Tra dubbi e riflessioni

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Tra dubbi e riflessioni
La fame, braccio armato del razzismo
La fame è la negazione della libertà e dei diritti fondamentali.
di Geneviève Makaping
Voglio proprio vedere se avrete il coraggio di pubblicare queste parole.
Voglio proprio vedere se avrete altrettanto coraggio di leggerle. Ma
soprattutto, e qui è la sfida, voglio proprio vedere se dopo avrete il
coraggio di essere omertosi.
Dunque. Diciamocelo pure con onestà intellettuale che la fame a questo punto sembra
proprio non aver nulla a che fare con il cibo. E diciamocelo con altrettanta franchezza che
il numero delle persone che muoiono di fame non impressiona più nessuno. Non ci
lasciano segno alcuno le persone dilaniate dalle bombe del Medio Oriente nei mercati,
non ci tolglie neanche l’appetito a pranzo e a cena di fronte ai telegiornali sapere quante
siano le persone decimate dall’Aids nel Malawi, figuriamoci pensare ad una questione
vecchia. Immagini e ancora immagini televisive e fotografiche che non impressionano più
nessuno. Non serve neanche più minacciare un bambino occidentale che fa dei capricci di
fronte ad un piatto di carne e pasta fumante dicendogli: «Ritieniti un bambino fortunato.
Mangia amore di mamma, amore di papà e pensa che ci sono dei bambini al mondo che
non hanno nulla da mangiare e poi muoiono».
E poi, diciamocelo pure che quelle foto che ci fanno vedere non sono fotografie “fresche”
in “giornalistichese”, si direbbe che non sono di “attualità”. Sono foto di archivio, così
come sono di archivio quelle delle carrette del mare che ogni giorno, quasi, “invadono” le
coste italiane, o affondano prima di arrivarci. Occorre anche aggiungere che la freschezza
o meno di queste fotografie o immagini ad alto contenuto simbolico non cambia la
sostanza della questione: l’uomo, e in particolare la politica, non è stato capace, o più
precisamente non ha fatto sua la “questione”. Così come i politici occidentali si siedono a
tavolino per lavorare su come debellare l’assunzione della droga che uccide, creando
persino delle task force, lo stesso avrebbe potuto essere per “quella fame” che può
uccidere.
Fame: solo un concetto?
Quei bambini che ci fanno vedere, e quelle donne, sono già morti. Da un bel pezzo.
Perché noi occidentali ed i colonizzati occidentalizzati dovremmo porci la questione della
fame se non sappiamo esattamente cosa significa? Se proprio vogliamo fare gli
accademici, dovremmo rammentare che il termine fame, non ha un immediato legame
con l’altro, sarebbe a dire: morte. Anche nei dizionari o vocabolari più quotati, non si dà
per scontato il rapporto fame/morte. In socioeconomia, la fame ha piuttosto a che fare
con lo stato di sottoalimentazione in cui alcune persone vengono a trovarsi per la
mancanza di derrate alimentari. E poi si cerca di spiegare la insufficienza di cibo
attraverso altri concetti, anch’essi senza un “naturale” legame con quello di morte. Cerco
in qualche modo di spiegare come fame/morte in sostanza è un ossimoro creato in
laboratorio dallo stesso uomo per raggiungere altri scopi di natura politico-economica.
Mentre morte è legato a Natura, fame è legato a Cultura. Mentre l’uno è ineluttabile,
l’altro è riparabile. Se dunque un problema come quello della fame è di ordine culturale,
significa che vi sono degli strumenti per avviare la sua decostruzione finanche alla sua
distruzione. Così come siamo stati capaci di costruire degli strumenti per fare la guerra a
chi riteniamo sia un nemico da abbattere, così avrebbe potuto essere per l’abbattimento
della fame. Pensate ad un carro armato che trancia una “disputa”.
Decostruzione e distruzione della fame, azioni che non accetterebbero neanche le
cause/scuse come guerre, siccità, inondazioni e deforestazione per giustificare quanto
accade ad interi gruppi di persone. Le cronache, ma anche le ricerche, ci informano che
due terzi della popolazione mondiale soffrono la fame. Ma aggiungo, tanto per
confermare questa mia Provocation Theory on Hungry, che questi “due terzi della
popolazione mondiale che soffrono la fame” non sono morti o comunque non ancora.
