma della vita stessa, perché ognuno vive, e muore, come può.
Niente è scontato nei personaggi di Truman o nelle svolte della loro storia, eppure tutto ha un senso,
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è umanamente comprensibile, né mai il regista sottovaluta l'intelligenza e l'esperienza di vita degli
spettatori, che (ri)conoscono ognuna delle reazioni di Tomas e Julian, fuori dai cliché del
melodramma. Ricardo Darin nei panni di Julian e Javier Camara in quelli di Tomas sono
straordinari
e
straordinariamente
credibili. La loro amicizia
è di quelle che tutti
vorrebbero
perché
comporta un'accettazione
totale
dell'altro,
manchevolezze
comprese.
Gay
sa
capire,
e
raccontare, ciò di cui "c'è
bisogno", non solo in
punto di morte ma in
corso
di
vita.
La
sceneggiatura, scritta con
Tomàs Aragay, centellina
le
informazioni
inserendole lentamente in punti precisi della storia, come ingredienti da aggiungere solo al
momento giusto, con infinita delicatezza. "Sii forte", si dicono Tomas e la moglie proprio all'inizio
del film, prima che lui parta per Madrid: ed è l'invito del regista, che ci vuole coraggiosi e generosi
come Tomas e Julian, perché (altrimenti) quello che resterà di noi è "molto poco".
La regia e gli attori non manipolano i nostri sentimenti ma li guidano senza falsi pudori nel centro
pieno della storia e nel cuore gonfio dei suoi eroi del quotidiano, centellinando le lacrime (che
sgorgheranno comunque copiose fra il pubblico) e modulando l'accompagnamento musicale per
raccontarci come sono fatti gli uomini, e le donne, di quali meschinità ma anche di quale grandezza
sono capaci.
Truman ci riconcilia con la natura umana, e con il cinema nella sua capacità di raccontarla.
Da IL fatto quotidiano
Cave canem, ossia attenti al cane. Il suo nome è Truman ed è un bell’esemplare di bullmastiff,
affettuoso e taciturno. In conformità con i toni del film di cui è co- protagonista, non abbaia, non
morde e naturalmente parla al suo padrone ma la sua presenza non genera quella melassa che è il
collante di tante pellicole in cui l’amico dell’uomo è al centro della vicenda. Truman, il film
spagnolo di Cesc Gay reduce da un successo internazionale (in patria ha ottenuto cinque Goya, gli
oscar spagnoli) appena uscito anche nei nostri cinema, parla di malattia, di rassegnazione e di
speranza ma lo fa mescolando sapientemente dramma e commedia.
Al raggiungimento di questo mirabile equilibrio concorre proprio il quadrupede Truman la cui
silenziosa consapevole presenza diventa il perno di una tragicomica avventura di amicizia e di
emozioni, ora trattenute ora tumultuose, generalmente ardue da comunicare sullo schermo ma in
questo caso empaticamente trasmesse allo spettatore. Quattro giorni, due amici e un cane bastano
perché alcune grandi domande dell’esistenza - che generalmente ci si pone alla fine di una vita possano essere affrontate mantenendosi all’interno di un perimetro in cui convivono ironia e
malinconia.
Dalla neve del Canada, dove molti anni prima è emigrato e ha messo famiglia, Javier Càmara vola
nella tiepida Madrid per fare una visita di qualche giorno all’amico Ricardo Darìn gravemente
ammalato.
Un’economia di gesti, parole e sguardi trasforma un iniziale apparente fastidio in un confronto
serrato in cui i due (ri)entrano in sintonia, risvegliando affinità e affetti di un lontano passato di cui
appena si percepiscono le eco. Ed è anche grazie a Truman se la gravità della situazione si stempera
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e una sottile allegrezza s’insinua nelle pieghe del dramma. L’energia emotiva rende ricche le
quattro interminabili giornate che, da preparazione alla dipartita e al lutto, si trasformano in
disponibilità a quello che la vita può ancora offrire e che non si misura in termini di tempo ma di
intensità.
