Communications Decency Act - Facoltà di Giurisprudenza

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CORTE SUPREMA DEGLI STATI UNITI; sentenza, 26-06-1997
***
«Communications Decency Act» per indecenza ciberspazio.
1. - A conti fatti, la tentazione di sdrammatizzare la controversia costituzionale sul
Communications Decency Act (CDA) potrebbe prendere il sopravvento. Alla Corte
suprema americana, per motivare il conflitto tra la legge federale ed il primo
emendamento, è bastato ribadire, senza sostanziali revisioni, i propri precedenti sui limiti
alla libertà di diffusione di materiali osceni od offensivi. Nell’opinion di Stevens (come
nelle motivazioni dei primi giudici), la responsabilità della («grave», «intollerabile»)
violazione costituzionale è attribuita ad un’improvvisata incursione parlamentare, a
causa della quale le disposizioni invalidate sono state incollate al corpo di un testo di
legge ben più mediato, la c.d. deregulation delle telecomunicazioni del 1996. La corte
ha, inoltre, sancito che non sono applicabili al ciberspazio i criteri per il controllo di
costituzionalità delle leggi, ai sensi del primo emendamento, formulati per altri mezzi di
comunicazione, senza però al tempo stesso definire standards specifici per Internet.
La Corte suprema ha così avallato, pressoché integralmente, il tragitto interpretativo
seguito dalla corte distrettuale (frustrando insinuazioni – e speranze – dei partigiani del
CDA, secondo i quali sull’esito del primo attacco alla costituzionalità della legge aveva
pesato la scelta di un foro gradito ai ricorrenti). Ma la fragilità dell’estemporanea
iniziativa accolta dal congresso ha consentito di rinviare a tempi più maturi i problemi
più controversi connessi all’individuazione di una soglia costituzionale di tolleranza per
l’intervento legislativo nel ciberspazio.
Stevens è perciò dispensato dall’obbligo di replicare alla più radicale tra le tesi
scaturite dal minuzioso fact finding del collegio della Pennsylvania: la perentoria
conclusione del giudice Dalzell (sulla quale però gli appellati, con calcolata prudenza,
hanno evitato di insistere dinanzi alla Suprema corte), secondo cui il primo
emendamento vieterebbe qualunque regolamentazione legislativa, su Internet, dei
contenuti di forme di espressione costituzionalmente protette. Tesi quanto si vuole
discutibile, ma a suo modo coerente con l’analisi delle specifiche caratteristiche del
nuovo mezzo di comunicazione: Internet – nella descrizione del giudice Dalzell – è uno
straordinario strumento di democratizzazione delle comunicazioni che, grazie a
flessibilità, bassi costi di accesso e offerta abbondante e in rapida crescita, ha creato «il
più partecipativo mercato delle comunicazioni di massa che il mondo abbia mai
conosciuto». Meritevole, perciò, di una protezione costituzionale di livello almeno
equivalente a quella «insormontabile barriera» che il primo emendamento ha eretto tra
istituzioni di governo e stampa, per quanto quest’ultima non riesca a garantire la facilità
di accesso e il pluralismo che invece il ciberspazio è in grado di assicurare. Si trattava
naturalmente di una assolutizzazione (forse anche rischiosa, ad esplorare con attenzione
le connessioni tra teoria democratica e speech protection; cfr., per es., WHITE, The First
Amendment Comes of Age: The Emergence of Free Speech in Twentieth-Century
America, 95 Mich. L. Rev., 299 (1996)), che però aveva il merito di gettare il cuore oltre
la siepe, disincagliando il problema della libertà di espressione nel ciberspazio, da quella
logica dell’analogizing (a cosa sono meglio assimilabili i vari sistemi di comunicazione
via Internet: radio-televisione? volantinaggio? stampa? telefono? o addirittura autostrade
e ferrovia – cfr. A.L.A. c. Pataki, S.D.N.Y. 20 giugno 1997, in cui, in forza della
interstate commerce clause, non è stata riconosciuta allo Stato di New York la
legittimazione a disciplinare le «superstrade dell’informazione») che caratterizza
l’infanzia della Cyberlaw. Una fase nella quale le impalcature della giurisprudenza del
primo emendamento progettate per i media tradizionali sostengono ancora, con evidenti
difficoltà, la rivoluzione dell’era digitale (ma i segni di cedimenti imminenti si
manifestano, per esempio, nei tentativi di nuove categorizzazioni: come quella che
contrappone i mass agli interactive media; v. BERMAN & WEITZNER, Abundance and
User Control: Renewing the Democratic Heart of the First Amendment in the Age of
Interactive Media, 104 Yale L.J. 1619, 1629 (1995): «I media interattivi si distinguono
dai mass media per il fatto che permettono agli utenti un notevole livello di controllo dei
contenuti accessibili . . . una corretta comprensione dei media interattivi obbliga a
concludere che qualunque regolamentazione pubblica diffusa dei contenuti non è
appropriata e vìola la fondamentale garanzia della libertà di parola assicurata dal primo
emendamento»; v. anche JOHNS, The First Amendment and Cyberspace: Tryng to Teach
Old Doctrines New Tricks, 64 U. Chi. Legal Forum 653 (1996); SUNSTEIN, The First
Amendment in Cyberspace, 104 Yale L.J. 1757 (1995)).
