Pagine della Dante - Università degli Studi di Milano

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Pagine della Dante - Università degli Studi di Milano
madrelingua
In collaborazione con ISTAT
NUMERO 3 – ANNO III
Aracne editrice
Supplemento di “PAGINE DELLA DANTE” Autorizzazione del Tribunale di Roma n. 18113 del 9.VI.1980
LUGLIO - SETTEMBRE 2013
IMMAGINARE IL DOMANI TRA SCIENZA, RELIGIONE E CULTURA
LA NOSTRA LINGUA SCOMPARIRÀ? PROFEZIE SUL FUTURO DELL’ITALIANO
Nate Silver, lo statistico americano che, nel 2008, ha predetto la vittoria di Obama nelle elezioni presidenziali, ci introduce ai segreti del suo metodo
Una coscienza
collettiva per le sorti
dell’italiano
BRUNO BOTTAI
U
n recente studio promosso dall’Ocse, con riferimento al 2011 e al 2012, ha registrato un dato
preoccupante per il nostro paese: gli italiani adulti si
classificano all’ultimo posto per competenze linguistiche e al penultimo per quelle matematiche. Una fotografia impietosa, che ci inchioda alle nostre responsabilità di formatori ed educatori e ci fa anche riflettere
sul destino che potrebbe attendere la nostra lingua nei
prossimi decenni, se non ci impegniamo a intervenire
nei diversi settori per rinsanguarla e potenziarla.
Secondo alcuni studiosi ci attende anzi un futuro fosco:
da qui a venti o trent’anni potremmo assistere a un significativo impoverimento del suo patrimonio lessicale
e a una sensibile riduzione dei suoi diversi usi. Uno
scenario che sembrerebbe trovare conferma negli studi
che esaminano la diffusione delle varie lingue nazionali su Internet: nonostante il significativo incremento
della presenza di pagine in italiano negli ultimi anni,
le tecnologie di supporto alla nostra lingua sono ancora
insufficienti rispetto alle sue reali esigenze.
Per tutelare l’italiano l’impegno istituzionale, che
pure è necessario, da solo non è sufficiente. È necessario accompagnargli la consapevolezza diffusa
dell’importanza di averne cura giorno per giorno,
perché una lingua è come un monumento: non
bastano i restauri e le misure di mantenimento, è
necessario rinnovarne costantemente la ragion d’essere che l’ha conservata fino a noi. Se, fra qualche
decennio, la lingua di Dante dovesse essere costretta in un angolo, avremmo perso la partita perché ci
saremo rifiutati di giocarla.
Lingue che muoiono,
paure che montano
Intervista a cura di Valeria Noli
Come è cambiata l’esigenza di previsioni affidabili in conseguenza della via via maggiore complessità della società contemporanea?
La complessità della società rappresenta una sfida per la tecnologia (un esempio
efficace è rappresentato dalla costruzione, in Europa, di un sistema economico integrato senza precedenti nella storia). Le previsioni devono tener conto dell’aumento
della quantità di informazioni disponibili, che rimbalzano e si moltiplicano, eludendo
i canali tradizionali (come il giornalismo cartaceo), per diffondersi tramite Google,
YouTube o Facebook. Ciò impone due riflessioni: come interpretare correttamente la
mole di dati di cui disponiamo e come comunicare le relative informazioni. Crede sia possibile parlare di un cloud forecasting (l’elaborazione collettiva di previsioni), sulla scorta del cloud computing?
Non si può attribuire efficacia a un “pensiero di gruppo” (group think) elaborato sulla
base delle preferenze e delle opinioni espresse tramite i social network. Bisognerebbe
indagare invece in che modo le diverse persone recepiscono ed elaborano le informazioni che raccolgono e se cercano di informarsi correttamente anziché, come spesso
accade, affidarsi al punto di vista dominante. Per fare previsioni attendibili non basta
comprendere il significato delle informazioni; sono altresì necessarie la capacità di gestire ed elaborare i dati e una considerevole propensione al problem solving.
Che relazione sussiste tra la verità in statistica e la verità in comunicazione?
Il rumore, nel mondo dell’informazione, è la compresenza di troppi segnali. Spesso la scelta di quale segnale ritenere attendibile è condizionata da fattori emotivi e
per niente razionali. Si pensi alla recente campagna elettorale americana, in cui il
partito repubblicano era convinto della vittoria del proprio candidato, Mitt Romney,
nonostante ci fossero prove oggettive contrarie; si è trattato di una forma di autoconvincimento sulla base di informazioni, rivelatesi errate, diffuse dai media. Per
elaborare una previsione bisogna mantenere la calma, puntare sulla ragionevolezza e
sull’accuratezza e partire dal presupposto che il proprio punto di vista non è mai del
tutto obiettivo, ma è invece spesso viziato da preferenze e pregiudizi. La crisi economica, le rivoluzioni nordafricane, gli attacchi terroristici… Come mai
nessuno di questi eventi, di rilevanza globale, è stato previsto?
Le rivoluzioni e i fenomeni politici di massa sono sempre molto difficili da prevedere.
Entrano qui in gioco fattori universali come la religione, i cui effetti non sono facili
da pronosticare. Lo stesso vale per il mondo dell’economia: dieci anni fa, in Italia,
nessuno avrebbe previsto la rapida fine della crescita economica. In questo, come in
altri casi, si potevano certamente elaborare previsioni per i singoli settori attraverso i
quali leggiamo la realtà, ma le loro interconnessioni non sono state ricondotte a uno
scenario che comprendesse le dinamiche presenti nelle differenti nazioni.
Una definizione metodologica dei concetti di accuratezza e precisione?
L’accuratezza, in statistica, è la corrispondenza alla realtà, attraverso informazioni
correttamente elaborate e divulgate: si può dire che un evento accadrà, o arrischiarne
una probabile previsione. La precisione consiste invece nell’esattezza di una previsione: con un po’ di fortuna, sapendo cogliere le interconnessioni tra dati ben selezionati, si riesce a fare previsioni esatte. L’evoluzione tecnologica e la quantità di dati a
disposizione hanno persuaso le persone che sia facile elaborare previsioni precise,
ma spesso queste falliscono proprio perché non sono accurate. Ci sono comunque
eventi imprevedibili. Diffiderei da chi si propone come esperto infallibile; spesso,
dietro un approccio del genere, si nascondono menzogne strumentali.
Tutto evolve in modo sempre più rapido, e i dati aumentano esponenzialmente. Come
fare per gestire tutto questo, e qual è l’utilità della statistica al riguardo?
La statistica, come parte integrante del mondo scientifico, è uno strumento utile per
la comprensione del comportamento umano, la sperimentazione di idee e il miglioramento tecnologico: l’aumento delle informazioni è in grado di migliorare la vita delle
persone soltanto attraverso tecniche di previsione perfezionate. Mentre secoli fa era
sufficiente possedere una piccola collezione di libri per potersi considerare un privilegiato del mondo della conoscenza e un “superinformato”, oggi nessuno è in grado
di gestire il milione di dati quotidianamente emesso dal sistema globale dell’informazione se non attraverso tecnologie da aggiornare e perfezionare costantemente.
Nel 2009 il settimanale Time l’ha inclusa fra le cento persone più influenti del mondo,
per la sua capacità di orientare la pubblica opinione e i suoi comportamenti. Come vive
una simile responsabilità?
Quella che sento è la responsabilità di essere il più possibile onesto e accurato,
anche scegliendo il modo migliore per fornire previsioni. Non si arrecano danni
se l’informazione è onesta. Bisogna però rimanere umili ed essere anche un po’
scettici, evitando di formulare previsioni sensazionalistiche sui massimi sistemi
dell’economia e della politica.
Distribuzione percentuale delle 7.105 lingue del mondo per numero delle stesse e numero di parlanti in base alla scala EGIDS (Lewis e Simons, 2010)
MASSIMO ARCANGELI
Una lingua scompare quando non c’è più nessuno che la
parli. Il gotico si è eclissato nell’Alto Medioevo, lasciando qualche traccia di sé fino al IX secolo. Il veglioto, la
varietà dalmatica un tempo in uso nell’isola croata di
Veglia, si è estinto con la morte del suo ultimo parlante,
spentosi nel 1898: Antonio Udina. Il latino sopravvive
oggi perlopiù come lingua religiosa o di studio e, come
neolatino, in certi goliardici esperimenti di “modernizzazione” dell’antica lingua di Roma: i turisti possono
diventarvi viatores voluptuarii; un’autostrada può trasformarsi in una via autocinetica; un calciatore e un kamikaze possono rispettivamente “regredire” allo stadio di un
pilae coriaceae lusor e di un voluntarius sui interemptor.
Di lingue, lungo i secoli, ne sono morte moltissime, e
altre continuano a morire ancora oggi. Perché allora
il grido disperato d’allarme per le lingue a rischio di
estinzione? Non sarebbe una questione di qualità (non
ci sono lingue di serie A e lingue di serie B: hanno
tutte pari dignità), bensì di quantità: troppe le lingue
defunte negli ultimi anni, e quelle destinate a condividerne la sorte nell’immediato o non lontano futuro.
Bisognerebbe dunque fare qualcosa, se ci si riconosce
in quest’orientamento di pensiero, per salvarne il maggior numero possibile.
Una diagnosi che si riconverte così in prognosi, un’analisi che si rivela una previsione: fra cinquecento anni
e anche meno, sostengono alcuni studiosi, potremmo
ritrovarci tutti a parlare solo inglese. E il pronostico
scientifico, in qualche caso, diventa profezia. Ciò avviene quando l’anticipazione del futuro, anziché applicarsi
alla riflessione linguistica, penetra in campo religioso.
Un modo per esorcizzare la paura di quel che ci aspetta.
