seconda - Formas

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seconda - Formas
Quaderni di
Salute e Territorio
Rivista bimestrale
di politica socio-sanitaria
Laboratorio Regionale
per la Formazione Sanitaria
Pianeta Salute
seconda edizione
Pianeta Salute
Il cambiamento del concetto di salute alla luce delle trasformazioni economiche, sociali, culturali e ambientali degli ultimi
trent’anni.
Quaderni di
ETS
Percorso formativo sulla cultura
della salute nel terzo millennio
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Collana editoriale del Formas
Laboratorio Regionale per la Formazione Sanitaria
A cura di
Salute e territorio
Rivista bimestrale di politica sociosanitaria
Direttore responsabile
Mariella Crocellà
Comitato editoriale
Gian Franco Gensini
Preside Facoltà di Medicina e Chirurgia, Università di Firenze
Mario Del Vecchio
Professore associato Università di Firenze, Docente SDA Bocconi, Milano
Antonio Panti
Presidente Ordine Medici Chirurghi e Odontoiatri Provincia di Firenze
Luigi Setti
Direttore Laboratorio Regionale per la Formazione Sanitaria, FORMAS
Redazione
Antonio Alfano
Gianni Amunni
Alessandro Bussotti
Bruno Cravedi
Laura D’Addio
Gian Paolo Donzelli
Claudio Galanti
Carlo Hanau
Gavino Maciocco
Benedetta Novelli
Mariella Orsi
Daniela Papini
Paolo Sarti
Luigi Tonelli
Segreteria di redazione
Simonetta Piazzesi
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Quaderni di Salute e territorio
Pianeta salute
seconda edizione
Percorso formativo sulla cultura
della salute nel terzo millennio
Edizioni ETS
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I testi riportati in questa pubblicazione sono tratti dalla trascrizione
delle “Lezioni intorno al Pianeta salute – seconda edizione” che si
sono tenute il 19, 24 novembre, l’1 e il 15 dicembre 2010 a Villa La
Quiete alle Montalve di Firenze. Il corso, promosso dal Formas, è
stato organizzato da Gavino Maciocco. La trascrizione e l’editing
dei testi è stata curata da Marco Ramacciotti.
© Copyright 2011
EDIZIONI ETS
Piazza Carrara, 16-19, I-56126 Pisa
[email protected]
www.edizioniets.com
Distribuzione
PDE, Via Tevere 54, I-50019 Sesto Fiorentino [Firenze]
ISBN 978-884673208-8
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Indice
Presentazione
Mariella Crocellà
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L’evoluzione dei sistemi sanitari
Gavino Maciocco
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Information tecnology e farmaci
Piero Salvadori
25
La sfida di Kaiser Permanente
Elisa Scopetani
31
Il federalismo in sanità
Nerina Dirindin
41
Sistemi sanitari regionali a confronto
Sabina Nuti
55
Le priorità della Sanità toscana
Andrea Leto
65
I determinanti della salute
Gavino Maciocco
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Le diseguaglianze di salute nei Paesi sviluppati
Alessandro Barchielli
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Le malattie croniche
Alessandro Bussotti
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PIANETA SALUTE
L’utilizzo del sistema informativo
Paolo Francesconi
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Gli screening
Marco Zappa
107
Le norme fondamentali del Codice deontologico
Antonio Panti
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La libertà e i diritti dei pazienti
Alfredo Zuppiroli
119
La sperimentazione clinica
Claudio Galanti
127
L’accesso ai farmaci nei Paesi in via di sviluppo
Daniele Dionisio
135
Le diseguaglianze di accesso ai servizi sanitari
Sara Barsanti
143
Percorsi di integrazione sociale
Giulia Capitani
155
La salute dei migranti
Francesca Santomauro
165
L’impegno per il rispetto dei diritti umani
Andrea Bassetti
177
La situazione degli immigrati in Toscana
Francesco Cipriani
185
La cooperazione sanitaria internazionale
Pepa Caldès
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Resoconto e valutazione di un progetto africano
Barbara Tomasin
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Presentazione
La scelta di pubblicare la seconda edizione del corso dedicato a
“Pianeta salute”, nasce da una considerazione fondamentale: programmare la sanità, destinare le risorse economiche e umane a ricerche e progetti che hanno l’obiettivo di tutelare la salute, comporta una visione critica e approfondita di quelli che sono gli attuali scenari nel mondo.
Il percorso scelto dal coordinatore del corso, Gavino Maciocco,
offre agli operatori ed in particolare ai responsabili degli Enti locali, una mole di dati che possono rimettere in discussione le scelte
operate e quelle ancora in discussione, oppure confermarle e arricchirle di nuovi spunti.
Le diseguaglianze nella salute si determinano non solo nei Paesi
più svantaggiati, ma anche all’interno della stessa regione o città
che si è conquistata, meritatamente, la fama di praticare una buona sanità.
Lo spazio riservato in questo corso alla Toscana, pur rassicurandoci sulla qualità dei servizi offerti, mette in evidenza i problemi
posti da una popolazione multietnica con particolari bisogni di sostegno non solo nel settore sanitario.
La cooperazione sanitaria, con le esperienze riportate, vuole dimostrare l’impegno assunto in particolare dalla nostra Regione per
intervenire su realtà che la coscienza civile recepisce come inaccettabili: nascere al sud del mondo continua a rappresentare una disperata lotta per la sopravvivenza, in gran parte perdente. L’impegno
di grandi organizzazioni internazionali possono migliorare, anche se
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non risolvere il problema. Ma il fatto che una Regione e dei piccoli
Comuni siano presenti con le loro minime risorse in questa impari
lotta contro le diseguaglianze nel diritto alla vita, ha un profondo
significato etico che qualifica la loro politica, le persone che la rappresentano, i professionisti che la realizzano.
Mariella Crocellà
Direttore di Salute e territorio
bimestrale di politica socio-sanitaria
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L’evoluzione dei sistemi sanitari
Gavino Maciocco
Dipartimento Sanità pubblica, Università di Firenze
In questa lezione verrà presentato il percorso dei sistemi sanitari
negli ultimi due secoli con particolare riguardo alle tendenze attuali.
In questo arco temporale abbiamo avuto due fasi, ora ci troviamo
nella seconda, molto turbolenta e complessa, perché basta leggere
gli articoli sull’economia per rendersi conto che il nostro destino è
legato a quello che accade in India, in Cina, nella borsa di New
York, anche in campo sanitario.
Un sistema sanitario, secondo la definizione dell’OMS nel 2000,
ha fondamentalmente degli input, ossia, delle risorse che vengono
classificate in questi quattro capitoli:
1. Lo stewardship, ovvero le norme, le regole generali.
2. Le risorse, fisiche, della conoscenza, la formazione e così via.
3. L’erogazione dei servizi, quindi la prima linea di azione.
4. Il finanziamento.
Sulla base di questi quattro pilastri, un sistema sanitario deve
raggiungere tre obiettivi fondamentali, di cui uno è sempre stato dato per scontato: secondo l’OMS, infatti, il compito di un sistema sanitario è quello di migliorare la salute della popolazione, specificando però che la salute della popolazione deve migliorare in termini di
medie di livello generale, quindi, di speranza di vita alla nascita. Da
questo punto di vista registriamo un andamento molto positivo: da
quarant’anni, per ogni decennio, guadagniamo due anni e mezzo di
longevità. In Italia siamo arrivati a quasi ottantacinque anni per le
donne e circa ottanta anni per gli uomini, però c’è un altro elemento, l’equità. Equità significa che si deve cercare di capire come queste medie, ottanta e ottantacinque anni, sono distribuite all’interno
dei vari gruppi della popolazione. In certi casi ci sono anche dieci
anni di differenza tra il gruppo più istruito e quello che lo è di meno, tra i più ricchi e i più poveri. Come diceva don Milani: le medie
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sono vigliacche. Ci sono poi questi due elementi che invece sono stati aggiunti nel rapporto del 2000: la responsiveness e la protezione
finanziaria.
Protezione finanziaria significa che un sistema sanitario deve
preoccuparsi anche del fatto che nessuna persona vada in rovina a
causa di una malattia e quindi deve tenere conto del finanziamento.
Mentre lo stato di salute e il finanziamento sono abbastanza intuitivi, la responsiveness lo è un po’ meno, anche perché non esiste una
traduzione immediata del termine in italiano. Noi consideriamo come responsiveness il modo con cui trattiamo i nostri pazienti, con
particolare riguardo al rispetto dell’autonomia, della riservatezza e
della dignità, la libertà di scelta del provider, di chi ci deve curare, la
comunicazione, la tempestività della risposta, il comfort ambientale
e l’accessibilità alla famiglia e al supporto della comunità all’interno
della struttura.
È molto importante definire questo aspetto perché, sulla base dei
tre elementi citati l’OMS nel 2000 ha stilato la famosa classifica che
pose l’Italia al secondo posto. Due anni dopo, l’OMS, analizzando
il metodo con cui erano state raccolte le informazioni per stilare
questa classifica, scoprì che in Italia era stato commesso un errore
perché la domanda: a che livello di responsiveness è il sistema? andrebbe posta ai pazienti, ai cittadini, invece fu rivolta ai Direttori
generali. Rifacendo correttamente il percorso, intervistando pazienti
e cittadini, infatti siamo retrocessi dove ci spetta, in fondo alla classifica, un po’ prima di Grecia e Portogallo. Noi continuiamo a parlare di secondo posto, ma solo perché alla revisione non fu data sufficiente pubblicità; da allora l’OMS ha smesso di fare classifiche,
mentre c’è un’istituzione europea che sta continuando a farle, l’ultima è del 2009 e anche lì siamo posizionati circa a metà, considerando tutti i Paesi europei, compresi quelli dell’Est.
Cosa sta succedendo ai sistemi sanitari
Negli anni novanta iniziavano le grandi fibrillazioni dei sistemi
sanitari dovute alla crisi petrolifera che si era sviluppata negli anni
Settanta, e che aveva prodotto effetti economici negli anni Ottanta
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cominciando a rendere difficile e complesso il finanziamento di sistemi di welfare. In Italia questa crisi, dal punto di vista normativo,
produsse le riforme 502/92 e 517/93, che si ponevano proprio l’obiettivo di affrontare i temi dell’uso delle risorse, dell’efficienza e
quindi l’aziendalizzazione, un fenomeno che avveniva su scala internazionale, non solo in Italia. Tutti i Paesi misero all’ordine del giorno delle riforme che facessero aumentare il livello di efficienza, con
trasformazioni di carattere istituzionale, organizzativo, eccetera, al
punto che due importanti analisti di politica sanitaria affermarono:
il primo, le riforme sanitarie sono state una delle epidemie mondiali
degli anni Novanta, il secondo, ancora più acuto, affermava: con monotona regolarità i politici reagiscono ai problemi mal definiti dei loro
sistemi sanitari ridisorganizzandoli.
Se questi due analisti esprimevano questi giudizi nel 1995, quindici anni dopo l’epidemia non è scomparsa, ma continua a mordere
e tutt’ora i sistemi sanitari affrontano continuamente questioni che
hanno a che fare con l’instabilità. Attualmente al mondo non c’è sistema sanitario che sia in una condizione di stabilità e pressoché
tutti vanno continuamente incontro a modifiche, aggiustamenti e
così via.
Le molle che producono i cambiamenti nei sistemi sanitari possono essere diverse. Se si fa un brainstorming e ci si chiede: cos’è che
determina i cambiamenti nei sistemi sanitari? ci si rende conto che
sono tanti i fattori in grado di modificarli: l’invecchiamento della
popolazione, i cambiamenti epidemiologici-demografici, le nuove
tecnologie, le ultime acquisizioni della scienza, anche se ormai tutti
sono concordi nell’affermare che il più importante è quello politico.
Secondo l’americano Victor Fuchs, il più importante economista
sanitario: i grandi cambiamenti della sanità sono atti politici intrapresi per fini politici. Si tratta di argomenti che hanno a che fare con gli
assetti della società, con le grandi questioni economiche, morali, di
valori, eccetera. Fuchs poi aggiunge: la natura politica di tali cambiamenti fu chiara quando Otto von Bismarck introdusse nel diciannovesimo secolo l’assicurazione sanitaria nazionale nel nuovo Stato tedesco
e lo fu altrettanto quando l’Inghilterra istituì il Servizio sanitario nazionale dopo la seconda guerra mondiale. Dal punto di vista storico a
metà dell’Ottocento rileviamo i primi elementi che producono le
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scintille che daranno vita ai sistemi sanitari moderni. Il 1848 come
anno simbolico, nella storia dell’Ottocento è una specie di crinale
prima del quale c’è la Rivoluzione francese e anche l’inizio della rivoluzione industriale. Si affermano alcuni diritti e principi fondamentali: a causa della rivoluzione industriale, si capisce il valore della salute in termini di produttività, Gli amministratori inglesi trasformano le proprie città rendendole più vivibili, attrezzando fognature, acquedotti, aree verdi e nuove aree residenziali, per allungare
la vita in buona salute degli operai, che a Liverpool avevano una
speranza di vita di quindici anni e la rivoluzione industriale rischiava di non andare avanti. Nel 1848 c’è una fase in cui il valore della
salute, per la prima volta nella storia, viene visto in funzione di
un’utilità generale, mentre prima di allora i problemi di salute, la
malattia e la morte, erano questioni individuali che avevano a che
fare non con la produttività ma con la religione, la magia, il malocchio, eccetera. Il 1848 rappresenta un crinale perché quella forza –
lavoro, che fino ad allora era considerata un patrimonio economico
e anche trattata in termini di schiavitù – quattordici ore di lavoro,
turni di notte e così via – prende coscienza dei propri diritti.
Inizia un nuovo periodo: le prime rivoluzioni a Parigi e Berlino e
il Manifesto di Marx ed Engels segnano una fase di riscatto della
classe operaia che era stata sfruttata fino ad allora. Nella seconda
metà dell’Ottocento i medici prendono coscienza dell’importanza
delle condizioni di vita sulle malattie. Se si dovesse individuare l’inizio della Medicina sociale, che prende in considerazione il contesto
sociale in cui vivono le persone in funzione della patologia, dopo
Bernardino Ramazzini, che nel Settecento si occupava soprattutto di
patologie del lavoro, sicuramente Rudolf Virchow è la persona che
meglio ha interpretato la funzione del concetto dell’origine multifattoriale delle malattie ed ha sottolineato come le condizioni materiali
della vita quotidiana delle persone fossero le principali cause di malattia e di morte. Nel 1848 il Governo prussiano inviò Virchow in
una determinata regione dove c’era un’epidemia di tifo. Virchow
mandò una lettera al Governo dicendo: guardate, qui loro pensavano
che fosse il clima a determinare la malattia, perché le teorie prevalenti
nella diffusione delle malattie infettive erano i miasmi e gli umori, ma
le cause sono le pessime condizioni igieniche e la presenza di uno Stato
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autoritario e repressivo. Quando Virchow propose la sua terapia previde tre ingredienti principali: l’istruzione, la libertà e la prosperità.
Oltre a svolgere il ruolo di scienziato, Virchow era anche deputato e
diventò Consigliere di Bismarck per gli aspetti sanitari. Bismarck è
importante perché è uno statista che affronta la questione della sicurezza sociale e in particolare dell’assistenza sanitaria, che era una
delle rivendicazioni dei partiti socialisti dei sindacati operai. Secondo Bismarck: la fede nell’armonia degli interessi ha fatto bancarotta
nella storia, nessun dubbio che l’individuo possa fare del bene, ma la
questione sociale non può essere risolta che dallo Stato.
Bismarck nella prima parte della frase, la fede nell’armonia degli
interessi ha fatto bancarotta nella storia, si riferiva a Adam Smith, il
quale pensava che l’armonia degli interessi fosse l’elemento che
avrebbe regolato il mercato. Siamo nella seconda metà del 700,
Smith propone la teoria della regolazione spontanea del mercato,
c’è una mano invisibile che regola il sistema, mettendo sempre in
equilibrio la domanda e l’offerta. La regolazione di domanda e offerta non richiede l’intervento dello Stato, che anzi deve stare fuori
dalle dinamiche del mercato. L’idea di Adam Smith è che il mercato
genera ricchezza e su questo ha avuto ragione perché dagli inizi dell’Ottocento si è avuto, grazie alla rivoluzione industriale e al mercato, un fenomeno esplosivo, in termini di aumento di redditi, longevità e popolazione. Bismarck però ricorda a Smith che la mano invisibile non ha funzionato dal punto di vista della distribuzione della
ricchezza.
A questo punto inizia una fase storica di circa cento anni, l’idea
di Bismarck è che gli effetti negativi del mercato vanno mitigati dallo Stato, quindi, un capitalismo che deve trovare, all’interno dei
meccanismi dello Stato, gli elementi che evitano eccessive diseguaglianze, la caduta in povertà delle persone a causa della malattia, la
perdita del lavoro e così via. Bismarck non era certamente socialista
né progressista, tanto è vero che, prima di fare le riforme, instaurò
un regime molto repressivo nei confronti dei sindacati, dei partiti
politici di sinistra, eccetera, alla fine però egli è soprattutto ricordato per aver instaurato, alla fine dell’Ottocento, la prima struttura di
welfare state che conosciamo, soprattutto per la sua modernità. Sicuramente il welfare state, pensato e realizzato in Germania alla fine
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dell’Ottocento, è un modello su cui ancora larga parte dei Paesi industrializzati svolgono e attivano i loro processi, mentre la maggior
parte dell’umanità ancora non ha conquistato il diritto alla salute.
Nell’83 viene istituita l’assicurazione obbligatoria contro le malattie, nell’85, l’assicurazione contro gli infortuni sul lavoro e
nell’89, la legge sull’invalidità e vecchiaia. Il principale elemento
che regola questo tipo di modello, che prenderà giustamente il nome di Bismarck, è quello che lo Stato dà le regole, definisce la cornice politico-istituzionale, ma dal punto di vista della gestione, tutto
avviene all’interno di una relazione tra imprese e lavoratori. Attraverso i loro contributi i lavoratori e le imprese danno vita a delle
Casse che poi servono a erogare i benefici agli operai che, assenti
per malattia, hanno un’indennità per mancato stipendio e l’assistenza medica e ospedaliera. Lo Stato indica l’aliquota che devono versare i lavoratori e le imprese e stabilisce quali sono i benefici che devono corrispondere a questo tipo di partecipazione. Questo è il modello Bismarck, lo Stato non interviene direttamente ma stabilisce le
regole; nel 1880-’90 non tutta la popolazione tedesca era automaticamente assicurata, ma solo alcune categorie di lavoro. Iniziarono i
lavoratori dell’industria, poi i trasporti, gli Enti pubblici, la copertura era poco più del 10% negli anni Ottanta, del 30% agli inizi del
secolo e soltanto dopo la guerra, negli anni Cinquanta, è a livello
quasi universale. Buona parte dell’Europa, ancora oggi, adotta questo tipo di assicurazione, che in molti casi diventa universalistica
perché coloro che non appartengono a una determinata categoria,
vengono assicurati dallo Stato. Il modello tedesco diventa un casoscuola e, alla fine, tutti i Paesi industrializzati lo adotteranno in forme più o meno simili. In Italia si comincia nel 1925 con la prima
Cassa mutua obbligatoria, INADEL, dei dipendenti degli Enti locali e l’ultima sarà l’INAM nel 1943. Anche negli Stati Uniti si cercò
di dare vita a una forma di assicurazione contro le malattie; per tutto l’Ottocento e la prima parte del Novecento però, lo Stato non
doveva intervenire, ma doveva stare fuori dall’economia e da tutti i
processi sociali. Negli anni Trenta con la grande depressione avviene un sensibile cambiamento, viene infatti infranto l’elemento fondante della Costituzione statunitense: lo Stato non deve intervenire.
Roosevelt invece, con il suo new deal, fa intervenire lo Stato per
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affrontare i problemi della grande depressione, la disoccupazione, il
collasso dell’economia, eccetera e lo fa attraverso investimenti pubblici per la costruzione di imponenti infrastrutture, meccanismi e
reti di protezione sociale, ovvero, indennità di disoccupazione, pensione di vecchiaia, supporto alle donne in gravidanza e agli invalidi.
Nella legge di Social Security Act, che regolava tutti questi elementi,
Roosevelt aveva inserito anche l’assicurazione sanitaria nazionale,
ma ci fu un’opposizione così violenta, in particolare da parte dei
medici, che questa proposta non entrò nel provvedimento. Bisogna
dire che tutta questa operazione fu sostenuta, anche dal punto di vista economico, dai consigli di John Keynes, un economista inglese
sostenitore delle Stato interventista, concetto che ben si coniugava
con l’idea di Bismarck. Lo Stato doveva intervenire per mitigare gli
effetti del mercato, del capitalismo; Roosevelt attuò il new deal aumentando le tasse, prima del 1929 l’aliquota massima fiscale era del
19%, lui la portò al 65% e arrivò al 92% quando ci fu la seconda
guerra mondiale. L’elemento dell’uso della fiscalità, non soltanto
per finanziare tutto quello che andava sovvenzionato, ma anche per
ridistribuire il reddito darà vita a quello che sarà considerato il principale merito attribuito a Roosevelt, l’aver creato la classe media.
Questo elemento ha determinato negli Stati Uniti una tradizione di
alta fiscalità, per garantire la distribuzione del reddito, che durerà
fino a Ronald Reagan. Anche i successivi presidenti repubblicani
continuarono a tenere molto alto il livello di tassazione, a un certo
punto però cambia lo scenario e ritorna un’idea di capitalismo molto più primitivo, come era stato pensato alla fine del Settecento.
Victor Fuchs diceva: ci sono state ragioni politiche per attivare le
assicurazioni sociali al tempo di Bismarck. Il motivo politico di
Bismarck era certamente quello di fare un’operazione di tutela dei
lavoratori, però tutti gli storici sono concordi sul fatto che lo fece
anche per cercare di tamponare la fortissima pressione sociale. Per
certi versi, quello che avviene in Inghilterra negli anni Quaranta ha
un valore abbastanza simile: le riforme in funzione politica, certamente per garantire degli obiettivi sociali e civili assolutamente importanti, ma tutto ciò aveva anche un suo secondo fine strettamente
politico. Winston Churchill era a capo di un governo di unità nazionale che affrontava la guerra e nel pieno del conflitto, mentre le
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bombe cadevano su Londra, il Governo inglese decise di rafforzare
il livello di Stato sociale. La domanda è: perché un governo, che in
quel momento doveva affrontare delle emergenze terribili, aveva bisogno di lanciare questo messaggio di rafforzamento dello Stato sociale?
Aveva necessità di aumentare la coesione sociale perché la prova della guerra, dall’esito imprevedibile, aveva bisogno di un popolo molto
unito e il messaggio di vicinanza da parte dello Stato ai bisogni delle
persone, facilitava questa coesione. Churchill incarica un economista
di ristrutturare lo Stato sociale che era molto simile a quello tedesco
che si basava sulle Casse mutue. Nel 1942 William Beveridge presenta un rapporto che contiene tre aspetti fondamentali della riforma
del welfare inglese: l’assistenza sanitaria, l’istruzione e la previdenza.
Questi tre elementi di riforma, assolutamente innovativi rispetto alle
assicurazioni sociali di Bismarck finalizzate a garantire dei diritti a
categorie di lavoratori, hanno in comune la grande novità dell’introduzione del principio dell’universalismo: i titolari del diritto non sono i produttori appartenenti a una determinata categoria, ma i cittadini in quanto tali. Dentro questa nuova cornice si inserisce il concetto di Servizio sanitario nazionale che, a differenza del modello Bismarck in cui lo Stato sta fuori e la gestione dei servizi riguarda le
Casse mutue, gli Ospedali e i medici, il sistema è gestito e finanziato
direttamente dall’amministrazione statale.
I tre elementi fondamentali che caratterizzano i sistemi sanitari
universalistici sono: l’universalità, il finanziamento ottenuto attraverso la fiscalità generale e non dai contributi dei lavoratori e, infine, la gratuità dell’ erogazione.
Un volantino trovato su Internet spiega molto bene cos’è un sistema sanitario nazionale con la scritta: il tuo nuovo sistema sanitario nazionale comincia il 5 luglio 1948. Il volantino spiega che “il sistema garantirà l’assistenza medica, odontoiatrica e infermieristica a
chiunque, ricco, povero, uomo, donna, bambino, non c’è nulla da
pagare salvo alcune prestazioni speciali, non si tratta di un’assicurazione a cui doversi iscrivere e neppure di una forma di carità, perché lo si sta già pagando, soprattutto come contribuenti e ciò solleverà dalle preoccupazioni finanziarie nel momento della malattia”.
Questo modello instaurato in Inghilterra a metà degli anni Quaranta fa veramente scuola, entra di forza il concetto che lo Stato
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deve garantire un diritto e questo si propaga a macchia d’olio e verrà introdotto anche nella Costituzione italiana. Quest’anno si celebra il centenario dell’istituzione dell’Ordine dei medici, c’è un intervento dell’ex Ministro della Giustizia Flick che fa un’esegesi e un
approfondimento veramente straordinari sul concetto di diritto alla
salute. Flick afferma che, nella nostra Costituzione, l’unica volta che
si parla di diritto fondamentale è riguardo alla salute e mette in evidenza una cosa ben nota: i nostri costituenti usarono il termine individuo e non cittadino come titolare di questo diritto, aprendo orizzonti enormi, in quanto il diritto alla salute può essere esteso anche
ai “non cittadini”, anche agli stranieri, anche ai “non regolari”. Il
concetto di diritto alla salute viene incluso nella Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo del 1948. Dagli anni Cinquanta in poi,
c’è quindi una fase in cui la salute viene considerata un diritto, che
viene attuato attraverso sistemi sanitari nazionali sul modello Beveridge o assicurazioni sociali obbligatorie tipo Bismarck e si diffonde
nei Paesi industrializzati. Il modello Bismarck si è radicato soprattutto nell’Europa centrale, Germania, Francia, Olanda, Belgio, Svizzera, Austria, oltre al Giappone, mentre il modello Beveridge ha invece avuto sviluppo in Gran Bretagna, Irlanda, Paesi scandinavi, nel
sud europeo, Italia, Spagna, Portogallo, Canada, Australia e Nuova
Zelanda. Il modello americano, basato essenzialmente sul settore
privato, è abbastanza lontano dagli altri due. C’è da dire però che,
alla fine, nonostante la ritrosia a adottare sistemi pubblici di assistenza sanitaria, questo clima di salute come diritto coinvolge anche
gli Stati Uniti, anche se non in maniera globale e complessiva. Nel
1965 vengono introdotte negli USA. due assicurazioni pubbliche,
Medicare, per tutti gli anziani ultra sessantacinquenni, indipendentemente dal reddito e Medicaid, che invece è pubblica, per alcune
categorie di poveri, come requisiti sono necessari: reddito, donne in
gravidanza, famiglie con bambini piccoli, con invalidi o con persone
molto anziane.
Il 1978 è stato un anno molto importante per l’Italia con la riforma 833 e a livello internazionale perché si tiene una grande conferenza dell’OMS che, per la prima volta, mette insieme Paesi ricchi e
poveri per identificare degli obiettivi a lungo termine di salute e
quindi strategie mondiali, con il fine molto ambizioso della salute
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per tutti entro il 2000. Non che entro il 2000 tutte le persone dovessero diventare sane, ma l’obiettivo era quello di far sì che nessuna
persona si trovasse di fronte a barriere insormontabili di carattere
economico, geografico e culturale, per avere accesso a prestazioni
essenziali. Su questo punto tutti furono d’accordo, per nessuno
questo obiettivo era impossibile, irrealizzabile e fu detto: i Paesi poveri devono adottare strategie che privilegino soprattutto l’organizzazione di cure primarie, i Paesi più ricchi devono aiutarli a raggiungere
questi obiettivi.
Il 1978 è importante perché è un anno che segna un cambiamento radicale di tendenza politica. C’è stata una tendenza politica partita dalla fine dell’Ottocento e giunta fino a un certo punto, che aveva come obiettivo il concetto di salute come diritto per tutti. Sostanzialmente, dal punto di vista ideologico, era l’idea che in un regime
capitalista lo Stato doveva svolgere un ruolo di supporto alla popolazione per garantire alcuni diritti fondamentali e quindi mitigare gli
effetti negativi del mercato e poi c’era il mondo comunista che applicava certe politiche universalistiche a cui guardavano le classi
operaie e i sindacati dei Paesi industrializzati. Si creava quindi una
sorta di competizione tra vari Paesi nell’essere attenti a queste questioni.
Dal 1978 in poi c’è un cambiamento radicale rappresentato simbolicamente dalle figure di Ronald Reagan e Margaret Thatcher,
principali esponenti di un movimento neoliberista molto agguerrito
che metteva in seria discussione il ruolo dello Stato all’interno dei
sistemi di welfare. Si predicava nuovamente uno Stato non interventista nell’economia, nella società, perché erano i privati che dovevano costruirsi i sistemi di welfare attraverso le assicurazioni e l’amministrazione statale non doveva gravare sulle tasse dei cittadini.
In campo sanitario accade che, se fino al 1978 il timone delle politiche sanitarie era in mano all’OMS, dopo, nella fase dove tuttora
ci troviamo, questo passa nelle mani della Banca mondiale, che a
tutti gli effetti è diventata un’istituzione che si occupa di finanza, di
prestiti e di economia. La Banca mondiale, concede prestiti soltanto
se le Nazioni richiedenti attuano specifiche politiche, indicate dalla
banca stessa, molto restrittive riguardo alla spesa sanitaria.
L’altro elemento, che caratterizza questa nuova tendenza che si
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sviluppa dagli anni Ottanta, è che la salute e il sistema sanitario vengono considerati come business e non semplicemente come strumento per garantire un sistema di welfare, un meccanismo che può
produrre profitti e reddito, attraverso varie forme: il mercato dei
farmaci, delle biotecnologie e così via. Questo è il nuovo scenario
che si apre a partire dagli anni Ottanta e nel quale ci troviamo tutt’ora, la crisi economica attuale probabilmente aggraverà questa situazione. Riguardo alla sanità internazionale, si può constatare che
venti, trent’anni di privatizzazione selvaggia hanno prodotto effetti
disastrosi e devastanti e si riscontrano dei segnali che indicano che
qualcuno vuole ricostruire qualche elemento di maggiore sicurezza.
La situazione negli Stati Uniti
Theodore Roosevelt, agli inizi del Novecento, propose di imitare
la Germania, fu sommerso da una valanga di improperi e non provò
nemmeno a preparare un piccolo progetto. Qualcosa in più ha fatto
Franklin Delano Roosevelt, ma anche lui dovette rinunciare. Sembrava che Harry Truman (1945) potesse avere qualche probabilità
in più, l’America usciva da una guerra, c’era la ricchezza che stava
esplodendo e molte altre condizioni favorevoli ma anche la sua proposta fu rapidamente archiviata. Nel 1993 Bill Clinton ne aveva fatto uno dei suoi cavalli di battaglia politici, ma ha dovuto rinunciare,
nelle elezioni di medio termine poiché a causa di questa proposta
ebbe una debacle incredibile, perse la maggioranza alla Camera e al
Senato, quindi, dopo le elezioni, nessuno provò a riproporre la questione. Barack Obama invece ha posto l’applicazione al 2014, quindi l’esito della riforma è molto legato alla sua rielezione, se non viene riconfermato il rischio è che i repubblicani al potere possano
cancellarla.
Negli Stati Uniti non c’è mai stata una legge di riforma sanitaria.
Generalmente, quando si parla di un sistema sanitario di un Paese si
guarda alle leggi, ad esempio in Italia dal 1978 c’è la legge che istituisce il Servizio sanitario nazionale con queste regole e poi la 502.
Negli USA il sistema si basa su riforme incrementali che si sono
stratificate nel tempo. La prima grande riforma avviene alla fine del19
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la seconda guerra mondiale con l’enorme diffusione delle assicurazioni private pagate dai datori di lavoro che, grazie a questo, avevano facilitazioni fiscali. Era anche un momento di grande espansione
produttiva, i datori di lavoro cercavano manodopera e la incentivavano con dei benefit come quello assicurativo e quindi tutto ciò ebbe una grande diffusione. La seconda grande riforma è degli anni
Sessanta, con l’istituzione delle due assicurazioni pubbliche, Medicare e Medicaid. La terza grande riforma, negli anni Ottanta, è nuovamente, come negli anni Quaranta, essenzialmente legata al mercato, cioè, negli anni Settanta si è arrivati ad una situazione in cui, per
una serie di motivi, la spesa sanitaria americana ha un’enorme crescita. Questo aumento della spesa sanitaria alla fine si riflette su chi
paga le assicurazioni, per il 90% si tratta delle imprese, le quali dicono: se il prezzo delle assicurazioni non cala, noi smettiamo di assicurare i nostri dipendenti. Allora, le assicurazioni americane si mettono in moto per trovare un correttivo e ciò che è stato trovato ha
prodotto un cambiamento radicale nella struttura assicurativa.
Wal-Mart, una catena di supermercati, è il più grande datore di
lavoro con un milione e mezzo di dipendenti: l’impresa contratta
con un’assicurazione la loro copertura. Quando si ammalano, i dipendenti vanno da un medico o si ricoverano in Ospedale, la notula
viene inviata all’assicurazione, che poi rimborsa, come avviene da
noi per un incidente stradale.
È questo un sistema gradito a molti: ai pazienti che possono scegliere liberamente il medico e l’Ospedale a cui rivolgersi; ai professionisti che possono decidere in piena autonomia il prezzo, il tipo e
il volume delle prestazioni da erogare, senza incorrere in particolari
contestazioni, purché ciò avvenga all’interno di criteri considerati
abituali in una comunità. Il sistema va bene anche agli assicuratori
che aggiornano, al rialzo, il prezzo delle polizze in relazione all’inarrestabile crescita dei consumi e delle spese. Il sistema non va, invece, affatto bene alle imprese che si trovano a dover sopportare oneri
sempre più pesanti derivanti dai benefit assicurativi da erogare ai
propri dipendenti. Urge cambiare, urge abbattere questo tipo di costi. Il mercato assicurativo è pronto a raccogliere l’allarme e a riposizionarsi.
Le compagnie assicurative abbandonano il sistema a rimborso e
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adottano il meccanismo della quota annuale prepagata, a fronte della quale l’assicurato riceverà le cure esclusivamente da medici e
ospedali convenzionati (o direttamente dipendenti) dall’assicurazione, sulla base di un piano assistenziale predefinito. È una svolta storica perché trasforma le tradizionali assicurazioni in managed care
organizations (MCOs); organizzazioni che non si limitano a commercializzare le polizze, ma estendono il loro business alla contrattazione con i provider e alla gestione dei piani assistenziali, con l’obiettivo di ridurre i costi. Le imprese gradiscono e si rivolgono in
massa alle nuove HMOs, che diventano per la gran parte organizzazioni for-profit quotate in borsa, con ingenti capitali e rilevanti profitti; in molti casi le HMOs arrivano a possedere proprie strutture
specialistiche e propri Ospedali per costituire un micro-sistema sanitario integrato ed ottenere, attraverso rigidi controlli sul comportamento prescrittivo dei medici e sinergie tra i vari livelli d’intervento, cospicui risparmi di gestione.
Per i sostenitori della managed care (questo è il termine che deno- mina la nuova filosofia sanitaria) il risparmio si associa alla qualità, per i detrattori questo è unicamente finalizzato al profitto. Intorno a questo tema inizia un dibattito che diventerà sempre più incandescente nel corso degli anni; e, per la prima volta nella storia
della sanità americana, si affaccia l’ipotesi che un medico possa ridurre le cure a un proprio paziente in vista di un interesse economico personale e dell’organizzazione da cui dipende.
Dagli anni Ottanta in poi, questo elemento ha prodotto una netta
riduzione della spesa o almeno dell’incremento annuale che generalmente prima si aveva, intorno al 15-20% l’anno.
Dal 1995 è ricominciato l’incremento e le assicurazioni non sono
state più in grado di trovare altre forme innovative per superare il
problema della crescita dei costi. Il meccanismo introdotto dalle imprese di fronte a questa crescita è stato quello di trasferire i costi sui
dipendenti e in particolare, dall’anno duemila, per pagare di meno,
per i propri dipendenti comprano assicurazioni meno costose.
Un’assicurazione costa meno, per esempio, quando contiene una
franchigia molto alta, fino a diecimila dollari paga il paziente e se ha
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bisogno, l’assicurazione copre il surplus di spesa. L’altro meccanismo è la compartecipazione, l’assistito paga una percentuale del costo della prestazione. Questo è avvenuto nelle grandi Imprese, mentre nelle piccole invece è aumentato molto il numero di persone non
assicurate dalla propria compagnia assicurativa.
Per quanto riguarda i non assicurati nel 2008 sono arrivati a quarantasei milioni, dal 1999 l’incremento è stato di un milione l’anno,
con una percentuale intorno al 15%.
Circa il 67% degli assicurati lo sono con assicurazioni private,
che sono però pagate in larga parte dal datore di lavoro e in parte
direttamente, da professionisti, lavoratori autonomi, eccetera. Per
quanto riguarda la parte pubblica, Medicare, Medicaid e quella militare assistono circa il 30% dei cittadini.
Il costo annuale di un’assicurazione media negli Stati Uniti è più
di tredicimila dollari per una famiglia di quattro persone, cifre veramente notevoli, di cui tremilacinquecento dollari sono a carico dei
dipendenti.
Nell’ultimo anno la crisi ha prodotto la perdita dell’assicurazione
pagata dal datore di lavoro per quasi dieci milioni di persone, alcune di queste sono state assistite da Medicaid, a causa della povertà e
questo ha generato un aumento di circa quattro milioni di nuovi
non assicurati.
Barack Obama affronta le elezioni affermando che non cambierà
radicalmente il sistema, ma garantirà la copertura per tutti: se sei già
assicurato l’unica cosa che cambierà sarà il prezzo del tuo premio assicurativo, forse diminuirà. Se sei uno dei quarantacinque milioni di
americani privi di assicurazione, tu l’avrai, una volta che il mio programma sarà diventato legge e nessuno sarà rifiutato a causa di una
malattia preesistente. L’obiettivo politico di Obama era quello di
costruire una nuova assicurazione pubblica, accanto a Medicare e
Medicaid, perché questo avrebbe comportato una struttura assicurativa che avrebbe tenuto bassi i prezzi e costretto tutte le altre assicurazioni a fare altrettanto. Al limite, nelle idee dei progressisti, con il
tempo questa sarebbe dovuta diventare l’assicurazione unica americana, nessuno avrebbe retto la concorrenza con prezzi così bassi.
Tutto questo non è riuscito perché, all’interno dello stesso partito di
Obama, c’è stata una fortissima opposizione a questa soluzione e
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quindi non si è realizzato uno dei principali obiettivi.
Barack Obama ha ottenuto non una legge radicale, ma importante perché, nella prospettiva che nel 2014 sia riconfermato, avrà
garantito circa il 95% di copertura assicurativa alla popolazione
americana, rimane comunque fuori un 5%. Il meccanismo che garantisce il massimo della copertura è quello di dare Medicaid a tutti
i poveri. Tutte le famiglie che si trovano al di sotto dei ventottomila
dollari di reddito entrano direttamente in Medicaid e questo è sicuramente un elemento che garantirà l’ assicurazione a oltre venti milioni di americani. Ci sono poi incentivi per le imprese che assicurano e per i cittadini che non sono dipendenti di imprese, liberi professionisti, eccetera.
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Information tecnology e farmaci
Piero Salvadori
Direttore Unità operativa complessa
Organizzazione Servizi sanitari territoriali AUSL 11 Empoli
Negli Stati Uniti i medici completamente “informatizzati” non
sono molti. Infatti quelli che hanno un Electronic Health Record,
(EHR) cioè un “record” che registra i dati di salute degli assistiti
con una certa completezza sono solo il 4%. Quelli che hanno una
informatizzazione di base sono solo il 13%. Ma c’è un 80% che nel
2008 non aveva dati informatizzati.
Kaiser Permanente (KP) è un tipo di assicurazione privata americana, non profit. Essa ha sviluppato un software complesso e multifunzione dal nome Health Connect. Esso “connette” il personale, gli
Ospedali, i Poliambulatori, ma anche tutti gli assistiti, i cittadini, gli
assicurati, quindi, clienti di Kaiser, con la struttura e tra loro stessi.
Non riuscendo a sviluppare un proprio sistema informativo, KP
ha deciso di rivolgersi a Epic, che è una importante software-house
americana che sviluppa applicativi per Ospedali. Questo software, è
costato, almeno nei primi anni, circa sei miliardi di dollari. È partito
nel 2003 e oggi copre 431 Centri medici, anche se c’è anche una
grossa sproporzione numerica e strutturale tra i Centri (simili ai nostri Poliambulatori o Case della salute) e 35 Ospedali in 8 Stati americani. Attualmente molti Ospedali e Centri sono paperless, “senza
carta”, praticamente non c’è più la cartella clinica cartacea e la ricetta medica cartacea.
Nel grafico seguente si può notare come il numero di visite per
assistito, che già negli anni dal 1999 al 2004 stava diminuendo, abbia subito una ancor più netta flessione con l’adozione dell’EHR.
Ed in particolare è diminuito il numero di visite dal medico curante
(medico di Medicina generale) perché la condivisione dei dati rende
necessario un minor ricorso ai MMG.
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Nel grafico successivo si può notare come, partendo dal 2004, le
visite ambulatoriali sono diminuite passando da una media di cinque
e mezzo all’anno a circa tre/anno, mentre sono notevolmente aumentati i consulti telefonici. Nell’arco di sei mesi,nel giugno 2008, circa il
60% degli assistiti, degli assicurati, ha fatto almeno due accessi a un
sistema informativo e informatico (vedere grafico a barre).
Possiamo adesso dividere in due grandi gruppi le funzioni di
questo software, Health Connect:
• il primo, comprende le funzioni che questo software svolge per i
cittadini, per gli assicurati;
• il secondo, quelli che usufruiscono dei vantaggi del sistema.
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Le funzioni
Vantaggi per i cittadini/assicurati
Ogni volta che un assicurato di Kaiser Permanente (FP) ha un
contatto con la struttura, si genera l’informazione che va ad inserirsi
nell’EHR, Electronic Health Record ad esempio, quando si effettuano le analisi del sangue. Alcune di queste informazioni cominciano
a funzionare anche in alcure realtà italiane. Purtroppo la cosa è episodica e senz’altro non c’è una grande condivisione tra il settore
delle cure primarie (cioè il territorio) e l’Ospedale.
In KP invece questo accade tutte le volte che ad un paziente viene prescritto un farmaco o lo ritira o ha una ripetizione di ricetta,
oppure tutte le volte che fa un’indagine radiologica anche mediante
le immagini diagnostiche.
L’EHR viene alimentato anche dai referti delle visite specialistiche e dalle vaccinazioni effettuate.
Un assistito può comunicare con qualsiasi tipo di sanitario attraverso una parte particolare di Health Connect, che è chiamato My
Health Manager. È possibile in qualsiasi momento, sette giorni su
sette, da qualsiasi parte del mondo, accedere ai propri dati di laboratorio e ai referti specialistici, o prenotare visite ed esami, grazie alla funzione di CUP, o richiedere la ripetizione di ricetta. Qualsiasi
operazione può essere fatta da casa, magari anche a mezzanotte e
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ovviamente questo ha comportato la diminuzione delle visite. Si
può avere informazioni amministrative, sia sulle polizze di Kaiser
Permanente, sia sulle quote che si devono pagare. Oppure controllare o programmare le vaccinazioni, interloquire via e-mail, attraverso il metodo della secure mail, ma anche tramite videoconferenza
con il proprio medico curante, con tutti i componenti del team assistenziale, sempre alla luce dell’integrazione, ma anche con le parti
amministrative per problemi sulle polizze, con i farmacisti. Tutto
questo è chiamato e-visit, visita elettronica, da qualunque parte del
mondo uno si trovi.
Nel caso di figli minori o di familiari interdetti, è possibile avere
una password particolare per queste persone in carico. Gli assistiti
inoltre possono anche consultare l’Enciclopedia della Salute, che
contiene una serie di programmi di empowerment per smettere di
fumare, controllare il peso, la nutrizione e tutti gli aspetti riguardanti i farmaci. C’è anche tutta una sezione a parte per la Medicina naturale, per le cure alternative, una parte,che non è assolutamente
negletta
È possibile effettuare anche il follow up delle malattie croniche: i
pazienti cronici curati a casa attraverso connessioni via blue tooth,
collegate al computer, possono iviare dati relativi a parametri biologici e clinici vitali. Anche in Toscana mediante la Medicina di iniziativa si cerca di effettuare monitoraggi simili.
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Il grafico mostra il trend delle nuove registrazioni al sito di KP negli anni. All’inizio le persone si registravano semplicemente per prenotare gli appuntamenti. Poi, hanno cominciato a consultare i dati
online, perché nel frattempo, nel marzo del 2006, attraverso la secure
mail hanno cominciato a dialogare con il loro team assistenziale e poi
a consultare il vero e proprio fascicolo sanitario che nel frattempo si
era formato e popolato di informazioni sanitarie.
Vantaggi per il sistema
Le funzioni del sistema KP permettono la video-tele-medicina: ad
esempio le tele-riunioni, senza la necessità di doversi spostare. Un
programma di alert e di warning per i medici e per tutti i funzionari
della struttura, genera funzioni generiche di supporto alle decisioni,
funzione di controllo del sistema e di reportistica interna per tutti i
medici e gli infermieri. In questi ultimi casi essi sono in grado di sapere e giudicare se il loro lavoro è compiuto nella giusta maniera.
Il Prof. George Halvarson, è stato amministratore delegato di
KP; egli ha scritto alcuni libri sulla questione sanitaria americana ed
ha coniato in rapporto alla informatizzazione ed al sistema informativo di KP il seguente aforisma: all, all and all, per dire che tutte le
informazioni a proposito di tutti i pazienti devono essere disponibili
in ogni momento. Il concetto si può riassumere con questa affermazione: se tu non riesci a misurare in Medicina, ovviamente non puoi
neanche amministrare o fare “management”.
La gestione dei farmaci
Negli USA la spesa per i farmaci è circa il 10% dell’intera spesa
sanitaria. Forse un po’ bassa rispetto ad altri Paesi e sicuramente
sottostimata dal fatto che molti cittadini pagano off pocket (cioè di
tasca propria) i farmaci.
Nel 2007, la spesa sanitaria è stata di 754 dollari procapite, una
delle più alte del mondo, in Italia “solo” 2-300 euro. La spesa out of
pocket, è diminuita, ma perché ci sono stati fondi pubblici che nel
frattempo sono stati utilizzati e le assicurazioni private aumentate.
Attualmente si sta cercando di calmierare la situazione. Se non
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saranno adottati correttivi tra il 2015 ed il 2020 la spesa negli USA
arriverà a toccare quota 20% del Pil.
La politica del farmaco in Kaiser Permanente si basa su tre grandi
filoni: prontuario farmaceutico unico, supporto alle decisioni, percorso del farmaco.
1. Il prontuario farmaceutico unico è chiamato Drug Formulary, è
elaborato da un Comitato composto da farmacisti e infermieri, è
formato da farmaci poco costosi e c’è una spinta abbastanza notevole sul consumo, ovviamente quando possibile, di farmaci generici che naturalmente costano meno a parità di molecola. La
percentuale media di generici negli Stati Uniti è del 69%, in Kaiser Permanente siamo all’84%.
2. Riguardo al supporto alle decisioni, c’è il cosiddetto DUAT, che è
un insieme di persone, medici, farmacisti, infermieri, eccetera,
che cercano di dirottare l’uso, ovviamente dal punto di vista
scientifico, del costo-beneficio e dell’efficacia dei farmaci e poi,
produzione di newsletter, eccetera. Ad esempio: il rofecoxib un
farmaco che si usava per l’artrite o altre condizioni dolorose, è
entrato in commercio dal 1999-2000, ma già intorno al 20002001, il DUAT (Drug Utilization Action Team), questo “grande
fratello” farmacologico di Kaiser, aveva già segnalato tra i primi,
che potevano verificarsi effetti cardiovascolari per il rofecoxib
inibitore selettivo della COX 2, indicato per il trattamento dell’artrite e di altre condizioni dolorose, con questa raccomandazione: diamolo solo a chi ne ha veramente bisogno, solo che poi ci
sono voluti cinque anni per ritirarlo dal commercio. Con questa
segnalazione del DUAT sono state risparmiate diverse vite.
3. Il percorso del farmaco, infine, inizia con la prescrizione effettuata
su computer dal medico in ambulatorio, in Ospedale o alla dimissione. Tutto il percorso si svolge paperless, cioè senza carta,
poi, tramite web, arriva alla farmacia centralizzata. Questa funziona come una vera e propria catena di montaggio: un sistema
meccanico inserisce l’esatto numero di pasticche dentro il contenitore che viene etichettato, personalizzato e recapitato secondo
le scelte del paziente alla farmacia più vicina ovvero per posta a
domicilio.
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La sfida di Kaiser Permanente
Elisa Scopetani
Direzione generale Diritti di cittadinanza e
coesione sociale - Area di coordinamento
sistema sociosanitario regionale
Parlerò di un’esperienza che abbiamo fatto nell’aprile 2008
quando, a conclusione del master Management e Sanità, con alcuni
colleghi dell’Azienda sanitaria 11 di Empoli, del Ministero della Salute e del Laboratorio MeS, siamo andati a visitare la realtà molto
particolare rappresentata da Kaiser Permanente.
