Le avventure di Pinocchio. Storia di un burattino
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Le avventure di Pinocchio. Storia di un burattino
Le avventure di Pinocchio. Storia di un burattino Il desiderio di rimanere eterni bambini ha da sempre ispirato gli scrittori (basti pensare al personaggio di Peter Pan, creato dalla fantasia di J.M.Barrie). Uno dei più celebri esempi in questo senso è Pinocchio di Carlo Collodi. Carlo Lorenzini (questo il vero nome dell'autore) nacque a Firenze nel 1826, e dopo aver partecipato alle guerre risorgimentali svolse a lungo l’attività giornalistica come direttore e collaboratore, fino all’anno della sua morte, avvenuta nel 1890. Le avventure di Pinocchio. Storia di un burattino è l’opera più conosciuta fra le molte che l'autore dedicò all’infanzia. La storia fu pubblicata dapprima a puntate su "Il giornale dei bambini" nel 1880 e poi in volume nel 1883. Lo sfrontato e ribelle Pinocchio disegnato da Toni Demuro per Vanity Fair (2008) La storia di Pinocchio affascinò fin da subito il pubblico, proponendo l’arcinota trama del burattino di legno, non cattivo ma frivolo e sprovveduto, che combina mille marachelle alle spalle del povero Geppetto, indimenticabile figura di padre putativo (una sorta di San Giuseppe comico e desacralizzato) che accetta la sua disgraziata creatura così com'è perché la vede con gli occhi dell'amore, pur cercando di educarla per quanto possibile; ma il monello non ne vuole sapere e finirà per cacciarsi seriamente nei guai nella vana ricerca della vita "facile". Attraverso l’esperienza del Paese dei Balocchi e poi della trasformazione in asino, Pinocchio riesce con molta fatica ad attuare il processo di crescita che lo porterà a diventare un bambino vero, cioè, metaforicamente, un adulto. La fama dell'opera è testimoniata dalle sue innumerevoli edizioni, su cui si sono cimentati valenti illustratori, e dalle sue rielaborazioni cinematografiche e televisive, che però spesso banalizzano il personaggio e non rendono giustizia alla complessità del racconto (è il caso del Pinocchio di Walt Disney, che vanta tuttavia tavole preparatorie di rara bellezza: quelle del grande illustratore e cartoonist Gustaf Tenggren). In realtà, per quanto rielaborata con grande freschezza e con un'inventiva a tratti surreale, la vicenda narrata da Collodi è tutt'altro che nuova, ed è anzi densa di riferimenti all'antichità classica: solo per fare qualche esempio, la creazione di Pinocchio ad opera di Mastro Ciliegia, che ricava il burattino da un comune pezzo di legno, rimanda da un lato alla creazione dell'uomo dal fango, presente sia nel racconto biblico sia nel mito esiodeo di Prometeo, dall'altro ad un episodio meno noto, cioè la fabbricazione della polena della nave Argo nelle Argonautiche di Apollonio Rodio: infatti, come Pinocchio, così anche la polena di legno sacro, appena scolpita, si rivela in grado di parlare. Il rimando dotto non deve sorprendere: che Collodi conosca bene la letteratura greco-latina, ed in particolare il romanzo, è evidente: basti pensare che l'episodio della balena che inghiotte Geppetto e Pinocchio è preso di peso dalla Storia vera di Luciano di Samosata (II d.C.), in cui il protagonista Lucino viene analogamente inghiottito da un enorme cetaceo all'interno del cui ventre sorge addirittura un'isola, su cui vivono un vecchio e suo figlio (che ricordano ovviamente Geppetto e Pinocchio). Ma se questi rimandi sono episodici e per così dire casuali, ve n'è un altro che ha un significato ben più profondo, di carattere filosoficoreligioso: ed è appunto il tema della trasformazione in asino. Tale tema costituisce un interessante sotto-insieme del più vasto e ricorrente tema della metamorfosi caro agli artisti di tutti i tempi (celebri nell’antichità le Metamorfosi di Ovidio e nel Novecento la surreale Metamorfosi di Kafka) e rappresenta un singolare leit-motiv ricorrente nella letteratura romanzesca del II secolo d.C. (ma non solo: si pensi ad esempio allo shakespeariano A Midsummer Night's Dream), risultando attestato in ben tre romanzi: le perdute Metamorfosi di Lucio di Patre, Lucio o l'asino dello Pseudo-Luciano e le Metamorfosi (o L'asino d'oro) di Apuleio. Resta il fatto che la vicenda della trasformazione bestiale ricorre in modo insistente - con o senza asino - in diverse opere letterarie di tutti i tempi: basti pensare alla favola di Amore e Psiche che occupa i libri centrali delle stesse Metamorfosi di Apuleio, o alle Confessioni di Sant'Agostino, non a caso appassionato lettore di Apuleio (fu lui a coniare per le Metamorfosi il sottotitolo di L'asino d'oro), oppure alla vicenda allegorica narrata da Dante nella Divina commedia: in tutti questi casi gli autori descrivono una condizione di estrema confusione mentale e morale in cui i protagonisti vengono a trovarsi per un fatale errore di presunzione intellettuale (curiositas) ed il loro tentativo di risollevarsi con le proprie forze, fallimentare ma necessario, perché preliminare all'intervento della Grazia divina (nel caso di Dante Beatrice), la quale non interviene se non quando vede che l'individuo ha esaurito tutti i tentativi umanamente possibili: emblematico in tal senso il caso di Lucio-asino, che corre a perdifiato finché non arriva sulla riva del mare: allora, non potendo più fuggire, si getta stremato sulla spiaggia e prega la dea Iside (la Luna) di farlo morire. Poi si addormenta, ed è proprio allora che arriva la Grazia divina (Iside stessa) a salvarlo. E' chiaro quindi che Collodi, con l'apparenza di intrattenerci (come del resto lo stesso Apuleio: cfr. il Prologo delle Metamorfosi), allude invece ad un complesso retroterra culturale e perfino religioso, indicando in questo caso un faticoso percorso di crescita e di maturazione che porta l'individuo da una condizione di bruta materialità alla conquista di una dimensione propriamente umana, etica e spirituale. La vicenda si compone di 36 capitoli che presentano un'evidente bipartizione: fino al capitolo 15 la narrazione si presenta stringata e compatta, mentre nella seconda parte procede più distesa e, soprattutto, maggiormente impregnata di valore pedagogico, per il frequente richiamo al premio finale della trasformazione in bambino vero. Il critico Alberto Asor Rosa sottolinea una costante di Pinocchio, che lo allontana drasticamente dai comuni racconti "per bambini" e ne rivela la complessità semantica: l'ambiguità. Tale ambiguità si esprime attraverso la coesistenza di coppie concettualmente opposte: - bambino/burattino; - personaggi realistici/personaggi fantastici; - fiaba/racconto realistico. A questo discorso, poi, si ricollega quello dell’ambiguità del tempo, sempre poco chiaro o talvolta impossibile, e dello spazio, che varia dal ventre della balena all’umile casa di Geppetto, dalle spiagge in riva al mare al Paese dei Balocchi. Asor Rosa passa in rassegna altre caratteristiche dell'opera, analizzando il corpo di Pinocchio (in particolare il naso) e la sua indole, non cattiva ma leggera, per cui egli si crede intelligente mentre in realtà è un gran credulone. Interessante poi che la famiglia di Pinocchio sia tutta al maschile, mentre è assente l'elemento femminile: la Fata rappresenta in effetti una presenza inquietante, che sconcerta e sgomenta i bambini quando appare nelle vesti di una "bambina morta" nel quindicesimo capitolo. La Fata dovrebbe rappresentare prima una sorellina, poi una vera e propria madre, ma di fatto non rappresenta nulla di tutto questo e forse nulla di umano, perché nel finale scompare. Il mondo che attornia Pinocchio è crudele ed ingiusto, anche e soprattutto nelle sue figure istituzionali: si pensi ai Carabinieri e al Giudice. Gli adulti, a parte il dolcissimo Geppetto, sono tutt'altro che esemplari, e rendono molto difficile a Pinocchio il suo progetto di crescita, delineando un Bildungsroman a dir poco singolare, come del resto lo è quello di Renzo nei Promessi sposi di Manzoni: nel capitolo finale del romanzo, infatti, quando il giovane tira le somme di quello che ha imparato e cerca "il sugo della storia", ne viene fuori un'accozzaglia alquanto sconclusionata, sulla quale Lucia ironizza garbatamente. Analogamente nel David Copperfield di Charles Dickens, pubblicato tra il 1849 e il 1850, si ripercorre per intero la vita di David, dall’infanzia alla maturità e, solo nel finale, si arriverà ad un lieto fine. Jane Eyre invece è un romanzo di formazione della scrittrice Charlotte Brontë, uscito nel 1847, ed è un racconto autobiografico, in cui la protagonista nonostante le disgrazie riprende in mano la sua vita e alla fine otterrà la felicità che desidera. Asor Rosa riserva a Cuore di Edmondo Deamicis e a Pinocchio un posto di particolare rilievo nella storia della cultura dell’Italia Unita: infatti in Pinocchio, a dispetto di quanto potrebbe far credere la presenza di personaggi fantastici, il contesto è realistico e lo spunto di partenza è storico: quell'"Italia bambina", appena formatasi dopo l'Unificazione, caratterizzata da una grande ma dignitosa povertà e dalla volontà di riscatto dei ceti umili attraverso l'istruzione pubblica (Geppetto vende la sua povera giacca di fustagno, in pieno inverno, per pagare a Pinocchio l'abbecedario). Il tenerissimo Pinocchio di Jacovitti (1964) In ogni caso il problema principale è il rifiuto di diventare adulto: Pinocchio non vuole