E tra una bevuta e una
rievocazione, tra una
passeggiata lenta e una
chiacchierata penetrante
c’è persino tempo per un
soggiorno di qualche ora
a
Amsterdam
per
abbracciare un figlio
distante.
L’efficacia
dellasceneggiatura, abile
nell’evitare il ricatto
sentimentale in un quadro
in cui commuoversi è
quasi
obbligatorio,
s’accompagna a un gioco
di attori che è davvero
esemplare. Javier Càmara
(indimenticabile in Parla
con lei di Almodovar e oggi coprotagonista insieme a Jude Law del Papa giovane di Sorrentino)
forma con l’argentino Ricardo Darìn (Il segreto dei suoi occhi, Storie pazzesche) un duo
straordinario con cui lo spettatore per un’ora e mezzo ha quasi l’impressione di entrare in contatto
personalmente Truman-Un vero amico è per sempre (cosi suona il sottotitolo italiano) è un
melodramma maschio e maschile, formidabile esempio di cinema che ha saputo tenersi lontano dai
luoghi comuni pur affrontando un tema che avrebbe potuto evocarli a gran voce. Anche per questo
più che ammirevole.
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Mercoledì 7 dicembre
Il cielo può attendere
di Ernst Lubitsh
Paese: Usa
Anno: 1943
Durata: 112'
Formato: DCP
Lingua: v.o.
Sottotitoli: sott. it.
Sceneggiatura: Samson Raphaelson
Fotografia: Edward Cronjager
Montaggio: Dorothy Spencer
Musica: Alfred Newman
Con: Gene Tierney, Don Ameche, Charles Coburn, Marjorie
Main
Produzione: Twentieth Century-Fox
Da Quinlan.it
In versione restaurata e splendente, torna nelle sale grazie alla rassegna di Lab 80 “Gene Tierney, la
diva fragile” uno dei capolavori di Ernst Lubitsch. Primo e unico film girato dal cineasta berlinese
in Technicolor, Il cielo può attendere è una straordinaria commedia sentimentale, leggiadra e
commovente, cadenzata dalle ampie ellissi narrative di Samson Raphaelson, dalla voce narrante di
Don Ameche e dalle note di Alfred Newman. E illuminata dalla raffinata bellezza della Tierney.
Scala al Paradiso
Appena defunto, Henry Van Cleve arriva nell’anticamera dell’inferno dove racconta al diavolo la
propria vita: è sempre stato viziato dai genitori, è stato iniziato presto ai piaceri della carne da una
giovane cameriera, gli sono piaciute tantissimo le donne ma è rimasto sempre fedele alla bellissima
moglie… [sinossi]
Io non lavoro qui. Non sono un commesso.
Mi è bastato vedervi e vi ho seguita.
Fosse stato un ristorante, sarei stato un cameriere;
una casa in fiamma, pompiere.
Se foste salita in un ascensore,
l’avrei fermato e avremmo vissuto lì tutta la vita.
Henry Van Cleve (Don Ameche)
Il cielo non ha avuto pazienza, ma questo si è scoperto dopo, il 30 novembre 1947, a quattro anni
dall’uscita di Heaven Can Wait (Il cielo può attendere, 1943). Geniale, ironico, elegante cineasta
europeo capace di conquistare la fabbrica dei sogni, Ernst Lubitsch ci lascia troppo presto, pur
trovando
l’immortalità
nella
sua
corposa
filmografia.
Esordio negli sfavillanti cromatismi del Technicolor e summa di una serie di temi ricorrenti, Il cielo
può attenderediventa quindi una sorta di testamento artistico, di sguardo retrospettivo sul suo
stesso cinema, su una filosofia intrisa di leggerezza, mai di superficialità.
