DIETE IPERPROTEICHE ED OBESITA` L.M. Donini, A. Pinto

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DIETE IPERPROTEICHE ED OBESITA` L.M. Donini, A. Pinto
Diete iperproteiche ed obesità
Lorenzo M. Donini, Alessandro Pinto, Carlo Cannella
An increased protein intake is one of the most common approaches to the dietary management
of obesity. The authors analyze the issues related to protein requirement in normal-weight and
obese subjects, to the use and to the usefulness of high-protein diets in the treatment of obesity.
Caution with these diets is recommended in view of their only slight effect on weight and fat loss
and owing to the scarce evidence of significant effects on satiety and energy intake. Furthermore,
the risks of harmful outcomes may be correlated to an excessive protein intake. Moreover, these
diets do not allow patients to adopt those nutritional behavior rules which are essential to maintain the weight and fat loss and, consequently, significantly reduce the cardiovascular and metabolic risks related to obesity.
(Ann Ital Med Int 2004; 19: 36-42)
Key words: High-protein diet; Obesity.
Le diete iperproteiche nella terapia dell’obesità sono state proposte a decorrere dagli anni ’70. L’ipotesi di poter
trattare con maggiore efficacia l’obesità utilizzando un regime dietetico sbilanciato nell’apporto di nutrienti è divenuto uno dei principali campi di battaglia del conflitto
tra una scienza dell’alimentazione basata sull’“evidenza” e la “diet industry” che solletica la ricerca del “miracolo”.
Scopi di questa rassegna sono: definire il concetto di
“dieta iperproteica” ed analizzarne scientificamente il razionale alla base di tale approccio nel trattamento dell’obesità.
• 0.6 g/kg peso corporeo ideale (PI) in un soggetto che ha
un PI di 75 kg; tale quota proteica è ai limiti dell’accettabile anche per un soggetto affetto da insufficienza renale;
• 1.0 g/kg PI per un soggetto che ha un PI pari a 45 kg,
quindi per un soggetto alto da 134 cm (indice di massa corporea 25 kg/m2) a 150 cm (indice di massa corporea 20
kg/m2)!
Nel rispetto di tale indicazione, al crescere dell’apporto energetico, deve essere parallelamente incrementato l’apporto proteico: un regime alimentare di 2500 kcal presuppone un apporto di circa 94 g di proteine. In realtà ciò
non è vero. È invece dimostrato che più elevata è la quantità di energia introdotta, più bassa è la quantità di proteine
necessaria per raggiungere l’equilibrio. Si calcola che per
ogni caloria in più fornita dalla dieta la ritenzione di azoto sia di 1-2 mg. In soggetti a digiuno l’escrezione urinaria di azoto, inizialmente elevata, si riduce di circa il 40%
aggiungendo 100 g di carboidrati (CHO) (equivalenti a 400
kcal)2.
A ciò si aggiunga il fatto che, se è vero che gli aminoacidi
(AA) sono in grado di fornire energia, è anche vero che,
in una prescrizione dietetica prevedere che le proteine
saranno utilizzate a fini energetici è, per molti versi, un abuso. L’omeostasi del pool proteico corporeo è regolata da
un complesso sistema in cui turnover proteico, ossidazione
degli AA, sintesi dell’urea ed escrezione azotata sono
combinati e si regolano reciprocamente in modo diverso
nella fase post-prandiale o nella fase post-assorbitiva3.
In un uomo adulto le proteine corporee ammontano a circa 12 kg. Di questi si calcola che giornalmente circa 250300 g siano soggetti a turnover. Un terzo di questa quota
costituisce una perdita obbligata, attraverso il catabolismo
ossidativo, perché, anche in condizioni di massima efficienza, la riutilizzazione non è completa4. In assenza di situazioni particolari, fisiologiche (crescita, allattamento, gra-
Definizione di dieta iperproteica
La definizione di dieta iperproteica non è immediata a
causa di un’inveterata abitudine alla doppia contabilità nella definizione dell’apporto proteico.
Secondo un primo sistema di calcolo, che considera la
quota proteica parte integrante dell’apporto calorico giornaliero, possiamo considerare dieta iperproteica un regime alimentare in cui l’apporto calorico affidato alle proteine supera una frazione pari al 10-15%. Tale approccio
può determinare eccessi o difetti nell’apporto proteico.
