Communications Decency Act - Facoltà di Giurisprudenza
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Communications Decency Act - Facoltà di Giurisprudenza
Stampa documento visualizzato 09-02-2010 20:43:37 Pagina 1 di 5 CORTE SUPREMA DEGLI STATI UNITI; sentenza, 26-06-1997 *** «Communications Decency Act» per indecenza ciberspazio. 1. - A conti fatti, la tentazione di sdrammatizzare la controversia costituzionale sul Communications Decency Act (CDA) potrebbe prendere il sopravvento. Alla Corte suprema americana, per motivare il conflitto tra la legge federale ed il primo emendamento, è bastato ribadire, senza sostanziali revisioni, i propri precedenti sui limiti alla libertà di diffusione di materiali osceni od offensivi. Nell’opinion di Stevens (come nelle motivazioni dei primi giudici), la responsabilità della («grave», «intollerabile») violazione costituzionale è attribuita ad un’improvvisata incursione parlamentare, a causa della quale le disposizioni invalidate sono state incollate al corpo di un testo di legge ben più mediato, la c.d. deregulation delle telecomunicazioni del 1996. La corte ha, inoltre, sancito che non sono applicabili al ciberspazio i criteri per il controllo di costituzionalità delle leggi, ai sensi del primo emendamento, formulati per altri mezzi di comunicazione, senza però al tempo stesso definire standards specifici per Internet. La Corte suprema ha così avallato, pressoché integralmente, il tragitto interpretativo seguito dalla corte distrettuale (frustrando insinuazioni – e speranze – dei partigiani del CDA, secondo i quali sull’esito del primo attacco alla costituzionalità della legge aveva pesato la scelta di un foro gradito ai ricorrenti). Ma la fragilità dell’estemporanea iniziativa accolta dal congresso ha consentito di rinviare a tempi più maturi i problemi più controversi connessi all’individuazione di una soglia costituzionale di tolleranza per l’intervento legislativo nel ciberspazio. Stevens è perciò dispensato dall’obbligo di replicare alla più radicale tra le tesi scaturite dal minuzioso fact finding del collegio della Pennsylvania: la perentoria conclusione del giudice Dalzell (sulla quale però gli appellati, con calcolata prudenza, hanno evitato di insistere dinanzi alla Suprema corte), secondo cui il primo emendamento vieterebbe qualunque regolamentazione legislativa, su Internet, dei contenuti di forme di espressione costituzionalmente protette. Tesi quanto si vuole discutibile, ma a suo modo coerente con l’analisi delle specifiche caratteristiche del nuovo mezzo di comunicazione: Internet – nella descrizione del giudice Dalzell – è uno straordinario strumento di democratizzazione delle comunicazioni che, grazie a flessibilità, bassi costi di accesso e offerta abbondante e in rapida crescita, ha creato «il più partecipativo mercato delle comunicazioni di massa che il mondo abbia mai conosciuto». Meritevole, perciò, di una protezione costituzionale di livello almeno equivalente a quella «insormontabile barriera» che il primo emendamento ha eretto tra istituzioni di governo e stampa, per quanto quest’ultima non riesca a garantire la facilità di accesso e il pluralismo che invece il ciberspazio è in grado di assicurare. Si trattava naturalmente di una assolutizzazione (forse anche rischiosa, ad esplorare con attenzione le connessioni tra teoria democratica e speech protection; cfr., per es., WHITE, The First Amendment Comes of Age: The Emergence of Free Speech in Twentieth-Century America, 95 Mich. L. Rev., 299 (1996)), che però aveva il merito di gettare il cuore oltre la siepe, disincagliando il problema della libertà di espressione nel ciberspazio, da quella logica dell’analogizing (a cosa sono meglio assimilabili i vari sistemi di comunicazione via Internet: radio-televisione? volantinaggio? stampa? telefono? o addirittura autostrade e ferrovia – cfr. A.L.A. c. Pataki, S.D.N.Y. 20 giugno 1997, in cui, in forza della interstate commerce clause, non è stata riconosciuta allo Stato di New York la legittimazione a disciplinare le «superstrade dell’informazione») che caratterizza l’infanzia della Cyberlaw. Una fase nella quale le impalcature della giurisprudenza del primo emendamento progettate per i media tradizionali sostengono ancora, con evidenti difficoltà, la rivoluzione dell’era digitale (ma i segni di cedimenti