prima trance materiali su federalismo scolastico: rubinacci

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prima trance materiali su federalismo scolastico: rubinacci
RACCOLTA MATAERIALI ED ARTICOLI di Alfonso Rubinacci
SUL TEMA DEL FEDERALISMO
INDICE
FEBBRAIO 2002
APRILE 2002
COSTITUZIONE - prima e dopo l’entrata in vigore della
legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3, concernente
Il potere legislativo dal centro alla periferia - di Alfonso
Rubinacci
La riforma fra unità e differenza - di Alfonso Rubinacci
MAGGIO 2002
Addio al vecchio modello dei controlli - di Alfonso Rubinacci
GIUGNO 2002
Le modifiche Costituzionali e la riforma del sistema scolastico
SETTEMBRE 2002
La legislazione concorrente e la questione dei principi
fondamentali –
Quando prevale la logica dei numeri -
MARZO 2002
NOVEMBRE 2002
GENNAIO 2003
FEBBRAIO 2003
APRILE 2003
la nuova proposta di modifica dell’art. 117 della costituzione
(devolution)
Federalismo fiscale: ecco che cosa c’e’ in ballo
MARZO 2006
RIFORME COSTITUZIONALI E PROSPETTIVE DI RUOLO della dirigenza delle
amministrazioni pubbliche
LE DIRIGENZE DEI SERVIZI PUBBLICI
E DELLE AUTONOMIE
VALUTAZIONE E DECISIONE NELLE AUTONOMIE SCOLASTICHE E
TERRITORIALI
Definire le priorità per un piano di sistema
APRILE 2006
La forzatura della sperimentazione
MAGGIO 2006
L’incidenza
degli
assetti
costituzionali
sull’istruzione
e
formazione
Referendum costituzionale. Un appuntamento importante per il
futuro della scuola
Prospettive ordinamentali e istituzionali
OTTOBRE 2003
NOVEMBRE 2003
GIUGNO 2006
NOVEMBRE 2006
DICEMBRE 2006
GENNAIO 2007
MARZO 2007
APRILE 2007
MAGGIO 2007
La dirigenza pubblica. Un quadro legislativo e un sistema
professionale in cerca di stabilità
Puntare sull’autonomia e sui rapporti con il territorio
Passi concreti verso il federalismo scolastico
Collaborazione istituzionale e partecipazione dei cittadini
Il Master Plan. Una scommessa sulle autonomie
MARZO 2008
Migliorare il governo della scuola. Idee e iniziative dei livelli
istituzionali del Paese.
Attuazione del Titolo V della Parte Seconda della Costituzione
per quanto attiene alla materia della Istruzione -Documento
elaborato dal Gruppo degli Esperti Titolo V
Costruire il federalismo scolastico
LUGLIO 2009
Federalismo scolastico
OTTOBRE 2007
A cura di Alfonso Rubinacci
La legge 18 ottobre 2001, n. 3, che ha modificato ed integrato il titolo V della Costituzione, è
entrata in vigore il 9 novembre 2001. Si è trattato di un avvenimento importante.
Questo speciale rappresenta la testimonianza di un lavoro d’approfondimento su un tema di
rilevante attualità e un ulteriore contributo alla conoscenza di una legge che si basa
essenzialmente su quattro principi:
1. il legislatore statale e quello regionale operano in un regime di separatezza e in una
posizione di parità gerarchica nel sistema delle fonti normative;
2. è sancita la parità fra Stato, Regioni, Province, Comuni e Città Metropolitane quali soggetti
costitutivi della Repubblica, anche se restano affidati alla competenza esclusiva dello Stato
importanti materie, quali tra le altre: il coordinamento della finanza pubblica, la perequazione
delle risorse, la determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni per l’esercizio dei diritti
sociali e civili, le norme generali sull’istruzione;
3. l’amministrazione ha il suo habitat primariamente nei Comuni, indipendentemente dal
legislatore competente. Soltanto a fronte di esigenze che non trovano nella dimensione
comunale le condizioni per essere soddisfatte, la competenza è attribuita al soggetto
territoriale posto più in alto;
4. la Carta costituzionale svolge un ruolo unificante di tutto il sistema.
I cambiamenti che si prospettano hanno significative ricadute sul governo e sull’organizzazione
generale del servizio di istruzione e formazione e sulle proposte di riforma del sistema
educativo attualmente all’esame del Parlamento.
Informazioni e conoscenze, dialogo e confronto sono indispensabili per permettere ai
professionisti dell’educazione, ai genitori e agli studenti di vivere consapevolmente le
innovazioni e di sviluppare il loro impegno concreto e la loro progettualità.
FEBBRAIO 2002
COSTITUZIONE
Articoli 114-133
prima e dopo l’entrata in vigore della
legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3, concernente
Modifiche al Titolo V, parte II, della Costituzione
Costituzione pre legge costituzionale
18 ottobre 2001, n. 3
Testo
integrato
con
le
modifiche
introdotte dalla legge costituzionale n. 3
del 2001
TITOLO V
TITOLO V
LE REGIONI, LE PROVINCE, I COMUNI
LE REGIONI, LE PROVINCE, I COMUNI
Art. 114 – La Repubblica si riparte in Regioni, Art. 114 – La Repubblica è costituita dai
Province e Comuni.
Comuni,
dalle
Province,
dalle
Città
metropolitane, dalle Regioni e dallo Stato.
I Comuni, le Province, le Città metropolitane e
le Regioni sono enti autonomi con propri
statuti, poteri e funzioni secondo i principi
fissati dalla Costituzione.
Roma è la capitale della Repubblica. La legge
dello Stato disciplina il suo ordinamento.
Art. 115 – Le Regioni sono costituite in enti Art. 115 – Abrogato
autonomi con propri poteri e funzioni secondo
i principi fissati nella Costituzione.
Art. 116 – Alla Sicilia, alla Sardegna, al
Trentino-Alto Adige, al Friuli-Venezia Giulia e
alla Valle d’Aosta sono attribuite forme e
condizioni particolari di autonomia, secondo
statuti speciali adottati con leggi costituzionali.
Art. 116 – Il Friuli Venezia Giulia, la Sardegna,
la Sicilia, il Trentino-Alto Adige/Südtirol e la
Valle d’Aosta/Vallée d’Aoste dispongono di
forme e condizioni particolari di autonomia,
secondo i rispettivi statuti speciali adottati con
legge costituzionale.
La Regione Trentino-Alto Adige/Südtirol è
costituita dalle Province autonome di Trento e
di Bolzano.
Ulteriori forme e condizioni particolari di
autonomia, concernenti le materie di cui al
terzo comma dell’articolo 117 e le materie
indicate dal secondo comma del medesimo
articolo
alle
lettere
l),
limitatamente
all’organizzazione della giustizia di pace, n) e
s), possono essere attribuite ad altre Regioni,
con legge dello Stato, su iniziativa della
Regione interessata, sentiti gli enti locali, nel
rispetto dei princìpi di cui all’articolo 119. La
legge è approvata dalle Camere a maggioranza
assoluta dei componenti, sulla base di intesa
fra lo Stato e la Regione interessata.
Art. 117 – La Regione emana per le seguenti
materie norme legislative nei limiti dei principi
fondamentali stabiliti dalle leggi dello Stato,
sempre che le norme stesse non siano in
contrasto con l’interesse nazionale e con
quello di altre Regioni:
- ordinamento degli uffici e degli enti
amministrativi dipendenti dalla Regione;
- circoscrizioni comunali;
- polizia locale urbana e rurale;
- fiere e mercati;
pubblica
ed
assistenza
- beneficenza
sanitaria ed ospedaliera;
- istruzione artigiana e professionale e
assistenza scolastica;
- musei e biblioteche di enti locali;
- urbanistica;
- turismo ed industria alberghiera;
- tranvie e linee automobilistiche di interesse
regionale;
- viabilità, acquedotti e lavori pubblici di
interesse regionale;
- navigazione e porti lacuali;
- acque minerali e termali;
- cave e torbiere;
- caccia;
- pesca nelle acque interne;
- agricoltura e foreste;
- artigianato.
Altre materie indicate da leggi costituzionali.
Le leggi della Repubblica possono demandare
alla Regione il potere di emanare norme per la
loro attuazione.
Art. 117 – La potestà legislativa è esercitata
dallo Stato e dalle Regioni nel rispetto della
Costituzione, nonché dei vincoli derivanti
dall’ordinamento comunitario e dagli obblighi
internazionali.
Lo Stato ha legislazione esclusiva nelle
seguenti materie:
a) politica estera e rapporti internazionali
dello Stato; rapporti dello Stato con
l’Unione europea; diritto di asilo e
condizione giuridica dei cittadini di Stati
non appartenenti all’Unione europea;
b) immigrazione;
c) rapporti tra la Repubblica e le confessioni
religiose;
d) difesa e Forze armate; sicurezza dello
Stato; armi, munizioni ed esplosivi;
e) moneta, tutela del risparmio e mercati
finanziari;
tutela
della
concorrenza;
sistema valutario; sistema tributario e
contabile dello Stato; perequazione delle
risorse finanziarie;
f) organi dello Stato e relative leggi elettorali;
referendum statali; elezione del Parlamento
europeo;
g) ordinamento
e
organizzazione
amministrativa dello Stato e degli enti
pubblici nazionali;
h) ordine pubblico e sicurezza, ad esclusione
della polizia amministrativa locale;
i) cittadinanza, stato civile e anagrafi;
j) giurisdizione
e
norme
processuali;
ordinamento civile e penale; giustizia
amministrativa;
k) determinazione dei livelli essenziali delle
prestazioni concernenti i diritti civili e
sociali che devono essere garantiti su tutto
il territorio nazionale;
l) norme generali sull’istruzione;
m) previdenza sociale;
n) legislazione elettorale, organi di governo e
funzioni fondamentali di Comuni, Province
e Città metropolitane;
o) dogane, protezione dei confini nazionali e
profilassi internazionale;
p) pesi, misure e determinazione del tempo;
coordinamento informativo statistico e
informatico dei dati dell’amministrazione
statale,
regionale
e
locale;
opere
dell’ingegno;
q) tutela dell’ambiente, dell’ecosistema e dei
beni culturali.
Sono materie di legislazione concorrente
quelle relative a: rapporti internazionali e con
l’Unione europea delle Regioni; commercio con
l’estero; tutela e sicurezza del lavoro;
istruzione, salva l’autonomia delle istituzioni
scolastiche e con esclusione della istruzione e
della formazione professionale; professioni;
ricerca scientifica e tecnologica e sostegno
all’innovazione per i settori produttivi; tutela
della salute; alimentazione; ordinamento
sportivo; protezione civile; governo del
territorio; porti e aeroporti civili; grandi reti di
trasporto e di navigazione; ordinamento della
comunicazione;
produzione,
trasporto
e
distribuzione
nazionale
dell’energia;
previdenza complementare e integrativa;
armonizzazione
dei
bilanci
pubblici
e
coordinamento della finanza pubblica e del
sistema tributario; valorizzazione dei beni
culturali e ambientali e promozione e
organizzazione di attività culturali; casse di
risparmio, casse rurali, aziende di credito a
carattere regionale; enti di credito fondiario e
agrario a carattere regionale. Nelle materie di
legislazione concorrente spetta alle Regioni la
potestà
legislativa,
salvo
che
per
la
determinazione dei princìpi fondamentali,
riservata alla legislazione dello Stato.
Spetta alle Regioni la potestà legislativa in
riferimento
ad
ogni
materia
non
espressamente riservata alla legislazione dello
Stato.
Le Regioni e le Province autonome di Trento
e di Bolzano, nelle materie di loro competenza,
partecipano
alle
decisioni
dirette
alla
formazione degli atti normativi comunitari e
provvedono all’attuazione e all’esecuzione
degli accordi internazionali e degli atti
dell’Unione europea, nel rispetto delle norme
di procedura stabilite da legge dello Stato, che
disciplina le modalità di esercizio del potere
sostitutivo in caso di inadempienza.
La potestà regolamentare spetta allo Stato
nelle materie di legislazione esclusiva, salva
delega alle Regioni. La potestà regolamentare
spetta alle Regioni in ogni altra materia. I
Comuni, le Province e le Città metropolitane
hanno potestà regolamentare in ordine alla
disciplina
dell’organizzazione
e
dello
svolgimento delle funzioni loro attribuite.
Le leggi regionali rimuovono ogni ostacolo
che impedisce la piena parità degli uomini e
delle donne nella vita sociale, culturale ed
economica e promuovono la parità di accesso
tra donne e uomini alle cariche elettive.
La legge regionale ratifica le intese della
Regione con altre Regioni per il migliore
esercizio delle proprie funzioni, anche con
individuazione di organi comuni.
Nelle materie di sua competenza la Regione
può concludere accordi con Stati e intese con
enti territoriali interni ad altro Stato, nei casi e
con le forme disciplinati da leggi dello Stato.
Art. 118 – Spettano alla Regione le funzioni
amministrative per le materie elencate nel
precedente articolo, salvo quelle di interesse
esclusivamente locale, che possono essere
attribuite dalle leggi della Repubblica alle
Province, ai Comuni o ad altri enti locali.
Lo Stato può con legge delegare alla Regione
l’esercizio di altre funzioni amministrative.
La Regione esercita normalmente le sue
funzioni amministrative delegandole alle
Province, ai Comuni o ad altri enti locali, o
valendosi dei loro uffici.
Art. 118 – Le funzioni amministrative sono
attribuite ai Comuni salvo che, per assicurarne
l’esercizio unitario, siano conferite a Province,
Città metropolitane, Regioni e Stato, sulla base
dei princìpi di sussidiarietà, differenziazione ed
adeguatezza.
I Comuni, le Province e le Città metropolitane
sono titolari di funzioni amministrative proprie
e di quelle conferite con legge statale o
regionale, secondo le rispettive competenze.
La legge statale disciplina forme di
coordinamento fra Stato e Regioni nelle
materie di cui alle lettere b) e h) del secondo
comma dell’articolo 117, e disciplina inoltre
forme di intesa e coordinamento nella materia
della tutela dei beni culturali.
Stato, Regioni, Città metropolitane, Province e
Comuni favoriscono l’autonoma iniziativa dei
cittadini, singoli e associati, per lo svolgimento
di attività di interesse generale, sulla base del
principio di sussidiarietà.
Art. 119 – Le Regioni hanno autonomia
finanziaria nelle forme e nei limiti stabiliti da
leggi della Repubblica, che la coordinano con
la finanza dello Stato, delle Province e dei
Comuni.
Alle Regioni sono attribuiti tributi propri e
quote di tributi erariali in relazione ai bisogni
delle Regioni per le spese necessarie ad
adempiere le loro funzioni normali.
Per provvedere a scopi determinati, e
particolarmente per valorizzare il Mezzogiorno
e le Isole, lo Stato assegna per legge a singole
Regioni contributi speciali.
La Regione ha un proprio demanio e
Art. 119 – I Comuni, le Province, le Città
metropolitane e le Regioni hanno autonomia
finanziaria di entrata e di spesa.
I Comuni, le Province, le Città metropolitane e
le
Regioni
hanno
risorse
autonome.
Stabiliscono e applicano tributi ed entrate
propri, in armonia con la Costituzione e
secondo i princìpi di coordinamento della
finanza pubblica e del sistema tributario.
Dispongono di compartecipazioni al gettito di
tributi erariali riferibile al loro territorio.
La legge dello Stato istituisce un fondo
perequativo, senza vincoli di destinazione, per
i territori con minore capacità fiscale per
patrimonio, secondo le modalità stabilite con abitante.
legge della Repubblica.
Le risorse derivanti dalle fonti di cui ai
commi precedenti consentono ai Comuni, alle
Province, alle Città metropolitane e alle Regioni
di
finanziare
integralmente
le
funzioni
pubbliche loro attribuite.
Per promuovere lo sviluppo economico, la
coesione e la solidarietà sociale, per rimuovere
gli squilibri economici e sociali, per favorire
l’effettivo esercizio dei diritti della persona, o
per provvedere a scopi diversi dal normale
esercizio delle loro funzioni, lo Stato destina
risorse aggiuntive ed effettua interventi
speciali in favore di determinati Comuni,
Province, Città metropolitane e Regioni.
I Comuni, le Province, le Città metropolitane
e le Regioni hanno un proprio patrimonio,
attribuito
secondo
i
principi
generali
determinati dalla legge dello Stato. Possono
ricorrere all’indebitamento solo per finanziare
spese di investimento. È esclusa ogni garanzia
dello Stato sui prestiti dagli stessi contratti.
Art. 120 – La Regione non può istituire dazi
d’importazione o esportazione o transito fra le
Regioni.
Non
può
adottare
provvedimenti
che
ostacolino in qualsiasi modo la libera
circolazione delle persone e delle cose fra le
Regioni.
Non può limitare il diritto dei cittadini di
esercitare in qualunque parte del territorio
nazionale la loro professione, impiego o
lavoro.
Art. 120 – La Regione non può istituire dazi di
importazione o esportazione o transito tra le
Regioni, né adottare provvedimenti che
ostacolino in qualsiasi modo la libera
circolazione delle persone e delle cose tra le
Regioni, né limitare l’esercizio del diritto al
lavoro in qualunque parte del territorio
nazionale.
Il Governo può sostituirsi a organi delle
Regioni, delle Città metropolitane, delle
Province e dei Comuni nel caso di mancato
rispetto di norme e trattati internazionali o
della normativa comunitaria oppure di pericolo
grave per l’incolumità e la sicurezza pubblica,
ovvero quando lo richiedono la tutela dell’unità
giuridica o dell’unità economica e in particolare
la tutela dei livelli essenziali delle prestazioni
concernenti i diritti civili e sociali, prescindendo
dai confini territoriali dei governi locali. La
legge definisce le procedure atte a garantire
che i poteri sostitutivi siano esercitati nel
rispetto del principio di sussidiarietà e del
principio di leale collaborazione.
Art. 121 – Sono organi della Regione: il Art. 121 – Identico
Consiglio regionale, la Giunta e il suo
presidente.
Il Consiglio regionale esercita le potestà
legislative attribuite alla Regione e le altre
funzioni conferitegli dalla Costituzione e dalle
leggi. Può fare proposte di legge alle Camere.
La Giunta regionale è l’organo esecutivo delle
Regioni.
Il Presidente della Giunta rappresenta la
Regione; dirige la politica della Giunta e ne e’
responsabile; promulga le leggi ed emana i
regolamenti regionali; dirige le funzioni
amministrative delegate dallo Stato alla
Regione, conformandosi alle istruzioni del
Governo della Repubblica.
Art. 122 – Il sistema di elezione e i casi di Art. 122 – Identico
ineleggibilità e di incompatibilità del Presidente
e degli altri componenti della Giunta regionale
nonché
dei
consiglieri
regionali
sono
disciplinati con legge della Regione nei limiti
dei princìpi fondamentali stabiliti con legge
della Repubblica, che stabilisce anche la
durata degli organi elettivi.
Nessuno
può
appartenere
contemporaneamente a un Consiglio o a una
Giunta regionale e ad una delle Camere del
Parlamento, ad un altro Consiglio o ad altra
Giunta regionale, ovvero al Parlamento
europeo.
Il Consiglio elegge tra i suoi componenti un
Presidente e un ufficio di presidenza.
I consiglieri regionali non possono essere
chiamati a rispondere delle opinioni espresse e
dei voti dati nell’esercizio delle loro funzioni.
Il Presidente della Giunta regionale, salvo che
lo statuto regionale disponga diversamente, è
eletto a suffragio universale e diretto. Il
Presidente
eletto
nomina
e
revoca
i
componenti della Giunta.
Art. 123 – Ciascuna Regione ha uno statuto
che, in armonia con la Costituzione, ne
determina la forma di governo e i princìpi
fondamentali
di
organizzazione
e
funzionamento. Lo statuto regola l’esercizio
del diritto di iniziativa e del referendum su
leggi e provvedimenti amministrativi della
Regione e la pubblicazione delle leggi e dei
regolamenti regionali.
Lo statuto è approvato e modificato dal
Consiglio regionale con legge approvata a
maggioranza assoluta dei suoi componenti,
con due deliberazioni successive adottate ad
intervallo non minore di due mesi. Per tale
legge non è richiesta l’apposizione del visto da
parte del Commissario del Governo. Il
Governo della Repubblica può promuovere la
questione di legittimità costituzionale sugli
statuti
regionali
dinanzi
alla
Corte
costituzionale entro trenta giorni dalla loro
pubblicazione.
Lo statuto è sottoposto a referendum popolare
qualora entro tre mesi dalla sua pubblicazione
ne faccia richiesta un cinquantesimo degli
Art. 123 – Ciascuna Regione ha uno statuto
che, in armonia con la Costituzione, ne
determina la forma di governo e i princìpi
fondamentali
di
organizzazione
e
funzionamento. Lo statuto regola l’esercizio del
diritto di iniziativa e del referendum su leggi e
provvedimenti amministrativi della Regione e
la pubblicazione delle leggi e dei regolamenti
regionali.
Lo statuto è approvato e modificato dal
Consiglio regionale con legge approvata a
maggioranza assoluta dei suoi componenti,
con due deliberazioni successive adottate ad
intervallo non minore di due mesi. Per tale
legge non è richiesta l’apposizione del visto da
parte del Commissario del Governo. Il
Governo della Repubblica può promuovere la
questione di legittimità costituzionale sugli
statuti
regionali
dinanzi
alla
Corte
costituzionale entro trenta giorni dalla loro
pubblicazione.
Lo statuto è sottoposto a referendum popolare
qualora entro tre mesi dalla sua pubblicazione
ne faccia richiesta un cinquantesimo degli
elettori della Regione o un quinto dei
componenti il Consiglio regionale. Lo statuto
sottoposto a referendum non è promulgato se
non è approvato dalla maggioranza dei voti
validi.
elettori della Regione o un quinto dei
componenti il Consiglio regionale. Lo statuto
sottoposto a referendum non è promulgato se
non è approvato dalla maggioranza dei voti
validi.
In ogni Regione, lo statuto disciplina il
Consiglio delle autonomie locali, quale organo
di consultazione fra la Regione e gli enti
locali».
Art. 124 – Un commissario del Governo, Art. 124 – Abrogato
residente nel capoluogo della Regione,
sopraintende alle funzioni amministrative
esercitate dallo Stato e le coordina con quelle
esercitate dalla Regione.
Art. 125 – Il controllo di legittimità sugli atti
amministrativi della Regione è esercitato, in
forma decentrata, da un organo dello Stato,
nei modi e nei limiti stabiliti da leggi della
Repubblica. La legge può in determinati
casi
ammettere il controllo di merito, al solo effetto
di promuovere, con richiesta motivata, il
riesame della deliberazione da parte del
Consiglio regionale.
Nella Regione sono istituiti organi di giustizia
amministrativa di primo grado, secondo
l’ordinamento
stabilito
da
legge
della
Repubblica. Possono istituirsi sezioni con sede
diversa dal capoluogo della Regione.
Art. 125 – Nella Regione sono istituiti organi di
giustizia amministrativa di primo grado,
secondo l’ordinamento stabilito da legge della
Repubblica. Possono istituirsi sezioni con sede
diversa dal capoluogo della Regione
Art. 126 – Con decreto motivato del Art. 126 – Identico
Presidente della Repubblica sono disposti lo
scioglimento del Consiglio regionale e la
rimozione del Presidente della Giunta che
abbiano
compiuto
atti
contrari
alla
Costituzione o gravi violazioni di legge. Lo
scioglimento e la rimozione possono altresì
essere disposti per ragioni di sicurezza
nazionale. Il decreto è adottato sentita una
Commissione di deputati e senatori costituita,
per le questioni regionali, nei modi stabiliti con
legge della Repubblica.
Il Consiglio regionale può esprimere la sfiducia
nei confronti del Presidente della Giunta
mediante mozione motivata, sottoscritta da
almeno un quinto dei suoi componenti e
approvata
per
appello
nominale
a
maggioranza assoluta dei componenti. La
mozione non può essere messa in discussione
prima di tre giorni dalla presentazione.
L’approvazione della mozione di sfiducia nei
confronti del Presidente della Giunta eletto a
suffragio universale e diretto, nonché la
rimozione, l’impedimento permanente, la
morte o le dimissioni volontarie dello stesso
comportano le dimissioni della Giunta e lo
scioglimento del Consiglio. In ogni caso i
medesimi effetti conseguono alle dimissioni
contestuali della maggioranza dei componenti
il Consiglio.
Art. 127 – Ogni legge approvata dal Consiglio
regionale è comunicata al Commissario che,
salvo il caso di opposizione da parte del
Governo, deve vistarla nel termine di trenta
giorni dalla comunicazione.
La legge è promulgata nei dieci giorni dalla
apposizione del visto ed entra in vigore non
prima
di
quindici
giorni
dalla
sua
pubblicazione. Se una legge è dichiarata
urgente dal Consiglio regionale, e il Governo
della Repubblica lo consente, la promulgazione
e l’entrata in vigore non sono subordinate ai
termini indicati.
Il Governo della Repubblica, quando ritenga
che una legge approvata dal Consiglio
regionale ecceda la
competenza della
Regione o contrasti con gli interessi nazionali o
con quelli di altre Regioni, la rinvia al Consiglio
regionale nel termine fissato per l’apposizione
del visto.
Ove il Consiglio regionale la approvi di nuovo a
maggioranza assoluta dei suoi componenti, il
Governo della Repubblica può, nei quindici
giorni dalla comunicazione, promuovere la
questione di legittimità davanti alla Corte
costituzionale, o quella di merito per contrasto
di interessi davanti alle Camere. In caso di
dubbio, la Corte decide di chi sia la
competenza.
Art. 127 – Il Governo, quando ritenga che una
legge regionale ecceda la competenza della
Regione, può promuovere la questione di
legittimità costituzionale dinanzi alla Corte
costituzionale entro sessanta giorni dalla sua
pubblicazione.
La Regione, quando ritenga che una legge o un
atto avente valore di legge dello Stato o di
un’altra Regione leda la sua sfera di
competenza, può promuovere la questione di
legittimità costituzionale dinanzi alla Corte
costituzionale entro sessanta giorni dalla
pubblicazione della legge o dell’atto avente
valore di legge.
Art. 128 – Le Province e i Comuni sono enti Art. 128 – Abrogato
autonomi nell’ambito dei principi fissati da
leggi generali della
Repubblica, che ne
determinano le funzioni.
Art. 129 – Le Province e i Comuni sono anche Art. 129 – Abrogato
circoscrizioni di decentramento statale e
regionale.
Le circoscrizioni provinciali possono essere
suddivise
in
circondari
con
funzioni
esclusivamente
amministrative
per
un
ulteriore decentramento.
Art. 130 – Un organo della Regione, costituito Art. 130 – Abrogato
nei modi stabiliti da legge della Repubblica,
esercita, anche in forma decentrata, il
controllo di legittimità sugli atti delle Province,
dei Comuni e degli altri enti locali.
In casi determinati dalla legge può essere
esercitato il controllo di merito, nella forma di
richiesta
motivata agli enti deliberanti di
riesaminare la loro deliberazione.
Art. 131 – Sono costituite le seguenti Regioni:
- Piemonte;
- Valle d’Aosta;
- Lombardia;
- Trentino-Alto Adige;
- Veneto;
- Friuli-Venezia Giulia;
- Liguria;
- Emilia-Romagna;
- Toscana;
- Umbria;
- Marche;
- Lazio;
- Abruzzo;
- Molise;
- Campania;
- Puglia;
- Basilicata;
- Calabria;
- Sicilia;
- Sardegna.
Art. 132 – Si può con legge costituzionale,
sentiti i Consigli regionali, disporre la fusione
di Regioni esistenti o la creazione di nuove
Regioni con un minimo di un milione di
abitanti, quando ne facciano richiesta tanti
Consigli comunali che rappresentino almeno
un terzo delle popolazioni interessate, e la
proposta sia approvata con referendum dalla
maggioranza delle popolazioni stesse.
Si può, con referendum e con legge della
Repubblica, sentiti i Consigli
regionali,
consentire che Province e Comuni, che ne
facciano richiesta, siano staccati da una
Regione ed aggregati ad un’altra.
Art. 131 – Identico
Art. 132 – Si può con legge costituzionale,
sentiti i Consigli regionali, disporre la fusione
di Regioni esistenti o la creazione di nuove
Regioni con un minimo di un milione di
abitanti, quando ne facciano richiesta tanti
Consigli comunali che rappresentino almeno un
terzo delle popolazioni interessate, e la
proposta sia approvata con referendum dalla
maggioranza delle popolazioni stesse.
Si può, con l’approvazione della maggioranza
delle popolazioni della Provincia o delle
Province interessate e del Comune o dei
Comuni
interessati
espressa
mediante
referendum e con legge della Repubblica,
sentiti i Consigli regionali, consentire che
Province e Comuni, che ne facciano richiesta,
siano staccati da una Regione ed aggregati ad
un’altra.
Art. 133 – Il mutamento delle circoscrizioni Art. 133 – Identico
provinciali e la istituzione di nuove Province
nell’ambito di una Regione sono stabiliti con
leggi della Repubblica, su iniziative dei
Comuni, sentita la stessa Regione.
La Regione, sentite le popolazioni interessate,
può con sue leggi istituire nel proprio territorio
nuovi Comuni e modificare le loro circoscrizioni
e denominazioni.
MARZO 2002
Il potere legislativo dal centro alla periferia - di Alfonso Rubinacci
Il nuovo testo dell’art. 117 della Costituzione mette sullo stesso piano comuni, province,
regioni, città metropolitane e Stato. Ribalta la tradizionale struttura piramidale dello Stato.
Le modifiche al titolo V della parte seconda della Costituzione, approvate definitivamente in
seconda deliberazione con la maggioranza dei suoi componenti dal Senato della Repubblica l’8
marzo 2001, sono state sottoposte a referendum popolare, in quanto la legge di riforma
costituzionale non è stata, come prevede l’art. 138, comma 3, della Costituzione votata “nella
seconda votazione da ciascuna camera a maggioranza dei due terzi dei suoi componenti”. Il
Referendum costituzionale del 7 ottobre 2001 ha concluso il procedimento di revisione ed ha
consentito la promulgazione e la pubblicazione della legge Costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3.
La riforma approvata sul finire della XIII Legislatura fa seguito alle modifiche costituzionali in
materia di elezione diretta del presidente della Giunta regionale e di autonomia statutaria delle
Regioni. Il motivo informatore del nuovo assetto dei rapporti tra i diversi livelli di governo è la
sussidiarietà. Secondo tale principio le funzioni sono allocate al livello più basso possibile. Il
principio non mette in discussione il ruolo e l’importanza dello Stato a cui rimangono le funzioni
che non possono essere svolte a livello locale. Lo Stato assurge a garante ultimo dell’interesse
generale, intervenendo nelle materie di competenza delle amministrazioni decentrate solo
quando queste non riescono a soddisfare adeguatamente i bisogni delle collettività locali.
La revisione del titolo V ha importanti implicazioni per l’organizzazione del settore pubblico,
rappresenta un elemento di particolare significato nel processo di riforma dell’autonomia
territoriale, realizza un concreto decentramento istituzionale, legislativo, amministrativo e
fiscale, spogliando lo Stato di competenze, strutture, uffici e spese.
Il nuovo art. 117 della Costituzione secondo il quale “la Repubblica è costituita dai comuni, dalle
province, dalle città metropolitane, dalle regioni e dallo Stato”, inverte la precedente
elencazione, assegnando un ruolo paritario a ciascuna articolazione, ivi compreso lo Stato che
conseguentemente perde la posizione di preminenza prima rivestita. Il modello di Stato che ha
delineato la riforma non è quello di una “tradizionale” federazione di venti regioni, ma piuttosto
un sistema complesso di collettività territoriali autonome e costituzionalmente garantite.
Gli elementi principali che caratterizzano il nuovo modello possono essere riassunti nel modo
seguente:
a) Inversione del criterio di riparto del potere legislativo tra lo Stato, che diviene soggetto a
competenza enumerata, e le regioni, che diventano soggetti a competenza generale, e
conseguente a configurazione delle due potestà esclusive.
b) Eliminazione del controllo preventivo sulle leggi regionali e loro assoggettamento al solo
limite costituzionale.
Rispetto alla previsione del predetto punto b) si condivide l’opinione di chi ritiene che si sia di
fronte ad un affievolimento del sistema di garanzie in quanto il sindacato della Corte
Costituzionale è possibile solo attraverso una impugnativa del Governo, successiva alla
pubblicazione della disciplina contestata.
Il primo comma del nuovo art. 117 pone, quali limiti alla potestà legislativa dello Stato e delle
regioni non solo il rispetto della costituzione, ma anche quello dei vincoli derivanti
dall’ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali. A differenza del testo previgente,
Stato e regioni vengono collocati su un piano di parità. La legislazione statale e quella regionale
incontrano gli stessi limiti: la Costituzione e i vincoli comunitari ed internazionali.
I successivi commi dell’art. 117 indicano le materie sulle quali lo Stato mantiene competenza
esclusiva, le materie rimesse alla legislazione concorrente di Stato e regioni, nonché le materie
rimesse alla sfera di potestà legislativa delle regioni.
L’elenco delle materie, rimesse alla legislazione esclusiva dello Stato, di cui al secondo comma
del nuovo art. 117 non può certamente ritenersi esaustivo, atteso che molti articoli della
Costituzione prevedono riserve di legge statale. Il nuovo testo costituzionale qualifica come
“esclusiva” la competenza dello Stato sulle “sue” materie mentre la competenza regionale non è
definita “esclusiva” né “riservata”. Il nuovo terzo comma dell’art. 117 della Costituzione
esplicita le materie di legislazione concorrente in cui la potestà legislativa dello Stato e quello
delle regioni concorrono. Nelle materie a legislazione concorrente spetta alle regioni la potestà
legislativa, salvo che per la determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i
diritti civili e sociali e dei principi fondamentali riservati alla legislazione dello Stato.
L’esame della norma mette in chiaro che il legislatore ha mutato la formula rispetto al dettato
della vecchia versione “nei limiti dei principi fondamentali stabiliti dalla legislazione dello Stato”.
La Costituzione del 1948 qualificava come “limite” i principi fondamentali, che il nuovo testo
non ha.
A detta disposizione si possono dare diverse letture. La più forte è che la nuova formulazione
usata dal legislatore costituisca un limite più pregnante alla legislazione concorrente che non
potrebbe essere mai innovativa perché la determinazione dei principi sarebbe riservata alla
legge dello Stato. Il quarto comma dell’art. 117 attribuisce alla potestà legislativa delle regioni a
statuto ordinario “ogni materia non espressamente riservata alla legislazione dello Stato”. La
norma di carattere aperto e residuale rischia di innescare un ampio contenzioso sulle materie
non nominativamente deferite alla potestà legislativa regionale.
Per quanto concerne lo specifico profilo del sistema scolastico il secondo comma del nuovo
articolo 117 della Costituzione riserva allo Stato la competenza esclusiva sulle “norme generali
sull’istruzione” e sulla “determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti
civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale” e la determinazione dei
principi fondamentali nelle materie di legislazione concorrente. A titolo puramente indicativo
possiamo pensare che i principi generali dell’ordinamento scolastico, i programmi, il sistema di
certificazione, di valutazione, lo stato giuridico del personale rientrino nella competenza
esclusiva dello Stato a garanzia di conformità di trattamento sul territorio nazionale.
Il nuovo terzo comma dell’art. 117 della Costituzione afferma che sono materie di legislazione
concorrente “istruzione, salva l’autonomia delle istituzioni scolastiche e con esclusione
dell’istruzione e della formazione professionale …. Ricerca scientifica e tecnologica”. Lo specifico
riferimento
“salva
l’autonomia
delle
istituzioni
scolastiche”
non
comporta
una
“costituzionalizzazione” dell’autonomia, ma sottrae la materia alla legislazione concorrente per
riservarla alla competenza esclusiva dello Stato.
Il nuovo modello di riparto delle competenze normative disposte dalla legge costituzionale del
18 ottobre 2001, n. 3 non può far considerare superato l’intervento legislativo di riforma
avviato con il D. Lgs. n. 112/98. La mancanza di una disciplina transitoria impedisce, infatti, di
procedere subito alla concreta attuazione della riforma costituzionale.
Il nuovo testo costituzionale, così indefinito e del tutto privo di norme transitorie e di
attuazione, spinge necessariamente i diversi soggetti istituzionali coinvolti nel processo di
attuazione a raggiungere un accordo politico sui tempi, le condizioni, le modalità, i percorsi, gli
strumenti, su come fare entrare in vigore la riforma.
Il risultato da raggiungere è la riduzione degli aspetti di incertezza e conflittualità tra centro e
periferia. In caso contrario le riforme potrebbero alimentare un fertile terreno di contenzioso
giuridico fra lo Stato e le autonomie locali.
APRILE 2002
La riforma fra unità e differenza - di Alfonso Rubinacci
La funzione amministrativa: il comune centro del sistema amministrativo locale. Il nuovo
art.118 della Costituzione.
Questo articolo si pone l’obiettivo di favorire la conoscenza del contenuto del nuovo art. 118
della Costituzione e di consentire ai lettori della rivista “Tuttoscuola” una informazione
puntuale sui cambiamenti e sui processi avviati o da attivare per effetto della legge
costituzionale 18 ottobre 2001, n.3, pubblicata nella G.U. del 24 ottobre 2001, n. 248.
L’esame si concentra sui nuovi assetti dell’ente territoriale locale definiti dalla riforma
costituzionale, che pongono, indubbiamente, una serie di questioni interpretative assai
complesse e di non facile soluzione e che richiedono una fase di approfondimento e di studio
volta a perseguire obiettivi di chiarezza delle norme e di garanzia per gli operatori scolastici e
per i cittadini.
Va privilegiata, fin dove possibile, una lettura positiva della riforma al fine di evitare che
prenda il sopravvento un’analisi eccessivamente problematica che non aiuterebbe a coglierne
le potenzialità. Questo atteggiamento trova conforto nelle dichiarazioni rese, nella seduta del
19 febbraio 2002, dal Ministro La Loggia alla Commissione Affari Costituzionali del Senato,
impegnata a condurre una indagine conoscitiva sulla riforma, secondo cuiӏ perfettamente
inutile litigare sulle regole, perché sono già scritte.Si deve soltanto cercare di esaminare come
farle funzionare nel modo migliore, in attesa che inizino il proprio percorso parlamentare sia la
devolution sia la riforma della riforma, anzi il disegno di legge di attuazione della riforma”
La novellata norma costituzionale definisce un percorso di decentramento che sottrae quasi
integralmente le funzioni amministrative allo Stato ed alle REGIONI e le riversa sulle
autonomie locali. Nel nuovo sistema risalta la primarietà dei comuni e degli enti locali
nell’assunzione e nello svolgimento delle funzioni amministrative. La complessità dei contenuti
esige un impegno attuativo inversamente proporzionale al livello di definizione costituzionale
della distribuzione della funzione amministrativa che è basso.
Il nuovo art. 118 della Costituzione contiene alcune disposizioni di principio, evitando di
specificarne in modo puntuale i contenuti. Il testo pone come regola generale il principio che
“le funzioni amministrative sono attribuite ai Comuni salvo che, per assicurare l’esercizio
unitario, siano conferite a Province, città metropolitane, Regioni e Stato, sulla base dei principi
di sussidarietà, differenziazione ed adeguatezza”. Il criterio base per l’attribuzione delle
funzioni amministrative è costituito dal principio di sussidiarietà, temperato da quello di
indivisibilità delle funzioni, il solo che giustifichi il loro esercizio unitario.
L’art.117, comma secondo, lettera p) e m) riserva alla legislazione esclusiva dello Stato la
disciplina:
• delle “funzioni fondamentali di comuni, Province e Città metropolitane “;
• dei “livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere
garantiti su tutto il territorio nazionale”.
L’art.118, comma secondo, afferma che “ i comuni ……..sono titolari di funzioni amministrative
e di quelle conferite con legge statale o regionale”, secondo le rispettive competenze.
L’intreccio tra funzioni amministrative attribuite, funzioni conferite e funzioni proprie, in
ragione della loro complessità strutturale, è denso e richiede un notevole sforzo di lettura per
rintracciare le linee portanti del nuovo disegno. La materia è disciplinata in modo non lineare e
rispetto alle tre fattispecie possono essere messi in campo ragionamenti,almeno, ambivalenti.
Dalla lettura combinata delle norme in esame si trae il convincimento che non siamo di fronte
a tre tipologie di funzioni: fondamentali, proprie e conferite, ma a due perché la linea divisoria
tra quelle fondamentali e quelle proprie è assai labile, quasi inesistente.
La riduzione a due tipologie delle funzioni amministrative dei comuni si giustifica, tenendo
presente che lo Stato una volta esercitato il potere di riserva legislativa attribuisce in senso
proprio la funzione amministrativa ai comuni che ne diventano titolari. Ciò avviene non per
effetto di una delega che inerisce l’esercizio di una funzione e non la titolarità, ma a seguito di
un atto dovuto di legislazione statale.
Corre l’obbligo di rilevare il contrasto tra la predetta lettura della norma e la previsione
contenuta nell’art.121, quarto comma, secondo cui “il Presidente della Giunta ………dirige le
funzioni amministrative delegate dallo Stato alla Regione, conformandosi alle istruzioni del
Governo della Repubblica” Il contenuto del comma predetto è stato definito con la legge
Costituzionale 22/XI/1999, n.1, pubblicata nella G.U.n.299, del 22 dicembre 1999
Il contrasto è il frutto di una volontà politica o conseguenza di un mancato coordinamento?
Propendiamo per la seconda ipotesi.
