Artemisia Gentileschi in mostra a Parigi

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Artemisia Gentileschi in mostra a Parigi
Viviana Farina
Artemisia Gentileschi in mostra a Parigi
osservazioni a latere sugli anni napoletani dell’artista
e un’aggiunta per Antonio De Bellis
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Artemisia Gentileschi in mostra a Parigi
osservazioni a latere sugli anni napoletani dell’artista
e un’ aggiunta per Antonio De Bellis
Progetto grafico e web
Renato Caneschi
© Viviana Farina
10 aprile 2012
DOI 10.4482/11042012
www.ilseicentodivivianafarina.com
[email protected]
In copertina - Antonio De Bellis (qui attribuito), San Pietro visita
sant’Agata in carcere, Nevers, Museé Frédéric-Blandin (deposito
del Museo del Louvre) part.
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Artemisia Gentileschi in mostra a Parigi: osservazioni a latere sugli anni
napoletani dell’artista e un’ aggiunta per Antonio De Bellis
È
presso il piccolo e raffinato Musée Maillol di Parigi che è possibile visitare la seconda tranche della mostra Artemisia.
1593-1654, già ospitata dal Palazzo Reale di Milano (22 settembre 2011-22 gennaio 2012) e curata da Roberto Contini
e Francesco Solinas. Dopo le più o meno condivisibili polemiche di ambito italiano, questo secondo evento ha rivelato numerosi aspetti positivi. Non sono poche, infatti, le sorprese che si incontrano nel percorso espositivo, svolto sui due piani del
palazzetto in sale di grandi dimensioni e in due cabinet. I prestiti concessi permettono di riconsiderare l’autografia di opere
altrimenti discutibili; di vedere dal vivo quadri da sempre nascosti nei depositi museali o sinora noti solo in fotografia; di
mettere a confronto repliche con varianti dello stesso tema; di ragionare su coraggiosi accostamenti pittorici, nonché sullo
spinoso problema del funzionamento della bottega napoletana dell’artista.
So che riuscirò impopolare. Il mio giudizio si scontra con quello degli esegeti di una delle poche donne famose nel XVII
secolo, nondimeno con il gusto del pubblico, soprattutto femminile, che, di sicuro venerdì 30 marzo 2012, straripava dagli
spazi museali. Ragionando in puri termini visivi, non mi riesce di apprezzare le ignude taglie 48 fissate sulla tela. Ma il mio
disagio è il frutto di una deformazione generazionale post Twiggy, perché, a un tempo, mi rendo conto che la fisicità grintosa e
invadente di Artemisia rappresenta un unicum della sua arte, tesa a mostrare il nudo prima che a qualcuno venga in mente di
andarlo a guardare. Un punto di vista esclusivamente femminile, molto lontano dal voyerismo dei pressoché contemporanei
amanti del tema, Rubens e Giordano. Complessivamente, però, Artemisia Gentileschi – e questa mostra lo conferma – mi
appare un artista interessante e non geniale, tanto più interessante negli anni in cui si trovava sotto l’egida del padre, quando
le scorrettezze anatomiche e disegnative appaiono di molto contenute.
Frattanto non vi è dubbio che a ripagare il costo del biglietto sia bastato da solo il piccolo David con la testa di Golia su
lapislazzulo di Orazio (collezione privata), un vero gioiello da wunderkammern spettacolarmente esposto nel cabinet del secondo piano, giunto – credo – in extremis tanto da non rientrare in catalogo. In formato ridotto Gentileschi padre si prova a
posteriori in una eccelsa ripetizione con varianti del celeberrimo quadro Spada (la pensosa figura dell’eroe nuovamente rivolta
altrove piuttosto che al trofeo), sfruttando le venature della pietra per la nuvolaglia o lavorando in punta di pennello al brano,
omogeneo nei grigi, della testa di Golia stagliata sulle rocce scheggiate, ora sostitute del bosco dipinto nel prototipo.