Con i fantasmi che non appaiono però all’uomo (e alla
donna) di fede, ma all’uomo (e alla donna) di parola.
c
ladante.it/madrelingua
sdaMadrelingua
@la_dante
Come salvare le lingue
a rischio. La ricetta
di David Crystal
Intervista a cura di Andrea Ciarlariello
David Crystal, autore di Language Death (Cambridge,
CUP, 2002), è uno dei linguisti più attivi per la salvaguardia delle lingue a rischio.
Quali sono i campanelli d’allarme che indicano che una
lingua rischia di estinguersi?
Il segnale principale è una riduzione della sua funzione:
la lingua smette di essere usata nei contesti in cui prima
era preminente ed è sostituita da qualche altra lingua;
un esempio può essere il caso di un corso universitario,
abitualmente impartito nella lingua madre, che venga
sostituito con uno tenuto in una lingua internazionale. Per gestire la situazione è necessaria una politica
linguistica forte e generalizzata; bisogna trovare un
punto di equilibrio tra le esigenze dell’identità locale
(che privilegia la lingua madre) e quelle di intelligibilità internazionale (per le quali è preferibile una lingua
franca). Se si permette a queste due forze di scontrarsi
il disastro è assicurato, perché sarà sempre la lingua internazionale ad avere la meglio. Identità e intelligibilità
devono invece essere esigenze complementari tra loro,
devono entrambe godere della giusta attenzione.
Diversi studi in Italia hanno mostrato una progressiva
tendenza all’impoverimento lessicale della nostra lingua.
Alcune voci accademiche ne hanno previsto il dimezzamento del vocabolario entro i prossimi 40 anni. Potrebbe
essere questo il primo passo verso la morte di una lingua?
Non necessariamente: questo fenomeno muta semplicemente il carattere di una lingua. Ai puristi questa prospettiva non piace, ma dovrebbero sentirsi rassicurati
da ciò che è accaduto all’inglese, che ha preso in prestito parole da oltre 600 altre lingue. Solo il 20% circa
del vocabolario inglese è di origine germanica, la parte
restante proviene dal latino, dal greco, dall’italiano,
dallo spagnolo, dal francese e così via. Questo non ha
ucciso l’inglese ma, al contrario, gli ha conferito un’espressività maggiore. Shakespeare non avrebbe scritto
nel modo in cui lo ha fatto senza un vocabolario che
gli permettesse variazioni stilistiche con l’uso di parole
francesi o latine.
Secondo alcune ricerche la metà delle più di 6.000 lingue parlate oggi nel mondo è destinata a scomparire.
Quali sono le implicazioni culturali di questo fenomeno?
** Non visibili nel grafico “Per numero di lingue” poiché inferiori all’1%. * Non visibili nel grafico “Per numero di parlanti” poiché inferiori all’1%.
Fonte: www.ethnologue.com
Grandi iniziative crescono: Adotta una parola è diventata social
Lucilla Pizzoli
A due anni dal lancio del progetto Adotta una parola, la Dante Alighieri propone una
nuova versione del gioco che ha permesso a oltre 30.000 utenti di adottare la parola
preferita. Nella sua prima forma il progetto era stato pensato per sensibilizzare il
pubblico a un uso corretto e consapevole del lessico, favorirne una conoscenza più
ampia, monitorare l’uso di alcuni termini e, più in generale, promuovere la varietà
dell’espressione nel mondo della comunicazione globale.
Nel sito di Adotta una parola, realizzato in collaborazione con quattro fra i principali
dizionari dell’italiano contemporaneo (Devoto-Oli, Garzanti, Sabatini-Coletti e
Zanichelli) e con il sostegno di Io Donna – Corriere della Sera, erano state raccolte le
parole italiane meno comuni (era stato escluso, infatti, tutto il lessico di base): gli utenti
potevano iscriversi e proporsi come custodi di una parola (o sostenitori, se la parola
era stata già assegnata a un custode), ottenendo un certificato di adozione. Il bilancio
dell’iniziativa è stato molto positivo: il grande entusiasmo incontrato tra i partecipanti,
l’impegno mostrato da molti nel farsi paladini – sia pure simbolicamente – di una
parola, le tante motivazioni che gli utenti hanno indicato per l’adozione dimostrano
quanto sia forte l’affezione alla lingua italiana. Molto ampio il pubblico degli aderenti,
distribuito in tanti paesi e di età diverse; e, attraverso Io Donna, diversi personaggi della
cultura e dello spettacolo si sono fatti testimoni della campagna a favore delle parole,
dando ulteriore slancio al progetto.
È per tutte queste ragioni che la Dante Alighieri ha deciso di proporre uno
sviluppo della stessa iniziativa, pensato in una forma ancora più compatibile con
le grandi potenzialità offerte dal Web: la nuova versione di Adotta una parola è
stata progettata come un social della lingua italiana, al quale aderire per creare
gruppi di persone raccolte sotto l’insegna di una parola simbolo: creato un profilo,
si potranno invitare i propri amici per discutere, proporre idee, postare commenti,
immagini, video. Tutto questo nella convinzione che la Rete e i social network siano
una risorsa di grandissimo interesse per coinvolgere e interessare tante persone
diverse, tenute insieme dalla passione per l’immensa ricchezza della nostra lingua.
Maria Catricalà: «Rischiano le comunità linguistiche, non le lingue»
Intervista a cura di Gaetano Bondi
Maria Catricalà insegna Linguistica generale all’Università Roma Tre.
Quali elementi ci inducono a dichiarare per una lingua lo stato di allarme?
I parametri da prendere in esame per valutare i rischi dell’eventuale estinzione di un sistema
verbale sono molti e differenti tra loro. Il livello dello stato di allarme va calcolato in base a una
serie di fattori sia quantitativi, sia qualitativi. Ne è una riprova che nell’Atlante delle lingue in
pericolo si possono avere differenti gradi di rischio: si va dalle lingue estinte a quelle che sono
riconosciute come “sicuramente, seriamente o gravemente in via di estinzione”. Altri parlano di
lingue “quasi o potenzialmente estinte”, ma in questo florilegio di forme avverbiali la sostanza
non cambia. Una valutazione corretta deve partire da dati quantitativi molto importanti, come
quelli riguardanti il totale dei parlanti e degli apprendenti lingue seconde (L2) entro e fuori i
confini, ma per arrivare ad analisi molto più fini e articolate. Su cosa? Per esempio, secondo
David Crystal, sull’età media dei parlanti e degli scriventi: le minacce sono inversamente proporzionali a questo parametro, perché se una comunità di parlanti include una percentuale
molto elevata di persone in età avanzata la sua aspettativa di vita sarà sicuramente inferiore
a quella di un gruppo che ha un numero rilevante di bambini e di parlanti molto giovani. La
questione riguarda anche l’attitudine che questo secondo tipo di comunità ha, seppur eventualmente svantaggiata dal punto di vista economico o sociale, di fronteggiare la pressione di
un’altra lingua. Infatti più è diversificata l’età dei parlanti, maggiore è la varietà dei domini d’uso e, dunque, la portata dell’adattamento funzionale e della creatività di una lingua. Gli aspetti
puramente quantitativi si traducono già in questa prospettiva in termini qualitativi, di fattori “di
prestigio” che vanno a incidere in modo rilevante sulle classificazioni di rischio.
Sapere quanti sono i parlanti di una lingua è un dato necessario, ma non sufficiente: bisogna
altresì fare attenzione a chi sono, e dove, quando, perché e in quali ambiti impieghino il loro
codice. Anche le sedi di eccellenza di alcuni settori produttivi e culturali sono determinanti
segue a pagina 2
Le conseguenze sono profonde. Il mondo è un mosaico
di tante visioni diverse, ognuna espressa attraverso una
lingua specifica e ciascuna in grado di fornire un’interpretazione diversa di ciò che vuol dire essere uomini e
donne. Ogni volta che una lingua muore, perciò, c’è una
perdita culturale; e, se la lingua non è mai stata scritta, non potremo mai sapere ciò che abbiamo perduto. È
questa la ragione per cui è importante finanziare i progetti che stanno tentando disperatamente di registrare
le lingue a rischio di estinzione prima della loro scomparsa, e di supportare le comunità nella preservazione
del loro patrimonio documentale.
Esiste una strada per salvare le lingue a rischio, per
esempio promuovendo un bilinguismo equilibrato?
Le lingue a rischio possono essere salvate purché sussistano tre condizioni. La prima è l’interesse della comunità linguistica: questa deve volere che la propria
lingua sopravviva. La seconda è l’interesse dall’alto, da
parte di una comunità più ampia: essenzialmente delle organizzazioni internazionali come l’ONU. La terza
condizione riguarda i finanziamenti, dal momento che
promuovere una politica di bilinguismo costa molto.
Nonostante le difficoltà sono però diversi i casi di successo in presenza di questi tre fattori. Si pensi al Galles:
negli ultimi 50 anni abbiamo assistito alla “resurrezione” del gallese.
A proposito degli strumenti per la preservazione della diversità linguistica, lei ha sostenuto che l’arte è la “più
grande risorsa che si potrebbe sfruttare”. Ci potrebbe
spiegare quale ruolo immagina per gli artisti?
Le persone come me possono fare la loro parte scrivendo
e tenendo conferenze sulla materia, ma pochi di noi guadagnano le prime pagine dei giornali; al contrario degli
artisti, nel senso più ampio della parola: dalle pop star ai
ballerini. È necessario che anche costoro si spendano per
promuovere la difesa della diversità linguistica, e invece
dimostrano scarsa attenzione a questo tema: dove sono le
sinfonie, i balletti, i dipinti, le sculture, le canzoni pop o i
componimenti jazz dedicati alla diversità linguistica? Se
gli artisti spendessero la loro creatività per la causa della
morte delle lingue avremmo un incremento notevole del-
segue a pagina 2
Quando una profezia fallisce
Massimo Polidoro
Massimo Polidoro, scrittore e giornalista, è tra i fondatori del CICAP (Comitato Italiano per il Controllo delle Affermazioni sulle Pseudoscienze).