imminenti si manifestano, per esempio, nei tentativi di nuove categorizzazioni: come quella che contrappone i mass agli interactive media; v. BERMAN & WEITZNER, Abundance and User Control: Renewing the Democratic Heart of the First Amendment in the Age of Interactive Media, 104 Yale L.J. 1619, 1629 (1995): «I media interattivi si distinguono dai mass media per il fatto che permettono agli utenti un notevole livello di controllo dei contenuti accessibili . . . una corretta comprensione dei media interattivi obbliga a concludere che qualunque regolamentazione pubblica diffusa dei contenuti non è appropriata e vìola la fondamentale garanzia della libertà di parola assicurata dal primo emendamento»; v. anche JOHNS, The First Amendment and Cyberspace: Tryng to Teach Old Doctrines New Tricks, 64 U. Chi. Legal Forum 653 (1996); SUNSTEIN, The First Amendment in Cyberspace, 104 Yale L.J. 1757 (1995)). 2. - Sarebbe tuttavia un errore sottovalutare le ripercussioni di questa pronunzia: la IL FORO ITALIANO 1987 - settembre 2009 (c) 2009 Zanichelli editore S.p.A. - Soc. Editrice de Il Foro Italiano Stampa documento visualizzato 09-02-2010 20:43:37 Pagina 2 di 5 mancata definizione di standards specifici per il ciberspazio (un temporeggiamento che era comunque ragionevole auspicare, considerata complessità e velocità di evoluzione del nuovo medium; cfr. Souter in Denver Area Educational Televisium Consortium v. F.C.C., 518, U.S., 116 S. Ct. 2374, 1996) è accompagnata dall’esplicito riconoscimento che Internet merita senz’altro un livello di tutela costituzionale della libertà di espressione superiore a quello garantito al sistema radio-televisivo. Proiettata nel processo evolutivo della common law adjudication, che chiarificherà per approssimazioni progressive il significato dei principî costituzionali nel ciberspazio, questa indicazione è destinata a condizionare profondamente gli sviluppi a venire (disciplinando, frattanto, l’impeto interventista dei legislatori statali: dodici leggi approvate tra il 1995 e il 1996, di cui due, quella della Georgia e di New York, già dichiarate incostituzionali; v. ACLU v. Miller, N.D.Ga., 20 giugno 1997, A.L.A. v. Pataki, cit.). Reno v. ACLU, con il decisivo supporto dell’accurata indagine della corte distrettuale, imporrà al congresso e ai singoli Stati – accusati di scarsa familiarità tecnica con il nuovo mezzo – un approccio normativo più analitico al ciberspazio, e al tempo stesso imprimerà una precisa direzione agli orientamenti legislativi, spostando l’asse dell’intervento regolatore dal versante dell’offerta a quello dell’utenza. Non già speech restrictions a carico di coloro che immettono contenuti in rete, ma potenziamento legislativamente assistito delle capacità di controllo dei contenuti accessibili da parte di famiglie e istituzioni pubbliche (con la conseguente definizione di sistemi coattivi di classificazione ed etichettazione dei materiali, che è già la nuova frontiera dello scontro politico-costituzionale: cfr. il rapporto della A.C.L.U., Fahrenheit 451.2: Is Cyberspace Burning?, http://www.aclu.org). Semplice tappa d’esordio per i problemi costituzionali del ciberspazio, dunque, quest’incidente legislativo: un passo azzardato del congresso americano, risoltosi in una celebrazione – sotto le insegne del primo emendamento – delle potenzialità del nuovo mezzo di comunicazione. Una vicenda che – se si vuole tentare un accostamento che serva a meglio inquadrare il vero problema affrontato dalla corte – richiama alla mente Hustler Magazine v. Falwell, 485 U.S. 46, 1988 (proprio il caso di recente popolarizzato dal Larry Flynt di Milos Forman). Anche allora fu invocato il precedente di Pacifica per neutralizzare l’azione immunitaria del primo emendamento, nel caso di specie a protezione del diritto di satira. La corte si rifiutò, all’unanimità, di assecondare il tentativo: «Buona parte della società americana . . . proprio non crede in quella parte della tradizione del primo emendamento – scrisse in proposito Raymon Smolla (Jerry Falwell v. Larry Flynt: The First Amendment on Trial, University of Illinois Press, (1988)) – secondo la quale l’indecente non osceno merita piena tutela costituzionale. Per molti F.C.C. v. Pacifica non dovrebbe rappresentare una speciale eccezione per la radio alla consueta interpretazione del primo emendamento: dovrebbe piuttosto diventare la regola ordinaria del primo emendamento. Tale espansione di Pacifica era precisamente ciò che Jerry Falwell sperava di persuadere la Corte suprema ad accettare». Ed è proprio un’espansione – anzi: una dilatazione sino ai limiti estremi – del divieto di diffusione di materiali «indecenti» la manovra legislativa alla base del CDA, fallita per intervento delle corti. Sarebbe certo legittimo sperare che il parziale accoglimento, da parte della Corte suprema, dell’istanza di applicazione della severability clause, evitando di estendere la pronunzia di incostituzionalità ai divieti penali dell’osceno (che peraltro non erano stati impugnati), riesca a sedare gran parte delle polemiche che hanno avvelenato questa controversia: l’osceno non è costituzionalmente protetto, e il giudizio sulla legittimità costituzionale della legge non ha tecnicamente neanche sfiorato il problema della protezione dei minori dalla pornografia (neppure nel senso estremamente limitato in cui, secondo il c.d. test di Miller – v. Miller v. California, 413 U.S. 15, 1973 – i materiali pornografici potrebbero teoricamente non essere ritenuti osceni in alcune comunità locali, poiché il carattere «globale» del nuovo medium, che non consente di circoscrivere ad una particolare localizzazione geografica la diffusione delle manifestazioni del pensiero, impedisce la propagazione dei parametri di valutazione delle comunità locali più «tolleranti»; cfr. anche EGAN, Virtual Community Standards: Should Obscenity Law Recognize the Contemporary Community Standard of Cyberspace, 30 Suffolk U.L. Rev. 117 (1996); per qualche supplementare indicazione sulla contrapposizione tra le nozioni di obscenity ed indecency nella giurisprudenza americana sulla libertà di parola rinviamo alla traduzione integrale della sentenza della corte distrettuale, in Riv. dir. ind., 1997, II, 228, e alla nostra nota, ACLU c. Reno: il primo emendamento nell’era di Internet, ibid., 296; v., anche, CORN-REVERE, New Age Comstockery, 4 Common Law Conspectus 173 (1996); FRIEDMAN, Keeping Sex Safe on the Information Superhighway: Computer IL FORO ITALIANO 1987 - settembre 2009 (c) 2009 Zanichelli editore S.p.A. - Soc. Editrice de Il Foro Italiano Stampa documento visualizzato 09-02-2010 20:43:37 Pagina 3 di 5 Pornography and the First Amendment, N.Y.L. Sch. L. Rev., 1025 (1996); SHIFF, The Good, the Bad and the Ugly: Criminal Liability For Obscene and Indecent Speech on the Internet, 22 William Mitchell L. Rev. 731 (1996)). 3. - Per capire quanto «dirompenti», per citare la prosa della corte distrettuale, sarebbero stati gli effetti sulla libertà di espressione di una tale, macroscopica dilatazione del dominio del divieto dell’indecenza, basti pensare alla collocazione costituzionale che sarebbe stata riconosciuta al ciberspazio in caso di esito positivo della judicial review del CDA: Internet sarebbe divenuto il mezzo di comunicazione in assoluto meno protetto dalle garanzie del primo emendamento. Risultato ovviamente paradossale. Se ad un estremo di un ipotetico spettro di opzioni costituzionali collochiamo tesi del genere di quella del giudice Dalzell, che sostengono, proprio in considerazione delle caratteristiche tecnologiche del medium, la radicale inconciliabilità con il primo emendamento di qualunque regolamentazione nel ciberspazio dei contenuti di forme di espressione costituzionalmente protette, ed all’estremo opposto il regime costituzionale di radio e televisione, nel quale le modalità di comunicazione proprie del mezzo giustificano le più rilevanti restrizioni della libertà di espressione costituzionalmente tollerate, ecco che il regime proposto dal congresso avrebbe situato Internet addirittura al di là di questo secondo limite: poiché per le comunicazioni «indecenti» nel ciberspazio contemplava un divieto penale (e non già una mera regolamentazione amministrativa) assoluto (mentre la regola di Pacifica prevede per la radiofonia una semplice interdizione di particolari fasce orarie di trasmissione). Tra i due citati estremi, la corte mostra di essere molto sensibile alle suggestioni indotte dal primo approccio ed assai rigida con le minacce suscitate dal secondo. Lo attesta la grande attenzione – affiora nella opinion di Stevens, e ha addirittura dominato la trattazione orale – dedicata all’intreccio, che