Gli elementi principali che caratterizzano il nuovo sistema amministrativo locale
possono essere riassunti nel modo seguente:
a) la generalità delle funzioni e dei compiti amministrativi è svolta dalle autonomie locali, salvo
quelle che, ricorrendo esigenze di esercizio unitario, sono conferite, sulla base dei principi di
sussidiarietà, differenziazione e adeguatezza, ai livelli superiori di governo;.
b) lo Stato e le Regioni svolgono solo le funzioni amministrative individuate tassativamente;
c) le funzioni amministrative sono attribuite ai Comuni, indipendentemente dalla assegnazione
di
funzioni legislative;
d) la competenza amministrativa dei Comuni deriva direttamente dalla Costituzione;
e) la funzione amministrativa è svolta dall’ente più prossimo ai cittadini per consentire alla
popolazione amministrata un diretto controllo sull’operato dei vertici amministrativi;
f) l’assenza di forme di tutela giuridica in caso di impropria valutazione delle esigenze di
”unitario esercizio” delle funzioni ad altro livello di governo;
g) la promozione del rafforzamento, nella unità-indivisibilità della Repubblica, delle autonomie;
h) l’abolizione del sistema dei controlli di legittimità sugli atti degli enti locali che configura la
necessità di un nuovo sistema di garanzie e di cooperazione istituzionale.
Il primo comma dell’art. 118 scinde la funzione amministrativa da quella legislativa.
L’attribuzione della funzione amministrativa non è di regola connessa alla titolarità della
potestà legislativa.
La disposizione esclude Roma capitale dai destinatari di competenze amministrative. Il testo
costituzionale rimette ad una legge ordinaria dello Stato la disciplina del suo ordinamento.La
legge statale non può riconoscere a Roma capitale la potestà legislativa che è riconosciuta
dalla Costituzione esclusivamente a Stato e Regioni.
A Roma capitale dovrebbe essere
riconosciuto uno status particolare che ne consenta
l’inquadramento nelle linee generali del sistema organizzativo costituzionale per i connotati di
fondo (ente autonomo, statuto, poteri e funzioni) con le differenziazioni che può richiedere la
capitale della Repubblica che in quanto tale coinvolge lo Stato.
Il terzo comma dell’art.118 prevede che ”la legge statale disciplina forme di
coordinamento fra Stato e Regioni nelle materie di cui alla lettera b) e h) del secondo
comma dell’art.117 e disciplina inoltre forme di intesa e coordinamento nella materia
della tutela dei beni culturali”.
Il legislatore costituente prospetta forme di coordinamento e di intesa nelle materie
dell’immigrazione, dell’ordine pubblico e sicurezza e della tutela dei beni culturali.
Non è chiaro il contenuto e il significato delle forme di coordinamento che è sempre stato
figura discussa e tormentata di raccordo in tutti i contesti organizzativi.
La norma contiene forti elementi di ambiguità ed incertezza. Potrebbe trattarsi di un
coordinamento amministrativo da esercitare solo in via amministrativa, previsto in sostituzione
della funzione di indirizzo e di coordinamento generale prima esercitato dallo Stato, oppure il
permanere di tale potere in capo allo Stato in forza della previsione dell’art.5 della Costituzione
che recita ”la Repubblica una ed indivisibile riconosce e promuove le autonomie locali” per
quelle tematiche il cui governo amministrativo richiede il concorso di più regioni.
La disciplina dei raccordi tra livelli di governo è insufficiente Le nuove norme costituzionali non
affrontano con determinazione le questioni della integrazione e interconnessione delle funzioni
dei vari organismi all’interno di un sistema articolato, che registra un affievolimento degli
strumenti a garanzia del valore di unitarietà prima assicurato.
Il quarto comma del nuovo art.118 della Costituzione assegna a ciascuno dei soggetti che
costituiscono la Repubblica il compito di favorire ”l’autonoma iniziativa dei cittadini, singoli e
associati, per lo svolgimento di attività di interesse generale, sulla base del principio di
sussidiarietà.”
Il legislatore ha previsto il meccanismo di sostituzione, sul piano dell’esercizio della funzione,
espressivo di una complessiva capacità di utilizzare e gestire le funzioni di pertinenza secondo
modelli organizzativi autonomamente prescelti. Ad esercitare funzioni amministrative possono
essere chiamati soggetti diversi individuati da Stato, Regioni, Città metropolitane, Province e
Comuni con riferimento alla propria titolarità delle funzioni.
La previsione del legislatore costituzionale, perciò, non può rappresentare uno strumento per
eludere le regole, i criteri e le modalità stabilite dall’art.118 per l’attribuzione delle funzioni
amministrative ai Comuni, sia nelle materie di legislazione esclusiva dello Stato o delle
Regione, sia nelle materie di legislazione concorrente fra Stato e Regione. L’esproprio di
funzioni amministrative che può subire il comune è strettamente collegato alla sussistenza di
esigenze di ”unitario esercizio” delle funzioni ad altro livello di governo, nel rispetto delle
condizioni previste dalla legge.
Il principio richiama la figura del privato chiamato a prestare attività tecniche a pubbliche
autorità secondo la nozione di “esercizio privato di pubbliche attività”.
La dinamica del rapporto tra il 118 e il decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 112.
L’attuazione dell’art.118 in materia di esercizio delle funzioni amministrative impone che lo
Stato per le materie di propria competenza esclusiva e le Regioni per le materie di competenza
esclusiva e concorrente procedano a ridistribuire le funzioni amministrative sulla base dei
principi di sussidiarietà, differenziazione e adeguatezza, attribuendo ai comuni tutte le funzioni
amministrative ad eccezione di quelle per le quali occorre assicurare l’unità di esercizio e a
fissare modalità e forme di cooperazione con gli enti locali che è questione fondamentale per
un corretto rapporto interistituzionale
Fino all’entrata in vigore delle leggi statali o regionali che provvedono a ridistribuire le funzioni
amministrative si entra nel nuovo regime costituzionale con le funzioni”storiche” così come
sono distribuite dai decreti legislativi attuativi della legge 15 marzo 1997, N. 59, peraltro
basati sugli stessi principi oggi contenuti nell’art.118 e dalle altre disposizioni vigenti.
Per quanto concerne lo specifico profilo del sistema scolastico non vi è dubbio che continua a
trovare immediata attuazione, secondo i tempi, le modalità e le forme già fissate, il decreto
legislativo 31 marzo 1998, n.112, con il quale agli enti locali sono state attribuite competenze
di rilievo in merito alle politiche scolastiche del territorio.Il d.lgs.n.112/98 determina le funzioni
e i compiti amministrativi che sono trasferiti nel settore dell’istruzione e della formazione alle
Regioni ed agli enti locali che comprendono anche le funzioni di organizzazione e le attività
connesse e strumentali alla concreta e continua erogazione del servizio.
Le norme che riguardano il settore scolastico sono riportate negli articoli.136, 138, 139 e 145
del Capo III e IV del decreto legislativo n.112/98.
Articolo 136
Comma 2. (…)Tra le funzioni e i compiti …:
a) la programmazione della rete scolastica
b) la provvista delle risorse finanziarie e di personale
c) l’autorizzazione, il controllo e la vigilanza relativi ai vari soggetti ed organismi, pubblici e
privati, operanti nel settore
d) la rilevazione delle disfunzioni e dei bisogni, strumentali e finali, sulla base dell’esperienza
quotidiana del concreto funzionamento del servizio, le correlate iniziative di segnalazione e
di proposta.
e) l’adozione, nel quadro dell’organizzazione generale ed in attuazione degli obiettivi
determinati dalle autorità preposte al governo del servizio, di tutte le misure di
organizzazione amministrativa necessarie per il suo migliore andamento
In particolare alle Regioni sono delegate alcune funzioni amministrative.
Articolo 138
Comma 1. (…) le seguenti funzioni amministrative:
a) la programmazione offerta formativa integra tra istruzione e formazione professionale
b) la programmazione, ( …), rete scolastica, sulla base piani provinciali …
c) la suddivisione del territorio regionale in ambiti funzionali al miglioramento dell’offerta
formativa
d) la determinazione calendario scolastico
e) i contributi alle scuole non statali
f) le iniziative e le attività di promozione relative all’ambito delle funzioni conferite
Le competenze sono attribuite alle province, in relazione alla scuola secondaria superiore, ai
comuni in relazione agli altri gradi di istruzione.
I compiti e le funzioni ineriscono agli aspetti relativi alle strutture e all’organizzazione del
servizio di istruzione, anche con riguardo a particolari utenze e a materie che afferiscono ai
campi educativi e di supporto all’azione didattica delle scuole.
Articolo 139 - Trasferimento alle province e alle regioni
Comma 1. (…) sono attribuiti alle province in relazione alla scuola secondaria superiore, e ai
comuni, in relazione agli altri gradi inferiori di scuola, compiti e funzioni concernenti:
a) istituzione, aggregazione, fusione e soppressione di scuole
b) piani di organizzazione della rete delle istituzioni scolastiche
c) servizi di supporto organizzativo del servizio di istruzione per gli alunni con handicap o in
situazioni di svantaggio
d) piano utilizzazione edifici e di uso attrezzature, d’intesa con le istituzioni scolastiche
e) sospensione lezioni in casi gravi e urgenti
f) iniziative e attività di promozione
g) costituzione, controlli e vigilanza, compreso scioglimento, sugli organi collegiali scolastici a
livello territoriale
Comma 2. I comuni, (…)esercitano, anche d’intesa con le istituzioni scolastiche, iniziative
relative a:
a) educazione adulti
b) interventi integrati di orientamento scolastico e professionale
c) azioni rese a realizzare le pari opportunità di istruzione
d) azioni di supporto tese a promuovere e sostenere la coerenza e la continuità in verticale e
orizzontale tra i diversi gradi e ordini di scuola
e) interventi perequativi
f) intervento integrati di prevenzione della dispersione scolastica e di educazione alla salute
Il conferimento delle competenze comporta il trasferimento dei beni e delle risorse finanziarie,
umane, strumentali ed organizzative alle regioni ed agli enti locali.
Articolo 145
Comma 1. (…) Il Presidente del Consiglio dei Ministri …provvede con propri decreti a trasferire
… dal ministero della Pubblica istruzione alle Regioni beni,
risorse finanziarie, strumentali e organizzative”.
Il D.P.C.M. 12 settembre 2000, pubblicato nel supplemento ordinario alla G.U. n.303,
del 30 dicembre 2000, ha individuato le risorse finanziarie, umane, strumentali e
organizzative da trasferire alle regioni per l’esercizio dei compiti e delle funzioni
amministrative in materia di istruzione scolastica,di cui agli articoli 138 e 139 del
citato d.lgs n.112.
IL D.P.C.M. 13 novembre 2000, PUBBLICATO NEL SUPPLEMENTO ORDINARIO ALLA G.U. DEL
2FEBBRAIO 2001, HA PROVVEDUTO ALLA RIPARTIZIONE DELLE RISORSE FINANZIARIE PARI A
LIRE 642. 024. 000. 000 PER GARANTIRE ALLE REGIONI, ALLE PROINCE ED AI COMUNI UNA
BASE FINANZIARIA IDONEA AD ESERCITARE LE FUNZIONI IN MATERIA DI ISTRUZIONE
SCOLASTICA E LE TIPOLOGIE D’INTERVENTO CUI SONO DESTINATE LE RISORSE MEDESIME.
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MAGGIO 2002
Addio al vecchio modello dei controlli - di Alfonso Rubinacci
Il cambio deve favorire il consolidamento dei connotati essenziali delle autonomie
La riforma della Pubblica amministrazione e della scuola, il federalismo e il rafforzamento dei
livelli locali di governo, l’attuazione del principio di sussidiarietà possono realizzarsi solo con il
pieno consenso dei cittadini, da coinvolgere attraverso opportuni ed adeguati processi di
relazioni e di comunicazioni.
Questo articolo, come i precedenti, si pone l’obiettivo di favorire la conoscenza della varietà
degli effetti complessivamente prodotti dalle modifiche al titolo V, parte seconda della
Costituzione e orientare i lettori della rivista Tuttoscuola alla conoscenza e valutazione delle
numerose problematiche, dei cambiamenti e dei processi avviati o da avviare per l’attuazione
della legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3, pubblicata nella G.U. del 22 ottobre 2001,
n.248.
L’attuale disamina si concentra sulle questioni e sugli effetti che l’abrogazione del primo
comma dell’art. 124 e del art. 130 della Costituzione determina sul sistema dei controlli sugli
atti delle regioni, delle province e dei comuni.
La riforma costituzionale pone, indubbiamente, una serie di questioni assai complesse e di non
facile soluzione che richiedono un approfondimento per rispondere ad una diffusa domanda di
chiarezza che proviene dai responsabili amministrativi degli enti locali, dai cittadini, dagli
operatori scolastici..
Risulta arduo, nel momento in cui si tracciano queste osservazioni, percepire nella loro esatta
dimensione ed adeguatamente i numerosi problemi interpretativi che sono di non facile
composizione.
Il nuovo art.114 della Costituzione secondo il quale “la Repubblica è costituita dai comuni, dalle
province, dalle città metropolitane, dalle regioni e dallo Stato” realizza una parificazione degli
enti territoriali, negando la derivazione degli altri dallo Stato che conseguentemente perde la
posizione di preminenza prima rivestita.Tutti equamente concorrono alla composizione della
Repubblica. La Costituzione è la fonte unica delle potestà attribuite a ciascuna articolazione.
La forma di Stato delineata dalla riforma costituzionale è un sistema complesso di collettività
territoriali autonome e costituzionalmente garantite che determina la necessità di un nuovo
sistema di cooperazione istituzionale.
L’innovazione saliente che caratterizza il nuovo modello deriva dalla modifica del vecchio
assetto organizzativo dei pubblici poteri, caratterizzato prima da una concezione gerarchica del
rapporto fra Stato e sistema delle autonomie.
Il legislatore costituzionale, con la riforma in atto, non ha certamente inteso abrogare in toto la
funzione del controllo, ma solo quella forma specifica correlata ad un modello organizzativo
prevalentemente incentrato su verifiche cartolari e preventive, non idonee ad assicurare una
visione chiara dell’attività di gestione.
La riforma della Costituzione tace su aspetti cruciali ed in particolare sul modello di controllo
che deve presiedere alle relazioni verticali fra enti locali e regioni, limitandosi a richiamare
esplicitamente solo le norme di abrogazione della disciplina dei controlli.
Nell’attuale contesto politico-normativo la funzione istituzionale del controllo pubblico esterno
si affievolisce per effetto del consolidamento dei connotati essenziali dell’autonomia delle
comunità locali
La soppressione del vecchio sistema dei controlli non può essere letta come abolizione di ogni
strumento di freno alla libera esplicazione delle competenze della autonomia locale, perché non
possono sussistere aree di gestione pubblica sottratte al controllo che è coessenziale
all’impiego di risorse della comunità.
La scelta operata dal legislatore costituzionale è stata quella di dilatare le prerogative
autonomistiche e restringere il sistema dei controlli sulle stesse, in coerenza anche con
l’orientamento legislativo già codificato di sottrarre gli statuti regionali all’obbligo del
recepimento con una legge ordinaria del Parlamento nazionale.
Le principali argomentazioni a sostegno del potenziamento dell’amministrazione sul territorio si
rinvengono:
• nella esigenza di assicurare una puntuale effettività all’art. 5 della Costituzione che
richiama un valore fondamentale, insito nel più ampio concetto di forma repubblicana
non soggetto a revisione costituzionale, laddove afferma “La Repubblica, una e
indivisibile, riconosce e garantisce le autonomie locali………adegua i principi e i metodi
della sua legislazione alle esigenze dell’autonomia e del decentramento”;
• nella necessità di assicurare agli amministratori locali e regionali un pieno ed
incondizionato svolgimento del programma politico-amministrativo “premiato”
dall’elettorato, al quale è demandato un controllo politico.
Il quadro delle norme costituzionali modificate dall’art. 9 della legge 18 ottobre 2001, n. 3, è
composto dall’:
Art. 115:
• Il contenuto della norma è assorbito dal nuovo testo dell’art, 114 che ribalta la
tradizionale struttura piramidale dello Stato, mettendo sullo stesso piano comuni,
province, regioni, città metropolitane e stato.
Art.124:
• Sopprime la figura del commissario del Governo che partecipava al procedimento di
controllo delle leggi regionali e presiedeva la commissione statale di controllo sugli atti
amministrativi della regione.
Art. 125, primo comma:
• Abolisce i controlli di legittimità e di merito sugli atti amministrativi della regione.
Art,128:
• Assorbe il contenuto dell’art.114 che definisce “i comuni, le province, le città
metropolitane e le regioni,…………..enti autonomi con propri statuti, poteri…….”
Art.130:
• Abolisce il controllo di legittimità sugli atti delle province, dei comuni e degli altri enti
locali, nonché il controllo di merito che consisteva nella richiesta di riesame all’ente
deliberante.
Se questa è la cornice legislativa di riferimento, l’attuazione della riforma non può che incedere
nell’ottica di un processo di trasformazione effettivamente autonomistica che sia sempre meno
“istituzionale” e sempre più sociale.
Le disposizioni costituzionali fanno venir meno i controlli, nonché gli organi deputati a questa
funzione.
Nell’ipotesi di conferimento da parte dello Stato o delle regioni di funzioni proprie agli enti
locali, ovvero di altre funzioni conferite “per assicurare l’esercizio unitario” in via di principio
non dobbiamo escludere la possibilità di istituire strumenti di controllo, limitatamente a tali
specifiche funzioni.
Il superamento del controllo preventivo suggerisce di ricercare e proporre possibili itinerari per
una ricomposizione dei poteri di controllo che superi il vizio di riproporre versioni aggiornate di
un ordinamento” a piramide”, basato su una logica di gerarchia e di tutela.
Si tratta di un aspetto fondamentale che coinvolge i rapporti tra i diversi livelli di governo,
reciprocamente autonomi nell’ambito delle rispettive competenze.
Il nuovo assetto organizzativo dei livelli istituzionali indicati nell’art. 114, offre un’occasione di
valorizzazione degli strumenti e delle procedure di controllo interno, dei controlli di gestione e
della gestione contabile.Nel nuovo sistema policentrico lo scambio d’informazioni tra i diversi
livelli istituzionali consente ad ogni potere pubblico di rendere conto della propria attività
istituzionale e di “rappresentare”i diritti, gli interessi e le aspettative dei cittadini al
miglioramento delle istituzioni.
Spetta all’amministrazione statale, regionale e locale attivare in sede statutaria e
regolamentare un sistema di controlli interni. A tal fine potrebbe essere utilizzata come guida
dalle regioni e dagli enti locali, pur nella flessibilità delle soluzioni organizzative , per la
costruzione di un sistema di controlli interni di risultato, la riforma definita con il d.lgs. n. 286
del 1999, che rappresenta un modello avanzato sotto il profilo concettuale ed organizzativo.
La distinzione fra controlli interni e controlli esterni è data dai diversi circuiti istituzionali nei
quali sono inseriti e dall’oggetto del controllo.
I controlli interni si inseriscono in un circuito istituzionale che abbraccia l’organo di governo e
la burocrazia, sono caratterizzati da un legame stretto fra organo di controllo e responsabile di
gestione, hanno ad oggetto il controllo strategico, il controllo di gestione , la regolarità
contabile e la regolarità amministrativa.
I controlli esterni fanno riferimento al circuito istituzionale Assemblee elettive e organi di
governo, hanno ad oggetto la misurazione e valutazione delle politiche pubbliche all’interesse
generale, il controllo dei risultati complessivi, della finanza pubblica, il controllo delle politiche
pubbliche.
Fonte:forum P.A.
Dal quadro emerge che il miglioramento della qualità dei servizi, la sintesi tra i valori giuridici
dell’autonomia e della responsabilità può derivare solo da un azione sinergica e coordinata che
accanto ai controlli interni preveda anche i residuali controlli esterni:
• potestà riconosciuta agli elettori di promuovere in un qualsiasi giudizio azioni e ricorsi
spettanti al comune,
• controllo di legittimità costituzionale esercitato dalla Corte Costituzionale nel quadro dei
ricorsi in via principale attivati dal Governo,
• controllo referendario del corpo elettorale sui nuovi statuti regionali,
• controllo successivo non sanzionatorio della Corte dei Conti sulla gestione delle
amministrazioni regionali,
• …………………………………..,
Senza vantare la pretesa di offrire soluzioni, l’indicazione fornita vuole tenere conto di alcune
linee di tendenze che si stanno sviluppando nel sistema paese. La rete delle autonomie che si
va ampliando con l’inglobazione delle camere di commercio, delle università, delle istituzioni
scolastiche, ecc, impone che siano sviluppate esperienze cooperative di controllo e valutazione
con le amministrazioni territoriali.
Particolarmente significativa, anche alla luce del diverso e necessariamente minore grado di
connessione con le norme costituzionali, appare la soluzione offerta dal nuovo Regolamento di
contabilità (D.M.n. 44/2001) in materia di controlli sulla gestione dei dirigenti scolastici della
scuola. Nell’assetto complessivo del sistema il regime dei controlli,tenuto ovviamente conto
della peculiarità dei contenuti dell’autonomia scolastica,è delineato sulla base di una corretta
visione del raccordo tra autonomia, compartecipazione e controllo.
Già sotto la vigenza del vecchio regolamento del 1975, si era cominciato a parlare di attività di
controllo dei revisori dei conti che, in aggiunta al controllo di regolarità e legittimità giuridicoformale, indagasse intorno alla “proficuità” dell’azione della scuola.
Tale avance, di natura esclusivamente concettuale, ha poi trovato una completa
formalizzazione nella recente normativa di riferimento che, con riguardo soprattutto alla
modellistica finanziaria, risulta costruita intorno agli stessi concetti di controllo di risultati e
controllo valutativo.
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GIUGNO 2002
Le modifiche Costituzionali e la riforma del sistema scolastico - di Alfonso Rubinacci
Nel nostro Paese sono in atto una pluralità di processi di cambiamento: la riforma della Pubblica
Amministrazione e della scuola, il federalismo e il rafforzamento dei livelli locali di governo, lo
sviluppo di azioni di controllo e valutazione della qualità dei servizi.
Molti di questi processi sono riconducibili o saranno influenzati dalla riconfigurazione
istituzionale definita dalle modifiche al titolo V, parte seconda, della Costituzione che attribuisce
competenze legislative alle regioni, funzioni amministrative agli enti locali nel quadro di una
legislazione statale di principio.
Peraltro, quante più competenze legislative, regolamentari, funzioni politiche e attività
amministrative vengono trasferite dal livello nazionale a quello regionale e territoriale, tanto più
il sistema delle autonomie deve farsi carico della individuazione, tutela e promozione dei diritti
civili e sociali.
Il federalismo, il rafforzamento dei livelli locali di governo, l’attuazione del principio di
sussidiarietà, secondo il quale le funzioni sono svolte al livello più basso, possono realizzarsi
solo con il consenso dei cittadini che vanno coinvolti attraverso opportuni ed adeguati processi
di relazioni e di comunicazioni.
Il federalismo quale strumento di promozione dello sviluppo locale non può trascurare il
conseguimento di obiettivi quali quelli:
• di trasformare la gerarchia verticale delle istituzioni in una competizione reciproca tra i
vari livelli di governo al servizio degli interessi degli individui;
• di smettere di difendere la rigidità delle architetture istituzionali e lasciare un grado
maggiore di libertà per consentire ad istanze diverse di convivere.
La legge Costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3, contiene interessanti e sostanziali modificazioni
nell’assetto istituzionale e nell’allocazione delle potestà legislative dello Stato e delle Regioni,
infatti:
• configura gli assetti istituzionali di un nuovo modello di Stato politicamente decentrato,
con importanti implicazioni per l’organizzazione del settore pubblico,
• rappresenta un elemento di particolare significato nel processo di riforma dell’autonomia
territoriale,
• realizza un concreto decentramento istituzionale, legislativo, amministrativo e fiscale,
spogliando lo Stato di competenze, strutture, uffici e spese.
Gli enti costitutivi della Repubblica
Il nuovo testo dell’art. 114, secondo il quale “la Repubblica è costituita dai comuni, dalle
province, dalle città metropolitane, dalle regioni e dallo Stato”, costituisce la vera cifra per
comprendere la portata della riforma, la “carta d’identità” del nuovo sistema di collettività
territoriali autonome, costituzionalmente garantite, costitutive dell’ordinamento complessivo.
La finalità è costruire un sistema articolato su più punti di forza, policentrico, nel quale allo
Stato si affiancano altri centri: la Regione, ente a competenza generale per la legislazione e il
Comune, ente a competenza generale per l’amministrazione.
Rispetto alla vecchia formulazione si registrano alcune novità:
• non vi è più un’articolazione interna della Repubblica “si riparte”, ma una elencazione di
veri e propri elementi costitutivi, ”la Repubblica è costituita”
• l’ente territorialmente più piccolo è indicato per primo, per sottolineare la volontà
legislativa di porre al primo posto l’ente più vicino ai cittadini,
• viene per la prima volta indicata nella Costituzione la”città metropolitana”, una forma
organizzativa territoriale attualmente disciplinata a livello di legge ordinaria,
•
•
il nuovo testo rafforza la posizione delle province e dei comuni,
il riferimento agli statuti, quale caratteristica dell’autonomia degli enti territoriali.
Il riparto della funzione legislativa tra Stato e Regione
L’art. 117 della Costituzione introduce un nuovo criterio di riparto delle competenze legislative
tra Stato e Regioni. Fino all’entrata in vigore del riformato titolo V solo le regioni a statuto
speciale erano titolari di potestà legislativa.
La legge Costituzionale n. 3 estende la potestà esclusiva anche alle regioni a statuto ordinario
che anzi costituisce l’ipotesi ordinaria, quando non sia coinvolta una materia espressamente
attribuita alla potestà legislativa esclusiva dello Stato o a quella concorrente dello Stato e delle
Regioni.
Limiti alla potestà legislativa statale e regionale
Le precedenti norme costituzionali non contenevano limiti alla potestà legislativa statale, ma
limitavano la potestà legislativa concorrente delle Regioni.
Il nuovo testo dispone, sia per lo Stato che per le Regioni, limiti nuovi: il rispetto della
Costituzione, i vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali.
Ciò evidentemente nella logica di costruire un assetto costituzionale coerente con la nuova
dimensione politica dell’Europa.
Le materie di competenza statale
La potestà legislativa statale è indicata nel comma secondo del nuovo art. 117. Lo Stato ha
legislazione esclusiva nelle materie contenute in un elenco, quasi a volerne sottolineare il
carattere tassativo.
Allo Stato non spetta più una generale potestà normativa, bensì un potere legislativo
esercitabile in materie determinate. Anche se tale elenco non può ritenersi esaustivo perché
molti articoli della Costituzione prevedono una riserva di legge statale.
Le materie di legislazione concorrente, la cosiddetta “ripartita”, per le quali intervengono Stato
e Regioni, il primo nella determinazione dei principi generali, le seconde con la potestà
legislativa, sono elencate al terzo comma dell’art. 117, tra le quali troviamo l’istruzione.
La competenza legislativa generale delle Regioni
Il quarto comma dell’art.117 contiene una disposizione chiave di tutta la riforma: attribuisce la
potestà legislativa alle Regioni in tutte le materie non ricomprese tra quelle esclusivamente
statali e in quelle a competenza ripartita.
Sulla legislazione regionale incide comunque la competenza “trasversale” derivante
dall’attribuzione allo Stato della determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni
concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale, e le
norme generali in materia d’istruzione.
Il panorama che abbiamo di fronte è quello di una complessa fase di transizione.
Non sarà certamente agevole:
• individuare con certezza e completezza le materie di competenza regionale,
• definire il rapporto tra competenza legislativa e riserve di legge contenute in altri articoli
della Costituzione.
Vi è comunque la necessità urgente di prefigurare nel settore dell’istruzione le materie che
devono rimanere nella competenza esclusiva dello Stato.
A titolo indicativo si può ritenere che la tutela della libertà d’insegnamento, l’articolazione degli
ordinamenti, la durata dell’obbligo scolastico, i piani di studio, gli standard per la spendibilità
nazionale dei titoli di studio conseguiti al termine dei percorsi formativi, il sistema di
certificazione, la valutazione di sistema rientrano nella competenza dello Stato a garanzia di
conformità di trattamento su tutto il territorio nazionale.
Appare necessario anche che rientri nella competenza esclusiva dello Stato assicurare il diritto
ai capaci e meritevoli di raggiungere i gradi più alti degli studi.
Il riparto della funzione regolamentare
Altro aspetto importante presente nelle modifiche costituzionali è costituito dall’attribuzione alle
Regioni della potestà regolamentare sulle materie proprie, su quelle ripartite e su quelle statali
delegate. Allo Stato spetta solo la competenza sulle materie statali non delegate.
È dunque evidente come la nuova ripartizione privilegi l’attribuzione alle Regioni piuttosto che
allo Stato.
Mentre ai Comuni, alle Province e alle Città metropolitane la potestà regolamentare è
riconosciuta per la disciplina dell’organizzazione, dello svolgimento delle funzioni e
dell’erogazione dei servizi, tra i quali ovviamente è ricompreso quello dell’istruzione.
La funzione amministrativa
Il Comune è il centro del sistema locale.
La norma costituzionale definisce un percorso di decentramento che sottrae quasi integralmente
le funzioni amministrative allo Stato ed alle Regioni e le riversa sulle autonomie locali.
L’articolo 118 pone come regola generale il “principio” che le “funzioni amministrative sono
attribuite ai Comuni.
In sintesi l’innovazione più saliente è, dunque, il superamento del vecchio assetto organizzativo
dei pubblici poteri, caratterizzato, nella Costituzione del 1948, da una concezione gerarchica del
rapporto fra Stato e enti locali e, successivamente negli anni “70, da una debole autonomia
istituzionale e finanziaria riconosciuta alle regioni.
Rapporto tra nuova Costituzione e scuola
Le modifiche costituzionali riguardano altri aspetti significativi degli assetti istituzionali, cito ad
esempio il federalismo fiscale.
Gli accenni precedenti sono quelli che hanno un maggiore impatto sul sistema di educazione e
istruzione del nostro Paese.
Nuova Costituzione e organi collegiali
La nuova legge costituzionale ha effetti su almeno tre provvedimenti che riguardano la scuola:
• gli organi di governo interni alla scuola,
• gli organi scolastici collegiali territoriali,
• la riorganizzazione dell’amministrazione centrale e periferica.
La legge n. 3, avendo dislocato non solo compiti e funzioni amministrative, ma anche poteri
legislativi obbliga ad un nuovo intervento sull’amministrazione per renderla funzionale alle
mutate missioni da una parte del sistema delle autonomie territoriali, dall’altra
dell’Amministrazione.
E quindi il MIUR si dovrebbe “alleggerire” ancora di più dei compiti di diretta gestione, per
assumere un ruolo più marcato nelle funzioni di indirizzo e controllo.
Così come le articolazioni periferiche dovrebbero dare concretezza alle politiche educative con
una interlocuzione operativa policentrica e paritaria, proprio per i concetti già espressi con
riferimento al nuovo articolo 114.
Ma sono la nuova Costituzione e l’autonomia i principi che devono stare a fondamento dei criteri
per la definizione degli organi di governo delle istituzioni scolastiche, per la rivisitazione degli
organi collegiali territoriali, quantunque già modificati con il D.P.R. 233 del ’99, e non costituiti,
e soprattutto per la riforma dell’intero sistema educativo.
Nuova Costituzione e processo di riforma
È, infatti, lungo la linea definita dalla modifica del titolo V della Costituzione che si muove il
disegno di legge delega di riforma del sistema scolastico in discussione dal 9 aprile 2002
davanti alla VII Commissione Cultura del Senato.
L’intervento legislativo proposto all’art. 1 definisce le norme generali sull’istruzione e richiama
la necessità di garantire, prescindendo dai confini territoriali dei governi locali, i livelli essenziali
delle prestazioni in materia di istruzione e formazione.
La norma intende porre dei limiti per arginare la possibilità di pervenire a gerarchie diverse dei
diritti riconosciuti e condivisi, variabili da regione a regione. Aspetto fondamentale se si vuole
costituire” la seconda gamba” del sistema educativo, quello dell’istruzione professionale, che
deve essere di pari dignità rispetto a quello dei licei, garantire il passaggio tra i due sistemi, e il
conseguimento di competenze spendibili sull’intero territorio nazionale e all’interno dell’Unione
Europea.
Nella stessa linea si pone la previsione di riservare alle Regioni, per gli aspetti di loro specifico
interesse, la definizione di una quota orario dei piani di studio, dovendo, però, conciliare questa
previsione con l’autonomia scolastica, ora di rilievo costituzionale.
La proposta di riforma ne richiama il principio e stabilisce che le norme attuative dovranno
essere emanate nel “rispetto……dell’autonomia delle istituzioni scolastiche”.
Sono linee di indirizzo importanti perché l’autonomia scolastica si intreccia fortemente con un
altro elemento costitutivo della scuola, quale è quello della libertà d’insegnamento ed esige che
venga non solo rispettata e tutelata, ma anche promossa dallo Stato e dal sistema delle
autonomie.
Occorre avere la piena consapevolezza che l’autonomia didattica e professionale dei docenti
sono i presupposti:
• per dare concretezza alle spinte di innovazione e di trasformazione che altrimenti si
consumerebbero senza dar luogo a risultati tangibili,
• per garantire la libertà di apprendimento degli alunni, per la promozione della persona,
per il rispetto dei valori fondamentali dell’uomo,
• perché la scuola possa realmente conseguire un miglioramento qualitativo dei repertori
culturali, un consolidamento delle conoscenze, concorrendo in tal modo allo sviluppo
sociale ed economico del Paese,
• perché la scuola possa riuscire a stabilire con un linguaggio adatto un contatto con una
società ansiosa sul futuro ed incerta sulle strade da battere.
La scuola è chiamata a valorizzare le potenzialità dei contesti territoriali delineati dai due
provvedimenti di riforma a cui si è fatto riferimento precedentemente, che hanno definito lo
scenario all’interno del quale si dovrebbe collocare il sistema di istruzione e di formazione.
Gli obiettivi posti sono quelli di:
• riservare maggiore attenzione verso tutti i giovani,
• coinvolgere gli enti locali nel definire e sostenere le attività educative,
•
valutare il lavoro didattico creativo, personale e comune,
• coltivare le eccellenze e di recuperare i più deboli,
• avvicinare e ridurre le difficoltà di ingresso nel mondo del lavoro.
Obiettivi ormai che sono obbligatori per una società che volendo essere responsabile e solidale
utilizza la scuola come istituzione pubblica, plurale e competitiva.
Una scuola dunque non mercantilistica, ma neppure burocratica e formalista, né autoritaria né
permissiva, ma luogo di sintesi dei valori dell’autonomia e della responsabilità.
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SETTEMBRE 2002
La legislazione concorrente e la questione dei principi fondamentali –
di Alfonso Rubinacci
La riforma del titolo V della Costituzione è un tema centrale nel dibattito politico. I nuovi
assetti istituzionali sono elementi importanti e, per certi versi, discriminanti dell’evoluzione
della società e della crescita della coscienza pubblica da cui nasce la partecipazione politica. La
percezione dell’esatta portata e ancor più l’attuazione del nuovo titolo V si sono da subito
dimostrate difficili, perché la riforma costituzionale ha posto una serie di questioni
interpretative assai complesse e di non facile soluzione. Hanno concorso, inoltre, a renderne
problematica l’attuazione alcune leggi, approvate dal Parlamento, non coerenti con i nuovi
assetti istituzionali, che hanno prodotto un vero e proprio ribaltamento nella logica di
funzionamento dello Stato. Sono convinto che la complessa attuazione della riforma impone di
seguire la strada dell’individuazione di soluzioni concertate e condivise sia dal centro che dai
governi locali, sia dalla maggioranza che dall’opposizione.
In questa prospettiva va l’accordo firmato il 20 giugno 2002 dal Presidente del Consiglio con
Regioni, Province, Comuni e comunità montane per la realizzazione del federalismo. Con
l’accordo, Stato e Regioni si sono impegnati a vigilare reciprocamente affinché non vengano
oltrepassati i rispettivi ambiti di competenza legislativa. La Conferenza Unificata sarà la sede di
verifica periodica dell’accordo. Una risposta più esaustiva, sui tempi e sui ritmi dell’azione
riformatrice, viene ad essere garantita dal disegno di legge La Loggia licenziato, in via
definitiva, dal Consiglio dei Ministri nella seduta del 20 giugno 2002.
Rispetto al primo schema, la versione del testo approvato tiene conto delle osservazioni da più
parti formulate, riportando numerose e non trascurabili innovazioni. Le più significative novità
riguardano la tematica delle fonti e dei controlli sulle stesse. Va segnalata anche la
soppressione, rispetto al primo testo, della disposizione che stabiliva la sospensione
dell’efficacia delle leggi (sia statali che regionali) impugnate.
Il Ddl La Loggia affronta numerosi problemi con soluzioni in alcuni casi condivisibili, in altri
meno, in altri ancora criticabili. L’art. 1, comma terzo, affronta il tema dei rapporti tra la
legislazione statale e regionale nel settore delle competenze concorrenti: “nelle materie
appartenenti alla legislazione concorrente, le Regioni esercitano la potestà legislativa
nell’ambito dei principi fondamentali espressamente determinati con legge statale o in difetto
quali desumibili dalle vigenti leggi dello Stato”. Il comma 4 attribuisce una delega al governo
per la ricognizione dei principi fondamentali relativi alle materie di legislazione concorrente. È
previsto espressamente un “doppio passaggio” degli schemi dei decreti alla Conferenza StatoRegioni. La delega deve essere esercitata entro un anno e deve ispirarsi ai principi della
completezza, esclusività, adeguatezza, chiarezza, proporzionalità ed omogeneità, nonché ai
criteri direttivi indicati nel comma 5 dello stesso articolo.
La soluzione del problema dell’individuazione dei principi fondamentali con il ricorso alla delega
ha suscitato discussioni, per lo più connotate da riserve e critiche anche assai aspre. Le
questioni sollevate investono principalmente due aspetti:
•
il ricorso alla delega legislativa in materia di definizione dei principi fondamentali;
•
la definizione dei principi fondamentali con riferimento alla normativa statale vigente.
Delega legislativa
in materia di principi fondamentali
Il professor Caravita nell’intervento “Il Ddl La Loggia: spunti per una discussione”, pubblicato
sul sito web dell’Osservatorio sul federalismo, sostiene che “le critiche avanzate contro l’ipotesi
della delega alla ricognizione dei principi fondamentali non appaiono convincenti”. Afferma
inoltre Caravita che “se la delega è rivolta alla sola “ricognizione” dei principi, il legislatore
delegato non potrà scrivere nulla di più di quanto già esistente nell’ordinamento: e così come il
coordinamento è ritenuto criterio sufficiente, ai sensi dell’art. 76 della Costituzione nelle
deleghe alla redazione dei testi unici (…) altrettanto vale per la delega alla ricognizione,
essendo proprio questo il criterio e principio direttivo della delega”.
Il professor Datena, in un saggio in corso di pubblicazione in un quaderno del Centro di ricerca
sulle amministrazioni pubbliche “Vittorio Bachelet” della LUISS Guido Carli, svolge alcune
considerazioni critiche sulla ipotesi della delega legislativa in materia di principi fondamentali.
Datena sostiene che “si tratta di una soluzione che non sembra eccessivo qualificare
aberrante” e che “la materia dei principi fondamentali sia coperta da riserva di assemblea (e
conseguentemente, sottratta alla delegazione legislativa)”.
Il professor Bin argomenta che l’individuazione e definizione dei principi fondamentali non
costituisce “un’operazione da computer, un fatto tecnico non di filosofia politica o
d’impostazione ideologica” come sostiene il ministro La Loggia. I principi fondamentali “non
esistono in natura né sono distinguibili in virtù di operazioni meramente logico formali: definire
una norma come principio è frutto di una scelta politica”.
Le opinioni espresse finora dagli studiosi hanno trovato riscontro nel dibattito politico
sollecitato dall’avvio dell’esame del disegno di legge n. 1036 concernente la delega al Governo
per la definizione delle norme generali sull’istruzione e dei livelli essenziali delle prestazioni in
materia di istruzione e formazione professionale. La commissione Affari Costituzionali del
Senato nella seduta del 19 giugno 2002 ha espresso a maggioranza un parere non ostativo al
prosieguo della discussione in sede referente in commissione Cultura. Il senatore Valditara ha
ricordato tra l’altro “che in base al terzo comma dello stesso articolo 117, lo Stato è
competente per la determinazione dei principi fondamentali in riferimento ai quali si estrinseca
la competenza legislativa concorrente delle Regioni in materia d’istruzione”.
Il senatore Mancino, intervenendo nel dibattito ha espresso “la sua contrarietà sulla delega al
Governo sia per l’assoluta genericità dei criteri e principi direttivi, sia perché essa concerne
anche la determinazione dei principi fondamentali nelle materie di competenza legislativa
concorrente che, data la loro natura non possono in alcun caso essere delegati all’Esecutivo”. Il
senatore Vitali ha osservato che “è particolarmente difficile concepire una delega al Governo
per la determinazione dei principi fondamentali, laddove, in base all’art. 76 della Costituzione,
la stessa delega dovrebbe indicare chiaramente principi e criteri direttivi”. Il senatore Bassanini
ha affermato nel suo intervento che “si pone la questione, che sarà presto sciolta dalla Corte
Costituzionale relativamente alla cosiddetta “Lunardi” della legittimità di una delega circa la
determinazione dei principi fondamentali nelle materie di competenza legislativa concorrente”.
Il sottosegretario Aprea nel suo intervento ha ricordato che “le questioni sollevate dai sen.
Mancino, vitali e Bassanini sono state approfondite nelle riunioni della Conferenza StatoRegioni”.
Definizione dei principi fondamentali
con riferimento alla normativa statale vigente
La Corte Costituzionale nella prima pronuncia n. 282 del 2002 in ordine alle modalità di
esercizio della potestà legislativa delle Regioni nel nuovo art. 117 afferma che “la nuova
formulazione dell’art. 117, terzo comma, rispetto a quello previgente dell’art. 111, primo
comma, esprime l’intento di una più netta distinzione fra la competenza regionale a legiferare
in queste materie e la competenza statale, limitata alla determinazione dei principi
fondamentali della disciplina. Ciò significa, però, che i principi possono trarsi solo da leggi
statali nuove espressamente rivolte a tali scopi. Specie nella fase di transizione dal vecchio al
nuovo sistema di riparto delle competenze, la legislazione regionale concorrente dovrà
svolgersi nel rispetto delle competenze, dei principi fondamentali comunque risultanti dalla
legislazione statale già in vigore”.