Occorre premettere che negli Stati Uniti il 66,7% delle assicurazioni è privato, acquistato prevalentemente dai datori di lavoro o
dai singoli individui, il 29% delle assicurazioni è governativo (Medicare, Medicaid e l’assistemza sanitaria militare), mentre purtroppo
sempre più cittadini americani non sono coperti dal’assicurazione
sanitaria. Tra le assicurazioni private, per via del fenomeno che ha
investito il mercato assicurativo connesso alla necessità di contenere
i costi dell’assistenza sanitaria, oggi spiccano fondamentalmente le
MCO, Manager Care Organizations. Le MCO sono assicurazioni che
praticano la forma del prepagamento per un piano assistenziale predefinito, che viene messo a disposizione dell’assicurato, con il vincolo di doversi rivolgere a delle strutture specifiche, convenzionate
o che appartengono proprio all’organizzazione. In realtà, il termine
MCO indica una categoria che al proprio interno comprende diverse tipologie di soggetti. Nonostante il passaggio a questa forma di
assicurazione, nata per cercare di contenere i costi e contemporaneamente per non alimentare il meccanismo perverso dello spostamento del costo dell’assistenza sui lavoratori, sta accadendo proprio
ciò che si voleva evitare. I datori di lavoro iniziano sempre di più a
non garantire l’assicurazione ai propri dipendenti, c’è la percezione
di non tenuta del sistema che poi si traduce in modo evidente nell’aumento della percentuale di soggetti non coperti dall’assicurazione sanitaria. Quando i colleghi di Kaiser Permanente durante la visita ci hanno presentato questo scenario, hanno aggiunto un ulteriore
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obiettivo: la speranza e la consapevolezza, da parte loro, che il modello Kaiser Permanente possa rappresentare un’alternativa.
La storia di Kaiser Permanente rappresenta sicuramente un caso
unico nello scenario internazionale e nasce dall’incontro di due personalità certamente molto particolari. La prima è quella di Sidney
Garfield, un medico che nasce, studia e si laurea nel periodo della
grande depressione e inizia a operare proprio in quel periodo. Garfield aprì un piccolo Ospedale in una zona desertica, il Contractor
General Hospital, che doveva servire per garantire l’assistenza sanitaria ai lavoratori di opere pubbliche, che in quel periodo erano finanziate dal Governo per aiutare la ripresa. Durante l’avanzamento
dei lavori dell’acquedotto Colorado River Aqueduct, Garfield si rende conto che i casi più gravi, infortuni oppure malattie nelle fasi
acute, non vengono mandati nel suo piccolo Ospedale, ma immediatamente dirottati nelle strutture più importanti. A Garfield questo crea un problema, perché non introita il pagamento delle prestazioni che gli vengono sottratte, mentre si trova a poter curare soltanto i casi più normali. Davanti a tale problema, il socio iniziale di
Garfield decide di sganciarsi da questa esperienza pensando che si
tradurrà in un fallimento; Garfield allora ha l’idea di fare un patto
con l’impresa costruttrice, basato sull’offerta di un pacchetto di prestazioni dietro il prepagamento di una cifra predeterminata. In questo modo, l’impresa si garantisce la presenza e la permanenza di una
struttura sanitaria nelle vicinanze, utile per avere sempre un punto
di riferimento per i lavoratori, e Garfield si assicura un afflusso di
pazienti che altrimenti sarebbero stati dirottati in altri Ospedali. In
questo modo Garfield lancia la forma del piano assistenziale prepagato: l’impresa accetta la sfida e, a quel punto, lui aggiunge anche la
possibilità di far pagare ai lavoratori un’altra piccola quota per avere una serie di servizi aggiuntivi. In questo modo Garfield consolida
questa forma del prepagamento nella sua operatività e anche nella
logica delle imprese, perché ovviamente tutto ciò torna a vantaggio
anche degli imprenditori. Accade che questa nuova modalità, anziché incentivare il ricorso alle prestazioni e al trattamento di soggetti
malati, che faceva guadagnare i medici nella forma del pagamento a
prestazione, spinge invece verso un sistema di prevenzione. Questo
perché, chiaramente, i medici hanno tutto l’interesse a far sì che la
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LA SFIDA DI KAISER PERMANENTE
popolazione mantenga uno stato di salute più elevato possibile: essendo il pagamento anticipato e fisso, hanno quindi tutto l’interesse
a contenere il numero di prestazioni. Questa idea imprenditoriale,
pertanto, finisce per avere una conseguenza immediata molto importante proprio sul piano dell’assistenza e dei suoi principi fondanti.
Contemporaneamente si svolge la vicenda di vita di un altro imprenditore, Henry Kaiser, che nel 1938 prende in carico la costruzione di una diga molto grande ed è convinto che possa essere di
grande utilità ai suoi dipendenti e alla sua impresa una forma di assistenza come quella attuata da Garfield,. Una forma di assistenza
erogata dietro un prepagamento, incentrata su un piano assistenziale e che ha il forte risultato primario dell’enfasi sulla prevenzione e
quindi del mantenimento di un buono stato di salute. Kaiser chiede
appunto a Garfield di farsi carico della gestione dell’Ospedale, il
Mason City Hospital, che deve fornire l’assistenza ai quindicimila lavoratori della diga e delle loro famiglie. Garfield accetta ed inizia
così un sodalizio, che proseguirà anche dopo la fine dei lavori della
diga., quando l’impresa di Kaiser viene coinvolta nella costruzione
di navi da guerra nel corso della seconda guerra mondiale. Il sistema del prepagamento inizia ad attirare anche le attenzioni della comunità medica americana che vede in questa forma di Medicina
(definita negativamente “socialized”) una minaccia ai principi della
professione ed inizia una forma di boicottaggio, che colpirà lo stesso Garfield, che viene addirittura sospeso dall’Ordine dei Medici.
Nonostante questo, Kaiser e Garfield vanno avanti, convinti della
bontà del loro progetto e, in quel momento, si pongono le premesse
per la costruzione dell’attuale forma organizzativa di Kaiser Permanente. Infatti, proprio in questo periodo Kaiser fa costruire un
Ospedale a Oakland per erogare l’assistenza ai dipendenti di una
ditta della Kaiser Company che si occupa di lavorazione dell’acciaio,
il Permanente Foundation Hospital, da cui prende inizio la presenza
del nome Permanente nella storia di questa organizzazione. Finita la
guerra, con il calo dell’attività dell’impresa, il numero degli iscritti
all’Health Plan di Permanente inizia a diminuire. Questa esperienza
però aveva veramente cominciato a far parlare di sé e a quel punto
sono altre aziende, i sindacati, gli stessi lavoratori, che spingono
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Garfield e Kaiser a continuare questo sodalizio e a trovare una nuova forma di collaborazione. Proprio in questo periodo però iniziano
a verificarsi delle tensioni all’interno della struttura per l’aumento
della complessità dell’organizzazione, il successo e il business che
cominciava ad esserci intorno all’esperienza dei due pionieri. Da
una parte, si va rafforzando la componente manageriale, quella assicurativa e della gestione delle strutture che fa riferimento a Kaiser e
che lo stesso imprenditore vuole tenere sotto di sé; dall’altra parte,
invece, c’è la componente medica, professionale, che Garfield voleva tenere ben ancorata a sé e di cui voleva mantenere l’indipendenza. In tal senso, Kaiser cerca di imporre il proprio marchio proponendo di trasformare il nome dell’organizzazione da Permanente
Foundation Hospital e Permanente Health Plan in Kaiser, facendo
sparire quella parte in cui Garfield invece si era più immedesimato.
Il discorso del nome è un pretesto, per dire che c’era il problema di
dare un’identità a questa organizzazione che stava diventando di
una certa complessità. Viene trovato un accordo, il famoso Tahoe
Agreement, che definisce la struttura che oggi troviamo in Kaiser
Permanente, basata su tre componenti: gli Ospedali – quindi le
strutture –, che rimangono sotto Kaiser; la componente assicurativa,
anch’essa sotto il controllo di Kaiser; ed infine i Medical Groups, che
prendono il nome di Permanente proprio per rimarcare la reciproca
autonomia tra la componente manageriale e quella professionale.
Da quel momento il successo di Kaiser Permanente è continuo:a
partire dal 1955, anno dell’Agreement, fino agli anni Duemila, il numero degli iscritti aumenta sempre di più fino a portare anche a delle ulteriori innovazioni organizzative, per arrivare ai giorni nostri
con una copertura di quasi otto milioni e settecentomila assistiti in
vari Stati e Distretti degli Stati Uniti.
Esaminiamo il motivo per cui Kaiser Permanente, che nasce con
questa storia così particolare, negli anni Duemila arriva ad essere un
caso internazionale oltre che una delle maggiori organizzazioni sanitarie americane.
Otto Regioni in nove Stati, ottomilioni e settecentomila assistiti e
tutta una serie di altre cifre descrivono l’imponenza di questo fenomeno. Abbiamo chiesto ad alcuni manager ed operatori di KP il
motivo di questa storia folgorante e loro hanno risposto che il segre34
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LA SFIDA DI KAISER PERMANENTE
to di Kaiser Permanente è quello di non identificarsi tanto in una
qualche forma giuridica o economica, ma prima di tutto nella relationship tra le varie parti che lo compongono. Questo lascia intendere il grande senso di identità e appartenenza a un qualcosa di unitario che lega le tre distinte componenti: il Kaiser Foundation
Health Plan, il braccio assicurativo; il Kaiser Foundation Hospital, la
componente di gestione delle strutture, degli Ospedali, che ha anche una parte di dipendenti dedicati all’assistenza sanitaria (tecnici,
amministrativi, ecc…); i Permanente Medical Groups, la componente medica, professionale, che ha anche un suo status for profit al
contrario delle altre due.
La componente assicurativa, che ha natura pubblica non profit, si
occupa della gestione degli iscritti e contratta poi con le altre due
componenti, gli Ospedali e i medici, per definire le modalità di erogazione dell’assistenza sanitaria.
La Kaiser Foundation Hospitals, anche questa un’organizzazione
pubblica non profit, gestisce gli Ospedali, che dipendono a loro volta dall’Health Plan per il finanziamento e hanno un rapporto con i
Medical Groups per quanto riguarda la messa a disposizione dei servizi e delle strutture. Non hanno medici propri, ma utilizzano solamente medici e specialisti dei Medical Groups, c’è quindi un rapporto esclusivo tra queste componenti. L’organizzazione coopera strettamente con la componente assicurativa attraverso un meccanismo
di governance molto semplice: la condivisione del Consiglio di amministrazione, tramite sia accordi di servizio, sia di coordinamento
organizzativo, interventi molto concreti che garantiscono la tenuta
di questa relationship.
Vi sono infine, i Medical Groups, che sono invece organizzazioni
for profit, ovvero associazioni professionali di medici, sia di famiglia,
sia specialisti, che alla fine degli anni Novanta si sono riunite in una
federazione di livello nazionale. Ogni Gruppo ha un suo Consiglio
di amministrazione, che sceglie indipendentemente i medici da assorbire all’interno del Gruppo stesso, cosa che avviene con processi
di selezione molto rigorosi, attivando poi una componente formativa pre tirocinio di tre anni e un successivo tirocinio di due anni.
Dopo questo training, i medici entrano nell’organizzazione e vi rimangono percependo uno stipendio costituito per l’85-90% da un
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salario di base e per il 10-15% da un incentivo legato ai risultati del
Gruppo e non a quelli individuali. Lo stipendio non è molto elevato
rispetto alle possibilità di guadagno di altri professionisti medici nel
panorama sanitario americano, però gli operatori di KP riferiscono
di accettare ben volentieri di guadagnare un po’ meno in cambio
delle condizioni di lavoro, della scarsa competitività, dell’autonomia
e della grande soddisfazione che ottengono attraverso la ricerca
continua del miglioramento della qualità, che è una componente
fondamentale dell’organizzazione di KP. I medici infatti sono costantemente coinvolti nel miglioramento dei percorsi, dal punto di
vista clinico e organizzativo, condividono sessioni di lavoro con rappresentanti dei lavoratori e sono ben coordinati con le altre componenti dell’organizzazione.
Nello scenario attuale, in cui i datori di lavoro assicurano sempre
meno e si sta diffondendo un senso di pericolo per il sistema, Kaiser
Permanente può forse indicare una possibilità, un’opzione. Ciò è
riconosciuto anche da osservatori esterni: nel 2004, ad esempio,
l’Economist ha affermato che “non c’è un sistema sanitario perfetto
nel mondo, però ci pare che Kaiser si avvicini a un sistema ideale”.
Anche dall’esterno dunque viene riconosciuta la virtù di questa organizzazione, che viene messa in stretta connessione con il profondo livello di integrazione che riescono a garantire, tra prevenzione e
cura, tra Ospedale e territorio e tra medici delle cure primarie e
ospedalieri.
KP individua come propria mission “garantire un’assistenza accessibile, di alta qualità per migliorare la salute dei membri e della
comunità”, con un approccio di sanità pubblica che va sicuramente
in senso contrario rispetto a una logica di business come ci si potrebbe aspettare da un’assicurazione sanitaria privata. Oltre all’impegno di arrivare a migliorarsi sempre di più, l’aspirazione massima
di Kaiser Permanente è quella di diventare leader mondiale nelle
tecniche di prevenzione, di gestione della popolazione, delle patologie croniche e così via.
La caratteristica principale dell’assistenza sanitaria si basa sull’essere una prepaid medical care: questa è l’idea forte di Garfield, antesignano di un fenomeno che poi si è sviluppato su scala nazionale.
Nel 1973 questa idea è stata istituzionalizzata dal Congresso quan36
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LA SFIDA DI KAISER PERMANENTE
do ha stabilito che la forma di assistenza da Garfield ideata già quarant’anni prima poteva essere la leva per il controllo della spesa sanitaria. L’altro elemento è quello del gruppo multi-professionale,
quindi dell’erogazione dell’assistenza in una logica non di separazione fra Medicina di famiglia, specialistica, cure primarie, Ospedale, (ovviamente queste divisioni ci sono, però senza che mai possano
essere percepite come tali e possano diventare un ostacolo alla qualità dell’assistenza). Quindi, non esiste la sensazione che la diversità
fra due livelli o la diversità di specialità o di tipologia di approccio a
una certa patologia, possano diventare elementi di non comunicazione o di non circolazione degli stessi principi all’interno dell’organizzazione, cosa che invece può succedere. I nostri problemi quotidiani di integrazione, di coordinamento, richiamano proprio a questi elementi. Questo si riflette nell’enfasi posta sulla prevenzione e
sulla gestione del paziente fin dalle prime fasi della malattia e, ancor
prima, nella stessa fase dell’esposizione al rischio di una certa popolazione, per evitare che le malattie, specialmente se croniche, possano insorgere o aggravarsi. C’è quindi un concetto predominante
nella Permanente Medicine che è quella della total health, cioè, della
gestione del paziente sempre nella sua interezza, nella sua globalità
e del senso forte di doverne curare la salute in tutte le sue componenti, in tutti i suoi organi, in tutti i suoi possibili aspetti di debolezza, in tutti i momenti del suo percorso. La tecnica a tal fine utilizzata è definita “population care management”.
È evidente come in Kaiser Permanente vi siano richiami al Chronic Care Model, anche se la tecnica di gestione che lo caratterizza
era in uso presso KP già molto prima che Wagner sistematizzasse e
diffondesse questo modello, descrivendone i sei elementi costitutivi.
Nell’attuazione di questo tipo di gestione integrata e fortemente
incentrata sulla prevenzione, Kaiser Permanente ha uno strumento
molto importante che è Health Connect, un sistema informativo che
dà sicuramente delle grandi possibilità di scambio di informazioni,
di integrazione fra livelli, di comunicazione con il paziente; va sottolineato però che non è solamente la presenza di un sistema informativo così performante che garantisce il successo. A questo si aggiunge l’approccio specifico ai pazienti secondo il livello di rischio, con
interventi specifici affidati a personale qualificato. Le tecniche uti37
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lizzate si distinguono in due grandi categorie: da un lato, le tecniche
di inreach e dall’altro, le tecniche di outreach. Inreach significa raggiungere il paziente quando è “in”, cioè, quando è dentro le strutture di Kaiser Permanente, sotto gli occhi del medico di famiglia, dello
specialista o dell’infermiere; gli operatori, quando intercettano il paziente, devono assicurarsi che, in quel momento, sia consapevole di
tutto quello che deve fare, in base a ciò che l’evidenza scientifica indica come corretto per il suo benessere. Le tecniche di outreach implicano andare a cercare il paziente quando non è nelle strutture
per ricordargli che deve fare determinati atti, come aggiornare una
terapia, eseguire un esame o altro. L’utilizzo dell’una o dell’altra categoria di strumenti dipende dal livello di rischio del paziente, così
come l’individuazione del profilo professionale a cui affidarne la gestione. Ad esempio, per pazienti con profilo di rischio più elevato,
si vede il coinvolgimento di infermieri particolari con un livello più
alto di specializzazione (registered nurse). Vi sono poi degli strumenti di supporto alla gestione del paziente, come la encounter
check list, cioè, un documento che, al momento in cui il paziente si
presenta all’ambulatorio, guida il professionista nello svolgimento
della visita e nella valutazione delle decisioni giuste da prendere;
oppure l’after visit summary, cioè una sintesi delle cose da fare dopo
la visita e degli obiettivi per il periodo successivo. Infatti, tra paziente e organizzazione si instaura un vero e proprio patto sugli obiettivi
(“treat to target”), con il quale il paziente viene responsabilizzato
come attore del proprio percorso di cura. Del resto, il paziente viene sempre supportato attraverso strumenti di comunicazione (v. il
sistema di posta elettronica My Health manager disponibile sul sito
di KP) e informazione sulla propria condizione, che lo accompagnano anche nella fase successiva alla visita.
Un elemento concreto che permette di coordinare così efficacemente gli interventi a favore del paziente è la vicinanza fisica delle
strutture: ci sono infatti Poliambulatori in cui la Medicina di famiglia, la specialistica e altri i servizi di primo livello sono tutti concentrati in modo tale da essere facilmente reperibili per il paziente in
qualsiasi momento, e che sono anche fortemente integrati con gli
Ospedali, molto spesso sono nella stessa area.
Infine, insieme a tutti gli strumenti sopra descritti, l’elemento in38
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dispensabile dell’esperienza di KP è sicuramente la disponibilità al
cambiamento e la coerenza con i propri obiettivi. Come riportato
dagli stessi manager di KP, infatti, ciò che serve veramente per passare a modalità innovative di assistenza è la presenza di strong people che possano guidare il cambiamento con convinzione, tenacia e
fedeltà ai valori dell’organizzazione.
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Il federalismo in Sanità
Nerina Dirindin
Università di Torino
La realizzazione di un decentramento delle responsabilità fa parte di una corrente di pensiero che, almeno negli ultimi quindici venti anni, si è diffusa in maniera più o meno significativa in gran
parte dei Paesi, non solo di quelli più sviluppati e non solo nella sanità. C’è quindi un’onda lunga, che ha toccato anche l’Italia, che in
questa fase storica ritiene che il decentramento sia meglio dell’accentramento. In Italia veniamo da uno Stato che sostanzialmente si
basava su un modello centralizzato; dopo l’istituzione delle Regioni,
agli inizi degli anni Settanta, pian, piano, abbiamo attuato quello
che già la Costituzione del 1948 aveva stabilito, cioè, prevedere per
loro risorse proprie. Il trasferimento delle competenze alle Regioni
in sanità nasce nel 1992-93 e poi, nella seconda metà dello stesso
decennio, si va verso quello che, in un provvedimento del 1999, si
chiama federalismo sanitario. Si arriva alla modifica della Costituzione nel 2001 e poi nel 2009 alla legge delega sul federalismo fiscale di attuazione della Costituzione.
Siamo di fronte ad una tendenza, non solo italiana, di cui la sanità è stata da sempre il banco di prova, che ha anticipato le modifiche che in qualche modo, prima la Costituzione del 2001 e poi la
legge delega, stanno introducendo anche per altre funzioni, in particolare per quelle più importanti: l’assistenza e l’istruzione.
Ci sono dei periodi storici in cui si preferisce accentrare e altri in
cui i Paesi tendono a decentrare, questa è la fase in cui sembreremmo andare verso il decentramento. In realtà, perlomeno in alcuni
Paesi europei, soprattutto del nord, Paesi scandinavi, ma anche l’Inghilterra, ciò che in questi ultimi anni sta emergendo e che in qualche modo ci aiuta ad essere un po’ meno sorpresi rispetto a quanto
sta avvenendo in Italia, è ben sintetizzato in un articolo di Klein che
afferma: stiamo vivendo un’epoca in cui c’è la retorica del decentra41
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mento e la pratica dell’accentramento. Questo ci conforta perché
conferma che da un lato, si vuole il decentramento, dall’altro, si tende ad accentrare. Uno studio fatto sulla sanità inglese dice la stessa
cosa: nel nord Europa, dove hanno cercato di andare verso forme di
decentramento, i Governi centrali tendono a riaccentrare, c’è quindi questa tendenza, ma sulla quale c’è molta incertezza, molta riflessione su cosa sia meglio fare. Certamente, la grande crisi mondiale
che stiamo vivendo, non aiuta ad andare verso un decentramento
delle responsabilità, perché ovviamente quando la barca è in difficoltà è necessario che ci sia qualcuno che governi il sistema in modo
complessivo. È un momento particolarmente difficile per affrontare
un tema, quello del federalismo fiscale e del decentramento, di per
sé molto delicato e difficile.
Abbiamo detto che dal 2001, anno della modifica della Costituzione, al 2009, anno della legge delega di attuazione del federalismo
fiscale, sono passati ben otto anni. Otto anni che mostrano quanto il
tema sia difficile da affrontare; la legge delega del maggio del 2009
prevede un numero piuttosto consistente di decreti delegati, da produrre entro due anni, nel rispetto di un gran numero di principi e
criteri direttivi, forse più di quaranta, ognuno dei quali è, qualche
volta, suddiviso in ulteriori due o tre elementi, per stabilire come
quel principio va declinato. La legge è stata approvata in Parlamento con un largo consenso, dimostrando che questa è una legge di
compromesso, dentro cui c’è, più o meno, tutto, dipende da quello
a cui si darà attuazione . Molti dei provvedimenti che stanno uscendo, suonano come declinazione lessicale di cose che conoscevamo
già, seppur con nominativi diversi. Il vero quesito che ci poniamo
tutti e al quale non riusciamo a dare risposta è se stiamo vivendo un
periodo storico in cui si chiede più federalismo fiscale o ci si accontenterà di cambiare il nome alle cose. Fino ad ora di operazioni concrete ne abbiamo fatte pochissime; il problema è: che cosa succederà quando chi ritiene di aver portato a casa dei risultati o addirittura, nei prossimi anni, di aver dato attuazione al federalismo, si accorgerà che è stato fatto pochissimo? il Paese reggerà oppure ci troveremo con maggiori difficoltà? Questo è il vero quesito politico da
affrontare.
Può essere abbastanza utile capire da dove siamo partiti quando
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abbiamo affrontato il problema del federalismo fiscale, che vuol dire responsabilizzazione dal lato del finanziamento degli Enti decentrati; noi ci occupiamo solo della sanità, la principale voce di spesa
delle Regioni. In Italia, stranamente, il decentramento è stato voluto
dal Governo centrale, per costringere le Regioni a una maggiore responsabilizzazione dal lato della spesa. Abbiamo un problema di finanza pubblica grande come una montagna, un debito pubblico
che nuovamente è al 118% del prodotto interno lordo, una spesa
enorme per gli interessi, un’evasione fiscale che si stima valga centoventi miliardi di euro. Quindi, abbiamo un problema di finanza
pubblica enorme, come agli inizi degli anni Novanta, quando si andava, in coerenza con il trattato di Maastricht, a definire interventi
per rimettere in piedi l’Italia. In quegli anni, per entrare subito in
Europa e adottare l’euro, abbiamo fatto un grosso risanamento della finanza pubblica che ha prima azzerato il tasso di crescita del debito pubblico, e poi lo ha ridotto, anche se di poco, perché lo si può
fare soltanto molto lentamente ma comunque ha un po’ invertito la
tendenza. Negli ultimi dieci anni purtroppo quello che era stato fatto è andato tutto perduto, siamo di nuovo nella stessa situazione degli inizi degli anni Novanta. A quel tempo avevamo la grossa necessità di avviare un processo di razionalizzazione dentro la Pubblica
Amministrazione, per questo il Governo centrale si impegnava a tenere sotto controllo il disavanzo, ad azzerare la crescita del debito
pubblico, poi a farlo scendere e così via. Ma il Governo centrale si è
trovato di fronte a un problema che si può riassumere come segue:
io posso darmi delle regole molto rigide nel cercare di non far più
spesa pubblica (qualcuno ricorderà il Governo Amato, nel 1992’93, le manovre pesanti, l’aumento delle tasse, eccetera), posso anche darmi degli obiettivi molto virtuosi, il problema è che gli Enti
locali, e in particolare le Regioni, non li riesco a governare e se non
li posso costringere a non fare disavanzi in sanità, tutto il processo
che metto in atto viene vanificato perché si somma ai problemi
preesistenti.
Questo spiega, a giudizio di alcuni di noi, perché è stato il Governo centrale a dire: bene, gli Enti locali hanno responsabilità di
spesa, diamogli anche responsabilità dal lato del finanziamento, dopodiché, una volta che gli abbiamo dato tutte e due queste responsabili43
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tà, diciamogli: adesso arrangiatevi da soli.
Questo è proprio scritto nel Dpef del 1998 in cui si dice: il Governo centrale trova a volte difficoltà a costringere gli Enti locali decentrati a collaborare al processo di risanamento. Allora, il problema
è: come finanziamo la sanità in modo diverso da quello che è stato
fatto finora? Mettiamo le Regioni in condizioni di avere delle entrate proprie, con le quali finanziare la sanità, dopodiché chi fa disavanzi li paga? Lo Stato centrale si libera della competenza, cosicché il percorso di risanamento della finanza pubblica non incontrerà ulteriori ostacoli. Questa è un po’ l’anomalia: un decentramento
che non è frutto della richiesta dei figli di andarsene via di casa, ma
è il genitore che invita i figli ad andarsene fuori casa, il che è un po’
anomalo rispetto al panorama storico di tutti i Paesi, ma il problema
è proprio quello di far in modo che i figli non vanifichino gli sforzi
del centro di risanamento della finanza pubblica. Con la modifica,
non a caso è la prima volta che compaiono federalismo e federalismo
sanitario, non a caso la sanità per prima definisce i livelli essenziali
di assistenza, che poi sono ripresi dalla Costituzione. C’è sempre
questo grande confronto tra, da un lato, la sanità che cerca di difendere l’impianto del sistema universalistico, del Servizio sanitario nazionale, di finanziamento pubblico, e ,dall’altro, i Governi che si
succedono e che hanno bisogno di mettere sotto controllo la spesa
sanitaria. Tutti i tentativi che sono stati fatti, hanno contribuito a fare in modo che la sanità in questi anni ha avuto un tasso di crescita
della spesa inferiore a quello della spesa pubblica in generale e a
raggiungere comunque dei risultati che fanno sì che il nostro sia
considerato un Paese con una delle sanità migliori al mondo.
In questi ultimi anni i Governi hanno fatto proposte di riparto
del Fondo sanitario assumendosi la responsabilità di cambiare un
sistema di ponderazione su cui in precedenza c’era stata una certa
convergenza.
Con riguardo alla composizione delle entrate delle Regioni a statuto ordinario, i dati ci dicono che c’è stata un’inversione di tendenza nel 1998, con l’introduzione dell’Irap. Un vero federalista non
vorrebbe mai i trasferimenti dal bilancio dello Stato alle singole
Regioni perché suonano un po’, se non proprio come elargizione,
come un’entrata totalmente dipendente dalla discrezionalità del
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Governo centrale, che dà di più o di meno a seconda di cosa scrive
nel bilancio. Il processo di decentramento ha ridotto enormemente
i trasferimenti; nel 1998, quando è stata introdotta l’Irap, c’è stato il
crollo: i trasferimenti sono divenuti una quota minoritaria rispetto
alle entrate proprie degli Enti locali . In questi ultimi anni, al contrario, la forbice si sta riaprendo in senso opposto, potremmo dire
la stessa cosa per i Comuni e per le Province. C’è quindi una tendenza a ridurre le autonomie che in precedenza le Regioni e i Comuni avevano raggiunto.
Chi ha voluto la regionalizzazione e il decentramento
La spesa pubblica ha avuto il suo picco nel 1992, a partire dal
quale c’è stata la svolta. In questi anni avevamo più di dieci punti di
differenza di Pil tra quello che si spendeva e quello che si prelevava.
Questa differenza si è ridotta enormemente fino al 2000, che è stato
l’anno in cui abbiamo avuto il saldo più favorevole in assoluto e poi
il saldo ha ripreso a crescere e anche in questi ultimi anni è peggiorato, a maggior ragione dopo che il Pil. non è cresciuto nel 2009.
Una situazione di finanza pubblica, quindi, che ha avuto una positiva inversione di tendenza nel 1992, ma poi dal 2000 ha ripreso a
peggiorare anziché a mantenere, consolidare o addirittura migliorare la situazione precedente. Ogni anno paghiamo, adesso che i tassi
di interesse sono bassi, un po’ meno di cinque punti di Pil, un po’
più di settanta miliardi, e ciò pesa enormemente perché una buona
parte delle imposte pagate dai contribuenti non servono per produrre servizi, ma per pagare gli interessi sul debito pubblico. Tutti
vogliono più autonomia, ma nessuno vuole più responsabilità, in
realtà quello che sta succedendo è che stiamo partecipando a un
gioco in cui ci si immagina che tutti possano vincere, ma c’è sempre
chi vince e chi perde, il gioco è inevitabilmente a somma zero, soprattutto perché stiamo parlando di risorse finanziarie. In un Paese
che non cresce, le risorse a disposizione tenderanno probabilmente
ad essere minori, quindi, ci sarà qualcuno che perderà sicuramente
e molto, e in questo momento non ce lo possiamo permettere.
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NERINA DIRINDIN
Come affrontare i problemi dei grandi divari
tra nord e sud
I tre attori in gioco nell’attuazione del federalismo sono: il Governo centrale, che vuole decentrare per problemi di finanza pubblica, ma non rinuncia a disegnare dal centro gli interventi in sanità;
proprio la Regione Toscana ha contribuito a risparmiare molte centinaia di euro sui farmaci, dando indicazioni a livello nazionale sugli
equivalenti e il Governo centrale ha detto: il risparmio lo tengo io e
decido io cosa farne. Il Governo centrale non rinuncia quindi ad avere un ruolo importante e fatica a dare più autonomia alle Regioni se
non a condizione che queste riducano la spesa, perché il suo obiettivo è fare in modo che le Regioni non creino disavanzo e riducano
la spesa; se non riducono la spesa non hanno l’autonomia, la leva
fiscale.
Le Regioni del nord sono il secondo attore, queste vogliono più
autonomia, la rivendicano, hanno anche maggiori capacità tecniche
per presentare le loro richieste, argomentarle, per stare ai Tavoli
tecnici molto complicati che a livello nazionale prendono le decisioni in proposito. Queste maggiori capacità tecniche molto spesso
non sopportano, se non a fatica, le regole che il centro vorrebbe imporre loro. Perché le Regioni del nord vogliono più autonomia per
trattenere più gettito o per risparmiare sulla perequazione, cioè, le
Regioni ricche del nord dicono: vogliamo trattenere una quota maggiore delle imposte che paghiamo perché, adesso che c’è un sistema
centralizzato, siamo penalizzate dato che il residuo fiscale, cioè la differenza tra quello che paghiamo e ciò che riceviamo, è estremamente
consistente. Vogliamo invece che più soldi restino qui da noi e vogliamo che la perequazione, che è il grosso problema sul quale si sta discutendo, sia più piccola e che quindi ci vengano chieste meno risorse per
perequare. Anche le Regioni del nord di volta in volta, hanno bisogno di dare la responsabilità a chi ha definito le regole, i livelli, il
fabbisogno complessivo nazionale e via di seguito. Soprattutto, le
Regioni del nord si avvantaggiano delle debolezze del sud, come
mercati di sbocco del proprio eccesso di capacità produttiva; se tutti fossimo veramente convinti che il sud deve superare l’enorme divario qualiquantitativo nell’offerta di servizi, bisognerebbe che
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qualche Regione del nord cominciasse a domandarsi: quando non ci
sarà più così tanta mobilità, cosa dovrò fare io? Sicuramente il nord
avrà meno possibilità di “esportare”. Ma questo è un tema su cui
nessuno sta lavorando.
Il terzo attore sono le Regioni del sud, per le quali più autonomia
e più responsabilità possono essere un rischio: capiscono di non farcela e quindi si limitano a monitorare e contrastare, dove necessario, le richieste del nord. Le Regioni del sud mancano di esperienza,
qualche volta, anche delle capacità tecniche, mancano soprattutto
delle condizioni ambientali per poter fare meglio di quello che fa il
centro quando governa la Sanità. Il vero problema è che in queste
Regioni è difficile vedere concrete possibilità di miglioramento nel
breve periodo; qualche volta hanno bisogno di un centro forte perché i cambiamenti necessari richiedono una classe politica preparata, coraggiosa e mossa dall’interesse generale. Ma un decisore locale
che dipende dal consenso elettorale che ha sul posto fa fatica a fare
scelte coraggiose, bisogna che possa dire che qualcuno gli ha imposto determinate scelte. In qualche caso l’imposizione dal centro serve anche, per le Regioni del sud, come scarica barile: non ci hanno
dato abbastanza risorse, non ci hanno messo a disposizione investimenti, eccetera.
Di fronte a questa situazione, i tre soggetti coinvolti nel gioco del
decentramento affermano che l’applicazione del federalismo consentirà: al Governo centrale di risanare, di migliorare la situazione
della propria finanza pubblica; alle Regioni del nord di trattenere
più risorse e alle Regioni del sud di non avere meno risorse. Ma è
un gioco a cui non crede nessuno. I tre obiettivi non sono compatibili e c’è il rischio che l’applicazione del federalismo faccia saltare i
conti: non possiamo permetterci di correre questo rischio in un momento di grande difficoltà. È un rischio che comunque sarebbe reale anche se non ci fosse una crisi economica così pesante, perché la
partita è estremamente difficile da governare sul piano tecnico, prima ancora che sul piano politico. Quanti contenziosi sono, già ora,
aperti tra Regioni e Stato perché non sappiamo se si deve attuare la
Costituzione del 2001, che però non ha i decreti attuativi, o quella
del 1948, cioè, la normativa in vigore?
In questo momento ci sono responsabilità frammentate, non ben
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definite, che consentono a tutti di scaricare gli insuccessi e di appropriarsi dei successi. Allora il problema è: avere un Paese con responsabilità così frammentate a chi giova? Alla cattiva politica, che
forse non è stata capace di costruire questo sistema ed ha bisogno di
responsabilità attribuite in modo non chiaro per poter mantenere il
proprio potere, ha bisogno di fare accordi collusivi, di mettere in
gioco non l’interesse comune, ma quello di parte. Se davvero volessimo andare verso il decentramento e il federalismo fiscale, la prima
cosa che il Governo centrale dovrebbe fare è dare attuazione a quella parte della Costituzione che dice che ci deve essere più coordinamento centrale. Il compito delle Stato cambia rispetto a quello di
un Paese che non ha il federalismo fiscale. In un sistema più decentrato, il Governo centrale deve imparare a svolgere un mestiere
nuovo e per svolgerlo deve dotarsi di regole, di infrastrutture, di
personale formato e questa è un’altra partita sulla quale nessuno sta
lavorando. Il risultato è che il Governo centrale continua a fare il
suo vecchio mestiere: mettere le regole e dire alle Regioni che cosa
devono fare, anche con livelli di dettaglio molto spinto, le Regioni
fanno ricorso e tutto si impantana.
Ci si domanda: ma perché questo sud è rimasto così indietro per la
sanità ? Questa domanda non è banale perché persino chi riteneva
negli anni passati che il Servizio sanitario nazionale fosse il risultato
storico di idee che negli anni Settanta erano diffuse, ma che dovevano essere superate perché l’universalismo non aveva più senso, buona parte di queste persone ha nel frattempo cambiato idea. Tanto è
vero che proprio in questi giorni è stato presentato un rapporto da
una Fondazione che si chiama “Italia decide”, il quale esordisce affermando che la Sanità è stata l’istituto che più ha contribuito a unificare questo Paese negli ultimi quarant’anni, perché comunque è un sistema sanitario nazionale di cui dobbiamo essere orgogliosi, che ha
retto nonostante le grandi difficoltà. Si è dato regole, mentre non lo
hanno fatto la Scuola, l’Università, molti altri settori della Pubblica
Amministrazione; e allora perché se è stato capace di darsi regole, le
Regioni del sud non le hanno applicate, perché il sud è rimasto così
indietro? Anzi, il divario tra sud e nord sembra essere aumentato in
questi venti-trent’anni, rispetto a quello che c’era alla fine degli anni
Settanta.
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Le Regioni del sud hanno avuto oltre quindici anni in cui non si
sono occupate del sistema sanitario, non si sono date delle regole,
degli obiettivi, non hanno fatto dei piani di razionalizzazione della
rete ospedaliera. La normativa diceva di fare prima il Piano sanitario nazionale e poi le Regioni avrebbero fatto il Piano sanitario regionale. Le Regioni sensibili alle politiche sanitarie e desiderose di
governare questo sistema hanno cominciato a fare i Piani regionali
fin da subito, nonostante l’assenza del Piano nazionale. Le Regioni
del sud non l’hanno fatto e la Sanità è un settore che se non lo governi va dove vogliono i poteri economici e politici. Quindi, mentre
le Regioni del nord, bene o male, hanno fatto qualcosa per dare un
assetto al sistema sanitario, le Regioni del sud sono arretrate ulteriormente in termini comparativi. Faccio notare che ci sono alcune
Regioni che non hanno mai pianificato; la Lombardia, che ha approvato in Giunta, ma non in Consiglio Regionale e il Lazio; sono
due Regioni che hanno due sistemi sanitari completamente diversi.
Il Lazio non ha mai deciso perché ci sono troppi poteri forti al suo
interno, non è mai stato capace di governare, quindi, il risultato è
che adesso si trova in una situazione disastrosa. Per la Lombardia è
stato diverso, perché ha rifiutato la logica della programmazione come logica che non intendeva abbracciare, visto che voleva inserire
in sanità principi che sono più tipicamente aziendalistici e di mercato. La Regione Lombardia però ha governato il sistema sanitario, in
altri modi: con delibere di Giunta, con regolamenti, quindi il problema non è una cosa che si chiama Piano sanitario regionale, ma è
darsi delle regole, degli obiettivi, dei vincoli e poi monitorare se si
fanno le cose che si dovrebbero fare.
Il decreto sui costi standard
In realtà, questo è un decreto, che così come è uscito, è molto
più ampio perché riguarda anche il finanziamento delle Regioni a
statuto ordinario e delle Province, però dentro ha un capitolo che
riguarda soltanto i costi standard in sanità, il che è importante perché, essendo stata la sanità l’apripista del federalismo, introdurre la
nozione dei costi standard è in qualche modo utile per capire come
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poi questi potranno essere trasferiti nell’assistenza e nell’istruzione.
È un decreto rispetto al quale il giudizio è, da un lato positivo e,
dall’altro, negativo. È positivo perché adotta opportunamente l’approccio macroeconomico. L’idea dei costi standard è tipica delle
Aziende che producono beni manifatturieri e che hanno una contabilità molto in dettaglio: in un’Industria si può calcolare il costo
standard di una giacca o una automobile, anche se non sempre le
Aziende sono in grado di produrre informazioni sui costi di produzione in maniera così dettagliata. Qualcuno ha pensato di trasferire
questo approccio nella sanità, ma l’idea che si possa, per ogni prestazione prodotta all’interno del settore sanitario, calcolare il costo
di produzione in condizioni di efficienza, è un’idea che non soltanto
noi, che non abbiamo una contabilità molto di dettaglio, ma neanche il Regno Unito è riuscito ad attuare, pur avendo una contabilità
molto migliore e provando inutilmente negli ultimi cinque, sei anni,
a cercare di calcolare i costi unitari di produzione della sanità.
L’Università di York è uscita con un rapporto che dice: è difficile,
troviamo altre strade per misurare l’efficienza dentro la sanità. Voi
che ci lavorate, sapete benissimo quanto numerose sono le prestazioni prodotte e quante interrelazioni ci sono nei processi produttivi, quanto ampi sono i costi generali che vanno ribaltati, e a seconda
di come li ribalti risulta che una prestazione costa di più o di meno.
Si può fare qualcosa per le grandissime prestazioni, un po’ come le
tariffe, ma poi alla fine, se davvero in base a quello vogliamo giudicare chi è efficiente e chi non lo è, rischiamo anche di sbagliare. In
realtà, il decreto ha adottato la nozione macro non micro, cioè,
guardiamo quanto costa erogare un livello di assistenza, dividendo i
livelli in tre: Prevenzione, Distretto e Ospedale e quindi lavorando a
livello macro. È molto utile che sia stata riconosciuta l’impossibilità
di seguire l’altro approccio, quello micro, che ci avrebbe portato a
lavorare per molti anni per cercare di tirar fuori dei numeri senza
alcun risultato.
Ma il decreto cambia semplicemente il nome alle cose. La quota
capitaria ponderata si chiama costo standard e questa è (sembra essere) la grande novità perché l’aver introdotto questa denominazione sembra poter far finalmente superare la spesa storica. Il Fondo
sanitario nazionale, che si chiamava “Disponibilità complessiva per
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il servizio sanitario”, adesso si chiama “Fabbisogno standard nazionale”. Il Fondo sanitario regionale adesso è il “Fabbisogno standard
regionale”. Stiamo cambiando le parole per far credere che cambia
la sostanza; ma siccome la sostanza rischiava di cambiare in peggio,
forse è meglio se cambiano solo le parole.
Qui stiamo parlando di come ripartire le risorse a livello nazionale tra le Regioni. Il Governo dice: abbiamo abbandonato il costo storico, in realtà, tutti quelli che operano in sanità sanno che il costo
storico è stato abbandonato nel 1996 con la legge 662 e la sua prima
applicazione nel 1998. È ovvio che il costo storico non è stato abbandonato al 100%, perché ci sono ancora piccoli margini di discrezionalità, però l’introduzione della quota capitaria è vecchia in
sanità, è stata introdotta prima di tanti altri settori della Pubblica
Amministrazione. Il costo storico è, per il decreto, la spesa media
procapite per i tre livelli di assistenza. Si prendono le cinque Regioni più virtuose, di queste, la Conferenza Stato-Regioni ne sceglie
tre, si fa la media della spesa di queste tre e questo è ciò che viene
chiamato costo standard per livelli di assistenza. In realtà, il ruolo
cruciale è svolto dalla ponderazione per classe d’età, che è quella
che determina se una Regione avrà un po’ più o un po’ meno risorse. Il problema è che sulla ponderazione per classe d’età probabilmente si poteva fare qualche piccolo passo in avanti per dire su
quali livelli di assistenza vogliamo applicarla, che classi d’età prendiamo, ecc. Insomma, ci sono margini di miglioramento che probabilmente potevano essere introdotti e che forse, scritti in un decreto, avrebbero eliminato un po’ di discrezionalità.
Vediamo due anni abbastanza nella norma, il 2006 e il 2010; in
questa tabella sono riportate le quote di accesso di ogni Regione al
momento del riparto della torta in base alla quota capitaria ponderata. Allora, nel 2006, grosso modo la metà della spesa veniva ponderata per classe d’età, nel 2010, un terzo; in questi anni, di fatto,
stiamo riducendo il peso della ponderazione per classe d’età, anche
se il decreto dice che dovrebbe essere applicata al 100%. Confrontiamo due Regioni, una che perde e un’altra che guadagna; la Toscana ha perso 0,10 punti percentuali su cento miliardi di spesa, mentre, ad esempio, il Lazio ha avuto un grosso incremento e grazie alla
modifica del sistema di ponderazione, ha avuto trecentoottanta mi51
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NERINA DIRINDIN
lioni in più. È comprensibile che il problema sia come ripartiamo e
come ponderiamo, però nel decreto non è dato alcun elemento di
chiarezza per eliminare la discrezionalità. Il vero problema è che, in
realtà, al comma 2 di uno dei primi articoli che riguardano i costi
standard si dice: i costi dei fabbisogni standard, determinati secondo
le modalità del decreto, costituiscono il riferimento cui rapportare progressivamente, nella fase transitoria e poi a regime, il finanziamento
integrale della spesa sanitaria. Questo è il comma pericoloso e che
rivela dove vuole arrivare davvero il decreto, perché abbiamo visto
che quel decreto non fa altro che dare dei nomi diversi a cose vecchie. Poi, dice che si devono calcolare i cinque migliori e di questi
prenderne tre, ma le modalità applicative sono tali per cui si elidono
i numeri che si inseriscono e quindi non hanno alcun ruolo nella
quota di accesso e allora, a che cosa serve quel decreto? È ovvio che
sul piano politico serve a dire, in un momento difficile, che stiamo
dando attuazione al federalismo; però c’è un problema: per la prima
volta, in un documento che adesso è in Conferenza delle Regioni, si
dice che il finanziamento complessivo della spesa sanitaria, a regime
e progressivamente nella fase transitoria, dipenderà dai costi standard e non si cita quello che la legge del 1999 affermava: l’ammontare complessivo di risorse destinate al Servizio sanitario nazionale sono definite, tenuto conto dei vincoli di finanza pubblica, ma contestualmente con la definizione dei livelli di assistenza. Qui si dice che
le risorse che saranno messe a disposizione del SSN dipenderanno
da chi spende di meno, a prescindere che eroghi tutti i livelli di assistenza o solo in parte, bene o male: ovvero, torna un problema sostanziale per la sanità del nostro Paese. Gli anni Novanta, sono stati
anni in cui , a vario titolo, i Governi hanno cercato di fatto, soprattutto quelli che si sono impegnati nel risanamento della finanza
pubblica, di superare il finanziamento pubblico della sanità. Per
fortuna, quella proposta è stata rigettata più volte e gli stessi che allora fecero quella proposta adesso si rendono conto che forse non
aveva proprio tanto senso. In questi ultimi anni, quello che viene
messo in discussione in modo subdolo è il carattere nazionale del
Servizio sanitario e il federalismo potrebbe servire a sperimentare
modalità di erogazione di finanziamento dei servizi sanitari diverse
da quelle definite a livello nazionale.
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Idem per il sistema nazionale che deve vigilare perché, nelle Regioni del nord, la spesa privata è abbastanza elevata, e l’avvio di forme integrative di finanziamento sarebbe possibile. Se il sistema deve
essere uguale in tutta Italia non si può fare, ma se si può sperimentare in qualche Regione, magari anche in modo trasversale, allora alcune Regioni hanno interesse a tentare forme integrative di assistenza su livelli importanti e il federalismo consentirebbe di farlo. Soprattutto ci sono gli interessi economici dell’intermediazione finanziaria, non tanto quella assicurativa che, a mio giudizio, come sempre ha timore che la sanità sia un settore difficile. È l’intermediazione finanziaria che adesso sta cercando settori sempre più da aggredire e se anche solo un piccolo pezzo dei livelli di assistenza, in una
realtà regionale, passasse attraverso un fondo integrativo e all’intermediazione di qualche Istituzione finanziaria, parliamo come niente
di miliardi dall’oggi al domani. Sarebbe un grande mercato che aumenterebbe le possibilità di ampliare la propria attività al mondo
della finanza, non a caso le grandi Banche e le grandi Istituzioni finanziarie sono interessate alla sanità. Ha interesse anche il mondo
dei produttori di prestazioni sanitarie, perché il risanamento della
finanza pubblica in Italia ha portato a contenere il tasso di crescita
della spesa sanitaria. Questo rallentamento della spesa però è stata
una sofferenza per chi produce prestazioni sanitarie perché non ha
visto crescere il proprio mercato e quindi, un sistema alternativo di
finanziamento che abbia meno a cuore l’appropriatezza, ma che sia
più disponibile ad assecondare le scelte dei consumatori a prescindere dall’efficacia vera e propria delle prestazioni, aiuterebbe alcuni
settori produttivi a veder crescere il loro mercato. Ecco perché il federalismo può essere lo strumento, che non c’era negli anni Novanta, per tentare di aggredire il problema con questa modalità. Ma fintanto che i decreti rinviano il problema, forse possiamo dire che abbiamo rinviato anche il problema del cambiamento della sanità.
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Sistemi sanitari regionali a confronto
Sabina Nuti
Direttore Centro di S. Anna,
Management Sanità
Vorrei esaminare quali sono le evidenze sulla valutazione dei risultati dei sistemi regionali di cui oggi disponiamo a livello nazionale per chiederci se queste possono essere utilizzate per il costo standard in vista dell’introduzione del federalismo fiscale.
Partiamo dall’analisi di quello che è stato pubblicato fino ad oggi
sul federalismo fiscale e sul costo standard, facendo un commento
critico su quanto è stato conseguentemente proposto. Ci sono varie
impostazioni, c’è chi prende i costi di ciascun sistema e di ciascuna
Azienda e li divide per i volumi erogati, però, con questo sistema, la
Regione Campania risulta essere la più efficiente perché produce,
per esempio, molti ricoveri ospedalieri, anche se con un’alta percentuale di inappropriatezza. Questa strada, che sembra molto facile e
ovvia, in realtà è pericolosissima per il nostro sistema sanitario nazionale, perché se ci dobbiamo “parametrizzare” alla Regione Campania rischiamo di fare un danno a tutto il SSN. C’è chi si muove
cercando di lavorare solo sull’assistenza farmaceutica o su quella
ospedaliera, ma sappiamo che sulla spesa dei sistemi sanitari regionali incide per oltre il 50% l’assistenza territoriale. Molti lavorano
con una serie di criteri che si avvicinano di più alla logica del fabbisogno procapite, che la legge prevede siano due cose ben distinte
dato che una cosa sono i bisogni e un’altra è l’uso che facciamo delle risorse per rispondere ai bisogni in relazione ai costi rispetto al risultato prodotto.
Certamente dobbiamo usare un metodo prudenziale perché comunque le informazioni che abbiamo a disposizione a livello nazionale non sono molte e quindi dobbiamo cercare di fare un progetto
realizzabile ma che, al tempo stesso, sia fin da subito corretto dal
punto di vista delle finalità perché anche la logica del costo standard sia uno stimolo al miglioramento. Da questo punto di vista,
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SABINA NUTI
negli ultimi anni la Regione Toscana ha lavorato molto per diffondere questo messaggio fondamentale, ovvero che, più di quanto si
spende, è importante come si utilizzano queste risorse per creare valore aggiunto per il cittadino. Qui sta la sfida rispetto al concetto di
spesa sanitaria: non interessa quanto si spende, ma quante risorse
stiamo utilizzando,rispetto alla logica della contabilità economica e
a quella finanziaria quant’è il valore prodotto.