Ordunque, nella visione di chi non ha avuto esperienza con la morte derivata dalla fame,
non si può più di tanto spiegargli la fame/morte altrui e chiedergli di assumersene la
responsabilità: si veda il bambino/a capriccioso/a ed i genitori di fronte ad un piatto di
pasta. Rimane altrettanto una offesa all’umanità, quella che appunto “muore di fame”, e
dunque inaccettabile, tentare delle spiegazioni inutili, quanto intellettualmente disoneste,
predicare la crescita demografica come una delle cause della fame. Non si può pensare di
castrare un intero continente, così come la maggior parte degli occidentali non pensano
che castrando il pedofilo si risolva il problema dell’abuso sessuale sui minori. Così come
non è accettabile, per una civiltà che tale si definisce, pensare alla pena di morte come
deterrente per potenziali criminali.
Il lavoro delle organizzazioni
A chi dunque giova trasmettere queste immagini stereotipate, pre-concette e dunque
razziste di bambini con mosche in posa sugli occhi e sul naso e che non fanno impietosire
nessuno? Immagini che provocano in chi le osserva solo senso di schifo e disgusto e non
già di com-partecipazione e com-prensione? Se non giova a quei “morenti di fame” a
qualcuno pure recherà beneficio.
Della fame si parla da almeno una trentina di anni. Troppo tempo, per dire e fare proprio
nulla. Salvo poi quelli candidati a “morire” di fame tirati a sorte e salvati dal Bob Geldof
di turno. La stessa Onu ha prefigurato delle strutture che dovrebbero occuparsi
dell’eliminazione della fame nel mondo, eppure nulla è accaduto. Mi riferisco alla Fao,
Food and Agricultural Organization istituita nel 1948. Sono passati 58 anni! Siamo qui
ancora a parlarne. Eppure, a mia modesta conoscenza, nell’Africa centrale piove tanta di
quella acqua, ogni anno. Accade che ci siano pure delle inondazioni. Eppure manca
acqua. Eppure manca cibo. Eppure in alcuni di quei paesi dove si “muore per fame” c’è il
petrolio. È anche vero che non si può bere il petrolio, fosse grezzo o anche raffinato.
Eppure alcuni esperti dicono che molti paesi della stessa Africa, specie quelli
subsahariani, sarebbero in grado di sfamarne molti altri. E nulla accade. Sarebbe
importante sapere cosa ne pensano i filosofi, gli antropologi, insomma, le madri e i padri
di quelle discipline ancora oggi bistrattate nell’Occidente colto e opulento. Quelle
discipline che prevalentemente basano la loro riflessione/studio sull’uomo inteso come
valore assoluto e non già relativo. Ad una comunità, quella globale, che pur di non dire la
verità sul perché le persone “sono uccise per fame” si nasconde tra neomalthusiani e
antimalthusiani, è dovere ricordare che il Saggio sul principio della popolazione del buon
reverendo T. Malthus fu scritto nel 1798 e che di vero, oggi, c’è solo il dato che l’Africa
sta indietro di 208 anni. Della fame ne hanno parlato gli economisti e molti altri, ma
sembra non essere servito a nulla. Quando Bob Geldof fece il suo Mega Global Show Life
Eight Aid per chiedere ai Signori del G8 un occhio di riguardo per quegli africani denutriti,
quel giorno capì un principio fondamentale: la fame è una questione essenzialmente
politica e non della sola terra che non produce abbastanza per sfamare. La politica
dell’onestà e della consapevolezza, la politica che umanizza l’azione dell’uomo, e non
bisogna vergognarsi o aver paura nel dirlo.
Aiutare come?