Uno degli esperti di Artemisia ha già avuto modo di sollevare nel dettaglio le proprie perplessità a riguardo del dibattito attributivo e cronologico in relazione all’edizione milanese della mostra.1 Sono ora qui di seguito alcune osservazioni, elencate in
ordine di esposizione delle opere, con particolare riguardo ai quadri eseguiti dalla Gentileschi a Napoli o di specifico ambito
napoletano presentati per l’occasione.2
1) Di grande utilità si è rivelato il confronto tra le due edizioni della Betsabea al bagno di due distinte collezioni
private (cat. nn. 48-49), entrambe autografe; la prima, a quattro figure (contro le tre della seconda), firmata (fig.
1). Se si accetta, come è possibile, la cronologia al 1645/1650 proposta da Contini per quest’ultima tela, la stessa
avanzata per la Giuditta e Abra con la testa di Oloferne di Napoli (cat. n. 51), non si potrà non convenire sul fatto
che, lungo il quinto decennio, la pittura della Gentileschi registrò una mutazione in negativo.
Ben diverso era stato il suo apporto alla cultura artistica napoletana negli anni Trenta, con i vertici toccati, tra il 1635
e il 1638 incirca, nelle tele per Filippo IV di Spagna e il Duomo di Pozzuoli. Per motivi a noi oscuri, la partenza per
Londra nel 1638 rappresentò un ineludibile spartiacque creativo. Al rientro in città, in una data intorno al 1640, le
invenzioni pittoriche di maggiore qualità, seppure frutto del suo talento ideativo, risultano eseguite in collaborazione
materiale con alcuni maestri locali. Sta a rivelarlo, più che la testimonianza settecentesca di Bernardo De Dominici,
l’analisi dello stile di alcuni dipinti presenti in mostra, e di altri che abbiamo visto dal vivo in occasione delle esposizioni sui Gentileschi del 2001 e alla rassegna sul Barocco a Napoli del 2009-2010.3 E’ mia opinione che Artemisia
dové elaborare una strategia lavorativa al fine di reintrodursi più pianamente nel competitivo mercato artistico partenopeo. Non dové essere facile per lei barcamenarsi tra i clamorosi successi di Ribera e dello straniero Lanfranco,
G. Papi, Artemisia Gentileschi. Milan, “Burlington Magazine”, 153, 2011, 1305, pp. 846-847
D’ora in poi i rinvii bibliografici, qualora non diversamente indicati, si riferiscono a Artemisia.1593-1654. Pouvoir, gloire et passions d’une femme
peintre, cat. de la expo. sous la direction de R. Contini et F. Solinas, Paris 2012.
3
Il contributo di Stefano Causa (Risarcimento di Onofrio Palumbo, “Paragone”, 515-517, 1993, pp. 21-40), seppur suscettibile di giudizio nel campo
delle attribuzioni, ha avuto il merito indiscutibile di puntare dritto sull’analisi dell’interazione tra Artemisia e i napoletani. Con le dovute differenze, si
è mosso su questa linea R. Lattuada, Artemisia a Napoli, Napoli e Artemisia, in Orazio e Artemisia Gentileschi, catalogo della mostra (Roma-New YorkSaint-Louis) a cura di K. Christiansen e J.W. Mann, Milano 2001, pp. 379-391. Roberto Contini (Naples 1630-1654. “Ce qu’une femme sait faire”, in
Parigi 2012, pp. 127-128, e note 29-30) tende ora a ridimensionare in parte la questione.
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memore anche degli affanni imposti all’altro forestiero di stanza a Napoli, Domenichino, morto pressappoco quando
ella era rientrata in città.