Il disegno di legge La Loggia pur qualificando in termini di pura “ricognizione” l'attività con cui
saranno rintracciati i principi fondamentali, attribuisce al Governo il compito di procedere a tale
ricognizione, ma lungo il verso tracciato dai principi e criteri direttivi della stessa delega e
dunque necessariamente innovando l’ordinamento anteriore. Non potrebbe essere
diversamente perché nel momento in cui si riconosce un rovesciamento del sistema di riparto
delle competenze legislative, non si può ritenere che l’esercizio della funzione legislativa
regionale sia vincolata al rispetto di principi desumibili da una normativa statuale che, di fatto,
non rispecchia più l’aspetto attuale delle competenze legislative.
Concorre a consolidare questo orientamento la circostanza che l’elenco delle materie recato
dall’attuale art. 117 della Costituzione è notevolmente diverso da quello delineato dalla
precedente formulazione di tale articolo. I principi fondamentali sono volti a salvaguardare
profili di unitarietà ed omogeneità di disciplina funzionali alla soddisfazione di un prevalente
interesse nazionale. Nel delimitare i principi fondamentali il legislatore statale è chiamato ad
individuare quali siano i profili di disciplina di una determinata materia indissolubilmente
funzionali alla soddisfazione dei valori sanciti dalla Parte I della Costituzione. Questo è il senso
anche dell’ordine del giorno n. 9 4809.2 (Cabras, Manzella, Elia ed altri) votato dal Senato
nella seduta del 15 novembre 2000, n. 957: “la determinazione dei principi fondamentali
avvenga mediante indicazioni normative essenziali, che individuino in ciascuna materia
l’interesse unitario da salvaguardare”.
Considerazioni
In questo quadro non appare dunque convincente la soluzione dell’individuazione dei principi
con una delega al Governo alla ricognizione di principi fondamentali vigenti al momento di
approvazione della legge, senza nessuna potestà di modificarli o di aggiungerne di nuovi,
all’interno delle competenze e dei mutati assetti istituzionali.
La mancata prefigurazione con legge ordinaria delle materie che potrebbero rientrare nelle
“norme generali” di competenza esclusiva dello Stato, non consente di avere un corpus di
legislazione nazionale idoneo ad esprimere principi suscettibili di orientare gli sviluppi della
competenza legislativa concorrente delle Regioni. Una volta individuate le norme generali con
legge ordinaria, il Governo può essere delegato ad adottare, nell’ambito del potere statale di
legislazione concorrente, un decreto in materia di determinazione dei principi fondamentali che
ne costituiscono attuazione. Come si può desumere agevolmente la questione delle “norme
generali” e dei principi fondamentali riveste una particolare importanza per il settore
dell’istruzione e della formazione. Un settore che non solo è volto ad assicurare l’esercizio dei
diritti civili, ma anche a garantire l’unità e l’identità nazionale, attraverso sì forme
organizzative diversificate e flessibili, ma pur sempre all’interno di un quadro di unitarietà e
omogeneità sostanziale.
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NOVEMBRE 2002
RIFORMA MORATTI - quando prevale la logica dei numeri - di Alfonso Rubinacci
Il dibattito sulla politica scolastica italiana si colloca all'interno di uno scenario caratterizzato
dalla necessità di realizzare con urgenza un miglioramento degli esiti formativi e un più alto
livello di scolarità.
Uno scenario nuovo anche dal punto di vista Costituzionale. Con la legge n. 3, del 2001 allo
Stato è riconosciuto il dovere di garantire la qualità del servizio su tutto il territorio nazionale.
Il nuovo art. 117 della Costituzione riserva alla potestà esclusiva dello Stato la determinazione
dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere
garantiti su tutto il territorio nazionale e la definizione delle norme generali sull'istruzione.
Su questa materia, la ripresa della attività parlamentare, dopo la pausa estiva, è stata segnata
dall'approvazione in Commissione Cultura del Senato del disegno di legge delega sulla riforma
della scuola con la quale il Governo e la sua maggioranza ritengono di indicare al Paese un
orizzonte verso il quale muovere.
Questa occasione ha generato un serrato dibattito tra le forze politiche sui programmi di
riforma del sistema scolastico.
La conoscenza e comprensione dei dati del dibattito in Commissione, le domande e le
riflessioni proposte nel corso della discussione avrebbero dovuto consentire di migliorare il
livello della progettualità politica, di assumere la riforma della scuola nell'orizzonte di una
cultura rinnovata.
L'approvazione del disegno di legge ha messo in evidenza l'impossibilità di esercitare le
funzioni di mediazione e di scambio che, essenziali al gioco democratico, nel maggioritario
sono considerati come residui della prima Repubblica.
Nel sistema maggioritario, questo governo si ritiene impegnato a realizzare un programma non
negoziato in Parlamento ma contrattato con il corpo elettorale. Se prevale soltanto la regola
dei numeri, , l'opposizione non riesce a rendere visibile proposte alternative o migliorative.
Il dibattito nella Commissione Cultura del Senato
Il ragionamento espresso trova riscontro in alcune informazioni oggettive capaci di descrivere
le condizioni in cui si è svolto confronto.
Il disegno di legge, composto da 7 articoli, è stato discusso in Commissione Cultura dal 9 aprile
al 2 ottobre 2002 in 36 sedute, di cui 6 notturne. Sono stati presentati 128 emendamenti dalla
maggioranza e 528 dall'opposizione. Sono stati accolti 37 emendamenti, che hanno consentito
di apportare marginali modifiche al testo. Alcuni emendamenti sono stati condivisi anche
dall'opposizione.
La discussione ha consentito di introdurre alcune modifiche formali che hanno reso il testo più
lineare ed alcuni correttivi nel merito che comunque non hanno modificato i contenuti del
disegno di riforma.
Le modifiche possono essere così sintetizzate:
• articolo 1
- il termine entro il quale le Commissioni sono chiamate ad esprimere il parere sugli schemi di
decreti legislativi è stato elevato a 60 giorni,
• articolo 2
-l'anticipo delle iscrizioni alla scuola dell'infanzia avviene secondo criteridi gradualità e in forma
sperimentale per consentire la verifica in itinere dell'impatto sul sistema educativo e coinvolge
i bambini e le bambine che compiono i 3 anni entro il 30 aprile dell'anno scolastico di
riferimento,
-l'accesso all'istruzione tecnica superiore è consentita anche agli studenti ammessi al v anno
del corso liceale,
-la permanenza dei docenti nella sede di titolarità è considerata condizione facilitante del
miglioramento dei processi di apprendimento degli studenti,
• articolo 4
- l'alternanza scuola lavoro può essere realizzata in collaborazione con le imprese ma anche
con le associazioni di rappresentanza e con le camere di commercio, industria, artigianato e
agricoltura,
• articolo 5
- i corsi di formazione per i docenti sono di pari durata, gli accessi ai corsi sono determinati
sulla base della previsione dei posti effettivamente disponibili per ogni ambito regionale , nelle
istituzioni scolastiche. Nella previsione sono incluse anche le scuole paritarie,
- è previsto il riconoscimento ai docenti, sprovvisti di abilitazione all'insegnamento ed in
possesso del diploma biennale di specializzazione per le attività di sostegno, di crediti didattici
per il percorso didattico teorico pratico e per gli esami sostenuti,.
• articolo 6
- la prova scritta di lingua francese nell'ambito dell'esame di stato conclusivo del ciclo
secondario, nella Valle d'Aosta è facoltativo,
• articolo 7
- l'iscrizione, solo per l'anno scolastico 2003/2004, alla prima classe della scuola primaria
è prevista per i bambini e le bambine che compiono i sei anni entro il 28 febbraio,2004,
- l'iscrizione alla scuola del'infanzia, per gli anni scolastici 2003/2004, 2004/2005 e
2005/2006, secondo criteri di gradualità e in forma di sperimentazione,è prevista per i
bambini e le bambine che compiono i tre anni entro il 28 febbraio 2004,ovvero entro date
ulteriormente anticipate, fino alla data del 30 aprile di cui all'articolo 2, comma 1, lettera e),
- è prevista l'abrogazione esplicita della legge 20 gennaio 1999, n. 9 recante norme per
l'elevamento dell'obbligo scolastico.
i numeri del dibattito in Commissione
articolo
maggioranza
1
17
2
53
3
5
4
7
5
34
6
2
7
10
totale
128
opposizione
113
248
21
33
44
4
65
528
accolti
5
11
7
5
4
1
4
37
Nella Commissione Cultura non si è realizzato, e forse non si è neppure tentato, un
coinvolgimento di tutte le forze politiche per trovare le più alte mediazioni possibili nella
considerazione che la scuola è della società e dell'intero Paese, è una risorsa di tutti.
Il Ministro Moratti in più occasioni ha sottolineato che l'opposizione fa solo critiche distruttive e
mai proposte. Il richiamo non trova conferma nell'andamento del dibattito e le marginali
modifiche apportate al testo di riforma ne sono una concreta testimonianza. Voler essere
protagonisti del cambiamento non significa pretendere di averne l'esclusiva paternità. I
processi di cambiamento richiedono l'umiltà del camminare insieme. Solo un confronto serrato,
sereno, reale, autentico può far emergere la forza di perseguire un cambiamento che si
presenta necessario ma incerto e per alcuni aspetti scomodo.
Peraltro la costruzione di una condizione di condivisione porta necessariamente alla erosione
del progetto originario.
Ci auguriamo che la discussione in Aula, il cui avvio ragionevolmente si può collocare verso la
fine del mese di ottobre, non si limiti a ratificare il testo licenziato dalla Commissione.
Ruolo del Parlamento
All'interno del complesso delle questioni che il disegno di legge di riforma del sistema
d'istruzione pone, appare opportuno richiamare l'attenzione su alcuni aspetti ed elementi che,
sia singolarmente che tutti insieme, possono concorrere a definire un quadro complessivo che
modifica profondamente l'intero ordinamento.
Nel numero di settembre di Tuttoscuola,
nell'ambito della riflessione politico_-culturale
sollecitata anche dall'avvio della discussione del disegno di legge La Loggia, è stata richiamata
l'attenzione sul tema dei rapporti tra la legislazione statale e regionale nel settore delle
competenze concorrenti.
Si sottolinea che non appare convincente la soluzione della determinazione con delega dei
principi fondamentali nelle materie di competenza legislativa concorrente che, data la loro
natura, non possono in alcun caso essere delegati al Governo
A nessuno sfugge l'importanza delle decisioni che il Parlamento è chiamato ad assumere per il
settore dell'istruzione e della formazione connesse alla definizione delle"norme generali" e dei
"principi fondamentali". All'istruzione e alla formazione è demandato il compito non solo di
garantire l'esercizio dei diritti civili ma anche l'unità e l'identità nazionale.
La legge delega attribuisce al Governo la competenza ad emanare i decreti legislativi che
investono non solo gli aspetti attuativi, ma anche:
• l'individuazione del nucleo essenziale dei piani di studio nazionali, relativamente
agli obiettivi specifici di apprendimento, alle discipline e alle attività obbligatorie, agli orari, ai
limiti di flessibilità interna, all'organizzazione scolastica,
• la determinazione delle modalità di valutazione dei crediti scolastici,
• la definizione degli standard minimi formativi su scala nazionale e l'individuazione dei titoli
professionali utili anche al passaggio dal sistema dei licei a quello dell'istruzione e della
formazione professionale e viceversa,
• la valutazione degli apprendimenti e la determinazione delle funzioni e della struttura
dell'istituto nazionale per la valutazione del sistema di istruzione,
•
la disciplina dell'alternanza scuola-lavoro,
•
il reclutamento e formazione dei docenti.
Rapporto tra Costituzione e disegno di legge di riforma
Un quadro, dunque, che modifica profondamente l’intero ordinamento repubblicano.
La definizione per delega:
-
delle norme generali sull’istruzione,
dei livelli essenziali delle prestazioni in materia di istruzione e di formazione professionale,
dei principi fondamentali della potestà legislativa concorrente nelle competenze riservate
alle regioni,
- dei contenuti dell’autonomia delle istituzioni scolastiche,
ha come conseguenza quella di mutare la natura e la portata dell’istituto della delega
legislativa che può certamente continuare ad avere una portata e un carattere attuativo
generale rispetto ai destinatari, ma non può svolgere il ruolo di unificazione del sistema
complessivo nei settori essenziali e fondamentali per la convivenza civile, quali quelli previsti
dall’articolo 117, secondo comma, della Costituzione, lettera m)"determinazione dei livelli
essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e politici e lettera n"norme generali
sull'istruzione".
Il disegno di legge n. 1306 presenta inoltre, aspetti di dubbia costituzionalità perché non può
darsi delega legislativa al Governo:
- per la definizione delle “norme generali sull’istruzione e de livelli essenziali delle prestazioni
in materia di istruzione e di formazione professionale;
- in mancanza o evanescenza dei criteri e principi direttivi;
- per l’individuazione dei principi fondamentali della potestà concorrente;
- quando si invadono le competenze riservate alle Regioni ed enti locali;.
Infine non può darsi delega al Governo che, riducendo i contenuti dell’autonomia delle
istituzioni scolastiche, mina il principio dell’unità culturale del Paese. La proposta di riforma
cambia in profondità molti aspetti del nostro sistema scolastico e con la delega legislativa il
Governo diventa arbitro unico di decisioni di forte contenuto politico che invece dovrebbero
costituire una riserva d'assemblea dell'organismo rappresentativo dell'intera collettività
nazionale, vale a dire il Parlamento.
Norme generali sull’istruzione e livelli essenziali delle prestazioni
Il nuovo art. 117 della Costituzione ha riservato alla competenza esclusiva dello Stato le
“norme generali sull’istruzione” e la “determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni
concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale”.
Il disegno di legge con il quale si intende delegare al Governo la determinazione delle “norme
generali sull’istruzione” e dei “livelli essenziali delle prestazioni…” è in contrasto con il
contenuto dell’art. 76 della Costituzione perché non individua “oggetti determinati”, ma
comprende in sé tutta la disciplina del sistema d’istruzione: dalla scuola dell’infanzia fino alla
secondaria superiore, tutta la materia dei livelli dei percorsi d’istruzione e di formazione
professionale, la formazione iniziale, ed anche in servizio, dei docenti.
Il Governo, una volta individuate le “norme generali” con legge ordinaria, può essere delegato
ad adottare, nell’ambito del potere statale di legislazione concorrente, un decreto legislativo in
materia di determinazione dei principi fondamentali che ne costituiscano attuazione. Lo stesso
ragionamento vale per la determinazione dei “livelli essenziali”.
Se così non fosse sarebbe difficile cogliere la differenza tra “norme generali” e “principi
fondamentali” e si dovrebbe giungere alla conclusione che l’espressione “norme generali”
costituisce solo una duplicazione dei “principi fondamentali” la cui definizione spetta allo Stato
per le materie comprese nella legislazione concorrente, la cui potestà spetta alle Regioni
Delega legislativa invasiva di competenze regionali
La mancata distinzione tra nome generali e principi fondamentali in materia d’istruzione
determina un assorbimento nella competenza esclusiva statale di tutte le norme
sull’istruzione, restringendo gli spazi d’intervento delle Regioni.
Vengono disciplinate questioni che rientrano nella competenza legislativa delle Regioni: i
passaggi degli studenti da e verso la formazione professionale, il rilascio di certificazioni da
parte delle istituzioni formative. La disciplina di accesso alla formazione e istruzione tecnica
superiore non può essere stabilita dallo Stato, trattandosi di settore di esclusiva competenza
regionale.
Autonomia delle istituzioni scolastiche
La previsione di cui alla lettera l) dell’art. 2 della delega legislativa di riservare alle Regioni, per
gli aspetti di loro specifico interesse, la definizione di una quota oraria dei piani di studio non si
concilia con il rispetto dell’autonomia scolastica.
L’attribuzione di quote di piani di studio alle Regioni può determinare differenze importanti
nell’istruzione impartita nelle varie parti del Paese.
L’autonomia didattica è parte essenziale e fondante dell’autonomia, tutelata dal titolo V della
Costituzione.
Con la legge delega sembra volersi ridurre lo spazio di autonomia delle scuole. Ciò si pone in
contrasto con la Costituzione perché l'autonomia si intreccia fortemente con un altro elemento
costitutivo della scuola, quale è quello della libertà d'insegnamento ed esige che venga non
solo rispettata, tutelata , ma anche promossa dallo Stato e dal sistema delle autonomie locali.
Va invece ricordato e sostenuto il principio dell'autonomia che costituisce soprattutto oggi,
nell’attuale società complessa, la strategia politico-scolastica in grado di interpretare e di dare
piena attuazione al principio della libertà d’insegnamento, sancito dalla Costituzione, come
garanzia personale di libertà degli insegnanti ma soprattutto come strumento essenziale per la
scuola statale e paritaria di meglio perseguire i propri fini culturali e formativi e di renderne
conto sia alla società, sia agli individui.
GENNAIO 2003
LA NUOVA PROPOSTA
(DEVOLUTION)
DI
MODIFICA
DELL’ART.
117
DELLA
COSTITUZIONE
Art. 1. (Modifiche dell’articolo 117 della Costituzione)
1. Dopo il quarto comma dell’articolo 117 della Costituzione è inserito il seguente:
«Le Regioni attivano la competenza legislativa esclusiva per le seguenti materie:
a) assistenza e organizzazione sanitaria;
b) organizzazione scolastica, gestione degli istituti scolastici e di formazione, salva
l’autonomia
delle
istituzioni
scolastiche;
c) definizione della parte dei programmi scolastici e formativi di interesse specifico della
Regione;
d) polizia locale».
Art. 2. (Disposizioni concernenti le Regioni a statuto speciale e le Province autonome di Trento
e di Bolzano)
1. Sino all’adeguamento dei rispettivi statuti, le disposizioni della presente legge costituzionale
si applicano anche alla Regioni a statuto speciale ed alle Province autonome di Trento e di
Bolzano, per le parti in cui prevedono forme di autonomia più ampie rispetto a quelle già
attribuite.
FEBBRAIO 2003
Federalismo fiscale: ecco che cosa c’e’ in ballo
di Alfonso Rubinacci
Il nuovo sistema dovrà garantire i livelli essenziali delle prestazioni
La riforma del titolo V, parte seconda, della Costituzione introduce cambiamenti profondi nella
struttura e nel funzionamento delle istituzioni. La legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3
opera una rottura con la vecchia articolazione istituzionale che vedeva al suo vertice lo Stato e
pone come obiettivi del nuovo assetto istituzionale l’avvicinamento dei cittadini, degli
organismi sociali e delle imprese alle sedi di elaborazione delle politiche pubbliche.
Un esame del nuovo titolo V deve tendere a ricollocare le modifiche apportate nell’ambito di
tutta la Costituzione, per trovare un nuovo punto di equilibrio che, in prospettiva, sappia
indicare quali siano i limiti non valicabili del possibile percorso attuativo. Ciò è ancora più
necessario se si pone attenzione al fatto che le leggi costituzionali n. 1 del 1999 e n. 3 del
2001 e il disegno di legge sulla devoluzione, approvato in prima lettura al Senato il 5 dicembre,
non costituiscono un esempio di chiarezza e di sistematicità.
La Costituzione e le riforme costituzionali sono al centro della contesa politica e sono utilizzate,
dagli opposti schieramenti, in modo spesso troppo semplicistico se non distorto,
drammatizzando vicende nelle quali, invece, è importante creare le condizioni per un
approfondimento tecnico ed un confronto tra le forze politiche.
Ciò che alimenta maggiormente il dibattito è la preoccupazione di incrinare la coesione
nazionale ed il senso di una comune cittadinanza che presuppongono il godimento di eguali
diritti, quale che sia la Regione di residenza.
In particolare, si paventa che il disegno di legge costituzionale sulla devoluzione, che intende
ampliare le competenze legislative regionali in materia di sicurezza, sanità ed istruzione,
potrebbe accrescere il divario tra regioni ricche, in grado di esercitare le nuove competenze, e
regioni povere che non potrebbero sfruttare le nuove opportunità istituzionali. Occorre,
comunque, sottolineare che un "regionalismo asimmetrico" è previsto nella revisione del titolo
v, parte seconda, della Costituzione.
L'art. 116, terzo comma, prevede, infatti, che "ulteriori forme e condizioni particolari di
autonomia, concernenti le materie di cui al terzo comma dell'art.117 e le materie indicate dal
secondo comma del medesimo articolo alle lettere l) limitatamente all'organizzazione della
giustizia di pace, n) e s), possono essere attribuite ad altre Regioni, con legge dello Stato…
approvata dalle Camere a maggioranza assoluta dei componenti, sulla base di intesa fra lo
Stato e la Regione interessata". La questione centrale, quindi, non è l'assetto istituzionale
differenziato, ma la possibile differenza socioeconomica che ne può derivare tra aree territoriali
ricche ed aree territoriali deboli.
Appare opportuno, per cogliere in modo compiuto i termini della disputa, accennare alla
distinzione tra federalismo e regionalismo, autonomismo e federalismo cooperativo. Il
federalismo ipotizza relazioni istituzionali che frantumano la concezione piramidale del potere.
Il regionalismo, l’autonomismo e il federalismo cooperativo viceversa, insistono sulla visione
dell’indivisibilità del potere sovrano che spetta allo Stato. Pur nella consapevolezza che
federalismo e sussidiarietà siano finalizzati a valorizzare il principio della differenza a danno
della tendenziale uniformità centralistica, non si può affermare che Stato, Regioni, Province, e
Comuni siano sullo stesso piano e che l'interesse nazionale, prima attribuito allo Stato, sia
scomparso dalla Carta Costituzionale. Allo Stato è, comunque, riconosciuto il ruolo di garante
di interventi con finalità di riequilibrio territoriale negli ambiti materiali attribuiti alle Regioni.
Quest’esigenza è ancora più pressante se si pone attenzione ai campi materiali sui quali
interviene la devoluzione del disegno di legge Bossi. Essa investe i settori dell'istruzione, della
formazione, della sanità e della sicurezza che rappresentano tasselli fondamentali del
Welfare state. L'attribuzione alla regione della competenza legislativa esclusiva in queste
materie comporterebbe il riconoscimento della titolarità della ristrutturazione dello "Stato
sociale". Questo possibile riconoscimento conferma che lo Stato centrale, contestualmente
all'opzione a favore di una spinta verso un ridimensionamento consistente dello "Stato sociale"
deve necessariamente conservare un ruolo nel campo degli interventi di riequilibrio territoriale.
In un riassetto fortemente autonomistico va garantito uno standard di tutela dei diritti sociali in
tutte le Regioni, attraverso la disciplina dei livelli essenziali delle prestazioni (essenziali
significa che sono stabiliti per tutti, anche se chi ha di più può decidere per un loro
potenziamento). I livelli essenziali delle prestazioni che riguardano la scuola, la sanità e le
prestazioni solidaristiche devono essere uniformi su tutto il territorio nazionale, universali e
quindi uguali per tutti. La nostra Costituzione ha fatto dello Stato solidale il modello cui
tendere. Per questo impone di rimuovere gli ostacoli che impediscono il pieno sviluppo di ogni
persona, anche di quelle più deboli, per promuoverne le potenzialità.
I principi ispiratori di questa strategia devono essere la globalità delle prestazioni, l'universalità
dei destinatari, l'uguaglianza di trattamento, il rispetto della dignità e della libertà della
persona. Per la definizione di un livello essenziale di prestazione sembra necessario far
riferimento a tre parametri:
1. le modalità di finanziamento dei diversi livelli e la loro entità,
2. le modalità di erogazione delle risposte per garantirli e il loro dimensionamento nel
territorio,
3. le modalità di valutazione dei risultati di efficacia, cioè di effettiva garanzia che al livello
essenziale individuato corrisponda anche una positiva risposta ai bisogni.
In questo contesto si colloca la presente riflessione su uno degli aspetti maggiormente
innovativi del nuovo articolo 119 della Costituzione, come modificato dall'art.5 della legge 19
ottobre 2001, n.3: il riconoscimento alle Regioni e agli enti locali di un'autonomia
finanziaria di entrata.
Il sistema di finanziamento delle attività delle Regioni e degli enti locali, definito dall’art.
119, individua varie fonti di entrata: le entrate proprie, espressione dell’autonomia
finanziaria a tali enti riconosciuta, la compartecipazione al gettito di tributi erariali, le quote
di un fondo perequativo eventualmente spettanti, nonché risorse aggiuntive che non
riguardano la generalità degli enti territoriali. L’applicazione dell’art. 119 costituisce una
questione di notevole complessità, di cui è opportuno sottolineare le difficoltà di attuazione
e gli ostacoli, le resistenze, le disfunzioni di varia natura che sono inevitabili.
Il disegno del sistema che dovrà attuare in concreto il principio dell’autonomia finanziaria e
tributaria sancito dalla nuova Costituzione sarà elaborato dall’Alta Commissione di studio,
istituita dall’articolo 3 della legge finanziaria 2003 che ne dovrà mettere a punto, entro il 31
marzo 2003, le procedure attuative.
Della Commissione fanno parte anche rappresentanti delle Regioni e degli enti locali, designati
dalla Conferenza Unificata di cui all’art. 8 del decreto legislativo 28 agosto 1997, n.281. Alla
Commissione, in particolare, è affidato il compito di indicare al Governo:
i principi generali del coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario, ai
sensi degli artt. 117, terzo comma, 118 e 119 della Costituzione;
• i parametri da utilizzare per la regionalizzazione del reddito delle imprese che hanno la
sede legale e tutta o parte dell’attività produttiva in regioni diverse, per consentire
l’applicazione del principio della compartecipazione al gettito dei tributi erariali riferibili
al territorio di Comuni, Province, Città Metropolitane e Regioni.
Il Governo, entro il 30 aprile, presenterà al Parlamento il piano organico degli interventi, anche
di carattere legislativo, necessari per dare attuazione all’art. 119.
•
In questo quadro va sottolineata che la nuova filiera di rapporti tra Stato ed Autonomie locali
deve tener conto del processo di graduale cessione di poteri dai Governi nazionali verso
l’Unione Europea. Lo Stato centrale assume sempre più il ruolo di “intermediario
istituzionale” rispetto ad uno scenario i cui elementi di legislazione primaria sono concepiti e
definiti in ambito comunitario.
L’autonomia finanziaria
Art. 119
1. I Comuni, le Province, le Città metropolitane e le Regioni hanno autonomia finanziaria di
entrata e di spesa.
2. I Comuni, le Province, le Città metropolitane e le Regioni hanno risorse autonome.
Stabiliscono e applicano tributi ed entrate propri, in armonia con la Costituzione e
secondo i principi di coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario.
Dispongono di compartecipazioni al gettito di tributi erariali riferibile al loro territorio.
3. La legge dello Stato istituisce un fondo perequativo, senza vincoli di destinazione, per i
territori con minore capacità fiscale per abitante.
4. Le risorse derivanti dalle fonti di cui ai commi precedenti consentono ai Comuni, alle
Province, alle Città metropolitane e alle Regioni di finanziare integralmente le funzioni
pubbliche loro attribuite.
5. Per promuovere lo sviluppo economico, la coesione e la solidarietà sociale, per
rimuovere gli squilibri economici e sociali, per favorire l'effettivo esercizio dei
diritti della persona, o per provvedere a scopi diversi dal normale esercizio delle loro
funzioni, lo Stato destina risorse aggiuntive ed effettua interventi speciali in favore di
determinati Comuni, Province, Città metropolitane e Regioni.
6. I Comuni, le Province, le Città metropolitane e le Regioni hanno un proprio patrimonio,
attribuito secondo i principi generali determinati dalla legge dello Stato. Possono ricorrere
all'indebitamento solo per finanziare spese di investimento. E' esclusa ogni garanzia dello
Stato sui prestiti dagli stessi contratti.
La struttura dell’art. 119 presenta tre articolazioni fondamentali. La prima (commi 1-2-3-4)
delinea in modo stringente le modalità di finanziamento dell’attività degli enti territoriali. La
seconda (comma 5) indica un’attività di intervento finanziario dello Stato a integrazione delle
risorse ordinarie delle autonomie locali. La terza articolazione (comma 6) regola con norma
generale la capacità di indebitamento “autonoma” degli enti territoriali limitatamente alle spese
di investimento.
Per creare le condizioni di applicazione dell’art. 119 occorre prioritariamente individuare:
• le materie per le quali spetta allo Stato la competenza legislativa esclusiva;
• gli ambiti della competenza legislativa delle Regioni con riferimento ad ogni materia non
espressamente riservata alla legislazione dello Stato, in via concorrente od esclusiva;
• l’area di competenza concorrente, nella quale lo Stato è chiamato a determinare i
principi fondamentali.
Per riconoscere effettivamente l’autonomia finanziaria di entrata e di spesa ai Comuni,
Province, Città Metropolitane e alle Regioni occorre definire per ciascun livello di governo
regole di finanziamento uniformi, nel senso che, secondo i principi di coordinamento della
finanza pubblica e del sistema tributario, i diversi livelli di governo hanno risorse autonome
che si articolano in:
a) tributi ed entrate proprie,
b) compartecipazione al gettito di tributi erariali, riferibili al loro territorio,
c) risorse provenienti da un fondo perequativo, senza vincoli di destinazione,
istituito con legge dello Stato, per i territori con minore capacità fiscale per
abitante.
Altri aspetti rilevanti dell’art. 119 possono così essere riassunti:
• spetta allo Stato come previsto dalla lettera e) del secondo comma dell’art. 117 la
perequazione finanziaria delle risorse pubbliche disponibili;
• conferma della necessità di coordinamento tra la finanza pubblica in generale e il
sistema di finanza regionale e locale che dovrebbe garantire la razionalità e coerenza
del sistema tributario nel suo complesso;
• i principi di coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario vanno
individuati nei livelli essenziali delle prestazioni la cui quantificazione incontra limiti
esterni, rappresentati dai vincoli derivanti da accordi internazionali e dai criteri di
convergenza economica e finanziaria che lo Stato italiano si è impegnato a rispettare in
sede Europea;
• vanno espressi in un atto di legislazione primaria dello Stato che dovrebbe garantire
anche la semplificazione del sistema tributario e degli adempimenti a carico dei
contribuenti.
In sostanza le funzioni attribuite alla competenza concorrente delle Regioni o che non ricadono
nella competenza esclusiva dello Stato devono trovare integrale finanziamento nella somma
delle tre fonti prima indicate.
I contributi speciali, ai quali fa riferimento il quinto comma dell’art. 119 della Costituzione,
sono esterni al meccanismo ordinario di finanziamento e si riferiscono ad aree territoriali per le
quali si registra una situazione economica e sociale di svantaggio o la necessità di provvedere
a scopi diversi dal normale esercizio delle funzioni dei soggetti politico-amministrativo che
articolano l’assetto federale della Repubblica italiana (Stato, Regioni, Province, Comuni e Città
Metropolitane )
Il sistema fiscale nel suo complesso deve essere strutturato in modo da garantire i livelli
essenziali delle prestazioni concernenti i diritti sociali ed i diritti civili che devono essere
garantiti su tutto il territorio nazionale, la cui definizione si colloca in un momento antecedente
alla determinazione dei meccanismi di perequazione e di coordinamento tra Stato, Regioni ed
enti locali. In caso contrario, lo Stato non potrebbe esercitare le funzioni che attengono alle
garanzie di uguaglianza e dei doveri di solidarietà indicati negli art. 2 e 3 della Costituzione che
devono essere alla base dell’interpretazione del nuovo titoloV.
APRILE 2003
RIFORME COSTITUZIONALI E PROSPETTIVE DI RUOLO
DELLA DIRIGENZA DELLE AMMINISTRAZIONI PUBBLICHE
di Alfonso Rubinacci
Amministrazioni in cammino
Non si può riflettere sulla dirigenza senza porla in relazione ai processi politici, culturali ed
organizzativi e ai provvedimenti legislativi assunti sul versante istituzionale e amministrativo
per una diversa forma Paese e per nuovi rapporti con i cittadini.
Anche il percorso della riforma della dirigenza si inserisce all'interno della evoluzione
istituzionale in atto, il cui elemento essenziale è rappresentato dalle leggi Costituzionali n.1 del
1999 e n.3 del 2001.
La legge Costituzionale n.1 del 1999 ha introdotto l'elezione diretta dei Presidenti delle Regioni
e ha definito il nuovo ruolo dei consigli regionali e l'ampliamento della loro sfera di autonomia.
La legge Costituzionale n.3 del 2001 ha radicalmente trasformato il sistema delle relazioni tra
amministrazioni centrali ed enti territoriali, con uno spostamento del potere normativo, tanto
di rango legislativo che regolamentare, a livello regionale e locale, in una prospettiva di forte
autonomia dell’amministrazione. L’esercizio delle funzioni amministrative, infatti, è sottratto
del tutto ai controlli di legittimità, e l'individuazione delle forme organizzative dell’esercizio
stesso è affidata, normalmente, all’autonomia dei diversi enti territoriali.
L'effetto è la trasformazione del sistema politico e di governo, risultando potenziate le capacità
di scelta e di azione delle entità locali in conseguenza dell'assunzione di un più vasto repertorio
di responsabilità e di competenze.
Al modello di governo verticale si sostituisce un modello orizzontale fondato sul presupposto
che i centri di decisione, individuati nelle amministrazioni pubbliche e nelle autonomie
funzionali, individuano obiettivi comuni, operano d'intesa tra loro, realizzano la collaborazione
delle risorse.
E' necessario capire come e con quali mezzi le istituzioni, le organizzazioni ed i soggetti privati
possono sviluppare strategie comuni e soddisfare le nuove esigenze che pone la necessaria
cooperazione interistituzionale.
La riforma del titolo V, parte seconda, della Costituzione ha profondamente mutato, dunque,
l'assetto delle competenze amministrative fra i diversi livelli di governo locali con ricadute
significative sul piano degli assetti organizzativi delle amministrazioni statali, regionali e locali.
Come per le esperienze del passato anche oggi il dibattito nella vita politica registra una forte
attenzione verso la dimensione istituzionale. Non altrettanto impegno si coglie circa
l’animazione e la funzionalità della Amministrazione Pubblica quale strumento per favorire
l’ammodernamento del sistema di governo del Paese. Si registra scarsa attenzione verso
l’Amministrazione che viene percepita non come entità autonoma, ma “ questione tecnica “ o “
burocratica “ di esclusiva pertinenza dei politici.
Questa percezione si consolida quando si parla di rapporto fra cittadini e istituzioni; solo
sporadicamente in queste ultime si comprendono gli aspetti di gestione e organizzazione
amministrativa.
La concreta funzionalità dei nuovi assetti del territorio si deve, infatti, realizzare ora con
attenzione a:
1. l'integrazione verticale degli interventi di vari livelli amministrativi,
2. l'integrazione orizzontale tra i vari organismi che operano a livello locale e all’interno di
essi,
3. il coinvolgimento dei cittadini e dei soggetti responsabili delle politiche.
Il quadro generale di rafforzamento, quanto a funzioni e ruolo dello “Stato delle autonomie“,
comporta incisive e continue trasformazioni dell’organizzazione amministrativa, incentivate
anche dal crescente ricorso alla “esternalizzazione“ di attività amministrative, con conseguenti
ricadute sulla consistenza degli organici del personale, sul dimensionamento delle strutture e
sulle funzioni e sul ruolo della dirigenza statale e locale.
La riforma del titolo V ha operato una netta distinzione tra funzione legislativa e funzione
amministrativa, comprensiva di quella regolamentare.
Allo Stato spetta la potestà regolamentare nelle materie di legislazione esclusiva, salva delega
alle Regioni, mentre spetta alle Regioni, oltre che nelle materie di loro potestà legislativa,
anche in quelle di legislazione concorrente.
Agli enti sub regionali è riservata una potestà regolamentare per la disciplina
dell’organizzazione e dello svolgimento delle funzioni loro attribuite.
L’art.118, comma 1, ha previsto che “le funzioni amministrative sono attribuite ai Comuni“ a
meno che non ricorrano esigenze di “esercizio unitario“ che impongono di attribuire le funzioni
amministrative ad altro livello di governo, sempre però nel rispetto dei principi di sussidiarietà,
differenziazione ed adeguatezza.
L’art. 118 opera una scelta che nella formulazione appare netta: la funzione amministrativa ha
una dimensione prevalentemente locale
.La futura norma attuativa del principio costituzionale dovrebbe, pertanto, avere quale
obiettivo prioritario l’attribuzione al livello più basso, che è quello comunale, di tutte le funzioni
che sono collocabili a quel livello.
In questa cornice si pone anche la questione dell’associazionismo comunale che rappresenta lo
strumento di costruzione delle condizioni di una capacità di esercizio della funzione
amministrativa.
La differenza di ampiezza demografica tra i comuni costituisce un limite ad una capacità di
governo sufficiente che costituisce, sulla base del principio di “adeguatezza“ richiamato dall’art.
118, la condizione per il conferimento delle funzioni amministrative. Per i comuni di piccole
dimensioni occorrerà, perciò, attivare strutture associative.
In questa prospettiva si muove il disegno di legge concernente le misure per il sostegno e la
valorizzazione dei piccoli comuni, approvato dalla Camera dei Deputati il 21 gennaio 2003 ed
attualmente in discussione al Senato.
L'art. 2 prevede che " nel rispetto del principio di sussidiarietà, le regioni, in attuazione degli
art. 117 e 118 della Costituzione, promuovono iniziative per l'unione di comuni con
popolazione pari o inferiore a 5000 abitanti, nelle forme previste dal testo unico delle leggi
sull'ordinamento degli enti locali, (… ) nonché per la costituzione di consorzi e per l'esercizio in
forma associata, anche avvalendosi di soggetti privati, dei servizi comunali e di specifiche
funzioni "
In questo scenario si colloca anche il problema degli ordinamenti degli uffici ai quali vanno
garantite professionalità selezionate per una esigenza primaria di efficienza e di buon
andamento dell’amministrazione
Uno degli aspetti sui quali concentrare l'attenzione è quello delle risorse umane. C’è la
necessità di individuare profili professionali funzionali ai nuovi assetti, per consentire a tutti i
soggetti costitutivi del sistema delle autonomie locali di:
• co-partecipare alle politiche di sviluppo del territorio, anche per l’attuazione delle politiche
nazionali, comunitarie, sopranazionali;
• promuovere l’integrazione e la sinergia delle politiche tra i diversi livelli di governo locale,
favorire lo scambio di esperienze positive, la cooperazione e le reti transnazionali;
• sostenere lo sviluppo di uno spirito cooperativo tra il settore pubblico, privato, le autonomie
funzionali, le associazioni e gli abitanti;
• migliorare il sistema di monitoraggio per la identificazione dei problemi e per la
formulazione di proposte chiare per adeguare le politiche di governo in funzione delle
esigenze locali;
• assicurare il controllo e la misurazione delle attività gestionali in relazione agli obiettivi posti
dalle direttive e dagli altri atti d’indirizzo.
Dal nuovo ordinamento federale e dall'aggiornamento della nozione di funzione pubblica come
azione pur sempre finalizzata al perseguimento dell'interesse pubblico ma meno legata a
schemi formali, esce rafforzata l'esigenza di una presenza autorevole della dirigenza pubblica a
garanzia del buon andamento delle attività delle pubbliche amministrazioni.
Una dirigenza è autorevole se è in grado di prendere rapidamente le decisioni necessarie. Ma lo
è ancor di più se consente alla politica di realizzare i suoi programmi con piena responsabilità,
se garantisce l'imparzialità dell'Amministrazione, se assicura adeguati controlli sull'esercizio del
potere, se offre a tutti la sicurezza dei propri diritti.
Le funzioni proprie della dirigenza, indipendentemente dai contesti di riferimento sono quelle
dell'attuazione, della gestione e del controllo.
L'attuazione presuppone la progettazione e la programmazione degli interventi con i quali si
realizzano gli indirizzi e si raggiungono gli obbiettivi.
La funzione di gestione compete di norma alle strutture operative incaricate della realizzazione
di un progetto od alcune sue fasi in coerenza agli obiettivi imposti.
La funzione del controllo, riferita alle singole azioni, è parte di una più vasta azione di
regolazione dell'insieme dei processi che fanno capo alla dirigenza. Consiste di solito nella
verifica della corrispondenza delle procedure alle norme ed ai protocolli operativi.
La riflessione sulla dirigenza deve collocarsi all'interno di una considerazione unitaria della
disciplina delle autonomie delineate dalla legge Costituzionale n. 1 del 1999 (Regioni a statuto
ordinario ), dalle leggi Costituzionali n. 2 e n. 3 del 2001 e dal ciclo delle leggi di riforma n. 59,
94, 127 del 1997 con le quali si è avviato un profondo processo di riorganizzazione ed
ammodernamento delle Amministrazioni Pubbliche e di semplificazione amministrativa.
Le più ampie sfere di responsabilità della dirigenza rendono necessario un forte investimento
per rafforzare il ruolo delle amministrazioni pubbliche verso il conseguimento di obiettivi e
risultati misurabili in termini di costi e rendimenti che passa anche attraverso l’interpretazione
evolutiva delle norme e soprattutto attraverso una prassi efficiente e orientata all' efficacia dei
servizi finali resi ai cittadini.
Ancora modifiche alla dirigenza
La riforma della dirigenza ha radici nel decreto legislativo 3 febbraio 1993, n. 29, che ha
disciplinato l'organizzazione degli uffici e i rapporti di lavoro e di impiego alle dipendenze delle
pubbliche amministrazioni, nonché la separazione tra attività politica e attività amministrativa.
Alla prima sono riservati la definizione degli obiettivi, l'impostazione dei programmi e la
puntualizzazione degli indirizzi, alla seconda la gestione operativa.
Contestualmente è stata sancita la responsabilità dei dirigenti relativamente ai risultati
dell'azione amministrativa.