Ad esempio le LiGIO ’991 indicano di assumere una
quantità di proteine tale da soddisfare il 15% delle calorie totali giornaliere: in una dieta ipocalorica di 1200 kcal
il 15% corrisponde a 180 kcal cioè 45 g di proteine.
Confrontando tale apporto proteico con il fisiologico fabbisogno, 45 g di proteine corrispondono a:
Istituto di Scienza dell’Alimentazione (Direttore: Prof. Carlo
Cannella), Università degli Studi “La Sapienza” di Roma
© 2004 CEPI Srl
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Lorenzo M. Donini et al.
vidanza) o patologiche (sepsi, traumi, ecc.), la funzione delle proteine assunte con l’alimentazione è unicamente
quella di fornire gli AA necessari alla sostituzione delle
proteine perse quotidianamente durante il normale turnover
(Fig. 1)3.
A nostro avviso, l’approccio corretto non è quindi quello di contabilizzare le proteine nella quota calorica, ma di
considerare il fabbisogno proteico (idealmente) in funzione
della massa priva di grasso, massa proteica metabolicamente attiva o, più semplicemente, del PI. Questo sistema di calcolo, in primo luogo, si differenzia dal precedente
in quanto la massa priva di grasso rende ragione di oltre
il 90% del metabolismo basale, mentre il dispendio energetico totale giornaliero è funzione oltre che del metabolismo basale anche della “diet-induced thermogenesis” e
dell’attività fisica. Queste ultime due variabili non dipendono dal peso o dalla composizione corporea, ed incidono per circa un 30% sul fabbisogno calorico. È quindi più ragionevole vincolare l’apporto proteico al peso corporeo (o alla massa priva di grasso) piuttosto che al dispendio energetico giornaliero.
Si valuta che, in presenza di un’utilizzazione metabolica ottimale pari al 100%, l’apporto quotidiano di proteine
necessario a mantenere il bilancio azotato è pari a 340
mg/kg di peso corporeo5. Sulla base di studi sia a breve
che a lungo termine, il fabbisogno medio di proteine per
il mantenimento è fissato a 0.6 g/kg di peso corporeo/die.
A questa quota va aggiunto un 25% per tener conto della variabilità interindividuale. In definitiva 0.75 g/kg di peso corporeo/die dovrebbero coprire i bisogni del 97.5% della popolazione. Un’ulteriore correzione per la qualità delle proteine assunte abitualmente nella nostra alimentazione
(utilizzazione proteica netta, pari a 0.79, funzione dell’indice chimico, cioè la composizione in AA rispetto ad una
proteina ideale di riferimento, e della digeribilità) porta a
0.95 g/kg PI il livello giornaliero di assunzione racco-
mandato di proteine4. In definitiva, per qualsiasi soggetto, il fabbisogno può essere individuato moltiplicando il
quadrato della statura (in m) per l’indice di massa corporea ideale (compreso tra 20 e 25 kg/m2), ossia calcolando il PI. Le proteine inoltre dovrebbero essere almeno per
il 50% di origine animale, in modo da assicurare un apporto adeguato di AA essenziali.
Da questo approccio discende che possono essere definite (e così le intenderemo nel prosieguo di questo scritto) diete iperproteiche quelle che assicurano > 1 g di proteine/die per kg di PI.
Fabbisogno proteico nel soggetto obeso
in trattamento dietetico
Un altro aspetto da analizzare è quello relativo al fabbisogno proteico del soggetto obeso in trattamento con un
regime ipocalorico. I dati della letteratura non sono di univoca interpretazione.
Alcuni autori hanno rilevato come soggetti obesi sottoposti a dieta ipocalorica possono andare incontro ad un
fenomeno di “adattamento” con riduzione del metabolismo basale e ad una perdita di massa magra quando la restrizione calorica è eccessiva e/o l’apporto proteico è insufficiente2. In una serie di lavori pubblicati negli anni ’80
si vide come la sintesi proteica era meno efficiente in
presenza di un bilancio energetico negativo e ciò rendeva necessario un incremento dell’apporto proteico. In
donne obese, peraltro non affette da altre patologie, sottoposte ad un regime fortemente ipocalorico (360 kcal/die
circa) il pareggio del bilancio azotato fu ottenuto solo
quando l’apporto proteico arrivava a 1.5 g/kg PI6-8.