La Betsabea al bagno firmata (fig. 1), poco innanzi menzionata, mi suggerisce intanto di proporre con cautela l’attribuzione all’Artemisia napoletana di un foglio appena passato sul mercato sotto anonimato (Genova, Wannenes,
29 novembre 2011, lotto 44). All’atto della vendita, si è genericamente suggerito di identificare in questa Maddalena penitente (matita nera e tracce di matita rossa, penna e inchiostro bruno, acquarello marroncino-grigio su carta,
280x190mm; fig. 2) la mano di un maestro di cultura rubensiana. Ma il tratto di contorno, pulito e continuo, e le
delicate acquarellature non inclinano verso una materia pittorica vibrante sotto i colpi della luce, bensì indirizzano
alla ricerca di volumi ben definiti. Come è noto, non conosciamo la maniera grafica della pittrice. Eppure tale
peculiare, elegante e voluttuosa, interpretazione del tema di Maria Maddalena ben potrebbe inserirsi nell’immaginario della Gentileschi, così come è per la generosa corporatura postraffaellesca della donna, la tipologia del volto, gli
elementi architettonici e paesaggistici. Affini, i primi, a quelli inscenati in tele quali la Betsabea al bagno, ma anche
al repertorio napoletano di Viviano Codazzi e Domenico Gargiulo, finanche nel dettaglio dei monocromi all’antica
inseriti alla base del pilastro; in altrettanta sintonia i secondi, evocanti gli squarci di vedute di Micco Spadaro e del
giovane Salvator Rosa
La Giuditta e Abra con la testa di Oloferne dei depositi del Museo di Capodimonte di Napoli (cat. n. 51) si
rivela autografa dopo la recente pulitura. Lo conferma il parallelo con l’altra versione del tema conservata al Museo
di Cannes, questa firmata (cat. n. 50), di cui si intraprenderà a breve il restauro
Esposto al fianco della Nascita del Battista del Museo del Prado del 1635/1637 (cat. n. 28), il contemporaneo
Sansone e Dalida delle collezioni Intesa Sanpaolo (cat. n. 39) appare indiscutibilmente della mano della pittrice,
ciò che elude i dubbi più volte espressi negli studi a favore del genovese Domenico Fiasella o del napoletano Onofrio
Palumbo o, meglio, Palomba4
Lo stile del primissimo momento partenopeo della Gentileschi, testimoniato dall’Annunciazione del Museo di Capodimonte, firmata nel 1630, non è invece documentato nelle sale del museo parigino. Sarebbe stato interessante,
ad esempio, affiancare alla pala di Napoli un’opera di devozione privata: una Santa Caterina d’Alessandria (olio su
tela, 89,5x74,9 cm; collezione privata; fig. 3), passata in asta (Christie’s New York, 6 aprile 2006, lotto 351) con il
corretto riferimento ad Artemisia appoggiato dal parere di Keith Christiansen, per la quale avanzerei una cronologia
sul 1628/1630
Di altissima qualità, La ninfa Corisca e il satiro di collezione privata, opera firmata (cat. n. 30), invita a riflettere,
più di quanto sia stato fatto sinora, sull’autonomia di linguaggio della Gentileschi in relazione al dominio di Ribera.
Nel possibile parallelo con i miti messi in scena dal valenzano nella seconda metà degli anni Trenta, e segnatamente
nel brano che più sollecita la tenzone, vale a dire il satiro, Artemisia dimostra l’adozione di un partito pittorico influenzato più dall’emiliano Lanfranco – già al suo fianco nella commissione di Pozzuoli - che dal tremendo impasto
dello Spagnoletto
Sembrerebbe fare eccezione la meno nota Susanna e i vecchioni della Pinacoteca di Bologna, solo di recente restituita alla pittrice, firmata (in basso a sinistra) e datata 1652 (cat. n. 56; fig. 4), se non fosse che il vigoroso impasto
pittorico caratterizzante la testa del vegliardo sul confine destro e il paesaggio su cui questo si staglia risulta così
addentrato nel gergo di Francesco Fracanzano da lasciare il dubbio che l’oramai maturo maestro napoletano vi abbia
messo le mani. Quanto alla figura di Susanna, essa si affianca, più che ai modi di Artemisia medesima, a quelli di
Onofrio Palomba (si pensi alle Maddalene frequenti nel repertorio della maturità del maestro).5 Il dipinto di Bologna potrebbe, così, anche identificarsi nella storia di Susanna venduta il 3 gennaio del 1653, che le carte d’archivio
lasciano intendere opera di cooperazione tra la pittrice e Palomba6
Spetta, invece, a un più generico collaboratore di bottega la porzione figurativa della Natura morta di volatili, carni
rosse e recipienti e due vivandiere del Museo di Valladolid (cat. n. 53). Lascia dubbiosi la proposta, avanzata per
primo da Stefano Causa, di riconoscere nella tela la mano di uno specialista di genere quale Giovan Battista Recco7,
in considerazione della cronologia sul 1640/1650 che si è d’accordo ad assegnare all’opera
La corretta nomenclatura del nome del maestro, riportata anche da Bernardo De Dominici, è attestata dai documenti d’archivio ritrovati da Domenico Antonio D’Alessandro e pubblicati da G. Porzio, Un rame di Onofrio Palomba a Dresda, in Percorsi di conoscenza e tutela. Studi in onore di Michele
D’Elia, a cura di F. Abbate, Napoli 2008, pp. 245-251.