La fame non è solo colpa di quegli “africani eternamente pigri e incapaci di seminare il
grano”. Sì, proprio in Europa, ho spesso sentito docenti e discenti dire con inconsapevole
paternalismo, retaggio di una cultura coloniale giammai totalmente sedata:
«Insegnamogli a zappare la terra e a seminare. Se continuiamo a portargli da mangiare,
non impareranno mai come si fa». Affermazioni inconsapevolmente razziste che denotano
la costruzione del concetto di razza: quelli appunto destinati ad essere “uccisi per fame”
che, stranamente, coincidono con quelli che un tempo venivano descritti come inferiori,
selvaggi e non acculturati. Paradossalmente queste affermazioni razzistiche ci fanno
capire un principio nascosto: non c’entrano e non servono più i numeri per parlare di
fame. Non servono neanche più quelle tonnellate di grano, farina, latte in polvere (a volte
scaduti) per impedire alle persone di “essere uccise per fame”. Decine di anni fa –
raccontano le cronache, non si sa fino a che punto maliziose – i cargo di grano inviati in
alcune nazioni africane per sfamare la popolazione venivano dirottati verso altre nazioni
del secondo mondo, a fabbricatori per pagare le armi. Armi da guerra. Non servono più
bibliografie di autori e ricercatori titolati per teorizzare la fame. Oggi serve, sempre che ci
sia buona volontà, andare a decifrare i luoghi comuni sulla “fame che uccide”. La risposta
per una ricerca di soluzione alla questione “fame” sta anche lì, e può sembrare
paradossale. «Se continuiamo a dargli da mangiare non impareranno mai». Pur tuttavia,
ipotizziamo la verità di questa asserzione e, al contempo, ipotizziamo anche la
partecipazione dei rappresentanti dei popoli “destinati a essere uccisi per fame” ad un
tavolo serio di concertazione per la ricerca/soluzione al problema.
Perché al tavolo dei giganti, di solito sono otto, non possono sedere anche i piccoli (per
par condicio dovrebbero essere anch’essi otto) che pur sempre governano i paesi del
mondo terzo affamato? Forse sapranno meglio rappresentare la loro fame e disperazione.
Questi auspicabili L8 (L sta per little, piccoli), sarebbe a dire i paesi del terzo mondo, da
chi dovrebbero essere rappresentati e quali sono le loro credenziali? Un navigato uomo
politico italiano ad un convegno in Toscana mi raccontò, a dire il vero c’erano altre
persone, che al convegno della Fao svoltosi a Roma l’anno prima si presentarono molti
Capi di Stato africani, o chi per loro, per mendicare (mio corsivo) la sospensione o
annullamento dei debiti dei loro paesi. Scortati dagli uomini dell’arma dei carabinieri
(questione di sicurezza), a fine manifestazione andarono, con o senza le gentili consorti,
a fare shopping. Per carità. Entrarono nei negozi di alta moda, alta gioielleria e fecero
razzia. Comprarono gioielli e pellicce. Capite? E i carabinieri dello Stato sovrano italiano
gli facevano pure da guardie del corpo (questione di cortesia)!
Fare largo per una nuova civiltà o cultura, nella quale non si debba essere uccisi per
fame. Giocare alla pace, dando degli strumenti per costruire la sazietà agli altri da noi.
Non avrebbero più fame, e non morirebbero più quei bambini, quelle donne, quegli
uomini se tutti noi ci facessimo trovare e diventassimo genitori, un legame che non è solo
di sangue. Dovessimo operare così, la fame potrebbe sparire, e non ci sarebbe più
guerra, quella invisibile, appunto.
Pane, un bene negato
La fame è una guerra invisibile. Ho voluto intitolare il mio piccolo contributo: “La fame è
il braccio armato del razzismo” nella speranza che scuota le coscienze a nord e a sud del
mondo. Vivo in Calabria, una terra che anch’essa ha fame. Una terra che nel suo grembo
porta una guerra invisibile: la ‘ndrangheta. E quando diventa visibile, la società, la gente,
le famiglie, le persone per bene versano fiumi di lacrime. Fame non è solo questione di
cibo.
Vi sono popoli al mondo il cui destino sembra segnato, se vogliamo affidarci anche ai
proverbi che come ben sapete sono citati come fonte di saggezza antica.
Pensate al detto la fame nera. In questo senso, mai detto fu così azzeccato. Come dire
che la fame la possono soffrire solo i neri o quasi. Certamente di fame soffrono i poveri. E
guardate caso, l’Africa è il continente nero e povero per eccellenza.