Numerosi i provvedimenti legislativi che riguardano la dirigenza pubblica.
Con la legge 59/97 si sviluppa una fase di riforma con l'abbandono delle fonti pubblicistiche
della regolazione del rapporto di lavoro che viene definito sulla base di accordi e contratti di
natura privatistica.
Il decreto legislativo n. 286 del 1999, ha definito, nelle linee generali, il sistema di controllo e
di valutazione della dirigenza. Il successivo d. lgs 30 marzo 2001, n. 165, recante norme
generali sull'ordinamento del lavoro alle dipendenze delle Amministrazioni Pubbliche, ha
sostituito il d. lgs 3 febbraio 19993, n. 29.
La dirigenza è stata oggetto di un ulteriore intervento di riforma con la legge 15 luglio 2002, n.
145 dettante "Disposizioni per il riordino della dirigenza statale e per favorire lo scambio di
esperienze e l'interazione tra pubblico e privato", che ha introdotto significative innovazioni allo
scenario definito dalla precedente normativa.
La legge n. 145/2002, si compone di undici articoli e apporta un insieme di modificazioni al
decreto legislativo, n. 165/2001.
In particolare modifica le previgenti norme in tema di:
1. delega di funzioni ai dirigenti (art. 2),
2. incarichi dirigenziali (art. 3),
3. personale (art. 5),
Altri aspetti della disciplina della dirigenza sono modificati dagli artt. 7 e seguenti.
I punti più pregnanti della nuova legge possono essere così sintetizzati:
• l'incarico dirigenziale è conferito non sulla base dei "risultati conseguiti" ma "delle attitudini
e delle capacità professionali del singolo dirigente";
• il contratto individuale diviene uno strumento lieve e penetrabile che non definisce più
l'oggetto dell'incarico e gli obiettivi da perseguire "ma solo il trattamento economico
commisurato all'incarico”;
• la riduzione della durata dell'incarico;
• l'ampliamento del numero degli incarichi al personale esterno;
• la sterilizzazione del potere di nomina del Governo nell'ultimo semestre di scadenza naturale
della legislatura;
• il rafforzamento del vincolo fiduciario fra la dirigenza e il vertice politico
dell'Amministrazione.
modifiche apportate alle norme relative agli incarichi dirigenziali
Decreto Legislativo 30 marzo 2001, n.
165
"Norme generali sull'ordinamento del lavoro
alle
dipendenze
delle
amministrazioni
pubbliche"
Articolo
19
Incarichi di funzioni dirigenziali
1. Per il conferimento di ciascun incarico di
funzione dirigenziale e per il passaggio ad
incarichi di funzioni dirigenziali diverse, si
tiene conto della natura e delle caratteristiche
dei programmi da realizzare, delle attitudini e
della capacita' professionale del singolo
dirigente, anche in relazione ai risultati
conseguiti in precedenza, applicando di
norma il criterio della rotazione degli incarichi.
Al conferimento degli incarichi e al passaggio
ad incarichi diversi non si applica l'articolo
2103 del codice civile.
2. Tutti gli incarichi di direzione degli uffici
delle amministrazioni dello Stato, anche ad
ordinamento autonomo, sono conferiti a
tempo determinato, secondo le disposizioni del
presente articolo. Gli incarichi hanno durata
non inferiore a due anni e non superiore a
sette anni, con facoltà di rinnovo. Sono definiti
contrattualmente,
per
ciascun
incarico,
l'oggetto, gli obiettivi da conseguire, la
durata dell'incarico, salvi i casi di revoca di
cui all'articolo 21. nonché il corrispondente
trattamento
economico.
Quest'ultimo
e'
regolato ai sensi dell'articolo 24 ed ha
carattere onnicomprensivo.
Legge 15 luglio 2002, n. 145
"Disposizioni per il riordino della dirigenza
statale e per favorire lo scambio di esperienze
e l'interazione tra pubblico e privato"
ARTICOLO 3.
(Norme in materia di incarichi dirigenziali e di
ingresso dei funzionari internazionali nella
pubblica amministrazione)
1. All'articolo 19 del decreto legislativo 30
marzo 2001, n.165, sono apportate le
seguenti
modificazioni:
a) il comma 1 è sostituito dal seguente:
"1. Per il conferimento di ciascun incarico di
funzione dirigenziale si tiene conto, in
relazione alla natura e alle caratteristiche degli
obiettivi prefissati, delle attitudini e delle
capacità professionali del singolo dirigente,
valutate anche in considerazione dei risultati
conseguiti con riferimento agli obiettivi
fissati nella direttiva annuale e negli altri
atti
di
indirizzo
del
Ministro.
Al
conferimento degli incarichi e al passaggio ad
incarichi diversi non si applica l'articolo 2103
del
codice
civile";
b) il comma 2 è sostituito dal seguente:
"2. Tutti gli incarichi di funzione dirigenziale
nelle amministrazioni dello Stato, anche ad
ordinamento autonomo, sono conferiti secondo
le disposizioni del presente articolo. Con il
provvedimento di conferimento dell'incarico,
(…) sono individuati l'oggetto dell'incarico e
gli obiettivi da conseguire, con riferimento
alle priorità, ai piani e ai programmi definiti
dall'organo di vertice nei propri atti di indirizzo
e alle eventuali modifiche degli stessi che
intervengano nel corso del rapporto, nonché la
durata dell'incarico, che deve essere correlata
agli obiettivi prefissati e che, comunque, non
può eccedere, (…) per gli altri incarichi di
funzione dirigenziale, il termine di cinque anni.
Gli incarichi sono rinnovabili. Al provvedimento
di conferimento dell'incarico accede un
contratto individuale con cui è definito il
corrispondente trattamento economico,
nel rispetto dei princìpi definiti dall'articolo 24.
È sempre ammessa la risoluzione consensuale
del
rapporto";
La disciplina transitoria, inoltre, ha previsto che dal 7 ottobre e al 7 novembre 2002 tutti i
dirigenti decadevano, pur in assenza di motivazione obiettiva, dagli incarichi in precedenza
conferiti se non confermati, secondo la mera discrezionalità del potere politico.
La legge 145/2002 non indicando criteri precisi di professionalità, di esperienza maturata e
verificabile per l'accesso ai profili della dirigenza amministrativa, ha esteso a dismisura il
principio di fiduciarietà.
Ciò contraddice la linea di tendenza, consolidatasi negli ultimi anni, di separazione fra
amministrazione e politica e di attribuzione di maggiori responsabilità ai dirigenti, che si fonda
sul riconoscimento e sulla valorizzazione di competenze tecnico-gestionali correlate ai
programmi da realizzare piuttosto che sulla considerazione, introdotta dalla legge 145, della
funzionalità/strumentalità del singolo dirigente al raggiungimento degli obiettivi fissati dalla
direttiva annuale del Ministro. Ciò comporta un affievolimento, se non una negazione, del
principio della terzietà delle amministrazioni pubbliche e, quindi, dei dirigenti.
La costituzione di una nuova classe dirigente
Lo scenario istituzionale sopra richiamato, il diverso rapporto tra il centro e le autonomie, le
nuove competenze dei soggetti territoriali richiedono di identificare le nuove missioni delle
varie strutture amministrative. A ciò si correla la necessità di delineare le nuove prospettive di
ruolo dei dirigenti delle amministrazioni pubbliche. Serve una nuova classe dirigente, con
innovate politiche di formazione e selezione.
Appare significativo richiamare alcune affermazioni contenute nell'intervento del Presidente
Ciampi in occasione della ricorrenza del 40° anniversario della Scuola Superiore della P. A. (23
ottobre 2002): "Il futuro è nelle mani dei giovani che entrano, che entreranno nelle
Amministrazioni della Repubblica (…) E' utile che ogni anno entrino in ruolo un numero, anche
piccolo, di dirigenti selezionati per concorso (…) Ogni corso-concorso porta nell'organizzazione
una linfa nuova di idee e di valori. Aiuta a tenere vivo il dialogo con la società. La scelta di un
regolare, programmato ingresso annuale di alcune decine di giovani dirigenti creerebbe negli
studenti universitari e nelle stesse famiglie una maggiore attenzione verso lo Stato . Ne
verrebbe accresciuta l'immagine stessa dell'Amministrazione. (…) la formazione è essenziale
per tutto il periodo di servizio di un funzionario dello Stato. La formazione è il luogo dove si
realizza la cultura comune di chi opera al servizio della Nazione. Ciò vale anche per i dirigenti
più elevati. A tal proposito, sento il bisogno di osservare che non si deve perdere una cultura
unitaria dell'Amministrazione, indipendentemente dalla carriera o dal contratto con il quale si
opera all'interno dello Stato. Servono momenti nei quali tutti i dirigenti (…) condividano
esperienze comuni di formazione sulle linee direttrici di una attività che, con il potere di firma,
impegna direttamente il nome della Repubblica Italiana. (…) La partecipazione attiva all'Unione
Europea impone un grande sforzo di formazione per tutti i dirigenti in servizio."
Queste considerazioni meritano degli articolati approfondimenti necessari di fronte alle nuove
prospettive di ruolo e funzioni delle amministrazioni e dunque dei dirigenti. Ma l'esame è forse
ancora più urgente e necessario a fronte di procedure e prassi adottate di recente in
applicazione della legge 145/2002 sia per quanto riguarda la conferma e l'attribuzione di
incarichi sia per il reperimento di risorse professionali dall'esterno delle amministrazioni.
E a proposito di acquisizione di nuovi dirigenti, anche per quanto riguarda la scuola, si stanno
registrando forti ritardi ed incertezze nelle procedure di selezione e reclutamento che certo non
giovano all'irrobustimento della nuova dirigenza scolastica, allo sviluppo dell'autonomia e alle
politiche educative sul territorio.
OTTOBRE 2003
LE DIRIGENZE DEI SERVIZI PUBBLICI
E DELLE AUTONOMIE
alfonso rubinacci
La riforma del titolo V, parte seconda, della Costituzione ha modificato in senso federalista
l'architettura istituzionale dello Stato italiano ed ha mutato, tra l'altro, l'assetto delle
competenze amministrative fra i diversi livelli di governo locali.
Ciò ha ricadute significative sull’organizzazione delle amministrazioni statali, regionali e locali.
L'attuazione del federalismo dipende dallo sviluppo di forme nuove e più efficienti di
amministrazione che hanno come riferimento il livello di governo rappresentato dalle regioni e
dal relativo sistema delle autonomie locali.
Lo spostamento di poteri, competenze e risorse pubbliche verso enti territoriali più vicini ai
fruitori dei servizi deve valorizzare e stimolare il rapporto tra istituzioni e cittadini.
Il federalismo che coinvolge 20 regioni, 103 province, 290 comunità montane e 8100 comuni è
una straordinaria opportunità di innovazione dei processi decisionali e gestionali.
Il rafforzamento, quanto a funzioni e ruolo dello "Stato delle autonomie" comporta nuovi
modelli organizzativi, nuovi rapporti istituzionali e nuovi approcci culturali.
Senza una comune visione di sistema ed una convergenza di interessi e di obiettivi di tutti i
soggetti istituzionali, le aspettative di migliori servizi difficilmente si realizzeranno. Si tratta di
individuare il ruolo che ad ognuno di loro compete, di conoscere le criticità per rapide soluzioni,
di favorire la costruzione di politiche pubbliche comuni.
L'accentuazione della dimensione territoriale nei processi decisionali non può prescindere dalla
considerazione che o si governa lo sviluppo del territorio o si è soltanto spettatore di scelte
prese altrove.
Il sistema delle autonomie richiede risorse umane adeguate, ricerca, investimenti e
principalmente un pieno coinvolgimento della dirigenza pubblica.
Questo quadro generale ha, dunque, ricadute sulle funzioni e sul ruolo della dirigenza statale e
locale. La nuova allocazione dei poteri richiede che le decisioni del dirigente non guardino al
proprio organismo, ma al territorio che è il suo nuovo campo di intervento. Senza questo
valore non è possibile porre in modo nuovo il problema del rapporto tra autonomia locale e
necessità di coordinamento e di armonizzazione dei processi innovativi a livello nazionale.
L'obiettivo deve essere il superamento di una visione parziale e limitata dell'esercizio dei propri
compiti istituzionali, dell’erogazione dei propri servizi, attivando strumenti di cooperazione e di
coordinamento per facilitare e semplificare il rapporto tra soggetti diversi.
Questo obiettivo può essere conseguito solo mediante l'elaborazione di una visione comune, di
un percorso condiviso di attuazione e attraverso l'acquisizione di nuovi profili professionali.
La funzionalità dei nuovi livelli di decisione locale sul territorio si realizza attraverso:
• l'integrazione verticale degli interventi di vari livelli amministrativi,
• l'integrazione orizzontale tra i vari organismi che operano a livello locale e al loro interno,
• il coinvolgimento dei cittadini e dei soggetti responsabili delle politiche.
Autonomia scolastica e territorio
Ma come si pone la scuola autonoma sul territorio? E' certo che l'autonomia funzionale delle
scuole rappresenta lo strumento per costruire un’unitarietà reale dei processi di sviluppo locali.
Gli istituti scolastici non possono porsi come soggetti monodici, che realizzano la propria
iniziativa indipendentemente da ogni rapporto con gli enti locali ed i soggetti e le strutture del
territorio, considerandoli prevalentemente come supporti per decisioni assunte in proprio e
senza alcuna concertazione.
La scuola va aiutata a conoscere il territorio e i suoi bisogni per evitare scelte che rischiano di
essere assunte solo in relazione a logiche interne.
Il rapporto con il territorio va assunto nella sua complessità e quindi con il coinvolgimento degli
Enti Locali. Ma occorre sottolineare anche che gli enti locali, in alcune realtà, dimostrano una
mancanza di attenzione e capacità di intervento nella gestione delle politiche formative.
Il quadro comunque è in evoluzione, occorre ora vedere come gli "agenti" del cambiamento
sapranno esprimere, nei processi decisionali, una maturità politica e culturale innovativa e
come sapranno anche dotarsi delle nuove competenze professionali necessarie ai nuovi
contesti.
La costituzione della dirigenza scolastica, nell'ambito della dirigenza pubblica, è finalizzata a
sostenere i processi di modernizzazione della Pubblica Amministrazione e di riforma del
sistema scolastico.
Autonomia e dirigenza scolastica
I cambiamenti nel contesto istituzionale, sociale, culturale e legislativo impongono una
profonda revisione delle finalità del sistema scolastico. La novità reale dei mutamenti nella
scuola risiede nel riconoscimento esplicito di uno speciale legame che la scuola deve avere con
il territorio del quale condivide il destino.
Nei nuovi assetti istituzionali ed amministrativi, l'obiettivo prioritario nel settore scolastico è
promuovere la riorganizzazione interna delle istituzioni scolastiche, creare le condizioni per una
risposta più adeguata ai bisogni di istruzione e formazione, dare una svolta verso il
decentramento e la semplificazione delle procedure e delle attività amministrative.
In questo scenario di cambiamento si trova ad operare la dirigenza scolastica, un profilo nuovo
e recente nel sistema formativo italiano. Alcune sue componenti la ricollegano indubbiamente
alla dirigenza amministrativa, ma la sua peculiarità è data dalla presenza di più dimensioni:
• quella educativa e di leadership professionale,
• quella organizzativa e gestionale in un sistema di autonomia,
• quella amministrativa, indirizzata verso l'interno e il territorio.
Questi elementi non sono separati, ma interagiscono insieme a definire un ruolo complesso,
reso più delicato per la responsabilità che ha la scuola nei confronti di tutta la società. Se,
dunque, le competenze riconosciute ai dirigenti scolastici si allineano a quelle previste in
generale come proprie della funzione dirigenziale amministrativa, gli elementi di specialità
emergono dalla condizione di dover operare nella doppia veste di organo dell'amministrazione
dello Stato e di organo della istituzione scolastica.
Ai dirigenti scolastici è riconosciuto – anche se ancora con qualche incertezza e contraddizione
- un ruolo strategico all'interno dei processi di cambiamento del sistema scolastico ed anche un
ruolo che acquista alcune dimensioni politiche.
Il dirigente ha, infatti, una responsabilità precisa nel governo dei servizi formativi locali poiché:
• analizza e interpreta i parametri del territorio,
• dà energia ad una comunità di lavoro,
• traduce gli stimoli culturali della società civile in piste formative,
• coagula risorse umane e finanziarie della scuola e del contesto sociale.
Sul tema dei rapporti "dirigenza, scuola e territorio", occorre uno studio comune, individuare
sedi di colloquio continuo, occorre – soprattutto - identificare un codice comunicativo che
veicoli una cultura condivisa.
Governare il sistema
L'attuazione del federalismo, nonché la prospettiva di un’ulteriore riforma costituzionale nella
direzione della devolution, l'autonomia delle istituzioni scolastiche, ora di rilievo costituzionale,
impongono una riconsiderazione del sistema delle professionalità e delle responsabilità dei
dirigenti pubblici.
In questo quadro i dirigenti sono chiamati a definire gli obiettivi gestionali ed a rispondere dei
risultati conseguiti. Si rafforza l'esigenza di una presenza autorevole di una dirigenza pubblica
che sappia prendere rapidamente le decisioni necessarie. Il problema di fondo delle dirigenze amministrativa dello Stato, del sistema delle Autonomie e della scuola - è proprio questo:
governare e prendere decisioni.
Governare il sistema locale attraverso comportamenti amministrativi certamente rispettosi del
quadro normativo, ma attenti alle specifiche condizioni socioeconomiche e culturali per una
consapevole impostazione delle politiche sul territorio costituisce un obbligo irrinunciabile del
sistema locale.
E' con questi problemi e da ciò che ne discende che lo Stato centrale, le Regioni e le
Autonomie, comprese quelle scolastiche, si dovranno misurare.
Governare la politica locale per lo sviluppo del territorio implica:
• una riflessione attenta sulla effettiva capacità di ciascuna amministrazione di gestire le
varie fasi attuative dei singoli processi o di loro parti,
• la necessità di creare o potenziare con appositi studi, al proprio interno, la funzione di
previsione e di progettazione di scenari alternativi, come supporto alla pianificazione e
programmazione delle azioni di intervento.
E' evidente che l'attuazione di questa nuova politica richiede non solo la creazione e il
potenziamento di strutture dedicate, rispondenti alle scelte strategiche di ciascuna
amministrazione nello specifico regionale, ma soprattutto la formazione di dirigenti che in
queste operano.
Formare la dirigenza
Nuovi contenuti e nuove modalità sono richieste per la formazione dei dirigenti
dell'Amministrazione statale, delle Regioni e degli Enti locali sull'intero territorio nazionale e, in
particolare, dei dirigenti scolastici.
L'intervento formativo, nell'ottica federalista e nella consapevolezza che i destinatari operano
in contesti geografici diversi, deve essere finalizzato a consolidare la visione comune dei
problemi, a sviluppare competenze omogenee su tutto il territorio, rimanendo sensibili alle
specificità locali. La formazione deve contribuire a sviluppare una cultura comune per quanto
attiene alle modalità di costruzione dei processi decisionali, alla progettazione ed alla
pianificazione dei servizi al fine di garantire ad ogni cittadino la stessa qualità di fruizione del
servizio stesso.
L'obiettivo formativo deve essere finalizzato a fornire competenze e strumenti omogenei su
tutto il territorio nazionale che aiutino a costruire logiche operative e standard comuni, pur nel
rispetto delle specificità locali.
Oggi non basta più costruire innovazione, bisogna formare risorse umane che con l’innovazione
sappiano fare i conti, che sappiano gestirla per incrementare la qualità dei servizi da fornire ai
cittadini. Il problema, dal punto di vista culturale, comporta che oltre a conoscere le
innovazioni, bisogna essere in grado di scegliere strategicamente come applicarle nelle
strutture.
La dirigenza deve acquisire la consapevolezza che non esiste una figura delegata ad attuare
l’innovazione, ma che la stessa fa parte di un gioco di squadra al quale partecipano diversi i
soggetti istituzionali.
Ciò è tanto più vero nel nuovo quadro istituzionale, di autonomia e decentramento. Per questo,
nella costruzione di un sistema di formazione in servizio della dirigenza, si dovranno trovare
maggiori occasioni per stabilire relazioni e integrazioni proprio a partire dai contesti territoriali.
Le iniziative potranno avere uno sviluppo più significativo, per esempio, se troveranno una
maggiore coerenza con gli obiettivi e con la pianificazione dell’offerta formativa regionale e se
vedranno coinvolte la dirigenza statale –amministrativa e tecnica -, la dirigenza scolastica e la
dirigenza locale, sia dei servizi formativo-culturali, sia di servizi specifici, come quelli socioassistenziali.
In questa logica andrebbero promosse iniziative, mirate al raggiungimento di determinati
obiettivi o per specifici progetti, che possano creare occasioni di scambio e di progettazione tra
culture e professionalità diverse, contraddistinte da specificità eppure appartenenti a soggetti
ugualmente responsabili delle politiche formative del territorio e del miglioramento dei servizi
per i cittadini.
Non si tratta di omologare status giuridici, che peraltro rispondono alle provenienze e ai saperi
esperti dei diversi settori lavorativi, quanto piuttosto di integrare le informazioni e le “filosofie”
delle varie organizzazioni, di far interagire e dialogare – su terreni concreti e in contesti
operativi - le istituzioni, questione sempre più determinante soprattutto nei servizi alla
persona.
Sicuramente, nonostante le consapevolezze maturate, ciò rimane ancora oggi una sfida, che
però può aiutare anche a superare la condizione di separatezza e di isolamento che vivono tutti
i decisori amministrativi, ma forse, in maggior misura, quelli che - a vario titolo e a diversi
livelli - operano ed agiscono nella scuola e per la scuola.
NOVEMBRE 2003
VALUTAZIONE E DECISIONE
NELLE AUTONOMIE SCOLASTICHE E TERRITORIALI
Alfonso Rubinacci
Nel nostro Paese sono in atto importanti processi di cambiamento: la riforma della Pubblica
Amministrazione e della scuola, il federalismo e il rafforzamento dei livelli locali di governo,
l’attuazione del principio di sussidiarietà, lo sviluppo di azioni per il controllo e la valutazione
della qualità dei servizi.
Quante più competenze legislative, regolamentari, funzioni politiche e attività amministrative
sono trasferite dal livello nazionale a quello regionale e territoriale, tanto più il sistema delle
autonomie deve farsi carico dell’individuazione, tutela e promozione dei diritti civili e sociali. In
sintesi: deve farsi carico delle decisioni per la qualità dei servizi ai cittadini.
Lo spostamento di poteri, di competenze e di risorse pubbliche verso enti territoriali più vicini
ai fruitori dei servizi è finalizzato, infatti, a valorizzare il rapporto tra istituzioni e cittadini e a
stimolare la partecipazione dal basso. Non è un fenomeno del tutto nuovo. Anzi. E’ un processo
che viene da lontano, ma è con la legge Costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3, che sono
introdotte sostanziali modificazioni nell’allocazione delle potestà legislative dello Stato e delle
Regioni.
La legge costituzionale 3, infatti:
- configura gli assetti istituzionali di un nuovo modello di Stato, politicamente decentrato,
con importanti implicazioni per l’organizzazione del settore pubblico;
- realizza un decentramento istituzionale, legislativo, amministrativo e fiscale, spogliando lo
Stato di competenze, strutture, uffici e spese.
Il federalismo che coinvolge 20 regioni, 103 province, 290 comunità montane e 8100 comuni
può, dunque, essere una straordinaria opportunità di innovazione dei processi decisionali e
gestionali, poiché agisce sulla produzione delle politiche pubbliche.
In questo scenario istituzionale si viene a consolidare l'esigenza di raccogliere, elaborare ed
analizzare informazioni rilevanti per la programmazione e l'esecuzione efficace.
Le aspettative di migliori servizi difficilmente si potranno realizzare senza una comune visione
di sistema ed una convergenza di interessi e di obiettivi di tutti i soggetti istituzionali. Si tratta:
di individuare il ruolo che ad ognuno di loro compete, di conoscere le criticità per rapide
soluzioni, di favorire la costruzione di nuovi rapporti istituzionali per l’elaborazione di politiche
pubbliche comuni.
D'altronde, l'accentuazione della dimensione territoriale nei processi decisionali:
-
impone il superamento di una visione parziale dell'esercizio dei propri compiti istituzionali e
dell’erogazione dei propri servizi,
- richiede la cooperazione e coordinamento tra amministrazioni diverse nei processi di
definizione di obiettivi e strumenti e nell'esecuzione delle procedure amministrative.
La funzionalità dei nuovi livelli di decisione locale sul territorio si realizza attraverso nuove
strategie che prevedono:
- l'integrazione verticale degli interventi di vari livelli amministrativi,
- l'integrazione orizzontale tra i vari organismi che operano a livello locale e interazione al
loro interno,
- il coinvolgimento dei cittadini e dei soggetti responsabili delle politiche.
Governare il sistema
L'attuazione del federalismo, l'autonomia delle istituzioni scolastiche, ora di rilievo
costituzionale, impongono una riconsiderazione del sistema delle professionalità e delle
responsabilità. Si rafforza l'esigenza di un sistema che sappia prendere rapidamente le
decisioni necessarie, perché il problema di fondo è proprio quello di governare e prendere
decisioni. Governare il sistema locale attraverso comportamenti amministrativi certamente
rispettosi del quadro normativo, ma soprattutto attenti alle specifiche condizioni
socioeconomiche e culturali e alle esigenze di flessibilità nelle risposte ai bisogni dei cittadini.
Una consapevole impostazione delle politiche sul territorio costituisce un obbligo irrinunciabile
del sistema locale. E' con questi problemi e da ciò che ne discende che lo Stato centrale, le
Regioni e le Autonomie, comprese quelle scolastiche, si dovranno misurare.
Governare la politica locale per lo sviluppo del territorio implica la necessità di creare o
potenziare, a ogni livello, la funzione di previsione e di progettazione come supporto alla
pianificazione e programmazione delle azioni di intervento.
E' evidente che l'attuazione di questa nuova politica richiede non solo la creazione e il
potenziamento di strutture dedicate (rispondenti alle scelte strategiche di ciascuna
amministrazione e allo specifico territoriale) e lo sviluppo di tecniche di misurazione e
valutazione dei fatti gestionali, ma anche la possibilità di conoscere e valutare i contesti socioeconomici, i costi, i prodotti e i risultati dell'azione amministrativa.
Uno degli aspetti sui quali concentrare l'attenzione è quello delle risorse umane.
C’è la necessità di individuare profili professionali funzionali ai nuovi assetti, per consentire a
tutti i soggetti del sistema delle autonomie di:
-
co-partecipare alle politiche di sviluppo del territorio, anche per l’attuazione delle politiche
nazionali, comunitarie, sopranazionali;
- promuovere l’integrazione e la sinergia delle politiche tra i diversi livelli di governo locale,
favorire lo scambio di esperienze positive, la cooperazione e le reti transnazionali;
- sostenere lo sviluppo di uno spirito cooperativo tra il settore pubblico, privato, le autonomie
funzionali, le associazioni e gli abitanti;
- migliorare il sistema di monitoraggio per l’identificazione dei problemi e per la formulazione
di proposte;
- assicurare il controllo e la misurazione delle attività gestionali in relazione agli obiettivi
posti.
La valutazione delle politiche pubbliche
La valutazione delle politiche pubbliche è ormai da tempo, e in molti Paesi, oggetto di interesse
e la sua applicazione è entrata nella prassi corrente. Non è così nel nostro Paese, nel quale sia
pure con poche eccezioni, questa filosofia - e soprattutto - queste esperienze stentano ad
affermarsi. Il ritardo nell'affrontare la questione della valutazione, cruciale per promuovere un
miglioramento della qualità delle attività dei livelli decisionali scolastici e territoriali, ma anche
nazionali, si è tradotto, in una serie di pesanti lacune. Certo i problemi non sono di facile
soluzione. La valutazione è, infatti, un insieme complesso di attività che deve rappresentare
una garanzia sull'affidabilità del servizio erogato da un'istituzione.
Si valuta la qualità per aumentare la qualità. Al termine del ciclo di valutazione, l'istituzione si
conoscerà meglio e sarà in grado di decidere con maggiori conoscenze e competenze.
Nel campo scolastico ad esempio il POF che costituisce uno strumento di conoscenza e
condivisione e che rende trasparente l'operato della scuola, in pochi casi è sottoposto ad una
valutazione dei suoi risultati al fine di correggere, migliorare, rafforzare gli strumenti e i
processi realizzati. Spesso, invece, il POF dell'anno successivo non è altro che la riproposizione
di quello dell'anno precedente.
Mentre un processo valutativo offrirebbe, soprattutto ai docenti, una tangibilità dei risultati
raggiunti; se percepito non come un meccanismo burocratico, ma di miglioramento, offrirebbe
l'opportunità per mettere a fuoco aspetti nevralgici delle attività svolte.
Il rapporto tra valutazione e decisione è strategico, così come è l'interazione orizzontale fra i
vari livelli di governo territoriali.
Non esiste un metodo unico di valutazione, ma differenti approcci qualitativi e quantitativi
potenzialmente applicabili ai vari contesti. E’ certo, anche, che la scelta della metodologia - tra
metodo quantitativo e qualitativo - esercita un forte impatto sulla credibilità dei risultati.
Si può affermare che le questioni fondamentali sono principalmente due:
- a quali condizioni, i vari livelli di governo potranno disporre di informazioni ufficiali ed
adeguate per determinare le politiche da attuare e successivamente valutarne i risultati?
- come è possibile garantire che le conoscenze disponibili siano non solo coerenti con le
necessità informative del ciclo di produzione delle politiche pubbliche, ma anche
armonizzate ed omogenee ai diversi livelli?
Questi interrogativi impongono la necessità di basarsi su nomenclature, definizioni,
classificazioni e metodi di rilevazione ed elaborazione univoci, condivisi e sufficientemente
stabili nel tempo.
L'obbiettivo da raggiungere è la progettazione di sistemi integrati di conoscenze che
consentano diversi livelli di approfondimento tematico e il riferimento ai diversi livelli
territoriali. Si deve tenere presente anche l'esigenza di specializzazione dei contenuti e di
coerenza dei dati raccolti.
Molteplici sono le ricadute per il sistema locale; è possibile più adeguatamente individuare
strutture, aree e settori in grado di affrontare i problemi e dare risposte adeguate a grandi
temi sociali, quali scuola, formazione, occupazione, salute e ambiente e meglio pianificare gli
interventi a sostegno delle politiche.
Ad esempio, la definizione di strategie di sviluppo per il Mezzogiorno per accrescere i canali
formativi dell'istruzione e della formazione professionale e quelli per la popolazione adulta, non
può prescindere dalla conoscenza della composizione dei flussi migratori interni. Il 60% del
flusso migratorio va verso il Nord-Est del Paese ed è composto di persone tra i 20 e i 34 anni e
che il 36% delle persone emigrate è in possesso di un titolo di studio di scuola secondaria
superiore e quasi il 10% di un titolo di laurea.
Così come l'analisi comparativa della spendibilità dei diversi titoli di studio consente di valutare
l'efficacia locale del sistema di istruzione e formazione, ma anche le caratteristiche del mercato
di lavoro. Nel 1998, il 72% dei giovani compresi nella fascia di età tra i 18 e 19 anni ha
conseguito un diploma di scuola secondaria superiore, il 44% è residente nel Nord, il 50% nel
Centro, il 48% nel Mezzogiorno. Ebbene, il 65,9% dei giovani del Nord lavora, mentre al
Centro e nel Mezzogiorno la percentuale è rispettivamente del 55,6% e del 47%.
L'adozione delle politiche di sviluppo non può non tenere conto di informazioni mirate. Per
questo i governi regionali e locali e le istituzioni scolastiche devono essere posti nelle condizioni
di esercitare la valutazione delle politiche pubbliche messe in campo, nonché la valutazione
della gestione e dei risultati ottenuti nell'esercizio delle funzioni amministrative e dell'offerta
dei servizi.
La valutazione come strumento di democrazia e di sviluppo
In un assetto dello Stato fortemente autonomistico, la valutazione è chiamata a garantire il
rispetto dei livelli essenziali di prestazione che per quanto riguardano la scuola, la sanità e le
prestazioni solidaristiche devono essere uniformi su tutto il territorio nazionale, universali e
quindi uguali per tutti. Questo perché il problema centrale è la possibile differenza
socioeconomica che può derivare tra aree territoriali ricche ed aree territoriali deboli.
La valutazione costituisce, inoltre, lo strumento per garantire ai cittadini maggiori possibilità di
controllo sull'operato delle amministrazioni regionali e locali ed anche l'introduzione di linee di
competizione tra i governi subnazionali.
La competizione troverebbe una forte spinta propulsiva nelle valutazioni che i cittadini
realizzerebbero sui risultati ottenuti dal proprio ente, comune, scuola, rispetto a quelli
realizzati da altri enti comparabili.
I risultati avrebbero, inoltre, certamente un’influenza sulle periodiche scelte politiche dei
cittadini e il sistema delle responsabilità sarebbe stimolato al recupero di maggiori livelli di
efficacia e di efficienza.
La valutazione incide anche su altri aspetti.
Non sono pochi gli esempi di interruzione di processi di innovazione, di abbandoni o
indebolimento di quelli che in una fase precedente erano considerati dei capisaldi.
Esemplare è il caso dell'autonomia delle istituzioni scolastiche che sembra transitare da
un’iniziale e quasi illimitata apertura di credito sulle sue potenzialità, a un progressivo
disinvestimento in competenze e risorse.
Questa diventa, in generale, una questione cruciale, forse "enfatizzata" ancora di più dal nostro
sistema politico che, seppure imperfetto, si regge sul principio del bipolarismo.
I processi decisionali - sia a livello nazionale, sia a livello locale - se fossero, infatti, sorretti da
presupposti meno ideologici e meno di parte, ma più fondati sulla conoscenza dei processi reali
e su analisi d’impatto credibili, svilupperebbero politiche che andrebbero oltre lo spazio, pure
limitato delle singole legislature, e darebbero respiro ai progetti, contenendo la pratica, cui
stiamo assistendo, di un continuo stop and go.
MARZO 2006
Definire le priorità per un piano di sistema
di Alfonso Rubinacci
Il Governo, con le sue scelte politiche, non è riuscito a garantire un efficace sostegno ai
processi attuativi della riforma, approvata a colpi di maggioranza. Anche la corrente gestione
delle strutture amministrative non ha contribuito alla soluzione dei problemi. Si registra un
processo d'inerzia e di disconferma ricorrente.
L’efficienza amministrativa e di governo
Nello stesso tempo si registra un neocentralismo, accentuato dal fatto che le strutture
periferiche non sono state poste in condizione di riconvertirsi ai nuovi compiti. Il livello centrale
non ha saputo rinunziare alla gestione, né acquisire il senso dell’agire con la consapevolezza
del proprio lavoro in relazione a quello degli altri, in un’ottica di relazionalità costante. Non c’è
stata consapevolezza di ciò che il momento storico richiedeva e che presupponeva di
continuare quei processi di decentralizzazione, seppure coordinati e monitorati, avviati a
partire dagli anni novanta.
E’ mancato il riconoscimento sostanziale del ruolo della dirigenza, amministrativa e scolastica,
come portatrice e protagonista del cambiamento. Neanche il mutato quadro costituzionale
sembra aver determinato una riconsiderazione del ruolo e delle competenze
dell’amministrazione, tanto che l’ultimo decreto di riorganizzazione del MIUR ha costituito
un’occasione non utilizzata per dare delle risposte all’attuazione della riforma della Costituzione
e della sentenza n. 13 del 2004 della Corte Costituzionale, per i punti riguardanti gli uffici
scolastici regionali statali.
La prossima legislatura deve essere spesa bene e scandita da conquiste che realizzino il
superamento delle condizioni d'incertezza e di confusione che hanno caratterizzato la gestione
del sistema. Questo impone di ricercare nuovi punti di riferimento, una nuova bussola con cui
orientarsi, avendo la consapevolezza che occorre fare i conti con fattori critici.
E’ urgente correre ai ripari, ma non sarà facile. Infatti, questa, non è questione che si risolve
con l’ingegneria ordinamentale o con la quantità di anni di obbligo scolastico. E’ necessario
lanciare progetti concreti nei quali scuola, docenti e studenti possano essere associati in una
strategia congiunta. Ciò che è decisivo è convergere su un progetto comune che presuppone
una svolta radicale e condivisa da parte di tutte le componenti che, a vario titolo e livello,
operano ed agiscono nella e per la scuola.
La scommessa che abbiamo di fronte è immaginare di meno il futuro e costruire di più il
presente, acquisendo la capacità di innovare sulla base delle condizioni date. Serve
un'inversione di rotta del sistema scuola e di tutti i suoi attori. Il Paese chiede politiche che
diano una "ri-scossa" reale alla scuola che non può venire da promesse miracolistiche, ma dalla
capacità di cambiare di fronte alle sfide.
Occorre stabilire un ordine di priorità e vedere realizzato, partendo dai reali bisogni del mondo
della scuola.
Un processo che deve avvenire senza clamori, ma con flessibilità e misura. Non ci si può solo
limitare a dire al mondo della scuola che cosa deve fare, ma occorre incamminare le varie
componenti in un viaggio verso una meta conosciuta e condivisa: il miglioramento degli esiti
formativi del sistema educativo.
In regresso l’efficacia formativa
L'indagine campionaria del MIUR sugli scrutini, gli esami di licenza e gli esami di Stato riferita
all'anno scolastico 2004/2005 conferma i dati negativi già emersi nell'anno precedente. Il
37,4% dei ragazzi, nelle isole sale al 42,1%, alla licenza media è promosso con il giudizio di
sufficiente. Solo il 17,7%, in lieve regresso rispetto all'anno precedente, raggiunge la
valutazione di ottimo.
Nella scuola secondaria superiore la percentuale dei non diplomati passa dal 3% al 3,5%.
Risulta diminuito il numero degli studenti che consegue il diploma di maturità con il massimo
dei voti: il 9,9% rispetto al 10% del 2003/2004. Si è elevata dal 27% al 40,3% la percentuale
degli studenti che conseguono il diploma di maturità con una votazione fino a 70/100.
Risultati deludenti nonostante che il rapporto alunni/classe e alunni/docente sia inferiore alla
media Ocse.
Gli indicatori internazionali (PISA, OCSE, TIMMS), praticamente senza eccezioni, evidenziano
che gli studenti italiani raggiungono livelli di competenze piuttosto bassi, inferiori alla media
Europea. Siamo i "fanalini di coda" mediterranei dell'Europa a 25. I deficit si riferiscono in
primo luogo alle abilità di base fondamentali (lettura, scrittura, conoscenza delle lingue
straniere, etc). I più svantaggiati sono i giovani provenienti da ambienti deprivati e gli alunni di
cittadinanza non italiana.
I risultati delle rilevazioni testimoniano che il nostro sistema educativo conosce una china
declinante che investe gli orientamenti e gli atteggiamenti degli stessi titolari dell'azione
educativa. Infatti, questa realtà non piace né ai docenti né ai giovani. Eppure il futuro dei
giovani, degli uomini e delle donne dipende dalla capacità di affrontare questi nodi e risolverli.
Le misure che sono state poste in essere non sembrano in grado di produrre effetti sulla
riduzione del divario di performance rispetto agli altri Paesi.
Nel numero 457 di Tuttoscuola del mese di febbraio 2006 sono state segnalate alcune
questioni sul tappeto di significativa priorità. Proseguiamo nel tentativo di andare oltre
nell’individuazione degli snodi critici sui quali occorre operare con urgenza per una
riorganizzazione del sistema educativo che sappia interpretare la domanda di una società che
muta.
Questione giovani
Il passaggio dal mondo della scuola e dell'università a quello del lavoro segna l'ingresso dei
giovani nel mondo degli adulti, ma proprio il prolungarsi dei percorsi formativi ha procrastinato
l'ingresso nel lavoro e il distacco dalla famiglia.
L'Italia oggi non è un bel Paese per crescere e diventare adulto. Secondo una recente indagine
del Censis il 42,8% dei giovani compresi nella fascia di età 26-35enni vive con i genitori o in
coabitazione.
I dati mettono in evidenza la correlazione positiva tra titolo di studio e livello di occupabilità.
La partecipazione al mercato del lavoro è tanto maggiore quanto più alto è il titolo di studio
conseguito. Maggiore è l'investimento in istruzione, migliori sono le opportunità di trovare
lavoro.
L'85% dei giovani tra i 25 e i 34 anni che hanno concluso il percorso di studio universitario,
sono i più attivi sul mercato del lavoro. La percentuale scende al 70% per i giovani in possesso
di licenza media inferiore o superiore. Alla conclusione del percorso formativo risulta
disoccupato il 34% dei 15-19enni con la licenza media, il 25% dei 20-24enni diplomati di
scuola secondaria, il 20% dei 25-29enni laureati.
Sono notevoli le differenze territoriali. Nel Nord-Est il tasso di disoccupazione è contenuto: il
4,5% dei 20-34enni è in cerca di lavoro. Nel Mezzogiorno un terzo dei giovani risulta
disoccupato.
Un segnale negativo è la rinuncia, marcata soprattutto nelle classi di età più giovani, ad
intraprendere concrete azioni di ricerca di un impiego.
I giovani delusi dalla scuola e dal primo impiego, quasi come forma di rivalsa, si rifugiano o
nell'assistenza gregaria di un lavoro sicuro e poco impegnativo o si abbandonano a
comportamenti devianti. Le analisi segnalano un peggioramento delle condizioni di vita dei
soggetti in età evolutiva.
Non si può guardare rassegnati a questa tendenza, anche se il problema è come invertire la
rotta. Di solito c'è un legame stretto tra esiti scolastici e condizione soggettiva. Tutto questo
richiede una forte attenzione e risposte concrete con un progetto politico, mirato sui giovani
con meno di 25 anni. Occorre un segnale di un mutato atteggiamento e di una nuova
consapevolezza perché il Paese non può permettersi di perdere il capitale umano più giovane,
disperso dalla inadeguatezza del sistema scolastico e formativo.