La discesa agli inferi di Henry Van Cleve (Don Ameche), il flashback che ripercorre l’intera vita
dalla nascita all’ultima impresa di questo romantico e gentile Casanova, e il sincero bilancio
esistenziale finiscono inevitabilmente per valicare i confini del grande schermo, arricchendosi
ulteriormente di significati e suggestioni. In questo senso, Il cielo può attendere ingloba buona
parte della filmografia lubitschiana, dissezionando il celeberrimo Lubitsch Touch – quella capacità
di filtrare attraverso una sofisticata ironia sentimenti e pulsioni, cogliendone l’essenza, rendendo
palpabili i fremiti, le rinunce e tutto ciò che apparteneva al fuori campo. E la stessa giocosa deriva
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fantastica, con la messa in scena di un Aldilà dal design geometrico e raffinato, sembra voler
portare ancor più in primo piano quella terra di mezzo che Lubitsch ha spesso dipinto sul grande
schermo: non gli Stati Uniti, non l’Europa, ma Lubitschland – per dirla à la Scott Eyman [1].
Impegnato a smontare e deridere i rigidi schematismi morali dei suoi contemporanei, Lubitsch
tratteggia il consueto contesto aristocratico/altoborghese, un microcosmo che sembra estraneo allo
scorrere della Storia, al succedersi degli eventi, tutto concentrato sulla propria comoda esistenza:
ma è in questo mondo altro che Lubitsch può dare sfogo al ricercato sarcasmo, ai dialoghi brillanti e
pungenti,
alla
rappresentazione
di
sentimenti
totalizzanti,
privi
di
scorie.
Il cielo può attendere vive di fulminee parole e di lunghi silenzi: i dialoghi vivaci e la voce narrante
di Henry/Ameche riempiono di senso le ampie ellissi narrative di Samson Raphaelson [2],
sceneggiatore di alcune delle pellicole più riuscite di Lubitsch – una dozzina di
collaborazioni: Scrivimi
fermo
posta (1940), Mancia
competente (1932), La
vedova
allegra (1934), L’allegro tenente (1931) e via discorrendo. Col suo spirito dissacrante, Raphaelson
è il coautore del Lubitsch Touch.
Le porte dell’inferno de Il cielo può attendere, eleganti e imponenti come il loro padrone di casa (lo
sfortunato Laird Cregar, che morirà l’anno successivo), anticipano le intuizioni scenografiche e
immaginifiche di Scala al Paradiso. Pur con un approccio narrativo e una tensione emotiva
calibrata diversamente, entrambi i film giungono al medesimo traguardo: due memorabili storie
d’amore, estremamente commoventi. Ed è forse questo uno dei risultati più sorprendenti del cinema
di Lubitsch, così frizzante, teatrale, cerebrale, eppure estremamente romantico – se la passione resta
fuori campo, nonostante gli ammiccamenti erotici (si pensi al rapporto con del giovane Henry con la
domestica francese), l’essenza dell’amore deflagra nelle parole di Martha, negli occhi luccicanti
della Tierney, nell’arrendevolezza di Henry.
In versione restaurata e splendente, Il cielo può attendere torna nelle sale grazie alla Lab 80 e alla
rassegna Gene Tierney, la diva fragile. Gli altri titoli di questa preziosa iniziativa sono Vertigine di
Otto Preminger, Il fantasma e la signora Muir di Joseph L. Mankiewicz e Femmina folle di John
M. Stahl.
Note
1. Cfr. Scott Eyman, Ernst Lubitsch: Laughter in Paradise, Simon & Schuster, New York 1993.
2. A Lubitsch e Raphaelson bastano le torte di compleanno, le cravatte e l’armadietto dei medicinali
per restituire allo spettatore la dimensione temporale e l’inarrestabile scorrere del tempo.
