1 TRANSEUROPA Una stagione di straordinario edonismo Ho

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1 TRANSEUROPA Una stagione di straordinario edonismo Ho
TRANSEUROPA
Una stagione di straordinario edonismo
Ho ancora quella foto d’epoca
Di quattro suonatori con un sombrero,
Il muro che Trasudamerica,
La sacca con la mia fortuna ed un cero
Trasudamerica - Marlene Kuntz
Intro
“Non ci si stanca delle persone come dei dischi!” mi ripeto tra i monosillabi mescolati ai sospiri
profondi del fiatone e del dispiacere. “Non ci si stanca delle persone come dei dischi!” mi ripetono,
con i loro crocchi e colpi di tosse, le fibre dei miei muscoli che, oggi, proprio non ne vogliono
sapere di pedalare. Il respiro arranca tra gli alveoli e questo muoversi sta diventando un’agonia. Il
cervello che mi urla nella testa ed i muscoli che si ribellano allo sforzo. Instabile sul paveé, con le
lacrime per il freddo agli occhi, frugo con un rapido movimento, in bilico sul velocipede, nelle
tasche alla ricerca di un’ultima sigaretta. E’ mezzanotte e disegno nuvole di raggi. In fuga lungo il
Corso del Popolo, molo ciottolato di mille notti, di mille aperitivi, di mille compagnie, accendo il
tronchetto di tabacco e sbuffo come una locomotiva nuvole di fumo grigio. La brace è un faro, un
richiamo, e dannazione, vorrei proprio sparire in questo momento concedermi finalmente alla
tentazione di confondermi con lo sfondo. Sparire, mimetizzarsi, annullarsi tra i mille altri ragazzi,
davanti ai nostri mille bar, meno felici che tristi, meno unici che simili, meno infelici che ignari.
Eppure li invidio, ed invidio il loro mondo di piccole certezze che sa di superficiale e superfluo.
“Non ci si stanca delle persone come dei dischi!” ora mi sussurra anche quello stronzo del vento che
mi fa piangere! Vorrei fuggire e fuggire lontano. Nascondere i miei pensieri tra queste nubi dense e
vellutate come zendado. Eppure sono e rimango qui. Qui tra la folla e lo sfarfallio di luci di auto e
locali, qui nella mia solitudine. Odio, queste situazioni. Odio non essere al centro del divertimento,
non sopporto, non sopporto sapere felice chi mi circonda, mentre nelle mie vene scorre venefica
l’amarissima fiele. Scorrono scolorite e monotone le parole e le note di “A fior di pelle” sul
pentagramma che il vento tesse tra le mie orecchie. Affondo quattro colpi fierissimi ai pedali, come
un ultimo scatto d’orgoglio d’uno scalatore d’altri tempi mentre l’anima sobbalza sul paveé. La
brace si avvicina lentamente alle labbra, fino all’ultimo, pessimo, distratto tiro al gusto di cotone e
charcoals. Scruto le facce sul molo, avide e trepidanti per la notte di luci, musica ed alcol che sta per
arrivare, alla ricerca di qualcosa o di qualcuno. Senza successo. Costretto a ripiegarmi su me stesso
e sulle solite parole: “Non ci si stanca delle persone come dei dischi!”. Scivolo con la mente tra i
miei pensieri carichi di spine e mash – mallow. E’ difficile credere che fino a pochi attimi fa pure io
tralucevo di gioia. E dire che c’eravamo impegnati, ed impegnati davvero tanto in questi primi mesi
del duemilatre per non sfasciare tutto quanto avevamo costruito fino a quel momento. Anni su anni
di storia comune, di notti, di fumo, di alcol, di musica e di strade vissuti sempre e rigorosamente
insieme. Le iperboliche serate consumate sui capotasti della mia chitarra cercando di raccontare
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storie ed avventure sul fiume delle note…pensarle finite…mi distrugge. Mai più feste, mai più pub,
mai più concerti estivi, mai più noi sul nostro lato, ma più sul lato migliore del palco, il lato dove la
musica nasce!
“Non ci si stanca delle persone come dei dischi”, maledetto ritornello della nostra migliore
canzone, quella mai scritta ma che sempre negli ultimi dieci mesi ci ha tormentato. Quante liti,
quanti dubbi, quanti, troppi, inutili scorni ed esperimenti per dare un corpo a quella maledetta
canzone che forse non aveva pure un anima!
Certo il refrain era ottimo, ed era chiaro a tutti coloro che di musica ne sanno qualcosa, ma come,
come completare quella cazzo di frase, come darle quel maledetto soffio di vita, quella
maledettissima anima che chiaramente le manca, e che forse altrettanto chiaramente manca anche a
noi come gruppo.
Capitolo 1
“Bullets with butterfly wings”
Tutto era iniziato nel lontano Aprile del 2001 con la maturità che incombeva col suo fetido alito
sui nostri sogni ed un’estate esplosiva pronta a scoppiare sulle nostre pupille come una bomba
zuppa di desideri. Tutto era iniziato un pomeriggio d’asma esistenziale, pochissima voglia di
studiare e tanta troppa di saltare sul sellino e far vibrare di gioia il paveé del centro. Tutto era
iniziato nel mitico Aprile 2001. Mai come allora il più crudele dei mesi, mai come allora l’inizio di
una stagione di Segni ed Eroi!
Mercoledì diciotto aprile. Il giorno successivo avrei avuto compito di matematica. Derivate ed
integrali dice l’analitico palinsesto inciso dalla mia immancabile Bic scarica a caratteri cubitali sulle
immacolate pagine della Smemo. Avevo estratto, con non troppo interesse, dallo zaino il triplice
tomo paglierino e qualche foglio di riciclo per farne algebrico scempio. De l’Hopital e Rolle i nodi
da sciogliere in vista dell’accertamento imminente. Avevo disegnato per non più di un ora curve
piene di cuspidi e discontinuità senza, tuttavia, mai trovare una logica e sensata spiegazione al
tragitto che, esercizio su esercizio, la penna intraprendeva tra le mie dita. Annoiato ed indeciso, se
iniziare a studiare, una buona volta per felicità di babbo e mamma, oppure se deporre le armi ed
affidare il mio destino ad un geometrico volontarismo teologico, avevo scelto di affidarmi ad un
ultimo e disperato atto di fede nei confronti degli irrisolti arcani dell’iperbole. Con la fronte ormai
coperta da una sottile e fastidiosissima patina di sudore, gli occhi gonfi di numeri ed i polmoni di
imprecazioni avevo deciso di spostarmi in giardino in compagnia di una freschissima bionda
Beck’s. Mi ero seduto sulla sdraio nuova, acquistata dal babbo pochi giorni fa con lo schiudersi
della bella stagione, ed al primo sorso di birra ogni interesse per l’analisi se ne era evaporato con i
primi vapori dell’alcool. Mi ero guardato attorno, o meglio avevo scrutato il giardino dei vicini,
oltre la siepe, per sincerarmi di essere completamente solo ed avevo estratto dal taschino della
camicia il pacchetto di Marlboro rosse. Ce n’erano ancora due. “Bene” – avevo pensato – “una me
la fumo subito e con l’altra mi ci faccio una canna”. Fumavo lentamente gustando tiro su tiro,
chiudendo gli occhi e riflettendo su questo periodo spensierato e luminoso, carico di energia ed
ispirazione, pieno di passioni e di pensieri ovattati. Mi era tornata la voglia di scrivere. Scrivere
poesie, come sempre avevo fatto nel corso degli anni passati, riempiendo quadernoni gialli a righe
di versi, meno sofisticaticati che evocativi, e disegni di diavoletti in lacrime ed anime traslucenti.
Facevo ondeggiare collo al ritmo di Venus in Furs mentre, sbuffando batuffoli di fumo, salmodiavo
le parole dei sublimi Velvet underground. Dal taschino dei jeans avevo estratto la Moloskine.
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Profumava chiaramente d’incenso e tabacco. Un altro sorso di birra ed inforcati gli occhiali da sole
avevo deciso di prendere la Bic e scrivere. Dall’asma pomeridiana erano usciti a morsi versi degni
di formare la prima degna poesia di quel duemilauno: Aprile.
Aprile
Gli alberi si sciolgono di gemme
E le parole scivolano divertite
Su mari di colore fresco e detersivo
“Scoppiammo le bolle!” come idee
Ci nutriamo, avidi come cagne fameliche,
di sciacquatura di cervelli.
Talia dorme con Parini nei Sepolcri
Dell’anima
E noi vestiamo di legno di bara
Ed ossa violacee
Le radici di ogni scintilla di nuovo
Che la rivelazione cala qual tanto
Sulla terra arida.
