Le pitture rupestri delle grotte di Lascaux

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Le pitture rupestri delle grotte di Lascaux
Corso di Scienze Applicate ai Beni Culturali AA 2013-2014
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Docente Dr. Peana Massimiliano
Le pitture rupestri delle grotte di Lascaux
Manunta Anna; matricola n°30047839; e-mail: [email protected]
RIASSUNTO
La grotta di Lascaux, definita la “Cappella Sistina della preistoria”, fu scoperta nel 1940 in
Dordogna, Francia, ed è unanimemente considerata il più alto esempio di pittografia preistorica
giunto fino ai nostri giorni. Risale al Paleolitico superiore e venne realizzata in un arco di tempo
stimato tra il 17.000 e il 16.000 a.C.. Il riconoscimento delle sue pitture fu effettuato dall’abate
Henri Breuil, primo studioso a entrare nella cavità e a cominciare lo studio delle pitture,
continuato poi dall’abate Andrè Glory, suo allievo. Quest’ultimo si occupò del rilievo delle circa
900 figure presenti sulle pareti e sulle volte, procedendo parallelamente allo scavo sistematico
dei depositi archeologici all’interno della grotta. Di facile accesso e aperta al pubblico dal 1948
dovette essere chiusa già nel 1963 per le alterazioni ambientali causate dall’altissimo numero di
visitatori. Essa rientra nella categoria delle grotte santuario e ha restituito numerose tracce
dell’attività degli artisti che realizzarono le pitture. La tecnica di esecuzione è quella della pittura
stesa direttamente sulla roccia senza preparazione a intonaco. La roccia calcarea e l’ambiente
umido riuscivano a far penetrare in profondità i pigmenti colorati che si basavano su quattro
colori fondamentali, rosso, giallo, nero e bianco con diverse tonalità. Tutti i pigmenti usati a
Lascaux, tranne quelli contenenti carbone di legna, erano costituiti da minerali ridotti in polvere.
Era però raro l'uso, come pigmento, di un solo minerale; di solito i minerali venivano mescolati.
Attraverso l’analisi accurate siamo al corrente della grande importanza dei pigmenti a base di
ossidi di ferro, intensi e duraturi nel tempo. Tre studi differenti effettuati sui pigmenti, hanno
dato informazioni importantissime sui luoghi d’estrazione dei minerali, con l’aiuto, per esempio,
di dati governativi di rilevamenti geologici effettuati precedentemente sul luogo. E’ stato
possibile anche conoscere il livello tecnologico di chi ha realizzato queste grandiose opere grazie
all’utilizzo della microscopia elettronica a scansione, la diffrazione a raggi X, utilizzata soprattutto
per la caratterizzazione dei pigmenti e la petrografia ottica. Lascaux è certamente unica per più di
un motivo, per la sua straordinaria ricchezza sia come quantità che come qualità delle opere
d’arte (596 figure animali, 1 figura umana e 410 segni), per l’omogeneità stilistica di tutto il
complesso, per le sue pitture bicrome e per il senso del movimento e dinamismo impresso alle
figure. Rappresenta l’aspetto più evoluto dello stile III, secondo la classificazione stilistica dello
studioso André Leroi-Gourhan, tipico dell’area franco cantabrica.
INTRODUZIONE
ascaux è in Dordogna, poco a sud del piccolo paese di Montignac, sulla sinistra della
Vézère, una ventina di km a monte di Les Eyzies. La scoperta della celebre grotta si verificò
casualmente agli inizi del settembre 1940 da parte di un gruppo di quattro giovani tra i 15
e i 17 anni. Il maggiore, Marcel Ravidat, si recò nel bosco di Lascaux con due amici alla ricerca del
sotterraneo di cui le aveva parlato la madre. Nonostante avessero stretto l’impegno di tenere il
segreto, nei giorni successivi la notizia si diffuse in un batter d’occhio, gli stessi scopritori
portarono a visitare la grotta decine di giovani di Montignac. Fin dal maggio 1940 l’abate Breuil,
temendo di essere arrestato dai tedeschi, si era trasferito da Parigi presso alcuni amici ad una
trentina di km ad est di Montignac e lì, il 17 settembre, apprese per telefono la notizia della
scoperta. Maurice Thaon entrò nella grotta e fece i primi rilievi per conto di Breuil, che arrivò nei
giorni seguenti. Fu subito raggiunto da Denis Peyrony ed entrambi giudicarono le pitture di
Lascaux di età gravettiana. Breuil preparò subito un rapporto per l’Academie des Inscriptions, che
riuscì fortunosamente a far recapitare. In questo periodo cominciarono ad affluire giornalisti,
curiosi e una gran numero di persone visitò la grotta.