la tecnologia di Internet rende assai intricato, tra libertà di espressione e libertà di comunicazione. Stevens si chiede come l’interesse alla protezione dei minori possa giustificare una condanna penale per il genitore che trasmette al figlio, per posta elettronica, informazioni sui metodi contraccettivi. E la corte, per gran parte della discussione orale, ha sollecitato gli appellanti a chiarire le ragioni che renderebbero costituzionalmente plausibile un divieto penale, per esempio, di conversazioni indecenti tra minori su Internet (la mera scurrilità del linguaggio è all’origine, con Pacifica, del controverso standard dell’indecenza), ma non un colloquio telefonico della stessa natura, o anche una chiacchierata per strada o in un parco pubblico. (Riecheggia qui il problema della dubbia possibilità di estensione ad Internet della c.d. public forum doctrine – v. Perry Education Ass’n v. Perry Local Educators’ Ass’n, 460 U.S. 37 (1983) –; sul punto, cfr. GOLDSTONE, The Public Forum Doctrine in the Age of the Information Superhighway, 46 Hastings L.J. 335 (1995); TAVISS, Dueling Forums: the Public Forum Doctrines Failure to Protect the Electronic Forum, 60 U. Cin. L. Rev. 757 (1991)). Tutti interrogativi generati dalle caratteristiche tecnologiche delle modalità di comunicazione di Internet: miracolo della tecnologia che, grazie a esiguità delle barriere economiche all’ingresso e interattività, proietta nel macrocosmo virtuale la libertà di comunicare e manifestare il proprio pensiero comunemente considerata pressoché intangibile nei microcosmi degli spazi privati. 4. - La soluzione oltranzista affrettatamente sposata dal congresso americano ha risparmiato alla corte l’imbarazzo di compiere scelte difficili e quasi certamente premature. Il fulcro della trattazione è facilmente identificabile. Il governo ha tentato di mettere in risalto gli elementi normativi che, nelle intenzioni del legislatore, dovevano limitare l’applicazione dei divieti a comunicazioni espressamente destinate ai minori (il requisito c.d. della «consapevolezza» delle trasmissioni). Questa difesa, però, non si concilia con le caratteristiche tecniche del mezzo, poiché non è possibile discriminare gli utenti della maggior parte dei sistemi di comunicazione di Internet sulla base dell’età (ovvero, laddove questo è possibile, cioè nel World Wide Web, i costi dei sistemi di controllo sarebbero troppo elevati per singoli ed enti senza scopo di lucro). Quindi, i divieti del CDA, nei fatti, avrebbero reso penalmente illecite comunicazioni tra adulti costituzionalmente protette. La dichiarata finalità della protezione dei minori dall’accesso a materiali nocivi, nei termini fissati dal congresso, sarebbe stata conseguita al prezzo di un «eccessivo sacrificio» di diritti garantiti agli adulti dal primo emendamento (su questo punto converge la concurring opinion della ÒConnor). È inoltre plausibile ritenere che divieti così indeterminati avrebbero colpito forme di espressione il cui contenuto è protetto anche nei riguardi dei minori (qui il supremo collegio si divide, «gli appellati non offrono esempi di materiali» del genere, sostiene il dissent. Vale la pena rilevare che, in realtà, gli atti di causa offrono numerosissimi esempi di materiali virtualmente indecenti, ma non privi di valore sociale «redimente»: IL FORO ITALIANO 1987 - settembre 2009 (c) 2009 Zanichelli editore S.p.A. - Soc. Editrice de Il Foro Italiano Stampa documento visualizzato 09-02-2010 20:43:37 Pagina 4 di 5 stabilire, nel merito, se il valore sociale, artistico o educativo di un determinato documento giustifichi l’applicazione delle garanzie del primo emendamento anche nei confronti dei minori, è una questione di fatto. La valutazione espressa nella dissenting opinion è un’indiretta, sintomatica conferma di quanto fondate fossero le apprensioni sulle possibili applicazioni giudiziali della disciplina invalidata). L’intelaiatura formale che sorregge i rilievi della corte e giustifica le conclusioni di illegittimità costituzionale è lo strict scrutiny test: gli effetti restrittivi del CDA sui diritti garantiti agli adulti dal primo emendamento non sono costituzionalmente tollerabili «se alternative meno restrittive sarebbero state almeno altrettanto efficaci nel conseguire le legittime finalità alle quali la legge era preordinata». Criterio