Da My movies
Il settantenne Henry Van Cleve dopo la sua morte viene ricevuto all'Inferno, che ritiene sua
destinazione, da 'Sua Eccellenza' al quale prende a narrare ciò che ha fatto in vita. Fin da
bambino, figlio unico di una ricca famiglia newyorkese, aveva manifestato un particolare interesse
per le grazie del gentil sesso. Giunto ai ventisei anni aveva portato via, con la benedizione del
nonno, la promessa sposa al noioso e petulante cugino Albert. Dopo dieci anni di matrimonio la
sposa, stanca delle sue continue avventure, aveva provato a tornare dai genitori finendo però con
il ripensarci ma l'interesse per le altre, pur conservando l'amore per lei, non era cessato. Ora lo
aspetta
la
condanna
eterna?
"Prima che il film fosse terminato, ho incontrato forti opposizioni: il film non aveva alcuno scopo,
non comunicava alcun 'messaggio'. Il protagonista si preoccupava solo di vivere bene e non
cercava di compiere nessuna nobile azione. (...) Mi è riuscito di mostrare un matrimonio felice in
una luce più autentica di quel che accade normalmente al cinema, dove i matrimoni riusciti sono
descritti in genere come una cosa noiosissima, poco eccitante, tutta focolare domestico".
C'è tutto Lubitsch in questa dichiarazione così come c'è molto del suo cinema precedente in
questo film che esce sugli schermi in piena seconda guerra mondiale seguendo di un anno lo
'scandalo' di Essere o non essere. Incontrando per la prima volta il Technicolor e vincendo la sfida
con la descrizione 'astratta' dell'anticamera dell'Inferno e con i colori pastello della dimora dei Van
Cleve, il regista affronta con disinvolta e solo apparente 'leggerezza'il tema della fedeltà
matrimoniale tratteggiando il ritratto di una personalità divisa in due: da un lato l'amore eterno per
una donna e dall'altro l'impossibilità di non prestare attenzione alle altre (tendenza che trasmetterà
al figlio).
Di fatto Lubitsch si spinge però più in là non limitandosi alle avventure sentimentali del suo
protagonista. C'è un profondo senso del passare del tempo con la malinconia che ciò finisce con il
comportare a cui si aggiunge il senso del progressivo approssimarsi del trapasso. Si veda in
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proposito come vengono giocate le due situazioni (la morte della consorte, una splendida Gene
Tierney, e quella di Henry) e come, nel secondo caso, si faccia l'ennesimo (ma ogni volta sempre
originalmente sorprendente) utilizzo del 'non visto' grazie a una porta chiusa. Come sempre e
ancor più di sempre il regista tedesco naturalizzato statunitense infonde in un suo film uno spirito
europeo in cui levità e profondità di sguardo si fondono nell'intrattenimento.
Gene Tierney, una diva fragile di Arturo Invernici
«La sua bellezza ha il colore dell’incanto. Ella infrange ogni frontiera tra sogno e realtà. In lei si
può riconoscere una classe superiore a ogni altra star femminile. I suoi occhi, di uno splendore
incomparabile, appartengono al medesimo alto livello che siamo soliti attribuire ai maestri dei
secoli passati. La sua grazia è fatta di una distinzione e di una eleganza mai ostentate, sempre
accompagnate da un’umiltà sottilmente controllata». Così si legge nell’introduzione a una
monografia francese dedicata all’attrice americana Gene Tierney (Marceau Devillers, Gene Tierney,
Éditions Pygmalion/Gérard Watelet, Parigi 1987). Una bellezza, aggiungiamo noi, fragile, delicata,
trasparente come un cristallo di Boemia, fine come una porcellana di Dresda. Fragile quale fu,
purtroppo, la sua vita personale (amori contrastati, come quello per il principe Ali Khan; un
matrimonio fallito con lo stilista Oleg Cassini; la nascita di una figlia con seri problemi di salute; un
fortissimo esaurimento nervoso che la colpì a metà degli anni Cinquanta; ma poi il suo ultimo,