5
Si guardi, ad esempio, alla poco citata Maddalena penitente di Palazzo Lanfranchi a Matera o alla tela di analogo soggetto esposta di recente alla
mostra di Napoli (N. Spinosa in Napoli 2009, I, p. 161, cat. n. 1.70)
6
R. Lattuada-E. Nappi, New Documents and some remarks on Artemisia’s Production in Naples and Elsewhere, in Artemisia Gentileschi: Taking Stock, Atti
del convegno (Saint-Louis Art Museum) a cura di J.W. Mann, Turnhout 2005, pp. 93, 98.
7
Cfr. S. Causa, La strategia dell’attenzione. Pittori a Napoli, Napoli 2007, pp. 139-140, fig. 70. Ha ragione lo studioso nell’affiancare alla
tela una seconda composizione, Interno di cucina con vivandiera che spenna un gallo (ivi, fig. 71), già nota a Luigi Salerno e Sebastian Schütze, in cui il
figurista è identificabile in un collaboratore di Massimo Stanzione.
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7) Il medesimo figurista della tela di Valladolid va riconosciuto pure in due delle donne ritratte nella Betsabea al bagno
di collezione privata (cat. n. 52). Si distacca per qualità l’ancella sita in piedi sull’estrema destra, per la quale, giustamente, Michele Nicolaci ha evocato il nome del giovane Bernardo Cavallino. Non a caso Roberto Contini insiste
sull’intesa che dovette esistere tra quest’ultimo pittore e la Gentileschi, in via del tutto similare a quanto istituito
con Onofrio Palomba.8 Una validissima testimonianza del lavoro a quattro mani con Cavallino – a ragione sempre
Contini lo sostiene da anni – è rappresentata dal Trionfo di Anfitrite della National Gallery di Washington, in cui
il napoletano ha svolto la parte del leone, lasciando ad Artemisia la sola figlia di Nereo9
8) La celeberrima Giuditta e Oloferne del Museo di Capodimonte (cat. n. 8) è da tenere più convincentemente sotto
il nome di Orazio, come sostenuto da Spike e più di recente da Bissel10
9) La Danae su rame del Saint-Louis Art Museum, schedata da Judith Mann quale opera del 1612 incirca (cat. n. 6),
si colloca più convincentemente sul 1620/1622, come proposto da Francesco Solinas11
10)Meritoria la parete che vede affiancate la Giuditta e Oloferne della collezione Lemme, di combattuta paternità tra
Gentileschi padre e figlia (cat. n.1), insieme con le tre variazioni sul tema della Madonna del latte di pertinenza
della Galleria Spada (cat. n. 4), di Palazzo Pitti (cat. n. 9) e di una raccolta privata (cat. n. 3). Recentissima aggiunta, questa ultima, al corpus di Artemisia, con una proposta di datazione sul 1608-1609, anteriore al 1610 incirca
e al 1618-1619 suggeriti per gli altri due esemplari appena menzionati, della quale sembra giusto valorizzare passaggi
di indubbia qualità, quali la bionda capigliatura, il drappeggio sul petto della Vergine, il piede destro del Bambino.12
Le tele Spada e di Palazzo Pitti le avevamo intanto già viste riunite nel 2010, sebbene con una distinta seriazione
cronologica e con qualche dubbio circa l’autografia dell’esemplare palatino avanzato da Stefano Casciu13
11)Altrettanto rivelatore è il raffronto tra il Ritratto di gonfaloniere delle Collezioni Comunali d’Arte di Bologna,
sino al 1964 recante sul verso l’iscrizione “artemisia gentilesca/ faciebat romae 1622” (cat. n. 16), e un’opera che
sembra dipenderne nella tipologia. Mi riferisco al Ritratto di gentiluomo con cane proveniente dalla Galleria