I ragazzi di oggi non percepiscono il valore etico della scuola, né vedono la scuola e il lavoro
come strumenti per crescere e capire il mondo, se stessi e gli altri. Questa condizione impone
di aiutare i giovani e le famiglie a prendere consapevolezza che la scuola serve e che il
successo nella vita è strettamente collegato al possesso di conoscenze e competenze.
Questo è ancora più urgente nei confronti dei ragazzi che faticano o non raggiungono esiti
scolastici positivi (drop aut, abbandoni universitari...).
Il lavoro educativo è sempre più complicato e difficile: le giovani generazioni hanno molteplici
modelli cui conformarsi e l’educatore è costretto ad una mediazione continua e a motivare ogni
sua richiesta, a giustificare ogni sua proposta.
I docenti devono riconquistare autorità morale, saper parlare la lingua delle nuove generazioni,
ma devono essere posti nella condizione di capire e guidare realmente la vita e l’esperienza dei
giovani.
Va alimentato il dialogo, l'ascolto, la discussione con la consapevolezza che è un lavoro duro e
difficile.
Il 38% di studenti quindicenni che non desidera altro che abbandonare la scuola (Pisa 2001)
deve spingere a trovare una via nuova per ridurre le differenze fra le generazioni
La scuola non deve essere a misura degli insegnanti, né di “manica larga”, ma certamente
deve essere in grado di rispondere alla domanda che docenti ed allievi si fanno in
continuazione: “cosa ci faccio qui?”.
L'interrogativo si risolve positivamente solo se in entrambe le componenti si consolida il
convincimento della necessità di un patto “collusivo” positivo.
L’autenticazione del ruolo del docente solo in parte discende dal sistema di selezione e di
reclutamento: discende piuttosto dalla capacità di “fare classe”, di ottenere cioè la
cooperazione degli studenti, dei colleghi, dei genitori. In questo il ruolo del docente diventa
riconosciuto e riconoscibile. Non è sufficiente “l’immissione in ruolo” per avere un "ruolo".
Le famiglie, i docenti, la scuola devono concorrere a creare le condizioni per dare un senso alle
giornate della vita dei ragazzi, percepite come piatte e appiattite sul presente.
Parità scolastica, unitarietà del sistema e pluralità di configurazioni
Nel 2000, con la legge n. 62, lo Stato ha definito, secondo il principio costituzionale, il quadro
normativo del sistema pubblico integrato, dettando le norme per la parità scolastica, con ciò
riconoscendo che il servizio nazionale d’istruzione è costituito dalle scuole statali e dalle scuole
paritarie private e degli enti pubblici.
Tutti concorrono, dunque, a realizzare l’offerta formativa nel territorio per generalizzare la
domanda d’istruzione, dall’infanzia e per tutto l’arco della vita.
Il rafforzamento del ruolo dell’istruzione e della formazione e dei repertori culturali di tutta la
popolazione attiva non è questione di questo o quel partito: è un’esigenza obiettiva che
dovrebbe spingere tutti a farsi carico dell’introduzione di linee concorrenziali all’interno del
sistema scolastico.
Un sistema formativo più ammettere una pluralità di configurazioni, pur all’interno di un
ordinamento scolastico unitario, che si fonda sull’autonomia delle istituzioni scolastiche, in cui
l’unitarietà è garantita da accertamenti sui risultati della formazione. La pluralità di
configurazioni pone il problema di dotarsi di uno strumento di valutazione per garantire “i livelli
essenziali delle prestazioni”.
E' urgente dotarsi di enti, soggetti e metodi affidabili, ma anche individuare chi è titolare del
controllo e della valutazione dell'effettiva erogazione di servizi e dell'adeguatezza delle loro
prestazioni.
Vanno individuate soluzioni che consentano di superare la contrapposizione tra statale e
privato per favorire il radicamento di un reale pluralismo educativo.
Un piano di sistema
Sono molte le questioni aperte su cui occorre misurare le decisioni politiche. Finora non sono
state affrontate le conseguenze di un’eventuale pluralità di configurazioni e cioè quali impatti si
possono produrre in una serie di elementi che caratterizzano la vita della scuola.
Tra questi vanno citati i livelli occupazionali del personale, la mancanza di strutture,
l'indebolimento dell'offerta formativa sia all'interno del sistema delle scuole statali, sia tra
sistema statale e paritario. Il nodo centrale è perciò, come, sostenere la scuola paritaria senza
depotenziare la scuola statale, come stabilire un quadro di riferimento capace di sollecitare
l’iniziativa di singoli soggetti, di associazioni, di enti e di configurare un sistema di
responsabilità.
Le risposte non sono facili. Le posizioni differenti non vanno lette come forme di disturbo.
Occorre coraggio ed equilibrio per superare posizioni ideologiche che impediscono la ricerca di
soluzioni.
Va definito un piano di sistema per impedire l'affievolimento del servizio sul territorio, garantire
la continuità del servizio, riconoscere il ruolo delle autonomie locali, tutelare gli operatori
scolastici, le famiglie e i ragazzi, stabilire livelli essenziali ed unitari del servizio per l'esercizio
del diritto all'istruzione.
Cercare di approfondire le questioni, investire in strategie di lungo periodo non vuol dire
cercare delle soluzioni parziali e limitate alle scuole paritarie, ma all'intero sistema educativo,
per un suo sviluppo unitario, di qualità per tutti.
APRILE 2006
La forzatura della sperimentazione
di Alfonso Rubinacci
La decisione del Ministro di procedere a un “Progetto Nazionale d’Innovazione” solleva molti
problemi, anche generali, in una fase delicata del processo di attuazione della legge 28 marzo
2003, n. 53 e del decreto legislativo 17 ottobre 2005, n. 226, relativo al secondo ciclo del sistema
educativo d’istruzione e formazione.
Il MIUR, infatti, avrebbe dovuto valutare gli impatti e le invadenze che il progetto d’innovazione
avrebbe determinato sulle competenze delle Regioni, che hanno manifestato “sorpresa” per
l’iniziativa. C’è una buona dose di “masochismo” in una scelta che concorre ad elevare il rischio di
rimettere la riforma nell’ottovolante di riforme annunciate, contrastate e perciò non realizzate.
Il Governo continua a procedere in un processo di riforma privo di ogni attenzione alle
motivazioni più volte manifestate dalle Regioni che sono soggetti istituzionali coessenziali per la
definizione delle procedure, delle condizioni e dei contesti nei quali collocare i contenuti e i percorsi
realizzativi sul territorio.
L’attuazione del titolo V, parte seconda, della Costituzione, per il settore educativo si fonda,
infatti, su una interlocuzione Stato-Regione all’interno di un quadro di regole che dovrebbe
consentire al MIUR di assumere decisioni di sistema ed alle Regioni la possibilità di incidere sui
contenuti del processo decisionale, di concorrere alla costruzione di un disegno riformatore
effettivamente compreso e condiviso.
I fatti e i comportamenti che hanno caratterizzato il dibattito politico documentano come questa
esigenza generale non abbia trovato un riscontro concreto e la riforma è stata attuata malamente
e parzialmente. Il processo realizzativo non corrisponde di certo ad una scelta di un metodo
razionale.
Ciò è apparso evidente, con la decisione del Ministro di promuovere la sperimentazione degli
ordinamenti relativi al secondo ciclo, disattendendo l’accordo politico-giuridico raggiunto in una
sede formale.
L’assenza di un reale confronto politico in Parlamento e successivamente nei contesti
istituzionali, territoriali, scolastici e sociali ha trasformato, nella maggior parte dei casi, il Governo
in arbitro unico di decisioni che dovrebbero, viceversa, essere il risultato di valutazioni politiche di
merito in sede di Conferenza Unificata che è l’organo rappresentativo dell’intera collettività
istituzionale.
Il nuovo quadro costituzionale non implica, infatti, solo il formale rispetto della nuova allocazione
dei poteri, ma richiede un clima di leale collaborazione tra istituzioni e livelli di governo, anche, per
creare le condizioni di concreta fattibilità.
Nello stesso tempo i conflitti istituzionali creati tra Stato e Regioni, hanno spinto il Governo ad
attribuire, impropriamente, alle scuole compiti e responsabilità che invece di rafforzarle rischiano
di indebolirle, creando maggiore confusione e relazioni difficili al loro interno e con l'utenza, alla
quale non riescono a dare più risposte, neanche quelle più semplici.
Con la circolare del 1 febbraio 2006, prot. 848, il MIUR ha reso noto il D.M. 31 gennaio 2006 che
anticipa all’anno scolastico 2006/2007 l’avvio della sperimentazione della riforma del secondo ciclo
in contrasto, dunque, con quanto concordato con le Regioni, province autonome e autonomie locali
nella seduta della Conferenza unificata del 15 settembre 2005.
Con la stessa circolare sono stati, altresì, resi noti altri due decreti ministeriali del 28 dicembre
2005, relativi alle tabelle di confluenza dei titoli e di corrispondenza dei percorsi e all’incremento
della quota di ore curriculari dei piani di studio rimessa alla competenza delle istituzioni
scolastiche.
La violazione della leale collaborazione
La lettera di risposta del MIUR, priva di respiro politico e dal tono formale-amministrativo, non
appare convincente e risolutiva dei dubbi di legittimità sollevati su aspetti del decreto
dall’Assessore della Regione Lazio Silvia Costa, Coordinatore degli Assessori. La lettera, che ha
assunto la veste di una quasi-circolare, anzi va a consolidare il convincimento delle Regioni circa la
loro opposizione al provvedimento.
Non ci sono solo ragioni politiche e di inopportunità nelle critiche che molti hanno espresso
contro la decisione di anticipare l’applicazione della riforma del secondo ciclo. Alcuni lo hanno fatto
con vari ordini del giorno nelle sedi istituzionali (il 2 febbraio 2006, la IX Commissione degli
Assessori regionali per l’istruzione e la formazione; il 9 febbraio 2006, la conferenza delle Regioni
e delle Province autonome; il 16 febbraio 2006, l’Associazione delle Province insieme al
Coordinamento dell’Anci e agli Assessori Regionali), avanzando in alcuni casi anche l’esplicita
richiesta di ritiro del decreto ministeriale. Altri hanno posto anche la questione della situazione
economico-finanziaria che per effetto di leggi finanziarie e di decreti taglia spese rendono la
sperimentazione inapplicabile e velleitaria (associazioni sindacali, di categoria, di operatori politici,
etc.).
Di fatto il progetto di innovazione è una anticipazione solo formale, perché stante il limite delle
risorse professionali a disposizione, ossia con l'organico determinato sugli attuali percorsi dei licei
e degli istituti tecnici, le scuole devono prioritariamente realizzare l'approfondimento delle
discipline obbligatorie per tutti gli studenti e, solo se compatibile con le risorse esistenti, possono
attivare attività diverse d'insegnamento relative ai vari corsi.
Il progetto squilibra la dotazione finanziaria attribuendo i fondi della legge 440, destinati al
potenziamento dell’autonomia, a quelle scuole che chiederanno di “innovare”; il tutto senza sentire
il parere della Regione, che, secondo quanto ritenuto dalla Corte Costituzionale, dovrebbe gestire
le risorse finanziarie e di personale. Si tenta, dunque, di motivare alla sperimentazione usando la
leva delle risorse finanziarie in un momento in cui tutte le istituzioni scolastiche fanno i conti con
pesanti decurtazioni dei loro bilanci, anche a causa di ripetuti “prelevamenti” operati per
assicurare la copertura finanziaria ai decreti legislativi concernenti la definizione delle norme
relative all’alternanza scuola-lavoro e quelle riguardanti il diritto-dovere alla istruzione e alla
formazione, pari a 30 mln di euro a partire dal 2006 per il primo e pari a 16 milioni di euro a
partire dal 2005 per il secondo.
I risparmi e i tagli
La sperimentazione proposta è un’altra iniziativa priva di un piano d’interventi finanziari per
realizzarne il contenuto.
Anche gli impegni presi di investire in istruzione e formazione, nella ricerca e nell’innovazione
hanno rappresentato un’altra dichiarazione di intenti: nelle ultime leggi finanziarie alla scuola sono
andati solo i suoi risparmi e sacrifici e oggi i bilanci scolastici devono fare i conti con il decreto
taglia spese, con il prosciugamento dei fondi della legge 440/1997 e con il dimezzamento delle
risorse per la formazione in servizio.
Appare utile ricordare che il piano programmatico finanziario a sostegno dell’attuazione della
legge delega, approvato solo in via preliminare dal Consiglio dei Ministri nella seduta del 12
settembre 2003, non ha ricevuto l’intesa della Conferenza Unificata.
Lo stanziamento previsto per un importo complessivo di 8320 mnl di euro per il quinquennio
2004/2008 ha trovato una copertura parziale pari a 4483 euro.
Ciò significa che nel triennio 2006/2008, qualora non si “mettesse mano” ad una rivisitazione
della riforma della scuola, occorre ipotizzare una serie di “iniezioni” di finanziamenti sul settore
d’istruzione.
Un’analisi dei capitoli di spesa di molti dei 18 centri di responsabilità relativi a gli Uffici Scolastici
Regionali offre una pluralità di elementi critici che potrebbero compromettere la normalità
gestionale delle istituzioni scolastiche e della stessa amministrazione scolastica, centrale e
periferica. Il 23 e il 24 febbraio 2006 i Direttori Generali degli Uffici scolastici regionali sono stati
convocati a Roma per una disamina approfondita della situazione dei singoli uffici che secondo
stime attendibili, in aggiunta ai consistenti tagli dei decorsi anni, subiscono un ulteriore
decremento del 40-50%.
Infatti, con il decreto legge 30 settembre 2005, n. 203, convertito nella legge 2 dicembre 2005,
n. 248 sono state ridotte le spese per “consumi intermedi” dei ministeri che ha comportato un
taglio per il settore dell'istruzione pari a 155 mnl di euro.
La decurtazione dei fondi incide sulle scuole, penalizzando chi, avendo risorse finanziarie ancora
da spendere, non le ha impegnate. La conoscenza, tra l’altro, di questo aspetto è uno degli
obiettivi del monitoraggio che gli uffici periferici stanno realizzando sulle giacenze di fondi sulle
contabilità speciali, la maggior parte delle quali risultano impegnate e da liquidare.
L’esame degli stanziamenti del bilancio previsionale dello Stato per l’esercizio finanziario 2006,
rispetto al 2005, evidenzia riduzioni significative che incideranno sulla sopravvivenza dell’intero
sistema scuola.
In particolare, in assenza di interventi correttivi nel corso dell’anno, risulta che:
•
è ridimensionato del 26% lo stanziamento per le supplenze brevi e saltuarie,
particolarmente grave per le istituzioni scolastiche del segmento primario;
•
è decurtato del 41% il finanziamento per le spese di funzionamento amministrativodidattico delle istituzioni scolastiche. Ciò ha comportato il prelevamento di 30 mnl di
euro dai già insufficienti stanziamenti previsti per la legge n. 53/2003;
•
non è possibile, per effetto della soppressione operata dalla legge finanziaria per il
2006, corrispondere l’indennità di missione ai dipendenti con la conseguenza di un
incremento del ricorso al riposo compensativo o al pagamento delle ore di straordinario
per la parte eccedente le 6 ore di servizio giornaliero: su 60 ore di assenza dall’ufficio
per missione, 42 ore possono essere utilizzate come riposo compensativo, con ricadute
sul funzionamento dell’ufficio di non difficile immaginazione;
•
è prassi costante, ormai, ricorrere al “saccheggio” degli stanziamenti del fondo previsto
dalla legge 440/1997, che viene considerata più come fondo di riserva per gli interventi
discrezionali del ministero che strumento di sostegno per l’ampliamento e la
qualificazione dell’offerta formativa. Gli uffici sono stati impegnati nella assegnazione
delle eventuali risorse non impegnate dalle istituzioni scolastiche a fronte di progetti e di
attività programmate per il miglioramento dell’offerta formativa.
Le decurtazioni si sommano a quelle realizzate dalle leggi finanziarie relative al quinquennio
2000-2005, a prescindere dal processo inflattivo. Sono in crescita esponenziale le spese per la
TARSU, connesse al contenzioso tra i comuni e le scuole, che hanno raggiunto limiti non
governabili, a causa dell’insufficiente allocazione di risorse finanziarie.
Nelle scuole mancano i fondi per l’acquisto dei prodotti per l’igiene e la pulizia dopo il rifiuto degli
enti locali di continuare ad accollarsi tale onere, anche per i tagli subiti.
Non risultano adeguati, fin dal 2003, gli stanziamenti per gli esami di Stato. La sovrapposizione
dei deficit annuali determina l’innalzamento del debito dell’amministrazione verso le istituzioni
scolastiche, con il rischio concreto dell’insorgere di un contenzioso analogo a quello dei
componenti delle commissioni esaminatrici costituite in occasione dello svolgimento del concorso
per il conseguimento delle abilitazioni riservate, la cui soluzione impose il ricorso ad un apposito
provvedimento legislativo.
Dal 2001 ad oggi gli stanziamenti sono stati dimezzati dalle leggi finanziarie e dai decreti taglia
spese, provocando l’accumulo di un consistente debito fluttuante, non contabilizzato sul rendiconto
dello Stato e, pertanto, ignorato che aggrava le condizioni di agibilità gestionale della competenza
ordinaria dell’amministrazione.
Per effetto dell’art. 1, comma 7 della legge 23 dicembre 2005, n. 266 (finanziaria 2006)
l’impegnabilità della spesa per beni e servizi, frazionata per dodicesimi come se il bilancio dello
Stato fosse trasformato in “bilancio provvisorio”, sta inducendo i decisori politici ed amministrativi
a differire nella seconda parte dell’anno l’emergere di una situazione quasi di collasso finanziario.
Il quadro è fosco, ma sufficientemente realistico e tutti avrebbero diritto di conoscerlo nella sua
esatta portata.
Gli uffici scolastici regionali versano tutti nelle stesse condizioni come sottolineato da “Io Donna”,
supplemento del Corriere della Sera, il 4 marzo 2006.
L’articolo “Se il ministro aiuta il candidato sindaco” riporta la notizia delle motivate reazioni nelle
scuole d’ogni ordine e grado a fronte delle cifre di finanziamenti comunicate alle scuole per l’anno
2006 per il funzionamento che denunciano una riduzione del 40 per cento rispetto al 2005 e del
50% rispetto al 2004.
Il 17 febbraio pochi giorni prima degli incontri programmati a Roma e mentre sul milanese sta
partendo una campagna promossa da Rete Scuole “Un rotolo per la scuola pubblica…”,
improvvisamente “…arrivano per le scuole lombarde oltre 7 milioni di euro. L’incremento rispetto a
dicembre, è di circa del 50%…”. Ma come mai lo stesso trattamento non è stato riservato anche a
tutte le altre regioni italiane, dove si erano verificati gli stessi tagli… forse - aggiunge l’articolista … i maligni potrebbero insinuare che il ministro stia dando una mano al sindaco”.
Il comunicato stampa dell'ufficio scolastico regionale della Lombardia conferma l'assegnazione
complessiva di 7628.419,00 di euro, preoccupandosi anche di indicare che mediamente "Ogni
istituzione scolastica vedrà aumentato il proprio bilancio di circa 5830 euro" e che "...Questa prima
integrazione conferma la necessità di una lettura più articolata e attenta dei bilanci delle scuole
rispetto ai quali il programma annuale costituisce una fase preliminare di programmazione,
importante ma non definitiva: solo alla fine dell'anno finanziario è possibile avere il quadro
completo delle entrate e delle uscite e trarre le valutazioni conseguenti". Una promessa di
finanziamento a "futura memoria" che non rispetta minimamente i tempi e le modalità di
programmazione delle scuole. In realtà anche agli altri Uffici regionali stanno pervenendo le
integrazioni, anche se non sembra nella stessa entità percentuale di quella della Lombardia.
La scuola italiana con un quadro economico-finanziario non positivo, è come “insabbiata”,
“zavorrata”. Ciò che serve è agire rapidamente per assicurare un reale investimento di risorse
umane e finanziarie che resta una delle strade per fornire una solida e sostenibile base alla
crescita delle spinte di rinnovamento di cui il sistema educativo ha disperato bisogno.
Le riforme non si fanno a costo zero e senza investimenti sul personale.
Questo non può essere uno slogan elettorale, ma un piano di sistema, con politiche integrate,
trasparenti e con un condiviso processo di valutazione e rendicontazione.
MAGGIO 2006
L’incidenza degli assetti costituzionali sull’istruzione e formazione
di Alfonso Rubinacci
Decentramento, autonomia, riforma del titolo V della Costituzione, modifica dei sistemi
elettorali hanno determinato un cambiamento nelle missioni dei livelli di governo nazionale,
regionale e locale.
Per poter condividere la visione e per poter individuare i passi operativi dei percorsi di sviluppo
dei nuovi livelli di governo, è sempre più evidente che serve, e servirà, un forte e convinto
impegno dello Stato, delle Regioni, degli Enti locali nel rispetto delle prerogative e della pari
dignità di ciascun livello istituzionale.
Durante la scorsa legislatura l'azione del Governo nell’attuazione dei rinnovati assetti
costituzionali è stata piuttosto confusa, in assenza di una evidente volontà di applicare la legge
costituzionale n. 3/2001.
Una dialettica molto sostenuta nel confronto Stato e Regioni, che ha portato a veri e propri
conflitti istituzionali, sia per ragioni di merito che di metodo, non ha consentito la costruzione
di un disegno riformatore effettivamente compreso e condiviso.
Il processo attuativo della modifica costituzionale del 2001, anche nelle sue incertezze e
contraddizioni, avrebbe dovuto essere sottoposto ad un attento monitoraggio per acquisire
elementi di conoscenza sulle tensioni centro- periferia, sul federalismo scolastico e fiscale,
sull'autonomia impositiva, sulla capacità finanziaria territoriale, sugli squilibri regionali e sulle
esigenze di perequazione.
I nuovi cambiamenti non sono stati tenuti presenti dal Parlamento e dal Governo che, in attesa
della "riforma della riforma", hanno continuato a legiferare e a governare, il più delle volte,
senza tener conto delle nuove competenze attribuite ai soggetti istituzionali locali, con una
conseguente ricentralizzazione delle decisioni.
La riforma della riforma
Il procedimento d’approvazione del disegno di legge costituzionale "modifiche alla Parte II della
Costituzione", noto come “riforma della riforma” della Costituzione, non si è concluso perché la
legge costituzionale, essendo stata approvata da una maggioranza inferiore a quella dei due
terzi dei componenti delle due Camere, potrà essere promulgata solo dopo l’esito del
referendum confermativo che su di essa è stato promosso.
Dopo l'approvazione in Senato avvenuta il 16 novembre 2005, la legge è stata pubblicata sulla
G.U. del 18 novembre 2005, n. 269, come adempimento notiziale rispetto alla decorrenza del
termine per la proposizione del referendum costituzionale confermativo.
I soggetti abilitati a chiedere il referendum, entro tre mesi dalla pubblicazione della legge, sono
un quinto dei membri di una Camera o cinquecentomila elettori o cinque Consigli regionali. In
questa occasione tutti e tre i soggetti richiamati dall'articolo 138 della Costituzione si sono
attivati per promuovere il referendum.
Il 14 febbraio 2006 sono state depositate in Corte di Cassazione le firme di 112 senatori e 249
deputati del centrosinistra per chiedere la consultazione referendaria sulle modifiche apportate
dal centrodestra al vigente titolo V della Costituzione, il 22 febbraio 2006 la Corte di
Cassazione ha dato via libera alla richiesta del referendum anti-devoluzione presentata da
quindici Consigli regionali. La Corte Cassazione ha concluso il controllo sulla correttezza delle
firme depositate dal comitato promotore affermando che il quorum di mezzo milione di firme
valide era stato superato.
Ogni ragionamento relativo ai nuovi assetti dei rapporti tra il sistema scolastico e il sistema
delle autonomie locali oggi è condizionato dall'esito del referendum.
Trattandosi di un problema aperto, e senza voler influenzare la risposta che ciascuno riterrà di
dare alla consultazione referendaria, appare utile svolgere, in questo e nel prossimo numero
della rivista Tuttoscuola, opportune riflessioni ed analisi delle novità più significative relative
alla materia istruzione, allo scopo di offrirle al “popolo sovrano”, soprattutto oggi che è
chiamato a sciogliere definitivamente il nodo della "rotta" da seguire sul tema degli assetti
costituzionali, documentando la presenza o la mancanza di consenso.
Quelle che seguono sono riflessioni finalizzate principalmente alla comprensione di questioni
tutt’altro che semplici e consuete nel dibattito pubblico, che evocano non pochi dubbi e timori,
al fine di poter esercitare responsabilmente il proprio ruolo di cittadini.
Il nuovo testo di riforma costituzionale
Le proposte modificazioni costituzionali relative all’istruzione producono effetti sul
sistema educativo, sia sugli assetti ordinamentali, sia sulle regole di governo e di
gestione del servizio di istruzione e formazione.
Le modificazioni dell’assetto delle competenze legislative sono contenute nell'art. 39 del testo
approvato il 16 Novembre 2005 dal Senato, in sede di seconda deliberazione, con 170 voti
favorevoli (la maggioranza richiesta era di 161), 132 contrari e 3 astenuti.
L'iter di approvazione si è svolto in un biennio ed ha richiesto cinque votazioni delle Camere.
Nel corso della discussione i contenuti, e perciò la portata innovativa, si sono ampliati,
passando dai 35 articoli originari ai 52 del testo votato.
Il testo approvato sostituisce o modifica 50 degli 80 articoli che compongono la parte seconda
della Costituzione, inserisce 3 nuovi articoli e modifica 4 articoli di altre leggi costituzionali.
Degli articoli modificati, 3 entrano in vigore per alcuni commi, 30 sono rinviati alla legislatura
successiva a quella della approvazione definitiva (cioè alla prossima), per 3 è difficile stabilire
con certezza la data di decorrenza dell'applicazione.
Mentre la modifica del titolo V, parte seconda, della Costituzione disposta dalla legge 18
ottobre 2001, n. 3, approvata dalle Camere e sottoposta a referendum confermativo (8 ottobre
2001) si è mossa nel quadro dei principi contenuti nell'art. 5 della Costituzione, conferendo
maggiore spazio al potere regionale e locale, le modifiche del nuovo testo costituzionale
investono la forma di Stato, intervenendo in particolare sugli assetti e compiti del Parlamento,
del Governo, della Corte Costituzionale e sulle funzioni del Presidente della Repubblica.
Nel settore istruzione e formazione assai significativa appare l'attribuzione alla competenza
legislativa esclusiva delle Regioni di ampi settori di materie scolastiche, su cui si sono
indirizzati molti rilievi negativi.
Il nuovo testo, infatti, riscrive il quarto comma dell’art. 117 della vigente Costituzione,
introducendo un elenco di materie specifiche sulle quali spetta alle Regioni una diretta
competenza legislativa esclusiva:
a) organizzazione scolastica, gestione degli istituti scolastici e di formazione salva l’autonomia
delle istituzioni scolastiche;
b) definizione della parte dei programmi scolastici e formativi di interesse specifico della
Regione.
Il quinto elemento dell’elenco, lettera e), è invece la norma residuale, già contenuta nel
vigente quarto comma dell’art. 117: “ogni altra materia non espressamente riservata alla
legislazione dello Stato”.
La riforma della riforma, anziché dirimere le problematicità della riforma del Titolo V le
aggrava, perché i livelli di decisione e di produzione normativa sono ulteriormente aumentati e
complicati, soprattutto con riferimento alle relazioni tra le due competenze legislative
(esclusiva e concorrente). Occorre, infatti, evidenziare che si viene a determinare un nuovo
quadro in cui:
•
•
la competenza legislativa esclusiva dello Stato sulle:
norme generali sull'istruzione,
livelli essenziali delle prestazioni,
principi fondamentali della materia istruzione
deve fare i conti le Regioni che hanno:
a) una competenza esclusiva in materia di:
- approvazione della rete scolastica;
- programmi scolastici;
- istruzione e formazione professionale;
b) una competenza legislativa concorrente in materia di:
-
istruzione
La competenza esclusiva dello Stato deve fare anche i conti con le regole stabilite:
-
dalle scuole nella loro autonomia di rilevanza costituzionale;
dagli enti locali attraverso i propri poteri regolamentari.
Nel nuovo testo di modifica costituzionale, il quarto comma introdotto nell’art. 117 della
vigente Costituzione, quello relativo, come abbiamo visto alla competenza legislativa esclusiva
delle Regioni, peraltro sottratta al rispetto dei principi fondamentali, non offre un contributo di
chiarezza rispetto alla determinazione delle materie e dei poteri riconosciuti ai tre ambiti
legislativi, perché il modello di devoluzione proposto, incrocia, nel settore dell'istruzione, una
competenza esclusiva dello Stato, una competenza concorrente delle Regioni ed una
competenza esclusiva della Regione.
Il concetto di competenza esclusiva
Il testo vigente della Costituzione ricorre al termine “esclusiva” solo quando si riferisce alla
potestà legislativa dello Stato nelle materie di cui al secondo comma dell’art. 117.
Ma al di là dell'esito del futuro referendum confermativo, ci si deve seriamente interrogare sul
contenuto dell’art. 117, così come è stato ulteriormente modificato.
Con l’attribuzione alla competenza esclusiva delle Regioni di ben individuate materie si parifica,
anche sotto il profilo sostanziale, la funzione legislativa regionale alla funzione legislativa
statale, con l’effetto che queste risultano sottoposte ad un analogo regime giuridico, secondo
cui entrambe le funzioni trovano fondamento, criteri di indirizzo e limiti esclusivamente nella
Costituzione e nelle leggi costituzionali.
Si tratta di un meccanismo di competenze esclusive e contrapposte. Lo Stato e le sue
articolazioni sono poste su un piano paritetico nell'ambito delle rispettive autonomie.
L’esclusività della legislazione regionale rappresenta una seria minaccia al principio della
indivisibilità della Nazione sancito nell’art. 5 della Costituzione (la Repubblica una e
indivisibile), non tanto sotto il profilo dell’elemento territoriale, quanto piuttosto sotto il profilo
giuridico e sociale. Il modello di devoluzione proposto appare in grado di incidere anche sui
principi di solidarietà politica, economica e sociale, di inviolabilità e eguaglianza dei diritti e di
pari dignità dei cittadini solennemente affermati nelle disposizioni degli articoli 2 e 3 della
Costituzione.
I valori richiamati, a fondamento del nostro Paese, presuppongono ,dunque, non tanto una
mera separazione di poteri, quanto piuttosto una base di forte cooperazione e leale
collaborazione tra i vari livelli istituzionali che dovrebbe garantire il riconoscimento e la
promozione delle autonomie locali, come affermato dallo stesso articolo 5 della Costituzione,
per la migliore erogazione dei servizi ai cittadini, per lo sviluppo della persona umana e per
l’effettivo esercizio della partecipazione attiva.
L’istruzione e la formazione, la scuola, dunque, ma anche le altre organizzazioni formative,
giocano su questi terreni un ruolo cruciale.
Nel prossimo numero affronteremo le ricadute che potrebbe avere la riforma della riforma
sull’intero sistema di educazione, anche facendo riferimento a questioni specifiche, relative
all’organizzazione dell’offerta formativa, ma anche agli operatori della scuola e della
formazione. Questioni che comunque occorrerà affrontare, con urgenza, anche nella
prospettiva del mantenimento del vigente assetto costituzionale.
GIUGNO 2006
Referendum costituzionale.
Un appuntamento importante per il futuro della scuola
Di Alfonso Rubinacci
Il referendum confermativo che si svolgerà il 25 e 26 giugno 2006 induce ad analizzare
l'incidenza che rispetto alla vigente Costituzione hanno le ulteriori "modifiche alla parte II della
Costituzione",con riferimento al contenuto dell'articolo 117. Gli elettori sono chiamati ad una
scelta netta, sì o no, anche perché non è previsto il raggiungimento del quorum minimo di
partecipanti.
La posta in gioco è alta e perciò occorre contrastare il rischio che l'avvenimento si consumi
nella disattenzione generale, perché il risultato potrebbe avere un'incidenza anche sugli assetti
politici. Infatti la Lega, qualora non dovesse vedere confermata dal voto popolare la "riforma
della riforma", ha già rivendicato mani libere dall'alleanza di provenienza.
Le modifiche proposte non sembrano derivare dalla necessità di dare risposta a nuove esigenze
oggettive o da emergenze intervenute né paiono tenere conto del rispetto di equilibrio e di
garanzia che debbono costituire la base fondativa dell’assetto dei poteri in un sano sistema
costituzionale. Nella riforma proposta verrebbero ad essere indebolite tutte le istituzioni di
garanzia quali il Presidente della Repubblica, il Parlamento, la Corte Costituzionale. Come
sottolinea il sen Nicola Mancino, autorevole esponente politico, nel recente libro "La
Costituzione lacerata",edito Sellino: “Abbiamo l'impressione... di trovarci di fronte al capriccio
di una parte politica (la Lega), all'assoggettamento della maggioranza a questo capriccio, con
un risultato negativo e preoccupante per l'ordinamento del nostro Paese: il risultato potrà
essere la rottura del nostro ordinamento".
Le riflessioni che seguono completano quelle svolte nello scorso numero di Maggio della rivista
Tuttoscuola, non senza aver ricordato che l'"oggetto" stesso di cui si discute ha natura
complessa e che ogni elemento interagisce con gli altri rendendo impossibile un ragionamento
intorno ad un solo elemento, indipendentemente dagli altri.
La Costituzione vigente
Le responsabilità dello Stato e delle Regioni sull’istruzione e la formazione
L’assetto istituzionale vigente delinea un sistema educativo di istruzione e di formazione
unitario nel quale lo Stato detta le norme di carattere generale, tutela e garantisce i livelli
essenziali delle prestazioni su tutto il territorio nazionale, definisce i principi fondamentali.
Lo Stato ha la competenza esclusiva “sulle norme generali sull’istruzione” e sulla
“determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che
devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale “ (art. 117, secondo comma lettera n) e
m). Spetta allo Stato, inoltre, la determinazione di principi fondamentali nelle materie di
legislazione concorrente, tra le quali rientra l’istruzione (art. 117, terzo comma).
Alle Regioni è riconosciuta la potestà legislativa esclusiva sull’istruzione e sulla formazione
professionale (art. 117, terzo comma), attribuita alle Regioni, salva l'autonomia delle istituzioni
scolastiche, nonché per ogni materia non espressamente riservata alla legislazione dello Stato.
Le Regioni, sono chiamate a svolgere un ruolo di indirizzo, programmazione e coordinamento,
accompagnato da un’attività di monitoraggio dei processi e di valutazione degli esiti, nel
quadro di un sistema legislativo regionale, ispirato ai principi di sussidiarietà e di autonomia.
Le Regioni, inoltre, sono titolari di una competenza non delegata dallo Stato, nei seguenti
settori:
a) la programmazione dell'offerta integrata d'istruzione e formazione e la definizione di
obiettivi specifici del sistema in relazione alla vocazione economico-sociale del territorio;
b) l’organizzazione territoriale dell'offerta formativa, con i conseguenti poteri
d'istituzione, di fusione e di soppressione delle istituzioni scolastiche;
c) le scelte di diritto allo studio;
d) la gestione del personale della scuola.
La questione della dipendenza del personale docente
Se le Regioni sono chiamate ad assumersi il compito della gestione anche di tutto il personale
della scuola, va, comunque, mantenuto il principio della sua dipendenza organica dallo Stato.
Ciò favorisce la ricerca di soluzioni adeguate a questioni fondamentali, quali quelle dello stato
giuridico, della libertà d'insegnamento, del mantenimento del livello di contrattazione
nazionale, della mobilità sull'intero territorio nazionale e dei criteri di accesso nel ruolo.
Il riconoscimento della dipendenza funzionale dalla Regione comporta che lo stato giuridico, la
funzione docente, i livelli contrattuali, la stabilità del rapporto, la mobilità, i titoli e le forme
d’accesso nel ruolo, debbano essere, per esigenze unitarie, uniforme sul territorio nazionale.
Il personale docente, che continua a conservare una dipendenza organica con lo Stato,
passando alla gestione regionale solo per la sua concreta attività lavorativa, fermo restando
che importanti materie relative al rapporto di lavoro e alle diverse dimensioni organizzative,
sono disciplinate dai contratti collettivi, e quindi riservate alla negoziazione e alle relazioni con
le parti sociali.
La riforma della riforma
Mentre si è fatto poco o niente per far funzionare l’assetto istituzionale definito dal vigente
Titolo V, parte seconda, della Costituzione che certamente presenta molti aspetti che debbono
essere chiariti, si è imboccata la strada di una decisiva decentralizzazione, definita
“devolution”, in particolare per la scuola.
Una complicazione maggiore si è registrata proprio nel settore dell’istruzione in quanto il
disallineamento attuativo ha avuto un effetto maggiore perché la legge 28 marzo 2003, n. 53 è
stata approvata prima della legge delega 5 giugno 2003, n. 131 (legge La Loggia), attuativa
del Titolo V della Costituzione. Lo stesso scenario si è registrato con i decreti legislativi attuativi
della legge di riforma della scuola che hanno preceduto l'emanazione del decreto attuativo
della legge La Loggia, che peraltro ancora non è stato formalizzato.
La devolution nell’istruzione
Le modificazioni dell’assetto delle competenze legislative esclusive alle Regioni (cosiddetta
devolution) sono contenute nell'art. 39 del testo approvato il 16 Novembre 2005 dal Senato, in
sede di seconda deliberazione.
Il nuovo testo riscrive il quarto comma dell’art. 117 della vigente Costituzione introducendo un
elenco di materie specifiche sulle quali spetta alle Regioni una diretta competenza legislativa
esclusiva:
a) assistenza e organizzazione sanitaria;
b) organizzazione scolastica, gestione degli istituti scolastici e di formazione salva l’autonomia
delle istituzioni scolastiche;
c) definizione della parte dei programmi scolastici e formativi di interesse specifico della
Regione;
d) polizia amministrativa regionale e locale.
Il quinto elemento dell’elenco, lettera e), è invece la norma residuale, già contenuta nel quarto
comma dell’art. 117: “ogni altra materia non espressamente riservata alla legislazione dello
Stato”.
La modifica proposta attribuisce, dunque, una potestà legislativa esclusiva nelle materie
elencate nel quarto comma dell’art. 117, sulle quali rimane, peraltro, in piedi la previsione
della competenza legislativa esclusiva e concorrente, anche dello Stato.
La nuova formulazione dell’art. 117 non offre un contributo di chiarezza rispetto alla
determinazione delle materie e dei poteri riconosciuti ai tre ambiti legislativi, perché il modello
di devoluzione proposto, incrocia, nel settore dell'istruzione, una competenza esclusiva dello
Stato, una competenza concorrente delle Regioni ed una competenza esclusiva della Regione.
L’ipotesi di devoluzione, approvata in sede parlamentare, sottrae le due componenti
(organizzazione, gestione istituti) all’ambito materiale oggetto di potestà concorrente e le
devolve a favore della potestà esclusiva regionale.
La devoluzione, inoltre, costituzionalizza anche il principio, introdotto con una legge ordinaria
di delega al Governo (legge 53/2003) finalizzata alla riforma del sistema educativo, secondo il
quale i piani di studio, definiti personalizzati, sono articolati, per competenza e obiettivi, in due
aree. La prima è costituita da un nucleo fondamentale, omogeneo su base nazionale, che
rispecchia la cultura, le tradizioni e l’identità nazionale e comprende gli obiettivi specifici di
apprendimento, le discipline, le attività, gli orari, i limiti di flessibilità interna e l'organizzazione
delle discipline. La seconda è costituita da una quota, riservata alle Regioni, relativa agli
aspetti di interesse specifico delle stesse, anche collegata con le realtà locali.
La modifica costituzionale, in concreto e per le tre citate componenti materiali, riduce, fino ad
annullarla, il potere dello Stato di stabilire principi fondamentali e norme generali
relativamente alle materie di legislazione concorrente.
Se l’organizzazione costituisce lo strumento di “produzione dell’istruzione” non è difficile
prefigurare i contrasti che possono sorgere nel rapporto con il contenuto dell’art. 33, secondo
comma, della Costituzione, per il quale “La Repubblica (...) istituisce scuole di ogni ordine e
grado”.
Il riconoscimento di una competenza esclusiva alle Regioni per l’ambito organizzazione
scolastica, potrebbe comportare il venire meno del dovere dello Stato di istituire scuole e di
assegnare risorse, ed aprire così la strada a sistemi scolastici differenziati per strutture e
tipologia, rispondenti a criteri stabiliti esclusivamente a livello locale. Motivi sistemici inducono
a ritenere che la fissazione dei livelli essenziali e dei principi fondamentali per l'istituzione di
scuole, rientra nella competenza legislativa esclusiva dello Stato, quali indirizzi per il legittimo
l’esercizio della potestà legislativa concorrente delle Regioni.
La questione non si pone con il vigente art. 117 in quanto il legislatore statale interviene con la
definizione dei principi fondamentali, destinati ad orientare l’attività legislativa concorrente
delle Regioni. Interpretazione confermata dalla Corte Costituzionale che con la decisione n. 13
del 2004, ha sostenuto che “compito dello Stato è solo quello di fissare principi (…) in materia
di programmazione e gestione amministrativa del servizio scolastico.”
Con la devoluzione, la competenza legislativa esclusiva delle Regioni riconosciuta per i tre
ambiti materiali – organizzazione, gestione degli istituti e parte dei programmi scolastici –
coincide con quello che le Regioni possono disciplinare per effetto della potestà legislativa
concorrente in materia d’istruzione, nel quadro dei principi fondamentali.
Si tratta di una estensione verticale delle competenze regionali con conseguente superamento
del rispetto dei principi fondamentali che rappresentano, come già richiamato, il limite entro il
quale può essere esercitata legittimamente dalle Regioni la potestà legislativa concorrente loro
riconosciuta.
Anche qui il rischio è di avere venti sistemi educativi regionali poiché le materie comprendono
non solo l’organizzazione scolastica, ma anche i programmi scolastici.