Il 29 ottobre in occasione della visita del conte Bégouën, l’accesso alla grotta fu ampliato,
scavando un’ampia trincea e tagliando il bosco tutt’intorno. L’abate Breuil continuò a studiare la
grotta fino agli inizi del 1941. Fin dai primi giorni sul suolo della grotta furono raccolti reperti
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archeologici come industria litica, pezzetti di ocra, lucerne di pietra grezza, zagaglie d’osso. Molte
pitture erano a portata dei visitatori, che potevano toccarle con le mani. Per porre un freno alla
massa dei visitatori si installò una porta e venne costruito un capanno di protezione. Il 27
dicembre Lascaux fu classificata tra i Monumenti Storici, il che permetteva l’intervento
dell’autorità pubblica su una proprietà privata. Già nel 1955 si cominciò ad osservare come
l’afflusso dei visitatori, a causa dell’emissione di anidride carbonica, provocava una condensa e
che l’acqua di condensazione scioglieva il colore delle pitture. Si provvide quindi ad installare un
impianto di climatizzazione che manteneva la temperatura a 14° e rinnovava continuamente
l’aria all’interno della grotta. I visitatori erano arrivati a toccare le mille unità giornaliere.
Eliminato il fenomeno della condensa, nel 1960 il conservatore della grotta, Max Sarradet,
osservò per la prima volta delle macchie verdi sulle pitture e nello stesso anno l’abate Glory
denunciò il pericolo del degrado delle pitture. Una commissione scientifica appurò che sulle
superfici istoriate stavano moltiplicandosi numerose specie di alghe, funghi, muffe e muschi.
Nel 1963 il ministro della Cultura André Malraux ordinò la chiusura della grotta. Eliminati i
micro-organismi, la grotta è tenuta sotto costante monitoraggio e possono accedervi soltanto
studiosi e personalità della cultura dietro autorizzazione.
1. Descrizione degli ambienti e il contesto archeologico
Il vero esploratore di Lascaux fu l’abate Andrè Glory che lavorò in molte grotte della
Dordogna e del Lot e divenuto discepolo di Breuil fu il suo prezioso collaboratore degli ultimi anni
di vita.
Molti dei problemi di conservazione di Lascaux derivano dal fatto che si tratta di una grotta
piuttosto piccola e allo stesso tempo ricca di opere d’arte parietale. L’ingresso attuale coincide
con quello di età preistorica, che rimase poi ostruito per il crollo del soffitto e l’accumularsi dei
detriti. La morfologia interna della grotta porta a distinguere più ambienti (Fig. 1).
Figura 1. Pianta della grotta di Lascaux
A venticinque metri dall’ingresso inizia la cosiddetta sala dei tori (Fig. 2), detta anche rotonda,
dove si sviluppa una sequenza di figure animali per circa venticinque metri su entrambi i lati
dell’apertura che immette nel diverticolo assiale. Sulla destra della rotonda si va in un secondo
corridoio che conduce all’abside alla cui estremità si apre un pozzo e continua nella navata
terminando con la sala dei felini. Il fregio della rotonda è dominato dalle quattro gigantesche
figure di tori mentre al livello del loro ventre e delle loro zampe si muove una folla di animali più
piccoli. I tori sono disegnati a linea di contorno nera molto spessa con qualche campitura parziale
per le zampe e il muso e punteggiature sempre nere per il muso. I cervi si caratterizzano per il
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grande sviluppo delle ramificazioni delle corna (Fig. 3). Il diverticolo assiale è riccamente istoriato
con figure dipinte sia su entrambe le pareti che sul soffitto. La grande galleria e l’abside sono
ricchi di figure incise di cavalli, cervi, bisonti, tori, stambecchi, che formano veri e propri palinsesti
indecifrabili. In fondo al pozzo si trovano le pitture più singolari di tutta la grotta perché è stata
rappresentata la cosiddetta “caccia tragica”(Fig. 4) dove è stato riprodotto un bisonte ferito da
una zagaglia dal quale sembrano fuori uscire le interiora, in atto di caricare un uomo con la testa
di uccello. Quello del pozzo è uno dei rarissimi casi di scena vera e propria di tutta l’arte parietale
paleolitica.