2. - Sarebbe tuttavia un errore sottovalutare le ripercussioni di questa pronunzia: la
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mancata definizione di standards specifici per il ciberspazio (un temporeggiamento che
era comunque ragionevole auspicare, considerata complessità e velocità di evoluzione
del nuovo medium; cfr. Souter in Denver Area Educational Televisium Consortium v.
F.C.C., 518, U.S., 116 S. Ct. 2374, 1996) è accompagnata dall’esplicito riconoscimento
che Internet merita senz’altro un livello di tutela costituzionale della libertà di
espressione superiore a quello garantito al sistema radio-televisivo. Proiettata nel
processo evolutivo della common law adjudication, che chiarificherà per
approssimazioni progressive il significato dei principî costituzionali nel ciberspazio,
questa indicazione è destinata a condizionare profondamente gli sviluppi a venire
(disciplinando, frattanto, l’impeto interventista dei legislatori statali: dodici leggi
approvate tra il 1995 e il 1996, di cui due, quella della Georgia e di New York, già
dichiarate incostituzionali; v. ACLU v. Miller, N.D.Ga., 20 giugno 1997, A.L.A. v.
Pataki, cit.). Reno v. ACLU, con il decisivo supporto dell’accurata indagine della corte
distrettuale, imporrà al congresso e ai singoli Stati – accusati di scarsa familiarità tecnica
con il nuovo mezzo – un approccio normativo più analitico al ciberspazio, e al tempo
stesso imprimerà una precisa direzione agli orientamenti legislativi, spostando l’asse
dell’intervento regolatore dal versante dell’offerta a quello dell’utenza. Non già speech
restrictions a carico di coloro che immettono contenuti in rete, ma potenziamento
legislativamente assistito delle capacità di controllo dei contenuti accessibili da parte di
famiglie e istituzioni pubbliche (con la conseguente definizione di sistemi coattivi di
classificazione ed etichettazione dei materiali, che è già la nuova frontiera dello scontro
politico-costituzionale: cfr. il rapporto della A.C.L.U., Fahrenheit 451.2: Is Cyberspace
Burning?, http://www.aclu.org).
Semplice tappa d’esordio per i problemi costituzionali del ciberspazio, dunque,
quest’incidente legislativo: un passo azzardato del congresso americano, risoltosi in una
celebrazione – sotto le insegne del primo emendamento – delle potenzialità del nuovo
mezzo di comunicazione. Una vicenda che – se si vuole tentare un accostamento che
serva a meglio inquadrare il vero problema affrontato dalla corte – richiama alla mente
Hustler Magazine v. Falwell, 485 U.S. 46, 1988 (proprio il caso di recente popolarizzato
dal Larry Flynt di Milos Forman). Anche allora fu invocato il precedente di Pacifica per
neutralizzare l’azione immunitaria del primo emendamento, nel caso di specie a
protezione del diritto di satira. La corte si rifiutò, all’unanimità, di assecondare il
tentativo: «Buona parte della società americana . . . proprio non crede in quella parte
della tradizione del primo emendamento – scrisse in proposito Raymon Smolla (Jerry
Falwell v. Larry Flynt: The First Amendment on Trial, University of Illinois Press,
(1988)) – secondo la quale l’indecente non osceno merita piena tutela costituzionale. Per
molti F.C.C. v. Pacifica non dovrebbe rappresentare una speciale eccezione per la radio
alla consueta interpretazione del primo emendamento: dovrebbe piuttosto diventare la
regola ordinaria del primo emendamento. Tale espansione di Pacifica era precisamente
ciò che Jerry Falwell sperava di persuadere la Corte suprema ad accettare». Ed è proprio
un’espansione – anzi: una dilatazione sino ai limiti estremi – del divieto di diffusione di
materiali «indecenti» la manovra legislativa alla base del CDA, fallita per intervento
delle corti.