Con la devoluzione si hanno due potestà esclusive sulle stesse materie, con il risultato certo di
un conflitto in un settore delicato e strategico per il Paese, conflitto che verrebbe ancora di più
enfatizzato se la materia relativa alla programmazione ed alla gestione del servizio venga
ritenuta rientrante nei livelli essenziali.
La nuova formulazione dell’art. 117 affievolirebbe la garanzia posta a tutela della unitarietà del
sistema nazionale di educazione e istruzione, perché restrittiva dei contenuti delle norme
generali sull’istruzione che dovrebbero riguardare l’ordinamento scolastico, i programmi
scolastici, il sistema di certificazione e di valutazione.
Si determinerebbe una situazione per cui le disparità territoriali potrebbero aumentare per cui
chi oggi sta bene domani starà meglio, chi oggi sta male domani starà peggio.
Altro rischio concreto è quello di considerare "pezzi" del sistema gestiti dallo Stato, altri dalla
Regioni.
La lesione al principio dell'autonomia scolastica
L'attribuzione, inoltre, della competenza legislativa esclusiva alle Regioni in materia di
“organizzazione scolastica, gestione degli istituti scolastici e di formazione” determinerebbe un
ridimensionamento o, comunque, rapporti critici con il principio dell’autonomia delle istituzioni
scolastiche che rappresenta, tra l’altro, un’esplicitazione del principio di sussidiarietà
orizzontale.
La previsione legislativa di riservare alle Regioni “la definizione della parte dei programmi
scolastici e formativi di interesse specifico della Regione”, peraltro indeterminata nella quantità
e nei contenuti dalla revisione costituzionale riduce gli spazi dell’autonomia scolastica, ora di
rilievo costituzionale, proprio in forza della modifica apportata dalla legge 3 del 2001 all’art.
117, comma terzo.
In modo non coerente, peraltro, il comma quarto, inserito con la devoluzione, ribadisce il
principio della salvaguardia dell’autonomia delle istituzioni scolastiche solo su materie (lettera
b) dove gli spazi di autodeterminazione delle istituzioni scolastiche e formative sono
importanti, ma non tra i più qualificanti. Sulla materia relativa alla parte dei programmi
scolastici e formativi di interesse specifico della Regione (lettera c), che inerisce alla definizione
di obiettivi di apprendimento, contenuti, orari, attività e risorse professionali e finanziarie, e
quindi sulle responsabilità in ordine all’autonomia organizzativa, didattica, di ricerca e
sperimentazione non è stato, invece, inserito espressamente il richiamo al principio
dell’autonomia.
La restrizione introdotta configura, inoltre, un contrasto costituzionale perché l’autonomia delle
istituzioni scolastiche si intreccia fortemente con un altro elemento costitutivo della scuola,
quale è quello della libertà di insegnamento.
Nell’attuale quadro di competenze (legge 3/2001), Stato e Regioni sono tenuti entrambi al
rispetto del principio costituzionale dell’autonomia e con le loro norme non possono invadere
gli ambiti di decisionalità riconosciuti alla scuola.
La previsione devolutiva consentirebbe alle Regioni di esercitare, in modo completo e, dunque,
senza i vincoli precisi, se non quello, per la verità alquanto indeterminato “dell’interesse
nazionale” le politiche dell’istruzione sul proprio territorio, con la gestione dei relativi aspetti
finanziari, con la distribuzione del personale tra le istituzioni scolastiche, con la gestione
amministrativa del servizio.
L’innovazione costituzionale aprirebbe decisamente la strada al passaggio alle Regioni di tutta
l’amministrazione periferica del MIUR, senza distinzione tra funzioni che lo Stato deve
svolgere, anche a livello decentrato, come quelle di indirizzo e controllo e quelle gestionali
organizzative che sono di competenza delle Regioni, alla dimensione regionale dell’accesso ai
ruoli del personale docente, alla gestione regionale della mobilità del personale scolastico,
all’abolizione della contrattazione unica nazionale, con il rischio anche di un grave
indebolimento del principio della libertà di insegnamento.
Una prospettiva che potrebbe determinare ulteriori differenze nell’istruzione impartita nelle
varie zone del Paese con il rischio, inoltre, di affievolire ulteriormente nelle giovani generazioni
il senso di appartenenza ad una unica comunità nazionale.
Ciò non significa difendere il mantenimento o il ripristino di una uniformità di procedure
burocratico-amministrative, non rispondente alle esigenze di governance di sistemi complessi
come quello del sistema educativo integrato. Significa piuttosto riaffermare l’interpretazione
più autentica e proficua dell’autonomia, che contiene la possibilità di adottare modelli
organizzativi diversificati e percorsi formativi flessibili in un quadro però certo di regole e di
risorse per raggiungere più elevati e diffusi standard, nella qualità del servizio scolastico e
formativo e nei livelli di apprendimento degli studenti, sostanzialmente equivalenti a livello
nazionale.
Prospettive di impegni
E’ comunque certo che dopo il referendum confermativo, anche nel caso rassicurante del
rigetto della riforma costituzionale in senso devolutivo, occorre impegnarsi per consolidare
l’assetto istituzionale definito nel 2003 dal Titolo V.
In un quadro generale di sviluppo delle risorse umane, quale fattore di vantaggio competitivo
per le imprese e di vantaggio personale per i singoli, è determinante il rilancio di processi che
favoriscano il riorientamento di un modello organizzativo di gestione adatti ad attivare
strumenti in grado di garantire una condivisione delle politiche in tema d’istruzione e
formazione.
Solo un federalismo solidale che preveda un’attiva partecipazione e responsabilità, al fianco
delle istituzioni, delle diverse istanze economiche e sociali del territorio di riferimento sia nella
definizione delle politiche, ma soprattutto nella loro realizzazione, può ridare competitività al
Paese senza che questa si contrapponga alla ricerca della coesione nazionale e sociale.
È indispensabile costruire le condizioni per lo sviluppo di una positiva collaborazione e
cooperazione tra Stato e Regioni. I fatti e i comportamenti che hanno caratterizzato il dibattito
politico nella trascorsa legislatura documentano che questa esigenza non ha trovato un
riscontro concreto. I decreti attuativi della legge 28 marzo 2003, n. 53 hanno certificato la
difficoltà di realizzare in Conferenza Unificata un accordo di fondo sulla materia scolastica.
Si impone un nuovo modello di governo dei processi attuativi in quanto il nuovo quadro
costituzionale non consente a nessun Governo centrale di realizzare una politica efficace senza
l’apporto determinante delle Regioni, che devono però decisamente cominciare a dare gambe
alle loro proposte e alla loro capacità di accordo e raccordo.
Dopo il referendum è necessario recuperare serenità nei rapporti Stato-Regione intorno a
problemi essenziali quali l’istruzione e la formazione, la cui importanza è eguagliata soltanto
alla loro complessità.
Solo un efficiente coordinamento tra Governo Centrale e le Regioni può assicurare consistenza,
credibilità ed efficacia alla formulazione e all’implementazione delle politiche di governo di
ciascun livello territoriale.
NOVEMBRE 2006
Prospettive ordinamentali e istituzionali
di Alfonso Rubinacci
Per quanto sia difficile cercare di prevedere quale direzione prenderà la riflessione sulle
questioni istituzionali nel settore scolastico, in una situazione complessa come quella attuale,
alcuni segnali aiutano a prefigurare possibili orientamenti.
E’ evidente che la maggioranza di governo è impegnata a trovare, all’interno delle forze
politiche che la compongono, le convergenze necessarie per la configurazione degli impegni
assunti in campagna elettorale, con il rischio della perdita dell’orientamento in assenza di
obiettivi verso cui dirigersi.
Gli atti assunti dal Ministro Fioroni offrono un contributo alla comprensione delle linee di
politica scolastica in generale ed anche per quanto riguarda gli aspetti di competenza delle
Regioni:
• la sospensione del Decreto Ministeriale concernente l’iniziativa di “innovazione” dei
nuovi ordinamenti liceali, dei relativi percorsi di studio e delle tabelle di confluenza;
• l'elevazione fino al 20% dei limiti di flessibilità curriculare riservati alle istituzioni
scolastiche dei diversi ordini e gradi di scuola;
• la proroga all’anno scolastico 2008/2009 dell’avvio della riforma dell’istruzione
secondaria di II grado;
•
la proroga di ulteriori 18 mesi dei termini per l'eventuale modifica dei decreti legislativi
di attuazione della delega contenuta nella legge 28 marzo 2003, n. 53;
• la proroga all’anno scolastico 2007/2008 del regime transitorio concernente l’accesso
anticipato alla scuola dell’infanzia,
• l’obbligo di istruzione per almeno dieci anni inserito nel disegno di legge per la
finanziaria 2007;
• l’istituzione dell’Agenzia Nazionale per lo sviluppo dell’autonomia scolastica, con
articolazione centrale e periferica, con contestuale soppressione dell’Indire e degli Irre.
Anche, l'analisi delle dichiarazioni esposte dal Ministro Fioroni in Parlamento aiuta ad
individuare le prospettive di scenario ed gli obbiettivi rispetto:
- alla “funzione pubblica della scuola, indipendentemente dal soggetto che gestisce
l’offerta formativa”;
- al “carattere unitario del sistema nazionale pubblico di istruzione, sia pure nel rispetto
delle attribuzioni e della pari dignità di ciascun soggetto e livello istituzionale
coinvolto”;
- all’obiettivo di “procedere ad intese per la qualificazione del sistema educativo unitario,
di validità nazionale, senza rischi di segmentazione territoriale”.
Buone cose, buoni propositi, ma rimangono da affrontare le questioni alla radice. I predetti
interventi hanno determinato le condizioni di una ripresa del lavoro in un clima di maggiore
serenità e di celerità.
Per il sistema d’istruzione e formazione rimane, però, come hanno dichiarato sia il Ministro
Fioroni che il vice-Ministro Bastico la necessità di cambiamenti e di un salto di qualità perché,
in particolare, occorre evitare un clima di interregno che incentivi (per via di una legge di
riforma in vigore in procinto di essere in parte modificata) fenomeni di rallentamento ed
incertezza.
Molti, di fronte ad un sistema complesso quale è quello scolastico, di cui non colgono appieno il
funzionamento, nutrono sempre meno fiducia che esso possa realizzare i risultati formativi
attesi.
C’è la necessità di liberarsi di alcuni luoghi comuni perché il successo del “nuovo” dipende dalla
capacità di saperlo spiegare con azioni capaci di una modalità di governo amministrativo del
sistema educativo più vicina alle famiglie, agli studenti, ai cittadini, più responsabile e coerente
nelle scelte, più efficace e tempestiva nel decidere.
Per governare occorre essere in sintonia con i principali orientamenti dei soggetti istituzionali e
no, che a vario titolo agiscono nella scuola e per la scuola.
Le regole e le procedure per l’attuazione delle politiche scolastiche vanno pertanto modificate
con l’obbiettivo di consolidare i processi di coordinamento delle politiche nei vari ambiti di
applicazione, livello nazionale, regionale e locale oltre a quello di accrescere la coerenza tra gli
stessi livelli nelle prassi di programmazione e valutazione.
La passata legislatura ha registrato molte difficoltà nel realizzare un’ interlocuzione StatoRegione cooperativa all’interno di un quadro di regole che avrebbe dovuto consentire allo
Stato, cioè al Ministero della Pubblica Istruzione, di assumere decisioni di sistema ed alle
Regioni la possibilità di incidere sui contenuti del processo decisionale. Una condivisione
indispensabile per la costruzione di un assetto istituzionale nel settore di istruzione e
formazione compreso e condiviso. Tutto questo è mancato: bisogna imparare a pensare in
modo nuovo, che non si produce riciclando i vecchi schemi mentali, ma attraverso l’incontro
con diverse prospettive, libero da pregiudiziali partitiche.
Per garantire consistenza, efficacia e credibilità alla formulazione e all’implementazione delle
politiche di governo in campo educativo di ciascun livello territoriale è, di conseguenza,
decisivo un efficiente coordinamento tra il Ministero dell’Istruzione, le Regioni e le autonomie
locali e funzionali, rappresentate in questo caso dalle istituzioni scolastiche, perché l’istruzione
e la formazione non possono essere governate dal centro o con logiche burocratiche.
La sussidiarietà è un modello che richiede un salto culturale da parte dell’Amministrazione e
della classe dirigente. Con realismo occorre riconoscere che si tratta per ora di un seme che
deve ancora mettere radici .
Istruzione e formazione professionale: il vero nodo da sciogliere
La legge costituzionale n. 3 del 2001 ha attribuito alle Regioni la competenza esclusiva in
materia di istruzione e formazione professionale, venendo, così, ad ampliare le attribuzioni
regionali nel settore scolastico.
Il riformato Titolo V esprimendo un concetto unitario con due termini coordinati “istruzione e
formazione professionale”, ha inteso superare la tradizionale concezione di “formazione
professionale” regionale. La formazione professionale regionale che conosciamo oggi, trova,
infatti, legittimità solo con riferimento all’art. 35, comma secondo, della Costituzione, collocato
nella Parte I, Titolo III della Costituzione, intitolato ai Rapporti economici. Si riferisce, perciò,
alla “formazione professionale” dei lavoratori e ha come fine il miglioramento dei processi
lavorativi e non coinvolge, invece, il «diritto all’istruzione» del comma secondo dell’art. 34. Un
diritto e un obbligo che il disegno di
legge finanziaria per l’anno 2007, in corso di
approvazione, ha previsto "...per almeno dieci anni...con la conseguente elevazione da 15 a 16
anni del limite di età per l'accesso al lavoro.".
Il terzo comma dell’articolo 117 stabilisce che “Sono materie di legislazione concorrente quelle
relative a:…istruzione, salva l’autonomia delle istituzioni scolastiche e con esclusione della
istruzione e della formazione professionale…” , risponde ai bisogni dell’attuale società della
conoscenza.
L’istruzione e formazione professionale, di competenza legislativa esclusiva delle Regioni, deve
perdere il prevalente carattere “addestrativo”, direzione verso la quale stanno andando i
percorsi triennali sperimentali, attivati a partire dal 2003/2004 dalle Regioni, e garantire il
consolidamento delle competenze di base, gli apprendimenti teorici e gli apprendimenti in
laboratorio. Il fine educativo è far maturare quanto meglio e più possibile la persona, anche
quando il fine prioritario rimane quello di sviluppare esperienze concrete della vita giovanile e
del mondo lavorativo, di corrispondere alle esigenze di spendibilità delle competenze nel lavoro
e di permettere un qualificato sviluppo professionale.
L’offerta formativa di percorsi, nel quadro dell’ esercizio della competenza esclusiva su
istruzione e formazione professionale, va vista in una logica di qualità e non di concorrenzialità
con il sistema istruzione. Pertanto non solo occorre integrazione, ma, soprattutto, logiche
sinergiche per il pieno sviluppo del territorio e per la promozione dell’occupazione.
La previsione di un obbligo di istruzione per almeno dieci anni inserita nel disegno di legge
finanziaria consente di superare la logica del “doppio canale”, con conseguente recupero di
risorse ed energie da utilizzare per la costruzione di condizioni idonee a garantire ai giovani il
successo scolastico e formativo e il diritto alla occupabilità.
Il rapporto tra potestà legislativa concorrente sull’istruzione che è esercitata dalle Regioni nel
rispetto dei principi fondamentali fissati dallo Stato e potestà legislativa esclusiva delle Regioni
sull’istruzione e sulla formazione professionale conferma la necessità della rideterminazione del
ruolo dei vari livelli di governo: Stato, Regioni e Autonomie locali.
Prospettive di sviluppo dell’indirizzo federalista
Nel nuovo scenario costituzionale, infatti, lo Stato ha una competenza esclusiva sulle norme
generali sull’istruzione, (art. 117, secondo comma, lettera n) e sui principi fondamentali, (terzo
comma dello stesso articolo) destinati ad orientare, nel settore scolastico, l’attività legislativa
concorrente delle Regioni.
L’esercizio delle due potestà legislative è strettamente collegato perché quella riconosciuta allo
Stato è sorretta in relazione al suo contenuto, da esigenze unitarie e “quindi applicabile,
indistintamente al di là dell’ambito regionale”, come ricordato anche dalla Corte Costituzionale,
quella attribuita alle Regioni è finalizzata a realizzare un corretto ed efficace esercizio degli
aspetti d’organizzazione e di gestione.
La potestà decisionale delle Regioni sull’organizzazione e sulla gestione del servizio scolastico e
di formazione è significativo perché l’unitarietà della gestione, insieme ad una ripensata
funzione di controllo dello Stato, sono strumenti decisivi per garantire l’unitarietà del sistema
formativo.
Il modello di riparto delle funzioni, pur perfettamente coerente, incontra difficoltà nell’avvio
dei processi attuativi per la resistenza degli apparati amministrativi e scolastici.
Anche nell’impostazione e nei contenuti per l’azione amministrativa, presenti nella direttiva del
25 luglio 2006, ancora sono deboli i riferimenti alle competenze concorrenti delle Regioni in
materia di istruzione e tantomeno a quelle esclusive.
Nella direttiva si sottolinea la centralità (nel sistema) dell’autonomia scolastica, confermata
nella finanziaria con l'istituzione di appositi capitoli per l'assegnazione diretta alle istituzioni
scolastiche dei finanziamenti di bilancio, ma la logica sembra essere ancora quella del
decentramento amministrativo poiché mancano linee più concrete per sviluppare il percorso
dell’autonomia, anche alla luce del nuovo rilievo costituzionale, che in primo luogo è un
percorso politico e amministrativo che ha al centro il territorio. L’autonomia funzionale delle
istituzioni scolastiche va concepita come un nuovo modo di curare nelle comunità locali
l’interesse collettivo del diritto all’istruzione e di valorizzare le risorse e le capacità
professionali, nonché di consolidare la responsabilità sociale della scuola.
Il regolamento di riorganizzazione del Ministero della pubblica istruzione, le cui procedure di
elaborazione sono in corso, è chiamato a ripensare l’assetto dell’Amministrazione Centrale e
Periferica in coerenza con i contenuti del riformato Titolo V. Esso dovrà tenere conto di alcuni
nodi problematici: ruolo e funzioni degli uffici scolastici regionali, rapporto con le Regioni e con
il sistema delle autonomie. La riorganizzazione avrà esiti diversi a secondo delle risposte che
saranno assicurate.
Questa prospettiva richiede di avviare, per il settore istruzione, il lavoro di attuazione della
riforma costituzionale, anche tenendo conto del documento approvato il 12 luglio 2006 dalla
Conferenza dei Presidenti delle regioni e delle Province Autonome in cui viene sottolineato il
potere programmatorio delle Regioni, il loro ruolo nel definire / concordare i criteri di
assegnazione delle risorse.
L’iniziativa della Conferenza delle Regioni si è posto l’obbiettivo, come si legge nel documento,”
di concorrere con il Governo centrale, nella sede della conferenza Unificata, da un lato alla
definizione della distribuzione di competenze tra Stato, regioni e Autonomie territoriali e
funzionali, in particolare delle istituzioni scolastiche e formative, e dall’altro alla creazione di
una base di orientamento nelle materie di competenza esclusiva delle regioni, quali ad
esempio, l’istruzione e la formazione professionale”.
Il documento, inoltre, ha delineato con puntualità la prospettiva di trasferimento delle funzioni
e delle risorse dallo Stato alle Regioni, confermata anche nelle audizioni in sede di commissioni
Affari Costituzionali di Camera e Senato dei Ministri Chiti e Lanzillotta che hanno espresso il
convincimento del Governo di promuovere specifiche iniziative per costruire un assetto
federalista dello Stato che “sia equilibrato, efficiente, equo e sostenibile”.
In questa prospettiva si colloca l’iniziativa promossa dalle Commissioni Affari Costituzionali di
Camera e Senato, svoltasi nei giorni 13-15 ottobre u.s, per approfondire assieme ai Sindacati,
alla Confindustria, all’Anci, all’Upi, alla Conferenza dei Presidenti di Regioni, alla Conferenza dei
Presidenti dei Consigli Regionali le questioni della ripartizione delle competenze tra Stato e
Regioni, del federalismo fiscale e della garanzia dei diritti sociali, del governo concreto dei
rapporti tra Stato e Regioni.
Gli incontri di riflessione, di studio, di confronto acquistano maggiore valore avendo la
consapevolezza che su temi di questa portata l’unica possibilità di successo per lo sviluppo
dell’indirizzo federalista, sancito nella Costituzione con la riforma del titolo V, risiede nella
realizzazione di larghe condivisioni tra tutti i soggetti istituzionali ( Parlamento, Ministero
Pubblica Istruzione, Ministero Affari Regionali, Regioni,).
Questione di grande rilevanza che chiama in causa la necessità di mettere in campo un
preventivo lavoro di approfondimento e di analisi, strutturato e sistematico, da parte di tutti i
soggetti coinvolti. Ciò richiede la predisposizione di condizioni organizzative e l’individuazione
di un metodo di lavoro efficiente ed efficace e di opportune forme di comunicazione e
collegamento.
DICEMBRE 2006
La dirigenza pubblica. Un quadro legislativo e un sistema professionale in cerca di
stabilità
La storia dell’ultimo decennio dimostra quanto sia difficile realizzare politiche del personale
idonee a valorizzare il merito e a sostenere lo sviluppo professionale.
Ripetuti interventi
La dirigenza pubblica che ha le radici istitutive nel decreto legislativo 3 febbraio 1993, n. 9, è
stato oggetto di numerosi e rilevanti interventi legislativi nel corso della 12^ e 13^
legislatura.
Anche nel corso della 14^ legislatura sono state introdotte innovazioni allo scenario giuridico
definito dalla precedente normativa. Con la legge 15 luglio 2002, n.145, intervenuta a distanza
di qualche anno dalle modifiche del quadro normativo definito con il d.lgs n. 165/2001, sono
state emanate disposizioni per il riordino della dirigenza statale e per favorire lo scambio di
esperienze e l’interazione tra pubblico e privato, che hanno inciso, particolarmente, sul regime
degli incarichi di funzioni dirigenziali. La legge 145 ha disposto, infatti, in prima applicazione,
l’automatica cessazione con possibilità di rinnovo, degli incarichi dirigenziali di vertice, la
soppressione del ruolo unico con la costituzione di distinti ruoli presso ogni amministrazione ed
ha introdotto la mobilità tra amministrazioni pubbliche e tra settore pubblico e privato.
La legge 145/2002 non indicando criteri precisi di responsabilità, di esperienza maturata e
verificabile per l'accesso ai profili della dirigenza amministrativa, ha esteso il principio di
fiduciarietà.
Ulteriori disposizioni in materia di incarichi dirigenziali sono stati inseriti nel decreto legge 30
giugno 2005, n.11, convertito con modificazioni nella legge 17 agosto 2005, n.168 che ha
riportato a tre anni la durata minima dell’incarico di funzione dirigenziale ed ha ridotto da
cinque a tre anni il termine per l’inquadramento definitivo nel ruolo dirigenziale generale.
I ripetuti interventi del legislatore in materia di dirigenza pubblica hanno impedito che il
sistema delle regole concernenti il ruolo, la funzione e le responsabilità dei dirigenti pubblici
assumesse un assetto stabile.
L’attuale Governo con il decreto legge 2006, n. 223, convertito con modificazioni nella legge 4
agosto 2006, n. 248, ha modificato, sia pure parzialmente, la disciplina della dirigenza
pubblica, stabilendo che il trattenimento in servizio dei dipendenti non può eccedere il periodo
massimo di un biennio oltre i limiti di età previsti per il collocamento a riposo.
Questa decisione ha consentito di porre fine ad una consuetudine ormai consolidata in una
pluralità di amministrazioni, quella cioè di conferire un incarico dirigenziale, in qualità di
estraneo, allo stesso dirigente cessato dal servizio per limiti di età, con conseguente cumulo
del trattamento di quiescenza e della retribuzione connessa al rinnovato incarico, normalmente
di pari importo del precedente.
I precitati interventi legislativi interessano anche i dirigenti scolastici. Infatti la circolare del 1
agosto 2002 del Ministro della funzione pubblica nel dettare le norme di indirizzo per
l’applicazione della legge n. 145/2002 ha escluso i dirigenti scolastici solo dall’applicazione del
comma 7 dell’art. 3 della legge n. 145 che, come è noto, ha attuato uno spoils-system
generalizzato.
Ulteriori correzioni sono state introdotte in sede di conversione in legge, con modificazioni, del
decreto-legge 3 ottobre 2006, n.262, che ha modificato parzialmente l’articolo 19 del D.lgs
165/2001 che disciplina gli incarichi di funzioni dirigenziali. La modifica estende l’ambito di
applicazione del comma 8 di tale articolo che collega la durata dei più elevati incarichi
dirigenziali alla durata del Governo. Il comma 159 del dell’art. 2 della legge di conversione
estende gli effetti di tale disposizione a tutti gli incarichi di funzione dirigenziale conferiti a
personale non appartenente ai ruoli dei dirigenti delle amministrazioni dello Stato, ai sensi dei
commi 5-bis e 6 del medesimo art, 19.
Il successivo comma 161 ha previsto che "in sede di prima applicazione dell’art.19, comma 8,
del decreto legislativo, come modificato ed integrato dai commi 1 e 2 gli incarichi ivi previsti,
conferiti prima del 17 maggio 2006, cessano, ove non confermati entro sessanta giorni dalla
data di entrata in vigore del presente decreto legge".
L’estensione operata dalla norma in esame è motivata dalla relazione illustrativa con riguardo
alla natura fiduciaria che caratterizza tali incarichi.
La separazione tra funzioni di indirizzo attribuite al titolare della guida politica
dell'Amministrazione e attività di gestione amministrativa, riconosciuta al dirigente pubblico,
che si fonda sul riconoscimento e sulla valorizzazione di competenze tecno-gestionali correlate
ai programmi da realizzare piuttosto che sulla considerazione, della funzionalità del singolo
dirigente al raggiungimento degli obbiettivi e delle priorità indicate dal decisore politico, ha
determinato una condizione di sovrapposizione fra i due soggetti ed un affievolimento del
principio della terzietà delle amministrazioni pubbliche.
L’ultima indagine svolta dall’Aspen Institute sulla leadership pubblica e privata documenta che
il dirigente pubblico è molto attento al potere politico che può dispensare benevolenza e a
tessere relazioni rassicuranti. I legami obbliganti e le deferenze precostituite - afferma Pier
Luigi Celli - spingono a privilegiare adesioni conformi più che "competenze spendibili
liberamente".
Una dirigenza al servizio dei cittadini
C’è bisogno di mettere in campo una azione politica determinata incisiva per contrastare il
senso di estraneità, di dissociazione che la gente comune avverte nei confronti dello Stato che
sempre più viene percepito inefficiente, pesante e perciò non al servizio dei cittadini.
Da più parti si sottolinea la condizione di un sistema che sembra non possedere la capacità di
generare una nuova e vera classe dirigente, di valorizzare il merito e la professionalità, la
disponibilità al cambiamento e alla innovazione per la modernizzazione del Paese.
Il sistema sembra che abbia dispersa la capacità di gerarchizzare motivi e finalità. Ad ogni
livello decisionale vige ancora il "principio del rinvio" ossia il convincimento che la decisone
dovrà essere approfondita ed assunta al successivo livello.
Il dirigente sembra, dunque, nella necessità di dover essere riorientato al raggiungimento di
risultati, alla valorizzazione del lavoro svolto, anche introducendo elementi di una politica
meritocratica che preveda degli incentivi economici premianti.
La tradizionale funzione del dirigente, concentrata su organizzazione del lavoro e regole va
superata per assumere una più ampia portata e significato. Oggi ai dirigenti si deve chiedere di
prendere posizione sui problemi, di riscoprire il senso dell’interesse pubblico superiore che
deve caratterizzare il lavoro nelle pubbliche amministrazioni, di favorire e sostenere
l’evoluzione organizzativa del soggetto istituzionale.
La dirigenza si deve identificare nella concretezza della operatività del singolo dirigente che
realizza le azioni e risponde dei risultati. Il ruolo dei dirigenti pubblici orientato all'efficienza ed
efficacia dei servizi finali, resi ai cittadini, comporta infatti l'assunzione di definite
responsabilità in ordine ai risultati del servizio.
Questo scenario comporta il superamento del tradizionale concetto di responsabilità fondato
sulla cultura dell’adempimento formale.
Si avverte la necessità di un sistema di verifica del comportamento amministrativo dei
dirigenti che sia in grado di premiare i comportamenti virtuosi, con un sistema appropriato di
incentivi che devono essere tali da rendere convenienti i comportamenti virtuosi.
Premiare il merito, l’esperienza, la creatività, la capacità di sollevarsi oltre la quotidianità,
assicurare condizioni adeguate nell’ambiente di lavoro sono gli elementi necessari per attirare
le migliori intelligenze giovanili. E’ essenziale che la dirigenza sia resa attrattiva per i giovani
coniugando, attraverso processi di valutazione trasparente, carriera, merito e trattamento
economico.
La sfida delle pubbliche amministrazioni
Le accresciute sfere di responsabilità delle dirigenza vanno, anche, correlate ad un
rafforzamento del ruolo delle amministrazioni pubbliche verso il conseguimento di obiettivi e
risultati misurabili in termini di costi e rendimenti.
Il dirigente pubblico, si legge nella ricerca della LUISS del 2005 ” è responsabile della
traduzione dell’indirizzo politico amministrativo nell’attività di gestione e, in parallelo, della
qualità delle prestazioni e dei servizi erogati ai cittadini. Ne consegue che la misurazione della
sua performance risponde necessariamente a parametri più articolati e non può limitarsi alla
valutazione dei comportamenti (spesso di facile quantificazione e di difficile qualificazione) e
delle capacità professionali…ma deve investire il risultato e la qualità complessiva dell’agire
amministrativo anche dal punto di vista dei prodotti (profilo dinamico quantitativo) e della
costumer satisfaction.”.
Il dirigente deve essere consapevole che non tutto è predeterminabile e che spesso le azioni
approdano ad esiti non previsti. Il dirigente, infatti, deve saper affrontare scenari inediti.
Il modello è quello di una pubblica amministrazione orientata all’utente, fornitrice di valore
“pubblico” con cui sia facile operare, che sia trasparente nei suoi compiti e nel suo patrimonio
informativo.
Va sottolineato che il sistema di valutazione oltre che una procedura per erogare un premio di
risultato deve costituire un’opportunità per orientare e stimolare l’azione dei dirigenti e per
verificare l’efficacia del loro contributo alle politiche nazionali e regionali. La valutazione,
perciò, non come strumento punitivo, ma incentivo al miglioramento non solo delle prestazioni
individuali ma anche dell’organizzazione.
I dirigenti nel sistema delle autonomie
Il ruolo della dirigenza assume un significato rilevante nel contesto della riforma costituzionale
che attribuisce nuovi compiti alle regioni e alle autonomie locali, con ricadute significative
sull'organizzazione delle amministrazioni statali, regionali e locali.
C’è la necessità di individuare profili professionali funzionali ai nuovi assetti, per consentire a
tutti i soggetti costitutivi del sistema delle autonomie locali di.
• co-partecipare alle politiche di sviluppo del territorio,
• garantire la partecipazione del territorio nell’attuazione delle politiche nazionali,
comunitarie, sopranazionali,
promuovere l’integrazione e la sinergia delle politiche tra i diversi livelli di governo
locale,
• favorire lo scambio di esperienze positive, la cooperazione e le reti transnazionali,
• sostenere lo sviluppo di uno spirito cooperativo tra il settore pubblico, privato, le
autonomie funzionali, le associazioni e gli abitanti,
• migliorare il sistema di monitoraggio per la identificazione dei problemi e per la
formulazione di proposte chiare per adeguare le politiche di governo in funzione delle
esigenze locali,
• assicurare il controllo e la misurazione delle attività gestionali in relazione agli obiettivi
posti dalle direttive e dagli altri atti d’indirizzo.
Dal nuovo ordinamento federale e dall’aggiornamento della nozione di funzione pubblica come
azione pur sempre finalizzata al perseguimento dell’interesse pubblico ma meno legata a
schemi formali, esce rafforzata l’esigenza di una presenza autorevole della dirigenza pubblica a
garanzia del buon andamento delle attività delle pubbliche amministrazioni.
Una dirigenza è autorevole se è in grado di prendere rapidamente le decisioni necessarie. Ma lo
è ancor di più se consente alla politica di realizzare i suoi programmi con piena responsabilità,
se assicura adeguati controlli all’esercizio del potere, se offre a tutti la sicurezza dei propri
diritti.
•
GENNAIO 2007
Puntare sull’autonomia e sui rapporti con il territorio
di Alfonso Rubinacci
La consapevolezza che l’azione politica a livello di Governo nazionale da sola non è in grado di
produrre cambiamenti significativi in quanto i mutamenti a livello di scuola sono il frutto
prevalentemente di fattori locali, non ci impedisce di domandarci se le norme relative
all’istruzione contenute nella legge finanziaria per l’anno 2007 esprimono un progetto e una
visione complessiva. Se esiste, dunque, una prospettiva che abbia la capacità di assicurare, di
stabilizzare la scuola, di liberare energie, di porre le basi per promuovere un cambiamento
reale nella scuola che oggi, con i suoi schemi, stenta a promuovere l’emancipazione e la
mobilità sociale. Eppure c’è una scuola vitale e tenace che non è stata del tutto disorientata nel
corso della precedente legislatura che poteva essere spesa meglio.
Nel corso degli ultimi decenni è aumentato il tasso di scolarità, ma non è diminuito il
differenziale di conoscenze e competenze dei nostri giovani nel confronto con quelli dei paesi
più avanzati, e i progressi conseguiti dalle nuove generazioni hanno un limitato impatto sulla
crescita economica, sociale e civile del paese.
Le scelte di politica scolastica delineate nelle norme contenute nella legge finanziaria non
sembrano però investire in profondità il sistema scuola perché condizionate da esigenze di
bilancio, da resistenze da parte di interessi consolidati, dalle diverse sensibilità presenti nella
compagine governativa.
Il processo di trasformazione va avanti, allora, per adeguamento parziale, per aggiustamenti in
corso d’opera.
Le prospettive di sistema
La previsione di innalzamento di due anni dell’obbligo d’istruzione presenta rilevanti
implicazioni. La soluzione individuata nella finanziaria si fa carico del problema di come
arricchire e qualificare l’offerta educativa fino a renderla corrispondente alle esigenze di tutti gli
studenti della fascia 14-16 anni.
Il modello ipotizzato dovrebbe avere un duplice carattere, nazionale e locale: nazionale in
quanto fondato su un curriculum nazionale centrato su competenze generali ed unitarie, e
locale in quanto diversificato nell’offerta in funzione delle singole realtà territoriali e delle loro
specifiche vocazioni culturali, economiche e sociali. L’obbiettivo è la costruzione di un sistema
educativo, incardinato sull’autonomia scolastica, ma capace di relazionarsi con il contesto
locale, comprendente tutti i percorsi formali d’istruzione, di formazione professionale sia
iniziale che continua, di educazione permanente e ricorrente.
Nella previsione si coglie una valenza positiva, perché potrebbe offrire continuità ad una serie
di esperienze e pratiche collaborative tra contesti diversi ed esterni a quelli dell’istruzione, con
peculiari tipologie formative.
In questa prospettiva ed in presenza di dinamiche nuove che stanno trasformando i governi del
territorio, diventa, allora, prioritario mettere i soggetti coinvolti in condizioni di svolgere il
proprio ruolo e di esercitare le proprie responsabilità in un quadro normativo capace di dare
certezze, flessibilità, semplificazione.
Le questioni di estrema complessità in tutti i settori e di particolare delicatezza nell’ambito
dell’istruzione e formazione, vanno inquadrate nell’ambito sia delle problematiche generali
attinenti agli assetti costituzionali ed istituzionali, sia del progetto di governo, sia delle politiche
dei vari settori con un approccio complessivo ed integrato.
Il mutato rapporto tra Stato e soggetti istituzionali territoriali trova concretezza nel dialogo, nel
confronto e nella assunzione di decisioni destinate ad incidere sui processi di erogazione dei
servizi - compreso quello dell’istruzione e della formazione - che devono essere sempre più
aderenti alle caratteristiche della popolazione e alle domande sociali.
Perciò la questione principale che oggi abbiamo di fronte è capire come far
partecipare le autonomie locali e regionali alla nuova “governance”, orientata alla
crescita, allo sviluppo comune ed all’occupazione assicurando una migliore garanzia
dei diritti dei cittadini anche sul piano della vita quotidiana.
Esplorare le potenzialità dell’autonomia funzionale delle istituzioni scolastiche
L’introduzione dell’autonomia delle istituzioni scolastiche dal 1 settembre 2000, prima grande
riforma di sistema, volle essere una risposta alla domanda formativa di una società complessa
e percorsa da rapide trasformazioni che, tuttora, richiede un ampio circuito di comunicazione e
la predisposizione di concrete opportunità di realizzazione dei giovani. L’autonomia, infatti,
determina un sistema di nuove idee e regole utile ad interpretare il ruolo e la funzionalità di
una pluralità di soggetti tenuti insieme da relazioni e da interconnessioni. Nell’autonomia della
scuola è compresa, oltre il principio di elettività e di rappresentatività degli organi della scuola,
anche la competenza di scelte fondamentali sull’organizzazione e sulla didattica e di
autodeterminazione di parte delle attività fino al 20% della quota dei piani di studio nel rispetto
degli indirizzi definiti dalle Regioni e dei compiti e funzioni trasferiti agli Enti locali, nel quadro
dei nuovi assetti istituzionali, definiti dalla riforma del Titolo V.
Si tratta di definire gli ambiti operativi degli istituti scolastici intesi come singole
amministrazioni pubbliche e come reti di scuole ed istituzioni pubbliche e private di erogazione
dei servizi.
All'interno di questa cornice, si colloca il riconoscimento alle Regioni della potestà legislativa
concorrente per gli aspetti di gestione ed organizzazione generale del sistema territoriale delle
istituzioni d'istruzione e di formazione e l'esplicita conferma dell'autonomia amministrativa,
gestionale, didattica e di ricerca delle istituzioni scolastiche che andrebbe estesa anche alle
istituzioni formative.
Lo specifico riferimento rinvenibile all’art.117, terzo comma, quarto periodo “…salva
l’autonomia delle istituzioni scolastiche...” ha aperto grandi prospettive, ma pone diverse
questioni, la prima delle quali è quella della titolarità del potere di determinazione del
contenuto dell’autonomia della scuola.
Il DPR n.275/99 ha definito le istituzioni scolastiche come “espressioni di autonomia
funzionale” configurandole soprattutto come organismi rappresentativi della comunità
scolastica e delle diverse formazioni sociali che ne sono alla base.
Nel nuovo quadro lo Stato e le Regioni possono intervenire sulle funzioni e sulla organizzazione
della scuola fissando lo Stato, le norme generali sull’istruzione e i principi fondamentali, e le
Regioni le norme di dettaglio. Essendo, entrambi, tenuti al rispetto del principio costituzionale
dell’autonomia scolastica, le norme si pongono come limiti esterni e non potranno invadere le
forme di autonomia riconosciute alla scuola.
Il riconoscimento costituzionale dell’autonomia delle istituzioni scolastiche consiste nel
garantire l’ambito di libertà nelle scelte di esercizio del loro ruolo tecnico.
Il concetto di autonomia funzionale è tuttaltro che consolidato e va approfondito, perché il
permanere di alcune incertezze rischiano di pesare sulla linea di marcia delle riforme e del
funzionamento stesso delle scuole.
Le autonomie funzionali non agiscono sulla base del principio di sussidiarietà perché, essendo
soggetti pubblici, istituiti espressamente dal legislatore, agiscono sulla base delle leggi che ne
disciplinano funzioni ed organizzazione.
L’autonomia funzionale rappresenta lo strumento per costruire un’unitarietà reale dei processi
di sviluppo locali, perché gli istituti scolastici non possono porsi come soggetti che realizzano la
propria iniziativa indipendentemente da ogni rapporto con gli enti locali ed i soggetti e le
strutture del territorio.
Il rapporto con il territorio va assunto nella sua complessità perché la governance delle
politiche formative territoriali poggia sulla capacità di costruire un consenso organizzativo su
una visione comune.
I processi decisionali
Questa
prospettiva
richiede di ripensare l’impianto organizzativo e
i modelli
di governance sia del sistema di istruzione nel suo complesso che delle singole scuole.
Una riorganizzazione interna che investe il sistema delle responsabilità e i processi decisionali
che riguardano anche gli organi di governo delle scuole.
Si tratta di un argomento di non poco rilievo che pone l’esigenza di fare chiarezza sul concetto
di partecipazione, di precisare quale ruolo vogliamo riconoscere alla scuola, di definire il
rapporto della scuola con il territorio, con gli enti locali, di mettere in grado i soggetti
istituzionali di esercitare le proprie responsabilità, perché nessuno dei livelli di governo ha la
"piena disponibilità" giuridica ed economica della materia istruzione.
La prospettiva che andrebbe assunta è la costruzione di un assetto organizzativo funzionale
all’istituzione scolastica ed efficace nel territorio, nel quadro di una nuova collaborazione tra gli
istituti scolastici e con la creazione di reti di scuole in un sistema di responsabilità che sappia
bilanciare valutazione interna ed esterna.
Non di minore importanza è la definizione di una nuova disciplina degli organi collegiali
territoriali che sappia tener conto delle competenze delineate del vigente ordinamento
costituzionale. Non è più sopportabile il perdurante regime di prorogatio degli organi territoriali
degli anni 70, né sembra possibile richiamare in vita il decreto legislativo 30 giugno 1999, n.
233 concernente gli organi collegiali territoriali della scuola che, essendo antecedente alla
legge costituzionale 18 0ttobre 2001, n. 3, non tiene conto della potestà legislativa
concorrente delle Regioni in materia di istruzione, né di quella esclusiva in materia di istruzione
e formazione professionale.