Nel 2013 ha pubblicato Enigmi e misteri della storia (Milano, Edizioni
Piemme).
Perché i continui fallimenti di veggenti e profeti che prevedono la fine del mondo non aprono gli occhi a chi crede nelle tante sette e congreghe apocalittiche?
La psicologia sociale ha scoperto che i fallimenti non solo non scoraggiano
gli adepti ma, addirittura, possono rafforzarli nelle loro convinzioni. Esistono
molti studi volti a capire che cosa succede a un gruppo millenaristico quando
scopre che la fine che aspettava non ci sarà. La prima e più celebre indagine
fu condotta nel 1954 dallo psicologo Leon Festinger insieme ai colleghi Henry
Riecken e Stanley Schachter, che si infiltrarono in una setta millenaristica; grazie al loro lavoro (Quando la profezia non si avvera, Bologna, il Mulino, 2012)
ci è oggi possibile capire cosa succede in un gruppo come questo prima e dopo
la data prevista per la fine del mondo.
La setta, localizzata a Chicago, aveva circa una trentina di adepti ed era guidata da una coppia, a cui i ricercatori diedero i nomi fittizi di Thomas Armstrong
e Marian Keech. Quest’ultima, una casalinga e la vera leader del movimento,
sosteneva di essere in contatto con i “Guardiani”, entità spirituali extraterrestri,
provenienti dal pianeta Clarion, che comunicavano con lei attraverso la “scrittura
automatica”. Un giorno i Guardiani cominciarono a predire una grande catastrofe,
un diluvio che avrebbe sommerso il mondo intero. Gli adepti, allarmati, furono
rassicurati quando fu spiegato loro che chi credeva nelle “lezioni” impartite attraverso la Keech sarebbe stato salvato a bordo di dischi volanti. Come sarebbe
avvenuto il salvataggio non era chiaro, ma era importante che prima di salirvi tutti
togliessero dai loro vestiti le parti metalliche che avrebbero potuto rendere pericolosa la navigazione. Festinger e soci osservarono due comportamenti insoliti
negli adepti: tutti quanti avevano compiuto scelte radicali quali l’abbandono della
famiglia, del lavoro e la cessione di tutti i propri beni e, fatto curioso, non avevano
cercato assolutamente di fare proseliti; avevano anzi evitato in ogni modo forme
di pubblicità. Con l’avvicinarsi della data fatidica i giornalisti avevano cercato in
tutti i modi di prendere contatto con i leader e gli altri componenti della setta, ma
erano stati costantemente respinti.
A pochi minuti dalla mezzanotte del giorno fatale il silenzio era totale. Quando
suonarono le dodici la tensione era al culmine. Poi, man mano che il tempo passava e non succedeva niente, lo sbigottimento aveva lasciato il posto alla disperazione. All’alba la Keech scoppiò in lacrime e disse che, sebbene qualcuno potesse cominciare a dubitare, il gruppo doveva restare unito e “irraggiare la sua luce
a quelli che più ne avevano bisogno”. Improvvisamente, alle cinque meno un
quarto, la mano della signora Keech cominciò a scrivere un messaggio dettato dai
Guardiani, in cui si diceva che il gruppetto aveva irraggiato così tanta luce che
Dio “aveva salvato il mondo dalla distruzione”. La spiegazione non bastò: dopo
averla sentita uno degli adepti si alzò, si mise il cappotto e se ne andò. Ci voleva
ben altro. Ecco come i ricercatori raccontano ciò che successe dopo: “L’atmosfera
nel gruppo cambiò bruscamente e così il suo comportamento. Pochi minuti dopo
avere letto il messaggio che spiegava la mancata catastrofe, la signora Keech ne
ricevette un altro che le ordinava di pubblicizzare quella spiegazione e provvide
subito a chiamare un giornale. Anche gli altri si misero a turno a chiamare giornalisti, telegrafisti e stazioni radio per diffondere la spiegazione del mancato diluvio.
Nel desiderio di diffondere il verbo rapidamente e con risonanza, svelavano cose
che fino ad allora erano state segretissime. Mentre poche ore prima, avevano
evitato i cronisti, e provato fastidio per l’attenzione della stampa, ora cercavano
avidamente la pubblicità”.
Come si spiega questo improvviso cambiamento di rotta, da setta chiusa ed esclusiva alla massima apertura e diffusione del verbo? E perché mai fu scelto un
momento così sfavorevole per fare proselitismo? Secondo Festinger non era stata
la precedente certezza a indurre gli adepti al proselitismo, ma la sopravvenuta
incertezza: se la profezia dell’apocalisse e dell’astronave erano sbagliate, probabilmente lo era tutto il sistema di credenze che stava alla base della setta. Festinger
osservò in azione, così, quella che, grazie a lui, sarebbe diventata una delle teorie
più efficaci e famose della psicologia sociale, quella della “dissonanza cognitiva”.
È il senso di disagio che l’individuo sperimenta di fronte alla consapevolezza di
detenere due idee contrastanti e che spinge verso il cambiamento dell’elemento
più debole. Nel caso della signora Keech le due idee contrastanti erano la profezia
che il mondo sarebbe finito in un giorno preciso (casualmente la data prevista era
anche allora il 21 dicembre 1954, la stessa della profezia attribuita al calendario
maya per il 2012) e il dato di fatto che il mondo, quel giorno, non era affatto finito. I
componenti della setta non potevano certo permettersi di ammettere che il sistema
di credenze era sbagliato: dopo le decisioni radicali prese poche ore prima, la vergogna, il senso del ridicolo e i costi economici sarebbero stati insopportabili. Dovendo dunque continuare a sostenere che le credenze erano giuste, e quindi che
la profezia era corretta, occorreva intervenire sull’elemento di realtà. Il mondo non
era finito? Certo, ma solo per merito delle preghiere del gruppo. Questa soluzione
sembrò talmente soddisfacente ai componenti della setta da motivarli addirittura a
rilanciare la loro opera di proselitismo. La prova che avevano ragione si spostava
verso la ricerca di altri che la pensavano allo stesso modo. È quella che in psicologia si chiama “riprova sociale” e significa che quanto maggiore è il numero di
persone che trova giusta una qualunque idea, tanto più giusta appare quell’idea.
Bisognava convincere gli altri, insomma, per convincere sé stessi.
Quando l’atomica non distrusse la Terra, il 25 dicembre 1967, il gruppo Universal Link reinterpretò la profezia sostituendo l’atteso “disastro planetario”
con un meno verificabile “rinnovamento spirituale”. Quando i dischi volanti
dei Muoiani del pianeta Myton non si presentarono all’umanità, come annunciato nel 1976 dalla setta degli Unariani, la profezia fu ritoccata modificando
il riferimento al giorno dell’arrivo in un più generico “in futuro”. Il gruppo
pentecostale della signora Shepard, che nei primi anni ’60 si ritirò per un
mese in un rifugio antiatomico in attesa dell’olocausto, fu felice di scoprire
che il mondo non era finito: significava che le preghiere del gruppo erano
servite e la Shepard si disse orgogliosa di aver superato la prova offertale
dal Signore.
Ecco perché non c’è da sorprendersi se chi crede nella profezia maya insiste nelle
proprie convinzioni anche dopo il 21 dicembre 2012: giustificando la mancata fine
del mondo con l’idea che, in realtà, è veramente finito un mondo “vecchio” e ne è
iniziato uno nuovo, anche se noi non possiamo vederne gli effetti e probabilmente
sarà così ancora per decenni, fa l’unica cosa possibile che non sia quella di ammettere di avere creduto a una bufala. È l’ennesima prova che l’essere umano sa
giustificare anche le contraddizioni più stridenti, come dimostra ogni giorno chi,
contro ogni logica, resta attaccato a ideologie fallite, politici caduti in disgrazia,
amici disonesti o coniugi infedeli.
GIANFRANCO RAVASI: COME ASCOLTARE LA VOCE DEI PROFETI
Gianfranco Ravasi
“Vedendo l’accecamento e la miseria degli uomini, considerando tutto l’universo muto e l’uomo senza luce,
abbandonato a se stesso e come smarrito in questo angolo dell’universo, senza sapere chi ve l’ha messo, che cosa
vi è venuto a fare, che cosa diventerà morendo, incapace di una qualsiasi conoscenza, io resto sgomento come
un uomo che fosse stato portato dal sonno in un’isola deserta e spaventosa e vi si svegliasse senza sapere dove e
senza veder mezzo per uscirne… Ho cercato se Dio non avesse lasciato qualche segno di sé… E vedo la religione cristiana in cui trovo le vere profezie”. Le parole folgoranti di uno dei Pensieri di Pascal (num. 693, ediz. L.
Brunschvicg) delineano – sia pure attraverso una prospettiva cristiana – la forza e il fascino dei profeti biblici.
La loro voce è scandita spesso dalla formula “oracolo del Signore” o dall’equivalente “così dice il Signore”: è,
quindi, un messaggio che viene presentato come proveniente dalla trascendenza, come ricevuto dal mistero di
Dio, ed è perciò visto come parola e illuminazione per questo “universo muto” e per questo “uomo senza luce,
abbandonato a se stesso e come smarrito”.
Certo, la consapevolezza che il Creatore non resti isolato come un imperatore impassibile nel suo cielo dorato, ma
desideri interloquire con la sua creatura, è un dato verificabile in tutti i fenomeni religiosi. La presenza di una figura carismatica, che è attraversata da una voce superiore, appariva già nel barû, l’indovino, o nel mahhû estatico
assiro-babilonese, nei vaticini che si ottengono attraverso personaggi sacrali come l’egiziano Neferti che annunzia
calamità future, nel hazin, il veggente cananeo e aramaico, nella Pizia e nelle Sibille greco-romane, nell’ispirazione
delle Muse o negli aruspici latini, negli sciamani afro-asiatici o nei druidi anglosassoni. La Bibbia stessa conosce un
mago pagano, Balaam, che viene trasformato in una sorta di profeta che proclama quattro oracoli di gloria per l’Israele
in marcia verso la Terra promessa (Numeri 22-24).