Sarebbe certo legittimo sperare che il parziale accoglimento, da parte della Corte
suprema, dell’istanza di applicazione della severability clause, evitando di estendere la
pronunzia di incostituzionalità ai divieti penali dell’osceno (che peraltro non erano stati
impugnati), riesca a sedare gran parte delle polemiche che hanno avvelenato questa
controversia: l’osceno non è costituzionalmente protetto, e il giudizio sulla legittimità
costituzionale della legge non ha tecnicamente neanche sfiorato il problema della
protezione dei minori dalla pornografia (neppure nel senso estremamente limitato in cui,
secondo il c.d. test di Miller – v. Miller v. California, 413 U.S. 15, 1973 – i materiali
pornografici potrebbero teoricamente non essere ritenuti osceni in alcune comunità
locali, poiché il carattere «globale» del nuovo medium, che non consente di circoscrivere
ad una particolare localizzazione geografica la diffusione delle manifestazioni del
pensiero, impedisce la propagazione dei parametri di valutazione delle comunità locali
più «tolleranti»; cfr. anche EGAN, Virtual Community Standards: Should Obscenity Law
Recognize the Contemporary Community Standard of Cyberspace, 30 Suffolk U.L. Rev.
117 (1996); per qualche supplementare indicazione sulla contrapposizione tra le nozioni
di obscenity ed indecency nella giurisprudenza americana sulla libertà di parola rinviamo
alla traduzione integrale della sentenza della corte distrettuale, in Riv. dir. ind., 1997, II,
228, e alla nostra nota, ACLU c. Reno: il primo emendamento nell’era di Internet, ibid.,
296; v., anche, CORN-REVERE, New Age Comstockery, 4 Common Law Conspectus 173
(1996); FRIEDMAN, Keeping Sex Safe on the Information Superhighway: Computer
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Pornography and the First Amendment, N.Y.L. Sch. L. Rev., 1025 (1996); SHIFF, The
Good, the Bad and the Ugly: Criminal Liability For Obscene and Indecent Speech on
the Internet, 22 William Mitchell L. Rev. 731 (1996)).
3. - Per capire quanto «dirompenti», per citare la prosa della corte distrettuale,
sarebbero stati gli effetti sulla libertà di espressione di una tale, macroscopica dilatazione
del dominio del divieto dell’indecenza, basti pensare alla collocazione costituzionale che
sarebbe stata riconosciuta al ciberspazio in caso di esito positivo della judicial review del
CDA: Internet sarebbe divenuto il mezzo di comunicazione in assoluto meno protetto
dalle garanzie del primo emendamento. Risultato ovviamente paradossale. Se ad un
estremo di un ipotetico spettro di opzioni costituzionali collochiamo tesi del genere di
quella del giudice Dalzell, che sostengono, proprio in considerazione delle caratteristiche
tecnologiche del medium, la radicale inconciliabilità con il primo emendamento di
qualunque regolamentazione nel ciberspazio dei contenuti di forme di espressione
costituzionalmente protette, ed all’estremo opposto il regime costituzionale di radio e
televisione, nel quale le modalità di comunicazione proprie del mezzo giustificano le più
rilevanti restrizioni della libertà di espressione costituzionalmente tollerate, ecco che il
regime proposto dal congresso avrebbe situato Internet addirittura al di là di questo
secondo limite: poiché per le comunicazioni «indecenti» nel ciberspazio contemplava un
divieto penale (e non già una mera regolamentazione amministrativa) assoluto (mentre la
regola di Pacifica prevede per la radiofonia una semplice interdizione di particolari fasce
orarie di trasmissione).