Figura 2. Parte del fregio della rotonda con due dei quattro tori che caratterizzano la sala.
Figura 3-4. il cervo con le sue particolari corna ramificate e la scena del pozzo.
Nei primi anni ’60 ci si accorse che il calore e l’umidità portati dai visitatori avevano causato la
comparsa di muffe e il deterioramento dei colori. Fu quindi individuato a circa 200 metri
dall’originale un sito compatibile per realizzare Lascaux II, una fedelissima riproduzione della sala
dei tori e della galleria dipinta, aperta dal 1983.
Il precipitare dei tragici avvenimenti connessi alla seconda guerra mondiale impose una pausa
forzata alla ricerca scientifica di Lascaux che contribuì anche a distogliere per un certo periodo
l’attenzione della grotta facendo venir meno il flusso dei visitatori, un rischio costante per
l’integrità delle opere d’arte parietale.
A Lascaux è mancata un’indagine scientifica completa ed esaustiva del suolo e del deposito
formatosi all’interno della caverna; però, grazie agli sforzi dell’abate Glory, molti dati scientifici
sono stati recuperati. Numerose stratigrafie osservate e studiate in diversi punti della caverna,
all’entrata, nella Sala dei Tori, verso il fondo del Diverticolo Assiale, nella Grande Galleria e nella
Navata, nell’Abside e nel Pozzo, hanno permesso di ricostruire la storia del riempimento della
caverna e della sua frequentazione da parte degli uomini del Paleolitico Superiore. La parte
inferiore del riempimento è costituita da argille di decalcificazione, dello spessore da 2 a 4 m;
sono poi intervenuti fenomeni di ruscellamento ed un primo crollo del soffitto dell’entrata della
caverna, con deposizione di strati di pietrisco. Al tetto di questi strati si imposta la frequentazione
da parte degli uomini paleolitici, con formazione di un sottile livello archeologico, dello spessore
da 2 a 15 cm, contenente un gran numero di materiali culturali.
Lo strato archeologico attesta solo una frequentazione e prosegue dall’entrata fino a tutti gli
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ambienti interni. La grotta non fu mai abitata, ma solo frequentata per eseguire le opere d’arte
parietale e i riti che dovevano essere in relazione con queste opere. Dopo la fase connessa all’uso
della grotta come santuario, il livello archeologico è rimasto sigillato da strati di ciottolame e
argilla, e infine si è verificato un nuovo crollo del soffitto dell’entrata, che ha portato
all’ostruzione quasi completa dell’entrata.
Con il miglioramento climatico della fine dei tempi glaciali e dell’inizio dell’Olocene si è
formato un pavimento stalagmitico. Questo mantello di calcite è stato ritrovato in quasi tutta la
grotta, ma non nell’Abside, e di conseguenza neppure nel Pozzo, e nel Gabinetto dei Felini,
poiché la sua formazione è dovuta al passaggio dell’acqua, che non ha potuto raggiungere le parti
che si trovavano a una quota più alta. Le analisi polliniche effettuate su campionature di
sedimento prelevate dall’abate Glory hanno mostrato che il livello archeologico si è formato in
un periodo di clima temperato, che è stato denominato interstadiale di Lascaux e che le datazioni
radiocarboniche collocano intorno a 17/16000 anni BP (Before Present).
I resti di fauna non sono molto numerosi, 133 in tutto. L’88,7 % appartengono a un’unica
specie, la renna, l’animale che non è praticamente raffigurato nella grotta, salvo un caso dubbio;
seguono in ordine di frequenza capriolo, cinghiale, cervo e cavallo.
Sulla pertinenza culturale dell’industria litica e su osso, Denys Peyrony, Breuil e Glory
espressero l’opinione che si trattasse di Perigordiano, vale a dire Gravettiano, pur mancando
elementi specifici e caratteristici in questo senso. Questa attribuzione era viziata alla base dalla
convinzione che l’età delle pitture fosse nell’ambito del ciclo aurignaco-perigordiano di Breuil.
Tutti gli specialisti concordano nell’attribuire il complesso degli strumenti di selce e di osso di
Lascaux al Maddaleniano antico, e più precisamente al Maddaleniano II.