La profezia ebraica ha, però, caratteristiche così specifiche e originali da renderla per certi versi un unicum nella
sua sostanza più intima (al di là di molte coincidenze estrinseche con gli analoghi fenomeni rivelatori) e da farne
– come dichiarava il filosofo Karl Jaspers – “un evento cardine nella storia del mondo”. Essendo il nome sempre
rilevante nelle culture dell’antico Vicino Oriente, dobbiamo riservare innanzitutto un cenno alla denominazione
biblica di colui che è per eccellenza il messaggero del trascendente, anzi del Dio personale biblico, il Signore. Non
per nulla una delle formule introduttive tipiche dell’oracolo profetico è la cosiddetta “formula del messaggero”, di
colui che è ambasciatore di Dio: “Così dice il Signore…”.
Ora, il termine biblico più comune per classificare il profeta è nabî’: esso risuona ben 315 volte nell’Antico Testamento ed
è un vocabolo dalla genesi non del tutto risolta, anche se pare probabile un legame con l’accadico nabû, ‘chiamare, nominare’. Si tratterebbe in questo caso di una persona che ha ricevuto una vocazione, una missione; sarebbe un “chiamato” e,
quindi, capitale è nell’eletto l’azione della grazia divina, come emerge in molte vocazioni profetiche. Emblematica è quella
di Amos, che ribadisce con fermezza: “Non ero profeta, né figlio di profeta; ero un pastore e raccoglitore di sicomori. Il
Signore mi prese da dietro al bestiame e il Signore mi disse: Va’, profetizza al mio popolo Israele!” (7, 14-15). Altra definizione del profeta biblico è quella di ’iš ’elohîm, ‘uomo di Dio’, attribuita soprattutto ad Elia ed Eliseo, i primi profeti in senso
stretto; una locuzione carica di valore, perché esalta l’efficacia della parola di un uomo investito dalla forza divina. C’è, poi,
il termine hôzeh, ‘visionario’, più raro, a cui si può accostare il parallelo rô’eh, ‘veggente’. In entrambe queste designazioni
è di scena più il “vedere” del “parlare”, ma è una visione qualificata, come attestano certe pagine di Amos (cc. 7-9) e di
Zaccaria (cc. 1-6), ma anche di Geremia ed Ezechiele e di altri profeti, dedicate appunto a una sequenza di visioni. Si
tratta, infatti, di scavare al di là della superficie della realtà e degli eventi per cogliere il senso ultimo, trascendente la mera
fenomenicità dei fatti e delle cose, attraverso un’illuminazione penetrante offerta da Dio stesso.
A questo punto dobbiamo rendere conto del termine greco che è diventato vincente e dominante nel nostro linguaggio, sulla
scia dell’uso neotestamentario, profètes. Alla base c’è la radice verbale fêmí, ‘parlare’, preceduta dalla preposizione pro- che
sopporta almeno tre significati: ‘in luogo di’, ‘davanti a’, ‘prima di’. Tutte e tre queste accezioni possono essere assunte, sia
pure con differenti gradazioni. Primaria, però, è quella della parola pronunziata ‘in nome di’: il profeta, come si diceva, è
per eccellenza un messaggero, un portavoce, “annunciatore delle parole di Dio agli uomini”, secondo un’espressione di
s. Agostino.
Proprio per questa definizione di portavoce divino, per un popolo che vive in una vicenda storica ben delineata e connotata
il profeta è per eccellenza “uomo del presente”, coinvolto nella religione e nella politica, nella società e nei drammi del suo
tempo. Basterà solo sfogliare le pagine dei libri profetici biblici per scoprire costantemente il groviglio di eventi contingenti,
di guerre e di questioni internazionali, di ingiustizie sociali e di fermenti, di attese e di denunce attestato dai vari profeti. Il
profeta di Israele è, così, il simbolo più autentico della religione biblica che è di sua natura storica: essa non ha alla base
una serie di astratti teoremi teologici o di esperienze mistiche che fanno decollare dal tempo e dalla terra verso il mito e il
cielo; si fonda bensì su una sequenza di azioni-rivelazioni divine incarnate nella storia.
Senza la voce del profeta che svela una presenza segreta e trascendente negli eventi, la storia si ferma alla mera fattualità,
lasciandoci – come diceva Pascal – “senza sapere chi ci ha messo in questo angolo dell’universo, che cosa siamo venuti a
fare e che cosa diventeremo morendo”. Con la voce del profeta emerge lo spessore profondo celato sotto l’involucro contingente delle politiche, delle diplomazie, dell’agire e dell’agitarsi umano. La libertà e la grazia di Dio, che nella storia sceglie
il luogo privilegiato per rivelarsi e per salvare la libertà umana, sono alla radice della missione profetica.
E per quanto riguarda le altre due accezioni contenute nella preposizione pro- di “profeta”? Anch’esse sono da accogliere,
ma con alcune puntualizzazioni. Il profeta è sicuramente uomo pubblico: egli proclama la parola divina “davanti alla”
comunità, alla società, alle sue autorità. Non è un carismatico esoterico: anche quando il suo linguaggio e la sua simbologia sembrano a noi remoti, in realtà essi rispondono ai canoni della comunicazione religiosa ebraica. Particolarmente
interessante è, proprio per la convinzione dell’efficacia della sua parola (in ebraico, tra l’altro, dabar significa sia ‘parola’
sia ‘fatto, evento, atto’), la presenza negli scritti profetici di descrizioni di azioni simboliche, vere e proprie azioni sceniche
che trasformano il profeta in mimo. Il Signore stesso dice a Ezechiele: “Io ti ho fatto un simbolo per gli Israeliti” (12, 6). E
il profeta conferma: “Io sono un simbolo per voi” (12, 11).
Così Isaia si aggira per Gerusalemme “spoglio e scalzo per tre anni”, per dimostrare che “in tal modo il re di Assiria condurrà i prigionieri d’Egitto e i deportati dell’Etiopia, giovani e vecchi, spogli e scalzi e con le natiche scoperte, vergogna per
l’Egitto” (Isaia 20,1-6). Geremia, che aveva ricevuto la sua vocazione sotto un albero di mandorlo (così da creare l’assonanza verbale tra shaqed, ‘mandorlo’, e shoqed, il Signore ‘vigilante’ su di lui con la sua protezione), nasconde una cintura di
lino in una fessura della roccia presso “il fiume Eufrate” (probabilmente, però, è l’attuale Nahal Perat o Wadi el-Qelt, tra
Gerusalemme e Gerico) per ritirarla ormai marcia, così da affermare in modo incisivo la decisione del Signore di “ridurre
in marciume la grande gloria di Giuda e di Gerusalemme” (Geremia 13, 1-11). Oppure si aggirerà per la città santa con
un giogo da buoi sul collo, evidente rappresentazione della futura oppressione babilonese, provocando la reazione di un
“profeta di corte”, Anania, il cui compito era invece quello di avallare la politica ottimistica del regime (Geremia 27-28).
Il trionfo dell’azione simbolica pubblica si attua però con Ezechiele. Eccolo ora cibarsi di un rotolo scritto (3, 1-3); eccolo
muto e paralizzato (3, 24-27), travestito da emigrante (12, 1-12), costretto ad alimentarsi solo secondo il rituale funebre
(12, 17-20), artefice di un incrocio stradale (21, 23-32); eccolo mettere in scena un esperimento culinario sconcertante
improvvisandosi cuoco maldestro (24, 1-14), oppure affrontare la morte della moglie, “delizia dei suoi occhi”, evitando
ogni lutto e atto funerario (24, 15-27); eccolo incidere iscrizioni simboliche su alcune tavole di legno (37, 15-28). Ma la
più complessa e articolata parabola in azione è quella da leggersi nei cc. 4-5 del suo libro profetico ove si ha quasi la
sceneggiatura delle tre fasi dell’assedio di Gerusalemme da parte dei Babilonesi, mimate da Ezechiele in modo originalissimo: i preparativi, la fame e l’espugnazione. Il profeta è, quindi, un uomo pubblico latore di un messaggio comunitario
che egli proclama ‘davanti a’ (pro-) tutto il popolo per inquietare le coscienze, condurle all’ascolto e alla conversione,
sempre però ‘in nome di’ (pro-) Dio, colui che parla attraverso il suo profeta.
Attorno alla profezia si è consumato da sempre un equivoco, registrato anche a livello lessicale. Il profeta è, infatti, tradizionalmente concepito come l’uomo del futuro, colui che “tele-vede” ciò che accadrà, che ‘pre (in greco pró)-vede’ la fine della
storia, che anticipa ciò che poi si attuerà. Questo non è pertinente proprio per le ragioni finora esposte, che rendono il profeta piuttosto un uomo del presente. Tuttavia non si deve ignorare che il suo messaggio ha lo scopo di mostrare le dinamiche
segrete della storia, la loro carica “messianica”, per usare una categoria biblica decisiva. Proprio perché egli penetra nella
profondità trascendente degli eventi, e non tanto per doti o doni metapsichici di preveggenza, il profeta sa intuire e rivelare
la logica di fondo con cui Dio traccia il suo piano salvifico e quindi sa intravederne gli sviluppi futuri. Più che catturare e
descrivere la cronistoria della fine futura, egli coglie il fine, il senso ultimo della storia presente.
La sua è una parola rivolta al presente, fondata sul passato delle azioni salvifiche divine ma aperta al futuro della speranza.
Uomo del presente, il profeta offre un messaggio che supera i confini temporali limitati in cui è inserito e si protende verso
il senso futuro della vicenda umana, della sua pienezza e redenzione. Ed è per questo che l’assenza della voce dei profeti
diventa il segno del giudizio divino sull’umanità. La loro presenza è, invece, un indice puntato verso la pienezza della storia
nel Messia che il Nuovo Testamento identificherà in Cristo, Parola di Dio suprema.