Tra i due citati estremi, la corte mostra di essere molto sensibile alle suggestioni
indotte dal primo approccio ed assai rigida con le minacce suscitate dal secondo. Lo
attesta la grande attenzione – affiora nella opinion di Stevens, e ha addirittura dominato
la trattazione orale – dedicata all’intreccio, che la tecnologia di Internet rende assai
intricato, tra libertà di espressione e libertà di comunicazione. Stevens si chiede come
l’interesse alla protezione dei minori possa giustificare una condanna penale per il
genitore che trasmette al figlio, per posta elettronica, informazioni sui metodi
contraccettivi. E la corte, per gran parte della discussione orale, ha sollecitato gli
appellanti a chiarire le ragioni che renderebbero costituzionalmente plausibile un divieto
penale, per esempio, di conversazioni indecenti tra minori su Internet (la mera scurrilità
del linguaggio è all’origine, con Pacifica, del controverso standard dell’indecenza), ma
non un colloquio telefonico della stessa natura, o anche una chiacchierata per strada o in
un parco pubblico. (Riecheggia qui il problema della dubbia possibilità di estensione ad
Internet della c.d. public forum doctrine – v. Perry Education Ass’n v. Perry Local
Educators’ Ass’n, 460 U.S. 37 (1983) –; sul punto, cfr. GOLDSTONE, The Public Forum
Doctrine in the Age of the Information Superhighway, 46 Hastings L.J. 335 (1995);
TAVISS, Dueling Forums: the Public Forum Doctrines Failure to Protect the Electronic
Forum, 60 U. Cin. L. Rev. 757 (1991)). Tutti interrogativi generati dalle caratteristiche
tecnologiche delle modalità di comunicazione di Internet: miracolo della tecnologia che,
grazie a esiguità delle barriere economiche all’ingresso e interattività, proietta nel
macrocosmo virtuale la libertà di comunicare e manifestare il proprio pensiero
comunemente considerata pressoché intangibile nei microcosmi degli spazi privati.
4. - La soluzione oltranzista affrettatamente sposata dal congresso americano ha
risparmiato alla corte l’imbarazzo di compiere scelte difficili e quasi certamente
premature. Il fulcro della trattazione è facilmente identificabile. Il governo ha tentato di
mettere in risalto gli elementi normativi che, nelle intenzioni del legislatore, dovevano
limitare l’applicazione dei divieti a comunicazioni espressamente destinate ai minori (il
requisito c.d. della «consapevolezza» delle trasmissioni). Questa difesa, però, non si
concilia con le caratteristiche tecniche del mezzo, poiché non è possibile discriminare gli
utenti della maggior parte dei sistemi di comunicazione di Internet sulla base dell’età
(ovvero, laddove questo è possibile, cioè nel World Wide Web, i costi dei sistemi di
controllo sarebbero troppo elevati per singoli ed enti senza scopo di lucro). Quindi, i
divieti del CDA, nei fatti, avrebbero reso penalmente illecite comunicazioni tra adulti
costituzionalmente protette. La dichiarata finalità della protezione dei minori
dall’accesso a materiali nocivi, nei termini fissati dal congresso, sarebbe stata conseguita
al prezzo di un «eccessivo sacrificio» di diritti garantiti agli adulti dal primo
emendamento (su questo punto converge la concurring opinion della ÒConnor). È
inoltre plausibile ritenere che divieti così indeterminati avrebbero colpito forme di
espressione il cui contenuto è protetto anche nei riguardi dei minori (qui il supremo
collegio si divide, «gli appellati non offrono esempi di materiali» del genere, sostiene il
dissent. Vale la pena rilevare che, in realtà, gli atti di causa offrono numerosissimi
esempi di materiali virtualmente indecenti, ma non privi di valore sociale «redimente»:
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stabilire, nel merito, se il valore sociale, artistico o educativo di un determinato
documento giustifichi l’applicazione delle garanzie del primo emendamento anche nei
confronti dei minori, è una questione di fatto. La valutazione espressa nella dissenting
opinion è un’indiretta, sintomatica conferma di quanto fondate fossero le apprensioni
sulle possibili applicazioni giudiziali della disciplina invalidata).