Vita d’inutile attesa
Ad ogni soglio folgorante
Un cadere segue il precedente
Ma ora la primavera profuma d’estate
E di sapido vento di mare
E’ giunta, e’ giunta la stagione
Dei segni e Degli eroi
Avevo già spremuto dalla bottiglia l’ultima amarissima goccia di birra, quando si era fatta strada
tra i confusissimi meandri del mio encefalo la voglia di saltare, definitivamente, in sella alla mia
bici per arieggiare polmoni e pensieri. Four p.m. ed il Corso brulicava di auto. Lo smog puzzava già
di altalena vecchia ed il desiderio di pedalare cominciava a scemare. L’Accademia! L’Accademia
dei concordi! (Literis scientiis artibusq) Ecco dove volevo andare! Ecco finalmente trovata una
meta per il mio viaggio a due ruote. Rattristato ed un po’ deluso per aver trovato una destinazione a
questo mio muovermi, io che vivo di sospensioni e di tutto ciò che è indefinito e vago, mi ero
appena scontrato con la fattività del dover avere comunque ed in ogni caso un punto di arrivo per
tutto ciò che si fa. Scoglionato, decisamente, scoglionato e deluso di me, avrei voluto far durare
quel viaggio all’infinito, sulla due ruote, senza sosta, senza mai smettere di pedalare, nutrendomi di
vento, sogni e poesia, ma, senza rendermene chiaramente conto stavo già guadagnando la scalinata
d’ingresso. Avevo scavato nella mie tasche posteriori ed estratto le foglie d’erba di Whiteman nella
squallida ed economicissima edizione Gessetti. Il busto del povero Miani, unico ed ultimo dignitoso
marmoreo ricordo dell’unica, dimenticata, passata gloria rodigina. Povero Miani, mi dicevo,
archeologo, esploratore ed avventuriero, sempre che, da Rovigo, un avventuriero possa nascere,
eclissato e finito nell’oblio, perché non ebbe mai il genio o la non curanza di scrivere a carboncino
sulle pareti delle camere sepolcrali scoperte il proprio nome. Destino rodigino, se non ci tradisce il
cuore ci frega l’ingegno. Di soppiatto, sempre leggendo “Song of my life” “ I celebrate myself, and
sing myself,/ And what I assume you shall assume,/For every atom belonging to me as good belongs
to you.”, avevo guadagnato l’aula studio con l’intenzione di portare a termine Post Office e di
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spararmi in cuffia della Sana musica. Tutto sembrava invitare alla noia nel torrido silenzio dello
stanzone colmo di tavoli e di persone curve su questi. Avevo tolto i ray ban, nella speranza che il
salone, pervaso dal caldo e dalla polvere appiccicosa che galleggiava tra il muro e la finestra,
assumesse un altro colore e ben altra apparenza. Aspettativa delusa, non era cambiato nulla! Le
solite persone curve sui tavoli, i soliti tavoli, il solito caldo, il solito torrido silenzio e la solita,
odiosissima, Noia. Avrei potuto spogliarmi e ballare nudo su di un tavolo e nessuno se ne sarebbe
accorto. Avevo deciso di sedermi e per staccarmi dallo sfondo avevo iniziato a tamburellare le dita
sul tavolo. Dodici coppie di bulbi oculari infuocati si erano confitti sulla mia schiena e sul mio
torace. Dodici coppie di occhi che in meno di due minuti avevano già imparato ad odiarmi, ed
odiarmi veramente, stupite com’erano del tambureggiare delle mie falangi e della mia maglia
giallofluorescente dei Sonic Youth. Era bastata una rapidissima occhiata alla scaffalatura dalla mia
postazione per scatenare la mia rabbia: Boukowski era in prestito! Ancora più scoglionato che pria
avevo aperto la zip della tracolla ed estratto il lettore e Catartica, vecchio cimelio autografato da
Godano&Co, rimediato nel 1994 a Sconcertando nel giorno in cui iniziai ad amare le curve e la
voce della chitarra. In quel momento un ragazzo che sedeva vicino a me, che poi scoprii chiamarsi
Matteo ed a lui avrei legato indicibilmente ogni umore ed ogni emozione nei due anni che sarebbero
seguiti, mi aveva chiesto guardandomi: “ Anche tu i Marlene?”.
Era il maledetto aprile 2001 e così era iniziata la nostra avventura. Sulle note di “Lieve” e nel
torrido silenzio della biblioteca erano nati i Bulletts with butterfly wings.
In meno di due settimane eravamo già nella sala prove ricavata nella cantina della casa di Matteo.
Figlio di papà, lui non solo aveva una casa modello reggia di Versailles ma un intero impianto con
tanto di mixer, casse spia, microfoni e quant’altro a sua completa disposizione. Sempre Matteo
muovendo le sue conoscenze aveva trovato gli altri membri del gruppo: Luca, batterista con discreta
esperienza, e Paolo, bassista e musicista vero.
Capitolo 2
“Mr. E’s beautiful blues”
I mesi in quel periodo erano volati come sbuffi di pipa profumata. I pomeriggi li trascorrevamo a
casa di Matteo, per studiare dicevamo ai nostri genitori, troppo apprensivi e spesso superflui, ed in
effetti non mentivamo. Si studiava quei pomeriggi da Matteo, si studiava come diventare un gruppo,
come essere musicisti migliori e, naturalmente, come beccare di più, e tutto il resto era appendice.
Ore ed ore in preda ai nostri deliri di grandezza ed al nostro entusiasmo. Che ingenui! Ore ed ore a
fondere chitarra e basso, batteria e voce, a fare errori e a provare nuove soluzioni, per creare,
qualcosa di nuovo, qualcosa che prima non c’era.
Quei pomeriggi di primavera inoltrata, che già profumava d’estate, mangiavamo musica ed
ascoltavamo il vento. Ci sentivamo come gli ultimi superstiti del Mont Parnasse, con l’animo ribelle
e smisurato di Rimbaud e la voglia, la disperata voglia di creare. Venivamo tutti da passate
esperienze in formazioni musicali, gruppi adolescenziali, nei quali lo stare insieme era
principalmente un non star soli, nei quali la musica era un, non troppo flebile, pretesto ed i concerti
inutili pasticci di suoni. Questa volta non sarebbe stato così, lo avevamo deciso uno dei primi
pomeriggi passati a cucire le nostre note sui pentagrammi che uscivano dagli ampli. Non sarebbe
stato uno semplice stare insieme e passare il tempo il nostro gruppo, aveva sentenziato Matteo
nell’arcadia del suo giardino, soffiando fumo da sotto i rami del salice, doveva essere di più,
dovevamo essere un gruppo, una famiglia, una sorta di cerchia di fratelli putativi, dovevamo essere
amici. E questo, non per un eccesso di romanticismo nell’approccio alla materia, ma semplicemente
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per far sì che la nostra Band funzionasse ed ognuno di noi fosse una parte integrante e fondamentale
di un “unicum”. Un unicum. Matteo aveva questo vizio della lectio dificilior, diceva “unicum” per
una sola cosa e “pragmatico” per uno con i piedi per terra, e qualche volta si sbagliava pure. Noi,
che ancora non eravamo abituati (Matteo direbbe avezzi) a tali parole smisurate, c’eravamo chiesti
che c’entrasse un amaro con il nostro porci nella Band, ma nessuno, perché noi artisti ci diamo pure
delle arie da intellettuali consunti e bohémian, aveva osato chiedere cosa volesse effettivamente dire
“Unicum”. D’altronde Matteo era il poeta del gruppo. Recitava il suo ruolo. Ognuno di noi recitava
il proprio ruolo. Paolo, batterista di Adria, dove un tempo c’era il mare, aveva il suono lento e
deciso del frangersi delle onde e della spuma sugli scogli che faceva risacca tra i timpani ed il
cuore, e quel suono, e quel ritmo c’era in ogni suo tocco, in ogni battito di gran cassa ed in ogni
rullata. Come il mare che aveva dentro, Paolo era il buono del gruppo, spesso sorridente e
disponibilissimo, silenzioso e sornione, era lui a trovare le soluzioni giuste, i compromessi migliori
per la nostra convivenza artistica, perché spesso per un gruppo nascere è meno facile che morire.
Luca bassista, un passato di chitarra classica al conservatorio Vanezze ed un amore tardivo ed
inestinguibile per le cinque corde e Flea dei Red Hot. Personaggio teatrale il nostro Luca, il cattivo
che riesce sempre simpatico, con le sue battute al vetriolo avrebbe saputo farle girare pure ad un
bonzo buddista. Lui, il cucciolo del gruppo, era il cuore del gruppo, ed il suo ritmo ed il suo modo
di toccare le corde ed il suo groove erano, a dir poco, maestosi.
Capitolo 3
“MK”
Ma-Ma-Ma-Marlene è la migliore!
Maggio era scivolato umido e colorato nei catini dei nostri cuori e di eravamo trovati di fronte ad
una scelta fondamentale: il nostro repertorio.
Dopo il primo mese di conoscenza, passato a prendere di petto il dover suonare assieme,
l’imparare dove mettere le parole e lo studiare l’impostazione vocale di Matteo
Dopo il primo mese a suonare sempre lo stesso giro di accordi, affettuoso lascito di secoli di
Amore tra Paolo ed il rock melodico degli anni ‘70
Dopo il primo mese a cercare inutilmente di avanzare girando in tondo
Dopo il primo mese a musicare embrioni o feti di canzoni malriuscite dal malriuscito e, da poco
fallito, unico ed inimitabile Amore, notare quello con la A maiuscola e proprio lui in persona, di
Matteo
Dopo un mese speso per noi e solo per noi, suonando per divertirci, bevendo per bere e fumando
per ispirarci era finalmente giunto il momento più importante della genesi di un gruppo: la scelta del
repertorio, la scelta delle canzoni che avremmo cantato di fronte al nostro pubblico osannante, e ve
lo immaginate?, migliaia e migliaia di persone stipate nelle piazze, i manifesti con le nostre foto, la
bottiglia di Jack Daniels sul palco e noi, noi, a suonare!
In verità in quel momento il nostro pubblico non era né numeroso né osannante, piuttosto
incuriosito. Questo in quei momenti di parto musicale era costituito da Francesca, la nuova ragazza
di Matteo, ed anche lei era l’unico ed inimitabile Amore, e da Claudia, la sorella grande di Luca e
mia compagna di classe alla medie.