Ma, proprio per questa fedeltà del profeta alla storia, uno dei temi capitali della profezia biblica è il nesso inscindibile
tra fede ed esistenza morale. I profeti ricusano una liturgia separata dall’esistenza, una fede disincarnata, una religiosità
spoglia di giustizia e di opere rette. Altrimenti il rito si riduce a farsa, il culto diventa magia, l’incenso si trasforma in una
droga sacrale, la rubrica liturgica sconfina nel folclore. Il Dio dei profeti respinge seccamente un culto ipocrita con tutto il
suo apparato rituale che è un alibi per evitare l’impegno severo e operoso in un’esistenza giusta: piuttosto, “cessate di fare il
male, imparate a fare il bene, cercate la giustizia, soccorrete l’oppresso, rendete giustizia all’orfano, difendete la causa della
vedova!” (Isaia 1, 16-17). Questo è il messaggio fondamentale dei profeti, sempre attuale e decisivo.
Marco Polillo: «Se rinunciamo a trasmettere il sapere la nostra lingua si estinguerà»
Marco Polillo
Marco Polillo è il presidente di AIE, l’Associazione Italiana Editori, e di Confindustria Cultura Italia, una federazione
delle industrie culturali italiane.
Il rischio dell’estinzione della lingua italiana non è solo un’emergenza in prospettiva e forse non dovremo aspettare fino al
2300, come dice la “profezia”. Potrebbero bastare molti meno anni, a giudicare dalla classifica stilata dall’Ocse e diffusa
dall’Isfol, che colloca il nostro paese all’ultimo posto per le principali competenze degli adulti. Ci posizionano proprio in
fondo – ultimi tra 24 paesi – per competenze in lettura e al penultimo posto sia per competenze in matematica sia per
capacità di risolvere problemi in ambienti ricchi di tecnologia, come quelli delle società moderne.
Questo è il problema principale per la sopravvivenza della lingua e della cultura italiana e, a cascata, anche il nodo cruciale
per l’editoria libraria. Credo infatti che l’ostacolo strutturale all’allargamento del mercato della lettura di libri (ma anche
della stampa quotidiana e periodica) derivi proprio dalle scadenti competenze alfabetiche degli italiani: si tratta dell’insufficiente possesso di strumenti – a livello collettivo – per leggere, comprendere e interpretare un testo di complessità appena
superiore a quella che dovrebbe essere accessibile grazie a una scolarizzazione di base. Tale carenza è anche un freno
all’utilizzazione, non solo ludica e relazionale, delle nuove tecnologie, che possono invece essere preziose per accedere a
contenuti informativi ed editoriali. Questo è tanto più vero per le giovani generazioni e per la scuola: i nostri nativi digitali
sapranno “usare” – nel senso di capire, conoscere, apprendere davvero – ciò che lo strumento digitale offre loro?
La scuola italiana mostra una certa difficoltà nell’incrementare il numero dei cittadini adulti in grado di accedere a contenuti editoriali e fonti informative, a consultarli e selezionarli. Sarà anche per via della carenza di biblioteche e bibliotecari
scolastici, che la rende incapace di diffondere l’abitudine alla lettura, necessaria nella futura vita adulta e professionale?
Sarà perché le istituzioni competenti non promuovono politiche positive coerenti, né adeguatamente finanziate? Sarà
infine anche conseguenza dell’incapacità “combinata” dei soggetti pubblici delegati alla socializzazione favorita dalla
lettura, a partire dalla scuola e dal sistema bibliotecario (con le risorse messe a sua disposizione dagli enti locali e dalle
istituzioni), così come dei soggetti privati, che non sembrano capaci di acquisire lettori?
Diverse ricerche dimostrano che tra la fine degli studi e l’ingresso nel mondo del lavoro si verifica una spaccatura tra chi
legge poco o nulla e chi continua a considerare la lettura, la frequentazione della libreria, l’acquisto dei libri un fenomeno
abituale. Si allarga così la fetta della società italiana culturalmente molto debole, che fatica a decodificare gli elementi
di innovazione e a metabolizzare l’incertezza sul futuro. Solo così si spiega perché, come ci dicono i dati Istat, un italiano
su tre della fascia alta della popolazione non legge nemmeno un libro in un anno. O perché non lo fa uno su quattro dei
laureati italiani, che sono gli italiani del futuro. Il problema è tutto qui e credo che la differenza vera la facciano i libri: il
bivio è tra diventare lettori (e cittadini) consapevoli o consumatori (e cittadini) passivi.
Noi editori abbiamo un ruolo e un compito, in questo senso. Siamo non solo “industriali” che fiutano l’occasione, il pro-
dotto, il libro da milioni di copie, ma anche veri operatori culturali, in un certo senso mediatori che stimolano la società
a crescere. In una società dei consumi anche culturali e istantanei siamo diventati garanti della qualità e del valore dei
contenuti. Sentiamo sulle nostre spalle il ruolo di chi propone e garantisce la cultura. Ci riteniamo, infine, “traghettatori”
della lingua italiana verso il futuro.
C’è chi ritiene che il nostro compito sia inutile. Sono convinto di no: oggi all’imprenditore culturale è richiesto d’inventare
nuovi percorsi alla diffusione della lettura e anche della nostra lingua. Un imprenditore dotato di fantasia sa molto bene
che l’offerta crea la domanda. Così stiamo facendo: due titoli su tre escono oggi anche in versione digitale per aprirsi a
nuovi mercati: ci sono, solo nell’editoria scolastica, oltre 15.000 testi in versione e-book. C’è una produzione varia e per
tutti i gusti, capace di stimolare tutte le coscienze e secondo tutti i punti di vista, nel rispetto di tutti gli idiomi: anche
quelli regionali. Siamo diventati i Caronte della cultura italiana. E su questo, a partire dalla certezza della nostra lingua,
continuiamo a investire.
Persone di 6 anni e più che non hanno letto nemmeno un libro nei 12 mesi precedenti l’intervista (anno 2012)
Fonte: ISTAT, “La produzione e la lettura di libri in Italia 2011-2012”
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Catricalà …
per la valutazione dello stato di benessere di una lingua. Non serve neppure
ricordare il caso del successo della lingua italiana in quanto connesso a quello
di alcuni settori produttivi e artistici molto noti e alla nostra presenza nel G8.
Come giudica la profezia che, alla luce del progressivo impoverimento della nostra lingua, ne prevede l’estinzione?
La futurologia applicata alle scienze sociali è un ambito di studio affasci-
madrelingua
Supplemento di Pagine della Dante - Rassegna trimestrale della Società Dante Alighieri (3a serie)
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Finito di stampare nel mese di ottobre 2013 presso Eurograf Sud S.r.l. – Ariccia (RM)
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Gherardo La Francesca, Francesco Merloni, Leone Piccioni, Raffaele Rossi, Alfred Spiteri, Giovanna Ussia Lumare, Alessandro Vattani
nante, ma anche inquietante e può dar adito a molti dubbi. Non è facile,
quindi, giudicare profezie di noti linguisti che prevedono che, nei prossimi due-trecento anni, assisteremo a un vero e proprio sterminio delle
oltre 6.000 varietà linguistiche attuali e che addirittura, già nel 2300, a
sopravvivere con certezza potrebbero essere solo l’inglese, il cinese mandarino e lo spagnolo, con le relative lingue dei segni. In molti casi questi
scenari sono elaborati in base alla proiezione di una serie di dati demografici e socio-economici oggettivi e non appaiono di certo in una sfera
di cristallo. Vanno, quindi, esaminati con attenzione, anche perché molte
variabili attuali, come l’uso della Rete e i fenomeni di globalizzazione,
non hanno precedenti e i tempi di cambiamento delle lingue potrebbero
accelerarsi in maniera del tutto imprevedibile. Attenzione non vuol dire,
però, apprensione. Anzi la possibilità di confrontare lo status dell’italiano
con quello di altre lingue, come quelle attualmente più parlate nel mondo
(il cinese e l’inglese, usati da oltre un miliardo di persone, l’hindi, lo
spagnolo e l’arabo, da circa mezzo miliardo) e quelle ad altissimo rischio
(come il rapanui/pasquense, con quattromila parlanti), consente di guardare con un certo ottimismo al suo futuro. L’italiano sembra occupare, nel
panorama linguistico globale, la dodicesima posizione, con 70 milioni
di parlanti madrelingua e quasi altrettanti che lo userebbero come L2.
Non si può negare, comunque, che il nostro codice linguistico sia esposto
da qualche anno a tre nuovi fattori di rischio molto pericolosi: l’impatto
della globalizzazione, l’immigrazione e l’unificazione europea. La concomitanza di questi tre elementi amplifica gli effetti di erosione di ciascuno.
Una volta ha scritto che a morire non sono le lingue, bensì le comunità linguistiche. Cosa intendeva dire?
L’idea della morte riferita alle lingue risale al 1933, a un saggio di Joseph Vendryes intitolato La mort des langues. Il saggio, ascrivendo all’atrofia e all’abuso
degli errori la causa principale dell’estinzione di alcune lingue celtiche e del
latino, aprì un dibattito ancora oggi vivacissimo. Nel 1977 Norman Denison si
domandò invece per primo se, a proposito dell’estinzione delle lingue, non fosse
più opportuno parlare di suicidio – dato che, ovviamente, non sono le lingue a
vivere o a morire, ma chi le parla –, precisando che sono i parlanti a dismettere
una lingua e a rinunciare a utilizzarla. Alla luce di questi interessanti temi,
ma anche in seguito alle inchieste svolte con Laura Di Ferrante sugli attuali
pregiudizi linguistici dei giovani dei licei di Napoli, Roma, Milano e Canton
Ticino, mi sembra evidente che non si possa tralasciare un ulteriore aspetto
determinante per la vitalità di una lingua: il fattore identità. Se una lingua è
incardinata in una comunità, se si vuole anche in una rete di parlanti, se è veicolo di coesione e di concettualizzazione condivisa dei saperi e delle emozioni,
allora quella lingua è destinata a restare viva e produttiva. Ogni lingua morta
può ritornare a vivere, la comunità che l’ha inventata, coniata e trasformata no.