Si può leggere la fame in termini di “razza”, concetto che con i miei studenti, ma anche
molti sociologi ed antropologi, abbiamo cercato di decostruire? Ahimé sì. Qui si tratta di
avere la possibilità di accesso alle risorse primarie: acqua e cibo. Si tratta di avere
accesso ad una economia di sussistenza e sopravvivenza. Ebbene, chissà perché, questo
diritto è negato ad alcuni uomini e donne e bambini che popolano questo mondo. Siamo
stati capaci di “razzizzare” le persone e di trasportare lo stesso concetto di “razza”, e cioè
la negazione dell’altro da sé, sulle cose come ad esempio il cibo, l’acqua. Per dirla in
termini cristiani, ci sono delle persone al mondo che non hanno del pane da mettere
sotto i denti. Dal mio modesto punto di vista, dunque, accosto il dato fame al concetto di
“razza”. Ed oso affermare che è frutto di razzismo lasciare che altri da noi muoiano di
fame. Un razzismo economico, che è solo una derivazione della categorizzazione degli
uomini in superiori ed inferiori. Quella pseudo-scienza che pretendeva di spiegare l’uomo
partendo dai suoi caratteri e differenze somatiche. Ecco perché «nel 19° secolo la
posizione di predominio politico delle potenze europee fu vista come la prova della
superiorità della razza bianca» (M. Harris, 1999).
Non vorrei sbagliarmi nella citazione, credo di aver letto nel Vangelo, la Parola di Dio,
ovviamente per coloro che vi credono che: “non si vive di solo pane…”. Il cibo, e bene lo
sappiamo, non è solo cosa mangiamo. Dunque, non si vive di solo pane. Questo versetto
sarebbe vero, se le popolazioni delle quali parliamo, quelle del cosiddetto terzo mondo,
avessero accesso ad altre risorse come ad esempio la scolarizzazione, la salute, la libertà,
la pace, che sono importanti quanto il pane e l’acqua. Forse più importanti perché, se
accedessero a queste ricchezze materiali ed immateriali, sarebbero attori e non spettatori
della loro vita e del loro destino. Il destino della mano tesa che li umilia, e non sempre
hanno la forza della consapevolezza e della ribellione per riappropriarsi della loro dignità.
La tecnologia e il suo futuro
Per molto tempo il mondo ha guardato alle tecnologie per la risoluzione della fame. Che
la tecnologia, nell’accezione eurocentrica e non antropologica del termine, sia una buona
invenzione della modernità è anche accettabile, che però diventi la panacea per spiegare
la fame e risolverla è veramente improponibile, nonché un insulto alla vita stessa e
all’intelligenza delle persone costrette ad “essere uccise per fame”. Gli uni hanno la
sazietà e rappresentano il 20% della popolazione mondiale e al restante 80% spetta la
fame, la guerra invisibile. La fame nasce dal cattivo rapporto tra gli individui: nord-sud.
La fame dipende da chi è in grado di prendere delle decisioni. In sostanza, la fame
dipende da chi detiene il potere. Non solo i potenti del primo mondo. La fame dipende da
coloro che governano i paesi dove vige la fame, dove impera la guerra invisibile e silente.
La fame nasce dalla cattiva comunicazione. La guerra invisibile è un problema politico. La
fame, guerra invisibile non è solo questione della terra che non produce, ma anche della
desertificazione. La guerra invisibile ha come fonte anche la deforestazione. La fame è
quella cosa, non tanto oscura, che spinge i migranti verso le porte dell’Occidente, caricati
come sardine nelle barchette che poi, secondo copione, s’inabissano nel Mediterraneo.
E quelli che arrivano vanno nei centri cosiddetti di prima accoglienza, mentre la seconda
accoglienza non è ancora molto chiara. Quella fame continuerà a traghettare nel
luccicante primo mondo gli affamati e affannati, a costo di farsi paracadutare, dovessimo
alzare barriere e militarizzare le porte di accesso. La fame è quella cosa che
maledettamente nega il concetto di persona, e di vita dunque, per cui troviamo giovani
donne africane allineate lungo le strade non tanto di periferia del mondo opulento per
donare non solo il loro sangue, il loro corpo, ma anche la loro anima. La fame è quella
cosa che uccide, socialmente prima ancora che fisicamente, ed è forse la consolazione.
Quelle donne arrivano da tutto il mondo povero, ci sono anche quelle dell’ex blocco
sovietico dove c’è il boom di nuovi miliardari.