Oasis era stata la mia prima proposta, conscio del fatto che essendo una cover band si doveva
necessariamente essere commerciali e che quindi tanto valeva cercare di scegliere un gruppo che ci,
o forse sarebbe meglio dire, mi piacesse. In effetti gli Oasis erano stati il gruppo che mi aveva
accompagnato ed introdotto negli anni di Liceo. Nel suonare la chitarra, agli inizi, guardavo a Noel
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Gallagher, nel pormi e comportarmi nella band e sul palco, al fratello minore Liam. A ben guardare
l’idea Oasis non sarebbe poi stata così stupida o fuori luogo. Insomma, anche se nessuno
formerebbe mai un gruppo per suonare le canzoni dei Fratelli di Manchester, bisognava ammettere
che c’era un senso logico sotteso al tutto. Il ’99 era stato l’anno del criticatissimo ma interessante
Standing on the shoulder of giants ed il 2001 quello di Familiar to million . Chiunque in quel
periodo aveva ascoltato, o meglio sentito, almeno una volta Sunday morning call o go let it out e le
radio ed Mtv impazzavano con le loro canzoni i loro video e le loro Videography. Insomma erano il
gruppo del momento, a mio modesto avviso, e poi immaginatevi aprire un concerto con R&R Stars
o Supersonic…
Matteo non era per nulla d’accordo, sosteneva che i tempi erano cambianti, che gli Oasis erano
già da anni in parabola discendente e che se proprio, proprio, dovevamo suonare Brit-pop allora si
doveva guardare altrove. Blur, Coldplay e Gorillaz. Clint Eastwood, il loro singolo, era uscito solo
da poche settimane ma già, quell’incedere salmodiante e debosciato di parole e musica, animava le
labbra di tutti. Quel grullo di Matteo, inoltre, nutriva una spasmodica ed iperbolica ammirazione per
quel fighetto di Albourne e da questa, in ogni elementare situazione del vivere, non prescindeva
mai.
Dopo un quarto d’ora la discussione si stava arenando terribilmente.
Io e Matteo a costruire, con genio e maestria, improbabili e cervellotiche motivazioni per scelte ed
idee che, da sole, mai sarebbero riuscite a stare in piedi, se non all’interno del nostro personale
pantano di opinioni.
Luca e Paolo ci osservavano senza fornirci né fornirsi particolari stimoli, suonavano e basta. Le
loro mani disegnavano sul rumore bianco dell’amplificatore una sessione ritmica che vagamente
quella di Once dei Pearl Jam.
“Perché non i Nirvana?” era esploso Luca dal suo guscio di suoni e slappate perforando con la sua
nuova proposta, come un treno in corsa, l’inconcludente budino di opinioni che avevamo costruito
fino a quel momento.
Certo i Nirvana erano un pezzo di storia, Smell like teen spirit forse era stata la canzone più bella
degli ultimi dieci anni ed aveva la giusta carica per fare saltare tutta una piazza sotto la pioggia delle
nostre note distorte ma
Quella non era certo l’immagine che volevamo vendere di noi come gruppo. In questa palude di
Rovigo, che rimaneva tale nelle menti e negli intelletti nonostante la bonifica, dove tutti si
conoscono, tutti sanno tutto di te e le male lingue ed i pettegoli sono la spina dorsale del tessuto
sociale, rendere il dovuto onore a Kurt Cobain, Novoselic e Grohl equivaleva a cucirsi addosso
l’indelebile ed eterna fama degli sfattoni tossici ed antigienici. No, purtroppo, i Nirvana non
potevano fare al caso nostro.
Era stato così che Paolo era emerso dal suo mondo ovattato di tocchi felpati e salsedine per
togliere come sempre le castagne dal fuoco.
“Ascoltatemi non sfasciamoci il cranio addosso ad un muro che non potremo mai spostare od
abbattere, non dobbiamo chiederci che cosa piace al pubblico, ma cosa piace davvero a noi! Se
iniziamo adesso a farci questi problemi, se iniziamo ora, che dovremmo suonare solo per noi e per il
nostro divertimento con queste fregne, possiamo già considerarci finiti!”.
Come al solito,come sarebbe accaduto mille altre volte in futuro, le parole di Paolo erano arrivate
come liane solidi e forti a tirarci fuori dalle nostre litigiose paludi.
Un lampo aveva percorso i nostri occhi ed un brivido le nostre schiene. Il buzz dell’illuminazione
era già entrato nelle nostre orecchie: Marlene Kuntz.
Dopo dieci minuti stavamo già provando “La canzone che scrivo per te”.
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Capitolo 4
Ospiti in casa propria
La maturità c’era scivolata, anelante di attenzioni da noi negate, lungo la schiena.
Non ce ne fregava poi molto della scuola, le nostre energie erano ormai focalizzate solo e soltanto
sulla musica e sul nostro gruppo. Giorno dopo giorno miglioravamo e crescevamo nel suon e
nell’intesa a vista d’occhio. Dai semplici giri di accordi, ai riff agli assoli alle parole. Il groove,
grazie a Luca, aumentava sempre più tanto che, quando le sue influenze Jazz non lo portavano a
divagare, si sarebbe potuto considerare un piccolo Flea o come lui avrebbe preferito un nuovo e più
tecnico Kirst Novoselic. A Matteo la parte del Godano calzava magicamente e senza troppi sforzi,
la voce era adeguata, il suo essere, il suo apparire…perfetti!
Paolo sornione come al solito parlava poco e, a nostro dire, magia dopo magia ritmica,
surclassava non solo Dave Grohl ma anche il batterista che avrebbe voluto essere nei suoi sogni. A
fine luglio avevamo già costruito un repertorio di circa quarantacinque minuti e tutto rigorosamente
firmato Cristiano Godano. Ovvio ed inevitabile alcuni brani riuscivano meglio di altri, e sebbene
lungi dalla perfezione, nonostante i nostri enormi progressi, potevamo considerarci presentabili al
pubblico. Mancava, tuttavia ancora un dettaglio: la mia chitarra. Non potevo certo ancora
continuare a suonare con la mia strato messicana, mia prima chitarra elettrica, ideale per
apprendere, ideale per prezzo ma non certo per presentarsi in pubblico, mi serviva una nuova
sputamusica.
Ogni chitarra ha la sua storia ed il suo suono, e per ogni genere esiste una chitarra migliore di
altre. Escludendo a prescindere ogni modello Ibanez, troppo legate ad un metal che non mi piace ed
in fondo disprezzo, la scelta si faceva tutto sommato abbastanza semplice: Gibson o Fender.
Decisamente le chitarre che ho sempre amato. Un Diavoletto della Gibson o una Fender Jaguar,
come Frusciante nel video di Under the Bridge, non chiedevo altro, non vedevo altro su di me.
C’era un piccolo problema, tuttavia, i soldi. I dannatissimi soldi. C’avevo pure provato a chiederli
in prestito ai miei, ma gli esiti decisamente deludenti della mia maturità non erano certo delle buone
credenziali, così era arrivato il lavoro. Il terribilissimo lavoro. Luglio ed Agosto a marcire da
cameriere per i pub di Rovigo. Io impettito, logorato e stremato dal non potermi sudare addosso e
dover tener tutto dentro per un questione di presentabilità a servire gelate bevande a leggera
gradazione alcolica, loro, o meglio tutti gli altri meno Alessia e Marta, due come me forzate del
lavoro estivo, a ridere, e ridere, e sorridere, e a parlare, fitti fitti, stretti stretti delle loro
coloratissime, caldissime vacanze.
Erano state proprio settimane di caldo e bestemmie, di giorno troppo stanco per uscire, di
pomeriggio, quando il sonno passava troppo scazzato per suonare, al pensiero del lavoro. C’era
voluta una mega sfuriata di Matteo, a farmi rendere conto che non potevo trascurare il gruppo ed era
stato così che in quella torridissima estate del duemila ed uno nella mia vita erano entrata il lavoro e
la musica, e non c’era più spazio per altro. Oddio, in verità in più di un’occasione, qualche serata
incandescente di sesso con Marta o Alessia, e una volta pure con entrambe, c’era stata, ma si era
chiuso e dimenticato tutto dopo il mio licenziamento. E così, tra litri di Mojito e Cocavana si era
liquefatta l’estate e se ne era andata rapida e veloce come le goccioline di sudore sul seno di Marta,
quando lo facevamo, se ne sciendevano giù rapide rapide per le sue docilissime curve.
Mon Dieu, ancora, solo a ripensarci
Così, più esperto, decisamente più esperto e, almeno per qualche giorno più ricco, avevo iniziato a
sfogliare cataloghi e riviste di chitarre, ma la scelta nel mio cuore era già stata compiuta: la fender
Juaguar! Femminile come i fianchi di Alessia, calda come la voce di Anthony Keydys.
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Il primo settembre il nostro repertorio era già completo ed eravamo praticamente pronti per un
concerto, il nostro primo concerto, mancavano solo due cose la mia nuova chitarra ed i contatti
giusti. Intanto a casa passavamo giusto per dormire, e qualche volta per mangiare, per il resto si
viveva di musica e sogni da Matteo.
Capitolo 5
“Rimmel”
“Ciao, Paolo, come stai? Hai smaltito i postumi del seratone etilico di ieri notte?”, avevo esordito
alle half past eight a.m. al telefono. In genere, al telefono con un amico, difficilmente il come stai
sarebbe stata la mia prima domanda, insomma, non avrei mai voluto lanciare messaggi connotativi e
fuorvianti all’interlocutore, ma in quel caso, tali premure erano indispensabili.