felice matrimonio con il petroliere W. Howard Lee, che le portò finalmente la serenità tanto a lungo
cercata). Una fragilità che tuttavia non le impedì di diventare una delle maggiori icone del cinema
americano classico, e di costruire una filmografia relativamente breve ma significativa, i cui titoli
più rappresentativi sono i quattro proposti da Lab 80 film. Il primo è Il cielo può attendere (Heaven
Can Wait, 1943) del Maestro della commedia Ernst Lubitsch. In questa riscrittura del mito di Don
Giovanni, Gene è la donna della vita del libertino protagonista, più volte tradita, ma sempre
profondamente amata, e alla quale il nostro moderno burlador sempre e inevitabilmente ritorna. Una
figura femminile amata con un trasporto quasi “stilnovista”, come “stilnovista” è l’interesse nutrito
da almeno uno dei tre personaggi maschili per la Laura dell’eponimo film di Otto Preminger
(Vertigine, Laura, 1944). Creduta morta, presente per la prima metà del film solo come suggestivo
ritratto, prima di tornare finalmente nel regno dei vivi, la sua identità viene ricostruita per
frammenti, attraverso flashback e suggestioni che sono di volta in volta platonico trasporto per una
donna idealizzata (l’anziano esteta Clifton Webb), prosaica infatuazione (il bellimbusto, giovane
Vincent Price), attrazione quasi necrofila (il detective Dana Andrews). La fragilità di Gene Tierney
si rivela qui oltremodo efficace nella descrizione di una figura femminile divisa fra lo status di
fantasma e quello di donna concreta e in carne e ossa. Personaggio diametralmente opposto, quello
interpretato dall’attrice in Femmina folle (Leave Her to Heaven, 1945) di John M. Stahl. Una
machiavellica dark lady, una matta col botto afflitta da patologica gelosia in un thriller il cui
violento Technicolor restituisce per contrasto tutta la glaciale freddezza che il volto di Gene Tierney
sa esprimere a ogni suo atto di violenza. Il fantasma e la signora Muir (The Ghost and Mrs. Muir,
1947) di Joseph L. Mankiewicz, infine, aggiunge un altro ritratto alla galleria di figure femminili di
Gene Tierney. L’eterea ambientazione marittima, il brumoso bianco e nero, la musica di Bernard
Herrmann, i battibecchi tra una vedova con bambina e il burbero fantasma di un vecchio lupo di
mare sono gli ingredienti di un film che è un po' storia di fantasmi e un po' amour fou di gusto
surrealista, con qualche tocco, persino, di screwball comedy. Gene Tierney, che duetta assai
gustosamente con un portentoso Rex Harrison, è una donna sola che sa dimostrarsi forte, concreta,
al punto da tener testa e al contempo accettare il fascino di qualcuno che viene letteralmente da un
altro mondo. Una diva fragile, dicevamo, che tuttavia ha saputo trovare una sua forza, sia nella vita
che sullo schermo. Come scrive lei stessa, a conclusione della sua autobiografia (Gene Tierney,
Self-Portrait, Wyden Books, New York 1979), «Ho attraversato un mondo che è esistito (la
Hollywood degli anni della guerra e del dopoguerra), e ho vissuto in un mondo del quale non
conoscevo l’esistenza (la prigione dello spirito). Se si potesse riassumere in una frase ciò che queste
esperienze mi hanno insegnato, sarebbe “La vita non è un film”. Ma questa affermazione non vuole
essere né triste né nostalgica. Mi posso solo porre una domanda: se al contrario la mia vita fosse
stata davvero un film, si sareb
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Giovedì 15 dicembre
Microbo e Gasolina
di Michel Gondry
sinossi
Microbo è un ragazzino timido, che si perde spesso nei suoi
disegni. Gasolina è un ragazzo brillante e pieno d'inventiva,
che arriva a scuola a metà dell'anno scolastico. I due
diventano subito amici. Si avvicinano le vacanze estive e
nessuno dei due ha voglia di passarle con la propria famiglia.