Crystal…
la consapevolezza del pubblico su questo argomento. Fra le conseguenze
dirette ci sarebbe un aumento dei finanziamenti per i progetti di salvataggio delle lingue in pericolo.
Dunque la sopravvivenza di una lingua dipende essenzialmente dal suo uso.
Quanto è rilevante la presenza di una lingua su Internet per la sua conservazione?
È assolutamente fondamentale. Un tempo sarebbe stato impossibile,
per i parlanti di una lingua a rischio, rendere nota la loro condizione
sulla scena globale. Oggi, attraverso Internet, ciò è relativamente semplice. Stiamo già assistendo a un notevole incremento della diversità
linguistica sul Web, dove si contano, con diversa distribuzione, oltre
2.000 lingue e non so quanti dialetti. Internet permette la trasmissione
della lingua in due dimensioni: quella geografica, da un punto all’altro
del globo, e quella intergenerazionale. Quest’ultima costituisce un elemento cruciale, poiché soltanto una lingua trasmessa alla generazione
successiva è in grado di sopravvivere. E quale miglior strumento della
Rete per interessare i giovani a qualcosa?
PIERGIORGIO ODIFREDDI: «PER PREVEDERE IL FUTURO BASTA LA SCIENZA»
Intervista a cura di Americo Rossano
Piergiorgio Odifreddi, autore, fra altre cose, del Matematico impenitente (Milano, Longanesi, 2005), ci illustra il suo punto di vista
sulle profezie e sul rapporto tra scienza e superstizione.
Come mai, secondo lei, il tema delle profezie è di così grande richiamo negli ultimi anni?
La causa principale è l’ignoranza delle leggi che regolano i fenomeni che ci circondano: minore è la conoscenza di tali leggi e
meccanismi, maggiore sarà la presunzione di riuscire a prevedere il futuro in tanti modi diversi ma tutti singolari quanto inefficaci.
Il fenomeno è molto diffuso, spesso impersonato da singoli individui (dagli oracoli dell’antichità e i profeti della tradizione biblica
fino ai maghi e i chiromanti dei nostri tempi) che vantano capacità fuori dal comune. Altri esempi possono essere quelli della
tradizione cinese degli I Ching, che ha avuto un ruolo fondamentale per l’ideologia confuciana e taoista. Esiste perciò un vasto
panorama di “parapensiero” che si scontra con le basi dell’ideologia scientifica occidentale. Anche la scienza fa profezie o, per
meglio dire, previsioni, ma queste sono basate su teorie e calcoli e mirano a prevedere eventi molto specifici e con grande precisione. La cosa interessante è che facendo previsioni a caso, secondo il calcolo delle probabilità, si ha il 50% di opportunità che
la premonizione si verifichi. La scienza non può certo accontentarsi di previsioni che funzionano nella metà dei casi. Esse devono
essere sempre valide o quantomeno nella maggior parte dei casi, e le eccezioni vanno indagate: o c’è un errore di calcolo o è errata
l’intera teoria. Nelle profezie, inoltre, non c’è precisione: molte previsioni sono studiate per ottenere molteplici interpretazioni, che
ampliano il numero degli eventi riconducibili alla loro formulazione.
Molto spesso, alla base delle profezie, ci sono i numeri. È per avvalorarle?
Questo fenomeno, se ci si pensa bene, rappresenta una grande vittoria della scienza: ricorrere a basi scientifiche per supportare
superstizioni significa accreditare la scienza quale unico strumento per fare previsioni attendibili; la scienza è considerata perciò
l’unico sistema di pensiero serio e affidabile. È per questo che oggi si ammantano di scientificità anche le cose più antiscientifiche:
si pensi alle denominazioni delle facoltà universitarie, da Scienze politiche fino, addirittura, a Scienze umanistiche. È come se
il termine scienza fosse diventato un timbro di garanzia che permette di far accettare più benevolmente qualsiasi cosa. È qui che
risiede il riconoscimento della scienza come sistema di pensiero predominante.
Nonostante la loro scarsa attendibilità, cartomanti e astrologi hanno largo spazio nei nostri mezzi di informazione. Come mai?
Questo è l’aspetto più inquietante e indegno. Se non stupisce che i giornali dedicati al gossip intrattengano il cosiddetto “popolino”
con oroscopi e simili, è ben più grave che i canali televisivi pubblici e le testate giornalistiche che si presentano come seri mezzi di
informazione diano spazio a questo genere di cose. Qualcosa non funziona nella comunicazione e nei media, che diventano strumenti di diffusione di ciò che dovrebbero invece combattere. Non so se abbiano mai avuto una funzione educativa vera e propria,
ma se riflettiamo sul fatto che i maggiori gruppi editoriali sono in mano a grandi gruppi industriali, viene facilmente il sospetto
che questi non siano interessati a fare informazione ma il suo esatto contrario: propaganda. In questo senso cartomanti, astrologi
e oroscopi sembrerebbero ami rivolti a persone di cultura medio-bassa (se non decisamente bassa), di facile indottrinamento. In
passato non era così: quando la scienza non c’era, la numerologia e l’astronomia erano un tentativo di usare conoscenze di base,
come i numeri, in modo rudimentale. L’attenzione alle stelle e al moto dei pianeti, per esempio, conteneva un’intuizione corretta,
quella per cui gli astri influenzano la vita sulla terra, il che effettivamente avviene per la Luna quando determina le maree. L’astrologia è poi un caso di scuola: già il semplice fatto che esistano due sistemi astrologici completamente diversi, quello equatoriale
e quello polare, dovrebbe farci concludere che abbia ben poco di credibile. A ciò va aggiunto il fatto che le costellazioni sono
un’invenzione umana: un disegno che include stelle più o meno lontane, e più o meno luminose, che spesso non appartengono allo
stesso gruppo. E ancora: l’astrologia non tiene conto del fenomeno della precessione degli equinozi, che pure è stato scoperto da
Ipparco di Nicea più di duemila anni fa; fa riferimento invece a un sistema di case di segni astrologici che non è più attuale ma è
slittato (duemila anni fa era l’era dei pesci, oggi quella dell’acquario). Insomma l’astrologia attuale si basa su un grande equivoco
e sarebbe alquanto singolare se una teoria fondata su basi tanto traballanti potesse funzionare.
A che punto è giunto lo scontro tra scienza e superstizione in Italia?
È difficile dire a che punto siamo, quel che è certo è che continuiamo nella nostra opera nonostante le difficoltà. Una di queste
è la scarsa attenzione dei media; troppo attenti ad assecondare i sistemi sotto-culturali, non aiutano la divulgazione scientifica
e presentano la scienza come argomento marginale. I giornali sono interessati alle notizie eclatanti da prima pagina, ma la
scienza ne fornisce raramente; così anche quel poco che viene pubblicato spesso non ha molto a che vedere con il lavoro
serio e di qualità, che si svolge nell’ombra. Ciò risulta ancora più strano perché il mondo in cui viviamo, così tecnologico, è
altamente scientifico. Basti pensare ai computer, agli smartphone e alle varie “diavolerie” di cui ignoriamo il funzionamento:
sono macchine “miracolose”, costruite sulla base di previsioni scientifiche ma noi, anziché usarle, ci lasciamo usare da loro.
Il risultato è che il lavoro che compete ai divulgatori (pochissimi) è immane. Acquisire visibilità con un pubblico abituato a
leggere i romanzi di Dan Brown non è affatto semplice. I suoi romanzi sfruttano la linea di minima resistenza: contengono certo
un seme di dato scientifico (gli studi sull’antimateria del CERN in Angeli e Demoni, quelli sulla crescita della popolazione
mondiale in Inferno) ma il suo sviluppo è sempre banale, distorto o addirittura del tutto sbagliato. Il lavoro del divulgatore è
quindi difficile. Siamo coscienti del fatto che le cose non cambiano radicalmente da un giorno all’altro, ma bisogna continuare
a far cadere la goccia sperando che, come dicevano gli antichi, questa scavi la roccia.
Silvano Fuso: «L’agire umano?
Condizionato dalle false credenze»
Intervista a cura di Giacomo Levi
Silvano Fuso, chimico e divulgatore, si occupa da anni di fenomeni paranormali e pseudoscienze. È autore di numerose pubblicazioni sul tema della superstizione, fra cui Il libro dei misteri svelati (Roma, Castelvecchi, 2010). Abbiamo approfondito con lui
il rapporto tra superstizione e cultura.
Cosa vuol dire essere superstiziosi?
Essere superstiziosi significa credere in determinati fatti empiricamente rilevabili la cui esistenza non sia sostenuta da dimostrazioni concrete. Una fede religiosa non è propriamente una superstizione, perché riguarda entità che, per definizione, non sono
empiricamente rilevabili, e tuttavia, all’interno delle fedi religiose, è frequente trovare vere e proprie superstizioni.
Le superstizioni sono un tentativo di controllare la realtà. Molte cose che accadono nella nostra vita sono purtroppo del tutto
imprevedibili. Ciò crea frustrazione e insicurezza in molte persone. Ci si illude così che certi eventi, gesti o riti abbiano rapporti
di causa ed effetto sulle nostre vicende personali. Rapporti che non sono però mai stati dimostrati e vengono anzi smentiti nella
maggior parte dei casi. Molti di noi ci credono semplicemente perché si basano su pochi episodi isolati che sembrano confermarli
(e che magari non sono accaduti nemmeno a noi, ma ci sono semplicemente stati raccontati da altri o tramandati per tradizione).