Un carbone proveniente dalla Grande Galleria e due carboni raccolti nel pozzo sono stati
sottoposti a datazione radiocarbonica con il seguente risultato:
reperto
datazione
C-406
15516 ± 900 BP
Sa-102
16000 ± 500 BP
GrN-1632
17190 ± 140 BP
La data più recente è stata ottenuta da un carbone raccolto da Breuil e Blanc nel pozzo
sottoposto per l’analisi al dott. Libby. Si tratta delle prime datazioni radiocarboniche effettuate
dal laboratorio di Chicago e l’errore standard è molto elevato.
2 Colori e tecniche
I colori utilizzati erano pigmenti naturali. L’ocra designa un vasto numero di pigmenti, aventi
tonalità variabili dal bruno-rosso al giallo (Fig. 5), costituiti da materiale terroso, formate da ossidi
di ferro anidri e idrati, tra questi composti fanno parte l’ematite (Fe2O3) (Fig. 6) e la magnetite
(Fe3O4) tra gli ossidi anidri, e la goethite (FeO(OH)) (Fig.7) e la limonite (2Fe2O3.3H2O) (Fig.8) tra
gli ossidi idrati. Biossido di manganese (MnO2)(Fig.9) o carbone di legna per il nero. L’ossido del
manganese è un solido inodore di colore dal grigio al nero che si trova in natura nella pirolusite, il
principale minerale da cui si estrae il manganese. Il bianco invece veniva ottenuto dal gesso
(CaSO4. 2(H2O) (Fig.10), dalle crete e dalle argille.
Figure 5-6. Il “cavallo cinese” realizzato con varie tonalità di ocre e il minerale ematite (Fe2O3).
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Figure 7-8. La goethite (FeO(OH)) e la limonite (2Fe2O3∙3H2O).
Figure 9-10. Biossido di manganese (MnO2)utilizzato per ottenere il nero e il gesso, minerale
molto tenero, composto da solfato di calcio biidrato (CaSO 4. 2(H2O).
Giallo e bruno sono meno frequenti rispetto al rosso e al nero, mentre i colori blu e verde non
sono mai attestati nell’arte paleolitica.
Durante la preistoria, l’ocra è stata utilizzata sia in attività quotidiane che in ambito rituale;
veniva considerato un simbolo legato al colore del sangue quindi stava a rappresentare la vita e
la morte L’uso del carbone di legna finemente triturato per il nero è meno frequente di quello
dell’ossido di manganese.
I colori potevano comprendere, oltre al pigmento, anche un legante più o meno liquido come
l’acqua che ricca di calcare, agiva da legante precipitando calcite sulle pareti e i cristalli di questo
minerale imprigionavano gli ossidi di ferro e manganese garantendone una buona conservazione
nel corso dei millenni. Oppure secondo alcuni, il tuorlo d’uovo, che aveva il compito di diluire e
amalgamare il colore polverizzato e di dargli consistenza e fluidità, e un “carico”, un minerale
sminuzzato che aveva la funzione di favorire una maggiore aderenza del colore al supporto,
permettendo nello stesso tempo di economizzare il pigmento.
La maggior parte delle pitture dell’arte parietale sono monocrome, a sola linea di contorno
nera o rossa o a tinta piatta uniforme rossa o nera. Le figure bicrome, a colore rosso e nero, sono
meno frequenti. La bicromia di Lascaux è in realtà una sorta di policromia, poiché il colore del
supporto, il bianco della calcite che ricopre le pareti, interagisce con i due colori utilizzati, il nero
per le linee di contorno, il giallo o il rosso per il pelame, mentre il ventre non era colorato, ma
appare di un colore bianco latteo, che è quello del supporto. Il colore delle pitture poteva essere
dato in diverso modo, a volte con un pennello (e il suo uso ha lasciato tracce ben visibili
all’osservazione anche macroscopica) e in altri casi il tracciato rosso o nero delle figure era
realizzato per mezzo delle dita e così pure le punteggiature rosse o nere all’interno delle figure. Si
faceva scorrere lungo la parete l’estremità del pollice carica di colore oppure nel caso delle
punteggiature si appoggiava alla parete il polpastrello. A riprova dell’uso di questa tecnica vi è il
fatto che a volte sono chiaramente riconoscibili le impronte digitali.