L’intelaiatura formale che sorregge i rilievi della corte e giustifica le conclusioni di
illegittimità costituzionale è lo strict scrutiny test: gli effetti restrittivi del CDA sui diritti
garantiti agli adulti dal primo emendamento non sono costituzionalmente tollerabili «se
alternative meno restrittive sarebbero state almeno altrettanto efficaci nel conseguire le
legittime finalità alle quali la legge era preordinata». Criterio di valutazione non
irreprensibile: anzi, secondo alcuni, francamente fuorviante e non idoneo a governare i
futuri perfezionamenti della dottrina del primo emendamento per il ciberspazio (la
questione è ampiamente trattata da VOLOKH, Freedom of Speech, Shilding Children, and
Transcending Balancing, in corso di pubblicazione su 1997 Supreme Court Review; v.
anche: VOLOKH, Freedom of Speech, Permissible Tailoring and Transcending Strict
Scrutiny, 144 U. Penn. L. Rev. 2417, 2418-24 (1996)). La massima enunciata, tuttavia,
non è una rappresentazione fedele delle valutazioni operative alle quali la corte si è
effettivamente attenuta. Le conclusioni di incostituzionalità sono il risultato di un
overbreadth inquiry: la latitudine applicativa delle norme invalidate era tale da
determinare «una soppressione ingiustificatamente ampia di forme di espressione
destinate agli adulti» (ed è corretto obiettare – come fa VOLOKH, cit. – che misure meno
restrittive non potevano avere esattamente la medesima efficacia degli indiscriminati
divieti dichiarati illegittimi). L’interesse alla protezione dei minori poteva, perciò, essere
salvaguardato da misure alternative che (sebbene non altrettanto efficaci nell’isolare i
minori da materiali indecenti) non avrebbero così diffusamente colpito forme di
espressione senz’altro meritevoli di tutela costituzionale (del resto è questa la logica cui
è ispirato il principio di Bolger, continuamente richiamato sia dalla Corte suprema sia
dalla corte distrettuale, secondo cui lo Stato non può «costringere la popolazione
adulta . . . a leggere . . . soltanto ciò che è ritenuto appropriato anche per i bambini»:
Bolger v. Youngs Drug Products Corp., 463 U.S. 60, 74-75, 1983).
Dalla corte non si poteva pretendere una risposta sino in fondo persuasiva e men che
mai definitiva: suo compito era quello di mettere in chiaro quanto poco persuasivo fosse
l’irruento approccio del congresso americano ad un problema sociale che resta in ogni
caso al centro dell’interesse legislativo per il nuovo mezzo di comunicazione. Un solido
argine, ad ogni buon conto, è stato eretto. Con un po’ di ottimismo, è forse possibile
scorgere in questo esordio di Internet sulla scena costituzionale un passo nella direzione
auspicata da Laurence Tribe («The Constitution in Cyberspace», First Conference on
Computer, Freedom and Privacy, http://www.io.com/SS/tribe.html, (1991)). Tribe,
incoraggiato dal convincimento che la Costituzione sia «un documento davvero
stupefacente, i cui principî possono essere adattati a tutti i tempi e a tutti gli scenari
tecnologici . . .», convincimento temperato però da un fondato pessimismo riguardo al
modo in cui il sistema giuridico «reagisce ai mutamenti tecnologici», proponeva una
sorta di ventisettesimo emendamento alla Costituzione, un cyberspace corollary
(modellato sul nono emendamento: «L’enumerazione nella Costituzione di taluni diritti
non deve essere interpretata nel senso di negarne o escluderne altri già riconosciuti alla
gente»), che dovrebbe più o meno sancire: «La protezione garantita da questa
Costituzione alla libertà di parola e alla libertà della stampa . . . deve essere interpretata
nel senso che essa è sempre pienamente invocabile indipendentemente dal metodo
tecnologico o dal mezzo di comunicazione attraverso il quale il contenuto
dell’informazione è generato, conservato, alterato, trasmesso o controllato».
ANTONIO CUCINOTTA
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Tipo documento: nota a sentenza
Vai a: sentenza, nota a sentenza
Voci e sottovoci Repertorio:
Diritto comparato [2250]
Informatica giuridica
Informatica giuridica e diritto dell’informatica
Autore: Antonio Cucinotta
Titolo: «Communications Decency Act» per indecenza ciberspazio.
IL FORO ITALIANO 1987 - settembre 2009
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Giudicante: CORTE SUPREMA DEGLI STATI UNITI; sentenza, 26-06-1997
Magistrati: Pres. Rehnquist, Est. Stevens (ÒConnor, Rehnquist, in parte dissenzienti, in
parte concorrenti)
Parti e avvocati: Reno, Procuratore generale degli Stati uniti e a. c. American Civil
Liberties Union e a.
Nella rivista: anno 1998, parte IV, col. 23
IL FORO ITALIANO 1987 - settembre 2009
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