La notte precedente avevamo improvvisato un mega fugone al mare. Il tempo di avvisare qualche
amico e, soprattutto amica, portare via chitarre, percussioni e il basso acustico di Luca, e rimediare
una cospicua quantità di alcool e ce ne stavamo già a sfrecciare per le strade del Delta verso
Rosolina. Paolo faceva strada dal posto navigatore, quella era la sua terra, Matteo affondava folle il
pedale descrivendo curve come con un pennello di vernice argentata. Sulla loro auto anche Claudia,
Valentina e Riccardo. Io e Luca li seguivamo sulla mia Twingo verde e rantolante che arrancava,
curva dopo curva nel tentativo di ripetere le traiettorie nette e rotonde dei nostri precursori. Non
potendo competere con i nostri compagni di viaggio in fatto di velocità ci concentravamo su altre
attività tipo esercitare l’eloquio, come avrebbe detto Matteo, come direbbero tutti gli altri,
parlavamo con Alessia, Marta e Valeria cercando di creare un clima disteso e scherzoso tra di noi,
che poi, si sapeva, o almeno io lo sapevo, perché Luca ancora non se ne rendeva conto, avrebbe
pagato una volta calata la notte e acceso il falò. Avrebbe pagato. L’interno della Twingo in breve si
era trasformato in un salotto, dominato da un chiacchierio, da un vociare continuo ed entusiasta. Io,
Amphitruo et Arbiter Elegantiae, controllavo con sguardi alla James Bond quanto avveniva
nell’abitacolo da un polifunzionale specchietto retrovisore, il quale, a tutto serviva meno che a
controllare la strada. Ogni tanto, al momento opportuno, mi inserivo nel chiacchierio fitto-fitto
facendo pesare miei nuovissimi e fierissimi diciannove con delle piccole perle, dei ceselli, volti più
che a comunicare qualcosa a stupire Luca e le ragazze. Parole su parole a base di superficialità ed
amenità, d’altronde che aspettarsi da due sciacquette come Alessia e Marta, poi una terribile
digressione, una spaventosa digressione, una svolta netta e decisa verso l’essere chiamati in causa in
prima persona ed uscire da quel coacervo, molto vuoto, ma molto molto rassicurante e facile, fatto
di luoghi comuni, battute di costume, facce di circostanza e programmi vacanzieri. La domande era
stata scoccata, come una piccola freccia acuminata di zucchero e canditi, dalla bocca di Luca ed era
entrata in me sfondandomi il timpano e da lì era arrivata attraversando, innocente e letale, gola,
trachea e polmoni a spaccarmi in due il cuore.
“Hai già deciso che fare all’università?” Dietro Alessia studiava l’ombretto di Marta che
raccontava a Valeria del suo rapporto eternamente in crisi.
“Dannazione, dannazione” mi ero detto deluso, stupito, basito ed incazzato di fronte
all’ineluttabilità di certe scelte, di certi momenti, di certe sensazione, alle quali spesso provi a
scappare, allontanandoti da te o dagli altri, o magari sfrecciando come un folle per stradine larghe
quanto un carro verso una spiaggia, un mare, un falò, una compagnia ed un vago e vacuo
divertimento. Dannazione! Dannazione a me, dannazione a Norah Jones e a Tracy Chapman che
con le loro voci, dall’effemme, invadevano l’auto e riempivano di vuoto leggero i buchi della mia
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anima, che di tutto avrebbero avuto bisogno, meno che di altro vuoto, di altre distrazioni e di altro
vigliacco e omertoso disinteresse!
Silenzio.
Poi, con la voce rotta e con il solito istrionico entusiasmo avevo trovato una risposta, la risposta
che forse avrebbe soddisfatto la curiosità di Luca e, soprattutto avrebbe se non messo a tacere,
quanto meno sospeso a tempo indeterminato, i miei dubbi.
“Sai le possibilità sono tante, ogni corso ha qualcosa d’interessante e di speciale, qualcuno lo
sento più mio di altri, ma in fondo una scelta la devo ancora fare, diciamo che dopo aver sfrondato
il gruppo delle possibili scelte, ho deciso di prendermi una bella pausa da ogni pensiero, da ogni
preoccupazione vivermi iperbolicamente queste vacanze, devo disintossicarmi dalle scorie di
quest’ultimo anno di Liceo”
Luca se l’era bevuta ed in segno di soddisfazione aveva emesso un sonoro “Ah!”, i miei dubbi se
ne erano ritornati all’ombra delle distrazioni ed io potevo di nuovo concentrarmi sulla serata.
Dieci Agosto duemila e uno, San Lorenzo, stelle e pensieri su un futuro, lontano incombente e
straordinariamente diverso da quello che allora avevamo immaginato per noi.
La spiaggia di Rosolina ci aspettava vuota e sporca, con quel suo odore di turismo di quinta o
sesta classe, di quattordicenni alle prime esperienze di mare e baci, e di fetide, fetide alghe. Noi,
desiderosi, Matteo aveva detto anelanti, di stelle, divertimento ed esperienze. Paolo aveva iniziato,
come sempre in silenzio, a scaricare la legna e, come sempre da solo, a preparare il falò. Noi
intorno, in cerchio a parlare, a giocare di sguardi, a studiare i nostri umori, ad ascoltare i racconti di
chi dalle vacanze era già tornato e le aspettative di chi per le vacanze ancora doveva partire. Alessia
e Marta, ci deliziavano dei loro racconti piccanti sulle loro esperienze sessuali. I migliori quello
titolato “Quello che c’aveva piccolo piccolo” e “Quella volta che l’ho fatto in ristorante”, e di
quest’ultimo il protagonista ero io! Luca un po’ in disparte, avvertiva con un certo imbarazzo quei
due anni di differenza che ci separavano, strimpellava il basso e beveva cerveze su cerveze
cercando di stemperare una sottile e disattesa noia. Paolo che inizialmente aveva puntato Valentina
ed aveva cercato di affascinarla con il suo sguardo umido ed intenso, carico di tutte le storie ed i
profumi del mare, con il suo parlare calmo e piacevole, dimostrando una formidabile
consapevolezze di sé e sicurezza, ed il tentativo stava anche andando a gonfie vele, fino a quando,
come sempre per Paolo, non si era dovuto scontrare con un destino più forte della sua volontà.
Valentina, ed io la conoscevo da una vita, era già impegnata da più di due anni con Riccardo, la più
grande e monumentale testa di cazzo Rovigo, escusateseèpoco, in una sorta di controverso,
burrascoso ed ufficioso prematrimonio - eterno fidanzamento, che da mesi ormai aveva finito per
sfibrarli ed a cercare “consolazione” al di fuori della coppia, senza avere mai, tuttavia, la forza di
rompere definitivamente, “il passato pesa di più del futuro e la paura di rester soli è più forte del
dolore” mi diceva sempre Valentina. Purtroppo per Paolo quella sera c’era anche Riccardo e quindi
le possibilità di concludere qualcosa tendevano drasticamente a meno infinito.
La serata scivolava tranquilla su onde di cerveza e schiuma di mare, Paolo avea tratto dalle brache
sue la picciola sacca de la Verzura, “coltivata da amici sui colli, una vera prelibatezza” aveva
asserito, e con la istessa perizia de li mastri cesellatori fiorentini rollava le rizla ripiene.
Luca era uscito dal suo guscio e avevo iniziato a notare che si stava creando una certa intesa con
Marta ed Alessia, prima delle due, conoscendole, lo avrebbero già mangiato vivo, e così era stato!
Di lì a breve si erano allontanati, tutti e tre, ridendo e parlando ad alta voce, probabilmente Marta
aveva regalato ai due nuovi compagni di gioco una qualche pastiglietta delle sue, magari di quelle
con il cuore disegnato sopra, ed erano scomparsi nel buio della spiaggia non illuminata. Era facile
immaginare gli esiti di quella “passeggiata” au claire lunaire. Luca se ne era tornato sconvolto da
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qual terribile triangolo che tanto sapeva di film porno, sconvolto e felice, perché un sesso prima
visione del genere non capita a tutti, non capita tutti i giorni.
Io, intanto, me ne stavo con Valeria a rimembrare con una cerveza ed una Davidhoff in mano a
suon di risate e di chiacchiere gli anni trascorsi sui banchi del liceo. A tratti cadevamo preda di una
terribile nostalgia per quel capitolo delle nostre vite, così colorato, spensierato e teneramente ricco
di piccole enormi scoperte al quale dovevamo assolutamente mettere la parola fine per non esserne
risucchiati e vivere a mezzo gli anni ci si sarebbero stati di lì in avanti. Eppure quel lento e leggero
primo schiudersi alla vita ci mancava e sapevamo ci sarebbe mancato sempre di più nelle settimane,
nei mesi e negli anni successivi. Ancora una birra per favore. Gli occhi di Valeria a tratti
s’illuminavano alle mie parole e i tratti del suo viso dipingevano espressioni stupite e dolci che
parlavano più delle mille parole che si sarebbe potuto spendere per parlare di un vecchio amore,
ormai sopito, e mai dichiarato da entrambi per paura ed insicurezza.
Come fa male la nostalgia! Come lacera il rimpianto!
Come ogni buon falò estivo, finite, o quasi, le birre e l’erba, avevamo iniziato a suonare, una jam
session da spiaggia con i cori degli amici ed il rumore del mare di sottofondo a mescolarsi con i
tocchi delicati di Paolo. Io e Luca ad intrecciare note su note, ritmi su ritmi, riff su riff con i nostri
strumenti acustici, e Matteo, da poco ricomparso completamente fradicio dal mare con Claudia
dopo un bagno a guidare le voci. Del nostro repertorio si era fatto poco e si era andati su qualcosa di
più classico, dè Andrè, de Gregori, Guccini e Battisti, poi, DoRemMimFa, era arrivato Rimmel ed
una vagonata di ricordi, da poco risvegliati dalla conversazione con Valeria.
“Santa voglia di vivere e dolce Venere di Rimmel
Come quando fuori pioveva e tu mi domandavi
Se per caso avevo ancora quella foto
In cui tu sorridevi e non guardavi
E il vento passava su tuo collo di pelliccia e sulla tua persona
E quando senza capire ho detto “si”
Hai detto “è tutto quel che hai di me”
E’ tutto quel che ho di te
A distanza di anni di noi ci sarebbero rimaste solo qualche foto e qualche ricordo che il tempo
avrebbe scolorito di fronte all’enorme rimpianto di ciò che potrebbe essere stato ed invece non è
stato.