Alcuni dipinti poi sono posizionati così in alto sulle pareti o sul soffitto da essere irraggiungibili
senza l’utilizzo di un escamotage. Leroi -Gourhan a tal proposito sostiene l’utilizzo di bastoni per
dipingere il soffitto mentre l’archeologo francese Andrè Glory sostiene venissero utilizzate delle
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rudimentali impalcature di cui egli stesso avrebbe ritrovato i resti; soluzione effettivamente
supponibile dalla serie di fori e sporgenze rinvenute sulle pareti del sito.
Le figure a campitura piena sono state eseguite con la tecnica della “soffiatura”, ancor oggi
utilizzata dagli Aborigeni australiani. L’ocra rossa o gialla veniva masticata e poi soffiata o sputata
sulla parete, in modo da ottenere per progressiva giustapposizione un riempimento della figura a
tinta piatta uniforme. È probabile che per ottenere delle figure con contorni precisi si facesse uso
di una mascherina. La “soffiatura” del colore poteva essere attuata anche attraverso l’uso di un
tubicino di osso riempito di colore ridotto in polvere.
3 Analisi dei pigmenti
Gli studi sui colori e la loro composizione sono iniziati quasi contemporaneamente con la
scoperta dell’arte parietale; sono infatti del 1902 gli studi di Henri Moissan, premio Nobel per la
chimica, sui pigmenti di Font-de-Gaume, e ancora lui nel 1903 realizzò gli studi su quelli di La
Mouthe, non rinvenendo in nessuno dei casi materiali organici come leganti ma solo tracce di
manganese e calcite a fare da “carica”. Stessi risultati ottenuti sempre nel 1902 dagli studi di
Courty dai pigmenti di Laugerie- Haute e dall’abate Breuil e da Cartailhac nel 1908 dalle pitture di
Niaux. Lorblanchet condusse uno studio su due siti del Quercy, Cougnac e Marcenac, dove le
analisi rivelarono a volte tracce di carbone, a volte di ossido di manganese, a volte tracce di bario.
Gerard Onoratini analizzò invece i vari tipi di pigmenti minerali utilizzati in Provenza, cercando di
determinarne la provenienza. Questi e molti altri studi hanno dimostrato come siano stati
utilizzati molti tipi diversi di pigmenti, quasi siano stati realizzati con materiali diversi, dalle varie
tonalità e densità, proprio per ottenere un determinato e ricercato tipo di colore.
I pigmenti utilizzati dai pittori del Maddaleniano a Lascaux sono stati oggetto di tre studi
connessi fra loro. Il primo è opera dell'École Pratique des Hautes Etudes di Parigi, di un suo
studente, Claude Couraud e Annette Laming-Emperaire, che hanno analizzato le materie prime
adoperate per produrre pigmenti in polvere e hanno stabilito le località, in quella regione della
Francia, dove si trovano questi minerali. Avevano a disposizione un totale di 158 frammenti che
l'abate Glory aveva rinvenuto in varie parti della grotta. A giudicare dai frammenti, i colori più
apprezzati nel Maddaleniano erano i neri (105 frammenti), i gialli (26), i rossi (24) e i bianchi (3). I
neri, per esempio, coprivano una gamma che andava dal nero scurissimo al grigio oliva, i gialli
andavano dal giallo chiaro al giallo rossastro e brunastro e i rossi dal rosso brunastro a quello
giallastro fino al rosso chiaro e a quello molto pallido. La raccolta dell'abate Glory comprendeva
rudimentali mortai e pestelli di pietra, macchiati di pigmenti, che si presume fossero adoperati
dai pittori per preparare i colori. La raccolta comprende anche numerose pietre, dotate di una
concavità naturale, che contenevano ancora piccole quantità di pigmenti in polvere.
Laming-Emperaire e Couraud, attraverso dati governativi di un rilevamento geologico dei
depositi di ossido di manganese, ossido di ferro e caolino, riuscirono a stabilire le fonti minerali
nei pressi della grotta. Secondo questi rilevamenti la fonte più vicina di manganese era a
quaranta chilometri a nord-ovest, quella di argilla, dell’ocra rossa e gialla a venti chilometri a est.
Un successivo lavoro sul campo compiuto dai due studiosi portò al ritrovamento di fonti più
vicine a Lascaux che non figurano sulle mappe ufficiali: una fonte di ossido di manganese a
cinque chilometri di distanza e una di ocra a solo mezzo chilometro.