Parlare di sistemi sanitari significa parlare di livelli di salute della
popolazione e di equità. È pertanto fondamentale non tanto partire
dalla capacità di equilibrio dei sistemi sanitari, cioè, di non spendere di più di quanto viene allocato dal Fondo nazionale, quanto cominciare veramente ad avere la volontà di confrontarsi su quanto
viene erogato e con quali livelli di appropriatezza e di qualità. È
inutile parlare di livelli essenziali di assistenza se poi ogni sistema
regionale viene in realtà lasciato libero di erogare quanto e come
vuole, per cui alla fine si ha, come vedremo dai risultati che presenterò, un grosso problema di equità sostanziale. Intendendo con
equità la necessità di garantire adeguato accesso ai servizi a tutta la
popolazione marginale, agli immigrati, mentre se guardiamo i risultati, abbiamo dei problemi di equità tra i cittadini italiani, anche nel
contesto della stessa Regione.
Con questo tipo di prospettiva, abbiamo lavorato a livello nazionale cercando di definire e di condividere con il Ministero e con il
Tavolo delle Regioni, che cosa era importante misurare quando si
devono confrontare dei sistemi sanitari regionali, cercando di delineare il campo: la qualità dei servizi è il punto di partenza e di arrivo fondamentale. L’appropriatezza delle prestazioni e delle strutture
è irrinunciabile, niente di più, ma niente di meno, per rispondere al
bisogno del cittadino nel setting assistenziale più adeguato, anche in
termini di efficienza, perché se possiamo trovare una modalità che
dà lo stesso risultato e costa meno, è un impegno, un dovere etico
dell’operatore sanitario pubblico, scegliere questa soluzione.
L’ultimo aspetto da prendere considerazione è l’efficienza nell’uso delle risorse, per evitare sprechi e per garantire il massimo valore
aggiunto al cittadino.
Il metodo, che abbiamo ormai testato da anni in Toscana con ottimi risultati e che abbiamo proposto anche a livello nazionale, è di
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SISTEMI SANITARI REGIONALI A CONFRONTO
confrontare sistematicamente i dati tra le diverse realtà e tra i diversi contesti. Su questo, l’approccio è in qualche modo differenziale
rispetto, per esempio, a quello utilizzato dagli epidemiologi. Questi
operatori sono molto attenti a fare i confronti perché, giustamente,
si pongono il problema di introdurre una serie di accorgimenti e di
analisi specifiche che possano tener conto, attraverso il risk adjustment, delle differenze che, per esempio, i territori hanno rispetto al
livello di anzianità dei cittadini, rispetto alle caratteristiche specifiche. La nostra percezione è che molte volte, con il desiderio di proporre dei dati estremamente precisi passano tre o quattro anni e
questi risultati finiscono per essere utili solo in termini di ricerca
più che come uno strumento a supporto delle decisioni degli operatori. non si possono utilizzare. Quando le differenze non sono marginali ma sostanziali, è meglio avere il dato con una grande tempestività, sapendo che non tutto è stato considerato ma probabilmente
in parte va corretto se si tiene conto che l’età media è leggermente
diversa tra un territorio e un altro, ma l’informazione arriva in tempo per essere utilizzata dai decisori. Quindi, benchmarking, confronto sistematico; abbinare il dato del confronto, insieme al trend,
ci permette di individuare, territorio per territorio, Azienda per
Azienda, Regione per Regione, quali sono gli ambiti di priorità su
cui dobbiamo assolutamente intervenire. Sono stati calcolati ad oggi
i primi trentaquattro indicatori a confronto, elaborati anche a livello
di Asl e di struttura ospedaliera. Di questi, ventidue sono di valutazione, e ciò significa che è stato condiviso un metro per definire ciò
che è accettabile e ciò che non lo è, ciò che è una buona performance e ciò che non lo è.
Il risultato è poi stato suddiviso in fasce di valutazione. Tutto
questo materiale, che, per la prima volta in Italia, è stato reso disponibile ai cittadini, si trova sul sito del Ministero sotto salute.gov, nella sezione dedicata al SIVEAS,con tutti i dati Regione per Regione.
Questi indicatori sono stati elaborati e presentati alle Regioni nel
settembre del 2009. Dopo le elezioni, avendo raccolto quali erano le
perplessità in base alle segnalazioni delle Regioni, gli indicatori sono
stati pubblicati nell’aprile del 2010. Questa è la nostra esperienza
sul sistema di valutazione nazionale, ma stiamo lavorando con la Regione Toscana capofila di un network che quest’anno è arrivato a
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comprendere nove Regioni. Il lavoro che stiamo facendo sul network non è tanto di valutazione, che dà una sorta di ranking e di situazione di check up delle Aziende e dei sistemi, ma ci impegnamo
per supportare i processi decisionali e legare sempre di più il sistema. Tra i primi indicatori proposti e accettati, una parte è relativa
all’assistenza ospedaliera: governo della domanda, efficienza, indice
di performance (un indicatore, calcolato in modo specifico, che permette di calcolare, per Drg, quant’è la degenza media di ogni struttura rispetto alla media nazionale), appropriatezza chirurgica (in
termini di setting assistenziale e anche in termini di tecnica utilizzata), appropriatezza medica e di analizzare alcuni indicatori di qualità clinica. Abbiamo poi alcuni indicatori sull’assistenza distrettuale,
sull’assistenza farmaceutica, sull’assistenza sanitaria collettiva e di
prevenzione.
La Regione Toscana ha centotrenta indicatori raccolti in tanti anni con un sistema informativo,e condivisi con i vari soggetti. Pensiamo, ad esempio, agli indicatori sulla sanità di iniziativa, che saranno
l’obiettivo del 2011. L’aver già usato questi primi dati ha permesso
comunque di fare un salto in avanti per cercare di capire come i diversi soggetti si collocano nel sistema nazionale. Questi sono indicatori di valutazione, significa che il risultato ha un suo posizionamento, ma al Tavolo Ministero – Regioni, anche sugli indicatori del patto per la salute, non è stato ancora definito uno standard di riferimento. Per esempio, al Tavolo dei LEA non ci si è posti la domanda
fondamentale: ma il sistema sanitario italiano dove vuole arrivare?
Qual è il livello che considera accettabile e qual è il livello che considera non accettabile? Quello che è sempre mancato alla componente
politica è di definire esattamente quali sono gli ambiti specifici in
cui le Regioni sono chiamate a muoversi. Abbiamo quindi dovuto
adattare con la logica dei quintili, e questa è una bella differenza rispetto al sistema di valutazione della Regione Toscana, dove invece
la stragrande maggioranza degli obiettivi sono presenti nel Piano sanitario regionale.
I risultati sono presentati con la proposta del bersaglio, che da
molti è criticata ma che in realtà è estremamente efficace per avere
un quadro di sintesi a livello aziendale e a livello regionale. Il bersaglio è una rappresentazione, che permette di evidenziare gli indica58
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SISTEMI SANITARI REGIONALI A CONFRONTO
tori per i quali si riscontrano maggiori difficoltà e gli indicatori che
hanno un’ottima performance. A livello regionale, ogni Regione ha il
suo bersaglio, ha il dettaglio degli indicatori e poi ha una serie di altri indicatori che permettono di capire le determinanti del risultato
complessivo.
Vediamo qualche esempio: riguardo alla qualità dei servizi, per le
fratture di femore, , è molto importante essere operati tempestivamente in modo da avere un rapido recupero. Le evidenze scientifiche dicono che si dovrebbe arrivare almeno all’80% di interventi
entro ventiquattro ore dall’incidente. Noi si parla di quarantotto ore
e oltre l’80% c’è solo Bolzano; la Basilicata e il Lazio sono al 16%,
gli ultimi dati disponibili sono del 2008, la Toscana nel 2010 è arrivata al 56%. Nella parte critica purtroppo abbiamo tutte le Regioni
del sud, ma le variabilità si riscontra anche dentro le Regioni; per
esempio, nel Veneto, che ci si aspetta che sia una delle migliori, in
realtà abbiamo il 78% a Padova, mentre Treviso è ferma al 14%.
Tutte le volte che ci viene in mente la problematica dell’equità, giustamente pensiamo alle fasce marginali, ma il problema riguarda anche i cittadini normali, perché le chance di recupero sono diverse.
La Regione Toscana è l’unica, insieme al Piemonte, che ha inserito
già dal 2008 il titolo di studio nella Scheda di dimissione ospedaliera, vediamo che chi ha il titolo di studio più alto riesce a ottenere
servizi più tempestivi e più adeguati. I laureati si fanno operare
presso le Aziende ospedaliero – universitarie, qualsiasi sia la loro
area di residenza, in percentuale molto più alta rispetto a quelli con
basso titolo di studio, che si fanno purtroppo troppo spesso operare
in strutture che fanno, per esempio, tre interventi alla mammella
l’anno, di conseguenza non riusciamo a garantire le stesse opportunità a tutti i cittadini.
Esaminiamo i re-ricoveri entro trenta giorni per la stessa MDC.
A parità di tasso di ospedalizzazione sappiamo che in Campania è
molto più alta a causa dei ricoveri inappropriati: il Piemonte registra il 3%, in qualsiasi posto sia stato il re-ricovero, in Sardegna abbiamo il 7,64%. Riguardo all’appropriatezza medica, la percentuale
di ricoveri in DH medico con finalità diagnostiche si registra una
differenza dal 17% al 71%. Durante il ricovero si fa un insieme di
analisi che dovrebbero essere realizzate in regime ambulatoriale e
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qui abbiamo un grosso problema anche in termini economici perché chiaramente il costo è assai diverso. Oppure vediamo, per
esempio, l’indice di performance della degenza media per acuti, il
Lazio per ogni ricovero in media utilizza 1,1 in più di giornate di
degenza rispetto alla media nazionale, sono milioni di giornate di
degenza in più. L’Emilia Romagna riesce ad arrivare a un valore di
quasi un giorno, 0,7 in meno per ogni ricovero rispetto alla media
nazionale, la Toscana è a 0,64. Vediamo invece la degenza media
preoperatoria per interventi chirurgici programmati, si va da 0,72 a
2,33 di media per il Molise, anche queste sono moltissime giornate
di degenza sprecate. Per i DRG dimessi dai Reparti chirurgici, si va
dal 13% delle Marche al 44,5% in Campania, ciò significa che è casuale dove vieni ricoverato.Questo è un indicatore molto utilizzato
anche a livello internazionale, se si è ricoverati in un reparto chirurgico ci si aspetta che, almeno nell’80% dei casi, il paziente debba
essere sottoposto all’intervento chirurgico. Se il paziente viene poi
dimesso con un DRG medico vuol dire che abbiamo utilizzato i Reparti chirurgici e bloccato dei letti, per fare qualcosa che poteva essere erogato in Reparti a minor costo. In Campania il 44% dei pazienti ricoverati nei Reparti chirurgici escono dall’Ospedale con un
DRG medico.
Vediamo poi i DRG LEA medici, a livello nazionale. La Commissione nazionale per i livelli essenziali di assistenza ha identificato
tutto un gruppo di casistica che potrebbe essere più appropriatamente seguito sul territorio, dal medico di famiglia o dagli specialisti, mediante le visite ambulatoriali; il Piemonte arriva a 90 su diecimila residenti rispetto alla Campania che ne fa 334 sempre su diecimila residenti; i ricoveri di un paio di giorni sono molto spesso inutili e andrebbero ridotti, mentre in Campania sono ancora il 40%,
ossia una percentuale elevatissima.
Abbiamo provato ad esaminare qual è il tipo di relazione esistente tra gli indicatori di efficienza, di qualità, di appropriatezza, di
governo della domanda, non solo tra le Regioni, ma anche considerando, per esempio, tutte le trecento e passa Asl a livello nazionale,
quindi sui due livelli. Quello che emerge è che esiste un’altissima
correlazione tra le dimensioni e tra gli indicatori, questo è significativo perché prova ancora una volta che in sanità chi è efficiente ha
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SISTEMI SANITARI REGIONALI A CONFRONTO
anche un’ elevata qualità. In Regione Toscana abbiamo fatto un lavoro con il Consiglio sanitario sugli indicatori per i diversi percorsi
e patologie. I chirurghi, quando abbiamo iniziato il lavoro, ci dicevano: se si spinge sulla riduzione della degenza media ci troveremo
con un maggior numero di complicanze e con un aumento dei ricoverati.. In realtà, i dati delle nostre ottanta Chirurgie dimostrano, come lo dimostra il livello nazionale, che laddove c’è la capacità di tenere sotto controllo le degenze medie, ci sono meno ricoveri e migliori livelli di appropriatezza. Se andiamo a vedere, per esempio, la
produzione ospedaliera sulle realtà che vanno meglio da un punto
di vista di qualità e di efficienza, si scopre che hanno una minore variabilità nella degenza. Questo vuol dire che sono probabilmente
realtà dove si è più avanti nella condivisione dei protocolli clinici e
nell’organizzazione del percorso, per cui l’utente entra quando ha
già fatto la preospedalizzazione, fa il suo intervento, trova la risposta adeguata per tornare a casa al momento giusto. Quindi, la degenza è più breve, è più organizzato il percorso e normalmente il livello di qualità è più elevato perché esiste maggior coordinamento
tra i professionisti.
È chiaro che a livello nazionale è difficile avere un quadro esauriente del territorio perché i flussi che abbiamo a disposizione sono
veramente pochi e per adesso sono di tipo indiretto, però sull’assistenza ospedaliera questa analisi è possibile. +++ Nella tab. vediamo la relazione tra costo procapite standardizzato, solo per la parte
ospedaliera e la performance per l’anno 2007 relativa a tutti gli indicatori sull’assistenza ospedaliera, e si vede che esiste la correlazione
statistica tra costo e performance. Questo vale anche per la nostra
Regione, con un numero di indicatori molto più elevato: nella tabella +++ è evidente la relazione tra costo procapite standardizzato
con i criteri del Piano e la percentuale di indicatori calcolati, escludendo quelli di efficienza, sul totale dei risultati. La stessa situazione del 2007, si ripresenta nel 2008 e 2009, anche se con posizioni
diverse delle Aziende.
Nella Regione Toscana gli ultimi due anni sono stati dedicati a
mettere a punto degli indicatori di outcome, per esempio, come la
mortalità, dopo tutta una serie di interventi di risk adjustment. In
un certo senso, questo ci conferma che un buon lavoro sulla perfor61
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mance di processo, un buon lavoro di organizzazione e di integrazione interna tra i professionisti, permettono anche di utilizzare al
meglio le risorse disponibili e di ottenere quindi un buon risultato
per la collettività.
Perché gli indicatori di performance possano funzionare è molto
importante che siano legati anche agli strumenti di management.
Nel network delle Regioni nel 2008 e 2009 abbiamo lavorato con
Piemonte, Liguria e Umbria: dal 2006, nel sistema di valutazione
delle Aziende e nel sistema di incentivazione dei Direttori generali,
abbiamo introdotto l’obiettivo, per esempio, del miglioramento nella percentuale di fratture di femore operate entro due giorni, il dato
della Toscana sistematicamente è migliorato ogni anno, in Piemonte, Liguria e Umbria , Regioni molto simili in termini di sistema sanitario e di performance, questa percentuale è rimasta invariata. Il
2010 è il primo anno in cui l’Umbria e il Piemonte hanno finalmente inserito questo indicatore nei loro obiettivi e vedremo se i risultati sono migliorati.
Dichiarare gli obiettivi, condividerli con il management, parlarne
con le Aziende, è un modo per far arrivare il messaggio che questa
scelta è importante perché allora i sistemi si muovono. In sintesi,
credo che sia molto importante l’identificazione di questi parametri,
che devono essere continuamente messi a punto e anche modificati
nel tempo, in base al grado di raggiungimento e in base alle nuove
priorità che si presentano alle Aziende e ai sistemi sanitari, però è
molto importante legarli ai sistemi di gestione e agli obiettivi. È l’unico meccanismo che abbiamo a disposizione per far sì che in futuro questo costo standard, che sarà il parametro attraverso cui ogni
Regione si potrà finanziare, sia effettivamente legato ai risultati ottenuti. I nuovi criteri di riparto probabilmente terranno conto anche
delle problematiche di tipo socioeconomico relative alla presenza o
meno di patologie croniche, tutto giustissimo, però una volta che le
Regioni hanno ottenuto i finanziamenti dal Fondo o hanno attinto
al Fondo di perequazione quando ci sarà il federalismo fiscale, è
fondamentale che poi li utilizzino adeguatamente.
Dobbiamo introdurre dei meccanismi che in qualche modo aiutino le Regioni a correggere il tiro, in particolare a non aprire Ospedali inutili, o erogare servizi inadeguati e inappropriati
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SISTEMI SANITARI REGIONALI A CONFRONTO
Adesso abbiamo il meccanismo dei piani di rientro, che sono
perlopiù autorizzazioni alla spesa, ma questo è assolutamente insufficiente se non si controlla come si spende. È indispensabile anche
dare una forza politica a queste amministrazioni, di destra o di sinistra, per correggere il tiro, chiudere gli Ospedali che non servono e
attivare i servizi che veramente servono al cittadino di oggi e di domani.
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Le priorità della sanità toscana
Andrea Leto
Coordinatore Area sociosanitaria,
Regione Toscana
La politica regionale sta tentando di predisporre un percorso che
durerà qualche anno; alla fine di questo percorso, anziché avere un
sistema sanitario toscano deprivato di servizi, per cui chi paga la crisi non è il benestante, ma chi meno ha, si spera di uscire dall’attuale
ciclo di risorse limitate recuperando in efficacia ed efficienza.
In Toscana, infatti, non vogliamo ridurre i servizi, anzi, li vogliamo migliorare evitando di sprecare preziose risorse. Il bilancio della
Regione è di circa 8,7 miliardi di euro, la parte più consistente arriva dal sistema sanitario, circa 6,5 miliardi, gli altri 2,2 miliardi dalla
caccia, agricoltura, trasporti, che però verranno deprivati di circa
320 milioni nel 2011 e di 360 milioni nel 2012. La parte sanitaria sarà indirettamente colpita da questa manovra, anche se il tentativo è
quello di preservare il nocciolo delle nostre attività, pur prendendo
atto che rispetto al 2010 avremo probabilmente un incremento di
circa 50 milioni in più. Il sistema sanitario toscano, che viene considerato virtuoso, cresce intorno al 3%, creando un serio problema
per la tenuta del bilancio. Questo investe in pieno il problema del
percorso normativo che il nostro Paese sta affrontando in rapporto
al federalismo fiscale che metterà in atto la standardizzazione dei
costi e dei servizi, così che nei prossimi anni si tenderà ad omogeneizzare, per assorbimento di risorse, il valore delle prestazioni nel
nostro sistema. Posto che i LEA non verranno modificati, almeno
nel prossimo anno, abbiamo un problema sul versante sociale rappresentato dai LEA, che attualmente non sono stati introdotti e costituiscono un elemento di incertezza ulteriore per il sistema.
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ANDREA LETO
Il programma della Regione Toscana
La legge finanziaria introdurrà alcuni elementi, che non vanno
letti soltanto come deprivazione, ma anche come implementazione
di servizi: intanto, la questione del rapporto con il privato accreditato: cliniche, trasporti, RSA. In un percorso che deve essere necessariamente condiviso tra i privati accreditati e i professionisti, verrà
definito un tetto di risorse stabilito sulla base di quelle disponibili
nel 2010. Questo significa che si prova a bloccare la dinamica tradizionale della spesa, introducendo degli elementi correttivi che però
vanno nella direzione della qualità e del miglioramento dei servizi.
Non è una contraddizione perché, pur essendo la Toscana una Regione che dedica molta attenzione alle risorse, i margini di miglioramento sono evidenti e significativi. Per esempio, la legge sui trasporti introdurrà lo strumento della gestione budgetaria delle risorse che permetterà, condividendola con tutto il mondo del volontariato che ruota intorno al trasporto, di ottimizzare le risorse. Proviamo a costruire un percorso che sia di interesse comune e la budgettizzazione in qualche maniera ci può aiutare in tal senso.
Lo stesso vale per la residenzialità. Su questo vorremmo fare una
riflessione, che sicuramente avrà uno sbocco sul Piano sanitario futuro, sulla legge 402, che regola il sistema di valutazione della non
autosufficienza e del bisogno dei cittadini nell’accesso ai servizi. Da
una serie di analisi effettuate possiamo sostenere che nel settore della residenzialità ci sono margini di miglioramento enormi. Sicuramente nell’area fiorentina c’è la possibilità di costruire dei percorsi
che non tolgano risorse al privato o a chi gestisce le RSA, agendo attraverso la qualità, l’appropriatezza, aumentando propriamente i
servizi. Un esempio: se rilevo che in una zona ci sono troppi moduli
Alzheimer, correggiamo il percorso, perché il modulo Alzheimer non
è un cronicario dove mettere il cittadino finché vive, ma un intervento per stabilizzare il cittadino e poi restituirlo alla famiglia È una
questione che riguarda poi il personale delle Aziende sanitarie. Su
questo verrà posto un tetto, riferito al 2006, con la riduzione di
1,4% del personale, quindi, significa la riduzione di alcune unità
nelle Aziende nel computo complessivo, però questo verrà basato
su un principio comune a tutte le iniziative di piano, attuale e futu66
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ro:: non si fa un taglio dell’1,4% per tutti, sarebbe un errore d’impostazione, ma verrà fatto, in maniera condivisa con le Aziende, un
confronto per vedere chi ha assunto del personale e chi invece è stato più parco nel corso di questi anni. Anche in questo ci sono elementi di forte discontinuità e disuguaglianza tra le Aziende perché
va valutato, legandolo agli obiettivi, il rapporto tra le professioni. In
questi anni si sono assunti tanti medici, di infermieri invece non ne
sono stati assunti. Il fatto che mancano gli infermieri rappresenta
una vera criticità perché, se la strategia della Regione è quella di
consegnare il cittadino sul territorio e farlo gestire attraverso l’organizzazione territoriale, gli infermieri sono indispensabil.. Non è la
Regione che decide i tagli, però rimanda alle Aziende, assumendone
responsabilità, la capacità di valutare il loro fabbisogno rispetto agli
obiettivi.
Il taglio delle spese di rappresentanza o quelle per i costi, esige la
sobrietà e in un momento di crisi, da parte nostra, questo rappresenta un esempio verso i cittadini.
La farmaceutica e i presidi
L’appropriatezza della prescrizione farmaceutica può determinare risparmi da recuperare nel sistema dei servizi. Una segnalazione
che ci viene dal nostro farmacista, rispetto a una molecola usata dal
90% dei professionisti che costa un quinto, mentre il 10% dei medici ne usa un’altra che costa un decimo di più. Senza rinunciare alla libertà di prescrizione è necessario operare all’interno di una cornice di appropriatezza. Da questo punto di vista, la nostra Commissione terapeutica sta facendo un lavoro importante, fortemente condiviso.
La politica dell’accesso ai servizi è un altro tema su cui probabilmente il 2011 sarà particolarmente significativo. L’accesso ai servizi
attraverso l’ISEE, cioè, gli strumenti di valutazione del reddito, che
sono completamente soddisfacenti nel determinare il profilo di ricchezza di ognuno di noi e, in un momento di crisi, è bene che chi ha
di più contribuisca di più.
Veniamo all’ultima questione questione da affrontare: gli investi67
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ANDREA LETO
menti: la Regione Toscana metterà in bilancio circa cento milioni
l’anno per coprire la politica degli investimenti e una parte consistente di questi investimenti verrà assorbita dai quattro nuovi Ospedali che si stanno costruendo.. La parte restante di queste risorse
verranno utilizzate per le politiche essenzialmente rivolte al territorio e, in particolare, per le cure primarie e la telemedicina, come
strumenti che dovrebbero costruire e rinsaldare il rapporto tra il
territorio, sia nella versione sociale che sanitaria, e l’Ospedale. Immagino: anziché dimettere il cittadino con il fax o come avviene,
con una telefonata, se tutti i giorni, negli Ospedali si organizzasse
una teleconferenza con il Distretto, dove magari abbiamo organizzato la Casa della Salute, sarebbe possibile prevedere un percorso
che parte dall’Ospedale, dove un infermiere o una figura riconosciuta comunica che fra tre giorni viene dimesso un suo cittadino e
chi deve poi organizzare l’assistenza sociale o sanitaria lo può prendere in carico con una procedura semplice e organizzata.
La teleassistenza è un tema che nel Piano sanitario avrà una valenza diversa rispetto a quella, irrilevante, avuta finora. Il dibattito
al livello nazionale è così maturo ormai che con investimenti nazionali, se ci saranno, per necessità tecnologiche e anche per interessi
industriali, , la teleassistenza entrerà a pieno titolo dentro al sistema
come un fattore necessario e di sviluppo. Pensiamo al vantaggio che
può dare agli anziani, laddove è necessario, per il monitoraggio di
alcune patologie oppure, con le esperienze che stiamo facendo in
Toscana, per il recupero dopo un ictus, attraverso gli esercizi ripetuti, non a casa, ma in un posto dove il paziente può essere in comunicazione con l’Ospedale che controlla quello che fa.
La riorganizzazione dei servizi significa, dentro questa logica, capire se quello che abbiamo scritto nelle delibere, ma non siamo riusciti a fare fino in fondo, ad esempio, la riorganizzazione della rete
dei laboratori, al cittadino non importa dove viene fatta l’analisi, ma
gli interessa che sia fatta in maniera appropriata e nei tempi dovuti.
Andare a razionalizzare questo significa permette di smobilitare alcuni servizi, che magari vengono fatti in maniera molto disarticolata, ragionando su una dimensione che su alcune cose non è più
quella soltanto su area aziendale. La nostra dimensione regionale sarebbe probabilmente la dimensione ottimale, chiaramente non vuo68
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le dire nulla perché poi i servizi devono essere articolati, dal punto
di vista dell’organizzazione però i tre milioni sono il riferimento organizzativo che si può ottenere. Tant’è che sui trasporti, sulle consorziate dell’acqua, dei rifiuti, si sta ragionando di riassemblare tutto con questa logica almeno per Area vasta. L’idea che abbiamo, che
sarà oggetto di riflessione nel prossimo anno, ma che andrà nel piano, è che alcuni servizi di tipo organizzativo saranno per Area vasta,
ma si chiede anche e per questo c’è tutto un lavoro che sta impegnando molto le Aziende sanitarie, di andare a vedere, laddove si
erogano i servizi al cittadino, se dentro la stessa Azienda ci sono duplicazioni e vi assicuro che ce ne sono tante o alcune prestazioni di
alta intensità, vengano erogate dove si eroga l’alta intensità. Questa
è una scelta essenziale per articolare bene i nostri servizi, se Pisa sta
riorganizzando un mega Ospedale, perché ciò sta diventando, lì c’è
l’alta intensità. Questo si porta dietro l’altro elemento che sarà determinante, l’HTA, cioè, la capacità, nell’organizzare ed erogare i
servizi, di andare a valutare qual è l’impatto di tipo organizzativo,
economico e assistenziale, di una macchina rispetto alla sua allocazione. La dinamica che è andata avanti in questi anni, che era su
pressioni di tutti i tipi, ha messo una nuova macchina altamente costosa, si parla di milioni, in un posto e poi si va a scoprire che non
produce per quello che dovrebbe essere l’ammortamento di quella
macchina. Questa politica sfida tutti, ognuno per il suo ruolo, noi
come organizzatori, le Aziende come organizzatrici dei servizi, ma
riguarda poi il cittadino consapevole e anche i professionisti, questo
non ce lo possiamo permettere più.
La riflessione sul territorio. Purtroppo, con il quadro economico,
sul territorio non ci saranno grandissimi investimenti, questo lo possiamo dire, però alcuni elementi di qualità possono essere introdotti
per poter facilitare che le cose che abbiamo impostato con il nostro
Piano sanitario vigente, soprattutto la sanità di iniziativa, possano
avere compimento. In particolare, dal punto di vista dell’organizzazione dei percorsi, probabilmente nel prossimo anno, per portarlo
poi dentro il Piano, dovremo riflettere sulle azioni fatte durante
questo anno e mezzo di attività sulla sanità di iniziativa per ragionare non più per singola patologia, che è quello da cui siamo partiti.
C’è da provare, ora forse si può fare, a ragionare sulle poli patologie
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per sviluppare la sanità di iniziativa, che noi speriamo vada a regime
su tutto il territorio regionale nei prossimi anni.
Il Piano sanitario avrà un prolungamento di un anno, intanto
un’informazione è questa. Essendo il Piano regionale di sviluppo,
che andrà in Consiglio, poi sarà approvato nei primi mesi del 2011 e
dal resto poi dipendono i Piani di settore. Mi sembra che questo sia
uno degli elementi su cui si sta riflettendo, su cui il nostro Assessore
ci sta stimolando a riflettere, cercare di capire, per cluster di popolazione, qual è l’assorbimento di risorse necessarie. Provare, cioè, da
un lato, a incanalare i percorsi dentro la qualità e dentro la poli patologia, dall’altro lato, riflettere e vedere come si vanno a incastrare
il bisogno assistenziale dei cittadini che è diverso secondo anche il
cluster di appartenenza economica, sociale e quant’altro. È banale,
però anche gli studi che stiamo leggendo ci dicono tutti che lì va
posta particolare attenzione, significa che forse laddove c’è povertà,
marginalità, che sia di cittadini italiani o stranieri, dobbiamo fare lo
sforzo di ragionare come l’assistenza non può essere uguale al cittadino italiano, magari attrezzando strumenti, che non sono gli stessi
di quelli che pensiamo, per erogare ai cittadini che hanno un facile
accesso ai servizi.
Il Piano sanitario sarà un piano sociosanitario, non dobbiamo
scrivere un testo biblico di duemila pagine, su questo c’è preoccupazione perché ogni volta si dice: il Piano deve essere una cosa snella, facciamolo a schede. Questo è il terzo o quarto che scrivo, poi alla
fine il Piano è di quattrocento pagine, il sociale, altre quattrocento
pagine, stavolta rischiamo davvero di fare qualcosa di veramente
pesante. Il percorso di riorganizzazione non è semplice perché noi,
parte sanitaria, abbiamo sempre avuto contatti e lavoro comune con
i colleghi del sociale. Nel momento in cui si sposa la filosofia del
connubio forte, che non deriva dalle scelte di oggi, ma è già scritto
nei Piani sanitari, ci stiamo accorgendo che questo processo è particolarmente complesso, però si farà anche questo. Nella stesura del
Piano il tentativo è di provare a ragionare non per singoli segmenti,
ma per percorsi, dove il ruolo di tutti i soggetti, che siano professionisti, volontari o altro, si va a incardinare nel percorso del cittadino
che ha un bisogno. Spesse volte invece si scrive il Piano in base prevalentemente alla forza degli stakeholders, che siano i cardiologi o
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altri. Lo sforzo non sarà semplice, alla fine probabilmente il prodotto non sarà soddisfacente per tutti, però il tentativo è questo, l’organizzazione che ci stiamo dando con fatica dovrebbe andare in questa direzione.
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I determinanti della salute
Gavino Maciocco
Dipartimento Sanità pubblica, Università di Firenze
I determinanti della salute sono i fattori che influenzano lo stato
di salute di un individuo e – più estesamente – di una comunità o di
una popolazione.
I determinanti della salute possono essere raggruppati in varie
categorie:
• Comportamenti personali e stili di vita.
• Fattori sociali.
• Condizioni di vita e di lavoro.
• Accesso ai servizi sanitari.
• Condizioni generali socio-economiche, culturali e ambientali.
• Fattori genetici.
La semplice enumerazione di questi fattori non genera alcun problema concettuale; la lista può essere incrementata o ristretta, resa
più analitica o sintetica senza che ciò provochi particolari discussioni o controversie.
Le discussioni iniziano quando si propongono modelli concettuali che pongono in evidenza un fattore piuttosto che un altro,
quando stabiliscono una gerarchia di valore tra i vari elementi. Analizziamo due diversi modelli concettuali che propongono antitetiche
strategie di sanità pubblica.
Nel primo modello1 (Figura 1) lo stato di salute delle persone sarebbe condizionato per il 50% dai loro comportamenti e dal loro
stile di vita; molto meno importanti gli altri fattori: fattori ambientali (20%), fattori genetici (20%), assistenza sanitaria (10%). Si tratta
1 Institute for the future (IFTF), Health and Healthcare 2010. The forecast, The
challenge. Jossey-Bass, Princeton, 2003.
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GAVINO MACIOCCO
Figura 1
di un modello che mette in primo piano il ruolo degli stili di vita
delle persone e rispecchia l’enfasi che negli USA viene posta nella
responsabilità individuale nei confronti della salute e delle malattie.
Il secondo modello2 (Figura 2) è espresso in una serie di strati
concentrici, corrispondenti ciascuno a differenti livelli di influenza:
• Al centro c’è l’individuo, con le sue caratteristiche biologiche: il
sesso, l’età, il patrimonio genetico.
• Lo strato successivo riguarda il comportamento, lo stile di vita,
degli individui, che include fattori come l’abitudine al fumo e all’alcol, i comportamenti alimentari e sessuali, l’attività fisica, che
possono promuovere o danneggiare la salute.
• Ma l’individuo non esiste da solo: egli interagisce con i familiari,
gli amici, l’ambiente di lavoro, la comunità circostante. Così la
qualità degli affetti e delle relazioni sociali influenza la qualità
2 Dahlgren G., Whitehead M., Policies and strategies to promote social equity in
health. Stockholm: Institute of Futures Studies, 1991.
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I DETERMINANTI DELLA SALUTE
Figura 2
della vita delle singole persone e può determinare un diverso stato di salute sia attraverso meccanismi psicologici (la depressione
e l’ansia), che attraverso condizioni materiali favorevoli o avverse
(es: la presenza o l’assenza di una rete di supporto familiare o sociale).
• Il quarto livello concerne un insieme complesso di fattori che riguardano l’ambiente di vita e di lavoro delle persone: il reddito,
l’occupazione, l’istruzione, l’alimentazione, l’abitazione, le condizioni igieniche, i trasporti e il traffico, i servizi sanitari e sociali.
• Lo strato più esterno si riferisce alle condizioni generali – politiche, sociali, culturali, economiche, ambientali – in cui gli individui e le comunità vivono.
Di questa serie di determinanti, alcuni – le caratteristiche biologiche dell’individuo – sono immodificabili, mentre tutti gli altri sono suscettibili di essere trasformati o corretti.
Il destino di salute di una persona, di una comunità o di una popolazione dipende quindi da una molteplicità di situazioni e di livelli di responsabilità:
• La responsabilità individuale circa i comportamenti e gli stili di
vita.
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GAVINO MACIOCCO
• La responsabilità familiare o di gruppo circa le relazioni affettive
e sociali.
• La responsabilità di una comunità o un governo locale o nazionale
circa le politiche sociali, del lavoro e dell’assetto del territorio (da
cui dipende la disponibilità e accessibilità dei servizi sanitari, sociali ed educativi, l’occupazione, la fruibilità delle infrastrutture).
• La responsabilità infine dei soggetti sovranazionali – come ad
esempio Nazioni Unite, Banca Mondiale, Fondo Monetario Internazionale, Organizzazione Mondiale del Commercio – che hanno
il potere di regolare i rapporti tra gli Stati, tra gli Stati e le imprese
economiche e finanziarie multinazionali, e di influenzare i meccanismi macroeconomici che sono alla base della ricchezza e dello
sviluppo di alcuni, e della povertà e del sottosviluppo di altri.
Quella che abbiamo descritto è una piramide di responsabilità
molto schematica e semplificata; nella realtà i vari livelli di influenza
sullo stato di salute sono strettamente correlati e interagiscono tra
loro, ad esempio gli stili di vita sono fortemente legati al contesto
familiare e sociale, che è condizionato dalle condizioni di vita e di
lavoro, che sono a loro volta influenzate dal contesto socioeconomico, culturale e ambientale. Per questo motivo è difficile individuare
un unico fattore in grado di condizionare lo stato di salute di una
persona o di una comunità: il diverso destino riguardo alla morbosità e alla mortalità degli individui e delle comunità, è generalmente il
prodotto di un insieme di fattori strettamente correlati tra loro,
quali istruzione, assistenza sanitaria, reddito, occupazione, tipologia
dell’abitazione, situazione familiare, stili di vita.
Il secondo modello concettuale, opera di G. Dahlgren e M. Whitehead, è molto più complesso e articolato di quello made in USA;
la grafica del modello a semicerchi concentrici rivela una gerarchia
di valori tra i diversi determinanti della salute (sono i semicerchi più
esterni, quelli che rappresentano il “contesto”, a influire maggiormente sullo stato di salute). È un modello concettuale che da una
parte riflette la cultura europea di welfare state fondata sul “diritto
alla salute” e dall’altra fa propria la visione “multisettoriale” della
tutela della salute contenuta nella Dichiarazione di Alma Ata3 (“l’as3
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WHO/UNICEF. Declaration of Alma Ata. WHO, Geneva 1978.
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sistenza sanitaria di base coinvolge, oltre al settore sanitario, tutti gli
altri settori e aspetti dello sviluppo nazionale e comunitario, in particolare i settori dell’agricoltura, allevamenti animali, alimenti, industria, istruzione, edilizia, lavori pubblici, comunicazioni e altri settori,
richiede che gli sforzi di tutti questi settori siano coordinati”).
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Le diseguaglianze di salute nei Paesi sviluppati
Alessandro Barchielli
Direttore SOS di Epidemiologia, ASL 10, Firenze
La letteratura internazionale mostra che le diseguaglianze nello
stato di salute rappresentano anche nei Paesi sviluppati un problema rilevante. Nel 2006 Mackenbach ha stimato che nei Paesi della
UE (UE-25) circa 700mila morti l’anno sono da attribuire alle differenze del livello di istruzione. I dati disponibili evidenziano due
aspetti rilevanti:
1. Negli ultimi 50 anni, le diseguaglianze socio-economiche di salute permangono nonostante i benefici acquisiti nel tenore di vita e
il miglioramento dello stato di salute in generale. In molti Paesi si
è anzi osservato nell’ultimo decennio del secolo scorso una tendenza all’aumento dei differenziali tra gruppi socialmente più
avvantaggiati e quelli più svantaggiati. Esemplificativo di questo
è l’andamento della speranza di vita alla nascita osservato nel Regno Unito dal 1985 al 2005. Tale parametro è migliorato in tutte
le Regioni, ma il differenziale tra la Regione con la speranza di
vita più alta e quella più bassa è aumentato.
2. I differenziali socio economici di salute sono influenzati sia da
una diversa distribuzione dei principali determinanti di malattia
(es. reddito, livello culturale, stili di vita, tipologia di attività lavorativa ecc.) che dalla possibilità di usufruire in maniera appropriata degli importanti miglioramenti intervenuti nella qualità
delle cure mediche e più in generale di accedere ad una adeguata
assistenza sanitaria e sociale.
In quasi tutti i Paesi europei i gruppi sociali più svantaggiati presentano un peggior stato di salute, ma l’entità dei differenziali è diversa (Mackenbach, 2008). In particolare le diseguaglianze di mortalità sono minori nei Paesi del sud Europa e più ampie nella maggiora parte dei Paesi baltici e dell’est Europa In questi ultimi il
rischio di morte dei gruppi con livello socio-economico più basso è
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4-5 volte più elevato di quello dei gruppi con livello più elevato.
Anche in Toscana esistono differenziali dello stato di salute tra le
varie aree della Regione. Ad esempio, se valutiamo un indice sintetico quale la speranza di vita alla nascita osserviamo che questo parametro è progressivamente migliorato ovunque, sia nelle aree più
svantaggiate (Asl di Massa Carrara e di Viareggio) che in quelle in
condizioni migliori (Asl di Firenze e di Empoli), ma il differenziale
iniziale in termini di speranza di vita è rimasto invariato.
Lo Studio longitudinale toscano
Lo Studio longitudinale toscano (SLTo) è iniziato negli anni novanta, promosso dalla Regione Toscana con il coinvolgimento della
Facoltà di Statistica dell’Università di Firenze, del Centro per lo
studio e la prevenzione oncologica, di alcune Asl e Comuni toscani.
Lo SLTo rappresenta una delle poche esperienze realizzate in Italia
con lo scopo di valutare i differenziali di salute legati alle condizioni socioeconomiche. Sono state studiate le coorti censuarie dei residenti nei Comuni di Firenze (arruolate con i censimenti del 1991 e
del 2001), di Livorno (arruolate con i censimenti del 1981, 1991 e
2001) e di Prato (arruolate con il censimento del 2001). Lo studio è
basato sul follow-up dei soggetti di età 18-74 anni residenti nei Comuni in studio al momento del censimento che sono stati seguiti
nel tempo valutata l’eventuale emigrazione dal Comune o il decesso, registrando la causa di morte. Per la coorte censuaria di Firenze
del 1991 sono stati valutati anche i ricoveri ospedalieri. Lo studio è
stato condotto mediante record linkage tra le varie fonti informative, effettuate mediante procedure informatiche in grado di assicurare il completo anonimato dei dati prodotti. Dagli archivi censuari
sono state raccolte le variabili socioeconomiche individuali, dalle
anagrafi comunali lo stato in vita, e la variazione di residenza con
emigrazione in altro Comune, dal registro di mortalità regionale le
cause di morte, dall’archivio dei ricoveri ospedalieri le cause del
ricovero (fig. 1).
I risultati sono stati espressi sotto forma di rischi relativi (RR) aggiustati per età e relativi limiti di confidenza al 95%. Il RR esprime il
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rischio di morire (o di essere ricoverato) del gruppo sociale di appartenenza rispetto a quello di riferimento. Ad esempio, per quanto riguarda il titolo di studio, sono stati scelti con riferimento i soggetti
con titolo più elevato (scuola media superiore o laurea) e valutato il
RR dei soggetti con la sola licenza elementare, o di quelli con la sola
scuola media inferiore. È stato analizzato l’effetto di diverse variabili
socioeconomiche considerate singolarmente (es. titolo di studio, condizione professionale, tipologia familiare e abitativa) e di un indice di
deprivazione composito che accorpava diverse variabili espressione
di diverse componenti del livello di deprivazione materiale e sociale.
Per quanto riguarda la mortalità sono state analizzate tutte le
cause di morte ed alcune cause specifiche (tumori totali, del polmone e della mammella, cardiopatia ischemica, cirrosi epatica, cause
violente e “morti evitabili”). Per quanto riguarda i ricoveri ospedalieri è stata fatta una selezione più ampia di cause di ricovero, suddividendo anche per regime di ricovero (ordinario e day hospital).
Sono inoltre stati esaminati i DRG ad alto rischio di inappropriatezza quando trattati in regime di ricovero ordinario, l’uso della mastectomia radicale nel tumore della mammella (indice di una diagnosi tardiva del tumore) e la rivascolarizzazione coronarica nel
trattamento della cardiopatia ischemica (indice dell’uso di procedure di elevata specializzazione).
Le diseguaglianze di mortalità
I dati più recenti riguardano le coorti del censimento 2001 seguite negli anni 2001-2005. In complesso Firenze (Accetta 2007), Prato
(Accetta 2010) e Livorno (Accetta 2008) ci offrono una ampia coorte di circa seicentomila persone (il 17% della popolazione toscana)
residenti in aree urbane.
I risultati delle analisi delle persone di età 18-74 anni (figura 1)
mostrano che:
– rispetto a diplomati/laureati, i soggetti con il solo diploma di
scuola elementare mostrano un eccesso di mortalità per tutte le
cause (aggiustato per età) del 65% (Firenze e Livorno) e 32%
(Prato) nel sesso maschile, e del 17%-41% nel sesso femminile;
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– i soggetti con indice di deprivazione più elevato (presenza contemporanea di più condizioni di svantaggio: bassa istruzione, disoccupazione, elevato affollamento ed abitazione in affitto) mostra eccessi del 70% a Firenze, 50% a Prato e 13% a Livorno negli uomini, del 55%, 18% e 58% nelle donne, rispetto quelli con
indice di deprivazione più basso (assenza di tali condizioni).
Disaggregando per classe di età (18-59 e 60-74 anni) e genere si
osserva che le diseguaglianze socioeconomiche si riflettono principalmente in una sovra-mortalità precoce che si esplica nell’età adulta (18-59 anni), a carico in particolare del sesso maschile e per patologie legate a stili di vita e ad attività lavorative (ad esempio: tumore
del polmone nei maschi e cardiopatia ischemica nelle femmine).
Il confronto tra le coorti censuarie del 2001, del 1991 e del 1981
(Biggeri 1998, Biggeri 2001) consente di valutare il trend temporale
dei differenziali socioeconomici di mortalità.
I dati di Firenze (coorte 2001, mortalità 2001-05 vs. coorte 1991,
mortalità 1991-97) mostrano un aumento dei differenziali di mortalità per quasi tutti gli indicatori socioeconomici analizzati. Ad esempio per gli uomini con sola licenza elementare si passa da un eccesso nel rischio di morte per tutte le cause del 36% nel primo periodo
esaminato ad un eccesso del 65% nel secondo (figura 2). Risultati
simili si osservano per le coorti censuarie di Livorno, che permettono di ampliare il confronto al 1981.
Le differenze di mortalità osservate rimandano ad una maggiore
esposizione a fattori nocivi e ad un difetto delle misure di prevenzione selettivi per le persone in condizioni di svantaggio sociale,
nonché ad una loro difficoltà di sfruttare le potenzialità di benessere personale che le moderne società sviluppate offrono. Pertanto gli
interventi di prevenzione dovrebbero essere effettuati tenendo conto che i gruppi socialmente più svantaggiati sono maggiormente a
rischio. Tali gruppi dovrebbero essere quindi il target privilegiato
delle azioni di prevenzione. Inoltre anche la capacità di usufruire
delle risorse sanitarie in maniera appropriata e tempestiva da parte
dei gruppi più deboli e bisognosi è generalmente più limitata. Agire
sui fattori di rischio è di fondamentale importanza, ma porta a vantaggi in tempi abbastanza lunghi. Viceversa politiche che favoriscano l’accesso ai servizi sanitari potrebbero ottenere dei risultati in
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tempi più brevi. Agli inizi degli anni duemila si è posta una grande
attenzione ad una maggiore appropriatezza nell’uso del sistema
ospedaliero, che ha comportato una progressiva riduzione dei tassi
di ospedalizzazione. E’ però necessario che tali interventi di razionalizzazione siano affiancati da politiche “proattive” che facilitino
l’accesso ai servizi assistenziali da parte di gruppi più svantaggiati.
Va infatti evitato che una riduzione della inappropriatezza dell’uso
dell’Ospedale, fatta in maniera “orizzontale” e senza tener conto
che alcuni gruppi sociali hanno maggiori bisogni di salute e minori
capacità di risposte a tali problemi, comporti una ulteriore penalizzazione di questi gruppi sociali.
Le differenze di ospedalizzazione
La problematica delle differenze socioeconomiche nel ricorso ai
servizi sanitari richiede una breve inquadramento di carattere generale. Il termine “diseguaglianza di salute” indica un ampio spettro
di differenze nella frequenza di malattia tra Paesi o gruppi di popolazione, nel nostro caso tra gruppi di diverso livello socioeconomico. Spesso queste diseguaglianze sono considerate ingiuste e sono
state invocate politiche attive di protezione ed interventi di sanità
pubblica, come indicato nel precedente paragrafo. Quando le differenze tra gruppi socio-economici sono riferite a problemi di accesso
a cure, interventi preventivi efficaci o servizi sanitari si deve tenere
conto dei concetti di equità e di disequità. Pertanto, alti tassi di utilizzo dei servizi sanitari (ad esempio di ricovero ospedaliero) in
gruppi sociali svantaggiati possono essere considerati sostanzialmente equi quando riflettono differenze nel bisogno di cure, rispondendo al principio di dare di più a chi ha più bisogno. Viceversa,
un gradiente sociale a parità di bisogno indicherebbe una differenza iniqua. In altre parole, la valutazione di eventuali equità/disequità nell’utilizzo dei servizi sanitari e l’interpretazione corretta delle
documentate differenze sociali nella frequenza di ricorso ai servizi
sanitari può essere effettuate solamente in rapporto a misure del bisogno di cure (fig. 3).
I dati pubblicati (Biggeri 2003), riferiti ai ricoveri del periodo
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ALESSANDRO BARCHIELLI
1997-2000 della coorte di Firenze del 1991, riguardano un periodo
precedente alle importanti modifiche nell’uso dell’Ospedale avvenute nell’ultimo decennio, e quindi non sono in grado di rendere
conto di quanto queste abbiano influenzato gli aspetti di equità nell’accesso alle cure ospedaliere.
I dati disponibili mostrano, in maniera coerente fra i due generi,
che i gruppi sociali più svantaggiati tendevano a ricoverarsi di più e
ad avere ricoveri di maggior durata. Quest’ultimo aspetto può dipendere da fattori di diversa natura, quali una diversa gravità della
malattia al momento del ricovero, una maggiore difficoltà ad orientarsi nell’offerta sanitaria, una ridotta capacità di spesa per rispondere alle necessità economiche che la assistenza a domicilio può richiedere.
La mortalità può essere considerata una proxy del cattivo stato di
salute, e quindi del “bisogno sanitario”. Pertanto il confronto tra i
tassi di mortalità e quelli di ospedalizzazione di diversi gruppi socioeconomici può fornire una indicazione sul livello di equità/disequità nella riposta di un sistema sanitario ai bisogni di salute della
popolazione. I dati disponibili mostravano una sostanziale sovrapposizione tra i differenziali di mortalità e quelli di ospedalizzazione
osservati tra i gruppi sociali meno e più deprivati. In altri termini, le
classi sociali svantaggiate, avendo un peggior stato di salute, presentavano un maggior “bisogno sanitario” che si traduceva in più elevati tassi di ospedalizzazione. Leggendo questo dato in termini di
equità/disequità di accesso alle cure, possiamo concludere che in linea generale il sistema sanitario toscano dava una risposta equa ai
bisogni sanitari dei diversi gruppi sociali. Analizzando però il problema più in profondità emergeva la presenza di elementi di disequità nell’accesso a servizi di alta specializzazione o a setting assistenziali specifici. Ad esempio, se un paziente con cardiopatia ischemica apparteneva ad un gruppo sociale più svantaggiato, questo
aveva una più bassa probabilità di essere trattato con bypass aortocoronarico o angioplastica.