L’ultimo ritornello l’avevo cantato con la voce spezzata e una lacrima a solcarmi le guance.
Alle tre eravamo a Rovigo, prima di scendere, dall’auto e dalla mia vita, Valeria mi aveva baciato,
o forse io avevo baciato lei, quel bacio, il nostro primo, sarebbe stato anche l’ultimo.
Capitolo 6
Rickembacker
“Ciao, Paolo, come stai? Hai smaltito i postumi del seratone etilico di ieri notte?”, avevo esordito
alle half past eight a.m. al telefono. Il signore delle maree, il batterista venuto dal mare, ancora in
coma, avvolto negli ultimi persistenti strascichi di sonno, in preda ad una terribile erezione
mattutina e all’inestinguibile bisogno di pisciare dopo una terribile serata a base di birra aveva
risposto sorpreso.
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“Uh, bene direi, o quasi – pensando a dover centrare il water con quell’asta rigidissima –
comunque gli effetti della birra, se mai ci siano stati se ne sono già andati. Piuttosto te con Valeria,
dimmi…”
“Nulla di che, qualche coccola e qualche nostalgia di troppo degli anni passati. Diciamo che
eravamo abituati a vederci tutti i giorni fino a qualche mese fa e non abbiamo ancora assimilato
l’idea che nei prossimi mesi non sarà più così.”
“Ah, e io che pensavo foste arrivati ben più in là…”
“No, non se ne parla proprio, insomma è Valeria, cazzo, la mia compagna di classe, ore ed ore di
studio assieme, interrogazioni e compiti in classe passati e copiati, tutte le confidenze sui suoi
ragazzi che mi ha fatto e tutte quelle che io ho fatto a lei sulle mie avventure, tutte le ore spese a
consolarci, tutti i pomeriggi passati a cazzeggiare per i bar ed i negozi che si affacciano lungo i
portici. No, non se ne parla proprio Valeria è la mia più cara amica, e anche se ve ne fosse la
possibilità, non getterò mai via quanto c’è stato in questi cinque anni per inseguire che so una
scopata od un pompino? Non ne vale la pena, non voglio perderla!”
“Stai calmino, Nicola, mi informavo. Sai la tua amica mi piace, e mi piacerebbe chiederle di
uscire, se a te non dispiace?”
“Si, cioè no! Oddio, si puoi chiederle tutto ciò che vuoi, come ti ho già detto per me è solo una
amica”
“Uhm, non sembri proprio convinto – ed in effetti non lo ero affatto – ma visto che mi fa comodo,
mi attengo a quanto mi hai detto. Ma di grazia a che debbo questa sua chiamata alle
ottoetrentadelmattino?”
“Si volevo chiederti, dato che sei quello che se ne intende più di tutti e che sei l’unico ad avere
varie esperienze in gruppi, se hai voglia questo pomeriggio di venire con me e Matteo a Bologna da
Tommasone, mi sono appena arrivati gli stipendi e vorrei comprare una degna chitarra elettrica”
“Hai già un’idea?”
“A me piacerebbe il Diavoletto”
“Niente di più sbagliato, mai partire con un’idea precisa ma affidarsi all’orecchio, al suono che
senti più tuo, più adeguato al tuo modo di suonare e al genere che intendiamo suonare. La mia
presenza è indispensabile!”
Appuntamento per le 14:30 al parcheggio del Liceo. Matteo avrebbe fornito l’auto, io la grana e
Paolo l’esperienza ed i consigli giusti. Rotta per Bologna.
Tommasone, il liutaio, è meta di pellegrinaggi e pellegrinaggi e pellegrinaggi di giovani e giovani
e giovani musicisti, a caccia dello strumento giusto, e al prezzo più basso possibile, per esprimere
sulle note la loro anima.
Il negozio di Tomassone è enorme e ti ci perderesti dentro per anni ed anni, incantato del
luccichio delle vernici e delle cromature degli amplificatori, se non fosse che qua e là nel labirinto
di chitarre, che salgono come stalattiti e scendono come stalagmiti dal pavimento e dal soffitto, non
incontrassi un qualche giovane e brufolosissimo commesso, figlio d’incesti d’Appennino, che come
un elfo è pronto a guidarti lungo i sentieri giusti e non perigliosi.
Così era successo a noi.
Un tale Marzio, basso, biondissimo e brufolosissimo incestuoso commesso ci aveva accolti con
un “Serve una mano ragazzi?”
“Sì, grazie vorremmo vedere una chitarra…”avevo risposto con una leggera tremolante esitazione
della voce, mai così bassa e marcata.
“Ok, seguitemi, avete già qualche idea?”
“Non necessariamente, molto dipenderà dal prezzo…” tento di accennare uno stiratissimo sorriso
per far capire che era una battuta a quel musone di Marzio, ma
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Flop. Decisamente un Flop.
“Come?! Non è possibile acquistare una chitarra sulla base del prezzo e non avere nemmeno una
benché minima idea di che tipo di suono, di che timbro di che voce volete per la vostra chitarra!”
Paolo come al solito ci aveva salvato dall’ira del mostriciattolo biondo e brufoloso sfoderando un
self-control a dir poco anglosassone.
“Per favore, cerchiamo di restare calmi, non mi sembra il caso di montare un caos del genere per
una cosa del genere, il mio amico intendeva che deve ancora scegliere tra i mille tipi di sei corde
quella che riconosce come sua e che non è disposto a fare follie, né tanto meno a farsi fregare”
Messa così l’incesto appenninico, figlio di prete e di vecchietta prossima alla menopausa,
sembrava aver capito, ed aveva risposto con un compiaciuto e soddisfatto cenno del capo.
Camminando attraverso il labirinto delle chitarre, Marzio ci aveva condotto ad una stanza dai
muri intonacati di colori troppo accesi e con le luci colorate negli angoli. In fondo una specie di
affresco, o di disegno a tempera sul muro, di sapore decisamente Pollockiano, e sui muri ai lati una
infinita serie di chitarre, di varie foggie, forme e colori.
“Queste sono le nostre chitarre in offerta” aveva detto Marzio “Possiamo dire che pur non essendo
i top di gamma sono delle ottime chitarre, ed il campionario è talmente vasto che per certo troverete
il suono che inseguite”. Il commesso ci aveva mostrato un amplificatore, appositamente a nostra
disposizione, e ci aveva lasciati lì da soli a provare, come in un negozio all’ingrosso di scarpe, le
chitarre. Sarei rimasto lì tutto il giorno, per cercare di sentire mio fino in fondo quel posto,
sentendomi una rock-star, pensando che probabilmente anche Lou Reed possedeva nella sua casa
una stanza del genere, ed io, io, avrei tanto voluto avere metà del talento ed un cinquantesimo del
suo genio.
“Mo’, avete visto quanto ben di Dio in questa stanza!” aveva esclamato nel silenzio dell’alcova
sonora Matteo imitando, divertito, la parlata e l’accento bolognese di Marzio e facendomi
ripiombare dai miei sogni alla realtà. Da Lou Reed a Nicola Ferri in zero secondi. Sfracellato contro
il duro, durissimo pavimento della realtà.
Fermo al centro della stanza, ruotavo su me stesso alla ricerca della nota di colore, della forma e
del nome migliore, come un bambino in un enorme batuffolato negozio di caramelle. Gli occhi mi
erano caduti su un diavoletto della Gibson Bianco, la chitarra che avevo sempre voluto. La
imbraccio e collego il cavo all’amplificatore, provo il primo riff che ricordo a memoria, Under the
bridge. Bellissimo. Quasi un sogno!
Quasi
Qualcosa non andava. Era tutto perfetto, io la mia chitarra al collo, il Marshall con tanto di testata,
la voce di Matteo di sottofondo, l’esecuzione ma
Il suono aveva qualcosa di non mio, qualcosa che non si sposava con la mia anima, con le mie
emozioni. Una vita spesa a sognare quella chitarra, la più bella, la più intensa e robusta, e poi...non
la senti tua!
Delusione.
Come un bambino che non trova le sue caramelle preferite nel meganegozio iperbatuffoloso,
frugo con gli occhi le pareti, mentre dalla porta si vedeva Marzio andare e venire, mosso da
curiosità e sospetto nei nostri confronti.
L’occhio mi si era posato su una Fender Jaguar celeste, difficile vederne in giro di quelle chitarre,
in tutto e per tutto identica quella che Frusciante suona nel video di Under the bridge. Un vero
gioiellino, un vezzo che può diventare vanto per un chitarrista, ma anche quella volta, nel suono,
sporco e acuto, ideale per la nostra musica, ma attraverso la grata dell’amplificatore passavano le
note ma non la mia anima, resa fredda e piatta dal sistema di corde e pick-up.
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Nella stanza rimanevano varie Ibanez e Yamaha, strumento di piacere quasi sessuale per
metallari, ma non adatte al nostro Noise-Rock, alcune Strato, troppo fredde e convenzionali, una
Tele, sempre affascinanti come una bella signora sui quaranta, ma troppo robusta e blues per me, e
varie Epiphone, ideali per gli Oasis ma non certo per i Marlene.
Ormai del tutto decisi di andarcene altrove stavamo imboccando l’intricatissimo dedalo di
stalattiti e stalagmiti a sei corde. Quando
Poco distante da noi un nugolo di ragazzi sui sedici anni attorno ad un altissimo ragazzo dai
capelli a pois rossi mestruo. Doveva anche lui comprare una chitarra. Doveva essere qualcuno di
abbastanza famoso dalle parti di Bologna. Decidiamo di avvicinarci.