Con il motore di un tosaerba e qualche asse di legno, si
costruiscono la loro “automobile” e partono all'avventura
sulle strade di Francia.
Titolo originale – Microbe et Gasoil
Regia e sceneggiatura – Michel Gondry
Fotografia – Laurent Brunet
Montaggio – Elise Fievet
Musica – Jean-Claude Vannier
Scenografia – Stéphane Rozenbaum
Costumi – Florence Fontaine
Interpreti – Ange Dargent (Daniel, detto Microbo), Théophile Baquet (Théo, detto Gasolina), Diane
Besnier (Laura), Audrey Tautou (Marie-Thérèse), Vincent Lamoureux (Steve), Agathe Peigney
(Agathe), Douglas Brosset (Oscar), Charles Raymond (Kevin), Ferninand Roux-Balme (Simon),
Marc Delarue (Romain), Ely Penh (il capobanda), Jana Bittnerova (la signora Leloir), Zimsky (il
signor Leloir), Fabio Zenoni (Christian), Laurent Poitrenaux (il dentista), Hélène Alexandridis (la
moglie del dentista), Elsa Truscello (l'assistente di volo), Masako Tomita (la parrucchiera), Eriko
Takeda (la massaggiatrice)
Produzione – Georges Bermann per Partizan Films/StudioCanal
Distribuzione – Movie Inspired
Durata – 105’
Origine – Francia, 2015
Crescere, filmare, immaginare Fabrizio Tassi
Bricolage della memoria. Pezzi del passato – cose, persone, emozioni – ammassati alla rinfusa in
qualche deposito di ricordi. L'infanzia a Versailles, l'amico emarginato che assemblava oggetti, la
famiglia hippy, i capelli lunghi per distinguersi, il buco nella parete di casa, i disegni, il fratello
punk, la madre depressa… Si direbbe un mucchio di cianfrusaglia. Che storia può venir fuori da un
ammasso di rottami? Eppure a volte basta poco per (ri)trovare la libertà di essere se stessi (e magari
anche il piacere di fare cinema). Un'improbabile macchina artigianale, un rifugio con le ruote, un
sogno di libertà che si realizza quarant'anni dopo. Il film di Michel Gondry è un po' come la casa
mobile costruita da Microbe e Gasoil (Microbo e Gasolina). Il regista francese ha assemblato i suoi
ricordi, li ha smontati e rimontati, e ha trovato una verità, una bellezza aerea, una leggerezza
malinconica, che raramente il suo cinema ha avuto in passato. Non sarà una terapia, ma poco ci
manca, visto che Gondry usciva dallo stato di prostrazione (fisica e psicologica) in cui l'aveva
lasciato l'ambizioso e visionario Mood Indigo, non certo un successo planetario di critica e
pubblico. Aveva bisogno di una “cura dimagrante”. Di qualcosa che fosse più personale, intimo,
genuino. Ed ecco Microbe et Gasoil, che in confronto sembra quasi trasparente.
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Assemblaggio di ricordi, sì, ma intorno a un'idea, un sentimento. Un po' come fanno i due ragazzi,
che costruiscono la casa mobile quando si imbattono in un motore da rianimare. Sembrerebbe uno
scarto, un ferrovecchio. Microbo (che poi sarebbe il giovane Gondry) vede solo il motore di un
tosaerba che non funziona
più. Gasolina invece lo
ripara e ci costruisce attorno
un sogno di libertà, da
realizzare insieme. Ed ecco
che la storia del film e la
storia dentro il film trovano
una
consonanza
sentimentale che rende
Microbo e Gasolina ancora
più speciale. È stato lo
stesso Gondry a ricordare
quella voglia di costruire
un'auto e partire, rimasta
frustrata tanti anni fa. «Ho
pensato che farne un film
fosse un modo per trasformare in realtà un sogno dell'infanzia». Così come ha confermato la
somiglianza tra la propria adolescenza (il ricordo che ne ha) e il personaggio di Daniel-Microbe, a
partire dall'abitudine di diventare amico di tutti gli emarginati e rifiutati della scuola (Théo-Gasoil è
il risultato della somma di alcuni veri amici), per proseguire con la famiglia fragile e antiborghese,
col fatto di essere stato un ragazzino eccentrico, amante del disegno, spesso scambiato per una
ragazza, con dettagli come il buco fatto in camera sua per vedere quanto era spessa la parete.