Informazioni più aggiornate sulle modifiche derivanti dagli interventi di miglioramento dell’uso dell’Ospedale saranno fornite dai
nuovi studi in corso di svolgimento.
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LE DISEGUAGLIANZE DI SALUTE NEI PAESI SVILUPPATI
L’effetto degli interventi di iniziativa
del Servizio sanitario
L’importanza che gli interventi “proattivi” del sistema sanitario
possono rivestire nella riduzione delle diseguaglianze socioeconomiche nello stato di salute sono fornite da alcune valutazione dei risultati dello screening per il tumore della mammella in atto dalla metà
degli anni ’80 a Firenze (Puliti, 2011). Come noto uno screening di
popolazione si basa sull’invito di persone “apparentemente” sane
ad effettuare alcuni specifici accertamenti in grado di diagnosticare
quelle affette da forme asintomatiche della malattia. La attivazione
di un programma di screening presuppone anche la definizione di
percorsi diagnostico-terapeutici standardizzati, per i soggetti “positivi” all’esame di screening.
Lo studio ha valutato la sopravvivenza a 10 anni dei casi di tumore della mammella in due diversi gruppi di popolazione (più deprivati vs. meno deprivati) a Firenze, in un periodo prima dello screening (1985-1986) e successivo allo screening (dopo il 1991) ed in
due fasce di età, una interessata dallo screening (50-74 anni) e una
non interessata (0-49 anni). I risultati hanno mostrato che la prognosi è migliorata in tutti i gruppi esaminati, ma:
– il differenziale socioeconomico è rimasto uguale nella fascia di
età più giovane e non invitata allo screening;
– nel gruppo invitato allo screening, si è registrata un miglioramento della prognosi più marcato nel gruppo più deprivato, per cui
la differenza di sopravvivenza per livello socioeconomico si annulla nel periodo successivo all’introduzione dello screening.
In sintesi questi dati mostrano come gli interventi efficaci del sistema sanitario su tutta la popolazione tendono a controbilanciare
il diverso di rischio di malattia e di morte dei diversi gruppi socioeconomici. Questo messaggio è di rilevanza fondamentale in una fase come la attuale, nella quale i differenziali socioeconomici nella
popolazione tendono ad aumentare considerevolmente con presumibili influenze negative sullo stato di salute. Pertanto lo sviluppo
della “sanità di iniziativa”, attualmente in corso in Toscana, può
contribuire a contrastare i differenziali socioeconomici nello stato
di salute.
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ALESSANDRO BARCHIELLI
Figura 1. Studio longitudinale toscano: coorti censimento 2001, Firenze,
Prato e Livorno, mortalità per tutte le cause negli anni 2001-2005, età 1874 anni. Rischi relativi (aggiustati per età) per titolo di studio e genere.
Figura 2. Studio longitudinale toscano: mortalità per tutte le cause, confronto tra la coorte di Firenze 2001 (mortalità 2001-05) e quella 1991
(mortalità 1991-97). Rischi relativi (aggiustati per età) per titolo di studio,
maschi.
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LE DISEGUAGLIANZE DI SALUTE NEI PAESI SVILUPPATI
Figura 3. Studio longitudinale toscano: Coorte censuaria Firenze 1991, diseguaglianze socioeconomiche di mortalità e ricovero ospedaliero per tutte le
cause (riferimento: laurea+diploma superiore o deprivazione assente): rischi
relativi (aggiustati per età) per indicatore e genere.
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Le malattie croniche
Alessandro Bussotti
Medico di famiglia, Agenzia di continuità assistenziale, AOU Careggi
Anche se da qualche tempo ho lasciato la Medicina generale e
non ho potuto quindi avere una diretta esperienza dell’attività della
Medicina di famiglia all’interno del progetto del Chronic Care Model e della sanità di iniziativa, ho però partecipato a tutta la fase di
formazione e di discussione iniziale e cercherò quindi di tracciare
una linea di come i medici di famiglia hanno vissuto questa avventura dall’inizio a oggi.
Alcuni aspetti della Medicina generale sono stati in qualche modo messi in crisi dall’inizio della sanità di iniziativa. Prima di tutto il
medico di famiglia continua in gran parte a lavorare da solo, nonostante le esperienze della Medicina di gruppo abbiano parzialmente modificato l’organizzazione del lavoro e quella dell’ambulatorio.
L’ambulatorio del medico di Medicina generale (MMG) è focalizzato e organizzato sul rapporto uno a uno col paziente e sulla Medicina d’attesa fino dall’approvazione della legge di riforma sanitaria e
cambiare è sempre difficile. Molti dei MMG vedono questo rapporto uno a uno con il paziente ancora come la caratteristica fondamentale del proprio lavoro, da difendere quindi ad oltranza. Inoltre
molti medici hanno scelto di fare il medico di famiglia perché questo consente di non dipendere gerarchicamente da nessuno.
Il rapporto uno ad uno rappresenta contemporaneamente un
grosso vantaggio e una grossa gabbia: infatti, indubbiamente il
MMG, insieme al pediatra di libera scelta, è l’unico professionista
del Servizio sanitario ad essere scelto dal proprio assistito e quindi
si forma un rapporto di fiducia quasi istituzionale, si crea e si consolida una relazione frequentemente molto duratura nel tempo e con
un significato profondo nello svolgimento della Medicina di tutti i
giorni.
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ALESSANDRO BUSSOTTI
Però da un po’ di tempo emergono delle difficoltà in questo tipo
di rapporto: per esempio ormai il MMG fa spesso il tutor nei confronti dei colleghi che frequentano il triennio di specializzazione in
Medicina generale e nei confronti dei medici che si sono appena
laureati e che devono fare il periodo di tirocinio per l’esame di abilitazione. Fa il tutor per gli studenti nelle Università che hanno attivato dei corsi sperimentali che prevedono un periodo sperimentale di
frequenza presso la Medicina generale.
Inoltre la Medicina ormai è un’attività che si esercita in gruppi
multiprofessionali e multidisciplinari: nessun paziente con un problema serio può essere più seguito da un singolo professionista e
non si può più fare a meno dell’intervento di tutta una serie di altri
settori del Servizio sanitario, come quelli specialistici e ospedalieri,
anche se spesso questo intervento si configura in un rapporto conflittuale con la Medicina generale.
Un’altra caratteristica importante è costituita della relazione con
il Servizio sanitario regionale: il MMG continua a essere un libero
professionista legato al Servizio da un rapporto di convenzione e la
sua retribuzione è tutt’ora legata in gran parte al numero di assistiti.
Questo ha creato seri problemi e discussioni all’inizio del percorso
della sanità di iniziativa: l’intervento degli infermieri è stato visto,
con qualche ragione, come una possibile causa di turbamento della
relazione speciale col paziente e di ricusazione da parte sua. Sappiamo benissimo che il tasso di abbandono dei medici di famiglia da
parte dei pazienti è molto basso e questo non sempre è un bene per
la categoria
C’è poi il problema fondamentale che, forse per questa sua situazione di libero professionista e non dipendente, il MMG si è sempre sentito un elemento estraneo rispetto all’Azienda sanitaria e a
tutto il sistema, che da parte sua non gli ha fatto mai mancare dimostrazioni di sfiducia profonda. Un esempio fra i tanti: la necessità
del piano terapeutico redatto da uno specialista, senza il quale un
MMG non può prescrivere molti farmaci. Anche se non mancano
colpe da parte delle organizzazioni della Medicina generale, sembra
strano che il Servizio sanitario pubblico paghi dei medici che poi
non considera in grado di prescrivere farmaci in autonomia. D’altra
parte per fortuna nel tempo si è sviluppato e continua a progredire
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LE MALATTIE CRONICHE
un orgoglio di appartenenza ad una vera specializzazione con caratteristiche specifiche, quale per esempio quella di aver a che fare con
la persona e non con la malattia. Un altro elemento di orgoglio è
l’informatizzazione, ormai diffusa, anche se non in modo omogeneo, a tutti i MMG italiani.
Un elemento di crisi della sanità moderna che coinvolge in pieno
la Medicina generale è il problema dell’eccesso di cura: il medico di
famiglia è forse l’unico professionista dell’area medica che pensa
che la Medicina moderna sia eccessivamente invadente, come ha anche affermato Gavino Maciocco nel suo intervento sul Disease Mongering. Il MMG spesso si trova isolato a combattere questa battaglia: per esempio nei riguardi del PSA, sono state solo alcune organizzazioni della Medicina generale a riuscire a non far effettuare
uno screening per il carcinoma prostatico proposto dalla Regione
Lombardia qualche anno fa. Analogamente c’è stata una grossa critica, anche questa volta da parte solo della Medicina generale, nei
confronti della recente campagna del Ministero delle Pari Opportunità, sempre sullo screening del carcinoma prostatico.
E infine altri tre punti:
1. Il carico di lavoro è in aumento: dal 1996 al 2002 i contatti per
mille assistiti sono passati da quattromilanovecento a settemilaquattrocento (fig. 1). Sappiamo bene che negli ultimi anni, accanto all’aumento dell’attività dei MMG e dei Distretti, si è verificata una notevole diminuzione dei posti letto ospedalieri. L’Ospedale sempre di più si occupa di stabilizzare l’acuzie, ma il carico di lavoro sul territorio aumenta sempre di più.
2. Critiche all’efficienza della Medicina generale. Dati provenienti
da Health Search, database di MMG, dimostrano che solo il 27%
dei pazienti ipertesi è trattato appropriatamente, il 55% dei pazienti diabetici non è in buon compenso, solo il 14% dei pazienti
con malattie coronariche ha un livello di colesterolo LDL a target
rispetto alle linee guida internazionali, solo la metà dei fumatori
riceve dal proprio medico di famiglia consigli di smettere di fumare. Inoltre, pazienti con storia di infarto miocardico e di angina nel 16,8% dei casi non riportano alcuna prescrizione di farmaci, come il 19,1% di pazienti che hanno una storia di ictus o
di TIA (fig. 2). Evidentemente qualche falla il sistema ce l’ha, ma
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ALESSANDRO BUSSOTTI
Figura 1. Contatti MMG assistiti (dati Health Search, 2004)
un miglioramento di questi dati potrà essere ottenuto solo con
una organizzazione diversa delle cure primarie. Non è pensabile
che un MMG che lavora da solo possa far cambiare l’aderenza
dei propri assistiti alla terapia.
3. Invecchiamento della classe medica. I medici di famiglia presentano una distribuzione per età con un picco rappresentato da coloro che hanno 30-35 anni di anzianità (fig. 3). Nell’Azienda sanitaria di Firenze solo poco più del 10% di MMG ha attualmente
meno di 50 anni: quando andranno in pensione gli attuali sessantenni si verificherà un improvviso e drammatico ricambio generazionale, al quale non ci stiamo per niente preparando.
Nel panorama appena delineato si è presentata la sanità di iniziativa, con tutta una serie di novità che influiscono sul sistema: basti
pensare all’infermiere dipendente della Azienda USL che viene ad
operare nell’ambulatorio del MMG, alla figura del MMG coordinatore del modulo, che rappresenta forse il primo timido esempio di
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LE MALATTIE CRONICHE
IMA e/o angina
n.11512
Ictus ischemico e/o TIA
n.6790
Antipertensivi
74,3%
68,9%
di cui betabloccanti
36,8%
17,8%
Antiaggreganti piastrinici
61,6%
59,6%
Ipolipemizzanti
43,2%
27,4%
16,8%
19,1%
Nessuna prescrizione
(Per le categorie terapeutiche
considerate)
Figura 2. Prescrizioni per pazienti con diagnosi di IMA e/o angina e ictus
ischemico e/o TIA (Dati Health Search, citati in Bollettino d’informazione
sui farmaci, Anno XIII – N.3 2006, pp. 120-125).
una gerarchia all’interno della Medicina generale, alla valutazione di
performance effettuata sul modulo e non sul singolo medico. Da non
trascurare poi il fatto che si prevedono per la prima volta delle sedute di audit obbligatorie.
L’infermiere poi si presenta indubbiamente come il protagonista
della sanità di iniziativa: accanto a qualche polemica, questo fatto è
stato in genere accettato dai MMG, che si sono resi conto che solo
così si sarebbe potuto evitare un ulteriore aumento del carico di lavoro. Certo non si può non tener conto del possibile problema dell’attenuazione del rapporto privilegiato con il paziente, condividendo questo rapporto con l’infermiere.
La progettazione e la realizzazione del Chronic Care Model in Toscana ha segnato un momento estremamente importante, forse il
più importante degli ultimi anni, per lo sviluppo del sistema delle
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ALESSANDRO BUSSOTTI
Figura 3
cure primarie. Bisogna però non tacere un problema che potrebbe
mettere a rischio, se non corretto, tutta l’impalcatura del progetto:
contrariamente ai principi della Medicina generale, l’attenzione è
stata posta sulla malattia e non sul paziente. Purtroppo il Chronic
Care Model è partito con quattro patologie: quindi un paziente diabetico, che ha avuto un ictus, che ha uno scompenso e che ha una
BPCO perché ha fumato (caso affatto raro) dovrebbe essere considerato in quattro parti separate, piuttosto che come una persona
unica.
Non bisogna però tacere i grandi meriti del progetto: intanto un
grande miglioramento della registrazione dei dati, per merito dell’accordo fra medici e infermieri. Poi l’attenzione ai pazienti emarginati, che non vanno dal medico e che hanno una scarsissima compliance per il trattamento con gravissime conseguenze per la loro salute. Per la prima volta questi pazienti vengono richiamati e seguiti
attivamente.
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LE MALATTIE CRONICHE
Altra grande novità è la creazione del team che affianca il MMG
in questa specie di guerra contro l’invadenza della Medicina moderna. Per la prima volta si parla di Medicina preventiva e di intervento
sui rischi e sugli stili di vita più che di intervento farmacologico. Si
cerca quindi di non incentivare il consumo perché si parte dal principio di identificazione dei pazienti in fase precoce e di intervento
sugli stili di vita, non focalizzandosi sui farmaci o sulla tecnologia.
La gestione del paziente è diversa, perché si tende a rendere esperto
il paziente e informato il cittadino, in modo da renderli alleati del
team curante.
Recentemente una giovane collega ha conseguito la laurea in Medicina con una tesi svolta su alcuni aspetti che ci sembravano particolarmente critici della sanità di iniziativa: un questionario è stato
inviato ai centoventicinque medici dei moduli dell’Azienda sanitaria
di Firenze. Tutti hanno letto il questionario anche se soltanto il
50% ha risposto. Tutti hanno richiesto uno strumento per aumentare i contatti e il dialogo fra loro e molti hanno denunciato difficoltà
a reperire documenti relativi al Chronic Care Model. Molto positivo
il rapporto con l’infermiere, che è stato considerato adeguatamente
formato da tutti. Il medico di famiglia dice che il ruolo dell’infermiere è stato accettato da tutti i pazienti e non ci sono stati quasi
mai problemi di relazione con il medico. Il paziente risulta soddisfatto e il carico di lavoro è stato considerato congruo dalla maggioranza dei MMG. Tutti confermano che è bene lavorare sul paziente
e non sulla malattia, e quasi tutti dicono di essere d’accordo con il
modello che prevede l’intervento del medico soltanto nel caso di
una necessità di tipo diagnostico – terapeutico e non nella fase educativa e di rapporto che ha creato qualche problema iniziale e che
nel modello è delegata all’infermiere. I percorsi sono stati ritenuti
adeguati e quasi tutti dicono di non aggiungerne altri.
I risultati sono quindi altamente positivi, a riprova che, nonostante le difficoltà iniziali, il progetto è partito bene ed ha buone
possibilità di continuare altrettanto positivamente.
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L’utilizzo del sistema informativo
Paolo Francesconi
Agenzia Regionale Sanità
Per affrontare il problema dell’importanza, dell’utilizzo e del
ruolo del sistema informativo a supporto della sanità di iniziativa,
mi baserò su tre aspetti: l’utilizzo del sistema informativo per la definizione dei bisogni, l’utilizzo del sistema informativo a supporto
delle attività di cura e l’utilizzo del sistema informativo a supporto
delle attività di self audit e di governo clinico.
Il sistema informativo per la definizione dei bisogni
Il sistema informativo sanitario regionale è fatto dai flussi di dati
correnti che si creano ogniqualvolta viene erogata una prestazione,
che sia un ricovero ospedaliero, il rimborso di un farmaco in una
Farmacia, una visita specialistica, un esame di laboratorio. Tutte le
volte che c’è un contatto di cura con un paziente questo contatto
produce un dato che poi viene sistematicamente raccolto e trasmesso dalle Aziende alla Regione; questa enorme mole di dati costituisce il sistema informativo sanitario regionale.
Per quanto riguarda il sistema informativo composto dai dati amministrativi, questi dati possono essere utilizzati a scopi epidemiologici, per stimare il bisogno di cura nella popolazione, detto in altri
termini, per stimare delle prevalenze delle patologie che ci interessano nella popolazione. Questi dati, queste informazioni, sono disponibili sul sito dell’Agenzia Regionale Sanità, sotto il portale Banche dati e che da ora in poi si chiamerà Marsupio. Per quanto riguarda le malattie croniche, questi dati sono disponibili sotto il portale
chiamato Macro, malattie croniche, con tante informazioni che sono
state prodotte utilizzando i dati del sistema informativo regionale,
incluse informazioni sulla prevalenza delle principali malattie croni97
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PAOLO FRANCESCONI
che sul nostro territorio. Importanti i dati di sintesi che possiamo
leggere sul diabete e sull’insufficienza cardiaca, lo scompenso di
cuore, nella nostra Regione in termini di trend degli ultimi tre anni
disponibili, in termini di numeri assoluti e di prevalenze come casi
su mille pazienti assistibili, con una certa approssimazione, dai medici di Medicina generale. Una certa approssimazione, nel senso che
il limite di età non è così netto, c’è una fascia di età che poi sarà assistita sia dal pediatra sia dal medico di Medicina generale, comunque noi per definizione consideriamo la popolazione ultra-sedicenne. Questi dati vanno interpretati con una certa cautela perché l’aumento del numero assoluto di casi prevalenti residenti in Regione e
delle prevalenze standardizzate per mille, può essere in parte dovuto a un effetto di cumulo, che durerà finché il periodo di osservazione non andrà ad avvicinarsi alla speranza di vita media che queste
persone hanno al momento della diagnosi.
In ogni caso, che ci sia un aumento importante del numero dei
casi di scompenso cardiaco di persone residenti in Toscana, è un dato certo; anche rimanendo costanti le prevalenze età specifiche di
questa condizione, il numero di persone con scompenso cardiaco
nella nostra Regione è destinato ad aumentare grandemente negli
anni a venire perché aumenterà molto la popolazione dei grandi anziani.
Saranno infatti i grandi anziani ad avere un impatto importante
sulla domanda di servizi nei prossimi anni, nel senso che l’impatto
non sarà dato tanto dai baby boomer, nati dopo la fine della seconda
guerra mondiale, ma da quelli nati prima del conflitto e che ora
stanno diventando grandi anziani. Nei prossimi anni sperimenteremo un aumento importante di ultra ottantacinquenni, sarà questo
aumento che avrà l’impatto più importante sulla domanda di servizi: per esempio,la maggior parte degli scompensati, catturati sulla
base del sistema informativo sanitario, sono grandi anziani e quindi,
questo aumento è reale e destinato a continuare nel tempo. Un altro
dato preoccupante è un aumento nella prevalenza del diabete, questo aumento è sicuramente amplificato dall’effetto cumulo in quanto noi riusciamo a identificare pazienti con il diabete sulla base del
sistema informativo a partire dal 2003, cioè, nel momento in cui è
stato attivato il flusso delle prestazioni farmaceutiche. I pazienti con
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L’UTILIZZO DEL SISTEMA INFORMATIVO
diabete li identifichiamo perché essenzialmente sono trattati con
farmaci antidiabetici, c’è dunque una certa parte di amplificazione
di questo aumento, ma il fatto che la prevalenza del diabete standardizzata, quindi, indipendente dal cambiamento della struttura
della popolazione per età, sia in aumento è un dato che avevamo rilevato anche analizzando i dati dell’indagine ISTAT multiscopo ed
era abbastanza preoccupante. Il trend in aumento del diabete è una
sentinella molto importante perché potrebbe far pensare che siamo,
ormai anche in Italia, in quella fase della transizione epidemiologica
che si definisce l’era dell’inattività e dell’obesità. Il cambiamento
delle malattie più importanti nella popolazione è avvenuto dal secolo scorso ad oggi; in Toscana attualmente siamo nella quarta fase,
quella delle malattie cronico-degenerative posticipate. Posticipate
perché si muore sempre meno per eventi acuti e, quindi, si rimane
nella popolazione con la malattia cronica e l’aumento dello scompenso cardiaco è estremamente tipico di questa fase.
L’aumento del diabete invece potrebbe far pensare che siamo già
nella quinta fase, nella quale si trovano ora gli Stati Uniti, la fase dell’alta inattività, della vita sedentaria, dell’aumento dell’obesità e
quindi del diabete, sarebbe molto preoccupante se nel corso degli
anni andassimo a confermare questo trend. Insomma, sulla base del
sistema informativo, sulla base di tutti questi dati amministrativi
prodotti, noi possiamo identificare chi è affetto da determinate condizioni croniche e quindi utilizzare il sistema informativo a scopo
epidemiologico, anche nel contesto del progetto sanità di iniziativa,
per una stima dei bisogni. Queste stime dei bisogni sono state utilizzate, per esempio, per dare dei target di prevalenza ai moduli del
Chronic Care Model; questi moduli hanno degli obiettivi da raggiungere, sia in termini di numero di pazienti arruolati, sia in termini di
processi. Il target sul numero di pazienti da arruolare è stato dato
dalle informazioni prodotte sulla base del sistema informativo sanitario. I tassi di prevalenza che hanno raggiunto i moduli per quanto
riguarda il diabete sono cinquanta attualmente attivi in Toscana. Sostanzialmente i moduli si sono ampiamente avvicinati o in certi casi
addirittura hanno superato questo livello di prevalenza, attenzione
però, il target era stato posto a 4,5 perché non è detto che tutti i pazienti debbano essere trovati. Stesso discorso per lo scompenso car99
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diaco, lo scostamento tra, diciamo così, l’atteso e l’osservato nei moduli era atteso perché gran parte dei soggetti con insufficienza cardiaca sono grandi anziani, alcuni di questi sono non autosufficienti,
magari sono istituzionalizzati per cui non necessariamente tutti i
soggetti con insufficienza cardiaca sono eleggibili per essere arruolati nei programmi del Chronic Care Model perché probabilmente già
seguiti con altre modalità di cure programmate. Quindi, questo scostamento era atteso tanto è vero che poi il target per lo scompenso
cardiaco nel progetto è stato posto a 1,5 e praticamente, se consideriamo 1,5, tutti i moduli hanno più o meno raggiunto l’obiettivo di
prevalenza. Vedete quindi l’importanza del dato amministrativo
quando trasformato in informazione epidemiologia per dare degli
obiettivi di identificazione del bisogno e di presa in carico del bisogno. I medici che fanno parte dei moduli hanno identificato il bisogno in maniera assolutamente soddisfacente e un numero di pazienti
oltre l’atteso è stato arruolato nei percorsi.
Il sistema informativo a supporto delle attività di cura
Il sistema informativo è ovviamente essenziale anche per il supporto alle attività di cura del modulo, quindi, del medico e dell’infermiere. Qui invece parliamo essenzialmente non del sistema informativo composto dai dati amministrativi, ma del sistema informativo del medico di Medicina generale, cioè, quella banca dati che il
medico costruisce registrando sistematicamente dei dati clinici sui
propri pazienti, sul proprio gestionale ambulatoriale. Oggi la stragrande maggioranza dei medici sono informatizzati, molti stanno
raccogliendo questi dati, la novità essenziale del Chronic Care Model
è che abbiamo cercato di dare delle indicazioni affinché questi dati
fossero utilizzati in maniera utile per le attività clinico-assistenziali.
Una prima osservazione, il sistema informativo clinico nel modello
del Chronic Care Model è un elemento essenziale agli altri tre elementi che attengono laddove si eroga il Servizio sanitario. Il sistema
informativo è fondamentale per il supporto alle decisioni, è fondamentale per la riorganizzazione della modalità di erogazione delle
prestazioni, è importante come supporto all’autocura. Questa è una
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L’UTILIZZO DEL SISTEMA INFORMATIVO
citazione di Wagner, che ha messo insieme tutte le raccomandazioni
della letteratura in questo modello: la creazione di un registro è un
elemento cruciale per il management della condizione cronica, quindi,
elemento fondamentale a supporto degli altri tre elementi del Chronic Care Model. Per sistema informativo clinico intendiamo un sistema per la raccolta di dati clinici, ovvero, tutti i dati che il medico di
Medicina generale o l’infermiere possono raccogliere e registrare
durante la propria attività, quando prescrivono un farmaco, quando
ricevono un referto, quando propongono un ricovero, quando misurano la pressione. Il sistema informativo clinico serve a trasformare questi dati clinici in informazioni utili per assicurare un’assistenza appropriata e questo succede essenzialmente tramite un confronto sistematico tra l’osservato e l’atteso. L’osservato sono le prestazioni erogate, quello che è stato fatto fino a quel momento, e l’atteso è il percorso diagnostico-terapeutico condiviso, quello che si dovrebbe fare. Dal confronto sistematico di queste due cose emergono
delle informazioni che sono estremamente utili, se non indispensabili, a mettere in pratica le indicazioni e le raccomandazioni del
Chronic Care Model.
Un esempio concreto: negli Stati Uniti, Stato di Washington,
hanno sviluppato un sistema informativo elettronico, pensato appositamente come elemento del Chronic Care Model e questo sistema,
per il management delle condizioni croniche, trasforma i dati clinici
registrati dai medici in informazioni utili per le attività cliniche. Le
informazioni utili sono: una sintesi della situazione del singolo paziente rispetto ai percorsi diagnostico-terapeutici condivisi per le
malattie delle quali il paziente soffre, quindi una sintesi delle diagnosi che sono state fatte al paziente. Quindi un sistema integrato
basato sulla persona e non sulla patologia specifica, una sintesi delle
condizioni presenti; integrando poi i percorsi diagnostico – terapeutici per le malattie elencate si evidenziano quali prestazioni dovrebbero essere prescritte in quel momento, magari accendendo una lucina rossa se c’è un ritardo o una lucina verde se quella prestazione
che deve essere erogata è già stata erogata. Questo è un aiuto prezioso per il medico che poi decide con la propria professionalità,
ma è anche un’indicazione preziosa perché in un unico foglio è evidenziata la situazione del paziente su tutti i percorsi. Un output di
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un sistema informativo di questo tipo, se adeguatamente appropriato, potrebbe essere uno strumento importante anche per il supporto
all’autocura, nel senso che uno stampato specifico potrebbe aiutare
a trasmettere delle informazioni al paziente. Ad esempio, – potrebbe essere consegnata ad un paziente con il diabete il tracciato della
sua emoglobina glicata dove si può vedere se sale, se aumenta o se
diminuisce.
Un sistema informativo di questo tipo è assolutamente indispensabile per il cuore della Sanità di iniziativa che è la proattività, cioè,
per identificare tutti quei pazienti che sono in ritardo sui percorsi
diagnostico-terapeutici e che quindi vanno seguiti e richiamati. Un
sistema di questo tipo può poi produrre degli indicatori di processo, ovvero, delle misure di adesione medie della popolazione di assistiti alle raccomandazioni recepite nei percorsi diagnostico-terapeutici. Questi report sono ovviamente fondamentali per le attività di
self audit che i medici che appartengono al modulo devono fare per
discutere su come stanno lavorando. Devo dire che già oggi la maggior parte dei gestionali, commerciali, a disposizione dei medici,
eseguono la maggior parte di queste cose.
C’è una recente delibera della Regione Toscana peraltro che destina un’importante quantità di risorse alle Aziende USL per lo sviluppo dei sistemi informativi della Medicina convenzionata. L’adeguamento dei sistemi informativi dei medici convenzionati, secondo
questa delibera, deve prevedere tra l’altro la presenza di componenti specifici software a supporto anche del progetto sanità di iniziativa. In particolare è previsto che questi componenti software, che devono essere inclusi nei gestionali dei medici di Medicina generale,
assicurino la gestione degli elenchi di patologia, la gestione dei piani
di cura e l’invio di dati alle Aziende e alla Regione per il governo e
per il monitoraggio del progetto. Perché questo sistema vada davvero a supporto del Chronic Care Model bisogna che i gestionali dei
medici di Medicina generale siano in grado di fare quello che abbiamo già raccomandato: la produzione delle liste dei pazienti in ritardo, il quadro sintetico del singolo paziente, dei report utili per il
supporto all’autocura, gli indicatori di processo per valutare come
stiamo lavorando e poi inviare questi dati alla Regione.
Una volta che questi sistemi lavorano in maniera standardizzata
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L’UTILIZZO DEL SISTEMA INFORMATIVO
su tutti i medici del modulo, gli indicatori di processo prodotti da
questi gestionali potrebbero essere utilizzati per il monitoraggio al
posto di quelli prodotti dal sistema informativo, e questo eliminerebbe la necessità del consenso informato. Attenzione, una volta
che c’è un gestionale in grado di trasformare dati in queste informazioni utili, bisogna stare attenti agli aspetti organizzativi, nel senso
che bisogna poi pensare come avviene il flusso delle informazioni,
chi registra i dati, chi stampa questi moduli, come vengono utilizzati, quindi non basta che ci sia il gestionale, bisogna poi organizzare
l’utilizzo dell’informazione.
Le attività di self audit e di governo clinico
Se per qualità intendiamo il grado in cui i servizi assicurano l’adesione alla raccomandazione dei percorsi e raggiungono gli esiti
desiderati, allora gli indicatori di qualità sono sia degli indicatori di
processo che misurano il livello di adesione alle singole raccomandazioni cliniche, sia degli indicatori di esito che misurano il livello
di raggiungimento degli esiti di salute sperati. Sono soprattutto importanti e utili, per le attività di self audit e di governo clinico, gli
indicatori di processo che trasformano i dati disponibili in informazioni utili a quantificare i livelli di adesione alle raccomandazioni
delle linee guida recepite nei percorsi che fungono da criteri di valutazione. Questo per dire che prima bisogna condividere un percorso e poi si costruiscono gli indicatori di processo; qualche volta
avviene il contrario.
Gli indicatori di processo hanno dei grossi vantaggi rispetto agli
indicatori di esito, il vantaggio principale è che sono facilmente interpretabili. Gli indicatori di processo hanno anche dei problemi
poiché quando uso un set limitato di indicatori di processo, magari
a supporto di un sistema incentivante, ci può essere una concentrazione degli sforzi degli operatori per raggiungere quegli indicatori.
D’altra parte gli indicatori di esito hanno una serie di problematicità che ne rendono difficile l’utilizzo, per esempio, per una valutazione della performance dei moduli; intanto c’è un basissimo rapporto
tra segnale e rumore, nel senso che ci sono molti altri determinanti,
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PAOLO FRANCESCONI
per esempio, del tasso di ospedalizzazione rispetto alla qualità dei
servizi offerti. Poi gli indicatori di esito necessitano di metodiche di
aggiustamento del case mix che non sono perfettamente ottenibili
sulla base dei dati disponibili. Ci sono dei grossi problemi a utilizzare gli indicatori di esito, molti meno problemi invece ci sono utilizzando gli indicatori di processo.
Gli indicatori di processo
Tutti i gestionali utilizzati dai medici di Medicina generale sono
in grado di produrre una serie buona di indicatori di processo, l’importante è che questi indicatori siano poi utilizzati in occasione dei
self audit. È anche vero che più o meno gli stessi indicatori possono
essere prodotti anche sulla base del sistema informativo, sulla base
dei dati correnti e noi li produciamo per il momento aggregati per
zona e per ASL e sono disponibili sul sito. Questi sono degli esempi, sappiamo la percentuale di pazienti con diabete che fanno l’emoglobina glicata, la percentuale di soggetti con scompenso che sono in terapia con aceinibitori e così via. Questi indicatori di processo ottenibili sulla base dei dati correnti possono essere utilizzati per
la valutazione e la programmazione, ma anche per il self audit e il
governo clinico. Gli indicatori di processo sono gli indicatori dell’Agenzia recepiti nel sistema di valutazione. C’è un progetto regionale finalizzato a produrre una serie di misure da rendere obbligatorie sui profili di salute propedeutici ai piani integrati di salute; nel
profilo di salute, ci devono essere anche questi indicatori di processo per informare la programmazione delle attività territoriali sul
piano integrato di salute. Possono essere utilizzati questi indicatori
di processo, calcolati sulla base del sistema informativo, insieme a
quelli calcolati dai medici di Medicina generale, per le attività di self
audit e di governo clinico.
Cosa aggiungono rispetto agli indicatori di processo che i medici
di Medicina generale possono calcolare sulla base dei propri gestionali? Innanzi tutto alcune considerazioni anche proprio logistiche:
questi indicatori sono calcolabili in maniera economica a tappeto su
tutto il territorio nazionale a partire da ora, possono essere utilizzati
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L’UTILIZZO DEL SISTEMA INFORMATIVO
per una convalida, per un confronto, per un punto di riferimento,
del dato dell’indicatore prodotto dal medico di Medicina generale.
Quindi, i medici dei moduli escono dall’autoreferenzialità, si possono confrontare con uno standard esterno, l’uniformità di calcolo
permette il confronto tra medici, tra medici con medie distrettuali,
aziendali e regionali, tra Distretto e Distretto e così via. Sono comunque informazioni complementari rispetto a quelle del medico
perché questi indicatori misurano l’erogato e l’indicatore di processo costruito sulla base del dato del gestionale invece misura prevalentemente il prescritto, quindi sono complementari come informazioni.
Questi indicatori di processo potrebbero essere utilmente aggiunti alla reportistica attualmente utilizzata dai medici di comunità
per le loro attività di governo clinico e con i medici di Medicina generale. Nel contesto del governo clinico in questo caso si passerebbe da una semplice responsabilizzazione dei medici di Medicina generale sulle implicazioni economiche dei propri comportamenti in
termini di spesa-legittima, però forse non sufficiente, a un sistema
di relazioni tra chi ha responsabilità clinica e chi ha responsabilità
organizzative basate sulla fiducia, finalizzata al miglioramento della
qualità dei servizi tramite il raggiungimento di obiettivi condivisi.
Questo può essere fatto se non ci si responsabilizza soltanto sui costi e sui volumi di attività, ma anche sull’applicazione dei percorsi
diagnostico-terapeutici verificata con gli indicatori di processo.
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Gli screening
Marco Zappa
Istituto per lo studio e la prevenzione oncologica - ISPO
Gli screening raccomandati rappresentano quelli che la legge attuale definisce come LEA, prestazioni sanitarie che devono essere
garantite a tutti i cittadini italiani ovunque risiedano. I LEA sono la
risposta alla tendenza alla federalizzazione della sanità, perché oggi
in Italia non abbiamo un solo sistema sanitario ma probabilmente
21. Vi è una forte autonomia regionale però alcune prestazioni debbono essere offerte a tutta la popolazione. Tra queste ci sono gli
screening, che attualmente sono 3:
1. Lo screening mammografico in genere effettuato, con cadenza
biennale, fino ai 69 anni, con la tendenza ad un ampliamento delle fasce di età. L’Emilia Romagna li ha già portati dai 45 ai 74 anni di età e molte Regioni, anche la Toscana, nei prossimi anni seguiranno questa tendenza.
2. Lo screening cervicale mediante paptest, triennale, dai 25 ai 64
anni, ma entro i prossimi 5 anni passeremo come test primario
dal paptest a quello dell’HPV.
3. Lo screening colonrettale, biennale, fra i 50 - 69 o 74 anni.
Lo screening non è un test ma un programma sanitario che si
propone di diagnosticare una malattia in una fase precoce, asintomatica, o di diagnosticare il suo precursore biologico in modo da
ottenere o che la malattia non compaia , tipico lo screening cervicale, oppure una diagnosi precoce che determini un cambiamento
della prognosi., ne modifichi la sua evoluzione.
Perchè si possa pensare di fare un programma di screening ci sono molte precondizioni. Ad es. non si può fare un programma di
screening su tutte le malattie oncologiche, una volta si diceva che la
malattia doveva essere socialmente rilevante, ma anche se interessasse poche persone può essere oggetto di screening a patto che ci siano una serie di condizioni. Una di queste è biologica, se non c’è una
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MARCO ZAPPA
lunga fase preclinica diagnosticabile, se questa manca, è inutile fare
lo screening di quella malattia.
Fino a ieri ogni oncologo, ogni medico riteneva che diagnosticare
in anticipo fosse un intervento fondamentale, e questo non solo nei
tumori ma anche in ogni altra patologia, anche se in oncologia questa certezza non esiste.
Il test deve essere sufficientemente valido, per specificità,. valore,
relativamente poco costoso,anche se questo è discutibile, e relativamente accettabile anche da parte della popolazione asintomatica sana. Fare lo screening non è fare il test di diagnosi precoce ma un
percorso che prima identifica la popolazione bersaglio, poi organizza il suo coinvolgimento e infine si conclude con l’esito positivo o
negativo del test. Ci sono molti requisiti essenziali perché il programma sia organizzato, non è facile individuare i singoli soggetti di
una popolazione bersaglio, quindi liste di nomi a cui attingere, e
disporre dei mezzi per assicurare una buona copertura.
Lo screening oncologico è relativamente semplice, deve avere un
test di base che è il più diffuso sul territorio, il disturbo che provoca
a chi lo fa deve essere minimo; se ci deve essere una grande diffusione di questo test di base, la lettura e gli esami di approfondimento
devono essere il più concentrati possibile. Solo in questo modo si
ottengono delle efficienze di scala ma anche che la qualità del secondo livello sia sufficientemente buona.
È necessario affrontare e superare interessi particolaristici che
portano alla divisione delle ASL e dei Distretti; noi dovremmo accentrare quanto più possibile i sistemi di lettura dei test, e i sistemi
informatici rappresentano un valido aiuto in questo senso.
Lo screening ottimale sarebbe quello che può essere inviato per
posta, come l’hemoccult, in modo che il disturbo per il paziente sia
minimo, poi l’accentramento in un solo laboratorio e successivamente due, tre Centri regionali per gli accertamenti successivi.
In oncologia, c’è una soglia clinica in cui il tumore si manifesta,se
lo colgo prima ho buone probabilità di guarirlo .
Per lo screening mammografico, su mille donne che vi si sottopongono possiamo trovare 10 tumori; i casi vengono divisi in positivi e negativi; tra quelli positivi la probabilità di diagnosticare un tumore è più alta, tra quelli negativi qualcuno poi si dimostra positi108
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GLI SCREENING
vo, in ogni caso si rimanda di due, tre anni la ripetizione del test; sugli altri eseguo degli esami di accertamento Non esiste un test che
abbia una sensibilità del 100x100, per cui tutti i positivi sono tumori mentre i negativi non lo sono.
A questo punto volevo accennare a tre aspetti controintuitivi su
cui è bene riflettere.
Uno: non è del tutto vantaggioso diagnosticare con anticipo un
tumore. Infatti, non è del tutto vero che il prolungamento della sopravvivenza corrisponde ad una riduzione di mortalità perché ci sono 3 bias su cui riflettere:c’è un inizio della malattia, e non solo oncologica, dopo 5 anni dalla comparsa dei sintomi e magari dopo 5
anni si verifica il decesso. Se faccio lo screening due anni prima della
comparsa dei sintomi, la donna muore alla stessa data, cioè sopravvive 7 anni perché l’ha scoperto prima, ma la sopravvivenza non
cambia. e magari ha vissuto quei due anni in più con l’ansia di avere
un tumore. L’anticipo diagnostico incrementa artificialmente la sopravvivenza.
Di tumori della mammella ne esistono varie famiglie, alcuni a rapida crescita, altri a lenta. Un passaggio di screening tende a cogliere più facilmente i tumori a rapida crescita che quelli a lenta perché
questi ultimi diventano sintomatici con più tempo e lo screening
può non rilevarli.
Il terzo aspetto, che diventa sempre più il nuovo paradigma della
medicina oncologica e non solo, è che noi medici pensiamo che la
crescita di un tumore è ineluttabile, anche se più o meno rapida, e
che se non trattato porta alla morte. Ma tutto questo non è poi tanto vero, perché abbiamo tumori che crescono molto velocemente,
altri più lentamente e altri ancora che non crescono o addirittura regrediscono. Allora uno screening a questo punto non servirà per il
tumore che è così veloce nella crescita da aver superato la speranza
di fermarlo, colgo quello che è in fase intermedia e magari ne cambio la sorte, colgo però anche il tumore che nella vita di quella persona non sarebbe mai comparso perché non sarebbe mai diventato
manifesto.
Allora, nelle diagnosi precoci, e non solo dei tumori, , tendo a
iperdiagnosticare anche forme che in realtà non avrebbero dato
problemi nella vita nel paziente.
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MARCO ZAPPA
Il problema della sovradiagnosi, che è scoppiato per il tumore
della prostata, ora si sta proponendo anche per ogni altro tipo di tumore, poiché si è accertato che a volte abbiamo di fronte forme che
non sarebbero mai arrivate alla osservazione clinica. Questo ha risvolti negativi significativi: quando diagnostico in anticipo una malattia, tendo a trattarla e magari non era necessario. Questo pensiero, emerso da una decina di anni, tende a cambiare l’impostazione
di un trattamento; la sovradiagnosi è tanto maggiore quanto più è
avanzata l’età della persona perché la sua speranza di vita è più corta e le cause di morte sono maggiori.
Gli svantaggi degli screening
Riprendiamo l’esempio dello screening per il tumore della mammella: 500 donne risultano positive, 9500 negative,; tra le positive si
accertano solo 500 cancri, così come se ne colgono 20 fra le 9500
negative. Nei falsi positivi si determina ansia e paura in attesa della
diagnosi definitiva,esami invasivi, l’idea nella paziente di essere a
maggior rischio,costi economici e trattamenti inutili che appesantiscono il lavoro dei servizi diagnostici. Altrettanto per i falsi negativi:
una falsa rassicurazione, dei ritardi diagnostici magari con problemi
medico legali.
Il falso positivo rasserena il paziente, i veri positivi però permettono un trattamento in tempo reale che può salvare la paziente.
Vorrei anche approfondire il problema di una medicina fatta sui
malati ed una sui sani. Nel primo caso è la persona che sospetta di
essere malata, si rivolge al medico che è tenuto a fare tutto il possibile per confermare o escludere una diagnosi. I servizi sanitari invitano una popolazione sana a sottoporsi a test per individuare una
malattia nella sua fase preclinica, ma questo comporta effetti collaterali negativi notevoli. Dobbiamo scegliere di fare pochi esami a
poche persone per poter dire che la maggioranza in quelli positivi
di avere un tumore è relativamente alta, così come è bassa quella di
essere un falso negativo.
I più importanti ricercatori europei concordano sul fatto che i
programmi attualmente proposti in tutti gli Stati europei portano
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GLI SCREENING
ad avere un bilancio più a favore dei benefici che dei danni. Prima
di proporre uno screening si valutano vantaggi e svantaggi, e se i primi sono superiori, lo si programma. Chi fa lo screening con regolarità diminuisce il suo rischio di morte almeno del 50 per cento. E’
possibile che si crei un problema di sovradiagnosi del 5,10% e a livello di popolazione questo viene generalmente giudicato positivamente.
L’informazione
L’informazione va affrontata diversamente rispetto al passato dato che è difficilissimo dare un’informazione corretta; per esempio,
la sovradiagnosi, che è difficile da spiegare non solo al paziente ma
anche alla comunità medica che lo ritiene più un problema statistico. La Regione Toscana sta distribuendo attraverso i medici di base
un foglio sui sintomi che consigliano di fare un PSA ed oggi il 50
per cento della popolazione ultrasettantenne in Toscana fa questo
test.
La diagnosi precoce dei tumori attualmente è diffusisissima; ci
sono mezzi di informazione, di pressione più o meno nobili che
condizionano la popolazione,ma dato che questa diagnosi precoce è
disponibile ed è in genere benefica, qual è il miglior modo di farla?
Direi l’approccio spontaneo, il paziente che si rivolge al proprio
medico per decidere quali esami fare e con quale periodicità. Nello
screening organizzato si centrano gli obiettivi di diagnosticare in anticipo e trattare con successo forme di tumore che si sarebbero risolte con la morte del paziente.
Poi c’è la sostenibilità dell’intervento, affidata in gran parte al
rapporto con il medico di base, e l’equità di accesso.
Un intervento sostenibile potrà essere equo, altrimenti sarà a
vantaggio solo di poche fasce privilegiate della popolazione. Nello
screening opportunistico è il singolo professionista che raccomanda
l’esame, magari con cadenza più breve rispetto a quelli organizzati,
si fanno esami aggiuntivi, vi è una ricerca di massima sensibilità, le
persone che gli si rivolgono hanno sintomi o sono asintomatiche.
In quello organizzato i protocolli sono prestabiliti e si deve man111
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MARCO ZAPPA
tenere un equilibrio fra sensibilità e specificità. Quello che accade
nello screening opportunistico non rientra nel materiale di studio,in
quello organizzato il monitoraggio viene fatto in tutte le fasi.
Vi è uno studio, pubblicato su JAMA, sulla comparazione fra un
programma di screening opportunistici negli USA e un programma
organizzato inglese. Le differenze sono grandissime, in quello opportunistico negli USA il tempo di intervallo era di 18 mesi, in quello inglese, di 36.
Il tasso di specificità è più alto negli USA rispetto a quello inglese, ma alla fine i casi rivelatisi positivi dopo una biopsia sono molto
simili nei due Paesi
Al contrario, se si è fatto una biopsia chirurgica ed è risultata negativa, quindi si è sbagliato a richiederla, i tassi sono doppi negli
Usa rispetto a quelli inglesi. Avere un atteggiamento meno specifico
ha determinato in questo caso, a parità di sensibilità, costi maggiori,perché molte più donne sono state mandate a fare una biopsia,
con un trauma che poteva essere evitato..Negli Usa ogni mille donne ne sono state richiamate 400 per un approfondimento, contro le
133 dell’Inghilterra, ma il numero dei cancri confermati alla fine è
simile.
A proposito dell’equità ci sono moltissimi studi che dimostrano
che i programmi organizzati riescono a ottenere un recupero della
diseguaglianza in termini di salute che esiste nella popolazione e che
spontaneamente non otterremmo.
Lo screening organizzato rispetto all’approccio spontaneo è almeno altrettanto efficace, più efficiente nel senso che è più specifico, ma assicurando un percorso di qualità minore, soprattutto a livello di accoglienza è percepito come peggiore dalla popolazione, e
non di qualità,nonostante che i dati oggettivi risultino a favore del
programma organizzato.
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Le norme fondamentali
del Codice deontologico
Antonio Panti
Ordine dei medici di Firenze
Il tema della libertà, dignità, autonomia dei pazienti, va affrontato con una prima precisazione: coloro che si rivolgono a noi sono
cittadini, come il nostro Codice deontologico li definisce proprio
per ricordare a noi professionisti che comunque e sempre hanno
davanti dei cittadini. Quali sono i valori guida dell’agire del medico? Il primo sembra ovvio: l’efficacia delle cure, la scelta di utilizzare quello che può risultare più utile per il paziente, il secondo è il rispetto della sua autodeterminazione. Il terzo è l’equità, il buon uso
delle risorse.
Stiamo attraversando un periodo di grande polemica con Farmindustria perché noi abbiamo sostenuto, ed il nostro parere è diventato delibera regionale, che a parità di indicazioni il medico deve
indicare il farmaco che costa meno. Sembra ovvio, ma non lo è dal
punto di vista della Farmindustria; nel prontuario un farmaco costa
100 e uno, con le stesse indicazioni terapeutiche, costa 800. Il 20
per cento di questa cifra è da attribuirsi con molta probabilità alle
spese di marketing, su cui incide anche l’informazione-pressione
che si esercita sui medici per convincerli a prescrivere quel farmaco.
Il Codice ha scelto una logica perché nel rispetto della collettività
dei cittadini queste risorse spese in più vengono sottratte ad altre
iniziative sanitarie. Sottolineo che i valori riportati nel nostro Codice derivano da quelli riportati nella Costituzione.
È stato fatto notare che il processo legislativo si pone in contrasto con alcune norme che sono nel Codice, un esempio è rappresentato dalla legge Calabrò sul fine vita.
La nostra impressione come medici, e l’abbiamo dichiarato nella
Carta di Terni di circa due anni fa,è che ci si muova contro i valori
del Codice che, almeno alcuni, sono ancora quelli ippocratici, anteriori alla Costituzione di duemilacinquecento anni. Ma abbiamo
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ANTONIO PANTI
sempre sostenuto che il maggior bene per il paziente è l’efficacia
delle cure e, per dirla modernamente, questo ci porta a difenderlo
dal risk management, aggiungendoci il concetto di giustizia., e questi sono valori di equità sociale contenuti nella Costituzione, che è
laica perché stabilisce determinati diritti per tutti
Tra i valori da tutelare a favore del paziente, ad autonomia sarebbe più giusto sostituire autodeterminazione perché nel primo caso
si può fare riferimento ad aspetti della malattia; questi concetti hanno un valore deontologico ma nel realizzarli, ci rendiamo conto che
hanno anche un valore politico perché non si riconosce al cittadino
libertà senza autodeterminazione e senza il rispetto della dignità.
Riprendendo la storia esemplare di Eluana Englaro, a seguito di
una trasmissione TV ci sono state molte richieste da parte di spettatori cattolici di rimandare in onda alcune dichiarazioni del padre
sulla questione dell’accanimento terapeutico, del diritto a decidere
sulle cure che ci vengono effettuate. In questo contesto si diceva anche: “dobbiamo dar voce alle mille Eluane che invece vogliono sopravvivere. Nessuno contesta l’obbligo di chi chiede assistenza, il
Codice dice che se vediamo nel paziente un cittadino il medico deve
rispettare la sua autodeterminazione,. che è la condizione di base
della sua dignità, il suo diritto a non subire prevaricazioni. Nessun
medico si comporterebbe diversamente perché non curare chi lo richiede significherebbe esercitare l’eutanasia attiva; alle mille persone nelle condizioni di Eluana diamo voce per assisterli meglio”.