“Cazzo! Quello io l’ho già visto da qualche parte” aveva esclamato Matteo.
“Si, quella faccia e quei capelli non mi sono nuovi, è possibile che l’abbia visto in TV?” gli avevo
risposto con tono stupito ed indeciso.
“Dai, andiamo, non c’è tempo da perdere Luca ci aspetta alle sette in sala prove, e ci sono almeno
altri tre negozi in cui cercare ed almeno altre mille chitarre da provare! Vi pare farvi bloccare qui da
Cesare Cremonini dei Luna Pop?” Era intervenuto con distacco Paolo, più focalizzato sul trovare
una chitarra entro la fine del pomeriggio, per rispettare tutti gli orari ed i programmi, che non a
godersi certe situazioni straordinarie ed improbabili.
Avevamo deciso di mandare in culo Paolo e di avvicinarci.
Uno dei ragazzi sui sedici, agghindato da perfetto metallaro darckone, con tanto di lunghi
sugliardissimi capelli davanti agli occhi, tenendo una nerissima tagliente Ibanez tra le braccia,
avevo apostrofato il cantante più desiderato dalle adolescenti italiane con un “Hey maestro, senti
‘sto slego!” e si era esibito in un terribile e velocissimo assolo che tanto aveva di Stratovarius e
Dreamtheatre. Il guanto di sfida era stato lanciato ed il povero Cremonini, a difesa della sua
straripante, improvvisa e, forse, ingiustificata notorietà, non poteva che raccoglierlo.
Aveva preso dall’espositore la prima chitarra che gli era capitata a portata di mano e lui che
nasceva pianista, aveva tentato un elementare assolo iniziale di Starway toHeaven.
Una terribile sequela di suoni scattosi e rancidi.
Così come l’aveva presa, l’aveva gettata con scazzo su di un tavolo poco distante e se n’era
andato furioso tra le burla e le risa dei musicisti adolescenti che gli scagliavano sulle grandi spalle,
insulti e battutine al vetriolo.
Finito lo spettacolo la schiatta di ragazzi si era dissolta tra gli infiniti corridoi.
“Eppure quella chitarra aveva qualcosa…” Avevo detto a Paolo, e mi ero diretto a passo veloce
verso lo strumento incustodito. Matteo mi seguiva poco più indietro.
Stranissima nella forma e speciale nel colore che degradava dal verde balsamo al bianco, la
chitarra, mi chiamava dal fondo del corridoio.
L’avevo imbracciata, dopo averla studiata un poco, e già la sentivo parte di me, le percepivo
pulsare dentro una speciale energia, quasi che in lei vi fossero tutta la mia storia e brandelli del mio
futuro.
Avevo respirato a fondo e dopo aver collegato i jack avevo toccato il manico ed il mi cantino,
pronto ad eseguire uno dei miei riff preferiti: direttamente da Day Dream Nation, Teenage Riot!
Matteo si era illuminato, come percorso da una strana corrente, che zig-zagando rapidissima
aveva raggiunto Paolo, in fondo al corridoio, colpendolo dritto in mezzo ai timpani.
Silenzio.
Cerco con timore i loro occhi, come a bisognoso di cercar conferme mai così superflue. Non
c’erano dubbi. Nel loro stupore era contenuta la risposta. Quella chitarra era nata per me, od io ero
nato per lei.
In quella corrente tutta la mia anima, perfetta ed amplificata, addirittura abbellita!
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Quel suono ero io, Nicola Ferri, apirante Lou Reed.
Quella Chitarra, corpo perfetto per la mia anima, era la Mia Rickembacker!
Capitolo 7
“Lieve”
Piano piano l’estate era andata degradando ed il cielo e le strade di Rovigo iniziavano a riempirsi
di quella malinconia da fiera finita. I festoni e le luminarie ancora appese, ma per le vie, pochi
giorni prima frementi e coloratissime di persone, chiassose di voci e di luci, solo desolazione e
grigio silenzio. Ultimi giorni di settembre e tanti dubbi che si schiantavano contro un universo che
non sembrarava offrire possibili vie di evasioni.
A giorni sarebbe iniziata l’università, ed io mi stavo ancora ad interrogare sulla bontà della mia
scelta. Divorato dai tarli voraci e spietati del dover capire che cosa fare della mia vita, quale strada
intraprendere tra le mille e mille possibilità, e nell’affrontare tutto questo non mi ero certo aiutato,
coltivando ovunque e comunque enormi spazi di assenza. Era stato un settembre d’infinito
inarrivabile nichilismo, incapace, volutamente incapace di ascoltare i miei sogni ed i miei desideri.
Bloccato in una terribile insensibilità nei miei confronti, occupato com’ero con il gruppo rivolgendo
in esso ogni progetto, ogni sogno, ogni desiderio. Di me non importava poi molto, perché solo
sentivo di non valere, ma nel gruppo, all’interno della sorgente della musica, al centro
dell’attenzione sentivo di essere importante e grande. Saper di poter “essere giudicato per come
suono e non per come sono” mi dava una sicurezza disumana. Una sicurezza disumana, certo, ma
terribilmente vigliacca. Una sicurezza, falsa, falsissima, perché non chiedeva di mettere in gioco
nulla di sé stessi, e proprio per questo, nel luogo dove l’io non vale alcunché rispetto al noi, mi ero
sentito per la prima volta, al di là dei miei atteggiamenti da consumato ed esperto viveur, qualcuno.
Per questo un Nicola Filosofo non valeva né più né meno che un Nicola Architetto o un Nicola
Psicologo, perché, Nicola era, è e sarà sempre Nicola, il chitarrista! Non volevo nulla di diverso
dalla mia vita di amici e musica per me, sempre su un palco. Volevo vivere a colori, e per giunta a
tinte accesissime come quelle di un Gauguin, e ricacciare il grigio della normalità, della mediocrità
fuori dalla mia esistenza! Che Illuso il grigio esiste anche nel colore, ed al grigio non si sfugge.
Insomma, reputando una laurea né più né meno di un mezzo, fetido e piccolo, per aggettivare le
persone, con un certo disinteresse, una mattina umida e già fredda, schiacciato tra il mio nichilismo
e quello del cielo grigio, mi ero iscritto ad economia.
Capitolo 8
“La tremarella”
Matteo si era, da pochi giorni, messo con Claudia ed ottobre ne stava dietro la porta a bussare
sogghignante e bastardo. Era stato un rapidissimo crescendo questa storia tra il nostro Godano e la
bella Claudia. Matteo diceva che era Amore, tanto per cambiare, e Luca, gelossissimo della sorella,
non aveva ancora digerito il tutto. L’estate della nostra maturità andava lentamente vaporizzandosi
sotto i nostri occhi e noi, presi com’eravamo nel turbinio settembrino, non ce ne rendevamo
minimamente conto.
La bellezza di quel mese di settembre dei diciannove anni, uno spicchio di indicibile attesa per
l’inizio di una nuova strada e un posto ristoro dove parcheggiare la propria adolescenza, con tanto
di brufoli, paranoie, misteri sessuali e arcani sull’altro sesso, non si può apprezzare veramente
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quando la si vive. Noi ci limitavamo a deridere gli studenti delle superiori che da poco avevano
ripreso a frequentare ed a compatire, nulla di più, nulla di meno, gli universitari che stavano chini
sui libri a preparare esami. Il resto era musica. A dirla così potrebbe sembrare anche monotona,
visto che tutti i mesi precedenti erano stati variazioni su un unico tema centrale: scuola, sala prove,
cena, sala prove e bar, ma tutto questo periodo, leggero e veloce, aveva iniziato ad assumere un
fascino speciale., il fascino della vita d’artista! Zero preoccupazioni e zero studio. Probabilmente i
nostri genitori, sul tema “la formazioni delle giovani menti, l’edonismo e la vita d’artista” avrebbero
avuto molto da ridire. Ad ascoltarli sembravano pure convinti di quanto sostenevano soffiando e
sudando come Atlante che sorregge l’immane peso del cielo. “Non vai da nessuna parte se continui
così” “I soldi non crescono sugli alberi e devi studiare per avere un lavoro decoroso!” “Va bene la
musica, va bene la passione ma prima deve esserci lo studio, il costruirsi un futuro adeguato alle tue
aspettative” “Che tanto non ci camperete di quei rumori, e quando farai la fame e ti renderai conto
di avere buttato nel cesso la tua vita, non venire a bussare a questa porta!”, a volte rischiavano di
convincere anche noi! Poi l’edonismo, la sinergia dei nostri pensieri, gli istanti lenti prima che la
voce esca dalle casse e le mille serate nel giardino di Matteo, distesi a bere birra e a fumare verzura,
avevano sempre la meglio, su ogni tentativo dei nostri vecchi di inocularci una qualche forma di
coscienza e ci portavano in un mondo fatto di sogni facili da sbucciare. Era proprio questo ad averci
dato la forza di affrontare i momenti di difficoltà, quando proprio una canzone non riesce neppure a
provarla all’infinito e c’è sempre qualcosa che non va, quando la tensione era tanta da spingerci a
litigare per banalità sconfortanti, la possibilità di sognare e di sapere che quei sogni che stavano
davanti a noi, li potevamo toccare, erano lì per noi. E credetemi, per noi, sognare non è affatto
scontato, e sentire di poter realizzare i nostri desideri è prossimo all’impossibile.
Uno stadio di divertente, leggero e felice stordimento.