È come se Gondry, in un momento problematico della sua carriera di regista (o almeno così lo
percepiva), con un altro progetto impegnativo alle porte (Ubik da Philip Dick), avesse voluto
tornare alle origini, alle ragioni che lo hanno portato a diventare un cineasta, alle emozioni e le
esperienze che ne hanno determinato il carattere e la creatività. Il bello è che tutta questa realtà
rievocata, e questo doppiofondo esistenziale personalissimo, creano un film che è l'esatto contrario
di un'opera programmatica o meccanicamente sentimentale. Come se l'atto di guardarsi indietro,
dentro, lo avesse davvero portato fino alla sorgente della sua ispirazione, liberandolo da orpelli e
sovrastrutture estetizzanti, dall'ansia di essere originale, dal bisogno di riempire, inventare, stupire.
Chi sono io? Come mi vedono gli altri? Perché non posso semplicemente essere come sono? Ecco
le domande che si fa Daniel-Microbe, come ogni ragazzino di tredici-quattordici anni, e il motivo
per cui si mette in viaggio sulla casa mobile insieme all'amico. Il risultato, cinematograficamente
parlando, è semplice e sincero. Un film esile e delizioso, che non pretende di dire qualcosa di nuovo
nel buddy movie, ma parla, con la grazia infantile e la buffa seriosità di quell'età, della fatica di
crescere, del potere dell'immaginazione, della forza dell'amicizia, dell'ossessione dell'amore.
Tre elementi contribuiscono alla stravaganza di tono e di tocco (ma senza chissà quale pretesa di
originalità) e al miscuglio di complicità e leggero spaesamento che accompagna la visione. Innanzi
tutto il fatto che il film sia ambientato nel presente ma nasca da un immaginario radicato nel passato
(dell'autore). Si ha spesso la sensazione di guardare qualcosa che proviene da un altro tempo che sta
fuori dal tempo, anche grazie alle musiche rétro di Jean-Claude Vannier. In effetti c'è pochissima
tecnologia in scena, cosa giustificata dall'antimodernità esibita dai due amici. Uno smartphone
compare giusto il tempo di finire letteralmente nella cacca, opportunamente sotterrato come un
cadavere, anche se si ostina a suonare. D'altra parte Daniel e Théo sono due creativi che amano le
cose artigianali – disegnare, assemblare, costruire, riparare – e anche qui è facile trovare una
corrispondenza con un cinema che rinuncia a qualsiasi trucco digitale e artificiosità.
In secondo luogo, questo film così radicato nel reale non ha nessuna intenzione però di essere
banalmente realista. La trama della fuga è intessuta di apparizioni che a volte sono palesemente
visionarie ma che in altri casi lasciano un dubbio sulla loro consistenza. Nessun segnale
cinematografico anticipa l'uscita immaginaria dall'acqua del lago dell'amata Laura. Nulla fa pensare
che il dentista paterno o le parrucchiere-prostitute non siano “reali”, eppure qualcosa dentro quelle
sequenza ce le fa apparire incongruenti. Basta uno stacco sul finestrino di un aereo per farci
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precipitare in un sogno di Microbo (l'aereo che vola a bassa quota e che atterra all'indietro) che però
non è vissuto in soggettiva e non presenta alcuna discontinuità linguistica e formale. I sogni sono il
collante, le viti e i bulloni che Gondry ha utilizzato per tenere insieme i “rottami” della sua
memoria. Sogni che ha fatto mentre stava cominciando a lavorare al film (alcuni dei quali
provengono dalla sua infanzia) e che sono entrati a far parte della trama, dal dentista alle
parrucchiere, dalla squadra di rugby al viaggio in aereo.