Whitfield di Londra (cat. n. 17), difeso come autografo di Simon Vouet da Erich Schlelier, Pierre Rosemberg, dai
curatori Contini e Solinas, come anche da Dominique Jacquot, ma avversato da un altrettanto esperto del problema
che non ritrovo citato nella relativa scheda di catalogo di Yuri Primarosa. Philippe Malgouyres pensa a Charles Mellin.14 La fattura dei bianchi, il pur brillante ritratto del carlino e, di contro, la debole mano destra dell’effigiato non
trovano ad ogni modo facile riscontro nel catalogo di Simon. E’ bene, poi, ribadire che non ha fondamento alcuno
l’ipotesi di identificare il ritrattato in uno dei membri della famiglia Doria, mecenati e ospiti dell’artista francese a
Genova nel 1621.15 Ho già avuto modo di far presente a Clovis Whitfield – quando mi ha sollecitata sulla questione
– che l’età dell’uomo dipinto non può coincidere con quella che avrebbero dovuto dimostrare in quell’anno Marcantonio e Giovan Carlo Doria, nati rispettivamente nel 1572 e nel 157616
12)La graziosa Santa Lucia di collezione privata, ben nota da tempo de visu ai conoscitori di Seicento napoletano, non
R. Contini in Parigi 2012, p. 127.
Ibidem. Anche per Stefano Causa (1993, p. 27 e fig. 24) l’autore della tela è Cavallino, coadiuvato però nella figura femminile da Onofrio Palomba
piuttosto che dalla Gentileschi. Più di recente l’assoluta “unità stilistica dell’intera composizione”, opera del solo Cavallino, è stata, invece, sostenuta da
N. Spinosa in Ritorno al Barocco. Da Caravaggio a Vanvitelli, catalogo della mostra a cura di N. Spinosa, Napoli 2009, I, pp. 198-199, cat. n. I.96, con
letteratura precedente.
Osservo a margine che è del tutto insostenibile l’attribuzione al medesimo Bernardo Cavallino di un secondo Trionfo di Anfitrite (Roma, collezione
privata), forzatamente identificato in un Trionfo di Galatea al fine di stabilire un legame con il quadro ordinato ad Artemisia da Don Antonio Ruffo di
Messina nel 1649, che a Napoli abbiamo studiato al fianco della tela di Washington (N. Spinosa, ivi, pp. 196-197, cat. n. 1.95; cfr. anche R. Contini
in Parigi 2012, p. 127). Il dipinto è per me opera di Onofrio Palomba. I confronti si rintracciano in due testi celebri di Onofrio, quali le tele di Santa
Maria della Salute a Napoli. Nonostante le perplessità sollevate più volte negli studi (cfr. N. Spinosa, ivi, pp. 158-160, cat. n. 1.69, con bibliografia;
ma si veda ora N. Spinosa, Pittura del Seicento a Napoli. Da Caravaggio a Massimo Stanzione, Napoli 2010, pp. 357-358, cat. n. 341, per un nuovo,
confuso e non condivisibile, parere circa attribuzioni e datazioni), i dipinti, osservati ad altezza uomo e a restauro finito, si confermano entrambi di
un’unica mano, sebbene eseguiti in due momenti distinti. I pagamenti del dicembre del 1640 e del gennaio del 1641, ad essi generalmente connessi,
devono riferirsi alla sola Adorazione dei pastori, stilisticamente confacente a questo momento; i modi dell’Annunciazione depongono invece a favore
del periodo 1645-1650, in parallelo con la Venere scopre la morte di Adone del Museé Granet di Aix-en-Provence (riuscito è il confronto tra la
figura della dea e l’angelo annunziante) e con il San Gennaro implora la salvezza della città di Napoli alla Santissima Trinità della chiesa della
Trinità dei Pellegrini, del 1652 incirca.