Altri autori hanno invece rilevato come il fabbisogno
proteico non sia aumentato nel soggetto obeso in trattamento dietetico in quanto il maggior afflusso di acidi
FIGURA 1. Contributo delle proteine alimentari alle principali vie del metabolismo
proteico.
Da Young3, modificata.
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grassi, conseguente alla lipolisi, riproduce in modo efficace la situazione di risparmio azotato che si ha in presenza
di un apporto esogeno di energia. Inoltre, i soggetti obesi hanno quasi sempre una situazione di iperinsulinismo
che comporta un efficiente riciclo degli AA liberati dal
turnover proteico grazie ad un aumento della sensibilità
all’azione antiproteolitica dell’insulina9. Nel soggetto
obeso lo stesso tessuto adiposo diviene una fonte di AA
quantitativamente importante nella fase post-assorbitiva10.
In corso di digiuno, l’eccesso di tessuto adiposo consente
ai soggetti obesi di conservare la massa magra con più efficienza rispetto ai soggetti non obesi. I primi perdono azoto e peso ad una velocità inferiore rispetto ai secondi ed
il rapporto azoto/peso perso, nel corso di un digiuno prolungato, è inversamente proporzionale alla quota di massa grassa11,12.
In assenza di chiare risultanze scientifiche è corretto avere un atteggiamento prudenziale e quindi, in definitiva, riteniamo che, anche nel soggetto obeso sottoposto a regime ipocalorico, è necessario che l’introito proteico rispetti il bilancio azotato e non sia funzione della quota calorica. Per consentire un adeguato turnover proteico si calcola sia necessario assicurare, anche in questo caso, un apporto proteico simile a quello di un soggetto normopeso
pari a circa 0.8-1 g di proteine per kg di PI13.
Possiamo quindi considerare, anche nel soggetto obeso in trattamento dietetico, diete iperproteiche quelle che
assicurano > 1 g di proteine/die per kg di PI.
(1.2-1.5 g/kg PI fornite da carne o albume d’uovo) insieme a tutti gli altri nutrienti necessari alla sintesi di massa
magra” (e quindi supplementazione di vitamine e sali minerali) oltre ad un apporto di liquidi ad libitum. Queste diete avevano lo scopo di mantenere il bilancio azotato in positivo e conservare la massa magra malgrado la perdita di
peso complessiva. I primi soggetti trattati ebbero effettivamente una significativa perdita di peso (più di 18 kg in
breve tempo in 3 soggetti su 4) e tale perdita si mantenne durante il follow-up (durato da 26 a 44 mesi)15. I lavori
successivi, compiuti da vari gruppi di ricerca, hanno confermato i risultati senza mai dimostrare l’instaurarsi di una
malnutrizione proteica: i livelli ematici di albumina, emoglobina ed ematocrito così come i parametri dell’immunità cellulo-mediata si sono mantenuti nella norma, mentre la sintesi proteica e gli indici di catabolismo hanno manifestato solo cambiamenti minimi salvo un significativo
aumento dei livelli ematici di AA ramificati16.
Sempre nella letteratura scientifica, negli anni ’80 sono stati fatti alcuni rari tentativi, senza molto seguito, di
proporre diete iperproteiche (1.6 g/kg PI) meno restrittive dal punto di vista calorico (circa 800 kcal). Si ottennero
risultati discreti (nel giro di 40 giorni, perdita di peso pari al 9.5% di cui un quinto costituito da massa magra), con
un bilancio azotato peraltro negativo in quasi tutti i soggetti17.
Molto più abbondante risulta la letteratura “non ufficiale”. Le diete iperproteiche sono numerose avendo tutte in comune la caratteristica di non essere suffragate né
da letteratura, né tanto meno da risultati scientificamente corretti. Tra le più note è possibile ricordare:
• dieta Scarsdale: ideata dal cardiologo Herman Tarnower
mira a far perdere peso rapidamente a soggetti cardiopatici candidati ad un intervento, quindi in una situazione di
emergenza. Da praticare solo per 2 settimane con eventuale ripresa dopo adeguato periodo di pausa; 1000 kcal,
43.5% proteine (109 g), 34.5% CHO, 22.5% grassi;
• dieta della zona: ideata da Berry Sears18 promette un cambiamento nel rapporto insulina/glucagone; per calcolare
l’apporto si usa il metodo a “blocchi”: proteine, CHO e
grassi dovrebbero essere dosati in funzione del loro effetto
su insulina e glucagone. Ogni “blocco” è costituito da 7
g di proteine, 9 g di CHO e 3 g di grassi. L’apporto proteico risulta pari a 1-2 g/kg di peso corporeo (3 g/kg di peso corporeo se si vuole aumentare la massa muscolare).