Infine c'è un terzo elemento, fondamentale, legato al modo di esprimersi dei ragazzini e che
potremmo quasi chiamare “rohmeriano”, in linea con ciò che lo stesso Gondry ha ammesso,
rievocando il maestro francese e i suoi «personaggi che dicono cose reali con sentimenti reali, ma
con un linguaggio molto scritto e poco realista». Uno degli aspetti più curiosi e insieme comici del
film, infatti, sta nel linguaggio adottato dai ragazzi, che suona spesso curiosamente datato, o
eccessivamente appropriato, adulto, sentenzioso, o insolitamente ispirato e impostato allo stesso
tempo. E così il giovanissimo Microbo può risultare perfettamente credibile e insieme buffo,
quando dice «Non voglio rinunciare all'amore, è un tipo di dolore nobile e bello», o quando osserva
che ormai nel nostro mondo «Non ci sono più transizioni» e «Viviamo nel passato». I dialoghi sono
molto scritti e appiccicati alla naturalezza dei due giovani attori, di cui vediamo insieme la maturità
eccessiva e l'infantile ingenuità.
Qui Gondry non ha tesi da svolgere o intuizioni estetiche da padroneggiare, e lascia nello
spettatore una sensazione di levità venata di malinconia, di un disimpegno liberatorio che nasconde
un retrogusto amaro, perché è solo con amarezza che possiamo accettare la fine dell'infanzia o
l'inadeguatezza degli adulti, di coloro che avrebbero dovuto insegnarci a vivere. Tutto questo in una
storia in cui la questione dell'identità è strettamente legata a quella del potere coercitivo dello
sguardo altrui. Il titolo stesso sottolinea l'importanza dei due soprannomi, che i ragazzi rifiutano,
perché li costringono dentro un ruolo, li identificano con la superficie della loro realtà. Lo
strumento per evadere da quelle catene, per trovare la libertà di essere se stessi, sta
nell'immaginazione, che prende la forma di una casa mobile e di un viaggio improbabile.
Non è un film che sta
addosso ai personaggi,
che si incanta davanti ai
primissimi piani, che
vuole
penetrare
le
emozioni
dei
protagonisti, anzi si
“accontenta” volentieri
di starli a guardare
anche a una certa
distanza,
di
farli
muovere dentro e fuori
piani medi e lunghi,
come se cercassero un
loro spazio, come se provassero a invertire il rapporto tra se stessi e il mondo. Tanto che alla fine, di
fronte alla madre che osserva quanto è cresciuto in quei pochi giorni di lontananza, Microbo
risponde che in realtà «è tutto il resto che si è ridotto».
A proposito del magnifico finale. Claude-Microbe viene separato dall'amico, si presume per
sempre, e non c'è spazio per le consolazioni, crescere significa anche imparare che ci sono cose che
non possiamo controllare, che le persone entrano ed escono dalla nostra vita, ma ciò non toglie che
possiamo portarle sempre con noi (il trucco del pugno con cui punisce il bullo). Ma soprattutto, alla
fine, entriamo improvvisamente dentro la storia di un'altra, Laura, che fino a quel momento era stata
solo l'oggetto di un desiderio e un amore impossibili. Perché il film è anche questo, un'educazione
sentimentale. E alla fine rimaniamo spiazzati, quando la storia di Claude sembra finita e noi ci
ritroviamo a guardarlo con gli occhi di lei, le sue parole, i suoi desideri che non conoscevamo. E
vorremmo davvero che si voltasse, Daniel, come dice lei senza dirlo, ma allo stesso tempo
sappiamo che non lo farà, perché la vita a volte è crudele, e comunque è infinitamente più dolce
quel senso di perdita che sta dentro un incantesimo truccato, una conta all'infinito.
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