10
J.T. Spike, Review, Artemisia, a cura di Roberto Contini e Gianni Papi, Firenze Casa Buonarroti, in “Burlington Magazine”, CXXXIII, 1991, p. 732;
R.W. Bissel, Orazio e non Artemisia? Lo studio dei Gentileschi verso il 1610, in Artemisia Gentileschi 2005, pp. 26-28 e nota 63.
11
F. Solinas, Rome 1620-1627. Le retour, in Parigi 2012, p. 89 e fig. 19
12
La espunge Papi 2011.
13
Cfr. G. Papi, S. Casciu in Caravaggio e caravaggeschi a Firenze, catalogo della mostra a cura di G. Papi, Firenze 2010, rispettivamente, cat. nn. 23
(1613-1615) e 28 (1613-1615).
14
P. Malgouyres, Charles Mellin et Simon Vouet en Italie, in Simon Vouet en Italie, sous la direction de O. Boinfait & H. Rousteau-Chambon, Rennes
2011, p. 81 e fig. 8 (« attribué a »), con una datazione al 1624-1626.
15
Old masters in a modern light, London, Whitfield Fine Art, 2009.
16
V. Farina, Giovan Carlo Doria promotore delle arti a Genova nel primo Seicento, Firenze 2002, pp. 23, 28.
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5
Fig. 1 - Artemisia Gentileschi, Betsabea al bagno, collezione privata (firmata), 1645/1650
Fig. 2 - Artemisia Gentileschi?, Maddalena penitente (Genova, Wannenes, 29 novembre 2011, lotto 44), 1650 circa
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Fig. 3 - Artemisia Gentileschi, Santa Caterina d’Alessandria, collezione privata (già Christie’s New York, 6 aprile 2006, lotto 247),
1628/1630
Fig. 4 - Artemisia Gentileschi, Onofrio Palomba e Francesco Fracanzano (?), Susanna e i vecchioni, Bologna, Pinacoteca Nazionale
(firmata “Artemisia Gentileschi/ 1652”)
Fig. 5 - Francesco Fracanzano, Ritratto di frate, Dorotheum Wien, 12 ottobre 2011, II, lotto 749, 1645/1650
Fig. 6 - Francesco Fracanzano, La Buona ventura, collezione privata (già Parigi, Galerie Canesso), 1645 circa, part.