Com’è cambiato il ruolo della superstizione nella storia della cultura occidentale?
Nel mondo romano la parola superstitio indicava un eccesso di pratiche e osservanze religiose; è piuttosto curioso che tale giudizio si
riferisse soprattutto alle pratiche altrui, non condivise. Lucrezio, nel De Rerum Natura, equipara religioni e superstizioni. Secondo lo
storico Jean-Claude Schmitt il termine deriverebbe da superstare, ovvero ‘essere al di sopra’ (inteso nel senso di ‘essere testimone di
qualcosa’). L’origine è però forse da ricercare nel verbo arcaico superstito, che significava ‘preservare, far durare, far sopravvivere’. Le
pratiche superstiziose avrebbero avuto come scopo la preservazione della vita, ma col tempo il concetto di superstizione si è allontanato
dall’ambito religioso e si è ristretto all’ambito delle credenze in fenomeni, come si diceva, empiricamente rilevabili. Per questo motivo
è inevitabile che molte credenze empiriche ritenute fondate siano state col tempo dimostrate false dallo sviluppo delle conoscenze.
Quale correlazione esiste tra livello di istruzione e superstizione in Italia?
Tra le persone a basso livello di scolarizzazione vi è una maggiore diffusione di superstizioni. Tuttavia, come dimostrato dal rapporto
di Telefono Antiplagio per il 2011 (che denuncia un giro d’affari per 6 miliari di euro), anche persone con buona istruzione non sono
immuni da false credenze: il 36% del pubblico dei maghi e vari specialisti dell’occulto è in possesso di diploma di istruzione superiore (e il 13% è, addirittura, laureato). Questo accade perché certe credenze agiscono a livello emotivo e non razionale. In pratica si
crede a certe cose perché fa piacere e perché producono un senso di rassicurazione, indipendentemente dal fatto che siano vere o no.
Perché, secondo lei, è così diffusa la “necessità” di credere in qualcosa che sfugge alla nostra comprensione razionale?
Certi comportamenti irrazionali sono connaturati all’uomo (ma anche ad altri animali) perché comportano un vantaggio
evolutivo. Tra questi comportamenti vi è la tendenza della nostra mente a individuare relazioni di causalità anche quando
in realtà non ce ne sono. Se mi trovo nella foresta, e vedo un ramo spezzato, penso subito che l’evento sia stato causato dal
passaggio di un predatore. Questo aumenta la mia probabilità di sopravvivenza. Poco importa se l’ipotesi è sbagliata e se il
ramo è stato spezzato dal vento. Tendiamo insomma a interpretare ciò che accade come frutto di un disegno intenzionale. Se
dal punto di vista biologico questo può essere vantaggioso, dal punto di vista culturale lo è molto meno. Avere false credenze
condiziona spesso negativamente la vita di molte persone, con gravissime conseguenze che discendono da pericolosi circoli
mentali viziosi. In altre parole “essere superstiziosi porta male”!
A Mario Tozzi, geologo, saggista e autore televisivo, abbiamo posto alcune domande sul “pensiero magico”, sempre più diffuso
nella società occidentale, e sul senso della spiritualità nel mondo contemporaneo.
I profeti provano ad anticipare il futuro, e gli scienziati?
Gli antichi profeti hanno sempre elaborato visioni sulla fine del mondo e proiezioni sulla vita ultraterrena, nella quale dovremmo
essere divisi tra buoni e cattivi. Altra cosa sono gli scienziati, che studiano il pianeta adottando parametri con i quali ci mettono in
allarme sui pericoli della specie umana sulla Terra. Le loro sono previsioni basate su fondamenti scientifici, non profezie.
Le profezie possono comunque fornire indizi agli scienziati per porre questioni e risolvere problemi?
La profezia sul terremoto di Roma previsto per l’anno scorso ha portato migliaia di cittadini a spostarsi dalla capitale per evitare i
rischi minacciati da Raffaele Bendandi. Ovviamente non è successo nulla. Ci sono eventi per i quali ogni momento è quello buono,
ma non per questo possono essere previsti. Così il secondo terremoto dell’Aquila, nonostante la condanna in primo grado che ha
permesso di affrontare la questione della prevenzione; tanta gente è morta non perché il terremoto non sia stato previsto, ma per il
modo in cui è stata edificata l’area in cui si è scatenato.
Secondo lei qual è il meccanismo che conferisce a una profezia l’attenzione e la dignità delle prime pagine, talvolta proprio a scapito di
serie questioni scientifiche o sociali come l’inquinamento o la sostenibilità ambientale? Si è parlato per mesi dei Maya, un popolo di contadini ossessionati dalla visione del cielo per motivi esclusivamente terreni. Essi
erano portati a pensare che il maltempo fosse dovuto agli allineamenti dei pianeti e così, quando erano di fronte a determinate
congiunzioni astrali, avendole erroneamente associate alla siccità, facevano abbondanti sacrifici. I cicli, per quel popolo, avevano
un certo andamento, proiettato sia nel passato sia nel futuro. Uno di questi è giunto al suo epilogo il 21 dicembre 2012. Niente più
di questo, ma i media ce l’hanno raccontata molto diversamente.
Come siamo arrivati a dar credito all’ennesima credenza nella fine del mondo? Perché tanto scompiglio?
Credo che la nostra sia una società che si appassiona alla catastrofe. Quando ci sono incidenti in autostrada diamo sempre una
sbirciatina per vedere di cosa si tratta. In virtù di questa fascinazione riusciamo, anche solo per un momento, a staccare dalla
realtà senza farci troppe domande. La questione centrale non è la profezia dei Maya, bensì il nostro comportamento sul pianeta.
Quanto è forte il “pensiero magico” nella società occidentale?
Quest’espressione nobile si riferisce a un substrato che ha permeato la società fin dalla notte dei tempi: potremmo chiamarlo – ma
impropriamente – sciamanico. Si calcola che il 2% della popolazione mondiale possa avere la capacità di mettersi in contatto con
quello che ritiene un mondo interiore; è gente che ritiene, come i profeti o le sacerdotesse dei templi di Apollo, di possedere al
riguardo una qualità innata (e in effetti, per una particolare strutturazione mentale, sembra che una parte consistente di persone
abbia un tal genere di inclinazione). In Italia il pensiero magico ha investito il mondo rurale fino al secondo dopoguerra, dando
origine a studi importanti. Lo tratterei perciò con rispetto, anche se a partire dagli anni ’50, quando la società industriale ha
preso il posto di quella contadina, il pensiero magico si è atomizzato. Le antiche famiglie patriarcali, in qualche misura, si sono
spezzate; quel che rimane del mondo di allora sono i maghi e le fattucchiere che frequentano i salotti televisivi, lontani anni luce
dal pensiero magico di una volta.
La Commedia di Dante alla prova dei numeri
Intervista a cura di Antonio Del Sannio
Francesco Fioretti, saggista e scrittore, è autore di romanzi e studi critici
sull’opera di Dante Alighieri. Uno dei temi centrali della sua produzione
è quello della profezia.
Perché il tema profetico è così vivo nell’immaginario letterario
contemporaneo? Quali risposte cerchiamo nei libri?
Non si tratta di una prerogativa dell’immaginario contemporaneo. Al
tempo di Dante la cristianità era piena di presunti profeti, tanto che
la Chiesa dovette intervenire dichiarando chiusa l’era delle profezie,
ritenute tutte adempiute con l’Incarnazione e illecite dall’avvento di Cristo
in poi. All’epoca, però, si profetizzava sul futuro, e dunque in un certo
senso si faceva sul serio, mentre oggi – forse per effetto dell’inguaribile
narcisismo dell’era attuale – amiamo le profezie del passato che ci
riguardano e cerchiamo nei testi esoterici antichi le tracce di una remota
prevedibilità del presente, quasi che da questa possa derivare una
conferma dell’ineluttabile necessità del mondo attuale; preferiamo invece
applicare al futuro il metodo statistico, che non è altro che una proiezione
sull’avvenire delle tendenze attuali, quasi siano destinate all’eternità.
Ciò che mi affascina è la lungimiranza di alcuni grandi intellettuali
del passato, la loro attitudine a prevedere il futuro non in forza di uno
speciale “spirito profetico” ma per la grande capacità d’osservazione e
lo sguardo disinteressato – e perciò spregiudicato – sul mondo in cui
vivevano. Tra questi c’è senz’altro Dante.
Il suo Libro segreto di Dante (Roma, Newton Compton, 2011) è un
romanzo che prende spunto da un’analisi numerologica della Divina
Commedia. Quale codice nasconde quest’opera, e quale messaggio è
possibile decifrarne?
La Divina Commedia non nasconde nulla se non spunti per sollecitare il
lettore allo sforzo di comprenderla. In un mondo come quello dantesco tutto
è “simbolo”, persino la natura e la storia; è un universo pervaso dal divino
in cui niente esiste (o avviene) per caso. Anche i numeri fanno la loro parte:
sono cifre dell’assoluto da svelare, e Dante li usa secondo una logica che
presume di attingere a quella celeste. Nel Libro segreto di Dante c’è una
costruzione numerologica, sfuggita ai critici, che lega tra loro i due unici
brani autenticamente profetici del poema, quello del Veltro nel primo canto
Intervista a cura di Costanza Belli
Come si presenta il millenarismo oggi?
Il millenarismo esiste ancora, ma in gruppi marginali.
È piuttosto rappresentativa la svolta dei Testimoni di
Geova che, alla fine del ventesimo secolo, hanno annunciato che non avrebbero più fornito probabili date
sulla fine del mondo perché quella fine la conosce solo
Dio. Altrettanto hanno fatto gli Avventisti. Anche i pentecostali, che sono in tutto 500 milioni e si dividono in
parecchie migliaia di raggruppamenti (e relative denominazioni), sono soltanto in parte interessati alle previsioni sulla fine del mondo.