Se si scorre il nostro Codice sorvolando sugli aspetti di “galateo”,
di buona creanza con i cittadini, dove si danno regole di comportamento, vediamo che in primo piano vi è il principio che il dovere
del medico è la tutela della vita. Per fortuna è stato approvato recentemente all’unanimità il controllo del dolore in qualsiasi contesto il medico si trovi ad operare. Il medico, nell’esercizio della professione deve attenersi alle conoscenze scientifiche, per garantire
l’efficacia delle cure, che comprende anche i livelli di assistenza, nel
rispetto della dignità e della libertà della persona.
Per la prima volta abbiamo esplicitato i valori dell’agire medico
come filosofia,o meglio etica della medicina. Se questa è la logica
valoriale che ispira il Codice, è evidente che la libertà della dignità
della persona ricorre in tutti gli articoli che affrontano questo tema.
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LE NORME FONDAMENTALI DEL CODICE DEONTOLOGICO
Ad esempio, quando leggo che il medico è tenuto a eliminare ogni
forma di discriminazione per garantire a tutti i cittadini la stessa
possibilità di accesso, disponibilità, utilizzazione delle cure. In questo modo diamo al medico non un compito di politica generale, ma,
qualsiasi sia la scelta del legislatore, il compito preciso di collaborare a eliminare ogni discriminazione.
Quali sono i determinanti di salute e qual è la risposta che l’organizzazione offre per ottenere migliori risultati? Ricordando che non
tutti hanno le stesse opportunità di salute, ma che hanno lo stesso
diritto di essere curati: accesso, disponibilità, utilizzazione e qualità.
Questo significa in qualche modo che noi medici, grazie a questo
Codice, aderiamo anche a 2 principi fondamentali dell’art. 32 della
Costituzione: che in un Paese civile si esercita rispettando l’universalità del diritto e l’uguaglianza dell’accesso. Dobbiamo garantire
che il diritto è universale, non per nulla nell’art. 32 non si parla di
cittadino ma addirittura di individuo, non di persone o di cittadini,
e questo deriva dall’eguaglianza dell’accesso.
Le leggi le fa il Parlamento eletto dai cittadini e noi medici non
possiamo che adeguarci.
Il segreto professionale, legato alla riservatezza dei dati personali,
anticipa il concetto della privacy che è un diritto riservato esclusivamente al cittadino.
Prescrizione e trattamento terapeutico: il medico ha autonomia
nella scelta di ogni presidio terapeutico, ma il Codice la riconosce
fatta salva la libertà del paziente di rifiutarla. io sono libero nel momento che sono oggetto del rispetto degli altri. Le prescrizioni dei
trattamenti devono essere ispirate ad aggiornate acquisizioni scientifiche tenuto conto dell’uso appropriato delle risorse sempre perseguendo il beneficio del paziente secondo l’idea di equità. Libertà
del paziente ed equità delle cure sono alla base dell’agire quotidiano
del medico nel momento in cui decide un trattamento terapeutico.
Il Codice sembra parlare dell’etica applicata alla deontologia in
situazioni di confine, in cui si cimenta il rapporto più moderno fra
medicina e società: fine vita, nascita pretermine, interruzione volontaria di gravidanza, la sperimentazione sull’uomo.
Ma qui si sta parlando del banale agire del medico nel suo ambulatorio, è l’etica della quotidianità che non dobbiamo mai dimen115
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ANTONIO PANTI
ticare; così come devono ricordarlo i servizi infermieristici e di fisioterapia. Il Codice quando parla di prescrizioni non si riferisce solo a
quelle di alta chirurgia, ma anche a quella degli antipertensivi.
Riferendomi all’art.14, quando dico che il medico opera per garantire le più idonee condizioni di sicurezza del paziente e contribuire all’adeguamento dell’organizzazione sanitaria anche attraverso
la segnalazione degli errori, si opera sempre difendendo la libertà e
la dignità del paziente,tanto è vero che tali strumenti rispettano la
privacy, costituiscono una esclusiva dimensione tecnico-professionale, l’identificazione dei rischi, alla correzione delle procedure e alla
modifica dei comportamenti; l’articolo potrebbe avere anche un fine utilitaristico, attenzione alle malpractice, potrebbe essere la traduzione moderna del principio ippocratico “primum non nocere”.
Ma bisogna tenere conto della rischiosità della Medicina moderna,
consapevolezza che non può tenere conto solo delle cose scritte sui
libri, ma dei desideri, delle performances, del giovanilismo, delle
prestazioni estreme.
Il medico deve orientare la propria attività professionale al rispetto dei diritti fondamentali della persona, una proclamazione su
cui il Codice ribatte continuamente. Noi medici abbiamo chiesto
una sorta di riserva, perché il rischio è di diventare come gli americani che hanno lo stewardship per cui il medico alla fine diventa un
esecutore dei desideri del paziente, mentre la medicina include una
quantità di aspettative che a volte possono comportare rischi di cui
il medico ha il dovere di informare il paziente. e se non è d’accordo
su una prescrizione per i suoi convincimenti clinici e la sua coscienza, ha il diritto di spiegarne le ragioni.
C’è il diritto del medico di rifiutare una prestazione, ma anche
quello del cittadino di ottenerla se la legge gliela consente.
Il medico da’ informazioni al cittadino, le più esaurienti e chiare
possibile, sulla base di queste, il cittadino consente o non consente,
si raggiunge un accordo per cui le cure possono anche essere interrotte in qualsiasi momento per volontà del paziente.
La dignità della persona deve essere rispettata anche quando, nei
dovuti limiti, il paziente è in trattamento sanitario obbligatorio, o è
detenuto in carcere, oppure fa lo sciopero della fame, che è una sua
scelta su cui il medico non può intervenire con azioni costrittive.
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LE NORME FONDAMENTALI DEL CODICE DEONTOLOGICO
Il Codice deontologico moderno viene spesso utilizzato dalla magistratura, perché il legislatore non può decidere come si cura una
persona e questo concetto è ribadito in moltissime sentenze.
Ecco perché la Federazione ha assunto una posizione precisa che
come ipoteca su qualsiasi legge si debba fare sostiene che in questo
momento abbiamo bisogno di una legislazione estremamente mite
che dia limiti di garanzia al cittadino, ma è la deontologia che deve
essere forte, è il nostro agire quotidiano con il cittadino che deve
garantire una zona di libertà: libertà come indipendenza del medico, del cittadino e in questa interazione mantenere come guida questi valori fondamentali: l’efficacia, l’autodeterminazione, l’equità.
Quando parliamo dei problemi fondamentali della sanità, i determinanti di salute, l’organizzazione sanitaria, i livelli a cui vogliamo dare assistenza, l’uguaglianza di fronte all’accesso alle cure, il diritto alla tutela della salute, dobbiamo tener conto che abbiamo un
Codice deontologico alle spalle in cui sono state fatte delle scelte
che siamo tenuti comunque a rispettare.
Codice di deontologia medica del 2006
Articolo 3
Doveri del medico
Dovere del medico è la tutela della vita, della salute fisica e psichica dell’Uomo e il sollievo dalla sofferenza nel rispetto della libertà e della dignità
della persona umana, senza distinzioni di età, di sesso, di etnia, di religione, di
nazionalità, di condizione sociale, di ideologia, in tempo di pace e in tempo di
guerra, quali che siano le condizioni istituzionali o sociali nelle quali opera.
La salute è intesa nell’accezione più ampia del termine, come condizione cioè di benessere fisico e psichico della persona.
Articolo 6
Qualità professionale e gestionale
Il medico agisce secondo il principio di efficacia delle cure nel rispetto
dell’autonomia della persona tenendo conto dell’uso appropriato delle risorse.
Il medico è tenuto a collaborare alla eliminazione di ogni forma di discriminazione in campo sanitario, al fine di garantire a tutti i cittadini stesse
opportunità di accesso, disponibilità, utilizzazione e qualità delle cure.
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Articolo 13
Prescrizione e trattamento terapeutico
La prescrizione di un accertamento diagnostico e/o di una terapia impegna la diretta responsabilità professionale ed etica del medico e non può
che far seguito a una diagnosi circostanziata o, quantomeno, a un fondato
sospetto diagnostico.
Su tale presupposto al medico è riconosciuta autonomia nella programmazione, nella scelta e nella applicazione di ogni presidio diagnostico e terapeutico, anche in regime di ricovero, fatta salva la libertà del paziente di
rifiutarle e di assumersi la responsabilità del rifiuto stesso.
Le prescrizioni e i trattamenti devono essere ispirati ad aggiornate e
sperimentate acquisizioni scientifiche tenuto conto dell’uso appropriato
delle risorse, sempre perseguendo il beneficio del paziente secondo criteri
di equità.
Il medico è tenuto a una adeguata conoscenza della natura e degli effetti
dei farmaci, delle loro indicazioni, controindicazioni, interazioni e delle
reazioni individuali prevedibili, nonché delle caratteristiche di impiego dei
mezzi diagnostici e terapeutici e deve adeguare, nell’interesse del paziente,
le sue decisioni ai dati scientifici accreditati o alle evidenze metodologicamente fondate.
Sono vietate l’adozione e la diffusione di terapie e di presidi diagnostici
non provati scientificamente o non supportati da adeguata sperimentazione e documentazione clinico-scientifica, nonché di terapie segrete.
In nessun caso il medico dovrà accedere a richieste del paziente in contrasto con i principi di scienza e coscienza allo scopo di compiacerlo, sottraendolo alle sperimentate ed efficaci cure disponibili.
La prescrizione di farmaci, sia per indicazioni non previste dalla scheda
tecnica, sia non ancora autorizzati al commercio, è consentita purché la loro efficacia e tollerabilità sia scientificamente documentata.
In tali casi, acquisito il consenso scritto del paziente debitamente informato, il medico si assume la responsabilità della cura ed è tenuto a monitorarne gli effetti.
È obbligo del medico segnalare tempestivamente alle autorità competenti, le reazioni avverse eventualmente comparse durante un trattamento
terapeutico.
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La libertà e i diritti dei pazienti
Alfredo Zuppiroli
Commissione regionale di Bioetica
Nel contesto occidentale in cui operiamo i diritti si possono studiare, esercitare, riconoscere, promuovere basandosi sull’evoluzione
dei Codici che si sono susseguiti a partire dalla fine del Settecento,
quando quasi contemporaneamente alla Rivoluzione francese abbiamo visto la Dichiarazione d’Indipendenza e la successiva costituzione degli USA. E progressivamente il tema dei diritti è entrato in tutta la regolamentazione della società civile, compresa la sanità.
In Italia non possiamo che partire dalla nostra Costituzione, sottolineando un aspetto fondamentale: la salute è un diritto se l’interpretiamo dal punto di vista del singolo, ma è anche un interesse della
collettività. Vorrei sottolineare che l’art. 32 è l’unico della Costituzione in cui si parla di individuo e non di cittadino, per evidenziare che
la salute è un bene talmente importante che prescinde dal diritto di
cittadinanza. Ricordo a questo proposito la meschina proposta fatta
in Parlamento dalla Lega di obbligare i sanitari a denunciare quelle
persone che si fossero presentate in Pronto Soccorso, prive di un
permesso di soggiorno… Il secondo comma dell’art. 32 della Costituzione stabilisce inoltre che c’è un alt insuperabile alle prestazioni
mediche sulla nostra salute, che si basa su due snodi essenziali. Da
una parte, nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non vi acconsente, e dall’altra, che i trattamenti medici
non possono violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana.
Riferendoci agli art. 2 e 3, prendiamo atto che la Repubblica riconosce dei diritti, quali l’autonomia, la libertà e la dignità dei pazienti, che ormai appartengono alla nostra cultura grazie a due secoli di Illuminismo. L’art. 3, ripreso quasi testualmente dal Codice
deontologico dei medici, ribadisce che i cittadini sono eguali davanti alla legge e sono portatori di eguali diritti senza distinzione di sesso, razza, lingua, di condizioni personali e sociali, che invece ancora
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influiscono pesantemente nel determinare gli esiti di salute. Sarebbe
compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che consentono di esplicitare questi diritti., ma tra la
teoria della Costituzione e la realtà c’è ancora molta distanza. Un’altra dichiarazione basilare, a cui fare riferimento, è quella di Alma
Ata sulle cure primarie che sottolinea come la concezione della salute non è esaurita da quella di assenza malattia ma investe il benessere di tutta la persona.
Purtroppo non bastano gli enunciati, Giulio Alfredo Maccacaro
dette avvio negli anni 70 ad una collana, “Medicina e potere”, edita
da Feltrinelli, e possiamo purtroppo verificare che in tanti aspetti
siamo ancora fermi a quel tempo. Maccacaro sottolineava che la classe sociale era un potente determinante di salute, e si moriva di classe,
come era accaduto nell’affondamento del Titanic .Eppure il nostro
Codice deontologico ha colto in pieno l’aspetto del riconoscimento
dei diritti stabilendo che il medico è tenuto a collaborare per eliminare ogni forma di discriminazione, non tanto per realizzare quel
principio utopistico “salute per tutti uguale per tutti”, ma l’accesso,
la disponibilità, l’utilizzazione e la qualità delle cure. Ma quando noi
parliamo di riconoscere la dignità e l’autonomia delle persone, rischiamo di limitarci a degli enunciati teorici se poi nella nostra organizzazione non facciamo sì che queste si possano esplicare.
Vorrei toccare ora un altro aspetto che fa parte della nostra cultura degli ultimi due secoli, grazie all’evoluzionismo. Soltanto le
biodiversità facilitano l’evoluzione delle specie, quelle che non contemplano al loro interno questa biodiversità sono destinate a soccombere. Dunque, anche le organizzazioni devono saper valorizzare
queste differenze per arrivare ad evolversi. Ma differenza non deve
significare disparità. Ed è importante studiare le disparità di salute
non solo tra diverse aree geografiche, ma anche all’interno di contesti apparentemente omogenei, quale ad esempio la nostra Regione,
o una città. Il sito Worldmapper.com ci offre un’interessante ed immediata visualizzazione grafica delle differenze tra i vari continenti
ed i vari Stati, con le superfici sovvertite rispetto alla reale estensione geografica (vedi l’esempio del reddito procapite). Anche un diagramma cartesiano ci rende immediatamente conto, mettendo sulle
ordinate il livello di salute e sulle ascisse la ricchezza, della relazione
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LA LIBERTÀ E I DIRITTI DEI PAZIENTI
direttamente proporzionale fra aspettativa di vita e disponibilità
economiche. Una salute equa, che quindi rispetti l’autonomia e la
dignità di ogni cittadino, deve derivare da cure uguali per tutti, ma
tenendo ben presente la verità di Don Milani che “non c’è niente di
più iniquo di una scuola uguale per tutti quando tutti non sono
uguali”. Educazione e sanità in questo campo vanno a braccetto.
Non cure estese in modo uguale a tutti, ma dare a tutti uguali probabilità di buona salute.
Vorrei ora sottolineare l’importanza di un articolo del nostro Codice (il 5) che pochi di noi conoscono oppure che non tengono ben
presente nel lavoro quotidiano, che non è solo di tipo clinico, ma
dovrebbe chiamarci a riflettere sul senso che ha il nostro essere medici oggi. Noi siamo infatti chiamati a promuovere una cultura civile tesa all’utilizzo appropriato delle risorse naturali per garantire alle future generazioni un ambiente vivibile. Dovremmo favorire e
partecipare alla prevenzione e alla tutela della salute, promuovendo
non solo la salute individuale ma anche quella collettiva; e poi magari nei nostri Ospedali o nelle scuole vediamo ancora macchinette
che erogano junk food al posto di cibi più sani.
Ancora una altro articolo del Codice deontologico, il 6, che c’impegna a quella che oggi è la mission dell’essere medico Al medico
non basta infatti più fare il bene del paziente, ciò che in qualche
modo si può sintetizzare nell’efficacia delle cure, ma deve farlo nel
rispetto della sua libertà, dei suoi valori, della sua dignità. E poi,
“last but not least”, l’aspetto dei vincoli che abbiamo nell’esercizio
della nostra professione, con l’uso appropriato delle risorse. I vincoli non sono da interpretare solo dal punto di vista contabile-finanziario, ma uso appropriato delle risorse significa anche saper dare
quella prestazione solo alla persona che ne ha veramente bisogno
secondo il fondamentale principio di costo-opportunità, per cui, se
comunque erogo una cura in un determinato tempo a quel determinato paziente, è vero che in quel momento l’ho sottratto ad un altro
e quindi devo essere molto attento nel valutare la giustezza della
mia scelta senza farmi troppo condizionare dal vincolo economico.
Come medico impegnato nella responsabilità gestionale – coordino
il Dipartimento cardiologico dell’ASL in cui lavoro – mi rendo conto che stiamo confondendo lo strumento con il fine, veniamo richia121
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mati a modificare la nostra organizzazione sulla base di un obiettivo
che è il pareggio di bilancio, così che l’aspetto economico non è più
strumento di oculata gestione ma, per qualcuno, il fine a cui uniformare le nostre politiche. In un’ottica diacronica, nessuno di questi
principi – efficacia, autonomia, efficienza, appropriatezza e giustizia
sociale – va visto gerarchicamente.
Le decisioni di fine vita
Cominciamo ad addentrarci nel contesto di tipo normativo che
riguarda le decisioni che insieme ai nostri pazienti siamo chiamati a
prendere alla fine della vita. Di nuovo, riferiamoci al nostro Codice
deontologico che, prima di entrare nel tema del rapporto medicopaziente e del consenso informato, tratta dell’accanimento diagnostico anche tenendo conto delle volontà del paziente laddove le ha
espresse, ovvero delle sue “dichiarazioni anticipate di volontà”.
Il consenso informato oggi è entrato pienamente nella routine
quotidiana professionale. Nasce dopo la seconda guerra mondiale,
dopo la tragedia della Medicina nazista, con il processo di Norimberga, dove però si parla solo di consenso volontario e non informato e la definizione riguardava solo la sperimentazione. Eravamo ancora nella necessità di affermare che il consenso era necessario, se
dovevamo usare dei soggetti umani per la ricerca. Se cominciamo a
scorrere le varie versioni del nostro Codice deontologico, si vede
che nel 1978, a trent’anni dalla promulgazione della Costituzione,
non si parlava assolutamente di consenso informato. Nell’ambito
della comunicazione di una diagnosi infausta il nostro Codice ci obbligava a non nascondere la diagnosi alla famiglia mentre ci consentiva di non rivelarla al paziente. Undici anni dopo, nella versione del
1989, la dinamica della relazione medico-paziente resta sempre
orientata ad un atteggiamento di tipo paternalistico, perché siamo
sempre obbligati a comunicare la diagnosi ai congiunti ma non al
malato. Poi nel 1992 esce un pronunciamento del Comitato nazionale per la Bioetica, che fu considerato da una parte del mondo medico come un’invasione indebita. Vi si affermava che il consenso informato significava “una più ampia partecipazione di tutti i cittadini
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alle decisioni che li riguardano” nella sfera della propria salute. Si
dichiarava di ritenere tramontata la stagione del paternalismo medico, mentre noi medici ancora ci sentivamo di ignorare le scelte e le
inclinazioni del paziente, addirittura a trasgredirle quando fossero
in contrasto con le indicazioni cliniche in senso stretto.
I medici seppero leggere tempestivamente questo warning che
arrivava dal Comitato nazionale di Bioetica ed infatti venne aggiornato il Codice deontologico con l’introduzione di un articolo dedicato al consenso informato. Eravamo nel 1995 e si colmava così la
mancata saldatura a quel secondo comma dell’articolo 32 della Costituzione che stabilisce che nessuno può intervenire sulla nostra
persona se non lo vogliamo. Un ulteriore aggiornamento è arrivato
nel 1998, a testimoniare la rapidità di come la cultura della società
civile cambia su questi temi, laddove si precisa che il consenso informato è valido quando il paziente è in grado di intendere e di volere e di esprimersi liberamente, ma quando ha perso la capacità relazionale, chi decide? Il nostro Codice dunque afferma che non
possiamo non tenere conto di quanto precedentemente manifestato
dal paziente, e nell’ultima versione, tuttora vigente, del 2006 quel
“non può non tener conto” viene sostituito con “deve”: Quindi l’attuale Codice ci obbliga a tener conto di quanto la persona incapace
di comunicare aveva deciso rispetto alla parte terminale della propria vita. Tutto questo riprende una legge della Repubblica del
2001, che a sua volta sottoscrive una decisione comunitaria, la
“Convenzione di Oviedo” del 1997, che obbliga gli Stati membri a
ratificarla. C’è molta disinformazione a proposito di leggi sul fine
vita perché si ritiene che ci sia un vuoto legislativo mentre come abbiamo visto c’è un esauriente percorso legislativo che norma la questione. Ma la tendenza è quella di interpretare strumentalmente la
legge del 2001, soprattutto quando si legge la traduzione letterale
della convenzione di Oviedo che dice testualmente: “Si terranno in
considerazione i desideri della persona”.
E veniamo al caso di Eluana Englaro: la ragazza muore nel febbraio 2009, l’incidente risaliva al gennaio 1992. Per diciassette lunghissimi anni il Parlamento non ha voluto, saputo o potuto legiferare sul tema. In un mese e mezzo dal suo decesso il Senato approva il
disegno di legge Calabrò, un obbrobrio giuridico, medico ma so123
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prattutto umano. Un esempio emblematico: nel titolo la legge parla
di “alleanza terapeutica, consenso informato, dichiarazioni anticipate di trattamento”, salvo disconoscere tutto questo e risultare di fatto una legge “contro” le buone intenzioni dichiarate nel titolo. Basti
l’articolo 7, dove testualmente si legge: “Il medico tiene in considerazione gli orientamenti espressi dal paziente sul proprio fine vita e
annota sulla cartella le ragioni per cui ritiene di seguirle o meno”.
Il Comitato nazionale per la Bioetica nel 1992 stigmatizzava il
nostro paternalismo medico perché “ci sentivamo legittimati, in virtù del mandato che la nostra professione ci dava, anche a trasgredire le indicazioni del paziente”…E dopo 20 anni si propone una legge del genere! La magra consolazione è data dalla certezza che, se e
quando questa legge sarà definitivamente approvata, la Corte Costituzionale la boccerà in gran parte dei suoi articoli.
Non siamo solo noi medici che abbiamo valorizzato nel nostro
Codice la dignità e l’autonomia dei nostri pazienti; nell’ultimo Codice degli infermieri, del 2009, si stabilisce che è necessario porre
dei limiti ad interventi che non siano proporzionati alla condizione
clinica del paziente, ma anche coerenti con la sua concezione sulla
qualità della vita. Per ogni paziente c’è una illness e una sickness
completamente diverse dalla disease e quando l’assistito manifesta
la sua volontà anche l’infermiere è obbligato a tenerne conto.
Nel 2009 in un Town Meeting sul cosiddetto testamento biologico svoltosi in Regione Toscana, e che vedeva sul 51 per cento dei
cittadini di dichiarata fede cattolica, soltanto il 4 per cento era d’accordo con la legge Calabrò, quando va a disciplinare il caso di contrasto tra le volontà del cittadino e gli orientamenti del medico. Il
75 per cento dei partecipanti era invece apertamente a favore del rispetto della volontà del paziente.
In sintesi, il mio fermo pensiero è che in un contesto civile, dunque pluralistico, la fede religiosa può, per qualcuno deve, avere valore per le scelte del singolo, ma non può in alcun modo farsi legge
per la totalità dei cittadini, compresi quelli che in quella fede non si
riconoscono. E poi, a guardare bene, lo squallido dibattito che sta
alimentando l’iter della legge in Parlamento non ha niente di “religioso”: la fede è tutta un’altra questione, qui siamo di fronte ad un
indecoroso spettacolo di scambio di interessi tra Poteri.
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Considerazioni conclusive
Siamo di fronte a una sfida culturale importante, i problemi che
abbiamo oggi non li possiamo risolvere all’interno della stessa cultura che li ha generati. e che non sa o non vuole riconoscere la complessità degli aspetti, alcuni dei quali abbiamo affrontato in questa
relazione. Dall’aziendalizzazione della sanità, iniziata nel 1992, si sta
assistendo ad una progressiva contrazione dei tempi di relazione e
di cura, laddove invece c’è sempre più bisogno di ascolto e di comunicazione. Il consenso informato è ridotto ad una mera pratica
burocratica, il totem della visione aziendalistica ci ha imposto il
principio che se anche la salute non ha prezzo ha comunque molti
costi. A furia di misurare il prezzo delle prestazioni stiamo perdendo di vista il valore della Cura. E mentre siamo costretti a contare
tutto, ci dimentichiamo che non sempre ciò che “conta” può essere
“contato”, e si rischia di smarrire progressivamente il valore dell’autonomia, della libertà e della dignità delle persone.
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La sperimentazione clinica
Claudio Galanti
Commissione regionale di Bioetica
Sul tema del consenso, da parte dei pazienti inseriti in una sperimentazione clinica, si è fatto spesso riferimento al processo di Norimberga; in realtà esistono dei precedenti, perché il problema si
pone da qualche centinaio di anni e non possiamo ancora definirlo
del tutto risolto.
Nel 1767 troviamo una prima denuncia di un paziente per mancata informazione; nel 1871 si parla di “vizio di consenso e di informazione”. Nel 1900 il Ministero prussiano per gli affari religiosi, educativi e medici emana una direttiva con cui stabilisce che gli esperimenti medici possono essere condotti solo su adulti competenti, che
abbiano dato il consenso dopo un’adeguata spiegazione delle conseguenze avverse. Questa direttiva era in vigore anche durante il nazismo e la sperimentazione condotta nei campi di concentramento.
Ci sono precedenti che riguardano anche altri Paesi. Il nostro da
questo punto di vista arriva in ritardo, e fino a qualche tempo fa il
reclutamento, per uno studio clinico, di pazienti ospedalizzati che,
magari, non rispondevano ai tradizionali trattamenti, veniva fatto
semplificando l’informazione ed il consenso col proporre agli stessi
“nuovi importanti farmaci americani”.
È del 1914 una sentenza USA in cui si dichiara che ogni uomo in
età adulta, capace di intendere e di volere, ha diritto di decidere cosa può essere fatto sul proprio corpo e un chirurgo che opera senza
il consenso del paziente commette oltraggio per cui sarà perseguibile per danni.
C’è da sottolineare che i farmaci del tempo, al contrario di quelli
attuali, non richiedevano le precauzioni d’uso, né l’attenzione alle
interazioni e al rischio di effetti indesiderati come quelli attuali, diciamo che erano considerati meno “pericolosi” e i danni avvenivano
soprattutto con gli interventi chirurgici.
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CLAUDIO GALANTI
Il Ministero del Reich emana linee guida che distinguono ricerca
a scopi terapeutici o non terapeutici, così veniva classificata la sperimentazione umana, per la quale si precisava che occorreva il consenso del soggetto, preceduto da adeguata informazione. Già allora
si parlava, sostanzialmente, di consenso informato; nel ’38 viene introdotto un emendamento a seguito di un evento drammatico: erano deceduti 105 bambini che avevano assunto uno sciroppo a base
di sulfanilamide contenente un solvente tossico per l’uomo.
Negli Usa troviamo diverse segnalazioni in questo senso, era presente una maggiore sensibilità verso un problema che, ancora, sfuggiva all’attenzione del nostro Paese.
A Norimberga alcuni medici nazisti vengono condannati per aver
effettuato sperimentazioni particolarmente crudeli sull’uomo, tant’è
che fra i capi di imputazione vengono indicati crimini contro l’umanità; atti atroci commessi nei confronti di avversari politici e interi
gruppi etnici.
Nasce, così, il Codice di Norimberga che definisce come assolutamente essenziale il consenso della persona in possesso della capacità legale di darlo: essere in grado di esercitare il libero arbitrio,
senza alcun intervento coercitivo, e con una sufficiente comprensione di tutti gli elementi della situazione, natura, durata, scopo per
cui l’esperimento sarà condotto e di tutte le complicanze che si possono determinare sulla propria salute.
Le mie esperienze in questo campo sono successive al ’46, però
anche negli anni ’60 non si prendevano in considerazione questi
aspetti.
Il Codice di Norimberga stabiliva anche che un esperimento si
giustifica se fornirà risultati utili alla società, non ricavabili con altri
metodi di studio.
L’esperimento doveva essere condotto prima sugli animali, sulla
conoscenza della storia naturale del morbo, in qualche modo doveva esistere un razionale che giustificasse l’esecuzione di questo esperimento, con l’avvertimento di evitare lesioni e sofferenze fisiche o
mentali che non fossero necessarie.
Si stabiliva anche che in qualunque momento della sperimentazione il paziente poteva chiederne l’interruzione. senza che questo
arrecasse danno all’assistenza a cui lo stesso aveva diritto.
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LA SPERIMENTAZIONE CLINICA
Cosa succede dopo Norimberga?
1963: iniezione di cellule tumorali in pazienti anziani, senza il loro consenso. Siamo negli USA.
Dal ’32 al ’72 in Alabama viene sviluppato uno studio sul contagio da sifilide, su popolazione di colore, analfabeta, ovviamente senza consenso, con l’obiettivo di studiare l’evoluzione naturale della
malattia, quindi osservarla senza effettuare alcuna cura.
Nel 1965, sempre negli USA, si avvia una serie di protocolli sperimentali, che verranno denunciati, contrari all’etica medica. Sempre tra il ’65 ed il ’71 vengono praticati degli studi sull’epatite virale
con l’inoculazione del virus su alcuni bambini ricoverati, psichicamente handicappati, forzando il consenso dei genitori.
Siamo di fronte a centinaia di episodi di questo genere per cui si
rende indispensabile disporre procedure e regole precise in grado
di dare assoluta trasparenza alle sperimentazioni che vengono realizzate.
Nasce, intanto, la Dichiarazione di Helsinki, promossa dall’Associazione medica mondiale, che dal ’64 al 2000 viene periodicamente
aggiornata in base all’evoluzione delle conoscenze mediche.
Siamo di fronte alla scelta fra portare avanti lo sviluppo della
scienza e difendere l’essere umano, ma la sua tutela deve venire prima di tutto.
Consenso informato: diritto del paziente all’autodeterminazione
se decide di uscire dalla sperimentazione, esclusione dei soggetti
che non sono in grado di esprimere il consenso, come i minori,
chiarimento riguardo al beneficio, considerato che dalle sperimentazioni spesso non deriva un beneficio diretto, ma un aiuto al progresso della scienza ed un miglioramento delle cure ai pazienti che
verranno. La ricerca non deve comportare rischi che siano sproporzionati rispetto ai potenziali benefici; oggi si tende ad includere tra i
pazienti su cui sperimentare coloro che hanno patologie incurabili,
specie nell’oncologia e nell’ematologia. Sono pazienti che hanno ridotta pressoché a zero la loro speranza di vita, e bisogna vigilare affinché la loro decisione di accettare i trials clinici non sia influenzata
dalla volontà di altre persone.
Negli Usa, nel ’78, anche a seguito delle denunce che abbiamo
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ricordato, è uscito il “Belmond report” che stabilisce i confini fra la
sperimentazione e la pratica medica di routine, la valutazione rischio-beneficio,le linee guida per selezionare i pazienti, la natura del
consenso informato nei vari contesti, i principi sul rispetto delle
persone. Si va, cioè, sempre più definendo questo tema fino a dargli
veste e contenuti attuali.
Ancora: nella Convenzione di Oviedo del ’97 si insiste che il bene e l’interesse dell’essere umano debbono prevalere sull’interesse
della società e del progresso della. scienza..
La Convenzione stabilisce anche una serie di altre regole: il consenso deve essere messo per iscritto, perché può essere liberamente
ritirato, precisando l’informazione sui diritti e le garanzie, i rischi
che la persona può correre e che devono essere proporzionati agli
eventuali benefici.
La situazione nel nostro Paese
In Italia abbiamo prodotto atti di diversa valenza: si passa dalle
leggi ai decreti legislativi, ai decreti ministeriali fino alle determinazioni dell’Agenzia che si occupa dei farmaci.
Il decreto ministeriale del ’98 introduce le linee guida che regolamentano i Comitati etici. Si individua una struttura che dovrebbe
interloquire con gli sperimentatori e nello stesso tempo tutelare il
cittadino. Deve, cioè, confermare agli sperimentatori che le ricerche
che intendono sviluppare, o a cui vogliono partecipare, specie se sostenute da uno sponsor commerciale, hanno un fondamento etico.
Come già detto, il Comitato nazionale di Bioetica richiama gli articoli 13 e 39 della Costituzione per quanto riguarda i diritti del paziente e i doveri del medico, definisce illegittimi i trattamenti sanitari extraconsensuali. Il rapporto medico-paziente è ancora su base
paternalistica; la tappa successiva è quella dell’alleanza terapeutica,
che si realizza quando c’è un accordo fra le parti nel decidere gli interventi; oggi matura un’ulteriore fase che presuppone l’informazione da parte del medico e la decisione come competenza esclusiva
del paziente.
Occorre sottolineare che “informazione” significa mettere al cor130
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rente il paziente di tutte quelle conoscenze necessarie ad una consapevole autodeterminazione, anche con il rischio di errore.
Nonostante il consenso, l’intervento risulta illecito se supera i limiti della salvaguardia della vita, della dignità fisica e della dignità
umana. Quindi il consenso può essere richiesto solo entro determinati limiti.
La sperimentazione, afferma il Codice deontologico all’art.49,
può essere inserita nei trattamenti diagnostici e terapeutici solo in
quanto sia razionalmente e scientificamente di utilità diagnostica e
terapeutica.
Come membro di un Comitato etico che si occupa di sperimentazione clinica, mi chiedo sempre il razionale che c’è dietro una richiesta e quale obiettivo si intende raggiungere. Niente è scontato,
soprattutto in quel tipo di studi no-profit che non hanno alle spalle
l’apparato di una grossa Azienda in grado di disegnare correttamente il protocollo di ricerca. Spesso dietro l’iniziativa apprezzabile di
singoli medici manca la competenza per la progettazione corretta
dello studio.
Dato che il malato non può essere privato dei trattamenti clinici,
un altro importante problema che si pone è quello dell’uso del placebo a confronto con il farmaco sperimentale. Laddove esiste una
terapia già in uso, il placebo non può essere utilizzato. Il confronto
deve essere fatto con la terapia già standardizzata. Il quesito da porsi nei confronti di un nuovo farmaco è: può essere più efficace di
quello esistente? può agire meglio, in termini di compliance, di minori costi a fronte di eguale efficacia? Lo studio deve essere almeno
“di non inferiorità”, e non avere esclusivamente un obiettivo commerciale.
I predetti principi sono applicabili anche ai volontari sani; la ricerca è un fattore di sviluppo industriale e sociale del Paese, e questo va tenuto presente perché la difesa ad oltranza del cittadino può
diventare un impedimento allo sviluppo delle conoscenze mediche
Ci sono linee guida di buona pratica clinica alla base di tutte le sperimentazioni che devono essere seguite puntualmente ogni volta che
si esamina una proposta, tant’è che i Comitati etici, che hanno il
compito di autorizzare l’avvio delle sperimentazioni, hanno il dovere di verificare il rispetto di tutti i requisiti, anche procedurali,
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richiesti per l’avvio dello studio. È necessario anche un monitoraggio successivo per garantire che tutte le regole siano state rispettate.
Da una verifica effettuata recentemente nella nostra Regione è
emerso, infatti, che una percentuale consistente, in particolare degli
studi no-profit non rispetta del tutto le regole.
Uno fra i temi che impegnano quotidianamente i Comitati etici e
sul quale si riscontra minore rispetto da parte degli sperimentatori,
riguarda proprio il consenso informato; si continua a considerarlo
una dichiarazione da far sottoscrivere dal paziente , a volte dal familiare, ignorando che questo non è più possibile, e che può essere
raccolta dall’infermiere di turno. Non c’è ancora la consapevolezza
che questo non è un problema burocratico, di sicurezza rispetto a
future contestazioni, ma un problema culturale, di rapporto con il
cittadino che deve essere reso consapevole di quello che gli viene richiesto.
È molto importante l’informazione che viene data direttamente
al paziente, perché i moduli spesso non sono chiari. Il linguaggio
deve essere il più possibile pratico, non tecnico, comprensibile per
il soggetto o per il suo rappresentante legalmente riconosciuto. Le
persone ospedalizzate sono in genere anziane, il loro livello culturale può essere insufficiente a comprendere riferimenti e spiegazioni
che a volte creerebbero difficoltà anche agli addetti ai lavori.
Il Comitato etico è una struttura indipendente, lo sperimentatore
non deve considerarlo come una sorta di nemico che gli impedisce di
portare avanti la sua ricerca, ma come un alleato che per le sensibilità
che rappresenta nella sua composizione è in grado di aiutarlo nella
correttezza della sua ricerca. Gli elementi di valutazione sono in numero proporzionale alla rilevanza della sperimentazione; valutare,
certo, i benefici e i rischi, ma anche l’idoneità dello sperimentatore e
degli stessi locali in cui si intende condurre la sperimentazione.
Un aiuto ci viene anche dalle riviste scientifiche che non pubblicano ricerche se non sono accompagnate dal parere autorizzativo di
un Comitato etico; chi intende pubblicare i risultati del suo lavoro
sa che le regole debbono essere rispettate fin dall’avvio della sperimentazione. Concludo guardando con ottimismo al quadro attuale,
anche se il lavoro non è concluso e gli aspetti da perfezionare non
sono semplici.
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L’accesso ai farmaci nei Paesi in via di sviluppo
Daniele Dionisio
European Parliament Working Group on Innovation, Access to Medicines
and Poverty-Related Diseases Coordinatore, “Medicine per I Paesi in via
di Sviluppo”, SIMIT (Società Italiana di Malattie infettive e tropicali)
Le problematiche per la salute non possono essere disgiunte dall’azione politica.
Circa cinque miliardi di persone vivono oggi nei Paesi in via di
sviluppo e metà di loro può fare assegnamento su meno di 2 dollari
al giorno per la propria sussistenza. In questo contesto le malattie
trasmissibili colpiscono in maniera estremamente sbilanciata. D’altro canto i farmaci per queste malattie possono essere molto costosi
e persino tossici, con seri effetti collaterali. Essi constano spesso di
formulazioni non adeguate, o difficili da somministrare, o inefficaci
laddove i microbi diventino resistenti come nel caso, ad esempio,
della Tbc.
Allora l’accesso alle terapie deve rispondere a precisi requisiti:
fondarsi su formulazioni farmaceutiche sicure, di qualità certa, di
basso costo e altamente efficaci. Questo è uno dei problemi centrali
da affrontare.
Con riferimento all’accesso alle cure, Malaria, Aids, e Tbc sono
la punta dell’iceberg in quanto di particolare impatto e diffusione
nei Paesi in via di sviluppo.
La Malaria colpisce duramente in età infantile, 300-500 milioni
di persone ogni anno ne risultano affette, e un milione di queste
soccombe. Il 75 per cento delle morti in Africa sono causate dalla
Malaria e le vittime spesso hanno meno di 5 anni di età.
L’Aids colpisce tutti gli strati sociali e soprattutto le fasce giovanili, quindi incide sulle capacità lavorative sguarnendo i servizi pubblici operativi. Fortunatamente, progressi sono in corso: nel 2010, 5
milioni di persone sono state messe in terapia antiaids. Ciononostante, dato che le attuali linee guida OMS raccomandano di inizia135
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re il trattamento precocemente (quando i livelli di difesa immunitaria sono sufficientemente elevati), almeno 15 milioni di persone necessitano di essere trattate, e tre quarti di esse vivono nell’Africa sub
sahariana.
Ma se volessimo utilizzare i costosi prodotti immessi sui mercati
dalle multinazionali del farmaco, i Governi dei Paesi poveri non potrebbero farvi fronte.
La Tbc è diventato un gravissimo problema per i Paesi in via di
sviluppo dove si embrica tristemente con l’epidemia di Aids: circa
10 milioni di nuovi casi si sono registrati nel 2009 e i decessi sono
arrivati a quasi 2 milioni.
Il problema da un punto di vista politico
Qual è la partita non solo per le Industrie che producono questi
farmaci, ma per tutte quelle che lavorano nel settore di farmaci? Esse non fanno attività umanitaria se non in casi particolari e contingenti. Lo scopo prioritario è il profitto, il business, non la salute.
Qual’è la situazione da cui le Industrie farmaceutiche occidentali
traggono i maggiori profitti? Quella esemplificata da un paziente
della società del benessere in cui i sintomi di una patologia cronica
non letale possono essere curati pur senza eliminare il problema.
Un ventenne che inizia a manifestare calvizie è una miniera d’oro
perché avrà bisogno di farmaci per tutta la vita, ma non lo è un
bimbo di 4 anni che si ammala di Tbc o Malaria nei Paesi poveri
perché, nell’impossibilità della famiglia di procurarsi farmaci per
curarlo, è destinato in alta percentuale al decesso. Dove sta il margine di profitto nell’ottica delle multinazionali occidentali?
Se il sistema dei brevetti incentiva lo sviluppo di nuovi farmaci
solamente nei Paesi ricchi, i cui Governi possono erogare somme
considerevoli per la tutela della salute dei propri cittadini (altresì
spesso in grado di pagare i farmaci di tasca propria), il problema rimane gravemente insoluto nei Paesi poveri.
Fortunatamente, sono in corso pressioni per promuovere innova136
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zione farmaceutica ed equo accesso alle cure nell‘interesse dei più
poveri nella società. Queste pressioni, che si incrementano giorno
per giorno, stanno contribuendo a migliorare le condizioni di salute
delle popolazioni povere e l’accesso alle cure.
In tutto ciò è determinante lo sforzo dell’OMS (che pure non è la
depositaria di ogni buona intenzione) per influire positivamente sulla salute delle fasce emarginate. Nel merito vorrei richiamare la
61ma e la 63ma Assemblea generale dell’OMS (rispettivamente tenutesi nel 2008 e nel 2010) perché da esse sono stati costituiti gruppi di esperti incaricati di esaminare fonti innovative di finanziamento per stimolare ricerca e sviluppo di farmaci per le malattie incidenti nei Paesi in via di sviluppo. L’obiettivo, una volta individuati
modelli idonei, è di assicurare accesso equo alle cure su base stabile.
Allo scopo è prioritario che i modelli proposti disconnettano il
costo che grava per la ricerca e sviluppo dal costo finale caricato
sull’utente. Il farmaco non deve, cioè, nel suo costo finale includere
il prezzo pagato dall’Industria farmaceutica per realizzarlo.
Il primo gruppo di esperti a tal fine designato dall’OMS è finito
nella tempesta per aver consegnato proposte subito incorse in critiche per il sospetto di connivenze con l’Industria internazionale del
farmaco. Comunque, modelli che permetterebbero di affrontare positivamente il nodo dell’accesso esistono e quelli che sono già operativi hanno prodotto buoni risultati.
Di seguito i modelli e le proposte su cui si sta lavorando per conseguire equità e accesso allargato ai farmaci.
Primo modello: parternariati che nel settore pubblico e in quello
privato cooperino per lo sviluppo di prodotti. Sono già nate organizzazioni internazionali molto attive in questo senso.
Si potrebbe fare di più se i Governi decidessero di supportare
economicamente questi parternariati soprattutto nella fase di sviluppo di nuovi farmaci relativa ai trials clinici. Questa è una fase
che assorbe il 40 per cento della spesa, e in essa l’intervento economico dei Governi sarebbe particolarmente auspicabile.
Secondo modello: i premi, ossia un riconoscimento economico
una volta che un farmaco ha ottenuto la commercializzazione, soprattutto per malattie gravi e diffuse nei Paesi poveri. Questi premi
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devono rispettare alcune condizioni: l’Industria che ha prodotto un
farmaco salvavita per i Paesi poveri deve renderlo accessibile al più
basso prezzo possibile.
Terzo modello: impegni anticipati di mercato. Ad esempio, ove un
Governo stabilisca la urgente necessità di un vaccino o di un nuovo
farmaco per la propria popolazione, quale Industria farmaceutica si
impegna alla ricerca e produzione a concordate e accessibili condizioni di vendita? Nel merito, è iniziativa in parte già realizzata quella per un vaccino anti-pneumococcico, nella quale si è inserita fruttuosamente la Glaxo Smith Kline che ha realizzato un prodotto al
prezzo concordato di 21 euro per tre dosi. Sebbene il prezzo risulti
ancora elevato per i Paesi in via di sviluppo, l’iniziativa è, comunque, un vantaggio conseguito dato che produrre vaccini è impresa
onerosa e di lungo termine.
Altro modello: acquisto di brevetti. Esempio: sullo sviluppo di
un futuro farmaco un Governo o una organizzazione si impegna ad
acquistare un brevetto per poi utilizzarlo ad eque condizioni nei
Paesi poveri. Questa idea non ha avuto sinora applicazioni.
Ancora: vouchers per avere priorità di revisione. Il modello, già attivato dalla statunitense Food and Drug Administration, consiste nel
compensare il produttore di un farmaco per una patologia tropicale
offrendogli la revisione rapidissima di un altro suo prodotto non
correlato. Dati gli usuali tempi lunghi per la normale approvazione
di un farmaco, il produttore è solleticato dall’ottenere una revisione
“lampo”. Questa modalità è in realtà criticabile perché non è fatto
alcun obbligo al produttore di diffondere a prezzi accessibili il farmaco nei Paesi poveri, né di aprirsi alla competizione da parte delle
Industrie generiche. Senza dimenticare che una revisione accelerata
può comportare inaccuratezze di valutazione con il rischio di immissione sui mercati di prodotti pericolosi per la salute o inefficaci.
Altro modello: Fondo di impatto sulla salute. L’industria che produce un farmaco accetta di registrarlo nel Fondo. Poi, in base a calcoli inerenti gli anni di migliorata qualità di vita per effetto di detto
farmaco, l’Industria riceverà annualmente e per 10 anni una quota
percentuale di compensazione da parte del Fondo. Scaduti 10 anni,
dovrà però rendere il farmaco riproducibile da parte delle Industrie
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generiche.
In realtà, il nodo del finanziamento utile al modello in questione
è ancora irrisolto. Sarebbero, infatti, necessari almeno 6 miliardi di
dollari per garantire che questo meccanismo possa almeno decollare. Occorrono poi partner stabili e credibili per garantire costanza
di finanziamento nel tempo.
Infine, il modello del pool di brevetti che attualmente riguarda,
“in primis”, i farmaci antiaids. È un’idea sostenuta dalla organizzazione Medicines Patent Pool, supportata dall’OMS e da una coalizione di Governi (tra cui, Francia, Germania, Brasile) confluiti nella
sigla UNITAID.
La richiesta alle multinazionali produttrici di farmaci antiaids è
di cedere al Patent Pool i diritti dei loro brevetti per permettere la
produzione e commercializzazione nei Paesi poveri di copie realizzate da Industrie generiche. Questo modello confida sull’abbassamento dei prezzi innescato dalla competizione fra le Industrie generiche. Confida, inoltre, nell’immissione in commercio di combinazioni fisse di farmaci al fine di conseguire semplificazione posologica (più principi curativi in una sola pillola) e migliore aderenza alle
cure nell’interesse dei pazienti.
È chiaro che tutti questi modelli sono suscettibili di varia combinazione fra loro per conseguire, in schemi aperti, ottimizzazione di
risultati e migliore performance.
La scena politica internazionale
È sostenuto dall’OMS che l’innovazione farmaceutica e lo sviluppo di nuovi modelli debbano rispondere a prioritarie necessità di
salute e non ad esigenze di mercato. Ma è fattibile? Ci sono almeno
3 elementi di rischio al buon esito di quanto auspicato.
Il primo è connesso all’obbligo dell’India, di ottemperare dal
2005, quale Paese membro, alle regole sulla proprietà intellettuale
(brevetti) imposte dalla Organizzazione Mondiale del Commercio
(OMC). L’impatto è intuibile solo considerando che l’India è oggi il
maggior produttore mondiale di farmaci generici di basso costo per
i Paesi poveri.
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Il secondo elemento di rischio risiede nelle politiche protezionistiche perseguite su scala mondiale da Unione Europea e Stati Uniti
d’America.
Il terzo elemento di rischio, ancora poco percepito, ma non per
questo meno temibile, si riferisce allo sfondamento massiccio, organizzato, coerente delle multinazionali del farmaco in India. Le multinazionali stanno infatti ampliando, a suon di miliardi di dollari, la
loro cointeressenza in impianti sanitari e Industrie farmaceutiche indiane. Esse hanno infatti realizzato che nel mondo occidentale c’è
una battuta d’arresto allo sviluppo farmaceutico anche per la crisi in
corso, mentre negli Stati Uniti la riforma sanitaria insistita dal Presidente rischia di abbassare i profitti sul costo dei farmaci. Nel contempo, i mercati del sud-est asiatico sono in ripresa dalla recessione
del 2008, mentre una consistente parte della popolazione è ricca e
può pagare di tasca propria farmaci costosi. Ottocento milioni di cinesi sono in questa vantaggiosa situazione. Per ottenere leadership
in quei mercati le multinazionali hanno capito che era necessario
“comprare” le Industrie locali, specie quelle indiane che hanno conseguito elevata tecnologia.
Le multinazionali in India stanno vendendo i loro prodotti di
marca a bassissimo prezzo, cercando oltretutto di sfondare in ambiti rurali; stanno reclutando migliaia di informatori locali che, agendo sui medici, li convincono a prescrivere prodotti “brand” dal
prezzo ribassato ma di rinomata qualità. Le multinazionali hanno
anche preso in licenza Industrie che producono farmaci generici,
ma garantendone la qualità con il loro prestigio.
Ancora, le multinazionali traggono vantaggio dal discredito verso
i farmaci generici indiani alimentato dal fatto che i mercati pullulano (e non solo in India) di prodotti sotto-qualificati o falsificati.
Questa campagna è talora condotta con l’interesse di stornare gli
acquisti verso gli originali “brand”.