In definitiva la ripartizione calorica di ciascun pasto è: 40%
di CHO, 30% di grassi e 30% di proteine. Si dovrebbe evitare in tal modo un eccessivo innalzamento dei livelli di
insulinemia (scarso apporto di CHO) mantenendo un adeguato livello di glucagone (grazie all’elevato apporto di
proteine);
Le diete iperproteiche nel trattamento dell’obesità
In letteratura le diete iperproteiche non sono certo una
novità anche se spesso vengono definite con tale termine
le diete che assicurano più del 15% della quota calorica
come proteine. Come già detto questi regimi dietetici non
sono necessariamente “iperproteici” in quanto spesso non
assicurano neanche la copertura del fabbisogno minimo
di proteine. Anche le diete a bassissimo contenuto calorico in realtà forniscono 0.8-1 g di proteine per kg di PI14.
Nella letteratura scientifica non esistono trial clinici
randomizzati, ma solo studi osservazionali che valutano
l’efficacia, nel trattamento dell’obesità, delle diete iperproteiche. Queste compaiono negli anni ’70 con Bistrian
et al.15 per il trattamento di alcuni casi di soggetti affetti
dalla sindrome di Prader-Willi, in cui all’obesità si associa ipotonia muscolare, ritardo mentale e ipogonadismo.
Gli autori utilizzarono diete fortemente ipocaloriche definite come “protein sparing modified fast”, “da lievemente
a moderatamente chetogeniche” in grado di assicurare
“un elevato apporto di proteine ad elevato valore biologico
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• dieta punti: iperproteica, ricca di grassi, povera di CHO;
i cibi ricchi in proteine e grassi hanno punteggio più basso: carni, salumi e condimenti equivalgono a 0 punti, una
porzione di formaggio o uova ad 1 punto, mezza mela o
una fetta di pancarrè a 10 punti, una porzione di cannelloni a 15 punti. In definitiva fino a 60 punti non si dovrebbe
ingrassare, da 40 a 60 si dimagrirebbe;
• dieta del Dottor Robert Atkins (inizio anni ’70): non esistono limitazioni per cibi “proteici”, via libera ai condimenti,
moderazione per i formaggi, piccole porzioni di verdure,
vietati carboidrati, patate e legumi. L’assioma sul quale si
fonda dice che proteine e grassi, per la loro scarsa digeribilità e l’elevata capacità di saziare stancano prima; 15001600 kcal, 60-90% di grassi, 23-27% di proteine (92-108
g), 10% di CHO. In definitiva è una dieta chetogenica
che riprende parte delle idee di Harvey nella “Banting
diet” per il paziente gastropatico intorno al 1850 (Banting
– 1891-1941 – isolò l’ormone pancreatico o insulina e fu
premio Nobel nel 1923). È una dieta priva di CHO, con elevato apporto di grassi, colesterolo e purine19,20.
Quest’ultima è anche l’unica ad essere stata condannata sia dall’American Medical Association Council on
Food and Nutrition per il rischio cardiovascolare legato
all’elevato apporto di grassi che dalla Food Standard
Agency inglese che le attribuisce anche la capacità di
creare condizioni favorevoli alla comparsa di neoplasie.
guato apporto di CHO (rapporto CHO/azoto pari a 100150) grazie probabilmente al conseguente aumento dell’insulinemia che agisce riducendo l’attività del sistema ubiquitina-proteasoma. È questo il principale sistema di degradazione delle proteine la cui azione è inibita dall’alimentazione ed in particolare dall’assunzione di proteine.
Non è a tutt’oggi chiaro quali sono gli organi ed i tessuti
maggiormente coinvolti nel sistema e qual è l’importanza relativa dei diversi substrati energetici nel regolarne l’attività. La semplice assunzione orale di AA non sembra inibire l’azione del sistema ubiquitina-proteasoma, per lo meno a livello muscolare, mentre questa è ottenuta a seguito di un pasto misto in cui sono presenti CHO probabilmente proprio in relazione alla loro maggiore azione di stimolo alla produzione di insulina3.