Il bisogno di dialogare con l’Assoluto “a tu per tu” sembra confermato dal successo di libri di varia spiritualità.
Anche la tecnologia incoraggia l’individualismo. C’è un
rapporto tra la convergenza digitale e la crescente paura
del domani?
Fino a pochi anni fa fautori e cultori delle nuove tecnologie non avevano paura del domani. Con l’avvento
del Next Age, e la sopravvivenza “in prima persona”
subentrata all’attesa di un “domani che canta”, cioè di
un futuro utopistico, l’utopia è diventata in molti casi distopia: la previsione di una nuova preistoria, provocata
da una tecnologia ribellatasi all’umanità.
Quali le somiglianze e le differenze tra le Centurie di
Nostradamus e i testi profetici moderni, come la Profezia
di Celestino di Redfield?
Mario Tozzi: «Scienza e occulto:
tra previsioni e profezia»
Intervista a cura di Adriano Tigli
Massimo Introvigne:
«Le religioni tengono,
il millenarismo no»
La principale differenza è il linguaggio. Un tempo si
riteneva che una “profezia” dovesse essere oscura:
leggiamo ancora Nostradamus proprio perché ognuno
ci può trovare quel che vuole. Le profezie moderne,
come quella di Celestino, sono invece affidate a testi
diretti e precisi, scritti in un linguaggio molto piano
e comprensibile a tutti. Assistiamo a una sorta di democratizzazione del linguaggio profetico, con i relativi
prodotti editoriali divenuti nel frattempo molto più
effimeri: le previsioni non si realizzeranno, e quei prodotti saranno presto sostituiti da altri. Se le profezie
di Nostradamus durano nei secoli è perché, a essere
buttate via, non sono le opere che le contengono ma le
loro interpretazioni.
L’umanità ricava sempre più fiducia in se stessa dalla
consultazione di maghi e astrologi, mentre il mondo del
cinema e della letteratura esorcizza la paura del futuro
con prodotti distopici che non concedono nulla al pensiero religioso. È venuta meno la fede in Dio? E la riforma
liturgica del cattolicesimo (1969) ha inciso nell’allontanamento dei fedeli dal culto?
Non è vero che le vecchie religioni stiano sparendo. Negli Stati Uniti il numero dei credenti sta aumentando, e
nei paesi in via di sviluppo quel numero non è mai diminuito. In Italia, con Giovanni Paolo II, c’è stato addirittura un riavvicinamento al cattolicesimo da parte delle
masse giovanili, e sembra che sia in atto un analogo “effetto papa Francesco”. Quanto alle forme della liturgia,
concordo con il motu proprio Summorum Pontificum
di Benedetto XVI, che ha reintrodotto la messa di San
Pio V (in lingua latina) a titolo straordinario, accanto
al rito ordinario (in lingua moderna). Tra le funzioni di
una religione c’è la preservazione del linguaggio della
memoria e dell’identità, anche se il mondo attuale ha
molte difficoltà a rapportarvisi.
Il linguaggio profetico è più pacifista o guerrafondaio?
È ambivalente. Al-Qaeda motiva i terroristi a farsi saltare in aria, mentre il linguaggio dei Testimoni di Geova,
pur apocalittico, li spinge al pacifismo: non partecipano
a nessun conflitto e a nessuna contesa, nemmeno elettorale (non votano), e, quando c’è una guerra, si dichiarano obiettori di coscienza. Fra questi due estremi possiamo collocare le diverse altre forme e manifestazioni del
linguaggio profetico.
Le profezie? Vere solo per chi ci crede
Intervista a cura di Amedeo Longobardi
dell’Inferno e quello del “Cinquecento diece e cinque” nel ventitreesimo
del Purgatorio: sommando le iniziali numeriche dei quattro animali del
primo canto del poema (Lonza, Leone, Lupa, Veltro: LLLV, ovvero tre
volte cinquanta più cinque) si ottiene 155. Il numero, guarda caso, è un
anagramma in cifre arabe di 515 (= “Cinquecento diece e cinque”), e ciò
suggerisce che la chiave per comprendere le profezie potrebbe essere nel
poema stesso: si tratterebbe insomma di una sorta di profezia intertestuale,
interna all’opera. Al 155 dell’Inferno e al 515 del Purgatorio segue, per il
Paradiso, un 551 che svela l’enigma. È contenuto nel diciottesimo canto.
Gli spiriti luminosi del cielo di Giove, il pianeta della giustizia divina,
volano a formare una sequenza di tre lettere dell’alfabeto: DIL (“or D,
or I, or L”); la serie non può essere letta, come numero romano, se non
come DLI, e cioè 551. Le profezie non sono dunque che un richiamo a
questo canto, non significano altro che un futuro e inevitabile trionfo della
giustizia divina. Infine, una volta realizzata – ma dentro il poema – la
profezia, sommando le cifre si ottiene tre volte undici, ovvero trentatré, che
è la chiave di volta dell’architettura stessa del libro (i 33 canti per cantica,
le 33 sillabe di una terzina di regolari endecasillabi piani). Perciò anche i
numeri contribuiscono a creare il senso globale della Commedia: quello di
una progressiva redenzione individuale e collettiva, col graduale affermarsi
del messaggio cristiano (33 è infatti un numero cristologico, l’età finale di
Cristo uomo).
Nel 2021 si celebreranno i 700 anni dalla morte di Dante. Dove risiede,
secondo lei, la forza della sua attualità?
Oltre che nella sua lungimiranza, di cui ho detto, anche e soprattutto
nella sua straordinaria forza espressiva, costituita da una fervida
immaginazione visiva (Dante, fra le altre cose, dipingeva) unita a
un eccezionale senso del ritmo (è probabile che s’intendesse anche
di musica, visto che i primi amici che incontra in Purgatorio sono un
liutista e un liutaio). I suoi versi sono immagini ritmate che si imprimono
indelebilmente nella memoria. Le immagini, inoltre, sono per lo più
anche simboli che attivano la sfera intellettuale del lettore. Per questo
Dante è lo scrittore più efficacemente multimediale che ci sia mai stato e
la Divina Commedia è un ipertesto, come testimonia il grande successo
che ha riscosso presso pittori, musicisti, scultori di tutti i tempi. Da
Dante, insomma, non si finisce mai d’imparare.
Valerio Massimo Manfredi, archeologo, scrittore e conduttore televisivo, ci parla della credibilità delle profezie e del loro impatto sociale.
Crede che le profezie, che si avverino o no, abbiano la capacità di incidere sull’evoluzione storica?
Credo di sì: una profezia catastrofista, se la gente le dà credito, può anche determinare serie difficoltà a livello psicologico e sociale. Basti pensare a quella
sulla fine del mondo, presente in diverse epoche storiche: già nel I secolo – sicuramente anche a causa della profonda crisi innescata dalle guerre civili – ,
tra i Romani di tutte le estrazioni sociali, si diffuse il panico per la sciagura
pronosticata dal calendario etrusco. Un altro esempio è il fenomeno del millenarismo, a cui in molti hanno creduto sia nell’anno Mille sia nell’anno Duemila.
Senza contare quel che è avvenuto lo scorso anno, quando un gran numero
di persone ha abboccato alla montatura mediatica sulla profezia della fine del
mondo attribuita ai Maya nonostante gli esperti sapessero perfettamente che
quel popolo parlava soltanto della fine di un ciclo basandosi sul suo calendario.
Sta di fatto che oggi, come un tempo, si continua a dar peso a profezie scarsamente accreditate.
Nonostante i popoli antichi disponessero di strumenti limitati per decodificare
la realtà (e l’irrealtà), essi potevano contare su una maggiore stabilità sociale.
Oggi viviamo, al contrario, in un continuo divenire; il presente ci appare sfuggente e ciò genera insicurezza e fragilità, costituendo terreno fertile per l’attecchimento delle più svariate credenze. Il nostro livello culturale, quantomeno
considerando la diffusione di un’istruzione di base, è incomparabile con quello
degli antichi; possiamo accedere a una quantità enorme di informazioni tramite
Internet, i giornali e le televisioni, eppure le statistiche recenti descrivono l’Italia come un paese in cui hanno larghissima diffusione le fantasie irrazionali di
persone che si affidano a maghi, cartomanti e altri ciarlatani.
Che effetto le fa, lei che ha avuto una formazione di stampo classico ed è uno
scrittore di successo, la profezia che vede la lingua italiana destinata a scomparire nel giro di trecento anni?
Più che di una profezia si dovrebbe parlare d’una proiezione. La lingua è uno
strumento in continua evoluzione: l’italiano, per es., non è che una trasformazione del latino. Oggi il latino è una lingua letteraria, appannaggio di esperti
e addetti ai lavori, ma fino a un secolo fa si potevano ancora trovare tesi di
laurea scritte nell’antica lingua di Roma. Le lingue scompaiono quando non
servono più; è stato anche il destino dei nostri dialetti locali, sostituiti nell’uso
pubblico nazionale dall’italiano. Allo stesso modo oggi è più comodo comunicare nel mondo utilizzando l’inglese, che è diventato la lingua franca come lo
è stato il greco nell’antichità. Mi auguro che la proiezione di cui parliamo sia
errata, perché una lingua è anche lo strumento di diffusione di una civiltà e
di una cultura. È in questo senso che va promossa la diversità, contrastando
le spinte alla globalizzazione e all’uniformazione. L’italiano è stato preservato
fin dal Medioevo da poeti e scrittori che l’hanno valorizzato come elemento
fondante dell’identità nazionale. Oggi la sua salvaguardia spetta agli italiani
stessi, e quel che riusciranno a fare dipende da quanto continueranno ad amare
il loro paese e la sua civiltà.
Consigli di lettura
Maria Gabriella Riccobono, Dante poeta-profeta, pellegrino, autore. Strutturazione espressiva della Commedia e
visione escatologica dantesca, Aracne, 2013.
www.parchiletterari.com