Al limitare dell’autunno, dopo un’estate straordinariamente iperbolica fatta di musica e feste in
spiaggia, sesso e amici, potevamo finalmente definirci un gruppo ben affiatato con un repertorio di
buona qualità e di media durata. Eravamo pronti a suonare in pubblico, ce lo sentivamo, o meglio,
non essendo certi delle nostre effettive capacità, sentivamo il bisogno di un test, di una prova
incontrovertibile, per poter capire se, come aveva detto Matteo, le nostre potenzialità si
estrinsecassero esattamente nelle nostre capacità effettive e contingenti. Famelici di musica, palchi e
concerti, si era materializzato sui nostri calendari il 26 Settembre. Quel pomeriggio si era deciso di
provare ed i progressi fatti durante i mesi estivi si sentivano tutti. Da cinque personaggi mal assortiti
ed alquanto eterogenei, eravamo passati a cinque solisti, altrettanto eterogenei e mal assortiti, che
suonavano assieme, fino a diventare, proprio negli ultimi giorni, un vero gruppo. Suonavamo
“Nuotando nell’aria” e Claudia si aggrappava con le palpebre dei suoi occhioni spalancati alle
mobili labbra di Matteo che tra le parole la riempiva di amorevoli sguardi. Così a prima vista
sembravano proprio belli assieme. Mi stavo perdendo in questi inutili giudizi estetici da impiccione
laureato, quando, proprio a metà di Festa Mesta era squillato il cellulare di Matteo.
Matteo incatenato dalle vibrazioni di “Nuotando nell’Aria” agli splendidi occhi di Claudia
aveva estratto dalla tasca posteriore dei pantaloni il cellulare indemoniato di luce e, con
sovrabbondante scazzo, aveva risposto alla misteriosa ed arcana chiamata del numero misterioso
che saettava dalla schermo.
Claudia, incapace di distogliere lo sguardo dal magnetismo che Matteo emanava ad ogni gesto, ad
ogni parola, studiava , misurava ripeteva con la mente e con gli occhi, ogni movimento del piccolo e
sensualissimo Godano. Lei lo amava veramente, e tanto, io la conoscevo da quando ero un piccolo
moccioso ciccione che sedeva in primo banco nelle ore di lezione, e pur avendola persa di vista in
questi ultimi anno di liceo, avevo imparato a leggerle dentro, ed a capire ogni suo minimo
movimento dell’animo.
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Peccato che Matteo non fosse altrettanto innamorato. Lui, che cercava l’Amore, in realtà finiva
sempre ed in breve tempo per accontentarsi dei facili ed insipidi surrogati che il mondo offre a
personaggi, decisamente fuori dagli schemi e sopra le righe, come Matteo.
E la cosa brutta è che ne era consapevole! Ne era consapevole e non cercava di fare nulla per
rimediare! Certo non ci si può forzare ad essere innamorati, l’essere innaturali mortifica ogni
sentimento, ma nella personalissima, wildiana ed antiquata ottica di Matteo tutto era giustificato e
giustificabile purché fosse in funzione del Bello. Il piccolo Godano, allora, si sforzava, s’illudeva,
cercava di ricambiare l’affetto dolce e perfetto di Claudia, ma nulla, alla fine sbatteva sempre contro
la sua impossibilità di amare veramente.
Qualche mese più tardi, quando Claudia sarebbe uscita definitivamente dalla nostra storia con non
pochi strascichi, peraltro nostalgici, di quelli peggiori, lasciando il piccolo Godano in compagnia di
un intero esercito di rimorsi, dopo uno dei nostri primi concerti, dopo aver tracannato non poche
birre low cost ed aver aspirato una considerevole dose di verzura, si era confessato. Finalmente
aveva capito il perché!
“Il perché di cosa?” gli avevamo risposto in coro, anche noi ben oltre la soglia di tolleranza
alcolica.
“Perché , alla fine, sebbene possa considerarmi un gradevole maschio etero, di bell’aspetto, per
non dire avvenente, simpatico ed intelligente…”
“Eppure umile!”
“…le mie storie finiscano sempre per naufragare l’una dopo l’altra, infrangendosi su di uno
scoglio insidioso e beffardo!”
Matteo non è molto attuale nell’uso della lingua, usa addirittura il passato remoto e parole, come
direbbe lui, desuete, ma infondo è un esteta dall’anima rock e queste stranezze gli erano permesse.
Poi quella sera, per giunta, era ubriaco, fumato fino all’osso e soffriva come un cane con la scabbia,
le zecche, lo scolo e la rogna. La nostra comprensione e la nostra amicizia, in quel frangente, gli
erano dovute.
Ah, lo scoglio, quasi dimenticavo.
Per anni Matteo aveva cercato di capire che diavolo fosse quel maledetto scoglio, di individuare
dove quell’ammasso di coralli fosse esattamente posizionato all’interno degli sconfinati e
tempestosi oceani del suo animo, senza mai riuscirvi. Quella sera, poi, con una alba cerveza
pedavena in una mano ed una canna rollata da Paolo con michelangiolesca perfezione, era arrivata
l’illuminazione, diretta e potente, come un fulmine a trapassargli la schiena. Improvvisa e
folgorante, gli aveva acceso gli occhi, che accusavano pesantemente degli abusi della serata, della
luce profonda ed accecante della piena consapevolezza, del Nirvana. Era balzato in piede ed aveva
improvvisamente preso a sacramentare imbestialito.
Aveva capito il perché.
“Porca puttana! Porca puttana! E ancora porca! Lo scoglio sono io”
(…)
“Lo scoglio sono io stesso, la radice stessa del mio essere, una parte imprescindibile, fondante ed
innegabile di me.”
Quello scoglio di corallo era cresciuto con lui in quegli ultimi anni, era con le letture del buon
Sperelli, fecondato da Wilde e consolidato da Huysmond. Era cresciuto giorno dopo giorno con
quel suo amore per la forma, per il delicato equilibrio della bellezza, per l’esercizio del superfluo e
della ricerca del vezzo, per la ricerca dell’essere altro dai più. Quello scoglio era il suo tanto amato
estetismo. L’amara verità l’aveva fatto andare fuori di testa, il peso di quella spada di damocle,
essere se stessi e non potere amare o negarsi ed amare, lo opprimeva nella consapevolezza della
propria sterilità, perché alla fine, l’esteta non può che amare solo se stesso ed i suoi vezzi. Noi,
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ancora abbagliati da quella smisurata e sconfortante illuminazione, l’avevamo giustamente
consolato con un doppio giro di Signor Jack Daniels e con un paio di grasse risate corali, perché
certi sproloqui non possono che essere frutto del sacro tetraidrocannabinolo.
Lui aveva sorriso, con uno di quei sorrisi nei quali ogni dente è una spina conficcata
profondamente nelle gengive, e con lo sguardo di chi sta lentamente affogando nel sangue e nelle
lacrime.
L’effetto di quella nudità improvvisa lo avrebbe tormentato non poco nei mesi e negli anni
successivi, ed almeno una notte al mese, in occasione dell’anniversario della rottura con Claudia, la
passava in bianco a fumare e ad ubriacarsi. Si stava lentamente, coscientemente ed inesorabilmente
consumando.
Quel pomeriggio d’ottobre Matteo il suo dolore estetico era ancora lontanissimo e non
immaginava assolutamente quello che da lì a qualche mese sarebbe successo. Claudia era la sua
musa, la sua fonte di gioia e di Bellezza più pura, e tutto il resto al momento non contava. Lo
scoglio non c’era ancora e s’era illuso, il poveretto, che in quel rapporto potesse esserci pure un
timone che gli potesse consentire di poter aggirare tutti gli ostacoli, tutte le difficoltà che avrebbero
incontrato nel loro futuro.
Bella e ricca droga la speranza!
Quel 26 settembre stavamo provando, la canzone preferita da Claudia sûrement, “Nuotando
nell’aria” ed il telefono di Matteo aveva iniziato a vibrare indemoniato.
Il cantante dei Bullets with butterfly wings aveva risposto prontamente e spavaldamente, come
perfettamente si addiceva ad un personaggio così perfettamente guascone.
Matteo, immerso in un’animata ed entusiastica conversazione, annuiva e sorrideva, saltava e
camminava da un lato all’altro della stanza. Claudia lo seguiva con lo sguardo senza parlare e con il
movimento degli occhi riscaldava di un amoroso tepore la sala prove. Matteo guardava me, in cerca
di assenso. Io guardavo Paolo e Paolo guardava Luca che, nel più totale distacco dalle nostre misere
vite terrene, lui che si sbatteva contemporaneamente Marta ed Alessia, ripercorreva con le dita sulle
corde del basso il sentiero disegnato dalle note delicate e strazianti di “Come as you Are”.
Non avevamo la minima idea di che diavolo stesse confabulando Matteo al telefono.
“Magari sta architettando un colpo alla Ocean’s eleven, o gestisce un giro di scommesse
clandestine, o commercia in organi, fegato, reni, cornee, cuore, midollo e, forse pure, testicoli” Mi
ero detto sogghignando pensando al mio amico guercio che adescava giovincelle in discoteca, le
seduceva e poi, dopo averle sedate, strappava loro gli organi, e con il loro rossetto scriveva sul loro
petto specchio a caratteri arabescati, con gusto e sadismo, “welcome in the Aids’ World!”.
Splatter, ma bello!
“Si, è decisamente un commerciante di organi!” mi ero ripetuto.
“Ma…dove la rimedia effettivamente la merce?” mi ero chiesto
Poi mentre chiudeva la chiamata ci aveva guardati, tutti, ad uno ad uno, sorridendo
“…Mon Dieu! I nostri organi!”
Matteo si stava avvicinando a braccia aperte verso di noi, ed io non pensavo ad altro che al mio
brevissimo e stralunatissimo trip appena concluso, incapace di capire effettivamente dove finisse la
mia immaginazione ed iniziasse la realtà. Volevo fuggire.
Il piccolo Godano era a pochi metri da noi, Luca continuava a suonare guardando Paolo, Paolo
guardava me ed io, …io me la facevo sotto, quando il nostro cantante, aveva urlato, fino a sputare
l’ugola, “Abbiamo un Concerto! Abbiamo un Concerto!”