Diete a bassissimo contenuto calorico integrate con
CHO (anche in piccole quantità: 40 g) danno lo stesso risparmio azotato (un apporto di 40 g di CHO riduce in media da 40 a 25 g il fabbisogno proteico giornaliero necessario ad ottenere il pareggio del bilancio azotato), un
miglior controllo della chetosi (nel digiuno assoluto la chetogenesi aumenta in funzione al maggior flusso epatico di
massa priva di grasso; la normalizzazione si ottiene solo
con 120-160 g di glucidi, ma già una quota di 30 g riduce del 50% l’iperchetonemia da digiuno), una minore
produzione di acidi urici (durante il digiuno l’uricemia aumenta di 3-5 mg/dL in relazione all’aumentato catabolismo delle proteine endogene ed alla ridotta clearance tubulare dell’acido urico), un maggior risparmio di AA gluconeogenetici e di sali, soprattutto di potassio25.
Razionale dell’uso di diete iperproteiche
nel trattamento dell’obesità
L’uso delle diete iperproteiche nel trattamento dell’obesità viene giustificato in vario modo nei diversi studi
compiuti e nella letteratura non ufficiale.
Evitare l’aumento di produzione di insulina provocato
dall’assunzione di carboidrati ed in grado di facilitare
il deposito di energia sotto forma di grasso
Protezione della massa muscolare grazie all’apporto
proteico
In realtà gli studi storici di Himsworth26 già più di 50
anni fa (confermati poi in seguito) hanno dimostrato come la tolleranza ai CHO migliori al crescere della quota
di energia assicurata dai CHO stessi. Sono invece le diete ricche in grassi saturi a produrre un aumento dell’insulino-resistenza27,28.
C’è infine da dire che l’insulina ha un’azione anoressizzante a livello centrale attraverso l’inibizione della secrezione del neuropeptide Y nel nucleo paraventricolare
ipotalamico, l’inibizione della secrezione ipotalamica di
galanina e l’incremento di quella dell’ormone corticotropo. L’aumento dell’insulinemia, determinato dall’incremento del tessuto adiposo, si traduce in una maggiore
soppressione dell’assunzione di cibo. L’insulina rappresenterebbe quindi un meccanismo di controllo volto ad
ostacolare un eccessivo aumento ponderale. Peraltro nei
È stato ipotizzato che queste diete consentano un risparmio azotato grazie ad una riduzione dei livelli di insulinemia, ad un aumento della chetonemia, al mantenimento di livelli ormonali tiroidei più elevati ed alla conseguente inibizione della proteolisi muscolare2,21-23. I
chetoni diventano, per inibizione degli enzimi coinvolti nel
loro catabolismo, meno utilizzabili dai tessuti periferici (sostituiti dagli acidi grassi non esterificati) e conseguentemente maggiormente disponibili per il sistema nervoso centrale. In effetti i corpi chetonici diventano la fonte energetica principale del sistema nervoso centrale e rappresentano un segnale metabolico che inibisce l’ossidazione
del glucosio24.
In realtà l’inibizione della proteolisi ed il risparmio
azotato sono più efficacemente ottenuti fornendo un ade-
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soggetti con forte aumento dell’adiposità e con insulinemie molto elevate, essendo il sistema di trasporto dell’insulina attraverso la membrana ematoencefalica saturabile, l’aumento dell’insulinemia non si tradurrebbe completamente in un proporzionale incremento dell’insulina
ipotalamica29.
Maggior potere “saziante”
È forse questa l’unica vera motivazione che può portare a suggerire un maggior apporto proteico in un soggetto in trattamento dietetico per obesità. Gli AA prodotti dalla digestione proteica provocano un rallentamento nello
svuotamento gastrico e sono assorbiti lentamente. La via
principale del loro metabolismo epatico è la gluconeogenesi con produzione non tanto e non solo di glucosio, ma
anche e soprattutto di prodotti intermedi del ciclo degli acidi tricarbossilici. Inoltre le proteine fonte di prodotti glucidici a basso stimolo sulla secrezione di insulina finiscono
per risparmiare il glucosio e per ritardare la comparsa
dell’ipoglicemia stimolo alla sensazione di fame. Tuttavia
i diversi AA hanno capacità diverse di stimolare lo svuotamento gastrico, sono assorbiti con velocità diverse e hanno diverse capacità di stimolo sulla produzione di insulina. Gli studi, fin qui svolti, hanno dato in definitiva risultati
discordanti sul potere “saziante” dei diversi AA (rapporto triptofano/AA neutri e sistema serotoninergico)33.