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supporta il giudizio di autografia (cat. n. 29). Significativamente eseguita da chi era ben addentrato nel linguaggio
della maestra, essa costituisce un interessante tassello per la ricostruzione della prima attività di Onofrio Palomba al
fianco di Artemisia, ciò che dovette verificarsi ben prima del 1653 attestato dai documenti d’archivio. Con questa
tela siamo infatti sul 1641, come dimostra il confronto con la Vergine dell’Adorazione dei Pastori di Santa Maria
della Salute17
13) Il prezioso rametto con il Giudizio di Paride dell’Accademia di Vienna (cat. n. 45), catalogato come “attribuito” a
Onofrio Palomba, presenta una qualità tale da rendere arduo sciogliere il giudizio a favore di Onofrio o della Gentileschi
in persona.18 E tuttavia il mirabile risultato di cui dà prova il Palomba nel San Gennaro implora la salvezza della città
di Napoli alla Santissima Trinità della chiesa della Trinità dei Pellegrini, del 1652 incirca, permette di ipotizzarlo
quale autore del rame. Da scartare definitivamente è, viceversa, il dubbio a favore di Pacecco De Rosa, a cui l’opera era
riferita in precedenza
14) Il Sansone con la mascella d’asino di collezione privata (cat. n. 34) non è quadro di ambito napoletano
15) La più debole Sant’Apollonia del Museo Storico dell’Istituto Suor Orsola Benincasa, “attribuita”ad Onofrio Palomba (cat. n. 43; fig. 7), rappresenta, invece, un’aggiunta al raro repertorio a figure grandi del napoletano Carlo Coppola,
come inclinano a credere e la fissità dello sguardo e l’imbambolata fisionomia del volto della santa, e i caratteristici e
corposi bianchi delle maniche. Si confronti la martire con i protagonisti a formato ridotto che popolano composizioni
note di Coppola, quale, ad esempio, il Martirio di san Gennaro e i compagni alla Solfatara che era della Galleria
Canesso di Parigi
16) Presentato come “attribuito” a Francesco Guarini da Solofra, il San Pietro visita sant’Agata in carcere del Musée
Frédéric-Blandin di Nevers (cat. n. 33; fig. 8) si è rivelato una delle più belle sorprese della mostra. La possibile paternità di Guarini, suggerita negli anni Settanta da Jean Marie Bruson, era sembrata la più plausibile anche a chi scrive
quando avevo analizzato il dipinto sulla base del vecchio bianco e nero, conservato presso la Documentation des Peintures del Museo del Louvre sotto la dizione di Anonimo napoletano del XVII secolo. Arnauld Bréjon e Nathalie Volle
avevano messo in luce l’identità di un manufatto a metà strada tra Guarini e Cavallino, mentre Sebastian Schütze aveva
suggerito la paternità di Niccolo De Simone, appoggiato poi da Riccardo Lattuada.19 La tela è invece un autografo di
Antonio De Bellis, colto in un momento di accorata sintonia con Bernardo Cavallino, evocato nelle morbide pieghe del
manto dell’apostolo e nella schonfeldiana sagoma dell’angelo. Il confronto con un testo assestato nel catalogo giovanile
di Bernardo, quale un San Pietro di collezione privata (fig. 9), basta da solo ad indicare questa singolare armonia tra
i due maestri e, a un tempo, a scartare l’ipotesi di risolvere il quesito di Nevers a favore di Cavallino in persona, come
suggerito in passato, oralmente, da Raffaello Causa. Né l’impasto pittorico del quadro francese si mostra dal vivo equiparabile, per granulosità di marca riberesca, a quello tipico di Francesco Guarini. E’, per contro, possibile rintracciare
i paralleli più convincenti per i brani delle mani affusolatissime e uncinate della santa, del profilo lambito dall’ombra,
come del rigoglioso sistema di pieghe nel catalogo del maturo Antonio De Bellis, tra il 1645 e il 1650, quando possono
trovare posto il Cristo e la Samaritana al pozzo (Londra, collezione privata; fig. 11) e la Santa Caterina d’Alessandria della Galerie Canesso di Parigi.20 Con la tela di Nevers siamo invece sul 1640/1645, una datazione che spetterebbe meglio anche ad un terzo quadro, già da altri definito “il più cavalliniano dei dipinti noti di Antonio De Bellis“.21
Dal canto suo Roberto Contini, con cui ho ora la possibilità di discutere l’attribuzione, mi rivela di essere giunto parallelamente al nome di De Bellis.
Per l’occasione, in questa medesima congiuntura cavalliniana di Antonio, propongo di inserire anche un San Pietro
liberato dall’angelo (olio su tela, 76x51 cm), un tempo presso la galleria di Silvano Lodi senior (fig. 12) con il comprensibile riferimento a Bernardo Cavallino, segnatamente per la tipologia dei soldati addormentati. Ma l’angelo dalle
lunga braccia e dal volto meno caratterizzato si inserisce meglio nel repertorio di De Bellis, tanto più che il modello
adottato per l’apostolo ripropone quello dipinto a mezzo busto nella tela di Nevers.