di valutazione non irreprensibile: anzi, secondo alcuni, francamente fuorviante e non idoneo a governare i futuri perfezionamenti della dottrina del primo emendamento per il ciberspazio (la questione è ampiamente trattata da VOLOKH, Freedom of Speech, Shilding Children, and Transcending Balancing, in corso di pubblicazione su 1997 Supreme Court Review; v. anche: VOLOKH, Freedom of Speech, Permissible Tailoring and Transcending Strict Scrutiny, 144 U. Penn. L. Rev. 2417, 2418-24 (1996)). La massima enunciata, tuttavia, non è una rappresentazione fedele delle valutazioni operative alle quali la corte si è effettivamente attenuta. Le conclusioni di incostituzionalità sono il risultato di un overbreadth inquiry: la latitudine applicativa delle norme invalidate era tale da determinare «una soppressione ingiustificatamente ampia di forme di espressione destinate agli adulti» (ed è corretto obiettare – come fa VOLOKH, cit. – che misure meno restrittive non potevano avere esattamente la medesima efficacia degli indiscriminati divieti dichiarati illegittimi). L’interesse alla protezione dei minori poteva, perciò, essere salvaguardato da misure alternative che (sebbene non altrettanto efficaci nell’isolare i minori da materiali indecenti) non avrebbero così diffusamente colpito forme di espressione senz’altro meritevoli di tutela costituzionale (del resto è questa la logica cui è ispirato il principio di Bolger, continuamente richiamato sia dalla Corte suprema sia dalla corte distrettuale, secondo cui lo Stato non può «costringere la popolazione adulta . . . a leggere . . . soltanto ciò che è ritenuto appropriato anche per i bambini»: Bolger v. Youngs Drug Products Corp., 463 U.S. 60, 74-75, 1983). Dalla corte non si poteva pretendere una risposta sino in fondo persuasiva e men che mai definitiva: suo compito era quello di mettere in chiaro quanto poco persuasivo fosse l’irruento approccio del congresso americano ad un problema sociale che resta in ogni caso al centro dell’interesse legislativo per il nuovo mezzo di comunicazione. Un solido argine, ad ogni buon conto, è stato eretto. Con un po’ di ottimismo, è forse possibile scorgere in questo esordio di Internet sulla scena costituzionale un passo nella direzione auspicata da Laurence Tribe («The Constitution in Cyberspace», First Conference on Computer, Freedom and Privacy, http://www.io.com/SS/tribe.html, (1991)). Tribe, incoraggiato dal convincimento che la Costituzione sia «un documento davvero stupefacente, i cui principî possono essere adattati a tutti i tempi e a tutti gli scenari tecnologici . . .», convincimento temperato però da un fondato pessimismo riguardo al modo in cui il sistema giuridico «reagisce ai mutamenti tecnologici», proponeva una sorta di ventisettesimo emendamento alla Costituzione, un cyberspace corollary (modellato sul nono emendamento: «L’enumerazione nella Costituzione di taluni diritti non deve essere interpretata nel senso di negarne o escluderne altri già riconosciuti alla gente»), che dovrebbe più o meno sancire: «La protezione garantita da questa Costituzione alla libertà di parola e alla libertà della stampa . . . deve essere interpretata nel senso che essa è sempre pienamente invocabile indipendentemente dal metodo tecnologico o dal mezzo di comunicazione attraverso il quale il contenuto dell’informazione è generato, conservato, alterato, trasmesso o controllato». ANTONIO CUCINOTTA --- Estremi documento --- Tipo documento: nota a sentenza Vai a: sentenza, nota a sentenza Voci e sottovoci Repertorio: Diritto comparato [2250] Informatica giuridica Informatica giuridica e diritto dell’informatica Autore: Antonio Cucinotta Titolo: «Communications Decency Act» per indecenza ciberspazio. IL FORO ITALIANO 1987 - settembre 2009 (c) 2009 Zanichelli editore S.p.A. - Soc. Editrice de Il Foro Italiano Stampa documento visualizzato 09-02-2010 20:43:37 Pagina 5 di 5 Giudicante: CORTE SUPREMA DEGLI STATI UNITI; sentenza, 26-06-1997 Magistrati: Pres. Rehnquist, Est. Stevens (ÒConnor, Rehnquist, in parte dissenzienti, in parte concorrenti) Parti e avvocati: Reno, Procuratore generale degli Stati uniti e a. c. American Civil Liberties Union e a. Nella rivista: anno 1998, parte IV, col. 23 IL FORO ITALIANO 1987 - settembre 2009 (c) 2009 Zanichelli editore S.p.A. - Soc. Editrice de Il Foro Italiano