Nel secondo studio, proposto da Aimé Bocquet e diretto da E. Bouchez, un gruppo di studiosi
ha svolto un'analisi tecnica dei pigmenti polverizzati e dei metodi impiegati nel Maddaleniano per
prepararli. Analizzò 10 campioni dei pigmenti in polvere recuperati dall'abate Glory e un solo
campione di un pigmento nero prelevato dalla superficie di un mortaio. Per ogni campione
furono stabiliti sia gli elementi chimici presenti sia i minerali specifici da cui quegli elementi
provenivano. Il lavoro del gruppo di Grenoble ha portato alla luce numerosi elementi nuovi, fra
questi spicca il fatto che gli artisti del Maddaleniano non solo mescolavano i pigmenti per
ottenere i colori e altre proprietà da essi ricercate, ma trattavano anche i pigmenti in modo
inatteso. Un componente di un pigmento, per esempio, era il fosfato di calcio, una sostanza che
si ottiene riscaldando ossa animali a una temperatura di circa 400 gradi centigradi. Il fosfato di
calcio veniva poi mescolato con calcite e riscaldato nuovamente, fino a circa 1000 gradi
centigradi, in modo da trasformare la miscela in fosfato tetracalcico (4CaO·P205). Un pigmento
bianco che a prima vista sembra rossastro a causa di una contaminazione superficiale con ocra
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rossa dimostrò di non essere caolino puro bensì una miscela di argilla (10 per cento), quarzo in
polvere (20 per cento) e calcite in polvere (70 per cento). Analogamente, mentre l'ossido di
manganese era la sostanza primaria dei pigmenti scuri, il pigmento nero prelevato dal mortaio ha
dimostrato di essere un misto di carbone di legna (65 per cento), argilla ricca di ferro (25 per
cento) e quantità minori di altri minerali, fra cui quarzo in polvere. L'argilla era stata aggiunta, in
proporzioni variabili dal 20 al 40 per cento, anche all'ocra rossa e a quella gialla.
Nel terzo studio, Pamela B. Vandiver, del Massachusetts Institute of Technology che lavorava
sotto la direzione di William D. Kingery, si è servita della microscopia elettronica a scansione SEM
per studiare dei frammenti di pigmenti di parecchie pitture di Lascaux, sfruttando anche l'analisi
mediante raggi X a dispersione di energia, la diffrazione ai raggi X e la petrografia ottica per
valutare la tecnologia sviluppata dagli artisti di Lascaux. Queste tecniche hanno rivelato che la
microstruttura dei pigmenti rossi differisce da quella dei pigmenti neri. I cristalli di ematite di un
pigmento di ocra rossa, per esempio, sono caratteristicamente piatti, mentre quelli di pirolusite
di un pigmento nero di ossido di manganese sono fibrosi o aghiformi.
CONCLUSIONI
Lo studio dei pigmenti ha rivelato diverse informazioni. Innanzitutto che i pittori del
paleolitico avevano a disposizione molti tipi diversi di pigmenti, realizzati con materiali diversi. E’
stato possibile, inoltre, stabilire la località di provenienza dei minerali, in che modo e quali colori
venivano utilizzati attraverso tecniche di spettroscopia elementare, con analisi a raggi X a
dispersione di energia, con la petrografia ottica e la microscopia elettronica. Riconoscere i
materiali coloranti delle pitture è di fondamentale importanza perché attraverso questi è
possibile capire il livello tecnologico delle culture che hanno prodotto queste opere. Conoscendo
i pigmenti si è anche in grado di datarli, preservarli dagli attacchi degli agenti atmosferici e
restaurarli se in condizioni di degrado.
RIFERIMENTI
[1] D. Cocchi Genick, Verona, Preistoria, Quiedit (nuova ed. 2006), pp. 115-119
[2] C. Renfrew P. Bahn, Archeologia teorie, metodi e pratiche, Zanichelli 2009. pp. 347-351
[3] R. C. De Marinis arte paleolitica, Dispensa del corso di preistoria – Università degli studi di
Milano – A.A. 2006-2007
[4] Arlette Leroi-Gourhan, l’archeologia della grotta di Lascaux, 1979
[5] Capire L’archeologia, Giunti, Milano 2007. pp. 74-79

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