Fare per fame
Ritornando alla tecnologia. Se la stessa non sarà antropomorfizzata, e cioè pensata e
costruita avendo al centro della sua attenzione l’uomo, antropos, sarà una tecnologia
della quale le prime vittime saranno gli esseri viventi tra i quali l’uomo appunto. Con le
nostre scoperte ed invenzioni tecnologiche abbiamo inquinato l’aria e l’acqua e stiamo
mettendo a repentaglio gli equilibri climatici. Fa sempre più caldo, i ghiacciai si stanno
sciogliendo. Ora vi chiedo: come pensiamo possa la terra rigenerarsi?
Ritornando ai cosiddetti centri di prima accoglienza che tanto hanno destato scandalo
dopo il reportage del giornalista dell’“Espresso” per le condizioni nelle quali sono costretti
a stare i migranti, vi lascio una riflessione, da africana, da migrante: ma li avete mai
sentiti quegli uomini, quelle donne, quei bambini lamentarsi di quella che abbiamo
chiamato condizione disumana? Per sopportare l’affanno di quei luoghi, che alcuni non
hanno esitato a definire lager, ci siamo chiesti da quale realtà peggiore arrivano? E se
fosse meno lager il centro di prima accoglienza rispetto all’inferno che lasciano alle
spalle? Non che stia difendendo questi centri, cerco soltanto di farvi capire quanto
possano essere importanti i punti di vista. La fame per me può non essere la stessa per
te. Non è sempre vero dunque, tanto per citare un altro detto, che la fame è fame. È
importante anche il punto di vista degli altri da noi. Il bambino destinato ad essere
“ucciso per fame” non sa di cosa e perché morirà.
L’Africa vuole vivere
Molte volte mi sono sentita dire: ma se in Africa muoiono di fame, perché fanno tanti
bambini? Voglio ricordare che l’Africa è il continente più grande ed è anche il meno
popolato. 880 milioni di persone, quando si fa in tempo a contarli. In Africa, si fanno tanti
bambini perché alla fine qualcuno si possa salvare, perché qualcuno possa sopravvivere.
Per non rischiare l’estinzione. Per un minimo, non so fino a che punto inconsapevole, di
equilibrio demografico, e qui Malthus non c’entra. L’Africa non è sovrappopolata.
Trovo scandaloso ed offensivo, e lo definirei reato contro l’umanità, il fatto che si
sostenga che, riducendo le nascite, si riduce la fame. Inversamente si dovrebbe
sostenere che, poiché gli svizzeri sono molto ricchi, gli possiamo dare delle pillole per farli
procreare di più? È aberrante.
Jeremy Rifkin afferma che “il grano c’è”. E potrebbe bastare alle popolazioni denutrite.
Ma il 36% della produzione mondiale serve solo all’allevamento del bestiame e sono due
miliardi gli uomini che soffrono la fame. Gran parte dei terreni coltivabili vengono
utilizzati per la coltivazione di cereali ad uso zootecnico piuttosto che per cereali destinati
all’alimentazione umana. Tutto questo perché i ricchi della terra consumano carne bovina
e suina, pollame e altri tipi di bestiame, tutti nutriti. Cosa ne pensate? Negli Stati Uniti
d’America, oltre il 70% del grano prodotto è destinato all’allevamento del bestiame.
Concludo: la pace non è necessariamente l’assenza della guerra. La pace si può costruire.
La pace è un diritto? La fame non è necessariamente la mancanza e l’assenza di cibo. La
fame è la negazione della libertà. La fame è la negazione degli strumenti per accedere ai
diritti.
Geneviève Makaping. ANTROPOLOGA E GIORNALISTA, DIRETTORE DE “LA PROVINCIA
COSENTINA”.
NUMERI DALL’AFRICA
Alcuni dati per sapere qualcosa in più di coloro di cui abbiamo parlato:
• in Etiopia solo 6 persone su cento hanno accesso ai servizi sanitari e all’acqua potabile.
• Bostwana, Lesotho, Malawi: aspettativa di vita, 36 anni. Swaziland 32 anni.
• In Nigeria, il 70% della popolazione è sotto il livello di povertà assoluta.
• Nello Swaziland, quasi 40 persone su cento sono affette dall’Aids.
• In Eritrea, il 19,4% del Pil è impegnato nella spesa militare.
• La Somalia ha il più alto tasso di crescita demografica: 3,38%.
• Nel Burkina Faso solo il 12% della popolazione sopra i 15 anni è alfabetizzato.
Fonte: Nigrizia.