Nel complesso, le circostanze elencate configurano una politica
vincente tanto che le Organizzazioni non governative e i network indiani sono entrati in fibrillazione e hanno chiesto al Governo dell’India di non permettere che più del 40 per cento delle quote azionarie delle Compagnie indiane vengano acquistate dalle multinazionali.
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Riferimenti online
– Dionisio D. Big Pharma Stranglehold: Thwarting India As Independent
Maker Of Blockbuster HIV Drugs? Intellectual Property Watch October
28, 2010. http://www.ip-watch.org/weblog/?p=13070&utm_source=post
&utm_medium=email&utm_campaign=alerts
– Sixty-first World Health Assembly (2008). Global strategy and plan of
action on public health, innovation and intellectual property. Available:
http://www.who.int/gb/ebwha/pdf_files/A61/A61_R21-en.pdf
– WHO report: Towards universal access: scaling up priority HIV/AIDS
interventions in the health sector (September 2010). http://www.who.
int/hiv/pub/2010progressreport/summary_en.pdf
– Overview: the TRIPS Agreement (2010). World Trade Organization.
Available: http://www.wto.org/English/tratop_e/trips_e/intel2_e.htm
– WHO report (2010). Sixty-third World Health Assembly closes after
passing multiple resolutions. Available: http://www.who.int/mediacentre/news/releases/2010/wha_closes_20100521/en/index.html
– Dionisio D. Needs-driven rather than market-driven rules to spread access to medicines in poor countries Translational Biomedicine, 2010,
July issue http://www.scribd.com/doc/34721306/Needs-driven-ratherthan-market-driven-rules-to-spread-access-to-medicines-in-poor-countries
– Dionisio D. Access to medicines: possible boost from a new balance of
power in the Asia-Pacific region. IQ-sensato, 2011, February 3 issue.
http://www.iqsensato.org/blog/2011/02/03/access-to-medicines-in-theasia-pacific-region/
– Dionisio D. A Balanced Trade Context for HIV Patent Pool. Translational Biomedicine Journal 2011 Vol. 1 No. 4:3. http://transbiomed.blogspot.com/2011/02/balanced-trade-context-for-hiv-patent.html
– Dionisio D. India: intellectual property and HIV therapy for the developing world.. Future Virology, 2011, 6 (1), 1-3 http://www.futuremedicine.com/toc/fvl/6/1.
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Le diseguaglianze di accesso ai servizi sanitari
Sara Barsanti
Istituto di Management, Laboratorio Management e Sanità
Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa
L’equità nell’assistenza sanitaria si realizza attraverso (M. Whitehead):
• Uguale accesso all’assistenza disponibile per uguale bisogno.
• Uguale utilizzazione per uguale bisogno.
• Uguale qualità di assistenza per tutti.
Le diseguaglianze di salute possono essere misurate avendo come
riferimento l’oggetto e il soggetto delle diseguaglianze stesse. L’oggetto di tale misura può rilevare o le diseguaglianze in salute, analizzando quindi indicatori quali mortalità, speranza di vita, o l’equità
nell’assistenza sanitaria, analizzando quindi indicatori relativi alla
disponibilità dei servizi e del personale, all’accesso, all’utilizzo e alla
qualità dei servizi stessi. Relativamente al soggetto, invece, si fa riferimento a diseguaglianze tra nazioni, valutando diseguaglianze di
Figura 1. Mortalità al di sotto dei 5 anni per livello di ricchezza della famiglia (ogni 1000 nati vivi)
Fonte: Rapporto OMS Commissione sui determinanti sociali
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tipo geografico (confrontando quindi il divario ad esempio Nord
Sud) o all’interno di una nazione, considerando in particolar modo
diseguaglianze dovute a fattori socioeconomici della popolazione di
riferimento.
La figura 1 mostra la mortalità al di sotto dei 5 anni per livello di
ricchezza della famiglia ogni mille nati vivi in 5 differenti Paesi extraeuropei. La mortalità varia da Paese a Paese, in Uganda è molto
più alta rispetto al Marocco. Ma anche all’interno di uno stesso Paese i gruppi più disagiati hanno una mortalità maggiore rispetto a
quelli più ricchi. Questa differenza non vale solo per gli estremi,
molto poveri-molto ricchi, ma anche tra le fasce con differenze di
reddito minore.
Tale effetto viene chiamato “gradiente sociale di salute”: esso può
essere un fenomeno più o meno marcato, ma è un fenomeno universale che non coinvolge solo i Paesi più poveri, ma anche quelli più
ricchi. Come sottolinea la Commissione, c’è un legame diretto fra
reddito e salute. La relazione tra ricchezza e salute è proporzionale. I
bambini del secondo quintile hanno una più alta probabilità di morire rispetto a quelli del terzo; quelli del terzo quintile a loro volta hanno una probabilità di morire più alta di quelli del quarto e così via.
Figura 2. Tassi di mortalità standardizzati per età tra Inghilterra e Galles
per reddito
Fonte: Rapporto OMS Commissione sui determinanti sociali
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LE DISEGUAGLIANZE DI ACCESSO AI SERVIZI SANITARI
La figura 2 confronta i tassi di mortalità standardizzati per età tra
Inghilterra e Galles, tra maschi e femmine ed il livello di deprivazione diviso in 20 classi; la diseguaglianza in salute collegata al reddito
già osservata si riconferma.
L’accessibilità ai servizi viene definita come la capacità del sistema sanitario di fornire assistenza al momento e nel luogo giusto a
chiunque ne abbia bisogno, indipendentemente dal reddito, dall’area geografica di appartenenza, dal livello culturale e da ogni altra
variabile che caratterizza il singolo individuo. Tale scenario può essere misurato sia in maniera individuale, sia in maniera aggregata,
distinguendo tra gruppi di popolazione differenti ad esempio per
reddito, livello di istruzione e altre caratteristiche. A livello internazionale aspetti come l’ equità e l’accesso nei servizi sanitari fanno
parte di quelle performance che devono essere misurate e monitorate al fine di valutare l’efficacia di un sistema sanitario. In particolare
l’OECD (2001) ha elaborato un sistema di valutazione delle performance dei sistemi sanitari, prevedendo le seguenti dimensioni:
• Lo stato di salute della popolazione.
• L’offerta dei servizi di salute e l’accesso agli stessi.
• La spesa sanitaria ed il sistema di finanziamento.
Ciascuna dimensione prevede, a suo volta, alcuni indicatori di riferimento, calcolati sia come media nazionale, sia come distribuzione. La misura della distribuzione tra la popolazione delle tre dimensioni elencate, rappresenta secondo l’OECD, il livello di equità di
accesso del sistema sanitario. Un accesso reale richiede, quindi,
sforzi per eliminare le barriere e gli ostacoli, finanziari, geografici,
fisici o logistici, ma anche linguistici, culturali o di istruzione. Misurare il reale accesso ai servizi costituisce l’unica via possibile per conoscere gli effetti di possibili fattori che possono agire da barriere
all’ingresso.
L’accessibilità ai servizi viene valutata attraverso la misurazione
delle performance dei sistemi sanitari dell’OECD, ovvero su come il
sistema risponde ai cittadini. Nella figura successiva, si misura l’uso
dei servizi in termini di copertura percentuale della popolazione all’interno del percorso materno-infantile per quintili di reddito in 50
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Paesi; senza eccezione, qualsiasi servizio viene maggiormente utilizzato dai gruppi più ricchi.
Figura 3. Utilizzo dei servizi nel percorso materno infantile (copertura popolazione di riferimento) per reddito
Fonte: Rapporto OMS Commissione sui determinanti sociali
Accesso alle cure vuol dire anche avere il diritto di ricevere prestazioni e assistenza, con riferimento al sistema americano, tenendo
quindi conto della percentuale di persone, al di sotto dei 65 anni,
che sono coperte da assicurazione sanitaria e splittarlo dalle percentuali per caratteristiche socio-demografiche della popolazione. La
copertura dell’assicurazione varia in base anche a caratteristiche etniche della popolazione, i bianchi hanno una copertura più ampia,
che si aggira sull’87 per cento. Se dividiamo il dato per reddito vediamo che i ricchi arrivano a una copertura del 97 per cento, i poveri sono al di sotto del 70 per cento. Anche il titolo di studio delle
varie etnie è un fattore che determina diseguaglianze:mano a mano
che diminuisce il titolo di studio, diminuisce la percentuale di copertura assicurativa sanitaria.
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LE DISEGUAGLIANZE DI ACCESSO AI SERVIZI SANITARI
La situazione nel nostro Paese
In Italia, pur avendo un sistema universalistico pubblico, esistono diseguaglianze in salute e nell’accesso ai servizi. In particolar
modo, esistono ancora problemi di accesso reale ai servizi, soprattutto nei casi in cui la complicazione burocratica del sistema, impedisce di godere, in assenza di una raccomandazione o di un accompagnatore, di una prestazione tempestiva e di buona qualità (Costa,
1994). Una persona provvista di istruzione superiore tende a
ricorrere più frequentemente a quei servizi specialistici ambulatoriali dove certamente l’azione di cura e prevenzione sono più mirati,
più forti e per definizione anche più efficaci .Viceversa colui che
dispone di minore ricchezza culturale viene più facilmente a contatto col servizio sanitario attraverso il medico di base e avrà pertanto
meno occasioni di fruire di interventi specialistici. (Ronco et al.,
1991; Donato et al., 1991). Cislaghi (1994), revisionando i dati italiani di morbosità e uso dei servizi secondo il reddito, ricavabili dall’indagine ISTAT sullo stato di salute 1986/87, fornisce indizi a sostegno di una condizione di sovra-equità per alcune prestazioni sanitarie, come l’assistenza di base e quella ospedaliera, mentre le cure specialistiche, anche quelle pubbliche, sarebbero meno consumate da soggetti con basso reddito. Ancora V. Mapelli (1992), in un’indagine campionaria di USL di diverse Regioni, evidenzia svantaggi
sociali nella capacità di superare barriere organizzative all’accesso ai
servizi, come pure nella libertà di scelta dei luoghi e degli erogatori
delle cure. Si riportano di seguito i principali risultati in termini di
diseguaglianze nell’assistenza osservate in Italia negli ultimi anni da
vari studi epidemiologici.
Istruzione e mortalità: coloro che hanno una bassa scolarizzazione hanno una probabilità di morte per cancro pari a 1.33, mentre
con un’istruzione alta il dato è più favorevole e scende all’1 per cento. Se una persona con alta istruzione ha una probabilità pari a 1 di
ricevere una rivascolarizzazione dopo coronarografia, una persona
meno scolarizzata a Torino ha il 20 per cento in meno di probabilità
di ricevere lo stesso trattamento.
Ricoveri. Per la cronicità l’assistenza dovrebbe essere organizzata
a domicilio, mentre viene data in Ospedale a chi è meno acculturato
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nel 20 per cento dei casi in più rispetto alle classi più istruite. Le
persone meno istruite sono quindi più vulnerabili rispetto all’inappropriatezza e possono andare incontro a procedure meno efficaci;
gli esiti delle cure sono di conseguenza meno favorevoli.
Prevenzione e assistenza territoriale. I dati, anche se risalgono a
diversi anni fa, sono sostanzialmente immodificati. La risposta allo
screening della mammografia in donne asintomatiche che hanno
più di 40 anni: la percentuale di adesione al test è superiore al 70
per cento al nord e si attesta sul 50 al sud. Dal 94 al 2000 l’adesione alla mammografia è aumentata dal 37 al 46 per cento, ma il
livello di istruzione, il gradiente sociale, conferma i dati già segnalati. Anche le ricerche sulle vaccinazioni di bambini a seconda del
livello di istruzione del padre confermano che qualsiasi tipo di vaccinazione viene praticata di più sui figli di padri con titolo di studio più alto.
La situazione in Toscana
In Toscana dal 2008 è stata introdotta nella Scheda di dimissione
ospedaliera il titolo di studio del paziente tra i campi fondamentali
da completare per l’inserimento a sistema del ricovero del paziente;
questo consente di analizzare i ricoveri per livello di istruzione, anche se la raccolta dei dati è ancora incompleta.
Considerando 2 gruppi di popolazione in base al titolo di studio
– bassa o nessuna istruzione e alta istruzione, che va dalla maturità
alla laurea – si possono confrontare alcuni tassi di ospedalizzazione.
• Tasso di ospedalizzazione generale
– tasso di ospedalizzazione day-hospital vs ricoveri ordinari
– tasso di ospedalizzazione urgente vs programmato
• Tasso di ricovero per patologie sensibili alle cure ambulatoriali
– complessivo
– per patologia (diabete, polmonite, BPCO, scompenso).
Il tasso di ospedalizzazione per day hospital, che può essere il segno cure più tempestive e appropriate, è superiore per chi ha un’alta istruzione superiore rispetto a coloro che hanno una bassa istruzione, mentre al contrario i ricoveri ordinari aumentano col dimi148
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LE DISEGUAGLIANZE DI ACCESSO AI SERVIZI SANITARI
nuire del titolo di studio (anno 2009). Anche per i ricoveri in urgenza il tasso di ospedalizzazione di coloro che hanno bassi titoli di studio è maggiore rispetto a più istruiti.
Figura 4. Tasso di ospedalizzazione standardizzato per DH vs ricoveri ordinari per titolo di studio, 100.000 abitanti anno 2009
Fonte: nostra elaborazione
Patologie sensibili alle cure ambulatoriali: tra tali patologie vengono considerate per l’analisi diabete, scompenso, bpco e polmonite.
Considerando la variabile titolo di studio, il tasso di ospedalizzazione generale è più alto nei meno istruiti (sono considerati i ricoveri
dai 20 ai 74 anni compresi).
Anche all’interno delle Aziende la proporzione si mantiene inalterata qualsiasi sia la patologia considerata. Comunque si riscontrano variabilità sensibili se si considera l’area geografica: la zona che
ricovera di meno è la Valle del Serchio, 89 ricoveri per 100mila residenti a confronto con l’alta Val di Cecina che arriva a 339.
L’accesso comprende anche l’informazione sui servizi: da una ricerca basata su interviste campionarie sulla soddisfazione dei pazienti, è risultato che la percentuale dei pazienti che non si ritengono informati aumenta con il diminuire del titolo di studio.
Alla domanda “Conosce l’Ufficio relazioni con il pubblico della
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Figura 5. Tasso di ospedalizzazione standardizzato per diabete, scompenso,
BPCO, polmonite per titolo di studio, 100.000 abitanti anno 2009
Fonte: nostra elaborazione
sua Azienda?”. Il 52 per cento dei più istruiti ha risposto affermativamente, mentre solo il 10 per cento dei meno istruiti conosce questo servizio; quanto alla sua utilizzazione si va da un 10 per cento
dei più istruiti a poco più dell’uno nei meno istruiti. Ancora, sulla
cortesia degli operatori,i meno soddisfatti sono i laureati.
Nel percorso materno-infantile si confermano diseguaglianze simili. La partecipazione al corso di preparazione alla nascita è senza
dubbio influenzata dal titolo di studio delle madri: il 100 per cento
delle madri prive di titolo di studio non ha frequentato il corso,
mentre il 70 delle madri laureate lo ha frequentato (anno 2007).
Tabella 1. Percentuali di soddisfazione sulle informazioni in merito ai servizi offerti dalla Asl di riferimento anno 2010
Fonte: nostra elaborazione
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LE DISEGUAGLIANZE DI ACCESSO AI SERVIZI SANITARI
Dove si posiziona il Governo italiano
Secondo l’Action Spectrum delle diseguaglianze in salute e nell’accesso ai servizi vari sono i passaggi che un Governo deve affrontare al fine di posizionare le diseguaglianze in salute come una delle
priorità da affrontare all’interno della programmazione sanitaria nazionale e regionale. La prima esigenza è avere degli indicatori a supporto per esplorare se queste diseguaglianze esistono. Una volta accertate, posso ignorarle o affrontarle; in quest’ultimo caso ci si può
bloccare, pensare che come servizio sanitario non posso fare niente,
spetta al welfare, all’istruzione aumentare l’accesso alla scuola per
risolvere tutto. Oppure posso prendere delle iniziative isolate, per
poi strutturarle, alla fine arrivare ad azioni di policy coordinate e
complete. In uno studio sulle iniziative dei Governi nei Paesi europei, per l’Italia erano stati selezionati questi documenti: Programma
di ricerca nazionale in collaborazione con la Regione Piemonte sul
monitoraggio delle diseguaglianze socioeconomiche, 1991, il libro
di Costa-Faggiano “L’equità delle salute in Italia”, Il Piano sanitario
nazionale 98-2000, il Programma di ricerca nazionale 2000-2002
sulle diseguaglianze, un documento della Commissione nazionale di
Bioetica “Orientamenti bioetici per l’equità nella salute a Roma”.
L’Italia, insieme alla Francia, in questo documento si posizionava
tra i Paesi “preoccupati”; gli altri, esclusa la Lituania e la Grecia che
dovevano ancora porsi il problema, erano già impegnati a studiare e
cercare di risolvere il problema
Il problema nei Piani sanitari
Mentre l’interesse è in aumento, di fatto si è creato un blocco
perchè i Piani sanitari non danno spazio alle diseguaglianze. Con
qualche eccezione: in Toscana con la sanità di in iniziativa si è fatto
un grande passo in avanti nel considerare le diseguaglianze stesse
come termini di pianificazione dei servizi territoriali sanitari. L’Inghilterra, invece, è il Paese che ha sviluppato una politica completa
e coordinata, nel 98 è stato pubblicato il primo “Studio sulle diseguaglianze”e a distanza di tre anni sono stati stabiliti due macro
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SARA BARSANTI
obiettivi di equità in salute da raggiungere entro il 2010.
Il Governo inglese, presieduto dall’allora Primo Ministro Tony
Blair, stabilì nel febbraio del 2001 a livello nazionale due obiettivi
per la riduzione delle diseguaglianze in salute[1]. In particolare i
due obiettivi riguardano:
1. Ridurre entro il 2010 di almeno il 10% il divario tra il tasso di
mortalità infantile tra i gruppi di popolazione più poveri, identificati con i lavoratori manuali, e la popolazione nel suo complesso.
2. Ridurre entro il 2010 di almeno il 10% il divario nella speranza
di vita tra il quintile con la speranza di vita alla nascita più bassa
e la speranza di vita alla nascita della popolazione nel suo complesso.
Tali macro target, come suggeriscono le evidenze scientifiche,
possono essere raggiunti da una serie di interventi specifici che possono avere un impatto specialmente sulle popolazioni più svantaggiate. I principali interventi che possono contribuire a colmare il divario nell’aspettativa di vita sono:
• Ridurre il fumo specialmente tra i lavoratori manuali.
• La prevenzione e la gestione dei rischi per le malattia coronariche e il cancro, come la cattiva alimentazione e l’obesità, l’inattività fisica e l’ipertensione attraverso efficaci interventi di cure
primarie e di salute pubblica – in particolare il targeting per età
superiore ai 50 anni.
• Migliorare la qualità degli alloggi per affrontare freddo e umidità, e la riduzione degli infortuni in casa e sulla strada.
Gli stessi target nel 2003 entrano a far parte di tutta la programmazione del Governo nazionale e locale, sono inclusi nel 2004 nel
“Libro bianco” sulla salute inglese, nel 2006 sono tra le prime 6
priorità del sistema sanitario nazionale come target di equità e nel
2008 è stato stilato un rapporto sui progressi fatti per il raggiungimento di questi obiettivi.
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LE DISEGUAGLIANZE DI ACCESSO AI SERVIZI SANITARI
Bibliografia di riferimento
Bravemann Paula (2003), “Monitoring equity in health and healthcare: a
conceptual framework” Journal of Health, Population and Nutrition
21:181-192.
Cislaghi C. (1994), “L’equità nel sistema Sanitario italiano” in Costa et al.
“L’equità nella salute in Italia. Rapporto sulle disuguaglianze sociali in
Italia”. Fondazione Smith Kline, Franco Angeli Editore.
Costa G., Faggiano F. a cura di (1994), “L’equità nella salute in Italia. Rapporto sulle disuguaglianze sociali in Italia”. Fondazione Smith Kline,
Franco Angeli Editore.
Costa G. et al. (1998), “Storie di salute in una grande città” Torino, Ufficio
di Statistica.
Barsanti S., Nuti S. (2006), “Equità ed accesso nel percorso materno infantile” in corso di pubblicazione su Salute e Territorio, Dicembre 2006.
Maciocco G. et al. (2006), “A caro prezzo.le disuguaglianze in salute. Secondo rapporto dell’Osservatorio Italiano sulla Salute globale” Edizioni ETS.
Mapelli V. (1992), “Bisogni di salute, scelte dei consumatori ed equità: una
ricerca empirica”, Workshop di Economia Sanitaria.
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program for action. Department of Health, United Kingdoom, 2001.
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Percorsi di integrazione sociale
Giulia Capitani
Scuola Superiore Sant’Anna, MeS
Il progetto “Immigrati e salute: percorsi di integrazione sociale”
è diviso in due parti: una parte di rilevazione e analisi di dati quantitativi e una seconda parte che ha l’obiettivo di rilevare, secondo una
metodologia qualitativa, altri tipi di dati che poi vorremmo integrare con quelli di tipo quantitativo. La metodologia scelta è quella del
focus group, che di fatto è un metodo di tipo qualitativo di raccolta
dei dati finalizzati a una determinata indagine e in particolare è una
sorta di intervista collettiva che si fa a un gruppo omogeneo di persone sulla base di una traccia, più o meno approfondita, per fornire
stimoli ai partecipanti; normalmente è una traccia di domande o di
argomenti. Nell’ambito di questo progetto noi realizzeremo ventotto focus group, dodici con persone straniere residenti o comunque
presenti nei dodici territori delle Aziende sanitarie e sedici con operatori sanitari o amministrativi individuati dalle Aziende sanitarie e
ospedaliere
Abbiamo scelto la metodologia del focus group perché rispetto alle interviste individuali, garantisce che durante la discussione si
creino delle catene associative tramite l’interazione dei partecipanti.
In altri termini, riesce a riprodurre in qualche modo il processo di
formazione delle opinioni visto che anche quelle personali individuali, sono comunque influenzate dall’esterno e si formano soprattutto nell’ambito di un sistema di relazioni. Il focus group, tramite la
discussione tra persone, consente che si riproduca lo stesso meccanismo e questo determina il fatto che si ottengano normalmente
molte più informazioni rispetto a quelle di un’intervista individuale:
di conseguenza la ricerca può andare molto più veloce e si ottengono più spunti di riflessione. Ovviamente ci sono anche dei punti di
debolezza, in particolare mi premeva sottolineare la difficoltà nel
confronto tra i dati emersi. Abbiamo predisposto delle griglie di do155
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GIULIA CAPITANI
mande e di argomenti per condurre i focus group, quello che però
regolarmente succede, l’abbiamo già sperimentato nei primi focus
group, è che la griglia in qualche modo viene cambiata, salta l’ordine degli argomenti, o gli argomenti stessi. Già questo è un risultato
del focus group perché, pur rimanendo chiaramente nell’ambito dell’indagine, è importante vedere qual è l’ordine di priorità che il
gruppo dà ai temi scelti, che non necessariamente corrisponde alla
nostra ipotesi di ricerca. Quindi, direi che ogni focus group di fatto,
in qualche modo, reinventa e rifabbrica la propria griglia. Questo
pone ovviamente dei problemi a livello di analisi, dato che si tratta
di confrontare i risultati di discussioni che, pur vertendo sullo stesso argomento, sono piuttosto libere. L’obbiettivo di questi focus
group era quello di registrare l’opinione, da una parte, degli operatori delle Aziende sanitarie, che sono più a contatto con l’utenza
straniera e, dall’altra, quella di un campione, ovviamente non rappresentativo a livello statistico, di persone straniere che usano o potenzialmente possono usare i servizi di una determinata Azienda, su
una serie di questioni che noi come gruppo di ricerca, basandoci su
precedenti esperienze, sul confronto e sulla letteratura, abbiamo
identificato come cruciali.
Per quanto riguarda il focus group con gli operatori sanitari abbiamo individuato tre aree di interesse.
La prima area è cosa sanno gli operatori sanitari in generale del tema immigrazione, cioè, quanta consapevolezza hanno delle condizioni di vita e di salute, anche a livello molto generale, di questi
utenti che sempre più frequentemente accedono ai loro servizi.
La seconda area, che chiaramente è quella che ci interessava di
più, riguarda la comunicazione e relazione con gli utenti immigrati,
cioè cerchiamo di capire che esperienze hanno avuto gli operatori
delle Aziende rispetto alla questione della comprensione con i pazienti immigrati, principalmente dal punto di vista delle difficoltà
linguistiche – quali sono i problemi, quali le eventuali soluzioni che
hanno escogitato –, ma anche sul piano più profondo, diciamo della
relazione, vale a dire tutta quella sfera che va a toccare il tema “atteggiamento” e, di conseguenza, “pregiudizio” e “preconcetto”, da
ambo le parti.
La terza area doveva indicarci come gli operatori si muovono su
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questo tema all’interno del sistema Azienda, cioè, a prescindere dal
loro vissuto personale, che cosa la loro Azienda ha messo in campo
su questo tema, che strumenti gli ha fornito, se li ha forniti, e soprattutto ci siamo focalizzati sul tema della comunicazione interna,
ovvero quanto i singoli operatori sanno di quello che l’Azienda fa
rispetto a questo tema.
Per quanto riguarda i focus group con gli immigrati, il primo tema, molto macro, riguarda l’accesso ai servizi sanitari, e soprattutto
quali fonti di aiuto o di informazione sono disponibili rispetto alle
difficoltà incontrate.
Abbiamo chiesto a queste persone una valutazione, il più possibile oggettiva, rispetto alle cure ricevute o alle prestazioni che sono
state loro erogate, quindi una valutazione in termini di qualità del
servizio ricevuto, distinto dalla comunicazione e dalla relazione con
gli operatori sanitari, che è il terzo punto nella nostra scaletta immaginaria: qual è il vissuto di queste persone nell’ambito della relazione con il personale sanitario e amministrativo, che esperienze hanno
avuto, che opinione si sono formati.
Per quanto riguarda la costituzione di questi focus group, per
quanto riguarda gli operatori sanitari abbiamo proposto un elenco
di ruoli e di funzioni alle Aziende, che abbiamo scelto sulla base dei
dati che avevamo a disposizione da parte delle ASL, cioè quali sono
i Reparti, i servizi, le aree, più interessate dalla presenza straniera.
Per quanto riguarda invece i focus group con le persone immigrate,
abbiamo chiesto la collaborazione dell’“Albero della Salute”, che è
la struttura di riferimento per la promozione della salute dei migranti dell’Assessorato Diritto alla Salute; noi volevamo per ognuno
dei dodici territori un gruppo di migranti il più possibile vario perché in questo modo ci sembrava di poter coprire tutte le possibili
cause di accesso ai servizi sanitari. Abbiamo quindi chiesto che ogni
gruppo fosse rappresentativo il più possibile per nazionalità (infatti
abbiamo chiesto di coprire le prime quattro nazionalità, proprio
perché è vero che le prime tre sono praticamente identiche in tutti i
territori, mentre è la quarta normalmente che caratterizza i diversi
territori) e poi che fosse il più possibile vario, per sesso, per età, per
livello di integrazione socio-lavorativa e, se possibile, anche per condizione giuridica. Ovviamente sappiamo che è molto difficile avere
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come partecipanti ai focus group delle persone non in regola con il
permesso di soggiorno, questo è assolutamente scontato perché evidentemente si tratta di persone innanzi tutto che hanno altre priorità e che difficilmente riescono a stabilire un rapporto di fiducia tale
da poter partecipare a un’attività che è in qualche modo comunque
un’attività di indagine, ci è già capitato però di avere ex irregolari,
poi sanati. Comunque faremo una valutazione , da una parte, di tipo verticale, cioè, per ognuna delle Aziende metteremo a confronto
i risultati dei due focus group, operatori e immigrati, per vedere appunto se ci sono aree di sovrapposizione, convergenze, divergenze,
quindi, secondo una logica che possiamo definire territoriale. Faremo anche un confronto trasversale, orizzontale, cioè, metteremo a
confronto tutti i focus group tra operatori sanitari e tutti i focus
group tra immigrati, secondo una logica più funzionale.
Ecco qualche prima impressione sui primi due focus group che
ho condotto, “migranti” e “operatori”della stessa Azienda. Per
quanto riguarda il focus group con gli immigrati, innanzi tutto sono
emersi alcuni elementi che confermano una serie di informazioni
che già avevamo rispetto al profilo dei partecipanti. In alcuni casi, si
evidenzia un forte isolamento e la perdita delle reti familiari e sociali, che peraltro è un’evidente determinante dello stato di salute. Una
signora senegalese ha dato un grande contributo a questo focus
group nel raccontare la sua esperienza di ricovero e poi altre esperienze di accesso ai servizi, ribadendo continuamente la fatica del
trovarsi qui senza legami, senza rete, e concludendo con la frase
“nessuno vuole essere in un posto dovenon ha nessuno della sua famiglia” a conferma di quanto raccontato. Devo dire che però rispetto
a questa esperienza, che comunque era condivisa anche da altri partecipanti, se non altro nella prima fase del loro percorso migratorio,
c’è stata anche evidentemente una risposta organizzata, direi creativa, cioè, la costituzione di associazioni a base etnica. Almeno tre
delle persone che hanno partecipato al focus group infatti avevano
fondato o comunque facevano parte di associazioni a forte caratterizzazione etnica, che sicuramente hanno una funzione orientativa e
informativa rispetto ai migranti neo arrivati, ma soprattutto rispondono a un bisogno di relazione: in qualche modo compensano lo
spaesamento e l’isolamento che colpiscono molto spesso le persone
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straniere che arrivano qui, a meno che non arrivino seguendo catene migratorie codificate o tramite il ricongiungimento familiare.
Un’altra cosa resa evidente da questo focus group è che a fronte
di alcune persone piuttosto isolate, che comunque raccontavano un
forte vissuto di solitudine, ce ne erano altre che chiaramente avevano seguito precise catene migratorie: in un territorio, per esempio in
una Provincia toscana, arrivano sempre persone che in qualche modo si richiamano. Con i migranti cinesi si vede moltissimo: in una
stessa zona in Italia si trovano persone che provengono dallo stesso
territorio, addirittura a volte dallo stesso quartiere della stessa città
nel Paese di origine. Questo è un fenomeno che abbiamo riscontrato in questo primo focus group, rafforzato poi dal ricongiungimento
familiare, per cui c’erano soprattutto donne marocchine e albanesi
che dimostravano, dopo alcuni anni dall’arrivo in Italia, di aver ricostruito un contesto relazionale importante: sposate, con figli, fratelli, cognati, erano riuscite a far arrivare i genitori, dimostrando la
volontà di insediarsi qui, di considerare “casa” il posto in cui sono
arrivate. Altra cosa, la perdita dello status sociale che purtroppo segue nella quasi totalità dei casi il percorso migratorio, soprattutto a
causa della difficoltà del sistema italiano, ma direi europeo, del riconoscimento dei titoli di studio, per cui anche le persone più qualificate non riescono a trovare un’occupazione che corrisponda al loro
livello di istruzione. Una signora senegalese ha raccontato: io a Dakar lavoravo all’Anagrafe e qui mi tocca lavorare alla conceria a battere le pelli. Non aveva nessun atteggiamento di disprezzo verso l’attività che faceva, però in Senegal lavorava all’Anagrafe come impiegata, forse come quadro, e qui si trova a lavorare in conceria. E questo
è un dato di fatto.
Un’altra testimonianza significativa è stata data da un ragazzo
georgiano che durante tutto il focus group, durato tre ore, ha ripetuto più volte, con un atteggiamento estremamente polemico nei confronti degli altri partecipanti, che raccontavano episodi di intolleranza o di razzismo di cui si sentivano in qualche modo vittime, ora
o in passato, che sono gli stranieri che si devono adattare, che devono
imparare l’italiano, non sono gli italiani che devono sforzarsi. Ora, è
evidente che gli stranieri debbano imparare l’italiano, è senz’altro il
primo step dell’integrazione (poi spesso e volentieri sul territorio
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non ci sono corsi di italiano organizzati in modo tale da rispondere
alle loro esigenze), ma quello che mi ha colpito era il fatto che questa persona si facesse completamente carico delle difficoltà del suo
percorso d’integrazione. È la strategia che si definisce di iperadattamento: quando una persona straniera arriva, soprattutto se arriva
sola e non ha quindi una rete che ne aiuta l’inserimento, normalmente vive due passaggi:la prima fase è quella che si definisce dell’arroccamento, che probabilmente molti operatori sanitari conoscono, cioè il ripiegamento sulla propria identità culturale fino a esasperarla: il rifiuto di imparare la lingua italiana, una sorta di rigidità,
di chiusura sulla propria appartenenza perché evidentemente è l’unico elemento di stabilità di fronte a un contesto completamente
nuovo e spiazzante. Nel giro di pochi mesi spesso queste persone
rovesciano questo atteggiamento con un altro se vogliamo molto
più pratico, ma che comunque non è un atteggiamento di equilibrio, che è appunto la fase dell’iperadattamento: se mi voglio adattare devo diventare come loro, devo negare la mia diversità e assumermi tutte le difficoltà di questo mio percorso. Chiaramente entrambi sono atteggiamenti estremi e fanno parte di questa categoria
che in letteratura si chiama “stress da transculturazione”, che semplicemente è il vissuto di forte tensione, di frustrazione, che a volte
si controlla, a volte sfocia in somatizzazioni, a volte purtroppo anche in un disagio di tipo psichico che colpisce la persona straniera
che arriva in un contesto nuovo e deve rinegoziare la propria identità, da una parte non volendo rinunciare a quello che ha lasciato,
ma, dall’altra, evidentemente anche dovendo modificare delle parti
di sé, e questa è una cosa estremamente faticosa. Altre persone sostengono: non capivo niente e sono stata trattata malissimo. Una signora della Costa D’Avorio raccontava di un episodio accaduto alla
sorella: presentatasi dal medico con delle bolle su una mano, si è
sentita rispondere io quella pelle non la tocco; ovviamente la signora
ha associato questo episodio al fatto di essere di colore. L’ultimo caso è di una ragazza rumena, che poi è diventata mediatrice culturale, che ha raccontato: io volevo andare da un medico del Servizio sanitario nazionale, ci tenevo perché dovevo fare un controllo di routine, mi ricordo un’esperienza bruttissima per cui da quel giorno in poi
il Servizio pubblico l’ho evitato per anni.
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Il tema del rapporto con gli operatori sanitari è in assoluto al
centro della discussione, cioè, essere curati bene, essere trattati bene, sono due dimensioni inscindibili, anche quando abbiamo chiesto sforzatevi di separarle, inevitabilmente si intrecciano, anche questo non è tanto culturale, e vale anche per noi.
Le barriere nell’accesso dei servizi
Quello che ci ha colpito è la mancanza sostanziale di consapevolezza dei propri diritti da parte di queste persone, soprattutto per
quello che riguarda l’accesso degli immigrati irregolari. Un uomo
che è stato irregolare, dice: io ho fatto una tappa da immigrato illegale, quando sei clandestino lo Stato non ti cura, mentre sappiamo che
non è così. In un gruppo di rumene nessuna sapeva dell’STP, nessuna aveva mai acceduto a nessun servizio della zona pensando di non
averne diritto.Una signora albanese che lavora come mediatrice, ci
ha chiesto durante il focus group: ma perché, gli irregolari hanno diritto a cure?, facendoci capire che c’è anche un problema di formazione.
Le barriere organizzative Ci sono persone che dovendo pagare il
ticket hanno rinunciato alle cure. Oppure , questa è la frase emblematica: io non posso andare dal medico di base perché lavoro, quindi il
problema degli orari, di organizzare i servizi soprattutto territoriali
in modo che possano corrispondere alle esigenze di queste persone.
Le barriere comunicative. Ho chiesto quanto è importante capire
bene la lingua per essere curati bene:chiaramente ti dicono che tutti
i problemi sono di comunicazione, tutto si risolve se ci si capisce.
La valutazione comunque, a prescindere da questi problemi, è
complessivamente positiva, tutti rispondono positivamente alla domanda: vi fidate dei medici italiani? Mi ha un po’ intristito la forte
difficoltà nell’ottenimento delle informazioni, alla domanda: chi vi
ha in qualche modo orientato, dove avete ottenuto le informazioni?
Tutti rispondono: nessuno, il passaparola, e questo è un punto di criticità da tenere ben presente.
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Gli operatori
Il tema più discusso è l’atteggiamento delle persone straniere, al
di là dei problemi di comunicazione. Un medico di base dice: con i
cinesi non si riesce ad avere un rapporto, non si riesce mai a capire bene la situazione, sono chiusi, glielo dico, non ci prendiamo in giro, si
scambiano i libretti, per cui è presente un vissuto non solo di difficoltà, ma anche di frustrazione rispetto a una situazione che non si
riesce bene a capire. Un medico di Pronto Soccorso osserva che: sono tutti arrabbiati quando arrivano da noi, la sensazione è che si sentano già discriminati Tante volte però, nei racconti degli operatori,
l’atteggiamento degli utenti è di chi pretende. Lo stesso medico dice
una cosa molto significativa: nella relazione con gli extracomunitari,
ho un problema di ordine pubblico. Se c’è caos è quasi sempre l’extracomunitario che comincia, fa notare lo stesso medico, sono spesso uomini, albanesi o rumeni: invece un senegalese può anche avere
un piede spappolato sta ad aspettare (ma noi due giorni prima avevamo fatto un focus group in cui c’era un senegalese infuriato che invece aveva creato molti problemi, questo a dimostrare quanto le categorizzazioni si rivelino quasi sempre inesatte). Infine c’è un’infermiera dell’Ostetricia, che un po’ sovvertendo tutto quello che dicevano i colleghi sulla difficoltà di rapporto con la comunità cinese,
ha detto: i cinesi sono organizzatissimi e sono efficienti, a me piacciono molto.
In generale si può dire che il tema della fiducia nel rapporto medico-paziente emerge in modo cruciale:questi utenti, soprattutto
quelli più difficilmente intercettabili, possono essere disponibili solo se si instaura un rapporto di fiducia personale con il medico. Lo
racconta un medico di base che dice: entri nella comunità se hai una
persona di riferimento, lo racconta il medico del Consultorio che è
andato a fare visite domiciliari facendosi conoscere e che comunque
ha stabilito un contatto con una signora cinese che vive lì da tempo,
lo racconta l’infermiera del Consultorio che dice: se ci siamo io e la
dottoressa, ci conoscono e non c’è problema, ma se c’è qualcun altro
non si fanno vedere. Perché il rapporto con gli utenti immigrati sia
davvero efficace è necessario individuare interlocutori presso le cosiddette comunità, cosa che di fatto già avviene per libera iniziativa
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degli operatori, in modo spontaneo e informale. Si riscontra però
una sostanziale difficoltà di comunicazione interna all’Azienda, soprattutto per quanto riguarda il passaggio di informazioni sull’esistenza e l’attivazione di servizi di mediazione. In un’Azienda che ha
un servizio di mediazione da molti anni, anche se in questo momento lo ha ridimensionato per mancanza di fondi, alla domanda: quando arriva un paziente straniero che cosa fate?, sinceramente mi aspettavo che gli operatori dicessero “chiamiamo il mediatore”, invece
hanno risposto: ci arrangiamo. Comunque prevale una forma di mediazione impropria, fatta dai cosiddetti accompagnatori, dai familiari – i cinesi che arrivano con il telefono e hanno qualcuno che parla
italiano –, rispetto all’utilizzo dei servizi di mediazione aziendale.
Questo è quello che dice il medico di Pronto Soccorso: se non c’è
l’accompagnatore usiamo un manuale, gli facciamo vedere le parole,
se no sono sempre al telefono con qualcuno che parla italiano, altrimenti gli facciamo vedere le cose sul computer. Si nota un grande
sforzo organizzativo da parte degli operatori, ma evidentemente
manca o non è sufficiente una risposta organizzata da parte dell’Azienda.
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La salute dei migranti
Francesca Santomauro
Scuola Superiore Sant’Anna, MeS
La priorità di un SSN di tipo universalistico e solidaristico, quale
quello italiano, dovrebbe essere quello di contrastare le crescenti
diseguaglianze nella salute svolgendo un ruolo di advocacy per i
gruppi più vulnerabili e realizzando modelli assistenziali in grado di
dare una risposta efficace ai bisogni di salute di tutti.
Tra i gruppi più vulnerabili ci sono gli immigrati e una questione
sicuramente cruciale per il loro stato di salute riguarda l’accessibilità e la fruibilità dei servizi sanitari. L’accessibilità dipende soprattutto dalla normativa, la fruibilità invece dipende dalla capacità culturale dei servizi di adeguare le proprie risposte a quelle che sono le
richieste da parte di utenti “differenti”. Gli immigrati, infatti, hanno
una difficoltà in più ad accedere ai servizi sociosanitari, soprattutto
a causa di barriere burocratiche e culturali che non gli permettono
di districarsi all’interno dei servizi che possono essere loro offerti.
Molto spesso succede anche che non c’è, da parte degli stranieri, la
conoscenza dei propri diritti e la capacità di farli valere. Per rendere
efficaci i servizi, intraprendere nuove politiche di salute per gli immigrati e contrastare le diseguaglianze nell’accesso alle cure, che
hanno ricadute negative sulla salute degli immigrati e dell’intera
collettività, è importante conoscere e capire il fenomeno migratorio,
i bisogni di salute degli stranieri e come sono organizzate le Aziende
sanitarie per rispondere ai bisogni di questa fascia di popolazione.
Al primo gennaio 2010, secondo i dati ISTAT, la popolazione italiana era di 60.340.328 (3.730.130 in Toscana). Sempre al primo gennaio 2010 gli stranieri residenti in Italia erano 4.235.059, in Toscana
338.746, quindi, oltre l’8% degli stranieri presenti in Italia risiedono
in Toscana, una delle Regioni in cui c’è il maggior afflusso di persone
straniere. In linea con quello che succede a livello nazionale, in Toscana il numero degli stranieri è in costante aumento e al 1° gennaio
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Figura 1. Popolazione di stranieri residenti sul totale dei residenti al 1°
gennaio 2010 - Italia e Toscana.
2010 rappresenta il 9,1% della popolazione, valore che si conferma
costantemente superiore rispetto a quello italiano (figura 1).
Muovendo dal livello regionale a quello delle singole Province
(figura 2) notiamo come il maggior numero di presenze, secondo un
valore assoluto, si registri nella Provincia di Firenze, dove risiedono
più del 30% degli immigrati di tutta la Regione e che dimostra così
la sua importante e consolidata capacità attrattiva.
Tra i territori prescelti dai migranti per stabilire la propria residenza si distingue al secondo posto, ma con una netta distanza da
Firenze, la Provincia di Arezzo, il cui territorio accoglie il 10,5%
dei cittadini stranieri residenti nella Regione, attestandosi su valori
poco superiori alle Province di Pisa e Prato; la Provincia di Massa
Carrara invece con il 3,8% fa registrare il più basso numero di presenze straniere.
I valori assoluti, pur importanti per delineare una cornice di riferimento rispetto al contributo che le singole Province esercitano sul
numero complessivo dei residenti in Toscana, non rappresentano
un indicatore efficace per comprendere il peso della presenza straniera sulla popolazione delle aree provinciali. Indagando quest’ultimo aspetto s’incontrano valori che ci mostrano quanti cittadini, su
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Figura 2. Distribuzione stranieri residenti nelle province toscane al 1° gennaio 2009.
cento residenti, siano di origine straniera e ne risulta un quadro assai diverso rispetto alla situazione precedentemente raffigurata.
Guardando all’incidenza la Provincia di Prato sorpassa e distacca
quella di Firenze di oltre due punti percentuali, riconfermando lo
storico primato regionale, conseguito nel 2000, per numerosità di
residenti stranieri nel proprio territorio rispetto alla popolazione residente (figura 3).
La normativa a livello nazionale, ma anche quella regionale, dà
tutte le indicazioni e il supporto che occorre ma molto spesso questo non basta per poter dare risposte su quali sono i bisogni di salute degli immigrati, qual è la domanda di salute, espressa e inespressa, in termini di accesso e utilizzo del sistema sanitario da parte degli stranieri, e ancora risposte a domande quali: il sistema sanitario
risponde effettivamente in maniera integrata ed univoca a tali popolazioni? Esistono margini di miglioramento?
Per poter dare parte delle risposte a queste domande è stato messo a punto uno studio esplorativo, “Immigrazione e salute, percorsi
di integrazione sociale”.
Uno degli obiettivi di questo studio è proprio quello di conoscere, attraverso un percorso esplorativo, come i servizi rispondono ai
bisogni espressi ed eventuali bisogni inespressi di tali popolazione:
tale analisi è strutturata in due principali fasi. La prima riguarda
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FRANCESCA SANTOMAURO
Figura 3. Percentuale stranieri residenti sul totale dei residenti nelle Province toscane al 1° gennaio 2009.
un’analisi sul campo dei servizi dedicati e non agli immigrati, attraverso una mappatura dei servizi fino ad oggi offerti all’interno del
sistema sociosanitario toscano. La seconda fase invece prevede la ricerca e lo studio di eventuali best practices a livello sia nazionale che
internazionale al fine di poter cogliere dalle esperienze di maggior
successo possibili margini di miglioramento e riorganizzazione all’interno del sistema sanitario toscano.
Per ricavare queste informazioni siamo dovuti intervenire a tre livelli: a livello aziendale, per capire il coinvolgimento dei vertici
aziendali rispetto a questo fenomeno, a livello amministrativo per
vedere quali erano i servizi per gli immigrati, sia quelli territoriali
dell’ASL, sia quelli ospedalieri, sia come ASL che come Azienda
ospedaliera universitaria.
A livello amministrativo abbiamo chiesto, alle 12 ASL e alle
Aziende ospedaliere universitarie (Careggi, Meyer, Pisana e Senese),
di indicarci il numero totale di stranieri iscritti al Servizio sanitario
regionale e di fornirci una serie storica a partire dal 2000, il numero
degli stranieri stratificato per nazionalità e per età (0-5, 6-14 e maggiore di 14 anni, per avere informazioni sulle fasce dei bambini in
età prescolare e scolare) e suddiviso per zona-Distretto, il numero
di tessere STP (Straniero Temporaneamente Presente) rilasciate
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Figura 4. Stranieri iscritti al SSR nel 2009 per fasce di età in Toscana.
presso le strutture aziendali, siano esse ASL o AOU con la serie storica a partire dal 2000.
La percentuale degli stranieri non iscritti al Servizio sanitario regionale sul totale degli stranieri residenti è pari a 17,3%.
Dividendo gli iscritti per fasce di età, in Toscana vediamo come
quasi l’80% ha un’età maggiore di 14 anni e circa il 9,5% e quasi
l’11% fra 0-5 anni e 6-14 anni (figura 4).
Analizzando i dati delle singole ASL, la situazione sembra essere
abbastanza uniforme, però c’è la percentuale di popolazione degli
oltre 14 anni che appiattisce un po’ gli istogrammi (figura 5).
Riportando su un istogramma solo le prime due fasce d’età, quella prescolare e quella scolare, quel circa 9,5% e 10%, che abbiamo
visto per la popolazione toscana in generale, non si ritrova uniformemente in tutte le ASL. Basta vedere, ad esempio, il dato dell’ASL
4 di Prato in cui i bambini al di sotto dei sei anni superano addirittura il 14%, lo stesso a Empoli dove si riscontrano percentuali molto più elevate rispetto alla media regionale (figura 6).
Dai dati ISTAT risulta che il 38% della popolazione dei residenti
in Toscana ha un’età compresa tra 6 e 14 anni, il 27% tra 0 e 5 anni
e il 35% ha più di 14 anni e che la percentuale degli ultraquattordicenni stranieri sale a oltre l’80%. Dai dati che ci hanno fornito le
ASL risulta che gli ultraquattordicenni iscritti al sistema sanitario
regionale sono l’80%, l’11% ha un’età fra 6 e 14 anni e il 9% fra 0 e
5 anni (figura 7).
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FRANCESCA SANTOMAURO
Figura 5. Stranieri iscritti al SSR nel 2009 per fasce di età e per ASL.
Figura 6. Stranieri iscritti al SSR nel 2009 per fasce di età e per ASL.
Il dato totale di tutta la Toscana mostra come nelle tre fasce d’età
considerate la percentuale di stranieri non iscritti è notevolmente
diversa da fascia a fascia, con una percentuale che arriva quasi al
20% di non iscritti negli ultraquattordicenni, si riduce moltissimo
fra i 6 e i 14 anni, ed è circa del 10% fra 0 e 5 anni (figura 8).
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LA SALUTE DEI MIGRANTI
Figura 7. Residenti, stranieri residenti e iscritti al SSR nel 2009 per fasce
di età.
Figura 8. Stranieri residenti iscritti e non iscritti al SSR nel 2009 per fasce
di età.
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FRANCESCA SANTOMAURO
Osservando il numero di stranieri iscritti per ASL si osserva che
l’ASL 10 di Firenze è quella che ha il maggior numero di iscritti, seguita da Arezzo e Prato (figura 9). Negli anni l’andamento temporale degli stranieri iscritti al Servizio sanitario è in continuo aumento,
con un incremento maggiore a partire dal 2008 in alcune ASL, soprattutto in quelle di Livorno, Firenze e Prato (figura 10).
Figura 9. Stranieri residenti iscritti al SSR nel 2009 per ASL.
Figura 10. Andamento temporale degli stranieri residenti iscritti al SSR nel
2009 per alcune ASL.
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LA SALUTE DEI MIGRANTI
Figura 11. Tessere STP rilasciate nel 2009 per ASL.
Le tessere STP possono essere rilasciate dalle AOU, dagli Ospedali delle ASL e dai servizi territoriali. Il numero di tessere STP rilasciate nel 2009 è risultato molto elevato nell’ASL 4 di Prato, seguita
da Firenze, Empoli e Pisa (figura 11). Per quanto riguarda l’andamento temporale delle tessere STP rilasciate in alcune ASL, si notano dei picchi dovuti probabilmente al fatto che sono entrate in vigore delle normative che hanno regolarizzato gli stranieri come è
successo ad esempio nel 2003 che ha causato un crollo temporaneo
del numero di tessere STP (figura 12).