Colgo a margine l’occasione per esprimere un giudizio sulla Betsabea con le ancelle del Museo di Columbus, rivisto di recente a Napoli, una delle
tele che si suole ricollegare alla testimonianza di Bernardo de Dominici, che la assegna alla collaborazione di Artemisia, Viviano Codazzi e Micco Spadaro (cfr. B. Daprà in Napoli 2009, I, pp. 148-149, cat. n. 1.62, con bibliografia). Se l’edificio al fondo risulta concretamente eseguito nello stile del
bergamasco, la mano del Gargiulo non è riconoscibile in alcun punto della tela. E’ Onofrio Palomba l’autore delle ancelle e dei brani di natura morta,
mentre autografa della Gentileschi si scopre la bella Betsabea, figura pressoché sovrapponibile all’Anfitrite del Trionfo di Washington (cfr. supra al punto 7 e nota 9), come a quella della giovane che siede a destra nel Lot e le figlie del Toledo Museum of Art. In questo ultimo quadro ad Artemisia si
affianca Bernardo Cavallino - ha ragione Nicola Spinosa (cfr. J. Mann in Roma-New York-Saint Louis 2001, pp. 408-409, cat. n. 78, con bibliografia)
-, piuttosto che il Palomba (Causa 1993, p. 26 e fig. 23): inconfondibile dei modi di Bernardo è almeno il gioco di velature della casacca di Lot e la
bruna, intensa testa della donna di sinistra. Alle tele di Columbus e di Toledo ben si adatta una cronologia tra il 1640 e il 1645 incirca.
18
Porzio 2008, p. 245, propone il nome di Artemisia.
19
Per queste notizie A. Brejon de Lavergnée, N. Volle, Musées de France. Répertoire des peintures italiennes du XVIIe siècle, Paris 1988, p. 190, con
bibliografia; R. Lattuada, Francesco Guarino da Solofra, Napoli 2000, p. 264, cat. G27, con letteratura.
20
Cfr. N. Spinosa in Napoli 2009, I, pp. 202-204, cat. nn. 1.99-1.100, con bibliografia.
21
Si tratta di una Sant’Orsola in collezione privata (cfr. Spinosa, ivi, pp. 208-209, cat. n. 1.104, con una cronologia al 1645-1650).
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10
Fig. 7 - Carlo Coppola (qui attribuito), Sant’Apollonia, Napoli,
Museo Storico dell’Istituto Suor Orsola Benincasa, 1640/1645
Fig. 8 - Antonio De Bellis (qui attribuito), San Pietro visita
sant’Agata in carcere, Nevers, Museé Frédéric-Blandin (deposito del
Museo del Louvre), 1640/1645
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Fig. 9 - Bernardo Cavallino, San Pietro, collezione privata, 1638/1640
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Fig. 6a - Antonio De Bellis (qui attribuito), San Pietro visita sant’Agata in
carcere, Nevers, Museé Frédéric-Blandin (deposito del Museo del Louvre) part.
Fig. 10 - Antonio De Bellis, Sacrificio di Isacco, Bitonto, Galleria Nazionale
della Puglia, 1640/1645, part. della testa di Abramo
Fig. 6b - Antonio De Bellis (qui attribuito), San Pietro visita sant’Agata in
carcere, Nevers, Museé Frédéric-Blandin (deposito del Museo del Louvre) part.
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Fig. 11 - Antonio De Bellis, Cristo e la Samaritana al pozzo, Londra, collezione privata, 1645/1650
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Fig. 12 - Antonio De Bellis (qui attribuito), Liberazione di san Pietro, attuale ubicazione ignota (già presso galleria
Silvano Lodi senior), 1640/1645
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pubblicato sul sito www.ilseicentodivivianafarina.com il 11/04/2012
DOI 10.4482/11042012
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