Non risulta, infatti, più compatibile con le attribuzioni delle Regioni ed enti locali, relative alla
programmazione, all’organizzazione dell’offerta formativa e alla distribuzione della rete
scolastica, il riconoscimento ai Consigli regionali dell’istruzione (art. 4 del decreto legislativo 30
giugno 1999, n. 233) della titolarità di esprimere pareri obbligatori, tra l’altro, in materia”…di
distribuzione dell’offerta formativa e di integrazione tra istruzione e formazione
professionale…”.
Va messa a punto una strategia capace di migliorare l’offerta formativa per tutte le fasce d’età
rendendo praticabili maggiori spazi di esercizio di autonomia.
Il miglioramento del sistema dipende non dal successo di una singola istituzione scolastica, ma
da tutte. Questo richiede una nuova relazione tra le scuole e nuove modalità di governo locale
che presuppone la valorizzazione di forme di partecipazione delle istituzioni scolastiche ai
processi decisionali locali e regionali. La garanzia partecipativa non può però ridursi ad una
semplice funzione consultiva di “ascolto” o “di presa d’atto” degli interessi della scuola.
L’obbiettivo fondamentale dell’autonomia scolastica - si legge già nella presentazione dei
prodotti formativi del Progetto nazionale Copernico lanciato nel 2000- è la qualità dei percorsi
e la valorizzazione di tutti gli attori coinvolti nel processo formativo che possono contribuire ad
ottimizzare il cambiamento.
Occorre perciò favorire il consolidarsi di un nuovo rapporto con le scuole sul piano dei
finanziamenti, degli obiettivi e della valutazione che le metta in condizione di programmare il
miglioramento dell’offerta formativa nel medio periodo.
E’ evidente come la concreta attuazione del disegno complessivo dipenda dall’effettivo esercizio
dell’autonomia finanziaria delle istituzioni scolastiche. Le disponibilità economiche devono
coprire integralmente le funzioni loro attribuite, infatti, la pariordinazione delle autonomie
funzionali con le istituzioni territoriali passa anche attraverso la possibilità di disporre di
adeguate risorse finanziarie.
Così si rafforza l’autonomia delle istituzioni scolastiche alle quali andrebbero attribuite in
generale le funzioni amministrative, con eccezioni di quelle che interessano un’area più vasta
di quella della singola istituzione.
I rapporti tra i diversi livelli di governo vanno costruiti secondo logiche di competenza esclusiva
per prevenire il rischio del perpetuarsi dell'attuale stato di "dipendenza" strutturale e
funzionale, che lascia poco spazio a flessibilità territoriali.
Autonomia e risultati
E’ importante che soprattutto il mondo della scuola, pur nell’impegno e nella fatica che essi
richiedono nella raccolta e nell’analisi, possa disporre di elementi di conoscenza e di giudizio.
Quelli delineati sono scenari che potrebbero costituire un’opportunità importante per
valorizzare il lavoro delle scuole e di tutti gli operatori, per puntare decisamente sull’autonomia
scolastica.
Il nostro Paese non può sottrarsi a questi cambiamenti ed anche al confronto internazionale se
è vero, come mette ancora una volta in evidenza l’indagine OCSE-PISA, che nella maggior
parte dei Paesi che hanno riportato risultati positivi, le autorità locali e le scuole hanno
notevole libertà di decisione sui contenuti educativi e sull’organizzazione del servizio scolastico
e che dunque esiste una correlazione positiva tra autonomia e risultati.
MARZO 2007
Passi concreti verso il federalismo scolastico - Collaborazione istituzionale e
partecipazione dei cittadini di Alfonso Rubinacci
L' adeguamento dell’ordinamento repubblicano alle direttive dettate dal Titolo V ha ripreso il
cammino dopo la bocciatura della “riforma delle riforma”, con il referendum del 25 giugno 2006.
Il ciclo di audizioni svoltosi dinanzi alle Commissione Affari Costituzionali della Camera dei
Deputati e del Senato, nel mese di ottobre e dicembre dello scorso anno, ha assicurato
ulteriore qualità e continuità al confronto e all’analisi delle innovazioni introdotte nella
Costituzione.
Alle audizioni delle due fasi dei lavori, che si sono concluse l’11 dicembre, hanno partecipato,
tra l’altro, Associazioni rappresentative delle Autonomie locali, Associazioni sociali,
sei
Presidenti emeriti della Corte Costituzionale, due giudici costituzionali, il Presidente della Corte
dei Conti e 31 professori universitari a conferma di un largo consenso sulla opportunità di dare
concretezza attuativa ai punti salienti della riforma costituzionale del 2001.
Così come le audizioni del Ministro per gli Affari regionali e le
Autonomie locali e del Ministro dell’Interno, nello scorso
novembre, dinanzi alla Commissione parlamentare per le
questioni regionali, rappresentano ulteriori momenti di
approfondimento sul rapporto tra le Regioni e le innovazioni
nell'assetto istituzionale del nostro Paese.
Sul terreno dell’attuazione del titolo v – ha sottolineato il Ministro Lanzillotta - l’obiettivo è
“…semplificare le situazioni, razionalizzare le competenze in modo che ogni livello si occupi
chiaramente di una cosa e non di altre, e, attraverso questa strada, ridurre i costi, assicurare
efficienza e sostenibilità al sistema…”.
Il federalismo, perciò, non dovrebbe comportare necessariamente spese e costi aggiuntivi, ma
addirittura dovrebbe rendere più efficiente e meno costoso l’apparato amministrativo.
Il ministro Amato ha affermato, nell’intervento svolto nella stessa sede istituzionale, che “…la
nostra speranza è che questa legislatura possa portare a compimento un lavoro iniziato due
legislature fa, con l’approvazione del titolo V, che, gioco forza, è rimasto com’era.”.
Le proposte delle autonomie
I Presidenti delle Regioni a statuto speciale e delle Province
autonome nel documento approvato il 2 dicembre 2006,
nell’esprimere soddisfazione per la decisione di dare
continuità nelle sedi istituzionali agli approfondimenti e al
confronto sul tema del rapporto tra le specialità regionali e le
innovazioni scaturite dal nuovo titolo V, parte II della
Costituzione, sollecitano l’attuazione dell’articolo 11 della
legge Costituzionale che dovrebbe garantire una specifica
rappresentanza delle autonomie speciali nella Commissione
parlamentare per le questioni regionali.
Le autonomie speciali sottolineano che la loro particolare autonomia, derivante da “fattori
differenziali storici, istituzionali, territoriali (insularità, territorio esclusivamente montano,
frontalierità) le pone su di un piano diverso dalle altre Regioni, che comporta una speciale
strutturazione dei rapporti con lo Stato…”.
In precedenza, anche i contenuti del documento congiunto approvato il 28 novembre 2006 da
Regioni, Comuni, Province e le Comunità montane si configurano come proposta al Governo per
l’attuazione del vigente titolo V della Costituzione che tutti, - parti politiche e soggetti
istituzionali - hanno rinunciato a modificare. Nel documento si sottolinea, infatti, che la
legislatura attuale deve avere come obiettivo prioritario l’attuazione della riforma costituzionale
del 2001 per dare certezze “sul piano legislativo e sul piano amministrativo ai cittadini e alle
imprese”.
Il Presidente della Repubblica nel suo messaggio per l’anno 2007 ha rivolto un ulteriore appello
perché ”ci sia più dialogo più ascolto reciproco tra opposti schieramenti” . Più dialogo per le
riforme istituzionali che mettano insieme Autonomie Regionali e Parlamento Nazionale
“cercando pazientemente l’accordo” sulle norme che regolano il buon funzionamento della
politica (sistema elettorale, forma di governo, federalismo). Il Capo dello Stato indica, tra
l’altro, con chiarezza, che occorre dare coerenza al sistema di rapporti tra centro e periferia.
La lettura dei documenti conferma il convincimento di tutti che il cammino verso un assetto
federale della Repubblica, per la complessità della “transizione”, pone l’esigenza di garantire un
processo armonico di adeguamento dell’ordinamento istituzionale.
Un Master Plan per l'istruzione
In questo quadro, così complesso e articolato, eppure con un nuovo dinamismo, si colloca il
Master Plan delle azioni per l’attuazione del titolo V della Costituzione per il settore
dell’istruzione, formulato dalla IX Commissione Istruzione, lavoro, ricerca e innovazione e
approvato dalla Conferenza delle Regioni e delle Province autonome nella seduta del 14
dicembre 2006.
“Il Master Plan, - si legge nella lettera ai Ministri Fioroni e Lanzillotta del 18 dicembre 2006 che prende le mosse dal documento approvato dalla Conferenza delle Regioni del 12 luglio
rappresenta un’utile base di lavoro per l’apertura di un confronto in merito con il Governo”.
Si è in presenza di una iniziativa che può concorrere a superare la reiterata propensione alla
diffidenza statale nei confronti delle Regioni e creare un clima di condivisione la cui mancanza
impedisce di andare avanti.
Non è pensabile, infatti, che nel processo attuativo del federalismo, lo Stato sia vissuto dalle
Regioni come controparte perché lo Stato centrale è proprio ciò che rende "sistema" le Regioni
e le Autonomie locali.
Si tratta di un testo che può segnare l’avvio di una nuova fase. Il Master Plan, infatti, dovrebbe
essere assunto come base del lavoro successivo con la chiara consapevolezza che l’allocazione
delle funzioni nuove deve saper coniugare uguali prestazioni concernenti i diritti sociali e
processi federali.
Le Regioni e le Autonomie locali manifestano la convinzione che il processo di definizione delle
quadro normativo e dei correlati assetti organizzativi e di governo rappresenta un’occasione di
primaria importanza per adeguare le proprie istituzioni politiche ed amministrative alle nuove
sfide cui debbono far fronte nella gestione del proprio territorio e delle rispettive collettività, in
chiave di collaborazione con le altre Regioni, con la Comunità nazionale e con l’Unione Europea.
Per questo nel documento di dicembre è chiesto che il contenuto di provvedimenti attuativi del
Titolo V sia oggetto di un metodo stabile di preventiva intesa attraverso la costituzione di un
tavolo di concertazione presso il Ministero della Pubblica Istruzione.
Che il processo abbia assunto una più chiara direttrice di marcia è testimoniato dal fatto che
tutti i partecipanti ai lavori della Conferenza hanno maturato una posizione di principio comune,
individuando, tra l’altro, la data del 1 settembre 2009 quale termine finale entro il quale
ciascuna Regione dovrà aver completato la predisposizione delle condizioni per l’esercizio delle
funzioni loro attribuite dal Titolo V della Costituzione.
Il Master Plan tiene conto di alcuni principi fondamentali contenuti nel documento approvato il
12 luglio 2006 dalla Conferenza delle Regioni e delle Province autonome ed in particolare quelli
rappresentati dall’ambito territoriale di operatività, dalla programmazione dell’offerta formativa
di istruzione e formazione, dal rispetto dei LEP e dall’unitarietà del sistema d’istruzione.
Altro aspetto significativo del percorso operativo delineato dal documento, che può far
compiere passi avanti al processo di attuazione, è la previsione di un accordo in sede di
Conferenza Unificata che definisca gli oggetti del trasferimento dallo Stato alle Regioni e,
possibilmente, i livelli adeguati di gestione.
Una volta definito il quadro delle competenze, ciascuno dei soggetti coinvolti nel processo
attuativo dovrebbe procedere a “costruire” le condizioni di esercizio delle competenze nuove.
La salvaguardia dell’unitarietà e della qualità del sistema impone che il nuovo quadro
normativo di Stato e Regioni sia accompagnato da una serrata attività di concertazione per
garantire un approdo finale fortemente concordato.
I riflessi, infatti, che le due legislazioni potrebbero avere sul sistema educativo complessivo
sono assai rilevanti.
Contestualmente alla predisposizione da parte delle Regioni
delle condizioni necessarie al processo di attuazione del Titolo
V, il Ministero della Pubblica Istruzione è chiamato ad
individuare, per garantire l’unitarietà del sistema educativo, le
norme generali e i principi fondamentali di riferimento per la
legislazione concorrente delle Regioni in materia di istruzione,
nonché i livelli essenziali delle prestazioni anche per
l’istruzione e formazione professionale che rientra nella
competenza legislativa esclusiva regionale.
Il legislatore statale è chiamato, inoltre, ad individuare le
funzioni fondamentali degli enti locali, ai sensi dell’art.117,
secondo comma, lettera p) della Costituzione per distinguere
con chiarezza il ruolo e le responsabilità di ogni livello di
governo.
Un sistema a più livelli
“In un sistema multilivello di governo - come ha affermato il Ministro Amato durante l’audizione
dinanzi alla Commissione per le questioni regionali – si possono distinguere delle competenze, il
cui esercizio va coordinato in funzione di missioni pubbliche ora dell’uno, ora dell’altro livello di
governo... chiunque immagini un sistema multilivello in cui ciascuno si muove nell’ambito di
una orbita indipendente, senza mai incontrare l’altro, coltiva un’illusione; infatti, ove accadesse,
in realtà, il sistema nel suo insieme funzionerebbe male”.
Altro punto sul quale va focalizzata l’attenzione è la riforma
del federalismo fiscale delineata dall’art. 119 della
Costituzione come elemento imprescindibile per coniugare
autonomia e responsabilità, per pensare a distribuzioni di
compiti e competenze tra i diversi livelli di governo, per
garantire la piena copertura degli oneri connessi all’esercizio
delle funzioni.
Già nel 2003 la Corte Costituzionale afferma che “…appare evidente che l’attuazione del
federalismo fiscale sia urgente al fine di concretizzare davvero quanto previsto nel nuovo titolo
V della Costituzione”.
Insomma, anche se con lentezza e con giuste cautele, si sta avviando un percorso di
costruzione di nuovi rapporti tra istituzioni, tra centro e territori. Potrebbe essere anche questo
un elemento per rimotivare i cittadini alla 'partecipazione, all’interessamento sulla "cosa
pubblica" e sulla qualità dei servizi fondamentali, al sentimento di comunità senza i quali è
sempre più difficile governare e riformare. Questo vale per tutti i settori, in particolare per
quello dell'istruzione.
APRILE 2007
Il Master Plan. Una scommessa sulle autonomie
di Alfonso Rubinacci
Il futuro del nostro Paese dipende dal modo in cui sapremo mettere in atto una ridistribuzione
delle competenze, dei compiti, delle funzioni tra i diversi livelli istituzionali per accrescere il
livello di partecipazione dei cittadini alla vita pubblica, invertendo il rapporto tra istituzioni e
cittadini. Si tratta di un argomento di non poco rilievo che pone l’esigenza di fare chiarezza sul
concetto di partecipazione, di precisare quale ruolo vogliamo riconoscere alla scuola, di
mettere in grado i soggetti istituzionali di esercitare le proprie responsabilità. Non ci vuole
molto a capire a quale grande impegno è chiamato il mondo delle istituzioni e della scuola,
carenti di proiezione verso il futuro.
Il federalismo e il decentramento, anche se diversamente declinati, costituiscono una delle
novità politiche più importanti di questi anni ed occorre, perciò, recuperare il vuoto ed i ritardi
che abbiamo alle spalle.
E’ urgente aprire un dibattito che impegni i decisori politici nazionali e locali non in una
perenne contrapposizione tra loro, ma nella presa in carico della consapevolezza dell'
importanza della partita che si gioca in questi anni per il futuro della scuola. Il dialogo tra le
parti e l’attività di comunicazione garantiscono due elementi fondamentali del processo:
l’apertura e la trasparenza. Queste ultime contribuiscono all’efficienza, all’efficacia ed alla
credibilità del ruolo dei decisori politici, contribuendo così alla responsabilizzazione dello Stato
e delle Regioni per il proprio operato.
C’è bisogno di un dibattito aperto a tutte le forze sociali e a tutte quelle istituzioni e persone
che, a vario titolo e per le diverse problematiche, sono coinvolte nella scuola e per la scuola.
Solo così è possibile contenere un clima sociale dominato dall’incertezza dalle paure e dalle
preoccupazioni, che anche per questo aspetto investono il personale della scuola, e favorire la
crescita del livello di condivisione.
Il nuovo quadro di allocazione di competenze tra Stato, Regioni e autonomie territoriali e
funzionali, definito dal vigente articolo 117 della Costituzione, presenta rischi ma anche grandi
opportunità. Sta ai decisori politici, sociali, alle componenti scolastiche far sì che si riducano i
rischi e crescano le opportunità.
La questione che dobbiamo porci è come ciascuno dei soggetti istituzionali e sociali si inserisce
nel processo di costruzione del federalismo scolastico.
Un rapporto dinamico tra certezze, flessibilità e trasparenza
In questa prospettiva, ed in presenza di dinamiche nuove che stanno trasformando il governo
del territorio, diventa, allora, prioritario mettere i soggetti coinvolti in condizione di svolgere il
proprio ruolo e di esercitare le proprie responsabilità in un quadro normativo capace di dare
certezze, flessibilità, semplificazione.
L’attuazione del nuovo quadro di competenze istituzionali contribuisce ad accrescere il livello di
trasparenza nel rapporto tra cittadino e pubblica amministrazione in quanto consente di
avvicinare i cittadini, che finanziano l’istruzione attraverso il sistema tributario, ai soggetti
istituzionali che “forniscono” il servizio. I cittadini sono considerati non più soltanto come
possibili
strumenti dell’azione della pubblica amministrazione
attraverso alcuni istituti
normativi (appalto, concessione, esercizio privato di una pubblica funzione, etc.), ma come
alleati, consapevoli e responsabili, nel perseguimento di una condizione di benessere per
ciascuna persona.
Al governo verticale del sistema amministrativo deve subentrare il modello del coordinamento
orizzontale, che parte dalla premessa che i centri di decisione, identificati nei singoli enti, in
conseguenza dei principi di sussidiarietà e di autonomia, operano d’intesa e in concorso tra loro
per il raggiungimento di obiettivi comuni.
Questa prospettiva può avere ricadute positive in termini di più elevati livelli di efficienza grazie
ad un continuo monitoraggio della spesa, al miglioramento del sistema dei controlli e alla
possibilità di creare delle “alleanze” in vista di un interesse comune ad entrambi: l’interesse
generale al miglioramento della qualità dei servizi.
La mancanza di chiarezza su chi deve occuparsi di che cosa, e con quali risorse, crea, inoltre,
non poche difficoltà alla normale attività legislativa di entrambe le istituzioni - Stato e Regioni come documentato dal copioso contenzioso intervenuto.
Bisogna prevenire il pericolo di procedere in maniera incerta e contraddittoria. La costruzione
di una condizione di condivisione dei contenuti non può avvenire senza la puntuale definizione
della complessa e parallela operazione di individuazione delle competenze assegnate dal titolo
V.
A tal fine il processo attuativo, definito nel Master Plan delle azioni per l’attuazione del Titolo V
della Costituzione, dovrebbe articolarsi mediante la previsione di una prima fase di definizione
delle regole di allocazione delle funzioni e di una successiva fase di gestione del processo di
trasferimento delle risorse umane, materiali e finanziarie.
Metodologia di lavoro per l’attuazione del Master Plan.
Tutte le Regioni hanno espresso un orientamento comune nei due documenti approvati dalla
Conferenza delle Regioni, il primo del 12 luglio 2006 volto a “dare attuazione al titolo V, parte
seconda della Costituzione, sugli aspetti riguardanti l’istruzione e la formazione del sistema
educativo” e il secondo (Master Plan) dello scorso 14 dicembre che rappresenta la base del
lavoro di predisposizione delle azioni per l’attuazione operativa del Titolo V. Si è delineata una
prospettiva politico-istituzionale del tutto nuova in quanto, pur in presenza di forme di
collaborazione interistituzionale in varie realtà territoriali, questo modello si avvia ad assumere
un carattere di sistema.
Il vincolo temporale del 1 settembre 2009, quale termine finale entro il quale le Regioni si
sono impegnate a completare la predisposizione delle condizioni per l’esercizio delle funzioni
loro attribuite dal Titolo V della Costituzione e necessarie al trasferimento dei beni e delle
risorse da parte dello Stato, impone di dover realizzare un primo passaggio interno alle
Regioni, finalizzato alla definizione della proposta condivisa tra le Regioni, che dovrebbe
costituire la piattaforma del confronto con il Ministero della Pubblica Istruzione e con i diversi
livelli istituzionali e sociali implicati ( Ministero dell’Economia, degli Affari Regionali, Conferenza
Unificata, Organizzazioni Sindacali).
Il Tavolo tecnico-politico costituito presso il Ministero della Pubblica Istruzione dovrà
procedere, con spirito intelligente, alla identificazione di tutti gli elementi necessari a dare
attuazione al processo di trasferimento, relativamente ad oggetti, tempi, strumenti e modalità
dello stesso.
Come esplicitato nel documento “Master Plan delle azioni”, le modalità del trasferimento
dovranno essere graduali e “raccordate con i tempi, le previsioni normative, le modalità
organizzative e le specificità territoriali e di assetto delle diverse Regioni”.
La complessità della materia impone di attivare un procedimento che, attraverso la
ricognizione dell’esistente, consolidi, in via preliminare, la volontà politica di procedere alla
riorganizzazione del sistema scuola in coerenza con il titolo V, parte seconda della
Costituzione. Tale ricognizione coinvolge in primo luogo il Ministero della Pubblica Istruzione, le
Regioni e successivamente le organizzazioni dei lavoratori della scuola.
A questo proposito si richiamano alcune questioni che potrebbero formare l’asse di un lavoro
comune e costituire delle indicazioni utili per la predisposizione di un accordo da formalizzare
in sede di Conferenza Unificata.
1. la ricognizione delle competenze organizzative a partire da quelle riservate all’autonomia
scolastica fino a quelle attualmente esercitate dallo Stato,
2. l’analisi del bilancio della pubblica istruzione e dell’attuale allocazione delle risorse sul
territorio e per materia,
3. la definizione del processo di trasferimento,
4. la costruzione di un quadro puntuale dalla quale risultino con evidenza le corrispondenze tra
materie, loro livello normativo e risorse assegnate,
5. la ricollocazione delle competenze ai livelli adeguati di legislazione e di gestione
amministrativa, statale e regionale,
6. l’ individuazione degli strumenti normativi per creare le condizioni del trasferimento entro il
1° settembre 2009.
Negoziare e conoscere per partecipare
La posta in gioco è alta. La sfida culturale è evitare che Governo e Regioni assumano una
posizione rigida in nome di una prospettiva di assetto di competenze “non negoziabili”. Tutti
debbono essere consapevoli che la politica è negoziato, è anche equilibrato compromesso tra
diverse visioni di governo del Paese.
L’attuazione del Master Plan non è un oggetto, dunque, di scontro tra Governo e Regioni. E’
una occasione preziosa per riunire i rappresentanti dei soggetti protagonisti dell’autonomia
(amministrazione, regioni, province, comuni, istituzioni scolastiche) e porre sul tappeto, in
tutta la sua complessità la somma delle questione che innesca il federalismo scolastico.
La questione è l’assetto delle amministrazioni centrali non più adeguate a guardare ai
problemi di una società in trasformazione, in cui il “territorio” è radicalmente diverso da quello
di alcune decine di anni fa. Non si tratta perciò di un semplice trasferimento di competenze già
esercitate dalle amministrazioni centrali e periferiche, ma di una nuova logica di governo che,
fino ad oggi, stenta ad acquisire profili e contenuti stabili.
C'è bisogno di un dialogo franco e costruttivo che porti ad incidere su assetti consolidati. C'è la
necessità di rendere operativa la previsione costituzionale che affida alle Regioni la gestione e
l'organizzazione dell'intero sistema educativo di istruzione e formazione. La valorizzazione delle
potenzialità del territorio deve avvenire in un quadro costituzionale operativo, fondato su
regole chiare e condivise che riconduca la frantumazione dei centri decisionali dallo stato di
arcipelago in cui ciascuno vive indipendentemente e indifferentemente dagli altri, ad una rete
che esalti il ruolo di ciascuno in un contesto di cooperazioni.
Ciò è essenziale per ridare slancio alla modernizzazione del Paese e alla sua competitività sulla
scena globale, per ricostruire uno spirito di appartenenza attiva, per incoraggiare le persone, i
soggetti delle realtà locali ad incontrarsi, per creare in ogni regione un patto che faccia della
scuola uno strumento strategico per lo sviluppo culturale, sociale ed economico dei contesti
territoriali.
Il Master Plan concorre a creare il primo “tavolo” di lavoro comune da cui far emergere anche
le linee di comportamento e le convergenze necessarie alla costruzione di questo governo
orizzontale, nel quale possa essere identificata la conquista di un' effettiva autonomia delle
istituzioni scolastiche tanto predicata quanto disattesa nei comportamenti concreti dei decisori
politici ed amministrativi.
Certamente gli argomenti trattati sono impegnativi, ma è importante che il mondo della scuola
pur nell’impegno e nella fatica che essi richiedono, possa disporre di elementi di conoscenza e
di giudizio per superare per partecipare al cambiamento.
MAGGIO 2007
Migliorare il governo della scuola. Idee e iniziative dei livelli istituzionali del Paese.
di Alfonso Rubinacci
La instabilità è il punto dolente del sistema politico nazionale. La definizione dei contenuti di
una riforma costituzionale che assicura la governabilità e che, contemporaneamente, incontri il
consenso di tutte le forze politiche sembra quasi un’impresa titanica.
Anni di discussioni con risultati modesti, se si esclude la riforma del Titolo V, parte seconda
della Costituzione, che avrebbe dovuto incidere profondamente sulla rideterminazione dei ruoli
istituzionali dei diversi livelli di governo.
Nella passata legislatura, l’aspettativa di una piena operatività delle novità introdotte dalla
riforma costituzionale del 2001 si è andata logorando, con il ritorno ad un forte centralismo.
La bocciatura della “riforma della riforma” con il referendum confermativo, resosi necessario
perché approvata da una maggioranza inferiore ai due terzi dei componenti di ciascuna delle
due Camere, dovrebbe rilanciare il processo attuativo di adeguamento delle missioni dei livelli
di governo nazionale, regionale, locale.
Le missioni dei livelli e i servizi ai cittadini
L’attuale Governo e la maggioranza politica che lo esprime, in più sedi ed occasioni - cicli di
audizioni dinanzi alle commissioni Affari Costituzionali della Camera e del Senato, documenti
dei Presidenti delle Regioni e delle Province autonome - hanno sottolineato l’urgenza di
superare lo stallo e di mettersi in cammino verso un federalismo solidale e cooperativo. Lo
scopo dovrebbe essere quello di realizzare politiche di sostegno al cambiamento e
all’innovazione per creare le condizioni di un miglioramento qualitativo dei servizi ai cittadini.
Anche il Presidente della Repubblica in più occasioni, e per ultimo lo scorso 27 marzo durante
la visita svolta a Venezia, ha sottolineato l’esigenza di promuovere un clima riformatore che
nella passata legislatura si è affievolito, certamente a causa dell’azione del governo nazionale,
ma anche favorita dai limiti dell’azione delle Regioni, nonché dalla bocciatura della Costituzione
europea.
Il Ministro Lanzillotta, prendendo spunto dalle "sollecitazioni del Presidente Napolitano ad
accelerare il varo del disegno di legge (delega sul federalismo)" ha sottolineato lo sforzo che il
Governo sta producendo per costruire un assetto pluralista dello Stato che “sia equilibrato,
efficiente, e sostenibile”. Il Ministro ha aggiunto che "l'obbiettivo della legge di attuazione del
titolo V è il perseguimento della massima coesione dl Paese" (Il Sole-ore4 del 31 marzo
2007).
In questo quadro è significativo dare corso ad esperienze concrete come quella attivata dalla
Conferenza delle Regioni e delle Province Autonome che il 12 luglio 2006 ha approvato un
importante documento, volto, come si legge nel testo, “ a dare attuazione al Titolo V, parte
seconda, della Costituzione, sugli aspetti riguardanti l’istruzione e la formazione del sistema
educativo che hanno rilevanza tra l’altro sul pieno sviluppo dell’autonomia scolastica, sul
riassetto delle articolazioni organizzative centrali e periferiche del Ministero della Pubblica
Istruzione".
Con questa prospettiva istituzionale, la Conferenza delle Regioni e delle Province Autonome,
nello scorso 14 dicembre, ha condiviso ed approvato all’unanimità il Master Plan delle azioni da
porre in essere per l’attuazione del Titolo V della Costituzione nel settore istruzione.
Il documento, che rappresenta la base di lavoro di predisposizione delle azioni di attuazione
operativa, delinea una prospettiva politico-istituzionale del tutto nuova ed un modello che,
anche in presenza di forme di collaborazione interistituzionale in varie realtà territoriali, si
avvia ad assumere carattere di sistema.
Pluralità di attori e disorientamento
Intanto si registra la recente iniziativa legislativa del 21 marzo 2007 della Regione Lombardia,
con l’approvazione in Giunta della proposta di progetto di legge “Norme sul sistema educativo
di istruzione e formazione”. Tale progetto, con il quale si intende, tra l’altro, esercitare la
potestà legislativa concorrente in materia di istruzione nel rispetto delle norme generali, dei
principi fondamentali, nonché dei livelli essenziali delle prestazioni, non sembra tenere nel
giusto conto il fatto che la legislazione regionale di merito richiederebbe un diverso approccio
operativo.
In primo luogo l'esercizio della potestà legislativa concorrente delle Regioni richiede di
assicurare alcuni presupposti di fondo in concorso con il legislatore nazionale per determinare
l’esatta distribuzione di competenze tra lo Stato, le Regioni e Autonomie locali e funzionali, in
particolare delle istituzioni scolastiche e formative, per definire un puntuale quadro
istituzionale e giuridico idoneo a prevenire conflitti e controversie tra soggetti istituzionali.
Anche l’art. 13, recante disposizioni urgenti in materia di istruzione tecnico professionale e di
valorizzazione dell’autonomia scolastica, del decreto legge 31 gennaio 2007, n. 7, convertito in
legge con modificazioni, conferma il ragionamento precedentemente svolto. Non solo devono,
infatti, essere affrontate le singole questioni, ma deve essere costruito, contestualmente, un
quadro di sistema degli assetti di competenze per il settore istruzione e formazione
professionale.
E’ proprio questa la prospettiva assunta dalle Regioni nella formulazione del Master Plan delle
azioni di attuazione del titolo V per il settore scuola.
Ma va sottolineato che, forse, questa strategia istituzionale non è stata pienamente colta
perché l’azione delle Regioni è stata, probabilmente, percepita più come una rivendicazione di
poteri piuttosto che l’attuazione dei principi di sussidiarietà e adeguatezza che caratterizzano la
riforma costituzionale del 2001.
La definizione dell'Accordo Stato-Regioni, prospettato nel Master Plan dello scorso 14
dicembre, è un’esigenza non più differibile per una molteplicità di indizi che afferiscono ad
aspetti della sfera politica e tecnica.
Al di là della condivisione o meno delle scelte di merito e di metodo operate a suo tempo dal
legislatore costituzionale, è evidente che la decisione legislativa ha determinato un
cambiamento non solo nella suddivisione della legislazione tra Stato e Regioni, ma anche nella
distribuzione delle funzioni amministrative in forza del principio di sussidiarietà.
L’interconnessione delle competenze che deriva dal nuovo Titolo V e la pluralità degli attori
coinvolti, richiede una forte concertazione sostenuta dal principio di leale collaborazione tra
Stato, Regioni ed altri enti territoriali, anche perché le nuove norme costituzionali non essendo
immediatamente applicative hanno bisogno di specifici interventi statali e regionali per essere
poste a regime (Corte Costituzionale – sentenza n. 13/2004).
La mancanza di un indirizzo politico del Governo nella trascorsa legislatura ha provocato una
condizione di disorientamento delle istituzioni scolastiche ed anche delle Regioni.
Questa situazione (ed il suo protrarsi) produce effetti non positivi sulla erogazione del servizio
di istruzione, con ricadute negative sugli studenti e sulle famiglie.
L’impegno assunto dal Ministro, anche per effetto della spinta del Capo dello Stato,
nell’incontro del 28 marzo 2007 con gli Assessori Regionali per l’istruzione di attivazione
formale dei lavori in sede di Conferenza Unificata sottolinea la volontà politica di procedere alla
riorganizzazione del sistema scuola in coerenza con il Titolo V, parte seconda della
Costituzione.
In sede di Conferenza Unificata si dovrà procedere alla identificazione di tutti gli elementi
necessari a dare attuazione al processo di trasferimento relativamente ad oggetti, tempi,
strumenti e modalità.
Metodo di lavoro e visione politica
Come indicato nella nota metodologica di lavoro del 28 marzo 2007, inviata a tutti gli Assessori
il successivo 30 marzo dall'Assessore Silvia Costa, Coordinatrice della Commissione Istruzione,
lavoro, Innovazione e Ricerca della Conferenza delle Regioni, si dovrà procedere, in particolare,
a:
1. la ricognizione ed allocazione delle competenze costituzionali riservate allo Stato, alle
Regioni, alle istituzioni scolastiche;
2. l’analisi del bilancio della Pubblica Istruzione e dell’attuale allocazione delle risorse sul
territorio e per materia;
3. l’analisi dell’ordinamento vigente per chiarire la natura delle disposizioni vigenti, ovvero
quali possano dirsi norme generali, quali principi fondamentali, quali livelli essenziali
delle prestazioni;
4. l’individuazione degli strumenti normativi per creare le condizioni del trasferimento
entro il 1 settembre 2009;
5. l’individuazione di un organismo permanente fra Stato e Regioni che vigili
sull’attuazione dell’accordo, sui tempi del trasferimento, sui livelli di spesa.
E' un buon segnale anche se è presto per fare delle previsioni. Affrontare le questioni legate
all'attuazione del Titolo V significa contenere la sensazione diffusa che nel settore scuola
dal punto di vista istituzionale si navighi a vista, offrendo il fianco alle "fughe in avanti, oggi
della Lombardia e domani di più Regioni.
In questo quadro di complessità occorre avere l’accortezza di mettere in campo una
metodologia di lavoro capace di distinguere e connettere le diverse fasi che le relazioni
istituzionali impongono, sapendo cogliere gli aspetti positivi e gli aspetti di criticità al fine di
proporre soluzioni che siano espressione di una visione politica “dinamica” e “progressista” e di
una precisa idea di rapporti fra i livelli di governo del Paese.
OTTOBRE 2007
ATTUAZIONE DEL TITOLO V DELLA PARTE SECONDA DELLA COSTITUZIONE PER
QUANTO ATTIENE ALLA MATERIA DELLA ISTRUZIONE
Documento elaborato dal Gruppo degli Esperti Titolo V
PARTE PRIMA - IL DISEGNO DELLE COMPETENZE ISTITUZIONALI LEGISLATIVE E DELLA
RIPARTIZIONE DELLE FUNZIONI AMMINISTRATIVE NEL TITOLO V: RIFLESSI SULLE
COMPETENZE DI TUTTI I SOGGETTI ISTITUZIONALI.
1. NORME GENERALI, PRINCIPI FONDAMENTALI E LIVELLI ESSENZIALI DELLE PRESTAZIONI
Alla luce del nuovo Titolo V° Cost., tutti i soggetti che compongono la Repubblica vedono
ridefiniti gli ambiti delle loro competenze: tendenzialmente allo Stato le competenze legislative
e programmatorie fondamentali e le competenze di valutazione del sistema di istruzione; alle
Regioni le competenze legislative e programmatorie regionali e le competenze di valutazione
regionale; agli enti locali le funzioni amministrative che per la loro ampiezza non possono
essere utilmente esercitate dalle scuole; alle istituzioni scolastiche tutte le competenze
didattiche, organizzative e amministrative previste dalle disposizioni sull’autonomia.
Questa linea tendenziale può avere alcune correzioni, collegate ad ambiti particolari che
richiedano dimensioni di gestione più allargate (vedi ad esempio il sistema informativo: se si
deve mantenere una mobilità nazionale, occorre che le relative funzioni siano gestite a livello
nazionale).
È evidente che mentre per le competenze legislative si può procedere alla loro individuazione
dall’ambito più generale a quello particolare, per le funzioni amministrative si deve fare il
percorso inverso in quanto esse debbono essere attribuite a partire dalle istituzioni scolastiche
fino al livello nazionale, che è, in base all’articolo 118 Cost., il livello assolutamente residuale.
a) rapporti tra potestà legislativa statale e regionale ed autonomia scolastica
Nel contesto costituzionale precedente alla riforma del 2001 sussisteva una potestà legislativa
“esclusiva” statale in materia di istruzione ed una potestà ripartita in materia di “istruzione
artigiana e professionale ed assistenza scolastica” (per cui in quest’ultimo contesto incombeva
allo Stato fissare i principi fondamentali ed alle regioni determinare la disciplina legislativa di
dettaglio).
La riforma costituzionale del 2001 – come ormai noto – ha introdotto una sorta di
“ribaltamento” del criterio di attribuzione delle competenze legislative allo Stato ed alle Regioni
(ordinarie). Nel precedente sistema, infatti, la Costituzione indicava gli ambiti materiali di
potestà legislativa (ripartita-concorrente) regionale, e lasciava allo Stato – ente a competenza
generale - la potestà legislativa esclusiva per tutte le materie non espressamente enumerate,
salva la delega dell’esercizio della potestà legislativa attuativo-integrativa alle regioni.
Nell’attuale nuovo assetto costituzionale allo Stato spetta una potestà legislativa esclusiva nelle
materie enumerate dall’art. 117 2° comma, alle Regioni spetta una potestà concorrente nelle
materie di cui all’art. 117 3° comma (secondo il noto schema: principi fondamentali stabiliti da
leggi-quadro statali/ legislazione regionale nell’ambito dei principi). Tutti gli ambiti di disciplina
non rientranti fra le materie enumerate, appartengono alla competenza legislativa “residuale”
delle Regioni: tale competenza è tendenzialmente esclusiva (nel senso che non subisce limiti
diretti nella legislazione statale), ma deve rapportasi alle modalità con le quali lo Stato esercita
talune sue competenze ritenute “trasversali”, che quindi non possono non avere riflessi anche
sulla legislazione regionale residuale.
In questo quadro, in materia di istruzione il nuovo articolo 117 Cost. 2° comma, riserva alla
potestà legislativa esclusiva statale la determinazione “dei livelli essenziali delle prestazioni
concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale”
(lettera m) e delle "norme generali sull'istruzione" (lettera n); il 3° comma riconduce
l'istruzione (senza ulteriori attributi) fra le materia in cui permane una competenza ripartita tra
Stato e Regioni "salva l'autonomia delle istituzioni scolastiche".
Nel nuovo quadro costituzionale di grande rilievo è il recepimento della salvaguardia
dell’autonomia scolastica. Il terzo comma dell’articolo 117 attribuisce infatti alla legislazione
concorrente la materia dell’istruzione “salva l’autonomia delle istituzioni scolastiche”. Ne
consegue che sono sottratte alla competenza dei soggetti istituzionali della Repubblica tutte le
competenze che le disposizioni in materia di autonomia riservano alla competenza funzionale
delle istituzioni scolastiche e che, in base ai criteri della sussidiarietà, adeguatezza e
differenziazione non possono essere loro sottratte se non nel caso che l’evoluzione della
materia dimostri l’erroneità del livello di attribuzione.
In proposito si deve ritenere che ciò abbia il senso di porre le disposizioni relative all’autonomia
tra le “norme generali” di cui al comma 2 dello stesso articolo 117. Non si può infatti ritenere
che l’autonomia sia definibile come principio fondamentale, in quanto è espressamente
sottratta dalla legislazione concorrente, che è l’unico ambito all’interno del quale i principi
fondamentali possono operare.
b) fonti di produzione delle norme generali e potestà regolamentare
Il 6° comma dell’articolo 117 Cost. prevede che la potestà regolamentare spetta allo Stato
negli ambiti di legislazione esclusiva, salva delega alle Regioni.
Ne consegue che le norme generali in materia di istruzione potranno essere dettate con legge,
ma anche con regolamento statale, secondo le regole generali che presiedono alla produzione
normativa secondaria. Ciò non vuol dire che il regolamento statale prevale sulla legge
regionale, ma soltanto che laddove non c’è competenza regionale, la competenza statale può
essere espressa anche a mezzo di fonti secondarie. In altri termini è lo Stato, nella sua
autonomia, che decide qual è il mezzo di produzione normativa di volta in volta più
appropriato; esattamente come possono fare le Regioni nelle materie di loro competenza
esclusiva, a condizione che lo Statuto regionale detti le norme sulla produzione normativa
secondaria, così come la legge 400/88 disciplina la produzione regolamentare statale.
Seguendo tale indirizzo sarà ad esempio perfettamente lecito disciplinare i programmi
scolastici in via regolamentare – come peraltro fino ad oggi – senza dover ricorrere allo
strumento rigido della legge.
Per altro verso, se ben si riflette, le competenze regolamentari si pongono rispetto alle norme
generali, come competenze amministrative che, per le loro dimensioni e per il loro peso,
possono essere esercitate solo a livello centrale.
c) decentramento amministrativo e definizione del quadro delle competenze
Il nuovo titolo V non si è limitato a ribaltare la logica dell’attribuzione delle competenze
legislative, ma ha anche inciso profondamente sulla logica dell’attribuzione delle competenze
amministrative. Vale la pena in tal senso riportare il primo comma dell’articolo 118 Cost: Le
funzioni amministrative sono attribuite ai comuni salvo che, per assicurarne l’esercizio unitario,
siano conferite a Province, Città metropolitane, Regioni e Stato, sulla base dei principi di
sussidiarietà, differenziazione e adeguatezza.
D’altra parte il tradizionale “centralismo” delle politiche legislative in materia di istruzione è già
stato attenuato a partire dalla riforma “Bassanini” (legge n. 57 del 1997 e D.Lgs attuativo n.
112 del 1998), con la quale sono state individuate le funzioni amministrative di competenza
statale e sono stati delegati alla potestà legislativa delle Regioni – sulla base dell’allora vigente
ultimo comma dell’art. 117 Cost. – alcuni aspetti della disciplina scolastica e dell’istruzione.