Inoltre il potere saziante delle diete iperproteiche non è stato confrontato nei diversi studi con quello di altri fattori
(contenuto in fibre, indice glicemico, densità energetica,
palatabilità, ecc.) ed è risultato inversamente proporzionale alla durata della dietoterapia34,35.
Facilitare la produzione di glucagone, ormone che,
a sua volta, facilita la mobilizzazione e l’utilizzo
dei grassi di deposito
L’affermazione che una dieta con una distribuzione tra
nutrienti energetici “sbilanciata” verso le proteine (40%
di proteine e 30% sia di CHO che di grassi come avviene nella “dieta della zona”) possa provocare un cambiamento della sintesi del pancreas endocrino con una maggiore produzione di glucagone è infondata. Le proteine stimolano comunque una risposta insulinica e la stessa “dieta della zona” è comunque una dieta “mista” con apporti, anche se squilibrati, di tutti i nutrienti energetici. D’altro canto, un conto è analizzare gli effetti che un nutriente, preso singolarmente, ha sulla secrezione ormonale ed
un altro è pensare di riprodurre in vivo, tenuto conto della complessità dei sistemi biologici e delle interazioni
che in questo secondo caso si hanno, la stessa situazione
metabolica.
L’azione del glucagone è inoltre facilmente contrastata da quantità relativamente piccole di insulina30. Anche
se la risposta insulinica post-prandiale è ridotta paragonando due diete a diverso apporto di CHO (40 vs 60%) anche nel primo caso questa è sufficiente a neutralizzare l’effetto lipolitico del glucagone.
In definitiva la “dieta della zona” è una dieta non solo
a basso apporto di CHO, ma soprattutto una dieta ipocalorica. Gli effetti riscontrati sulla massa grassa, sono da attribuire semplicemente allo scarso apporto energetico che
provoca, tra l’altro, anche una perdita di massa magra conseguente alla gluconeogenesi che si attiva malgrado l’elevato apporto proteico31,32.
Influenza sulla termogenesi indotta dalla dieta
Un altro elemento che potrebbe giustificare l’utilizzo di
diete iperproteiche è l’azione che le proteine hanno sul dispendio energetico ed in particolare sulla termogenesi indotta dalla dieta. L’incremento di quest’ultima sembra essere dovuto al maggior stimolo alla sintesi proteica che si
ha dopo un pasto iperproteico con incremento anche di gluconeogenesi e produzione di urea. Purtroppo il peso della termogenesi indotta dalla dieta sul dispendio energetico totale è di circa il 10-15% e l’incremento che si può avere raddoppiando la quota proteica oscilla da 20 a 60
kcal/die a seconda degli studi e per un fabbisogno energetico giornaliero di 2000 kcal34,35.
Sfruttare l’anoressia come conseguenza della tendenza
alla chetogenesi o ridurre il senso della fame
in funzione della diversa combinazione di nutrienti
Conseguenze sullo stato di salute
di diete iperproteiche
A fronte di qualche supposto beneficio nel trattamento
dell’obesità, le diete iperproteiche suscitano qualche perplessità circa i rischi che rappresentano per lo stato di salute.
In realtà l’anoressia da chetogenesi non è stata mai
chiaramente dimostrata2 e, d’altro canto, le proteine hanno anch’esse un’azione antichetogenetica seppur in minor
misura rispetto ai CHO. Infine la chetosi non è un marker
specifico del digiuno né una conseguenza necessaria della lipolisi. Deve essere più correttamente considerato una
manifestazione di ridotta produzione di insulina conseguente ad un basso apporto di CHO22.
Proteine alimentari e metabolismo osseo
Gli studi a breve-medio termine (peraltro non sempre
confermati dagli studi epidemiologici a lungo termine) han-
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no dimostrato come un incremento nell’apporto proteico
comporti un bilancio calcico negativo legato all’aumentata escrezione urinaria del minerale ed alla tendenza al
riassorbimento osseo. Ciò sembra essere dovuto alla blanda acidosi metabolica legata all’aumentata assunzione di
AA solforati presenti in particolare negli alimenti di origine animale34,36,37.