crescere, vuole rimanere per sempre un bambino. Egli insomma soffre di quella che gli psicoanalisti, sulla scorta di Sigmund Freud, definiscono Sindrome di Peter Pan. Di una sindrome di questo genere soffriva in modo latente, si direbbe, Giovanni Pascoli, non tanto per la sua ben nota poetica del "fanciullino" (che identifica la sorgente dell'ispirazione poetica nello stupore infantile), quanto proprio per le sue vicende personali, legate al trauma dell'assassinio paterno ad opera di ignoti, uno shock mai superato che lo rese di fatto incapace di uscire dal "nido" familiare (si vedano La cavalla storna e X agosto). Connessa con questo rifiuto della crescita è la tipica attitudine di Pinocchio a mentire, che nel suo caso provoca un'immediata e smisurata crescita del naso: ma qual è il significato della menzogna nel bambino? Ne sono state tentate diverse interpretazioni psicologiche. Ferenczi ad esempio vedeva la bugia infantile come un sentimento di "onnipotenza del pensiero", che ha la funzione di mantenere intatte le illusioni del bambino circa la propria onnipotenza. Melanie Klein invece vede la menzogna come un fenomeno che attesta il declinare del potere genitoriale. Mentire significa alterare consapevolmente la verità. Nel bambino la distinzione fra vero e falso, e quindi tra verità e menzogna, avviene in maniera graduale. Il fatto è che per il bambino dire la verità non è affatto un processo automatico, ma rappresenta anzi un apprendimento progressivo. Sono gli adulti a dare importanza e valore alla confessione della verità, e sono loro quindi che insegnano al bambino il valore sociale del dire il vero. Nello stesso tempo, però, è vero anche l'opposto: il bambino, a partire da un certo punto del suo percorso evolutivo, quando gli si raccontano delle fiabe consolatorie, esige la verità, e naturalmente, ad un certo punto, l’adulto è costretto a confessare che le favole sono fantasie. Il bambino prende atto malvolentieri di questa amara verità, ed in qualche modo si sente tradito dagli adulti, che gli hanno sempre raccontato un cumulo di fandonie. Rifiutare la verità, da parte del bambino, sembra quindi avere il significato di un rifiuto non solo delle regole imposte dagli adulti, ma anche delle loro menzogne. Purtroppo però rimanere bambini non è possibile: in un mondo così crudele, una persona infantile e sprovveduta non può sopravvivere; per questo Collodi, pur comprendendo bene lo stato d'animo del povero burattino, lo punisce duramente, facendolo incorrere in un’interminabile serie di peripezie che lo portano spesso vicino alla morte, finché non si decide a capire che il rischio che sta correndo è troppo alto. Tuttavia la crescita di Pinocchio è resa possibile solo dalla mediazione dell'amore: non tanto e non principalmente quello dell'ambigua Fata Turchina, che è subordinato a troppe condizioni e quindi non appare del tutto sincero, quanto quello semplice di Geppetto, l'emblema dell'uomo che crede per fede, che ama incondizionatamente ed è pronto a dare la vita per amore, e nello stesso tempo dice la verità a Pinocchio, senza ammantarla di puerili illusioni: senza questa mediazione, probabilmente Pinocchio non ne vorrebbe sapere di entrare in un mondo fatto solo di regole incomprensibili e di crudele cinismo. Figura fondamentale nel processo di crescita di Pinocchio è quella del Grillo Parlante che funge da Super-io freudiano, cioè quell’insieme eterogeneo di modelli comportamentali, oltre che di divieti e comandi, che rappresenta un ipotetico ideale verso cui il soggetto tende con il suo comportamento. “E’ una sorta di censore che giudica gli atti e i desideri dell’uomo”. E' da notare poi che il modo in cui, nel finale, Pinocchio diventa bambino è sorprendente: quando infatti Pinocchio-asino viene gettato in mare nel capitolo XXXIV, i pesci mangiano la pelle dell'asino ed egli non assume affatto sembianze umane, come il Lucio delle Metamorfosi, ma torna ad essere un burattino. Solo nel capitolo XXXVI, quello finale, avviene la trasformazione, ma il processo è troppo sbrigativo per essere ascritto ad una vera "maturazione" del personaggio, come dovrebbe accadere in un "romanzo di formazione", ed avviene per l'intervento della Fata Turchina. Ma - ed è questo il retrogusto amaro della storia - il Pinocchio divenuto bambino è privo di fascino: è un bambino come tutti gli altri, entrato nel ciclo della vita "vera", sottratto al caos onirico in cui era immerso il burattino, per il quale tutte le porte della fantasia erano ancora aperte: e proprio per questo la storia può finire, perché il seguito - diventare adulti ed entrare nella gabbia delle convenzioni sociali - in fondo non interessa a nessuno.