Per ciascun servizio territoriale per gli immigrati (quelli dedicati
o comunque prevalentemente fruiti da essi) ci è stata fornita una descrizione dettagliata con riferimento a quale personale lavora all’interno di queste strutture, per quante ore, la tipologia di rilevazione
dei dati, se questi sono informatizzati o cartacei, eccetera; è stato
inoltre chiesto il numero di accessi, la nazionalità dei fruitori e altre
informazioni che stiamo ancora elaborando. In nove ASL sono presenti servizi ambulatoriali generalisti per STP attivati a partire dal
2000 con modalità diverse (personale ad hoc, medici dipendenti,
medici di famiglia, convenzione con volontariato e/o terzo settore
ed altro. Le ASL nelle quali non sono presenti servizi ambulatoriali
generalisti per STP sono quelle di Massa, Lucca e Arezzo.
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FRANCESCA SANTOMAURO
Figura 12. Andamento temporale delle tessere STP rilasciate in alcune ASL
nel 2009.
Come si può osservare nella figura 13, la ASL 10 di Firenze è
quella che offre un maggior numero di servizi territoriali (ambulatori STP, ostetrico-ginecologici, malattie infettive, consultori pediatrici), mentre nelle altre non c’è una grossissima presenza di
servizi territoriali. Naturalmente a un elevato numero di servizi
territoriali non sempre corrisponde un altrettanto elevato accesso
alle strutture: a Prato, ad esempio, c’erano solo quattro servizi territoriali per stranieri ma il numero di accessi è molto elevato e supera anche quello di Firenze. Inoltre, c’è una situazione molto varia tra le ASL.
È stato chiesto inoltre alle ASL di fornirci i dati dei consultori
ostetrico-ginecologici per l’utenza generale, consultori ai quali si rivolge anche la popolazione straniera. La percentuale di stranieri che
accede a questi consultori è risultata pari al 21%. Naturalmente tale
percentuale aumenta laddove non ci sono servizi territoriali dedicati.
Molti altri dati richiesti sono in fase di elaborazione.
Per poter garantire alla popolazione immigrata il diritto alla salute occorre ottimizzare l’efficacia dei servizi migliorando l’informazione sul loro funzionamento, attuare una strategia di offerta attiva,
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LA SALUTE DEI MIGRANTI
Figura 13. Accessi ai consultori ostetrico-ginecologici per l’utenza generale
in totale e per ASL.
e infine occorrono pratiche con sicure ricadute positive per gli stranieri, specie per coloro che sono più vulnerabili.
Saper rispondere ai bisogni delle fasce più deboli dal punto di vista socio-economico è un buon indicatore dell’efficacia di un sistema sanitario. Rendere il sistema più flessibile nelle risposte permette
di migliorare efficienza ed efficacia nei confronti di tutti cittadini.
Molto è stato fatto, qualcos’altro stiamo facendo, ma a mio parere molto deve essere ancora fatto e non mi resta che ribadire l’importanza di un lavoro multidisciplinare che da tempo si invoca nell’ambito sanitario dove sono previste diverse professionalità che
spesso non si incontrano. Il tema dell’immigrazione può e deve essere un’occasione per un lavoro comune.
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L’impegno per il rispetto dei diritti umani
Andrea Bassetti
Medici per i diritti umani - MEDU
“Medici per i diritti umani” (MEDU) è un’associazione di solidarietà internazionale, di volontari, che opera sia in Italia che all’estero e l’obiettivo fondamentale è quello di far rispettare il diritto alla
salute e quindi permettere l’accesso alle cure per le persone che vivono nell’emarginazione sociale collaborando sempre con il servizio
sanitario pubblico. Questo è uno dei principi fondamentali perchè
non cerchiamo di fare una sanità parallela, ma di far capire alle persone come si usufruisce del sistema sanitario pubblico già presente
sul territorio.
All’estero abbiamo dei progetti in Ecuador, Colombia e Cisgiordania, dove il nostro principio è di valorizzare i partner locali, il servizio sanitario che già esiste in quel Paese; MEDU è il tramite sia
per i finanziamenti, sia per il monitoraggio e coordinamento del
progetto per sviluppare nuove pratiche di salute pubblica che rendano indipendenti le comunità beneficiarie che vivono su quei territori e che possono usufruire del proprio servizio sanitario.
In Italia, il progetto si chiama “Un camper per i diritti”, è attivo
dal 2006 e negli anni abbiamo costruito delle reti qui in Toscana. A
Firenze in particolare con la ASL, l’Agenzia regionale di Sanità,
l’Ordine dei medici, ed è nostro obiettivo lavorare insieme al servizio pubblico per migliorare l’accesso alle cure di chi vive in contesti
di emarginazione.
Come metodologia di intervento decidiamo le zone dove intervenire facendo un monitoraggio epidemiologico, cercando di capire
quali comunità ci vivono e cerchiamo di creare un rapporto di fiducia, cercando di capire il Paese di provenienza, le credenze, la religione, il tipo di rapporto con il sistema sanitario del Paese di origine, che è fondamentale. Al nostro interno, infatti, non siamo solo
medici, ci sono tra noi operatori sanitari di varie discipline, infer177
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ANDREA BASSETTI
mieri, ostetriche, psicologi, abbiamo anche un team di antropologi e
di laureati in legge, avvocati o giuristi, che ci aiutano soprattutto
sulla parte normativa. Per ogni paziente compiliamo una scheda sia
clinica che anagrafica, quindi raccogliamo tutte le notizie riguardanti la loro salute, se hanno la tessera sanitaria o il permesso di soggiorno, che tipo di accesso alle cure hanno avuto, se si rivolgono
sempre al Pronto Soccorso oppure se conoscono gli ambulatori
STP (Straniero Temporaneamente Presente) sul territorio. Cerchiamo quindi di avere una prima idea sul loro modo di utilizzare il nostro servizio e in casi selezionati decidiamo di accompagnare noi
stessi le persone quando ci sono dei problemi, di solito burocraticoamministrativi, e le persone non conoscono ancora bene l’italiano
ma di solito cerchiamo di rendere indipendenti le persone sull’utilizzo del servizio. Il nostro progetto è attivo, è chiaramente a tutto
tondo, ci occupiamo dei senza fissa dimora e una comunità che abbiamo incontrato è quella rom rumena.
Una delle problematiche principali che noi incontriamo quando
si parla di diritto alla salute e di accesso alle cure per le comunità
rom che vivono negli insediamenti spontanei è quella degli sgomberi. L’area della ex Osmatex, dove viveva da molti anni la comunità
rom rumena che abbiamo seguito con il progetto è stata sgomberata
l’anno scorso (gennaio 2010) e si è verificata una situazione d’emergenza perché comunque si è creato un problema per settanta persone che si sono ritrovate per la strada dall’oggi al domani. Questo è
un problema anche per noi che operiamo nelle loro abitazioni, perché anche se è una discarica a cielo aperto la considerano la propria
casa. È veramente difficile in questi casi anche mantenere il rapporto di fiducia che si era instaurato perchè quando ci si ripresenta a
volte ci hanno detto: è colpa vostra, allora è meglio rimanere invisibili perché altrimenti vengono fuori problemi e ci mandano via.
Mi dispiace come fiorentino, ma se fosse stata un’altra comunità
in un’altra città l’indignazione sarebbe stata forse maggiore; tra l’altro a livello nazionale i rom sono stati considerati un’emergenza per
decreto ministeriale, come un uragano o un terremoto.
In un altro degli insediamenti dove era attivo il progetto è andato
a fuoco un capannone rivestito di amianto sotto al quale erano costruite le baracche di circa quaranta persone, che sono rimaste a Fi178
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L’IMPEGNO PER IL RISPETTO DEI DIRITTI UMANI
renze e sono andate a vivere tutte in un insediamento, ora sono cento. I problemi che noi rileviamo sul territorio sono presenti soprattutto per questa comunità. Ci sono scarse condizioni igienico-sanitarie che noi denunciamo continuamente anche andando nelle Amministrazioni pubbliche. Di solito questi insediamenti sorgono sempre in zone di confine dove è difficile individuare di quale Amministrazione comunale sia la responsabilità, MEDU continua a denunciare queste situazioni di degrado e abbandono sociale ma la risposta da parte delle Amministrazioni è solo quella dello sgombero. Incontriamo molte difficoltà per riusciare in qualche modo a far regolarizzare le persone da un punto di vista sanitario o con la tessera
STP; quando si interviene con gli sgomberi rimane tutto sepolto
sotto le baracche e le persone perdono quello che avevano, compresi i referti medici. Ciò è ancora più grave se si pensa che la risposta
che noi abbiamo ottenuto al nostro intervento con queste persone è
molto buona.
I nostri dati (vedi grafici 1 e 2) confermano che l’utenza che abbiamo incontrato in questi anni è molto ricettiva e dopo la prima visita, in cui spieghiamo alle persone come ottenere la tessera STP e a
cosa serve, alle visite successive, quando rincontriamo le stesse persone, queste hanno fatto la tessera. Da quel momento diventa più
facile poter indirizzare chi ha bisogno agli ambulatori evitando accessi impropri al Pronto Soccorso. Questi dati ci confortano perché
si vede che comunque è un lavoro che funziona.
Grafico 1. Tessera sanitaria alla prima visita
Dopo gli sgomberi si perde tutto, la fiducia delle persone, il materiale sanitario, la propria abitazione.
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ANDREA BASSETTI
Grafico 2. Tessera sanitaria acquisita all’ultima visita
Quando sono stato da queste persone, nel loro insediamento mi
sono sempre sentito accolto come andando a casa dai miei amici,
eppure c’erano topi, buchi nel muro, amianto, perché ora vivono in
container ricoperti amianto. Questo per farvi capire come l’ospitalità sia molto importante per loro. A volte ci dimentichiamo che sono
delle persone.
Ci sono tanti pregiudizi sui rom, per avere un’idea in Italia, rispetto agli altri Paesi europei, i numeri non sono eccezionali, non
possono essere considerati un’emergenza. La comunità rom più
grande a livello europeo è quella della Romania che, in seguito anche all’entrata di questo paese nell’Unione Europea, sono arrivati
qui da noi in Italia. Le persone della comunità rom rumena che abbiamo conosciuto in questi insediamenti spontanei a Firenze provengono quasi tutte dalla stessa città, dallo stesso quartiere. Sono
nuclei familiari che si spostano, spesso sono marito e moglie e dopo
un breve soggiorno tornano in Romania e portano gli anziani o i loro figli. Sono dei nuclei familiari che cercano comunque di insediarsi qua in Italia, dove hanno intenzione di cercare di ricostruirsi una
vita dato che in Romania hanno diversi problemi, quindi non si può
pensare che sia un problema che si risolve con lo sgombero. La
maggioranza di loro sono analfabeti perché in Romania sono discriminati e hanno serie difficoltà nell’accesso alle cure, alla scolarizzazione, al lavoro. Il problema è là, tant’è che nei Paesi dell’est Europa hanno implementato dei programmi di inserimento lavorativo,
scolastico, ecc dei rom, perché la comunità è veramente numerosa.
Ci sono dei finanziamenti previsti per l’inserimento nelle scuole, per
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L’IMPEGNO PER IL RISPETTO DEI DIRITTI UMANI
facilitare l’accesso ai servizi sanitari, però questi programmi sono
ancora molto indietro a quanto è riportato in letteratura.
Per loro l’Italia è un Paese dove si può fare fortuna, si può stare
bene, si può ricrearsi un nuova vita e invece anche qui trovano molti pregiudizi, molti ostacoli. Nessuna delle persone che abbiamo incontrato durante le nostre uscite, alla prima visita, era regolarizzata
da un punto di vista amministrativo, ovvero, nessuno di loro aveva
la tessera STP. Nel nostro lavoro ci concentriamo più al diritto alla
salute e a individuare quali sono i problemi che le persone incontrano quando vogliono rivolgersi al servizio sanitario, poi chiaramente
si aprono delle finestre su tanti aspetti, lavoro, scuola e altro. Volevo
soffermarmi su alcuni aspetti della Romania per farvi capire che comunque rispetto all’Italia ci sono delle grosse problematiche di salute come un forte ricorso all’interruzione volontaria di gravidanza,
si rilevano dei picchi dovuti al fatto che sono cambiate le leggi che
permettevano o meno l’interruzione volontaria di gravidanza in Romania; comunque sono numeri sempre molto più elevati rispetto a
quelli italiani, quindi, lo considerano un metodo a cui ricorrere
spesso. La mortalità materna è una delle più alte in Europa. Anche
la mortalità infantile ha un valore molto elevato, rispetto all’Italia e
alla media dei Paesi europei, la speranza di vita è di dieci anni più
bassa, questo è un dato del 2006, era confrontabile quindi ho messo
questo gli Ospedali hanno meno attrezzature. Questa che vi ho illustrato rappresenta la situazione dei rumeni in generale, in Romania i
rom hanno dei problemi ancora maggiori di accesso alle cure, di
discriminazione. Per esempio interi villaggi a volte vengono, o sono
stati, presi d’assedio dalle comunità non rom. C’è una forte corruzione del personale medico. Ci hanno raccontato che per una visita
ambulatoriale, semplice, di base, il medico chiede un prezzo, una
tassa e le persone se non pagano, non hanno la visita, però paradossalmente questa richiesta di denaro, l’abbiamo analizzato con l’antropologo, viene vista come una bravura del medico. Quando andiamo lì e li visitiamo, ci dicono: ma voi non siete bravi, non ci chiedete nemmeno i soldi e poi dammi la pasticca, cioè, è associato dare i
soldi, prendere la pasticca e andare via. Noi invece andiamo lì, li visitiamo, e se hanno mal di testa, spieghiamo loro che c’è da misurare la pressione. C’è un iter da seguire in Italia che funziona così e
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quindi anche quando andrete all’ambulatorio troverete questo tipo di
persone e di medici che faranno in questo modo. Questo è uno dei
motivi, una delle tante spiegazioni, che posso dare a chi poi si ritrova magari al Pronto Soccorso. Tutti gli altri indicatori, della mortalità, materna, infantile e generale, sono tutti più alti rispetto a quelli
medi della Nazione e la cosa che colpisce è il dato relativo alla copertura sanitaria: nessuno di loro è iscritto in Romania al Servizio
sanitario nazionale, quindi, nessuno ha la tessera europea è per questo che in Toscana sono stati equiparati agli stranieri non comunitari (STP).
Altre notizie sempre discusse e rilevate con l’antropologo: questa
comunità specifica dei rom rumeni non ha una medicina tradizionale, e quindi fruisce del servizio che c’è nel Paese dove sono arrivati e
comunque fanno continui viaggi tra Firenze e la Romania, stanno
tre, quattro mesi, poi tornano, magari vanno a trovare i figli, la famiglia, poi tornano in giù magari con il figlio che sta male perché
sanno che qui c’è il Meyer che è un Ospedale per bambini molto
importante per loro.
La delibera della Regione Toscana tutti gli anni è stata rinnovata,
la difficoltà che noi abbiamo riscontrato quando siamo andati nella
comunità a dire: andate a fare l’STP, sono stati i primi due mesi dell’anno perché la delibera non era ancora stata rinnovata, questo è
stato un buco normativo che si è ripresentato regolarmente tutti gli
anni. Dall’anno scorso abbiamo subito iniziato preventivamente a
dire alla Regione di ricordarsi di rinnovarla prima che scadesse,
quest’anno ci hanno promesso che ci stanno già lavorando e che
non ci saranno problemi, ci terremo aggiornati perché poi c’è sempre qualcuno che ci viene a chiedere: ma allora mi dai la delibera almeno siamo tranquilli che i rumeni possono accedere all’STP? Speriamo che quest’anno non ci siano questi buchi normativi.
Questi sono alcuni dati che mostrano ciò che abbiamo rilevato,
sono nuclei familiari, quindi, pari proporzioni tra uomini e donne,
età giovane (vedi grafico 3), anche proprio per il discorso dell’età
media che vi dicevo, non vivono molto a lungo e questo è il dato,
per noi più importante, della buona risposta anche delle persone, comunque se vengono informate, se gli si spiega, si fidano, vanno a fare
la tessera, che è il primo passo per essere curate bene, nel modo ap182
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L’IMPEGNO PER IL RISPETTO DEI DIRITTI UMANI
propriato, senza che vadano a finire appunto ad aspettare ore al
Pronto Soccorso per una tosse, questo è il nostro obiettivo principale.
Grafico 3. Analisi per fasce di età
La mancata informazione sul diritto alla salute è il problema
principale che ci sottolineano anche loro, poi c’è il problema della
lingua, del tempo, sono tutti problemi ricorrenti, comuni e sicuramente di questi punti non ce n’è nessuno nuovo rispetto a quelli già
citati da altri operatori.
Abbiamo fatto delle interviste anche agli operatori dei nostri servizi sanitari, perché per MEDU è importante lavorare con gli operatori, anche perché noi stessi siamo operatori che lavorano nei servizi
pubblici.
Quando siamo nei servizi abbiamo poca possibilità di andare noi
a conoscere queste comunità, e abbiamo comunque bisogno di conoscenze più appropriate sulla normativa, a volte anche noi stessi
non siamo al corrente di procedure burocratiche o amministrative;
è importante anche conoscere il servizio di mediazione linguistico –
culturale a cosa serve e come si attiva; questi aspetti sono sicuramente da potenziare.
I dati che abbiamo elaborato mostrano che le patologie più frequentemente riscontrate negli insediamenti sono quelle dell’apparato digerente e respiratorio, correlate strettamente alle scarse condizioni igienico-sanitarie, infatti quando viene freddo e loro abitano
in quelle baracche, effettivamente hanno tutti tosse, bronchite. Le
malattie infettive costituiscono una bassa percentuale, però bisogna
dire che quando ci sono, sono di difficile gestione, come la tubercolosi o la scabbia. Riuscire ad attuare una prevenzione, dei contatti,
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ANDREA BASSETTI
uno screening dei contatti o la ricerca dei contatti, diventa difficile
per gli operatori a cui arriva la notifica dell’igiene pubblica perché
non conoscono dove abitano, quindi, diventa proprio difficile la gestione di queste malattie e questo lascia aperta poi la discussione e
la riflessione. Riguardo alla salute sessuale e riproduttiva, c’è sempre il problema delle gravidanze, nessuno screening effettuato dalle
donne, come metodi contraccettivi sono utilizzati la spirale e la legatura delle tube.
Nel 2009 abbiamo partecipato ad un progetto nazionale, sempre
di orientamento e informazione, in cui abbiamo elaborato un opuscolo. L’idea è nata insieme ad una antropologa e ad una mediatrice
culturale: l’opuscolo racconta la storia di un matrimonio, quindi,
tramite messaggi positivi sul mondo rom, sulla loro cultura, abbiamo fatto passare il messaggio di non fumare, non bere, però tutto
con un approccio narrativo. È piaciuto, abbiamo condiviso con loro
i disegni, ce li hanno consigliati loro, per esempio, c’è il nonnino al
matrimonio che doveva avere il cappello, noi lo avevamo disegnato
senza ed era un grave errore. I punti di forza sono stati il coinvolgimento della comunità, il mediatore e partecipare insieme al gruppo
per far sì che i messaggi passassero. I prossimi passi saranno il maggior coinvolgimento delle Istituzioni, i contatti con la Regione e con
l’ARS. Questi contatti con il mondo pubblico siamo riusciti ad ottenerli negli ultimi anni, siamo riusciti con il tempo a farci conoscere
e a far capire che comunque affrontiamo problematiche importanti.
Devo dire, con sensibilità veramente buone perché la Regione Toscana si è offerta di ascoltare anche delle proposte che possono essere fatte, l’ARS ha collaborato nell’elaborazione dei dati fornendoci un database, l’Ordine dei medici ci conosce, stiamo lavorando
sempre di più insieme e questo è veramente un risultato positivo.
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La situazione degli immigrati in Toscana
Francesco Cipriani
Coordinatore dell’Osservatorio di Epidemiologia
Agenzia regionale di sanità della Toscana
Lavorando per sette anni al servizio di Epidemiologia a Prato,
dove c’è un’alta presenza di immigrati, ho dovuto interessarmi necessariamente dell’immigrazione. E così è per i medici, soprattutto
del Pronto Soccorso, che avevano un problema pressoché quotidiano con gli stranieri. Nella Tab. 1 sono riportate le fonti sullo stato di
salute degli immigrati in generale Ci sono le fonti delle informazioni
demografiche: l’ISTAT, l’Anagrafe comunale e l’Anagrafe sanitaria
degli assistibili, l’Ufficio scolastico provinciale per i bambini, e le
Questure con i permessi di soggiorno. Salterò tutta la querelle di
che cosa ci sta sul permesso di soggiorno, con il problema della registrazione dei minori e dei ricongiungimenti familiari e la durata
del permesso di soggiorno, normalmente di sei mesi e con tutti i
suoi problemi di discrezionalità. Immaginate poi a Prato, con i cinesi che sono difficilmente distinguibili l’uno dall’altro, con la questione delle fotografie, dei riconoscimenti, di chi è il dichiarante e così
via. Quindi, grande difficoltà ad avere certezza anche di questi numeri elementari: quanti sono?. Poi ci sono le fonti soprattutto di dati sanitari: l’Agenzia regionale di sanità (ARS), l’Osservatorio sociale
regionale, poi c’è l’INAIL con gli infortuni, la Caritas che dà degli
elementi di tipo più sociale, poi alcuni gruppi di medici che si occupano di situazioni più marginali (MEDU - medici per i diritti umani), e ambulatori sanitari particolari per immigrati irregolari (ambulatorio Stenone), e l’IRPET con le informazioni sulle attività economiche degli immigrati. Anzi IRPET ha un vero e proprio Osservatorio anche sul sito, e la stessa cosa ce l’ha il Comune di Prato, che ha
un Osservatorio sugli immigrati con dati anche regionali. E poi c’è
anche l”Albero della Salute”, che è un’istituzione però più orientata
agli aspetti culturali, antropologici. Molte quindi sono le istituzioni
che in Toscana hanno dati sugli immigrati, non sempre correlate pe185
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FRANCESCO CIPRIANI
rò l’una con le altre. Ognuno fa un pezzo di strada e poi si scopre
che l’ha fatto anche quell’altro. C’è ancora poco coordinamento
nella diffusione di dati simili. I dati ci sono, non mancano, sono pure troppi, anche su questo specifico argomento. Poi vediamo invece
la loro qualità, ed è un po’ come con i dati della Società della Salute. Ormai abbiamo più di cento indicatori di tipo sanitario sul nostro sito web per le Società della Salute, ed altrettanti indicatori sociali li ha messi l’Osservatorio sociale regionale. Quindi, ci sono indicatori per fare Profili di salute di tutti gli ambiti territoriali per i
nostri miseri tre milioni e settecentomila abitanti in Toscana, che
poi è poco più di una mezza metropoli. C’è quindi una grande
quantità di dati, pure troppi. Il problema adesso non è più di trovare i dati, che era una difficoltà tipica di anni fa, ma di interpretarli e
dar loro un senso. A Prato abbiamo prodotto quattro Profili di salute e la polemica intorno a questi documenti, pur belli e ben fatti,
non era più sulla la mancanza di dati, che rendeva difficile decidere
e programmare, ma piuttosto sulla carenza degli interventi. Abbiamo prodotto questi profili, immagini, disegni, grafici, tendenze, evidenziando problematicità e criticità, e abbiamo fotografato e filmato il fotografabile e il filmabile. Poi però dopo non è più compito
dell’epidemiologo. Dopo occorre il passaggio all’azione.
Le tipologie di stranieri presenti
Intanto ci sono gli stranieri che risiedono regolarmente iscritti
all’Anagrafe comunale, e loro si iscrivono con gli stessi criteri con
cui si iscrivono gli italiani. Poi ci sono i permessi di soggiorno, che
sono temporanei, di durata variabile e ce l’hanno le Questure, ma
recentemente anche le Province in copia, anche se non in tutte le
Province. In alcuni posti hanno fatto dei gruppi di lavoro congiunti
tra Provincia, Comuni e Questure, ed hanno aperto degli uffici che
aiutano la Questura al rilascio e alla registrazione dei permessi di
soggiorno ed a ciò che c’è scritto nel permesso di soggiorno. A Prato, per esempio si comincia ad avere l’idea anche di quanti sono i
familiari di quelli con i permessi di soggiorno. Poi ci sono gli stranieri irregolari, definiti STP nelle Asl (Stranieri Temporaneamente
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LA SITUAZIONE DEGLI IMMIGRATI IN TOSCANA
Presenti), che è una situazione che viene registrata a livello sanitario. L’STP va allo sportello dell’Asl dove può essere che non c’è
un’unica procedura di registrazione con un metodo univoco per
tutti i servizi. A Prato, a dire il vero qualche anno fa, feci una revisione delle procedure usate in tutti gli sportelli della stessa ASL, e
verificammo che sportelli in punti diversi facevano cose un po’ diverse. Col tempo però le cose si sono fatte più omogenee. In ogni
caso, alla persona che lo richiede, se non regolarmente residente,
viene dato un codice e un cartellino STP e tutte le volte che fa un
atto sanitario dovrebbe portarlo con sè, ma se non lo porta non
succede nulla di particolare perché gli viene dato un altro codice
STP. Quindi è possibile che con i codici STP noi contiamo le stesse
persone tante volte. Inoltre, c’è anche una differenza tra gruppi etnici nella propensione ad iscriversi al SSN con o senza il codice
STP. Cioè, regolari o irregolari. Per esempio, sempre a Prato, c’era
un gruppo di marocchini che si registravano più volentieri all’ASL,
anche come STP, in qualche forma, dando qualche documento,
perché conoscendo la natura degli italiani, avevano imparato che in
caso di sanatoria, sarebbe servito un documento che attestasse la
presenza sul territorio da almeno “x” anni o tempo, ed il documento sanitario poteva costituire l’unica prova di questo. Invece altri
gruppi etnici sono diffidenti rispetto all’iscrizione e registrazione
nei servizi sanitari, e solo in caso di gravi malattie si rivolgono al
servizio sanitario. Quindi, questo codice STP chissà cosa rappresenta veramente. Poi ci sono i dati sui minori a scuola, e l’Ufficio
scolastico provinciale ha invece dati più sicuri e completi su tutti i
bambini registrati. E poi c’è da ricordare la distinzione importante
tra uno straniero che viene da un Paese a forte pressione migratoria (PFPM), cioè i Paesi più poveri, ma ci può essere anche uno
straniero da Paesi a sviluppo avanzato (PSA), come un tedesco,
francese, giapponese, che magari è qui per motivi di lavoro, e poi
magari si sposa e rimane qui, e questo è un altro tipo di straniero
ovviamente.
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Gli aspetti demografici
Gli stranieri sono in forte aumento e ci sono salti nella curva di
crescita nel corso degli anni, perché c’è un problema di regolarizzazione, per cui improvvisamente si vedono aumentare solo in quanto
vengono registrati perché non sono più irregolari. Come nel caso
dei rumeni, che sono diventati comunitari e quindi gli irregolari
presenti nel territorio sono diventati regolari. Gli stranieri regolarmente residenti, cioè iscritti alle Anagrafi comunali, sono distinti
per ogni Provincia (Tabella 1). A Prato c’è il 13% di stranieri e a
Tabella 1. Stranieri regolarmente residenti in Toscana per Provincia al 1
gennaio 2010 – Fonte: Istat, 2010.
N
%
Var %
2007-2009
Prato
31.450
12,7
+ 12,4
Firenze
103.979
10,5
+ 22,7
Provincia
Siena
27.977
10,3
+ 26,4
Arezzo
35.513
10,2
+ 21,3
TOSCANA
338.746
9,1
+ 23,1
Pistoia
26.132
8,9
+ 21,5
Grosseto
19.093
8,4
+ 30,5
Pisa
33.652
8,1
+ 25,5
Lucca
26.502
6,8
+ 26,6
Livorno
21.676
6,3
+ 27,0
Massa-Carrara
12.772
6,3
+ 27,6
Firenze l’11%, quindi il grosso sta nell’area metropolitana, mentre
le variazioni percentuali maggiori negli ultimi anni hanno riguardato quelle aree che tradizionalmente avevano meno stranieri, mentre
dove erano già tanti è ovviamente minore il tasso di incremento. Ma
in numeri assoluti sono di meno. Le nazioni più rappresentate sono
la Romania, da quando è diventata comunitaria, poi l’Albania, la
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Cina ed il Marocco. Queste quattro rappresentano il grosso degli
stranieri presenti in Toscana, ma la loro distribuzione è un po’ diversa per Provincia. Romania, Albania e Marocco sono un po’
ovunque più o meno le prime tre etnie, con qualche eccezione, come a Prato dove la Cina è il primo gruppo. Dal quarto posto in poi
ci sono maggiori differenziazioni territoriali. A Grosseto c’è un
gruppo macedone percentualmente importante, ma sono pochi in
assoluto gli stranieri, così come gli ucraini a Livorno e a Grosseto, i
nati in Bangladesh e India ad Arezzo. A Pistoia gli albanesi sono impiegati nei vivai, mentre i cinesi hanno fatto un loro gruppo a Prato
e anche a Firenze sono abbastanza rappresentati, soprattutto a San
Donnino. Ci sono dei cluster ben conosciuti a livello territoriale. C’è
poi la presenza dei minori, identificati in vario modo. Questa diapositiva riporta la percentuale di stranieri minori sul totale degli stranieri. Sono di più a Prato e a Firenze, in genere perché è da più
tempo che i gruppi etnici si sono insediati qui, e ci sono quindi dei
fenomeni demografici dinamici differenti.
Chi si occupa di dati sanitari sugli stranieri sono gli stessi che lo
fanno per gli italiani, per tutti i cittadini. Nei nostri archivi, che poi
sono gli archivi sanitari di tutti i cittadini che ci sono in Regione, ci
sono i soggetti che le Aziende sanitarie registrano con il codice fiscale trasformato in un codice anonimo che si chiama “iduni”, che è un
codice nuovo inventato che però è sempre uguale per la stessa persona. Quindi, per esempio, Francesco Cipriani nell’Asl è registrato
sempre con il codice fiscale, ma questo, quando va in Regione con le
informazioni sanitarie attaccate, è trasformato in un nuovo numero
identificativo – iduni appunto – che per Francesco Cipriani sarà
sempre quello. I dati individuali con questo numero “iduni” rende
del tutto anonima la persona, perché non abbiamo il codice fiscale.
Siccome però il codice “iduni” è sempre lo stesso per la stessa persona, possiamo tracciare tutti gli eventi sanitari che la riguardano: ricovero, prescrizione di farmaci, prestazioni ambulatoriali e specialistiche, esenzioni per patologia, esiti di gravidanza, decesso, ecc.
Nel codice fiscale ci sta una parte dell’informazioni, negli ultimi tre
numeri, che permette di capire se è straniero. E quando uno straniero si ricovera, c’è un campo “cittadinanza” che il medico dovrebbe
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riempire nel modulo di dimissione al ricovero. Ma il medico già ha
problemi a codificare la causa del ricovero, figurarsi la cittadinanza .
Gli ultimi tre numeri del codice fiscale per gli stranieri corrisponde
al Paese di nascita, quindi da quello si può ricostruire la cittadinanza. E all’anagrafe sanitaria degli assistiti c’è pure il campo sul Paese
di nascita che il cittadino straniero ha dichiarato, ed anche la durata
del tempo di immigrazione. Questo per gli stranieri regolari, ma anche per gli irregolari, anche se l’informazione non sta nella parte del
codice fiscale, perché l’irregolare ha come prime tre cifre “STP”
(Straniero temporaneamente presente). Con un po’ di lavoro ed incroci, cose che dentro gli archivi dell’Asl è possibile fare, si può riuscire ad identificare quanti e chi sono gli stranieri. Bene per i regolari, meno bene per gli irregolari. Basta farseli scaricare dalle tecnologie informatiche dell’Asl, e poi lavorarci su. È possibile farlo, ma
l’hanno fatto in pochi, come a Prato, perché lì il problema è serio.
Invece a livello regionale, noi ARS, abbiamo serie difficoltà a
identificare lo straniero e la sua cittadinanza proprio perché questo
codice che ci mandano, non è più un codice fiscale ma un codice
numerico qualsiasi. Dunque devo basarmi solo sulla codifica di cittadinanza fatta dal medico in occasione del ricovero e non posso fare incroci più di tanto con altri archivi, come invece si può fare nell’Asl. E sugli stranieri ci sono anche errori di codifica, sbagli del medico o dell’amministrativo o dimenticanze. I loro nomi sono difficili
da scrivere e da capire. Spesso non si sa quale è il nome e quale il
cognome, ecc. Quindi, i dati che abbiamo sui ricoveri e su tutte le
altre prestazioni sanitarie degli immigrati, come le farmaceutiche, le
ambulatoriali, le esenzioni, gli infortuni, si basano su questa codifica
da parte degli sportelli sanitari e non delle anagrafi comunali. E a
differenza di prima, questa legge sulla privacy che ci impone il numero individuale che non è il codice fiscale, ha fatto sì che a livello
regionale i dati per tracciare certe tipologie di popolazione, come
gli stranieri, sono peggiori di quelli che hanno le Aziende sanitarie,
che possono contare anche sul codice fiscale. Perciò i servizi di Epidemiologia delle Asl e gli staff delle Direzioni aziendali possono elaborare foto demografiche e sanitarie di migliore qualità, messe a
fuoco meglio di quello che non facciamo noi a livello regionale. Si è
detto che c’è una differenza nell’attitudine degli stranieri a registrar190
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si al servizio sanitario; un’indagine che facemmo a Prato nel 2008,
mostra come tra i cinesi regolarmente residenti, soltanto il 50% si è
registrato in uno sportello del SSN. L’abbiamo verificato incrociando gli stranieri presenti nelle Anagrafi comunali con quelli presenti
nell’Anagrafe degli assistiti dell’Asl. Non tutti i Comuni però forniscono i dati anagrafici con la stessa facilità, anche se il Sindaco è titolare della salute dei residenti nell’Asl. Quindi, anche se Asl e Comune per la salute dei cittadini sono un po’ la stessa cosa, non sempre il pur volenteroso Sindaco del Comune “X” riesce a superare le
preoccupazioni di privacy del funzionario responsabile della sua
Anagrafe. Facendo questi incroci nel rispetto delle regole della privacy, si vede bene che ci sono delle cittadinanze che non si iscrivono
proprio al SSN, pur regolari e residenti. I cinesi infatti se possono
fanno tutto da sé, anche se adesso cominciano a venire sempre più
in alcune specialità mediche, ma non in altre. Per esempio si fidano
poco dell’Ortopedia perché loro usano tecniche di immobilizzazione con le canne di bambù, perché più flessibili, usano poco il gesso.
Invece per altre specialità si fidano molto dei nostri medici. Anzi
ora c’è una forte richiesta di sanità di tipo occidentale. Sono stato in
Cina per lavoro, e tra i loro grandi miti c’è la sanità occidentale e
quella italiana e francese in particolare.
Gli stili di vita
Sugli stili di vita di questi cittadini stranieri sappiamo invece pochissimo. E’ già difficile con gli italiani, quindi, si va a finire con le
poche indagini, tipo quelle che facemmo a Firenze sugli albanesi.
Erano centoquarantuno albanesi che si prestarono a rispondere, ed
era difficilissimo identificarli, contattarli e intervistarli. Tra le varie cose, chiedemmo il ricorso ai servizi sanitari e come si erano trovati e
così via. Sulle abitudini di vita veniva fuori che erano più fumatori dei
fiorentini, soprattutto le donne albanesi rispetto alle donne fiorentine, e il numero di sigarette fumate era molto alto. Ed i grandi bevitori
erano i maschi albanesi, tra i 18 e 30 anni, con valori di consumo di
alcolici intorno a 48 grammi dichiarati, che sono cifre molto elevate.
Ed infatti sappiamo che ci sono problemi su questi aspetti di fumo e
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alcool nel loro gruppo. Sono due problemi seri, magari non nell’immediato per il fumo, ma per l’alcool sì, e prima o poi si paga il conto.
Anche sui cinesi abbiamo fatto delle indagini, una cosa davvero molto complessa intervistare i cinesi, perché erano diffidenti, nonostante
le interviste fossero fatte da mediatori culturali cinesi. Appartengono
a culture diverse dalle nostre ed anche tra le loro ci sono differenze, e
certe cose non puoi chiedergliele in modo diretto come facciamo noi.
Per un cinese non è proprio il questionario come lo concepiamo noi
quello più adatto . Anche domande semplici che riguardano la vita
personale o familiare sono delicate da proporre direttamente. Io lo facevo all’inizio in Cina e vedevo il traduttore che parlava a lungo per
una domanda spesso breve, per esempio “che lavoro fa tua moglie?”
e gli chiedevo, “ma cosa gli stai traducendo?”, e lui mi rispondeva
“non ti preoccupare, qui bisogna fare così”.
L’Ospedale
A Prato, abbiamo preso tutti gli stranieri ricoverati che avevano
una residenza regolare, cioè iscritti all’Anagrafe comunale. Di questi
conosco la struttura per età e sesso e posso confrontare allora il loro
tasso di ospedalizzazione con quello degli italiani. Si vede che negli
stranieri regolari nel corso degli anni l’ospedalizzazione era in incremento, poi si è appiattita. Comunque in tutti gli anni gli stranieri si
ricoverano meno degli italiani. Su questo non c’è dubbio. Intanto
per diffidenza, cioè ancora oggi anche quelli regolari se possono lo
evitano, con differenze anche qui tra le varie cittadinanze, con
esclusione della gravidanza e del parto. Quasi metà degli episodi di
ricovero tra gli stranieri sono dovuti a parti, cioè, non sono ricoveri
per malattia. Quindi, se vogliamo capire le malattie per cui si ricoverano gli stranieri, dobbiamo togliere questi ricoveri per parto e ricalcolare i tassi di ospedalizzazione e allora si vede che la maggioranza degli accessi degli stranieri all’Ospedale è in regime di urgenza. Cioè, gli stranieri si ricoverano per il 73% in urgenza, contro il
60% degli italiani, quindi, in linea di massima, lo straniero va in
Ospedale se proprio non ne può fare a meno. Ma i tassi di ricovero
sono in diminuzione anche negli stranieri, così come negli italiani,
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per una tendenza delle nostre strutture a cercare di diminuire i ricoveri, e meno ricoveri ci sono, fino a un certo punto, e meglio funzionano le strutture e più salute si produce. Ad ogni età, comunque, ci
sono più ricoveri degli italiani, mentre nelle donne è il contrario, ma
questo perché tra i 15 e i 34 le femmine straniere partoriscono di
più delle italiane. Gli stranieri non sono mai più degli italiani, se
non per problemi perinatali, e si tratta con ogni probabilità di problemi di bambini nati in Ospedale, per gravidanza e per le malattie
infettive. La distribuzione è in percentuale perché non posso fare
tassi di ospedalizzazione perché non ho la popolazione completa al
denominatore, mi mancano gli stranieri non regolari, che invece ho
al numeratore (“STP”). Se poi faccio la standardizzazione solo per
gli stranieri regolari, eliminando gli irregolari dal numeratore, si vede, rispetto agli italiani, un tasso più elevato sempre per le malattie
infettive e per il parto. È rimosso l’effetto della probabilità di ricovero indotta dalla differente composizione per età degli italiani e
degli stranieri regolari. Se io levo anche la causa di ricovero correlata alla gravidanza, in percentuale vedo che tra gli stranieri ciò che è
più elevato rispetto agli italiani è il ricovero per malattie respiratorie
e gastrointestinali. E questo è un fatto consolidato. Cioè, lo straniero, essendo giovane, intanto è sano ed ha meno probabilità di ricoverarsi di un coetaneo italiano. Epidemiologicamente si parla di effetto migratore sano, perché lasciano il Paese di origine quelli più intraprendenti e motivati, che hanno più forza. e rimangono a casa i
più fragili. Questo si vede benissimo anche in Italia quando i siciliani migrarono verso il Piemonte a Torino. Ci fu una minore mortalità
della popolazione torinese legata all’arrivo di un imponente flusso
migratorio di giovani sani. Non tanto perché sono più giovani, ma
perché sono meno fragili. D’altra parte però soffrono di altri disturbi, magari non così gravi da indurre l’ospedalizzazione o tanto meno il decesso, per cui non li trovo negli archivi sanitari, ma ci sono
problemi psichici, di stress e disadattamento. Ecco il mal di stomaco, la dispepsia, i disturbi gastrointestinali, ed i problemi psico-somatici, si sarebbe detto qualche anno fa, ma anche per i cambiamenti di stile di vita, alimentazione per prima. E disturbi respiratori, perché vivono in condizioni ed abitazioni più disagiate, con più
frequenti polmoniti. E molti di questi disturbi non risultano dalle
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nostre statistiche, perché noi vediamo solo le cause più importanti
che comportano ricoveri e decessi. Questo è ciò che sappiamo della
salute di questi stranieri. Non sappiamo granchè altro dalle altre informazioni, come quelle farmaceutiche, dove il campo “cittadinanza” è recuperabile solo con tutte quelle operazioni di incrocio di archivi che abbiamo detto all’inizio e che posso essere fatte bene solo
nelle ASL.
La prevenzione
Cosa fanno gli stranieri ? Si vaccinano meno. Ma i cinesi, che fanno tutto meno dal punto di vista sanitario, invece rispetto agli altri
gruppi stranieri si vaccinano di più, la DTP, per la difterite-tetanopertosse, per l’epatite B, che adesso è obbligatoria in Italia, e per
l’MPR morbillo-parotite-rosolia. Delle vaccinazioni indicate, gli italiani le fanno sempre di più degli stranieri, ma i cinesi più degli altri
stranieri, perché si portano dietro la loro cultura igienistica e di prevenzione di sanità pubblica che nel loro Paese è molto diffusa. In Cina hanno tassi di vaccinazione più alti dei nostri, perché la vaccinazione è una cosa che assolutamente devono fare, quindi poi si vaccinano anche da noi. Poi si passa agli screening oncologici negli stranieri, altra cosa che non si può valutare sui dati a livello regionale.
L’abbiamo fatto nell’Asl di Prato, con grande difficoltà, e si vede che
per il Pap-test, ossia lo screening del tumore della cervice uterina che
interessa le più giovani (25-64 anni), tra quelle chiamate il 63% delle
italiane aderisce all’invito, rispetto al 30% delle straniere. Meno della metà. Naturalmente tra le cause di non partecipazione per gli stranieri ci sono anche problemi di correttezza dell’indirizzo e numero
civico, perché l’invito arriva a casa, ed arriva scritto in italiano. Poi si
sono fatti anche inviti scritti nelle cinque principali lingue, tra cui anche pakistano e cinese. Il tasso di adesione delle straniere è più basso
delle italiane. E nelle cinesi la percentuale di adesione è la più bassa,
quindi le cinesi partecipano poco a questo tipo di prevenzione oncologica. La vaccinazione sì, lo screening oncologico no. Le albanesi sono quelle che partecipano di più alla prevenzione oncologica del tumore dell’utero tra i vari gruppi etnici. Questi sono dati importanti,
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perché non è facile disporre di queste informazioni in altre zone e si
dimostra la differenza culturale tra etnie nel rispondere a uno stesso
invito. Lo screening per il tumore della mammella riguarda donne un
po’ più grandi (50-69 anni). Naturalmente si fa riferimento solo alle
straniere regolari, perché si scrive loro a casa, quindi, c’è un indirizzo ufficiale, magari vivono in Toscana o in Italia anche da più tempo.
Le italiane partecipano all’invito per circa l’80%, mentre le straniere
per il 36%. Quanto a risposte alla mammografia, di nuovo, le più alte per cittadinanza sono le albanesi, poi le polacche, le ucraine, insomma un po’ l’Est europeo, e di nuovo le più basse sono le cinesi,
ma anche le marocchine. Queste sono donne già da più tempo in
Italia perché sono un po’ più anziane, perché lo screening per il tumore della mammella è svolto tra i cinquanta e i settanta anni, mentre quello per l’utero sta tra i 25 ed i 65 anni. Lo screening del tumore del colon retto, interessa maschi e femmine. Di nuovo, partecipazione all’invito degli italiani al 52%, poco anche per loro a dire il vero, e neanche del 20% per gli stranieri. Con punte minime per la Cina. Interessante però è vedere la risposta all’invito allo screening in
base all’iscrizione al medico di Medicina generale; il 60% delle italiane che hanno scelto il proprio medico curante partecipano allo screening dell’utero, rispetto al 38% delle italiane che non hanno scelto il
medico. Come forse sapete ci sono anche degli italiani che non scelgono il medico, è una percentuale bassa, tra il 3 ed il 5% della popolazione. Evidentemente sono persone che fanno tutto da sé. O perché non stanno mai male, come accade soprattutto tra i giovani, oppure perché risolvono altrimenti i loro problemi sanitari. Già l’effetto di avere il medico comporta una tendenza diversa a rispondere all’invito, anche per gli stranieri. Partecipano allo screening oncologico
il 38% delle donne straniere che hanno scelto il medico e il 10% di
quelle che non lo hanno fatto, pur avendone diritto. Lo stesso si vede sulla base della durata di residenza. Per lo screening citologico
dell’utero si vede che le italiane passano da un’adesione del 55% se
presenti da meno di cinque anni ad un’adesione del 58% se da più
anni sono residenti nel territorio; per le straniere si va rispettivamente dal 35% al 39%. Quindi, sia per italiane che per straniere c’è un
aumento di adesione intorno a 4 punti percentuali con il passare degli anni di residenza. Un po’ meno per lo screening mammografico.
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Cioè, l’essere sul territorio da più tempo facilita i contatti, ti adatti e
vivi sempre più la vita degli altri e con gli altri.
Il parto
Altro dato sanitario, che interessa l’area materno infantile, e su
cui abbiamo più informazioni è il parto. C’è il certificato di assistenza al parto, da cui sappiamo che con questa tendenza delle donne
italiane rispetto alla riproduzione, il tasso di fecondità è molto basso
e ormai a limiti che non permettono il ricambio generazionale. Bisogna arrivare a due figli per donna per poter fare un ricambio generazionale, ed in questo ci aiutano gli stranieri. L’età materna al parto
per le straniere è più giovane rispetto alle italiane, ma è anche molto
variabile per cittadinanza. In Toscana si va dai ventisei anni delle albanesi ai trentuno anni delle filippine, valore questo che si avvicina
a quello di 33 delle italiane. Mediamente nei PFPM siamo sui ventotto anni, mentre nei PSA sui trentatre. La gravidanza è seguita in
Consultorio, in Ospedale e nello studio privato. Per il 5% non è seguita in nessuna struttura. Quelli che vengono dai PFPM tendono a
usare molto di più i Consultori, un po’ come sull’autobus dove si
vedono immigrati e anziani, mentre qui vedete che le italiane che si
fanno seguire la gravidanza ai Consultori sono il 12% rispetto al
65% delle straniere. Le italiane utilizzano lo studio privato (75%).
Passando al numero di visite in gravidanza, qui si vede anche che il
numero di visite che fanno le straniere è abbastanza vicino alle indicazioni raccomandate, quindi, vanno ai Consultori e poi seguono
anche le indicazioni che ricevono. Chi effettua meno di tre ecografie, che è lo standard di riferimento, sono più rappresentate nei
PFPM. Le cinesi soprattutto sono tra quelle che fanno meno di tre
ecografie per gravidanza, e qui si conferma il fatto che non hanno
tanto piacere di usare i nostri servizi, anche se le cose però stanno
cambiando, ma a Prato c’era un trend di forte incremento al ricorso
ai nostri servizi da parte degli stranieri, talmente forte da cominciare a mettere in crisi a volte la capacità di risposta, perché tutti i nostri servizi erano basati sugli italiani.
I bambini nati pretermine sono più frequenti nelle donne dei
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PFPM e questo è un problema di gestione di questi bambini con basso peso, di nuovo con forti differenze tra le varie cittadinanze, con le
filippine e le rumene che hanno una percentuale di pretermine sul
totale dei nati vivi doppio rispetto alle cinesi (10% rispetto al 5%).
Considerando l’interruzione volontaria di gravidanza (IVG), che ha
anche a che fare con le diverse attitudini nelle modalità di contraccezione dei gruppi etnici l’80% delle italiane non ha mai fatto ricorso
ad IVG, rispetto al 60% delle straniere. Quelle che vi hanno fatto ricorso 3 o più volte sono il 6% delle straniere e l’1,5% delle italiane.
Evidentemente è ancora un problema anche per le italiane, ma ci sono alcuni gruppi di cittadinanza per i quali questo avviene più frequentemente, con valori più elevati infatti nelle peruviane, russe e rumene, seguite dalle nigeriane e filippine. Dunque tutte le volte che si
parla di stranieri bisogna dire a quali stranieri ci si riferisce, perché
sono diversi tra loro ed i nostri clinici l’hanno imparato per i contatti
diretti e le esperienze sul campo. A Prato, per esempio, c’è un problema noto con i maschi pakistani per i quali la fertilità è un problema serio, quasi una fissazione secondo i nostri parametri. Cioè, quando cominciano a vedere che non nascono figli, entrano in grave difficoltà, tanto che possono arrivare anche nelle strutture psichiatriche a
prendere gli antidepressivi. Perché per il maschio pakistano non fare
figli per causa sua sembra la peggiore sventura che gli possa capitare
nella vita, cosa invece assai meno rilevante in altri gruppi etnici.