duraturo nel tempo e quindi supportata da un cambiamento nello “stile di vita”. La perdita di peso è quindi un
mezzo per ottenere la riduzione del rischio, non il fine della terapia e qualsiasi tipo di trattamento in grado di ottenere una perdita di peso non è per questo da considerarsi
valido nel trattamento dell’obesità. In ogni caso si dovrà
quindi cercare di porre i presupposti culturali (educazione alimentare, conoscenza dei rischi, ecc.) e comportamentali (“ricondizionamento” verso una maggiore attività fisica, disinnesco dell’alimentazione quale valvola di
sfogo di tensioni, malumori, ecc.) perché avvenga quel cambiamento di stile di vita indispensabile affinché la riduzione
del peso e quindi del rischio siano duraturi. In tale ottica
va riconsiderato qualsiasi tentativo di trattamento del paziente obeso che non rientra in questo schema, perché altrimenti le probabilità di fallimento sono elevatissime.
Proteine alimentari e malattie renali
Nei soggetti con insufficienza renale si è visto come la
riduzione dell’apporto proteico rallenti l’evoluzione della malattia attraverso una ridotta iperfiltrazione renale. Nel
soggetto sano i dati della letteratura, pur registrando in questi soggetti un aumento della filtrazione glomerulare in funzione dell’apporto proteico, non concordano nell’attribuire alla dieta iperproteica un effetto deleterio sulla funzionalità renale per lo meno finché l’apporto proteico si
mantiene < 100-110 g/die34,38,39. Alcuni studi epidemiologici hanno inoltre evidenziato una significativa correlazione tra nefrolitiasi (calcica, uratica) e assunzione di proteine. Questi dati, al di là della necessità di ulteriori studi, suggeriscono cautela nel proporre diete iperproteiche
anche in soggetti con funzionalità renale conservata.
Riassunto
Le diete iperproteiche sono uno degli approcci più frequenti nel trattamento dell’obesità. Gli autori analizzano
le problematiche relative all’apporto proteico alimentare,
al fabbisogno proteico nel soggetto obeso, all’uso di diete iperproteiche ed al razionale di un apporto proteico
aumentato nel trattamento dell’obesità. Cautela nell’uso
di queste diete è suggerita dal rilievo degli scarsi effetti su
perdita di peso e massa grassa, su sazietà e introito energetico. Sono inoltre possibili rischi per la salute correlati ad un eccessivo apporto proteico. Inoltre queste diete non
consentono al soggetto di acquisire quelle regole di comportamento alimentare corretto che sono l’unica via per stabilizzare i risultati ottenuti con un regime ipocalorico e per
ottenere, in tal modo, effetti significativi in termini di riduzione del rischio cardiovascolare e metabolico correlato
all’obesità.
Conclusioni
A nostro avviso l’uso di diete iperproteiche nel trattamento dell’obesità:
- è un sostanziale fallimento: la perdita di peso e massa magra è sovrapponibile a quella ottenuta con diete ipocaloriche bilanciate;
- è spesso legato più alle dinamiche della “diet industry”
che ad un reale provato beneficio. Non a caso nel 1978 fu
pubblicato su una rivista medica “indexata” della Florida
un articolo dal titolo Protein power or “Doctor, you don’t
mind if I try a new diet a little while, do you?”40;
- può rappresentare un rischio per il paziente;
- non insegna nulla o per lo meno non insegna le regole
di una corretta alimentazione.
Ed è proprio quest’ultimo punto, a nostro avviso, l’elemento dirimente. Al di là dei risultati che ogni singolo metodo (dietetico, chirurgico, farmacologico, ecc.) può ottenere, nel momento in cui si cerca di trattare un paziente obeso bisogna aver ben presente qual è il fine ultimo del trattamento. Il soggetto obeso presenta un rischio cardiovascolare, dismetabolico, osteoarticolare, neoplastico, ecc.,
decisamente più elevato di un soggetto normopeso. Scopo
del trattamento del paziente obeso è quindi quello di ridurre
questo rischio, non quello di ottenere una perdita di peso.
E questo rischio può essere ridotto solo se si ottiene una diminuzione del peso, ed in particolare della massa grassa,
Parole chiave: Dieta iperproteica; Obesità.
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Manoscritto ricevuto il 10.2.2003, accettato il 7.11.2003.
Per la corrispondenza:
Prof. Lorenzo M. Donini, Istituto di Scienza dell’Alimentazione, Università degli Studi “La Sapienza”, Piazzale Aldo Moro 5, 00185 Roma.
E-mail: [email protected]
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