L`oscena inutilità della guerra
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L`oscena inutilità della guerra
LETTERA119 dicembre 2006 Diario 1. L’oscena inutilità della guerra 16 dicembre. Ho scoperto, per caso, che esattamente novant’anni fa terminava una delle più atroci battaglie della storia. I tedeschi si ritirarono dalla piana di Verdun, nella Lorena . nove giorni prima del Natale 1916. Quando se ne andarono, dopo nove mesi di feroci combattimenti, la pianura e le basse colline di quella zona (250 chilometri dalla capitale francese; “la porta di Parigi”, secondo gli strateghi) erano un’ enorme tomba di fango in cui giacevano, massacrati, due interi eserciti. Dal febbraio di quell’anno i cannoni tedeschi e quelli francesi avevano tempestato di colpi, giorno e notte, ininterrottamente, le trincee nemiche. Gli storici annotano: 2 mila cannoni, 21 milioni di proiettili sparati. Dove oggi vivono 30 mila persone si accalcarono, in quei tempi di dannazione, per morirvi o per sopravvivere, marchiati per sempre dall’orrore, più di un milione di soldati. Fu tra le battaglie più gigantesche della storia: i caduti francesi furono 163 mila, 216 mila i feriti e i mutilati; i tedeschi, rispettivamente 143 mila e 196 mila. Decine di migliaia di feriti non sopravvissero. Sulle rovine di cinque villaggi, completamente cancellati dalle bombe, ogni giorno migliaia di soldati uscivano dalle trincee in cui avevano dormito all’addiaccio sotto una pioggia insistente per andare all’assalto con le baionette inastate. Sventrare almeno un nemico era l’ordine che ricevevano ogni volta dagli ufficiali. Migliaia di soldati morivano ogni giorno per l’effimera conquista di un rialzo di terreno che meritava appena il nome di collina. La civiltà, la vita “normale”, la possibilità di sorridere, di innamorarsi, di contemplare il cielo, di dormire in un letto, persino di morire in un letto, sembravano cose lontanissime. Più tardi i veterani di Verdun sarebbero stati guardati con orrore dagli altri soldati: si erano “abituati a camminare senza neppure accorgersene sui cadaveri dei commilitoni”; e avevano ascoltato il suono dei denti di enormi topi che li divoravano. La battaglia di Verdun fu ritenuta così importante dai capi politici e militari francesi che la strada sulla quale venivano inviati rinforzi e munizioni ai combattenti fu chiamata “Via Sacra”; ma i soldati conoscevano la verità, cantavano una terribile canzone che diceva: “Et tout ça pour rien, et tout ça por rien”, tutto questo per niente. 1 Migliaia di militari dell’una e dell’altra parte furono fucilati per ordine dei generali: l’accusa era di diserzione o di codardia. In realtà erano uomini che rifiutavano di essere tramutati in macellai di uomini o in carne da macello. Benedetto XV parlò allora di “inutile strage”. Qualche tempo fa papa Ratzinger ha definito Verdun “momento oscuro della storia del Continente”, il quale “deve restare nella memoria dei popoli come un evento da non dimenticare mai e da non rivivere mai”. Verdun denunzia la oscena idiozia delle guerre, la loro inutilità. Il primo conflitto mondiale provocò in Europa mutamenti di confini che avrebbero potuto essere ottenuti per via diplomatica. “Bruciò” due generazioni umane di europei (le vittime italiane furono 600 mila) con il risultato di seminare povertà e disperazione, le quali nutrirono la diffusione del fascismo e del nazismo. I generali che avevano comandato le truppe di Verdun rivelarono negli anni successivi di essersi abituati a considerare le persone poco più che insetti: il maresciallo Hindenburg spianò a Hitler la via del potere, il maresciallo Petain collaborò con Hitler nella deportazione degli ebrei. Nel resto del mondo non vi furono mutamenti se non nominali: i possedimenti coloniali tedeschi passarono alla Francia e alla Gran Bretagna e i loro popoli continuarono a essere crudelmente sfruttati. Le grandi industrie europee e americane (la Krupp, la General Motors, la Fiat, la Renault) furono le uniche a trarre enormi benefici dalla prima guerra mondiale. E venticinque anni dopo scoppiò la seconda, quasi che la prima non ci fosse mai stata. 2. I PACS, un attacco alla famiglia? 20 dicembre Non riesco a comprendere l’accanimento con il quale il papa e il Vaticano si battono contro i PACS. Dare ordine, rilevanza sociale a situazioni socialmente “disarticolate” non mi pare iniziativa da proscrivere; ma poi perché ostinarsi a vedere nei “patti” soltanto un problema di coppie omosessuali e non, assai più ampiamente, di legami che rispondono alla logica dell’amore e della solidarietà? Nel momento della sua agonia, “Gesù, vedendo la madre e lì, accanto a lei, il discepolo che egli amava, disse alla madre: “Donna, ecco tuo figlio!”. Poi disse al discepolo:”Ecco tua madre!”. E da quel momento il discepolo la prese nella sua casa”.... 