Eravamo esplosi in un tripudio di grida e schiamazzi, avevamo stappato un paio di birre ed
avevamo iniziato a saltare schizzandoci di schiuma: AVEVAMO UN CONCERTO! IL NOSTRO
PRIMO CONCERTO!
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Paolo aveva subito estratto dal marsupio peruviano il magico sacchetto della verzura e ci aveva
guardato con un’occhiata tentatrice e complice.
“Per me no Paolo, questa volta salto” il trip sul commerciante di organi mi aveva fatto capire
chiaramente che per quel giorno sarebbe stato meglio sospendere la sistematica pratica di abuso
delle droghe leggere.
In preda alla tremarella per l’emozione in vista del nostro debutto, avevamo assalito Matteo,
volevamo informazioni precise, sul concerto.
“Suoneremo nel pomeriggio.” aveva esordito il nostro cantante “In realtà, non è proprio un
concerto, concerto, è una rassegna di buskers, e quindi senza un palco, senza luci e senza una folla
solo per noi, ma come inizio penso possa andare benissimo, poi quella sera a Ceregnano, un paese
capannoni&campagne, suoneranno i Meganoidi!”.
Un’occasione imperdibile! Sicuramente ci sarebbero state centinaia, migliaia di persone, e ci
saremmo trovati di fronte un pubblico numerosissimo, lì per il concerto dei “King of the Ska”, non
certo per noi, ma pur sempre un “nostro” pubblico potenziale!
Eravamo all’apice della gioia, saltavamo da un lato all’altro della stanza, l’occasione che stavamo
aspettando da mesi era finalmente arrivato!
Certo, quelli che sentivano di più l’emozione eravamo io e Luca, i pivellini, dato che Paolo aveva
già suonato in una cover band, una cover band come troppe con il repertorio infarcito di Albechiare
sommariamente stonate e Certe Notti afose e rancide già dai primi riff, e che Matteo era dotato di
un tasso così elevato di vanità e spavalderia da poter cancellare dalla faccia della terra imbarazzo e
vergogna.
“Ma voi siete sicuri, vi rendete conto suoneremo prima dei Meganoidi?”
“Eh, Nicola, vedi un po’ di non fare troppo il cagacazzi!E’ una grande occasione punto e basta.
Non siamo pronti? Forse. Non siamo bravi? Forse. Dobbiamo ancora imparare molto, dobbiamo
perfezionarci, ma siamo già a buoni livelli e spesso ciò che la tecnica non permette di raggiungere
lo concede il cuore, e, a noi, quello certo non manca. Se non l’hai ancora capito, Nicola, mi spiace
ma tu di quanto abbiamo fatto finora non hai ancora capito nulla!”
Paolo tanto per cambiare aveva ragione non ci restava che impegnare gli ultimi giorni a fare prove
e a cercare le sonorità migliori in vista di Arutluc. Suonare senza un impianto di amplificazione e
con una cassa spia ad amplificare la voce è prossimo al proibitivo, tuttavia, aggiustando qualcosa
qui e là, specie volumi e settaggio degli amplificatori e distorsori, c’erano tutti i margini per una
buona prestazione d’altronde, se il direttore artistico di Arutluc si era mosso per chiamare proprio
noi, significava che le qualità, almeno in potenza, c’erano tutte!
Avevo esposto questa mia teoria ai miei compagni, sostenendo che, se gente esperta e rinomata in
tutta la provincia per l’ottima direzione artistica come “quelli di Arutluc” erano, di fatto, venuti a
cercarci, significava che godevamo di fiducia nel mondo alternative, e che la voce, di un nuovo e
potentissimo gruppo noise-rock da poco formatosi e pronto al grande debutto, si era diffusa.
Quell’idea ci galvanizzava! Non capita mai che sia l’organizzatore a chiamare un gruppo che non
conosce, semmai, almeno in linea altamente teorica, dovrebbe avvenire il contrario, con tanto di
consegna di demo in surplus.
“Se ci hanno chiamato vuol dire che vedono in noi un potenziale artistico interessante! Siamo le
promesse del rock polesano!” Aveva esclamato con straordinaria convinzione Matteo.
“Oggi Arutluc, domani il mondo!” Aveva ribadito di giustezza Luca.
“Non vorrei smorzare il vostro ingenuo e dolce entusiasmo, ma…”
“…ma cosa, Claudia?”
“Si, diciamo che sanno delle vostre qualità e che vi hanno chiamato perché apprezzano il vostro
indirizzo artistico e le vostre buone qualità, ma non è tutto. Michele, il direttore artistico, era un mio
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compagno di classe fino allo scorso anno e un paio di giorni fa ci siamo rivisti. Lui mi ha raccontato
delle sue vacanze e dell’impegno sempre crescente di Arutluc ed io gli ho parlato di voi e della
vostra musica, gli ho garantito che siete in gamba, magari inesperti, ma davvero in gamba. Mi
conosce e sa che non mento mai e che sono molto affidabile in termini di giudizi musicali. Abbiamo
gusti simili e di me si fida, insomma gli ho dato il numero di Matteo…”
Era stata Claudia. Aveva parlato bene di noi al direttore artistico di Arutluc, e non credo, ancora
oggi, l’avesse incontrato per pure caso, ma doveva, per certo averlo cercato proprio per parlargli di
noi. Il nostro primo concerto era un regalo di Claudia e noi, noi, non sapevamo davvero come
ringraziarla.
Lei era fantastica ed innamorata, e questo, come per ogni ragazza, la rendeva splendida e
straordinaria.
Matteo era corso subito ad abbracciarla e, violando un certo patto stretto con Luca, l’aveva baciata
con passione e delicatezza.
Io e Paolo, alquanto spiazzati, almeno quanto Luca, ma senza rabbia o voglia di vomitare
all’istante piegati sull’amplificatore, dal gesto del piccolo Godano, avevamo deciso, che se lui era il
nostro leader, allora quel bacio di grande affetto e ringraziamento era anche un po’ nostro. Ci era
bastato un sentito e sincero grazie per sentirci risollevati da ogni possibile senso di colpa o debito.
Non avremmo avuto moltissimo tempo per perfezionare ogni canzone e quelle da provare fino
alla nausea per farcele entrare tutte, perfettamente, in testa erano almeno il doppio, ma sapevamo di
essere tecnicamente e mentalmente pronti per suonare in pubblico, o meglio con un pubblico
superiore alle cinque unità. Eravamo usciti sorpresi ed appagati dalla sala prove e, dopo la sosta
tabagifera sotto il salice del giardino, c’eravamo dati appuntamento per la sera allo 0,4.
Luca e Claudia ci stavano già aspettando davanti l’ingresso del locale fumando, quando io,
Matteo e Paolo, dopo la rituale pisciata di gruppo dal ponte sul Canal Bianco, avevamo, mancando
ad ogni regola del codice stradale e del buonsenso, voltato all’incrocio come dei missili V2
impazziti. Le nostre facce sprizzavano ancora il colore della gioia e dell’emozione vissuta nel
pomeriggio e, tra i numerosi boccali di birra consumati quella serata per festeggiare l’ingaggio e le
non poche discussioni, avevamo steso la nostra prima scaletta.
1. Bulletts with butterfly wings
2. La canzone che scrivo per te
3. Festa mesta
4. Gioia che mi do
5. 1979
6. Lieve
7. Disarm
8. Nuotando nell’aria
9. Notte
10. A fior di Pelle
11. Ci siamo amati
12. Where is my mind
13. Tonight
Tredici canzoni di sicura e indiscutibile bellezza ed importanza selezionate con attenzione e cura
tra SP e MK, oltre un ora di sana e buona musica, erano l’ideale per riempire un pomeriggio,
l’ideale per attendere i Meganoidi.
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Matteo stava già pensando all’abbigliamento. Voleva proporre una camicia di lino grezzo su un
jeans punk ed immancabile infradito. Paolo suggeriva di dare al tutto un tono scherzoso, giusto per
non prendersi troppo sul serio, magari un costume de bagno con camicia ed occhiali da sole. I tipici
dubbi amletici, i normalissimi problemi che ogni gruppo ha prima di un concerto, direi. Erano le
due passate ed avevamo già superato tutti ed abbondantemente superato il secondo boccale di birra,
e questo era sufficiente a spiegare il tutto. Io me ne stavo nel mio silenzio rumoroso a bere con
gusto e curiosità una nuova birra abbazia con la testa decisamente altrove. “Finalmente un pubblico,
di quelli veri, di quelli che se non piaci, ti può fischiare e lasciare! Finalmente un vero pubblico
davanti al quale annegare la mia timidezza nel mare vasto e straordinario delle note! E che cazzo
stanno a dire? Camicie di lino e costume da bagno? Ma se è autunno! E fa un freddo cane!”. Poi una
vibrazione lungo la coscia. Temevo in un’orribile scherzo del destino, magari il Michele di Arutluc
aveva realizzato che non sarebbe stato proprio il caso di chiamarci, dato la nostra totale
inesperienza, ed in fondo speravo la percezione di quello strano moto lungo la gamba fosse solo uno
stupido, stupidissimo tiro mancino giocatomi dall’eccesso di alcol. Ero già completamente
proiettato nel mio personalissimo intermundia delle sfighe, popolato da crocchette durissime e cani
coi denti di gelatina, quando Luca, strattonandomi il braccio, mi aveva gridato direttamente sul
timpano: “Vuoi rispondere o no? Questo maledetto vibro ci sta frullando i coglioni!”
Ancora una vibrazione.
Una chiamata.
Valeria
(…)
Un battito di cuore anomalo
(…)
Capitolo 9
“Un grammo di gioia del tuo sorriso”
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