Conclusioni
Per definire la salute degli stranieri bisogna lavorare su tutti questi archivi, con questi problemi dei codici identificativi e di incrocio
dei dati a livello di Asl. Penso comunque che con più collaborazione con i gruppi locali che hanno i dati buoni, e le competenze locali
che spesso ci sono, ci si può lavorare bene. A volte c’è a livello locale carenza di una sorveglianza epidemiologica vicina e non si sa bene che bisogna andare a prendere quello specifico codice. In ogni
caso le procedure e le possibilità di una buona analisi statistica ci
sono, ed anche i dati ci sono, anzi, anche troppi. Si tratta di organizzarli e saperli interpretare. Non abbiamo presentato dati di mortali197
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tà degli stranieri, ma è possibile averli dal Registro regionale di mortalità dell’ISPO, che ha il dato della cittadinanza, mentre noi di
ARS siamo in difficoltà con questo nuovo codice anonimo, e quindi
non siamo in grado di fare valutazioni di mortalità sicure sugli stranieri. Però l’ho fatta a Prato, prendendo i dati locali, anche per verificare la famosa storia che i “cinesi non muoiono mai”, con leggende metropolitane correlate su dove potrebbero finire i defunti cinesi. Abbiamo fatto i conti, partendo dalla struttura per età dei cinesi
regolarmente residenti, abbiamo poi calcolato quanti morti ci saremmo aspettati se i cinesi avessero avuto la stessa probabilità di
morire per ciascuna classe di età degli italiani. Abbiamo cioè calcolato ‘decessi osservati e decessi attesi’, e il numero dei morti registrato era più o meno lo stesso di quello atteso. Semmai i cinesi, se
possono, tornano a casa quando hanno una malattia grave e cominciano ad avere seri problemi di salute. Quindi, se non è coinvolto in
un evento acuto traumatico, violento, improvviso, è possibile che
non ci sia tra i deceduti perché quando ha una grave malattia torna
nel proprio Paese. Così come per i bambini, che spesso nascono
qua, ma poi li rimandano là in Cina a fare i primissimi anni con i
nonni e poi, come arrivano all’età dell’asilo, li riportano in Italia. All’educazione i cinesi ci tengono molto. Oltre alle vaccinazioni hanno
una forte attenzione all’istruzione. Degli altri nostri servizi sanitari i
cinesi si fidano poco, mentre gli stranieri di altri Paesi si fidano abbastanza dei sanitari italiani, con qualche differenza a seconda della
branca specialistica, abbiamo dunque un quadro un po’ a macchia
di leopardo a livello regionale. Ho mostrato molti dati pratesi perché sono spesso gli unici e non sono state fatte rilevazioni simili in
altre ASL e dentro le ASL, invece, si può arrivare a vedere un livello
di dettaglio sul ricorso ai servizi degli stranieri che non è possibile
avere dagli archivi regionali: adesione a screening, tassi di vaccinazione, mortalità, tassi di ospedalizzazione, infortuni sul lavoro, e così via. Molte delle informazioni e dei dati stanno all’Asl e aspettano
solo di essere elaborate e interpretate dai servizi di Epidemiologia
aziendali, con il supporto dei sistemi informativi e delle tecnologie
informatiche. Insomma dati sugli immigrati ce ne sono in abbondanza, adesso occorre saperli leggere.
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La cooperazione sanitaria internazionale
Pepa Caldés
Responsabile Cooperazione sanitaria internazionale,
Regione Toscana
Vorrei descrivervi quello che una Regione come la nostra fa nell’ambito della cooperazione anche perché penso che sia un modello
che funziona e che vorremmo continuare a sostenere nonostante i
tagli delle risorse previsti.
Sono già stati presentati i dati delle disuguaglianze su quanto riguarda la speranza di vita nel nord e nel sud del mondo. Quando
parliamo di aiuto pubblico dei Paesi poveri pensiamo subito all’Africa perché è sicuramente il continente che ha più difficoltà, ma dimentichiamo che in Europa, in Russia, ci sono veramente delle situazioni attualmente di miseria, di povertà e di mancanza di diritti
enormi, di fatto, la speranza di vita in quel Paese è addirittura è
crollata. Per avere una panoramica sulle disuguaglianze nel mondo
soffermiamoci, ad esempio, sulle differenze tra il nord e il sud: la
mortalità infantile che è concentrata in tutta la parte del sud del
mondo. Riguardo alla distribuzione della Hiv, la parte più colpita è
sempre ovviamente l’Africa, ma fondamentalmente l’Africa sub sahariana. Per quanto concerne la spesa sanitaria pubblica, l’Africa
non esiste praticamente, mentre l’Europa, per esempio, la Spagna,
l’Italia e anche tutta la parte dell’America del nord sono veramente
avvantaggiate. Se andiamo a vedere quanto si spende in sanità privata, in questo caso gli Stati Uniti ancora primeggiano, come tutta
l’America del nord, l’Africa è sempre sacrificata, anche se il Sud
Africa ha un poco più di investimento sulla sanità privata, l’Italia si
è un po’ ridimensionata come anche la Spagna e il resto dei Paesi
europei. Il dato di quanti medici lavorano nel mondo evidenzia che
abbiamo un’Italia molto “affollata”, come la Spagna e un’Africa
praticamente inesistente. Se andiamo a vedere le patologie, per
esempio, la Tbc, vediamo che in’India, Asia, e Africa sono improvvisamente aumentate, mentre in America del nord, America del
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PEPA CALDÉS
sud,e un poco meno in Italia e Spagna, si sono molto ridotte. Per
quanto riguarda la prevalenza Hiv, vediamo che è tutto concentrato
in alcuni Stati africani, compreso il colera.
Per la malaria sembra che esista come diffusione solo l’Africa nel
mondo, e un poco l’Asia. Il diabete sta cominciando a diventare un
problema anche da noi, ma lo è soprattutto nei Paesi più poveri e
più emergenti.
Questa è una delle sfide che dovremo affrontare nel futuro a livello globale per quanto riguarda malattie croniche, fondamentalmente diabete e malattie cardiovascolari in quei Paesi del sud del
mondo che stanno acquistando stili di vita molto simili ai nostri, anche nelle fasce più povere dove mangiano cibi non salutari con queste conseguenze.
In futuro la ricchezza sarà nelle mani di alcuni soggetti che purtroppo possono essere anche le multinazionali, una classe media che
si sta impoverendo progressivamente e un grande numero di poveri
di cui non si parla e che troviamo nelle aree rurali più disagiate dell’Africa sub sahariana, in Asia e, un po’ meno, in America latina.
La spesa per l’aiuto pubblico
Tutti i Governi dei Paesi ricchi negli anni Settanta si erano impegnati allo 0,7% del prodotto interno lordo in aiuto pubblico allo
sviluppo dei Paesi poveri, questa è stata una promessa che pochi
hanno mantenuta, come i Paesi del nord Europa che sono dei grandi donatori, tipo Danimarca, Svezia, Norvegia, mentre, per esempio, nell’ultima finanziaria il nostro Governo ha tagliato il 50% dei
fondi per aiuto pubblico allo sviluppo. Noi siamo nemmeno allo
0,1, la Farnesina chiuderà la cooperazione allo sviluppo perché non
hanno fondi. Molte UTL, Unità tecniche locali, che la cooperazione
allo sviluppo ministeriale ha in giro per il mondo, stanno chiudendo
perché non hanno i soldi per mantenere il personale, l’Italia non ha
mai mantenuto le promesse e con il Governo attuale le cose non migliorano.
In questi anni, sono accadute sicuramente le cose peggiori per le
diseguaglianze, ci sono state le riforme globali, quelle fatte dalla
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Banca mondiale, i famosi piani di stabilizzazione economica degli
anni Ottanta-Novanta dove il Fondo monetario internazionale e la
Banca mondiale, praticamente hanno detto ai Paesi più poveri: non
possiamo mantenere un sistema di welfare in Paesi come i vostri perché ci costa moltissimo, se volete degli aiuti dovete andare a privatizzare e si sono introdotte le famose prestazioni a pagamento che sono state una delle armi che più hanno impoverito Paesi già poveri,
perché nelle realtà dove il reddito procapite per una famiglia è sotto
i due dollari dover pagare gli User fees crea il famoso circolo della
povertà che riguarda attualmente cento milioni di persone che hanno malattie neglette, di cui nessuno parla.. Sotto questa spinta si sono veramente distrutti i sistemi sanitari pubblici dei Paesi che avevano avuto negli anni precedenti, dopo Alma Ata e Salute per tutti
nel 2000, le spinte grosse dell’OMS, alcuni Paesi stavano andando
veramente bene. Dagli anni Ottanta, Novanta, arrivano le politiche
della World Bank, i sistemi sanitari e anche educativi vengono eliminati, si privatizza tutto e cominciano a entrare i programmi verticali, i grandi donatori, tipo la Bill Gates, la Rockefeller, la Clinton.
Ci sono grandi Fondazioni che, con questa idea che hanno gli americani di dover donare, immagino anche un po’ per interessi dal
punto di vista fiscale, cominciano a fare delle donazioni molto grandi. Attualmente, quando diciamo che l’OMS è in mano a Melinda e
Bill Gates è vero perché il budget che loro hanno per la cooperazione sanitaria è quasi più grande di tutto quello che ha l’OMS. La
Fondazione Gates partecipa anche alle assemblee generali dell’OMS, hanno voce in capitolo, sono loro che decidono, nel bene o
nel male.. Sono nati veramente questi grandi fondi, non ultimo il
Global Found che ha lanciato Berlusconi a Genova, quello della lotta alla Tbc, Aids, Malaria, che è un altro grande programma verticale. Il grande problema di questi programmi verticali, nati dopo le riforme della Banca e del Fondo Monetario, è che lavorando in maniera molto selettiva sulle malattie e non in maniera comprensiva su
tutto il sistema, hanno creato delle grandissime difficoltà di gestione
all’interno dei propri Paesi.
Tornando all’out of pocket, cioè, agli User fees, quelli che sono
stati un po’ imposti, la cosa che più colpisce è che i Paesi più occidentali spendono molto meno, tipo UK. Nei Paesi poveri quasi il
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90%, tipo la Cambogia, della sanità è fatta dagli User fees, cioè, dell’out of pocket, di quello che la persona riesce a dare. Allora, questi
nostri poveri cittadini quando si ammalano, alcuni vanno al pubblico, alcuni al privato, alcuni non vanno da nessuna parte o cercano
di curarsi dove possono. Questo ha creato veramente delle grandi
difficoltà, addirittura tre anni fa, erano stati detenuti dentro l’Ospedale dei pazienti che non potevano pagare, come in un carcere, reclusi, gli è stato detto: quando pagherete andrete via. I grandi donatori attuali del mondo si sono dedicati, ciascuno, a una sola patologia: quello per la Polio, quello per la Malaria, quello per l’Hiv, poi il
programma della vaccinazione dei bambini. Tutto questo, che magari arriva in un Paese in maniera scoordinata, non integrata, con
degli interessi personali, si confronta con un sistema sanitario impoverito, lavora in maniera assolutamente autonoma e i risultati di salute sono del tutto inesistenti, ognuno vede il suo settore e non riesce mai a coordinarsi con gli altri donatori. I programmi verticali
sono anche imprevedibili, nel senso che magari quest’anno la Bill
Gates per la Malaria impegna cento milioni di euro e con quella cifra programmi l’attività in diversi Paesi, ma l’anno dopo le donazioni che arrivano sono soltanto cinquanta milioni di euro. È stata fatta
una pianificazione sulla base di un budget di cento milioni di euro e
l’anno successivo ne disponi della metà e allora il programma non
può andare avanti. In Tanzania, nel 2005 c’erano più di settecento
progetti portati avanti da sessanta organizzazioni parallele, che non
erano per niente coordinate tra loro. Nello stesso anno, in Tanzania,
operavano 541 missioni e soltanto il 17% di queste avevano un
gruppo coordinato, le altre erano tutte composte da soggetti indipendenti. e questo non succede solo in Tanzania.
Io ho lavorato nei territori occupati della Palestina, dove politicamente la Regione Toscana ha offerto il massimo impegno. Una volta
un palestinese ha detto: se tutti i soldi che voi mettete in cooperazione li date a noi, che siamo circa in tremilioni, saremmo tutti ricchi.
Questo succede in molte altre realtà, il problema grosso – e questa è
anche un’autocritica che faccio al lavoro che provo a organizzare – è
che in cooperazione, per diversi motivi, – volontaristici, perché uno
vuol fare del bene, per interesse della ricerca o altro – ognuno ha il
proprio interesse ed è difficilissimo metterli insieme e coordinarli.
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Questo mondo complesso è fatto di tantissimi organismi che stanno
nello stesso territorio, lavorano per la stessa popolazione, ma tra di
loro non si coordinano e spendono moltissimi soldi per gestire lo
stesso programma, costi organizzativi, costo del personale, con una
ricaduta veramente piccola su quello che è il bisogno reale della popolazione. Ecco come funziona il sistema, in questo ha una grande
responsabilità prima di tutto il Paese che riceve l’aiuto, ma che alla
fin fine, se qualcuno offre delle risorse, non le rifiuta davvero.
I grandi organismi internazionali dovrebbero coordinare tutte
queste missioni, e questo dovrebbe essere il ruolo dell’OMS, l’UNICEF e le Nazioni Unite, dopodiché ci sarebbe la cooperazione bilaterale, quella che i Paesi fanno per poi arrivare alla cooperazione un
po’ più piccola, quella che fanno le Regioni. Ci dovrebbero però essere delle grandi linee di indirizzo. Per esempio, la Spagna ha un
po’ “il monopolio dell’America latina” come mondo di cooperazione perché c’è l’affinità linguistica, c’è la storia che unifica .In Africa
trovi un po’ di tutto a seconda degli interessi, per esempio, la Francia è molto presente con le sue multinazionali per tenere buona ancora una sorta di colonialismo, che hanno in quelli che sono i Paesi
ex colonie, l’Inghilterra lo fa nelle sue realtà, insomma, la situazione
è abbastanza complessa e alla fine chi soffre di tutto questo, come al
solito, è la popolazione che continua a vivere nella miseria. Servirebbero 254 miliardi di dollari, questa è una stima di un paio di anni fa, attualmente ne servirebbero un po’ di più, ma non molto di
più, una somma corrispondente allo 0,7% del Pil di quei Paesi che
negli anni Settanta avevano preso l’impegno di contribuire. Quello
che si dà adesso, perché alla fine un qualcosa si dà, è fondamentalmente per la remissione del debito, per l’emergenza, per la quale sono state donati tanti soldi, e per i costi amministrativi, che incidono
molto.
Uno dei grandi problemi che abbiamo è che i progetti, più che
altro quelli dei grandi organismi internazionali, hanno dei costi di
gestione dovuti agli alti stipendi che ricevono gli addetti. Tutto l’aumento di questi ultimi anni è stato diviso tra tre grandi aree,la prima
delle quali è la remissione del debito che non è mai cash, ed è importantissima. Siamo scesi a sessanta miliardi di dollari, che sono
quelli che la Banca ha stimato per raggiungere i famosi obiettivi del
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millennio, quando è fallito “Salute per tutti nel 2000” siamo andati
agli obiettivi del millennio nel 2015, che falliranno di nuovo. La
mortalità materna deve diminuire e invece sta aumentando, questo
è uno dei grandi problemi dell’Africa perché in questo settore non
si è fatto niente Per la mortalità infantile invece qualcosa è migliorato e continua un poco a decrescere perché ci sono alcuni Paesi, come il Brasile e alcuni Paesi dell’est, che stanno investendo veramente molto bene in questo settore, ovviamente non si arriverà mai a
quello che era previsto come obiettivo del millennio, ma ci sarà un
miglioramento. Quello in cui sicuramente non si arriverà a niente è
la mortalità materna, nonostante nell’ultimo G20 sia stato detto che
è impossibile che i poveri debbano pagarsi le malattie, ma queste
sono delle dichiarazioni politiche cui spesso non seguono i fatti. In
un articolo del British Medical Journal, è stata fatta una stima: se noi
avessimo tolto gli User fees, cioè, il pagare la prestazione, si potevano prevenire circa 233.000 morti l’anno in Africa, che sono numeri
grandi. Ventotto miliardi, vedete, è il contributo che dovrebbero
versare le varie organizzazioni ed i Paesi impegnati nella cooperazione per garantire una spesa procapite che è salita da trentacinque
a quarantaquattro dollari, nell’ultimo report della “Salute del mondo” che ha fatto l’OMS. Questa spesa attualmente sarebbe necessaria per garantire i LEA essenziali, che sono fondamentalmente le
vaccinazioni, la lotta a Malaria, Tb e Aids, diarrea, malattie respiratorie, malnutrizione. Invece noi, tutti i Paesi, diamo intorno a dodici miliardi di dollari. La cooperazione allo sviluppo, la cooperazione
sanitaria, con tutto l’impegno necessario, dovrebbero colmare in
qualche misura quanto i Paesi ricchi hanno promesso ai Paesi poveri in questi anni, anche perché tutto sommato, in un’ottica globale,
quello che succede in Burkina Fasu ha sempre una ripercussione su
quello che succede in Toscana e anche perché è ovvio che di quello
che succede al sud del mondo c’è anche una grossa responsabilità
per quanto riguarda il nord del mondo. Ormai siamo un mondo
unico dove tutti i meccanismi sono interconnessi, allora è un obbligo morale che i Paesi più ricchi aiutino quelli più poveri e li aiutino
fondamentalmente a svilupparsi, a crescere e a far sì che la sanità e
l’educazione, che sono i due pilastri fondamentali della società, funzionino. Sicuramente non è quello che sta succedendo nel mondo
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reale, nonostante questo però ci sono delle realtà piccole che si
muovono, sicuramente in maniera non troppo organica e strutturata
perché non abbiamo un indirizzo internazionale e nazionale molto
chiaro sui reali obiettivi da raggiungere, che non siano soltanto le
dichiarazioni che il G20, il G8, i grandi, Obama stesso ha fatto con
dichiarazioni a livello molto politico, ma che non si traducono mai
in azioni concrete. La situazione non è delle più rosee, ma questo
secondo me non ci deve togliere dalla responsabilità di agire in
quello su cui possiamo agire.
L’impegno della Regione Toscana
La cooperazione decentrata è la cooperazione che fanno gli Enti
locali; esiste un livello internazionale, nazionale e poi quello che
ogni Regione, ogni Comune può fare con il suo bilancio, insieme a
quello che è il tessuto associativo locale, per dare risposta ai bisogni
di salute e in questo settore tutta la Regione Toscana, per quello che
è la sua storia e per quello che è il suo presente, ha portato a casa e
continua a portare a casa alcuni piccoli risultati. In questi cinque
anni, in cui ho seguito direttamente questo argomento, abbiamo
elaborato delle linee guida, dei manuali, delle attività, prendendo alcuni pilastri, che fanno un po’ parte del background di quello che è
il famoso modello toscano in cui la salute è intesa come diritto, la
solidarietà come scelta e la programmazione come strategia operativa. Queste tre premesse erano un po’ la nostra Bibbia, sulle quali
abbiamo costruito tutto. Abbiamo avuto una volontà politica molto
forte in passato, un po’ più in crisi attualmente. In Regione Toscana
c’è un livello politico che ti portava a una scelta tecnica e sono state
anche fatte delle normative e degli atti che in qualche maniera sostenessero le scelte politiche dal 2007 al 2009. Noi facciamo una
strategia annuale o biennale di quelle che sono le attività di cooperazione sanitaria della Regione Toscana; abbiamo deliberato anche
la 300, e poi abbiamo fatto anche le linee guida deliberate, con un
impegno annuo di spesa di tre milioni e sei, che vengono dal Fondo
sanitario regionale, fino al 2010. La scelta organizzativa che ha un
po’ dato forza a questo progetto è stata la presenza in Toscana, per
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un periodo di cinque anni, di un Assessorato mirato alla cooperazione internazionale, guidato da Massimo Toschi. Avevamo un riferimento politico molto chiaro che non c’è più con la nuova Giunta,
il che ha ridefinito un assetto un po’ diverso perché adesso la cooperazione internazionale è in mano alla Presidenza, cioè, ha la delega direttamente il Presidente Enrico Rossi ma con una crisi come
quella che stiamo attraversando, una disoccupazione come quella
che c’è anche in Toscana, l’impegno per la cooperazione diventa
sempre più piccolo. Mentre prima avevi una struttura che era dedicata a questo, oggi tanta sensibilizzazione non ce l’hai più, ce l’ha il
Presidente, che ha sì un suo staff addetto al settore, ma con una poca presenza politica perché ovviamente un Presidente deve gestire
la propria realtà. Prima eravamo più correlati agli indirizzi di Toschi, oggi seguiamo quelli di Rossi. Stiamo lavorando sul nuovo Piano per definire chiaramente le funzioni, non soltanto della cooperazione, ma di tutte le attività internazionali che la Regione Toscana fa
in sanità perché c’è il mondo della cooperazione, ma c’è il mondo
dei rapporti con i Paesi emergenti, tipo Cina, Brasile e India. La sanità è un grande volano per lo sviluppo dei popoli, anche se gestiamo un piccolo budget, perché sono tre milioni e sei, un euro a testa,
lo dedichiamo all’aiuto pubblico, allo sviluppo. È anche importante
che stabiliamo dei rapporti, non tanto di cooperazione, quanto di
collaborazione con quei Paesi emergenti, dove si possono creare degli scambi che hanno una ricaduta anche importante sulla società
toscana .
Noi ci stiamo muovendo su questi due versanti: cooperazione e
quello che noi chiamiamo collaborazione internazionale, anche attraverso i rapporti con la UE, con il Ministero della Salute e altro
ancora Tutta questa partita fa riferimento alla la Digis Salute che
adesso si chiama “politiche del diritto di cittadinanza e coesione sociale”. La Digis, ha affidato nel nuovo organigramma la gestione di
tutta questa strategia al meglio della mia Azienda perché storicamente, quando è nata la cooperazione in Toscana più di dieci anni
fa, con la guerra nei Balcani, che si occupava fondamentalmente di
fare arrivare bambini dalle guerre per essere curati da noi e il Meyer, per le sue caratteristiche di Ospedale pediatrico, riceveva molti
bambini. Attualmente il Meyer fa una funzione regionale della co206
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operazione all’interno di una struttura aziendale. Abbiamo poi individuato, in ogni Azienda sanitaria delle Aree vaste, un referente per
la cooperazione, abbiamo costituito questi coordinamenti di Area
vasta che si raggruppano in un comitato al quale partecipano i singoli coordinatori che hanno un rapporto con il territorio locale. Ovvero, il Comune X dell’Area vasta nord che vuole lavorare, presentare un progetto, si raccorda con l’Azienda di riferimento che presenta il progetto direttamente a noi; nello stesso momento, noi diamo delle linee strategiche guida ai referenti delle Aree vaste per la
presentazione dei progetti, in maniera da creare questa sorta di direzionalità tra politiche e attori locali, cercando di integrare tutte le
progettualità, cosa difficilissima, perché se l’abbiamo visto a livello
internazionale, in Toscana è identico. Anche perché la Toscana è la
terra dei Comuni e ogni Comune vuole avere il suo progetto per le
connotazioni anche culturali e storiche che questa terra ha, è una
realtà con la quale io faccio una fatica enorme a lavorare, addirittura nella stessa Azienda presentano due progetti, sulla stessa area
geografica, due soggetti diversi, allora, è molto difficile coordinare
le cose.
Come abbiamo governato, come proviamo a governare
Noi dedichiamo una fetta dei finanziamenti ai ricoveri a carattere
umanitario, una piccola fetta, ma diamo sempre spazio a bambini e
adulti, che vengono qua per alcune cure particolari, anche con dei
criteri molto rigidi. Abbiamo elaborato e deliberato dei criteri di
ammissione ai ricoveri a carattere umanitario, determinando un impegno e poi partecipiamo a quello che si chiama il “Medical evacuation”, che è un progetto gestito dalla Commissione Salute, Conferenza Stato-Regioni nei casi delle emergenze, belliche o naturali, tipo Haiti, Gaza, dove spesso ci sono questi canali diretti con la Croce Rossa Internazionale e la Protezione Civile e si chiamano Medevac. Nei Medevac quasi tutti diamo la disponibilità ad accogliere
questi feriti presso le nostre strutture sanitarie. Noi abbiamo due
modalità, come Regione Toscana, di presentare i progetti: una, sono
i progetti di iniziativa regionali, che sono quelli che assorbono di
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più del budget e, per il momento, non sono soggetti a bando, ma a
una discussione e a una valutazione molto consensuale, dando però
delle priorità a tutte quelle progettualità che provengono dalle
Aziende sanitarie. Noi vogliamo assolutamente che siano le Aziende
a partecipare a queste attività, più che i soggetti esterni, tentando
sempre di più di collegarci con quello che fa la presidenza nell’ambito delle relazioni internazionali, anche perché sicuramente dall’anno prossimo anche i PIR dovranno essere soggetti a bando, dovranno essere un po’ più regolamentati e dovremmo essere sempre
più in connessione con quelle che sono le aree geografiche sulle
quali intervenire Abbiamo poi un bando annuale che ne comprende
tre:uno per la pace, uno per la cooperazione e uno per la sanità; sono piccoli progetti, duecentomila euro a bando, dove diamo spazio
a tutti i piccoli soggetti e li affidiamo ad un valutatore esterno.Questo sostiene quelle piccole iniziative che sono più che altro alla base
del volontariato della Toscana, nel senso che dai forza anche al volontario che fa la sua donazione, al Comune che fa le sue, che non
hanno, secondo me, incidenza sulla salute dei Paesi dove vanno, ma
un guadagno sulla realtà locale.Per quanto riguarda i PIR, progetti
di iniziativa regionale che noi vorremmo che diventassero il fulcro
della nostra attività, già quest’anno stiamo cominciando a dare alcune linee più rigide. La nostra idea per il futuro è concentrare le attività in non più di sei Paesi africani, in Palestina e in Albania, facendo più progetti ad ampio respiro, dove tutti i soggetti che lavorano
in quell’area confluiscano sullo stesso Paese. Vogliamo sempre di
più andare a incidere sul lavoro che fanno gli operatori e sui Paesi
dove noi stiamo lavorando. Quando uscirà il Piano nuovo, che sarà
quinquennale, noi ci introdurremo per parlare, ma fondamentalmente la nostra strategia ha degli obiettivi, i progetti devono indirizzarsi fondamentalmente alla lotta alla povertà, alla difesa dei diritti
umani e all’eguaglianza di genere, come grandi aree macro sulle
quali noi lavoriamo che poi si declinano in una molteplicità di azioni che hanno a che vedere con strategie di salute. Quello che però
vorremmo veramente è che i progetti mirino a rafforzare strutture e
a migliorare quello che per noi è la base della sanità, perlomeno in
Africa e non solo, che è la Primary Health Care, tutto quello che è il
lavoro con il territorio. Per ovvi motivi privilegiamo il materno-in208
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fantile di fronte a altre aree e privilegiamo anche molto quei progetti che prevedono la formazione in loco del supporto degli operatori
dove noi andiamo a lavorare. Ovviamente poi ci sono alcune aree
più specifiche, come quelle dei disabili dove abbiamo alcuni interventi molto interessanti, poi non possiamo non tenere conto della
trilogia, come dico io, Tbc, Malaria e Aids, perché molti dei nostri
infettivologi sono coinvolti in progetti di questo tipo in Africa.
Non possiamo poi dimenticare la ricerca anche nei Paesi in via
di sviluppo, perché aiuta molto a crescere gli stessi Paesi, e un medico, un biologo, un professionista della sanità, ha gli stessi diritti
di un professionista nostro vuole imparare, crescere, non soltanto
curare le diarree. Creare momenti di incontro e dare la possibilità
anche a questi Paesi di fare ricerca in campi che siano ovviamente
affini alle loro realtà li fa crescere perché crea sviluppo. Posso soltanto raccontare un aneddoto: noi stiamo lavorando da parecchio
in Burkina Fasu, sosteniamo una Pediatria perché i nostri specializzandi ruotano e praticamente quella struttura si alimenta di specializzandi. Questa nuova Pediatria sta diventando uno dei modelli ospedalieri, è un Ospedale rurale del Burkina Fasu, uno dei Paesi più poveri del mondo. Casualmente è arrivato due anni fa il dottor T…, che è un biologo molecolare che ha fatto tutta la sua carriera in Europa e negli Stati Uniti e ha vinto un Grant della Bill
Gates per il vaccino della Malaria, lui ha detto: io voglio provare a
lavorare nel mio Paese, è arrivato con un sacco di soldi, dati dalla
Bill Gates e in quattro e quattr’otto ha realizzato un locale nuovo,
una parabola, delle attrezzature; è andato dal Ministro e ha detto:
senza elettricità io non posso fare le mie ricerche, in un mese tutti
felicissimi perché avevamo finalmente l’elettricità. Intorno a questa ricerca, che anche noi stiamo supportando, stiamo cominciando a utilizzare anche il macchinario che lui ha per alcune attività
di microbiologia, lavoriamo sulle malnutrizioni e su tutta la parte
delle malattie diarroiche. La ricerca sta portando sviluppo ed è attraverso questo medico che poi questa realtà pian piano si sta sviluppando perché crea lavoro alla gente, poi la gente comincia a
avere bisogni, poi vanno più a scuola, studiano di più; in questi
Paesi, non bisogna fare soltanto quello che abitualmente la carità
cristiana realizza, nessuna critica alla carità cristiana, ma la coope209
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razione non può significare fare beneficenza, cioè, quello che mi
avanza glielo do, quell’apparecchiatura mezza rotta che non mi
serve più la mando in Africa che è piena di apparecchiature scadenti che noi abbiamo dismesso Le mandiamo in Africa, invece
che a Napoli e così abbiamo la spazzatura africana perché io ho
visto nel mondo i sotterranei di alcuni Ospedali pieni di ferri vecchi, ecografi che arrivano e alla prima volta che non funzionano
nessuno li ripara. O si comprano le cose nuove, essendo sicuri che
hai una ditta che te le manterrà, altrimenti si fa senza l’ecografo,
questa, secondo me, è una delle strategie possibili sulle quali noi,
perlomeno come cooperazione toscana, stiamo puntando. In questi ultimi anni abbiamo fatto un protocollo, che ha firmato Panti,
con la Regione Toscana nel 2008 dove praticamente all’interno
non solo dell’Ordine di Firenze, ma come Federazione, c’è un
gruppo di operatori, al quale partecipiamo: ci riuniamo, organizziamo, discutiamo e abbiamo una banca dati dove i professionisti,
che hanno fatto attività formativa, possono iscriversi e noi all’occorrenza potremo andare ad attingervi. Abbiamo poi fatto una delibera che consente ai nostri operatori e ai nostri dipendenti di
partecipare per un mese all’anno, in orario di servizio, come se
fossero in missione, a progetti di cooperazione che siano approvati
dalla Regione Toscana. È importante andare a vedere la situazione
in cui vivono queste popolazioni, anche se poi servirà più a noi
che a quanto potremo fare, ma spesso diamo per scontato tante
cose che non lo sono, siamo abituati a aprire il rubinetto del bagno e avere l’acqua corrente per lavarci, avere il gas, andare al
Pronto Soccorso e avere sicuramente qualcuno che ci curerà e tra
l’altro non ci costerà niente. Queste cose formano parte della nostra storia, del nostro sviluppo, del nostro welfare; quando vai in
Africa, ma non solo, ti trovi di fronte a realtà molto diverse che
aiutano a capire quello che facciamo e a creare una coscienza che
ti fa anche vedere in maniera diversa i problemi di salute globali.
La diversità che c’è nel mondo ci mette poi in discussione come
professionisti della sanità su tanti di quelli che sono gli schemi che
abbiamo costruito nella nostra carriera, nella nostra storia, ci mette di fronte soprattutto ai clinici, che si trovano ad esercitare la
propria professione senza il supporto tecnologico, al quale oramai
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ci siamo abituati e allora l’anamnesi acquisisce un valore molto più
grande di quanto ha adesso. Dopodiché noi abbiamo anche investito molto nella formazione: ogni anno facciamo un corso sulla
cooperazione rivolto ai nostri operatori, ne abbiamo già fatte tre
edizioni per ottanta partecipanti ciascuna.
Le sfide che la Toscana deve affrontare sulla cooperazione è fare
meno progettino e più programmi. Vorremmo provare a fare sinergia tra gli attori toscani, vorremmo coinvolgere comunità di immigranti residenti nel nostro Paese, cosa difficilissima, ma stiamo provando con il Senegal, la Cina e con l’Albania. Abbiamo poi istituito
già da tre anni – è uno dei nostri fiori all’occhiello – un sistema di
monitoraggio e di valutazione permanente affidato ad un’agenzia
esterna. Noi siamo in tre aree geografiche, la Toscana è presente in
Palestina, dove per due anni abbiamo supportato la cardiochirurgia
di Nablus, questo è un progetto più di eccellenza che di Primary
Health Care, con tutti gli operatori del team di Pisa e di Massa che
sono andati ogni due mesi a operare i cardiopatici palestinesi e continuano a andare. Lavoriamo in Africa sub sahariana, fondamentalmente con Primary Health Care, questo è un progetto di malnutrizione e nell’area balcanica, dove abbiamo lavorato a un diverso livello. Ovviamente i progetti si adattano alla realtà del contesto,
quello balcanico è un mondo di pre -annessione all’Europa e allora
la situazione economica di sviluppo non è quella dell’Africa sub sahariana, in questo caso i progetti mirano sempre di più a aumentare
conoscenze e competenze, dove già esistono infrastrutture. Noi siamo in moltissimi posti del mondo, ma in due o tre anni, vorremmo
concentrare tutti gli sforzi e i pochi soldi che abbiamo in non più di
queste nove realtà che stiamo identificando. Questa è una frase di
Saramago, che amo molto, che ha scritto sul suo blog pochi mesi
prima di morire : se mi dicessero di disporre in ordine di precedenza
la carità, la giustizia e la bontà, metterei al primo posto la bontà, al secondo, la giustizia e al terzo, la carità. La bontà, da sola, già dispensa
la giustizia e la carità, la giustizia giusta già contiene in sé sufficiente
carità, la carità è ciò che resta quando non c’è bontà né giustizia.
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Resoconto e valutazione di un progetto africano
Barbara Tomasini
Referente per la Cooperazione sanitaria internazionale (CSI)
per l’Azienda Ospedaliera Universitaria Senese (AOUS)
e per l’Area Vasta Sud-Est
L’inizio del percorso personale in CSI ha radici lontane.
Nel 1985 ho avuto il primo contatto con la Organizzazione non
governativa (ONG) Medici con l’Africa C.U.A.M.M., che da oltre
60 anni lavora in sanità per le popolazioni più svantaggiate dei Paesi
dell’Africa sub-sahariana. Dopo un periodo di formazione specifica,
nel 1987 ho trascorso un periodo di 27 mesi come medico polivalente presso l’Ospedale “Consolata Hospital NKUBU”-Kenya con
un contratto di “Medici con l’Africa” riconosciuto dal Ministero
Affari Esteri ed in contemporanea ho conseguito la specializzazione
in Neonatologia e Pediatria preventiva presso l’Università degli Studi di Firenze. La mia aspirazione è sempre stata poter fare la neonatologa e dedicare una parte del mio lavoro alle popolazioni svantaggiate; lavorare in Africa si è concretizzato grazie ad una serie di circostanze e d’incontri che mi hanno permesso di svolgere la mia professione nel modo sognato, associando questo privilegio al duro lavoro.
Dal 1990 lavoro nel reparto di Neonatologia-Terapia intensiva
neonatale dell’Azienda Ospedaliera Universitaria Senese (AOUS),
rimanendo sempre in contatto ed in attività con “Medici con l’Africa” e con la Cooperazione sanitaria internazionale (CSI).
Durante tutto il percorso lavorativo in AOUS ho trascorso periodi più o meno attivi in CSI e dal 2001, per “Medici con l’Africa” ho
iniziato a seguire ed a coordinare un Progetto sulla disabilità in
Kenya riconosciuto dal Ministero Affari Esteri. L’attività richiestami
con costanza, missione annuale per formazione-supervisione al Progetto, ha coinvolto maggiormente il Reparto nel quale lavoro e in
senso generale i colleghi di lavoro ai quali raccontavo l’impegno e la
grande energia che il lavoro in Africa porta.
Nel 2005 il Direttore generale della AOUS, in modo attivo e lun213
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gimirante, ha voluto di persona conoscere il progetto seguito da me
e dal dottor Stefano Zani, collega e marito, rendendosi disponibile
personalmente, venendo in missione con noi in terra africana per
conoscere il progetto e per istituzionalizzare l’ attività che da opera
singola e personale è diventata opera aziendale. Da quel momento
in Azienda è stato istituito un Comitato per la CSI aziendale con lo
scopo di coordinare e potenziare al meglio le attività che molti sanitari nella nostra Azienda già facevano singolarmente creando un’equità e una trasparenza per il personale sanitario impiegato in tali
progetti.
L’incontro con il Direttore generale dell’AOUS e con l’attuale referente per la CSI della Regione Toscana, Dr.ssa Maria Josè Caldes
Pinilla, ha certamente cambiato la qualità degli interventi in cooperazione ed ha portato a importanti normative regionali in ambito di
CSI che normano in modo chiaro, trasparente, verificabile e valutabile i progetti di cooperazione sanitaria della Regione.
Le attività illustrate, se si escludono i 27 mesi di contratto con
“Medici con l’Africa” in Kenya, sono state svolte tutte senza alcuna
retribuzione aggiuntiva ma con il riconoscimento orario da parte
dell’AOUS, in linea con le varie normative aziendali, regionali e secondo il nostro codice etico.
La salute globale come argomento e quindi l’approccio alla Salute globale come “modus operandi” l’ho conosciuta frequentando i
corsi, preparatori alla partenza, di “Medici con L’Africa”. Questo
argomento, ha trovato in noi coppia e in noi famiglia, quando questa si è ingrandita, terreno fertile diventando idea trainante per la vita e per la professione.
La salute globale e la lotta alla povertà, intesa dal nostro punto di
vista sanitario come lotta alle barriere per l’accessibilità ai servizi sanitari, all’equità, al miglioramento della qualità dei servizi, sono insieme al convincimento che il diritto alla salute sia un diritto imprescindibile per ogni uomo , il movente del nostro lavoro quotidiano.
Salute globale intesa anche come apertura mentale verso la Medicina del mondo, Medicina della maggioranza della popolazione
mondiale e non orientata solo verso il 20% dei popoli più ricchi e
fortunati.
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La Neonatologia è una branca relativamente nuova, rispetto alle
altre specialistiche mediche e nel tempo ha visto crescere la sua importanza all’interno della salute globale.
Come neonatologa ho molto lavoro in Italia tra i piccolissimi della Terapia intensiva che sono in costante aumento e nei Paesi con risorse limitate, poiché la lotta alla mortalità materna e neonatale al
parto è una sfida quotidiana nei Paesi poveri. La mortalità infantile,
oltre 7 milioni di bambini muoiono all’anno secondo gli ultimi dati
dell’Oms, è enormemente gravata dalla mortalità neonatale oltre il
40% dei bambini muore nella prima settimana di vita per cause direttamente o indirettamente legate al parto. Per ogni neonato che
muore ci sono 7-10 neonati con media e/o grave sofferenza asfittica
e quindi disabilità più o meno gravi che compromettono il loro sviluppo cerebrale e fisico, rendendo minata la futura società civile del
loro Paese. Mortalità neonatale e disabilità sono due aspetti di un’unica medaglia per eradicare i quali occorrono strategie condivise dagli Stati del mondo. Le madri e i bambini sono il futuro della società e pertanto la salute globale passa attraverso la loro difesa.
Dal 2001 al 2010, come detto, “Medici con l’Africa” ci ha affidato il coordinamento di un Progetto comunitario sulla disabilità in
Kenya con la collaborazione sul territorio africano di una ONG locale, Saint Martins CSA che trova nell’approccio comunitario la sua
specificità.
Siamo stati incaricati di questo lavoro da parte di “Medici con
l’Africa” per vari motivi: la conoscenza del territorio africano sviluppatasi nei due anni di operatività sanitaria da noi svolta in questo
Paese, la nostra specializzazione di pediatri/neonatologi con conoscenze delle problematiche di salute infantile nei Paesi con scarse risorse, il lavoro quotidiano in sala parto con tutte le implicazioni sulla riduzione della nati mortalità e conseguenze dell’asfissia legate al
parto distocico.
L’aspetto qualitativo riconosciuto nella mortalità infantile e nella
disabilità, da parte di “Medici con l’Africa” è quello di aver compreso che la disabilità non si può ridurre alla sola correzione ortopedica, fisioterapica o farmacologia, aspetti molto importanti della
lotta alla disabilità, ma nell’affiancare al progetto sanitari “esperti”
nella problematiche feto/neonatali e in grado quindi di garantire al
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progetto l’aspetto formativo ed educativo sul feto/neonato quale individuo separato dalla madre, ma con essa intimamente legato per
tutti i problemi di salute.
Si trattava di affiancare la comunità, molto attiva verso i problemi di integrazione del disabile nella società civile, informando e
supportando i rari operatori sanitari locali con attività di formazione per ampliare le loro conoscenze sulle cause di disabilità, sulle
possibili terapie e dunque sulle possibili strategie per ridurre il rischio di disabilità. Un altro aspetto importante del mandato del
progetto è l’attività ambulatoriale pediatrica e neonatale di supporto alla identificazione delle patologie che affliggono i bambini disabili e la ricerca attraverso strumenti estremamente poveri della
possibile causa della disabilità che porta ad una rimodulazione delle
strategie della attività per la comunità nella prevenzione e cura della
disabilità.
La parte comunitaria e sociale sul territorio è ottimamente svolta
dalla ONG locale ed a “Medici con l’Africa” è affidata la parte sanitaria con un fisioterapista espatriato e con le nostre figure di coordinamento.
Il disabile, in questo progetto, è il fulcro delle attività sanitarie e
sociali è il soggetto che la comunità deve sostenere per inserirlo
dopo aver abbattuto le barriere fisiche molto più grandi nei Paesi
poveri rispetto ai Paesi ricchi, vista la scarsità di mezzi economici, la
scarsità di vie di comunicazione, di mezzi di locomozione ma soprattutto le barriere mentali degli abili, che come in ogni parte del
mondo, non gli permettono di essere accettato, curato procurandone l’isolamento e l’emarginazione.
Nelle attività svolte il simbolo dell’efficacia dell’intervento, da un
punto di vista sanitario, è stato l’abbattimento dell’età delle prime
visite per disabilità, spostando l’età media della prima visita fisioterapica dai 5 anni del 2001 ai 3-6 mesi del 2005 rendendo in questo
modo efficace il trattamento e la cura, dove questo è possibile, e
non la sola osservazione delle lesioni.
Fare awarness nella popolazione, fare aggiornamento ai sanitari
ed ai volontari, effettuare viste ambulatoriali, fare rete con il sistema
sanitario locale e cercare contatti con le strutture locali in attività
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sul territorio è stato l’obiettivo di questi anni. La raccolta dati per
valutare l’efficacia delle attività è stato uno dei nostri punti fermi e
qualificanti per poter rendere visibili i traguardi raggiunti e la loro
entità.
I progetti su base comunitaria sono solo recentemente diventati
importanti nella CSI, in questi il coinvolgimento attivo delle comunità è diventato fulcro ed elemento essenziale dei progetti: la comunità è l’elemento da dove nascono e si evidenziano i problemi ma è
anche il luogo dove si elaborano le soluzioni condivise e pertanto
durature. I progetti e le soluzioni devono essere entrambi elaborati
insieme alle comunità locali pena la loro non sostenibilità nel tempo. Quando si lavora con la comunità e per la comunità un elemento molto importante è la continuità dei progetti: la durata dei quali
dovrebbe essere non inferiore a 5 anni, meglio se 10, perché questo
permette una migliore conoscenza dei territori e delle dinamiche
comunitarie. È nel camminare insieme ognuno con la propria identità e nel rispetto reciproco che si trovano le soluzioni e le strategie
per la risoluzione dei problemi.
In questo progetto sostenuto da “Medici con l’Africa” per un decennio, sono stati identificati, sostenuti e riabilitati in parte o totalmente, sappiamo di non poter fare miracoli poiché molte malattie o
complicanze di malattie non possono essere eliminate, oltre 1500
disabili.
Oltre 1000 hanno ricevuto un inserimento completo o parziale
nelle loro comunità (scuola, lavoro, famiglia), ma sicuramente durante lo svolgersi del progetto i disabili sono stati valorizzati come
elementi essenziali e facenti parte della comunità e non segregati
nelle capanne come all’inizio del progetto.
I dati raccolti sul campo durante il progetto, hanno confermato i
dati della letteratura internazionale, per quanto riguarda l’entità dei
problemi neonatali e perinatali sulla mortalità infantile (40%) e le
cause di disabilità alla nascita (asfissie, infezioni, traumi, malformazioni ,etc.), che rappresentano più del 60% delle cause di disabilità
nei Paesi poveri.
Durante lo sviluppo di questo progetto, che abbiamo seguito in
modo costante con due missioni all’anno utilizzando i possibili per217
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messi ( studio, ferie ecc.) che l’AOUS ci concedeva, è cresciuta l’esigenza di trovare nel territorio del Kenya una struttura ospedaliera
che potesse fornire servizi di buona qualità e che rispondesse alle
domande di salute dei beneficiari del Progetto ma indirettamente ai
bisogni di salute dell’intera popolazione della zona. Consapevoli
che quando parliamo di salute materno infantile e soprattutto di
mortalità materno-neonatale parliamo indirettamente del funzionamento del sistema sanitario.
È in questa continua ricerca di collaborazione con il territorio
africano che ci è giunta la domanda dell’allora Direttore generale,
donna dotata di notevole spessore umano e di intelligente capacità
manageriale, del cosa stessimo facendo e su come l’AOUS ci potesse sostenere in questa impresa. Così con questo desiderio di voler
contribuire alla salute globale nel 2003 è nato l’embrione di questa
collaborazione che vede l’AOUS ed il North Kinangop Catholic Hospital ormai consolidata da oltre 7 anni.
Quindi dalla richiesta di sostegno del proprio Ospedale di riferimento per i pazienti disabili, da parte della comunità in Africa è iniziata la collaborazione che ha visto coinvolti oltre 50 sanitari dell’AOUS.
In questo periodo di tempo c’è stata un’evoluzione e strutturazione delle politiche regionali in CSI.
La Regione Toscana si distingue nel panorama italiano della cooperazione sanitaria in quanto dal 2008 ha prodotto alcune delibere
regionali che regolamentano l’invio del personale del sistema sanitario regionale, le linee guida di CSI della Regione, la progettazione
annuale e pluriennale, lo stanziamento costante dei fondi, tutte di
fondamentale importanza per rendere i progetti regionali di cooperazione sanitaria maggiormente trasparenti e valutabili in base a dei
criteri oggettivi e quantificabili rispetto al passato.
In questi ultimi 5 anni l’evoluzione delle politiche regionali è maturata di pari passo con il Progetto che stiamo coordinando in Kenya
ed abbiamo così potuto toccare con mano il miglioramento che una
chiara impostazione politica produce nello sviluppo di un settore.
La collaborazione tra il NKCH e l’AOUS prosegue, nonostante il
progetto sulla disabilità sarà dal 2011 portato avanti solo dalla
ONG locale e sarà come si dice interamente africanizzato, proprio
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grazie alla stabilizzazione di questo attraverso l’approvazione regionale e grazie al buon lavoro svolto dai sanitari toscani riconosciuto
dai colleghi africani da parte dei quali è stato manifestato apprezzamento per il sostegno costante dei sanitari senesi nella elaborazione
di protocolli condivisi e nella formazione che ha permesso al
NKCH di divenire una delle dieci strutture in Kenya che possono
erogare crediti in Educazione medica continua.
L’esperienza di questi oltre 25 anni di attività in CSI mi ha fatto
comprendere come non si finisca mai di maturare nuove idee e soluzioni a problemi che apparentemente sono gli stessi, vedi disabilità, in tutto il mondo ma che in ogni Comunità risultano diversi (difficile o scarsa accessibilità ai servizi, scarsa qualità degli stessi etc.).
Non esistono soluzioni precostituite ed applicabili dovunque allo
stesso modo, ma esistono metodologie e modelli che, se applicati in
modo continuo, costante e rispettoso possono aiutare ad evitare errori gravi nella relazione tra chi ha un bisogno e chi può dare risposta al bisogno.
Un altro aspetto importante è non credere che la CSI, essendo
noi sanitari, possa da sola raggiungere buoni risultati, in quanto i
progetti integrati (sanità, educazione, aspetti sociali ecc.) riescono
meglio ad affrontare i problemi e portare ad uno sviluppo maggiormente sostenibile da parte delle comunità locali. La mortalità materno-infantile si abbatte infatti anche attraverso la scolarizzazione
femminile e non solo con la possibilità di erogare un taglio cesareo
oppure la disponibilità di una trasfusione alla donna o della rianimazione neonatale o dell’allattamento al seno.
La differenza tra Progetti e “carità”
I Progetti hanno il vantaggio di essere valutabili e ripetibili e confrontabili nelle diverse realtà, soprattutto se sono attività svolte come operatori di un sistema istituzionale quale ad esempio il sistema
sanitario, mentre le attività caritatevoli sono legate solo al singolo
individuo e quindi all’interno della loro validità hanno il limite di
non poter essere costanti nel tempo ma legati alla persona che li
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propone, così come i criteri di scelta non sono valutabili e confrontabili ma sono legati alle emozioni ed alle necessità del momento
che non sono magari i reali bisogni di quella comunità, così come a
volte si possono scontrare con le politiche locali.
Ribadendo la validità di queste attività caritatevoli non possiamo
applicare tali criteri ai Progetti di CSI che hanno bisogno di essere
trasparenti, valutabili e a sostegno del sistema sanitario locale e non
possono essere personalizzati.
Il rapporto con le persone ci modifica, ci matura ci mette in discussione e ci fa progredire costantemente e pertanto la sfida è di
non chiudersi e non aver paura di confrontarci alla pari con le persone che incontriamo. La cooperazione è un incontro tra pari e la
cooperazione allo sviluppo è un incontro che provoca un’evoluzione per entrambi i soggetti che si incontrano; nei Progetti di cooperazione sanitaria dobbiamo cercare di contribuire a migliorare i sistemi sanitari locali, affinché possano con le loro risorse occuparsi
della salute della loro popolazione ma durante tali percorsi condivisi al nostro rientro trasferiamo quell’umanità che incontriamo e
quella carica positiva che riceviamo.
La coerenza nel comportamento sia umano che professionale è
alla base del “successo” dei vari Progetti a cui siamo chiamati a partecipare, la continuità del nostro agire e l’opportuna conoscenza degli scenari ci porterà ad essere autentici ovunque lavoriamo, Italia o
Africa, raggiungendo più agevolmente gli obiettivi del Progetto
stesso.
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Edizioni ETS
Piazza Carrara, 16-19, I-56126 Pisa
[email protected] - www.edizioniets.com
Finito di stampare nel mese di dicembre 2011
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