3. La Lettera di San Giacomo e il cardinale Ruini 21 dicembre Mina Welby non è una donna qualunque, basta guardarla in faccia: gli occhi stanchi di chi ha avuto sonni continuamente interrotti, il volto con le rughe di chi troppe volte ha dovuto fingere un sorriso o nascondere un pianto.. Ha mantenuto in vita il suo uomo per una catena 2 di giorni che sembrava infinita, come solo certe donne eroiche sanno fare quando il marito diventa un lungo degente e loro sono costrette a trasformare l’amore che gli portano, a diventare madri di un bambino senza bellezza. Sul corpo che un tempo si strinse gioiosamente al loro devono cercare ogni giorno, per tamponare, se è possibile, il progredire di un disfacimento senza recupero: le terribili piaghe da decubito, la perdita di funzionalità degli arti e degli sfinteri, la voce che diventa un bisbiglio, lo sguardo, talvolta, della bestia braccata, la speranza ormai evasa da ogni realtà. Così ha vissuto per anni e anni Mina Welby e se ci fosse una medaglia all’amore coniugale, dovrebbe esserne insignita. Quella medaglia dovrebbe dargliela, penso, il Movimento per la vita, perché Mina Welby ha mantenuto vivo e vigile (come suol dirsi) un uomo di cui si è innamorata e che ha sposato quando già le condizioni di lui erano segnate, segnato il suo destino. Lo ha conosciuto, ha raccontato, a una “gita parrocchiale”. Questo particolare mi commuove: tra i frutti più belli del Concilio c’è la nuova consapevolezza delle comunità cristiane a proposito dell’eminente dignità del malato; ogni volta che ad una festa o a un’altra lieta occasione vedo un gruppo di persone raccogliersi sorridendo intorno a una carrozzina, ripenso a un testo altissimo del Vaticano Secondo: “La Chiesa riconosce nei poveri e nei sofferenti l’immagine del suo Salvatore”. Per anni e anni Mina Welby ha dato al suo uomo non soltanto vita ma dignità di vita. Mi ha intenerito più volte vedere nelle fotografie come fosse propre questo malato: pulito e stirato il maglioncino, sbarbato il volto, pettinato il capo. Ma una donna non può ottenere l’impossibile neppure a costo di soccombere alla fatica. La vita di Piero è diventata una agonia sempre più atroce: speranze, nessuna; previsioni, terribili: fra qualche mese o settimana, non avrebbe più potuto deglutire, avrebbero dovuto operarlo nuovamente, introdurgli nell’in-testino una sonda per nutrirlo e idratarlo. Allora il corpo di Welby sarebbe stato definitivamente una crisalide di morte, una persona impedita di essere tale per la completa separatezza dalle funzioni umane. Infine - prima o poi... – sarebbe sopravvenuta la morte, per soffocazione. Piero Welby, che aveva retto tante sofferenze, di questa modalità di morte aveva il terrore. Mia moglie ed io abbiamo testimoniato, anni fa, in una causa di beatificazione, sulle virtù eroiche di Luigi Rocchi, un popolano di Tolentino. Malato della stessa malattia di Welby, Luigi aveva fatto del suo letto una cattedra di coraggio e di fede. Ma la morte era arrivata a quarant’anni e senza la costrizione meccanica imposta al marito di Mina dalla paradossale crudeltà del progresso tecnologico. E non tutti possono essere santi od eroi. “Luigino” Rocchi era noto a molti e da molti fu pianto e viene ricordato. Ma ebbe la fortuna di non diventare, come Piergiorgio Welby, un “caso”, un nodo di paure ancestrali e di speculazioni 3 politiche, di commi e di moralismi, di giuste preoccupazioni e di filosofemi. Nessuno si arrogò il diritto di condannarlo a morte o a una non-vita. La madre eroica che egli ebbe accanto non dovette ascoltare discussioni su un caso piuttosto che su un uomo. Intorno a Piergiorgio, invece, si è eretto un circo mediatico in cui le conferenze stampa hanno prevalso su un rispettoso silenzio e una silenziosa solidarietà. Quelle intorno al caso Welby non sono state tutte parole inutili ma non credo siano servite molto a Mina. Sappiamo che Mina voleva, disperatamente voleva, che Piero non la lasciasse; ma anche che non si sentiva di imporgli, costringendolo a “vivere”, di andare verso l’orribile morte temuta. 22 dicembre Neppure alla fine, lei restò con quel caro corpo, contorto dalla malattia, ma ormai in pace. Lo Stato glielo sottrasse per indagare su un possibile crimine. Intanto il dibattito continuava. Ma non per il Vicariato di Roma. Il cardinale Ruini, lui aveva soltanto certezze: il peccato per lui dominava la tragedia. E quando Mina desiderò che la Chiesa, la “sua” Chiesa, perchè Mina è cattolica, si prendesse cura del suo dolore nella celebrazione di un funerale relgioso, il porporato ha risposto che no, non si poteva, lo vietava il codice di diritto canonico. Lo ha spiegato ai telegiornali, con serena fermezza, il vescovo monsignor Fisichella: é vero che, a differenza di quanto avveniva un tempo, la Chiesa concede oggi ai suicidi funerali religiosi perchè può darsi che la loro scelta sia il risultato di un improvviso squilibrio psichico; ma Piergiorgio Welby era perfettamente consapevole di ciò che chiedeva. Perfettamente lucido e libero nelle sue decisioni dopo un martirio di tanti anni, una tortura quotidiana e prospettive ancora più atroci? Mina Welby, il suo dolore, il suo eroismo – ha detto la Curia - possono attendere. Forse più avanti, in forma riservata... I commi dei giuristi prevalgono sull’insegnamento del Cristo? Dice la Lettera di San Giacomo: “religione pura e senza macchia davanti a Dio nostro padre è soccorrere gli orfani e le vedove nel momento delle loro afflizioni...”. Parola di Dio, ma non a Roma. 4. Eppure 24 dicembre Eppure, al di là dei nostri tradimenti, delle leggi senza misericordia, delle nostre paure, il Natale, questo bambino che ci è donato e che dobbiamo crescere raccogliendo speranze, smuove con piccole mani le nebbie dei nostri cuori, li addolcisce. Forse ci salva. Ettore Masina 4 5