Nel contempo il legislatore ha attuato un ampio piano di decentramento delle funzioni
amministrative in materia di “programmazione e gestione amministrativa del servizio
scolastico” agli enti locali territoriali ed alle istituzioni scolastiche, in attuazione del principio di
autonomia di queste ultime, codificato dall’art. 21 della legge 59/1997.
Per quanto concerne l’istruzione artigiana e professionale (identificata dall’art. 141 comma 3
del D.Lgs. 112/1998 con la “formazione professionale”), la potestà legislativa – ancorché
ripartita, e da esercitarsi nell’ambito dei principi fondamentali stabiliti da legge statali –
spettava già alle Regioni, per cui la riforma Bassanini si è limitata ad individuare le funzioni ed
i compiti amministrativi statali, e ad operare taluni conferimenti e trasferimenti di funzioni,
beni, risorse e personale alle Regioni.
Il nuovo testo costituzionale per un verso conferma la competenza legislativa regionale nelle
materie già individuate dal D.Lgs. 112/1998; per altro verso impone una riflessione sulla
allocazione delle funzioni amministrative, il cui esercizio non spetta necessariamente solo alle
Regioni.
Come sottolineato dalla Sentenza 13/04, va comunque escluso che la “nuova” competenza
regionale concorrente possa essere interpretata come riduttiva rispetto a ciò che la Regione
era già chiamata a fare in forza del D.Lgs. 112/1998.
2. LE COMPETENZE LEGISLATIVE STATALI
a) Le norme generali sull’istruzione
Il primo e più delicato problema del nuovo assetto costituzionale è quello di individuare cosa
sia “norma generale” sull’istruzione, ossia quella parte di disciplina riservata alla
competenza esclusiva dello Stato e quale sia l’oggetto della competenza concorrente
regionale, per la quale sussiste per lo Stato solo la possibilità di porre in essere i principi
fondamentali e non la normativa di dettaglio. Come è evidente, la distinzione tra tali ambiti è
assolutamente fondamentale per definire i rispettivi compiti di Stato e Regioni, ed anche per
impedire che una interpretazione troppo ampia delle “norme generali” implichi un intervento
pervasivo della regolamentazione statale, tale da comprimere sensibilmente la nuova
competenza
legislativa
regionale
ovvero
un’interpretazione
troppo
ristretta
comprometta l’unitarietà del sistema.
Tale distinzione si è palesata subito come assai complessa sul piano concettuale e giuridico.
L’espressione “norme generali sull’istruzione”, infatti, era già prevista dall’art. 33 Cost., ma in
un contesto in cui la competenza statale esclusiva in materia non era in discussione, ed in cui
quindi non serviva quale criterio di distinzione tra competenze legislative dei diversi livelli di
governo. Nella riflessione successiva all’entrata in vigore della riforma costituzionale, il
riferimento alle norme generali sull’istruzione è stato frequentemente connesso alla necessità
di assicurare un contesto unitario a livello nazionale nel settore dell’istruzione, non solo per
quanto riguarda la prestazione in sé e per sé (per tale aspetto esiste la competenza in materia
di livelli essenziali) ma anche per quanto concerne la fisionomia complessiva del sistema, sia
nei suoi aspetti contenutistici sia per quanto concerne i lineamenti generali di organizzazione.
Tali norme generali, dunque, dovrebbero concernere gli aspetti ordinamentali del sistema
dell’istruzione, e cioè:
-
gli ordinamenti scolastici (ordinamenti essenziali degli studi)
la carriera degli alunni
i contenuti essenziali dei programmi necessari per il conseguimento di titoli spendibili
i criteri per l’organizzazione generale dell’istruzione scolastica
i criteri e meccanismi di selezione e di reclutamento del personale dirigente, docente e non
docente
la regolamentazione della funzione docente e della dirigenza scolastica con
esclusione della parte contrattualizzata
il sistema di valutazione nazionale
le garanzie a tutela della libertà di insegnamento
la disciplina concernente le scuole paritarie
Di fatto, il contenuto delle norme generali sull’istruzione e la loro delimitazione rispetto alle
“altre norme” in materia è completamente rimesso al legislatore statale e, in seconda battuta,
alla Corte costituzionale, se sarà chiamata a dirimere questioni di “delimitazioni di confini” tra
competenze diverse.
b) Cosa ha detto la giurisprudenza costituzionale in materia di “norme generali sull’istruzione”
La Corte costituzionale è intervenuta in diverse occasioni con riferimento ad impugnazioni di
leggi – statali e regionali – aventi ad oggetto il settore dell’istruzione.
Con la sentenza 13/2004, la Corte non ha proceduto ad una precisa definizione delle rispettive
competenze fra Stato e Regioni, ma ha comunque escluso che la “nuova” competenza
regionale concorrente possa essere interpretata come riduttiva rispetto a ciò che la regione era
già chiamata a fare in forza del D.Lgs. 112/1998. In quest’ottica, la Corte conferma la
competenza regionale in materia di “programmazione della rete scolastica”, estesa a tutti
quegli ambiti di disciplina che possano considerarsi “strettamente connessi” con tale
competenza. Sotto il profilo delle “norme generali”, la Corte esclude che attraverso il
riferimento alle “norme generali” possa essere riattratta allo Stato una competenza che già nel
contesto precedente alla riforma costituzionale non esercitava più.
Anche la sentenza n. 34/2005 conferma come la riforma costituzionale non possa aver privato
le regioni delle competenze loro attribuite dal D.lgs. 112/1998: in questo caso il principio è
affermato con riferimento alla funzione di “dimensionamento delle istituzioni scolastiche” di cui
all’art. 138 di detto decreto. La sentenza, inoltre, afferma che vi è una competenza statale
(sub specie di “norme generali”) per ciò che concerne “la definizione degli istituti generali e
fondamentali dell’istruzione”, ma sottolinea come ciò non renda illegittime normative regionali
che “si limitino a ripeterne sinteticamente il contenuto definitorio, senza porre principi o regole
ulteriori”.
La sentenza n. 37/2005 stabilisce che legittimamente lo Stato può porre in essere politiche di
restrizione della spesa pubblica anche ricadenti nel settore scolastico (i.e. diminuzione della
consistenza numerica del personale ATA), quando si tratti di intervenire sull’organizzazione del
personale alle sue esclusive dipendenze.
La sentenza n. 279/2005 stabilisce in primo luogo che la competenza regionale in materia di
istruzione non esclude affatto che la legge statale preveda “accordi (con i competenti uffici
delle regioni e degli enti locali) funzionali alla realizzazione di quella continuità educativa con il
complesso dei servizi all’infanzia e con la scuola primaria”, ovvero che preveda “livelli minimi di
monte-ore di insegnamento validi per l’intero territorio nazionale, ferma restando la possibilità
per ciascuna Regione (e per le singole istituzioni scolastiche) di incrementare, senza oneri per
lo Stato, le quote di rispettiva competenza”.
La sentenza stabilisce inoltre che costituiscono “norme generali” e sono quindi di esclusiva
competenza statale:
(i)
“l’indicazione delle finalità di ciascuna scuola”;
(ii)
“la scelta della tipologia contrattuale da utilizzare per gli incarichi di insegnamento
facoltativo da affidare agli esperti e l’individuazione dei titoli richiesti ai medesimi
esperti”;
(iii) “la fissazione del limite di età per l’iscrizione alla scuola dell’infanzia (come a qualsiasi
altra scuola)”.
Per quanto concerne invece gli “incrementi di posti per le attività di tempo pieno e di tempo
prolungato nell’ambito dell’organico del personale docente” la sentenza richiede che
l’intervento statale (regolamentare) abbia luogo dopo l’acquisizione del parere della Conferenza
Stato-Regioni.
Occorre inoltre considerare che per quanto riguarda le “norme generali”, il settore
dell’istruzione è stato il primo fra quelli tradizionalmente statali “transitati” alla competenza
(anche) regionale, ad avere ricevuto una regolamentazione successiva alla riforma
costituzionale del 2001.
La legge 53 del 2003 (c.d. Legge “Moratti”) ha delegato il Governo ad adottare uno o più
decreti legislativi proprio in tema di “norme generali sull’istruzione”; una rapida lettura di tali
disposizioni (si tenga conto che hanno subito alcuni interventi di modifica da parte
dell’art. 13 della Legge n. 40 del 2007) di delega mostra che per “norme generali” il
legislatore del 2003 pare avere inteso:
(i)
la definizione generale e complessiva del “sistema educativo di istruzione e di
formazione”, delle sue articolazioni cicliche e delle sue finalità ultime;
(ii)
la regolamentazione dell’accesso al sistema ed i termini del diritto-dovere alla sua
fruizione;
(iii) la previsione generale del contenuto dei programmi delle varie fasi e dei vari cicli del
sistema e del nucleo essenziale dei piani di studio scolastici per la “quota nazionale”;
(iv) la previsione e regolamentazione delle prove che consentono il passaggio ai diversi cicli;
(v)
la definizione degli standard minimi formativi, richiesti per la spendibilità nazionale dei
titoli professionali conseguiti all’esito dei percorsi formativi, nonché per il passaggio ai
percorsi scolastici;
(vi) la definizione generale dei “percorsi” fra istruzione e formazione che realizzano diversi
profili educativi, culturali e professionali (cui conseguono diversi titoli e qualifiche,
riconoscibili sul piano nazionale) e la possibilità di passare da un percorso all’altro;
(vii) la valutazione periodica degli apprendimenti e del comportamento degli studenti del
sistema educativo di istruzione e formazione, attribuito agli insegnati della stessa
istituzione scolastica;
(viii) i principi della valutazione complessiva del sistema;
(ix) il modello di alternanza scuola-lavoro, al fine di acquisire competenze spendibili anche nel
mercato del lavoro.
(x)
i principi in materia di formazione degli insegnanti.
È opportuno rilevare che, pure con la sua pretesa di ampia riforma, la legge 53/2003 non
sembra certo esaurire le “norme fondamentali” in materia di istruzione. In particolare, non
possono che essere fatte rientrare in tale categoria quelle parti del Testo unico in materia di
istruzione (D.Lgs. 297/94) che non appaiono ad oggi ancora completamente superate: così, ad
esempio, le norme sul reclutamento del personale docente (artt. 398 e ss.). Ma appaiono
esprimere certamente “norme generali” quantomeno lo stesso art. 21 della legge 59/97
(sull’autonomia delle istituzioni scolastiche), la recente riforma degli organi collegiali (D.Lgs.
233 del 1999), la legge 62/2000 sulla parità e scolastica e sul diritto allo studio ed
all’istruzione).
In attuazione delle deleghe contenute nella legge 53/2003 sono stati adottati i seguenti decreti
legislativi:
D.Lgs. 19 febbraio 2004, n. 59 (“Definizione delle norme generali relative alla scuola
dell’infanzia e al primo ciclo dell’istruzione, a norme dell’articolo 1 della legge 28 marzo
2003, n. 53”)
D.Lgs. 19 novembre 2004, n. 286 (“Istituzione del Servizio nazionale di valutazione del
sistema educativo di istruzione e formazione, nonché riordino dell’omonimo istituto, a
norma degli articoli 1 e 3 della legge 28 marzo 2003, n. 53”)
D.Lgs. 15 aprile 2005, n. 76 (“Definizione delle norme generali sul diritto-dovere
all’istruzione e alla formazione, a norma dell’articolo 2 comma 1 lettera c) della legge 28
marzo 2003, n. 53”)
D.Lgs. 15 aprile 2005 n. 77 (“Definizione delle norme generali relative all’alternanza
scuola-lavoro a norma dell’articolo 4 della legge 28 marzo 2003, n. 53”)
D.Lgs. 17 ottobre 2005, n. 226 (“Norme generali e livelli essenziali delle prestazioni relativi
al secondo ciclo del sistema educativo di istruzione e formazione, a norma dell’articolo 2
della legge 28 marzo 2003, n. 53”)
D.Lgs. 17 ottobre 2005, n. 227 (“Definizione delle norme generali in materia di formazione
degli insegnanti ai fini dell’accesso all’insegnamento, a norma dell’art. 5 della legge 28
marzo 2003 n. 53”)
Il decreto sulla scuola dell’infanzia e sul primo ciclo dell’istruzione (passato quasi integralmente
“indenne” dall’impugnazione regionale) qualifica come norme generali quelle relative alla
finalità, all’accesso, alle attività educative e didattiche (con riserva alle istituzioni scolastiche
delle modalità di svolgimento dell’orario), alla articolazione del ciclo in periodi, alle iscrizioni,
alla valutazione.
Il decreto sul secondo ciclo – oltre agli aspetti già individuati per il primo ciclo – definisce
anche le varie tipologie di scuole, disciplina la valutazione, gli scrutini e l’esame di Stato.
Anche i decreti in materia di diritto-dovere all’istruzione e alla formazione, di formazione degli
insegnanti ai fini dell’accesso all’insegnamento e di alternanza scuola lavoro recano una
disciplina sostanzialmente esaustiva, integralmente qualificata in termini di “norme generali”.
Importante sottolineare che il termine per l’esercizio della delega di cui ai D.Lgs. n. 76/2005 e
n. 77/2005, scadrà il 20 maggio 2008 perché ridefinito con la legge 12 luglio 2006, n. 228; il
termine per l’esercizio della delega di cui al D.Lgs. 226/2005, scadrà il 2 novembre 2008,
perché ridefinito con la legge 12 luglio 2006, n. 228.
d) Competenza statale concorrente: i principi fondamentali
In materia di istruzione tout court la Costituzione riconosce allo Stato anche la competenza a
dettare i principi fondamentali della legislazione concorrente. In materia di istruzione e
formazione professionale si afferma, invece, la competenza residuale e quindi esclusiva delle
Regioni.
I principi fondamentali costituiscono limiti alla potestà legislativa concorrente in materia di
norme “non generali” sull’istruzione: in questa materia, dunque, il legislatore statale è ancora
una volta abilitato ad intervenire, ma soltanto per principi, lasciando al legislatore regionale lo
spazio e la possibilità di regolamentare con legge propria gli aspetti di dettaglio.
Trattandosi di materia “nuova” per la competenza concorrente (dato che fino al 2001, come si
è detto, le Regioni non esercitavano alcuna competenza in tale materia), si pone oggi il
problema di determinare quali siano i principi fondamentali che il legislatore regionale deve
rispettare. Tale problema si pone in termini analoghi a quelli con cui più in generale si
manifestò la questione dei principi fondamentali al momento in cui le Regioni iniziarono ad
esercitare la propria potestà legislativa: nel 1970, infatti, le Regioni erano di fronte ad un
panorama legislativo integralmente statale che non teneva in considerazione l’intervento
regionale. Come è noto, l’originaria previsione della legge 62/1953 – che imponeva alle regioni
di “attendere” la formale determinazione dei principi fondamentali prima di potere legiferare –
venne subito superata riconoscendo alle Regioni la possibilità di legiferare desumendo i principi
fondamentali dalla disciplina legislativa vigente, fino al momento in cui lo Stato non si fosse
risolto a determinarli espressamente.
Nel nuovo contesto costituzionale, dapprima la Corte costituzionale ha confermato la possibilità
di desumere i principi dalle leggi vigenti (fra le altre sentenze 282/2002, 94/2003), e
successivamente questa possibilità è stata confermata dalla legge 131 del 2003 (c.d. legge “La
Loggia”), all’art. 1 comma 3. Appare quindi già pienamente possibile per le regioni legiferare
nella materia, ed il processo di individuazione dei relativi principi fondamentali passa
attualmente attraverso l’interpretazione del legislatore regionale.
La legge La Loggia introduceva anche un nuovo strumento di determinazione dei principi
fondamentali. Al comma 4° dell’art. 1, infatti, la legge 131 delegava il Governo – all’esito di un
complesso procedimento che coinvolge la Conferenza Stato regioni – ad adottare uno o più
decreti legislativi che effettuassero una “mera ricognizione” dei principi fondamentali presenti
nelle leggi vigenti nelle varie materie di competenza ripartita e concorrente, e ciò al fine di
“orientare l’iniziativa legislativa dello Stato e delle regioni fino all’entrata in vigore delle leggi
con le quali il Parlamento definirà i nuovi principi fondamentali”. Le deleghe della legge 131
sono però scadute senza aver avuto attuazione.
La ricerca dei principi fondamentali della materia “istruzione”, dunque, non può che essere
operata partendo dai più indicativi dati normativi già esistenti, cercando di individuare quali tra
di essi assurgano al ruolo di principi fondamentali; ciò – in mancanza di autoqualificazione,
trattandosi di materia precedentemente statale – seguendo un criterio di tipo sostanzialistico,
come sembra peraltro fare anche la Corte costituzionale nella sua più recente giurisprudenza .
Il punto di partenza può utilmente essere quel D.Lgs. 112/98, con il quale vennero trasferite
alle regioni funzioni e competenze anche in materia scolastica: come si è anticipato, in
quell’occasione le Regioni si videro infatti per la prima volta conferita una potestà legislativa
nella materia, ed il noto meccanismo che anima il D.Lgs. 112/98 - cioè l’individuazione delle
competenze amministrative enumerate che permangono in capo allo Stato - consente di
individuare quelle esigenze di carattere unitario che potrebbero essere considerate alla base
del riconoscimento di principi fondamentali della materia, anche sulla scorta di una costante
giurisprudenza costituzionale. Come anticipato, la stessa giurisprudenza costituzionale
conferma la valenza delle funzioni attribuite con il D.Lgs. 112/98 come parametro di
valutazione del nuovo riparto di competenze fra Stato e regioni nella materia dell’istruzione.
Il D.Lgs. 112/1988 ha però ad oggetto esclusivamente “la programmazione e la gestione della
rete amministrativa del servizio scolastico”, cioè l’ “insieme delle funzioni e dei compiti volti a
consentire la concreta e continua erogazione del servizio di istruzione”; ne consegue che, per
quanto attiene ai diritti individuali ed ai principi che li sorreggono bisognerà fare riferimento al
D.Lgs. 297/1994 (T.U. sull’istruzione), che dovrebbe essere rivisto e aggiornato, ovvero alle
singole leggi di settore.
e) competenza statale trasversale di garanzia: i livelli essenziali delle prestazioni
L’articolo 117, comma 2, lettera m) della costituzione attribuisce alla competenza statale
esclusiva la “determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e
sociali che debbono essere garantiti su tutto il territorio nazionale”.
Poiché i livelli essenziali limitano anche la competenza esclusiva delle Regioni essi debbono
essere correttamente individuati ad evitare indebite limitazioni della competenza legislativa
regionale e dell’autonomia scolastica.
Analogamente a quanto potrebbe accadere per le “norme generali”, se, infatti, prevalessero
interpretazioni eccessivamente estensive del contenuto dei livelli essenziali si rischierebbe
seriamente di tornare indietro rispetto alle riforme avviate a partire dal 1997 e di azzerare le
potenzialità dell’autonomia. Se ad esempio prevalesse l’interpretazione secondo cui i livelli
essenziali delle prestazioni si identificano con gli standards formativi minimi si rischierebbe di
azzerare il potenziale di virtuosismi connesso alla “madre” delle riforme del sistema scolastico:
l’autonomia; se prevalesse l’interpretazione che i livelli essenziali si identificano con gli
standards organizzativi si limiterebbe di molto la competenza legislativa regionale.
La competenza esclusiva statale di cui alla lett. m) va rapportata a livelli essenziali che
corrispondano a diritti che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale e che,
dunque, rispondono al principio di eguaglianza sostanziale (“livelli essenziali delle prestazioni in
materia di diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio”).
Per rispondere ad altre esigenze di sistema, che non si rapportano direttamente alla garanzia
di diritti individuali, (quali la coerenza unitaria del sistema, il valore legale del titolo di studio,
la definizione di principi fondamentali, …), si devono utilizzare strumenti differenti quali le
norme generali e i principi fondamentali, pena l’eccessiva estensione delle competenze statali e
lo svuotamento delle riforme autonomistiche.
Il punto di partenza per l’individuazione dei LEP è costituito dalla normativa costituzionale in
materia poiché è innanzitutto dal testo costituzionale che scaturiscono di diritti di cittadinanza
sociale.
È utile precisare che i LEP non costituiscono solo un limite alla competenza regionale, ma
anche precisi confini per l’amministrazione statale.
In particolare da tale normativa è possibile trarre le seguenti indicazioni:
Art. 33
-
“L’arte e la scienza sono libere e libero ne è l’insegnamento”;
“La Repubblica … istituisce scuole statali per tutti gli ordini e gradi”
Art. 34
-
“La scuola è aperta a tutti”;
L’istruzione inferiore deve essere impartita per almeno otto anni;
L’istruzione inferiore è gratuita;
“I capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più alti
degli studi”;
Sulla base di questa ricognizione potremmo allora in primo luogo ritenere che dalla
Costituzione si desumono le “aree” di prestazioni obbligatorie e cioè di diritto:
1. di accesso al sistema (in questa area vanno collocati i livelli essenziali di prestazione che
consentano l’entrata nel sistema e dunque sostegno economico o di altro genere);
2. all’erogazione del servizio su tutto il territorio nazionale (in questa area vanno collocati i
livelli essenziali di prestazione che garantiscano che tutto il territorio nazionale sia coperto
dall’erogazione del servizio “statale”);
3. all’apprendimento e qualità dell’insegnamento (in questa area vanno collocati i livelli
essenziali dell’orario minimo annuale; i livelli essenziali dei percorsi formativi);
4. alla qualità del personale (in questa area vanno collocati i livelli essenziali per la formazione
del personale docente).
La determinazione dei LEP contiene almeno tre diverse prospettive di equilibrio:
-
-
-
la prima è quella tra unità e territorialità, omogeneità e condizioni di vita per tutti i soggetti
quale che sia il loro luogo di residenza, con la conseguente necessità di prevedere
interventi perequativi laddove ce ne fosse necessità;
la seconda riguarda la correlazione tra risorse disponibili e livelli essenziali delle prestazioni
e dei diritti, ossia la possibilità, sia per lo Stato che per le Regioni, di coniugare la
realizzazione delle istanze di eguaglianza e solidarietà con il buon andamento finanziario
della Pubblica Amministrazione e con l’utilizzazione dello strumento fiscale;
la terza concerne la gestione-organizzazione dei LEP, il loro raccordo con i doveri e la
moralità individuale, il controllo delle prestazioni e della spesa, la ristrutturazione degli
apparati amministrativi, il rafforzamento dei valori che caratterizzano gli interessi collettivi.
Il percorso di definizione dei LEP non interferisce comunque con il trasferimento di competenze
dallo Stato alle Regioni. Esso può iniziare subito, ovvero in un momento successivo.
Il percorso parte peraltro dal presupposto che siano condivisi alcuni capisaldi, da perseguire
anche come obiettivi:
-
-
-
il rafforzamento della funzione della conoscenza, da implementare attraverso: diritto
all’apprendimento per tutti e per ciascuno, compresi coloro che sceglieranno percorsi
professionalizzanti; valorizzazione dei contenuti dei percorsi formativi; garanzia del biennio
obbligatorio e dell’obbligo formativo; perseguimento del successo scolastico;
l’innalzamento della qualità del sistema educativo, centrato sulla formazione permanente e
degli adulti;
l’adeguamento dei sistemi di istruzione e di istruzione-formazione professionale, secondo le
indicazioni della UE e in relazione alle innovazioni tecnologiche;
l’innovazione delle metodologie didattiche, dei linguaggi, dei sistemi di comunicazione;
la valorizzazione della funzione docente, della formazione iniziale e in servizio, della libertà
di insegnamento e della professionalità, in funzione della qualità dell’insegnamentoapprendimento;
l’implementazione dell’autonomia scolastica, intesa come assunzione di responsabilità;
la valutazione e il controllo della qualità dei servizi erogati ai cittadini da parte delle
istituzioni competenti sul territorio e l’eventuale perequazione.
Analogamente a quanto avvenuto nel campo delle “norme generali”, dove il settore
dell’istruzione è stato oggetto di una regolamentazione successiva alla riforma costituzionale
del 2001, con il D.Lgs. 226/05 lo Stato ha emanato specifiche disposizioni che definiscono la
prima cornice di “livelli essenziali” in materia di istruzione e formazione professionale: si tratta
di disposizioni dirette alle Regioni, che sono chiamate a soddisfare con la propria attività una
serie di parametri definiti. Non si tratta sempre di livelli essenziali di tipo puramente
“prestazionale”, ma spesso di livelli essenziali di tipo differente, idonei a costituire un limite “di
principio” all’attività legislativa ed amministrativa regionale (in particolare quella prevista dal
D.Lgs. 112/1998).
In particolare, tale quadro concerne:
Livelli
Livelli
17);
Livelli
Livelli
Livelli
Livelli
essenziali dell’offerta formativa (art. 16);
essenziali dell'orario minimo annuale e dell'articolazione dei percorsi formativi (art.
essenziali
essenziali
essenziali
essenziali
dei percorsi (art. 18);
dei requisiti dei docenti (art. 19);
della valutazione e certificazione delle competenze (art. 20);
delle strutture e dei relativi servizi (art. 21).
Da ultimo, quanto alla procedura di determinazione dei LEP, si potrebbe ipotizzare il seguente
percorso:
-
individuazione delle posizioni di diritto soggettivo da considerare (le aree di intervento
presenti nelle tabelle) e le correlative prestazioni, indicatori e valori obiettivo;
analisi della domanda di servizi nelle diverse Regioni;
analisi delle condizioni di offerta delle prestazioni nelle diverse Regioni (per l’eventuale
riequilibrio per l’attuazione dei LEP);
analisi dei sistemi informativi;
predisposizione dell’atto governativo di determinazione dei LEP;
consultazioni;
piano dei trasferimenti e degli interventi di sostegno versus Regioni, enti locali e autonomie
scolastiche di volta in volta impegnati nell’attuazione dei LEP;
istituzione di gruppi tecnici governativi-regionali e scolastici per la verifica dell’attuazione.
3. LE COMPETENZE REGIONALI
Fanno sicuramente capo alle Regioni le seguenti competenze legislative già loro attribuite, col
meccanismo di trasferimento delle funzioni, dal D.Lgs. 112/1998, art. 138, in materia di
programmazione e gestione amministrativa del servizio scolastico:
la programmazione dell'offerta formativa integrata tra istruzione e formazione
professionale;
la programmazione, sul piano regionale, nei limiti delle disponibilità di risorse umane e
finanziarie, della rete scolastica, sulla base dei piani provinciali, assicurando il
coordinamento con la programmazione di cui alla lettera a);
la suddivisione, sulla base anche delle proposte degli enti locali interessati, del territorio
regionale in ambiti funzionali al miglioramento dell'offerta formativa;
la determinazione del calendario scolastico;
i contributi alle scuole non statali
le iniziative e le attività di promozione relative all'ambito delle funzioni conferite.
La Corte Costituzionale ha chiarito che la competenza regionale in materia di “programmazione
della rete scolastica si estende a tutti quegli ambiti di disciplina che possano considerarsi
“strettamente connessi” con tale competenza. In particolare la Corte ha affermato che la
distribuzione del personale tra le scuole è materia di competenza regionale, solo
transitoriamente ancora esercitata dalla Stato. La riorganizzazione del territorio in ambiti
funzionali al miglioramento dell’offerta formativa comporta peraltro che anche i contributi di
funzionamento per le scuole passino per la programmazione regionale, sia che si tratti di
contributi ordinari sia che si tratti di contributi perequativi.
Ciò premesso per quanto riguarda le funzioni che la Regione già esercitava dal 1998 su base di
delega in materia di istruzione, occorre chiedersi se esse siano le uniche competenze regionali
in questa materia; cioè se la materia “istruzione” coincida con il concetto di “programmazione
e gestione della rete scolastica”, o se vi possano essere altri ambiti di intervento del legislatore
regionale, e quindi se si possano ravvisare altri principi fondamentali che lo possano limitare.
Questa circostanza dipende largamente da quale concezione di “norme generali” si prende in
considerazione, se troppo estensiva o aperta all’esercizio regionale di funzioni ulteriori rispetto
a quelle di programmazione e di gestione.
Vi sono però alcuni aspetti che possono essere presi in considerazione già da ora, nell’attesa
che il legislatore e la Corte costituzionale inizino a meglio delineare le fattispecie e gli ambiti
competenziali inseriti nel nuovo testo costituzionale:
-
Gestione del personale scolastico: ferma la competenza statale in materia di criteri di
reclutamento e status del personale scolastico – è possibile configurare in prospettiva un
trasferimento del ruolo del personale, anche dirigente e docente, alle Regioni. Secondo
questa concezione non costituirebbe principio fondamentale inderogabile l’incardinamento
del ruolo del personale scolastico nell’ambito dell’organizzazione statale.
-
Partecipazione alla determinazione degli obiettivi formativi del sistema scolastico regionale
e fissazione di obiettivi formativi regionali. Anche in questo caso, resta di competenza
esclusiva statale la fissazione degli obiettivi generali del sistema scolastico, ma la Regione
potrebbe integrare tali obiettivi con obiettivi propri, rispettando le norme generali statali ed
i principi fondamentali desumibili dalle norme vigenti (si vedano, ad esempio, i principi di
delega della Legge Moratti per la determinazione degli obiettivi dell’attività formativa:
apprendimento per tutto l’arco della vita, pari opportunità di raggiungere elevati livelli
culturali, conseguimento di una formazione spirituale e morale, anche ispirata ai principi
della Costituzione, sviluppo della coscienza storica e di appartenenza alla comunità locale,
nazionale ed europea). Una prospettiva sotto questo profilo “integrativo” dei programmi da
parte della regione sembra emergere dalla lettera l) dell’art. 2 della legge 53/2003, laddove
a fianco del nucleo fondamentale statale e nazionale dei piani di studio personalizzati, viene
prevista una “quota” riservata alle Regioni, “relativa agli aspetti di interesse specifico delle
stesse”. Va però detto che la materia appare oggi largamente inclusa fra le “norme
generali” di cui sopra.
-
Istituzione di (altri) organi collegiali. Non può escludersi che le Regioni, per meglio
realizzare i propri obiettivi nella materia di istruzione, decidano di istituire organi collegiali
(facoltà, questa, già prevista dall’art. 6 del D.Lgs. 233/1999). In questo caso, difficilmente
potrebbe prescindersi dai principi fondamentali stabiliti per la riforma degli organi collegiali
dal comma 16 dell’art. 21 della legge 59/1997 (razionalizzazione, eliminazione duplicazioni,
ecc.).
A ciò si aggiungono tutti gli aspetti non definiti nel dettaglio dalle “norme generali”,
concernenti ad esempio:
- l’organizzazione del sistema scolastico;
- le modalità di reclutamento del personale.
PARTE SECONDA - IL PERSONALE SCOLASTICO NEL TRASFERIMENTO DI FUNZIONI DALLO
STATO ALLE REGIONI IN MATERIA DI ISTRUZIONE
1 - Il quadro legale e la contrattazione collettiva
Il rapporto di lavoro del personale scolastico (dirigenti, docenti, ATA) ha natura privatistica e
contrattuale. Rimane infatti assoggettato all’antico regime pubblicistico solamente il personale
di cui all’art. 3 D.Lgs. n. 165/20011.
1
Personale in regime di diritto pubblico: 1. In deroga all'articolo 2, commi 2 e 3, rimangono disciplinati dai rispettivi ordinamenti: i magistrati
ordinari, amministrativi e contabili, gli avvocati e procuratori dello Stato, il personale militare e delle Forze di polizia di Stato, il personale della
carriera diplomatica e della carriera prefettizia nonché i dipendenti degli enti che svolgono la loro attività nelle materie contemplate dall'articolo 1 del
decreto legislativo del Capo provvisorio dello Stato 17 luglio 1947, n. 691, e dalle leggi 4 giugno 1985, n. 281, e successive modificazioni ed
integrazioni, e 10 ottobre 1990, n.287.
Conseguenze:
a) la competenza legislativa in materia di disciplina dei rapporti individuali e collettivi anche
del personale scolastico, così come del personale alle dipendenze della pubblica
amministrazione in genere, è dello Stato in via esclusiva ex lett. l), 1° comma, art. 117
Cost. (ordinamento civile: v. Corte cost. sentenza 13 gennaio 2005 n. 50) e la legge statale
che attualmente regola tali rapporti è il D.Lgs. n. 165/2001;
b) il D.Lgs. n. 165/2001 costituisce la base normativa del trasferimento di competenze
dallo Stato alle Regioni per quanto riguarda il personale e tale base normativa non può
essere modificata se non con legge statale.
Il D.Lgs. 165/2001 dispone che la contrattazione collettiva determini:
il trattamento economico e normativo del personale (art. 2.3; art. 45; art. 51.1): esso non
può essere determinato unilateralmente dal datore di lavoro pubblico, coerentemente con
l’indicazione stessa del documento Master Plan (vedi Documento della Conferenza dei
Presidenti delle Regioni del 21 marzo 2002).
il sistema contrattuale: quanti e quali debbano essere i livelli di contrattazione; quante e
quali siano le materie affidate alla contrattazione integrativa; quale debba essere il
rapporto tra i differenti livelli; quale debba essere la durata del contratto ecc. (art. 40.3).
Ogni eventuale variazione dell’assetto contrattuale, introdotto perché ritenuto, in ipotesi,
più congruo con il nuovo assetto istituzionale, deve essere concordato con le organizzazioni
sindacali in sede di contrattazione collettiva. Anche questo punto è già implicitamente
presente nel Master Plan.
I diritti e le relazioni sindacali
A tale riguardo occorre sottolineare che sul piano delle relazioni contrattuali attualmente il
potere di impartire indirizzi all’ARAN nella sua attività contrattuale nazionale – per il sistema
scolastico – è esercitato dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri tramite il Ministro della
Funzione pubblica, di concerto con il Ministro del Tesoro, del bilancio e della programmazione
economica, nonché di concerto con il Ministro dell’Istruzione (art. 41.2) e agli stessi soggetti
spetta di esprimere parere favorevole sull’ipotesi d’accordo raggiunta dall’ARAN e dai sindacati
ammessi alla trattativa. Oggi, se la soluzione è quella che esamineremo infra della dipendenza
giuridico-economica dallo Stato e funzionale delle Regioni, sembra opportuno perlomeno che il
concerto sia esteso alle Regioni. E ciò deve avvenire attraverso una modifica, per legge statale,
della norma citata.
2 - il “limite” dell’autonomia scolastica
Per chiarire la prospettiva del mantenimento della dipendenza giuridico-economica dallo Stato
da parte del personale scolastico e della sua assunzione di una “dipendenza funzionale” dalle
Regioni, occorre tenere presente il quadro delle competenze costituzionali. L’autonomia
scolastica costituisce, infatti, una sorta di limite esterno alle competenze regionali (art. 117, 3°
comma, Cost., laddove si ricorre all’espressione: “fatta salva l’autonomia…”). Essa del resto –
come già osservato – è definita dalla legge statale nel contesto delle “norme generali”, con
riferimento al suo ambito, ai suoi organi ed alle sue procedure, anche se in modo non
arbitrario, ma rispettoso delle competenze regionali.
Da ciò consegue il principio generale per cui devono rimanere ferme le competenze delle
istituzioni scolastiche nella gestione del proprio personale riconosciute dalla vigente
legislazione statale (salve, naturalmente, le sempre possibili modificazioni che eventualmente
si ritenga opportuno introdurre per adeguarla al nuovo quadro istituzionale). Il che costituisce,
ovviamente, solo il livello minimo, necessario per rispettare l’autonomia delle istituzioni
2. Il rapporto di impiego dei professori e dei, ricercatori universitari resta disciplinato dalle disposizioni rispettivamente vigenti, in attesa della
specifica disciplina che la regoli in modo organico ed in conformità ai principi della autonomia universitaria di cui all'articolo 33 della Costituzione ed
agli articoli 6 e seguenti della legge 9 maggio 1989, n. 168, e successive modificazioni ed integrazioni, tenuto conto dei principi di cui all'articolo 2,
comma 1, della legge 23 ottobre 1992. n. 421.
scolastiche; su tale base ciascuna Regione può decidere di attribuire ulteriori compiti e
funzioni, delegando alle istituzioni aspetti che l’ordinamento costituzionale le attribuisce.
3 - Le dotazioni organiche: reclutamento, mobilità e potere disciplinare
Rimangono comunque da chiarire, sulla base del principio generale sopra indicato, tutti gli
aspetti che riguardano l’incardinamento (a tempo indeterminato o determinato) del personale
nell’istituzione scolastica autonoma, nonché i problemi che interessano la gestione del
personale, come quelli legati in particolare alla mobilità ed al potere disciplinare.
a) determinazione del fabbisogno di personale e della relativa spesa, all’interno della più
generale programmazione dell’offerta formativa.
Si tratta di determinazioni che rivestono carattere generale, ovvero sono propedeutiche
ad atti di gestione del rapporto giuridico con il singolo lavoratore. Su tali aspetti indicazioni
chiare sono fornite dalla Corte costituzionale nella sentenza 13/2004, in riferimento a cui la
scelta del trasferimento alle Regioni della dipendenza funzionale può implicare la seguente
soluzione:
-
-
la determinazione delle dotazioni organiche complessive nazionali è di competenza del
Ministero sulla base di criteri fissati per legge statale; Il Ministero stesso, sulla base di
criteri concordati con le Regioni, provvederà al riparto regionale della dotazione
nazionale;
ciascuna Regione, nel rispetto dei principi e dei livelli essenziali di prestazione fissati
dallo Stato (p.es. rapporto docenti/studenti; affollamento massimo delle classi; misure
di sostegno a studenti svantaggiati), provvede alla ripartizione della dotazione organica
complessiva regionale tra gli istituti scolastici autonomi, secondo criteri da lei stessa
determinati in coerenza con la propria programmazione generale dell’offerta formativa.
b) reclutamento
Si tratta del problema più complesso; la sua soluzione dipende dalla soluzione data a
problemi interpretativi generali e specificamente a quello che concerne la natura
pubblicistica o privatistica delle procedure relative all’assunzione del personale, in rapporto
alla privatizzazione del pubblico impiego ed al quadro delle competenze legislative e
regolamentari sull’apparato amministrativo.
Rispetto a tale nodo, il ragionamento che sembra ermeneuticamente maggiormente
corretto è il seguente: la riforma del 1997-1998 (D.Lgs. n. 396/1997 e D.Lgs. n. 80/1998)
rispetto alla riforma del 1992-1993 ha spostato i confini tra l’area nella quale la pubblica
amministrazione opera con gli strumenti pubblicistici e l’area nella quale opera come
soggetto privato. Nel D.Lgs. n. 29/1993 la seconda era rappresentata dai rapporti di lavoro
mentre gli atti organizzativi erano mantenuti tutti in regime pubblicistico; con la riforma del
1997-1998 la c.d. micro-organizzazione viene invece spostata nell’area privatistica,
permanendo a regime pubblicistico solo l’area della macro-organizzazione (artt. 2, 1°
comma, e 5, 2° comma, D.Lgs. n. 165/2001). Vi è, oggi, dunque, un’area nella quale la
pubblica amministrazione opera come soggetto privato pur non attenendo immediatamente
ai rapporti di lavoro; viceversa l’area in cui la pubblica amministrazione agisce con
supremazia pubblicistica è esattamente determinata dall’art. 2, 1° comma, d. lgs.
165/2001.
Questa norma dispone in tal senso un principio generale rilevante anche ai fini del
trasferimento, consistente nella distinzione tra macro e micro organizzazione, ovvero tra
alta e bassa organizzazione. La distinzione è quella tracciata, appunto, dall’art. 2 e all’art.
5.2. Nel primo ambito, la pubblica amministrazione datrice di lavoro esercita un proprio
potere regolamentare organizzativo, definendo “le linee fondamentali di organizzazione
degli uffici; individuando gli uffici di maggiore rilevanza e i modi di conferimento della
titolarità dei medesimi; determinando le dotazioni organiche complessive …”; nel secondo
no (“le determinazioni per l’organizzazione degli uffici e le misure inerenti la gestione dei
rapporti di lavoro sono assunte dagli organi preposti alla gestione con la capacità e i poteri
del privato datore di lavoro”).
La Corte costituzionale (con la sentenza n. 26/2005; ma vedi anche la sentenza n.
380/2004) ha affermato la natura pubblicistica delle regole e dei provvedimenti
in materia di reclutamento.
Se, dunque, si tiene ferma l’indicazione del Master Plan della dipendenza
giuridico-economica del personale della scuola dallo Stato e della dipendenza
funzionale dalle Regioni, la competenza legislativa rimane allo Stato in forza della
lettera g) dell’art. 117.
c) La mobilità
La mobilità volontaria del personale alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche, così
come la mobilità del personale eccedentario sono regolate dagli artt. 30 e segg. D.Lgs. n.
165/2001. In particolare, l’art. 30 prevede la possibilità che un’amministrazione ricopra un
posto vacante in organico con l’assunzione di un dipendente di altra amministrazione che
abbia fatto domanda e rinvia ai contratti collettivi la disciplina delle procedure e dei criteri
relativi. L’art. 31 disciplina il passaggio dei dipendenti di un’amministrazione quando
l’attività cui erano addetti viene trasferita ad un altro soggetto, pubblico o privato,
richiamando la disciplina del diritto comune del lavoro e, cioè, l’art. 2112 cod. civ. e, per le
procedure sindacali, l’art. 47 legge n. 42/1990. Le eccedenze di personale sono, infine,
regolate dagli artt. 33, 34 e 34bis ponendo una serie di limiti procedurali (ricalcati su quelli
della l. 223/1991 per il lavoro privato) e sostanziali al potere dell’Amministrazione di
procedere alla risoluzione dei rapporti di lavoro.
La competenza dello Stato a dettare simili regole per tutto il personale alle dipendenze
della pubbliche amministrazioni deriva dall’art. 117, comma 2°, lett. l) Cost. Ed infatti, la
disciplina qui in discussione attiene alla gestione dei rapporti contrattuali di lavoro: da un
lato la mobilità volontaria da un’Amministrazione ad un’altra altro non è che l’accettazione,
da parte dell’amministrazione ad quem (che opera “con la capacità e i poteri del privato
datore di lavoro”; art. 5, comma 2°, D.Lgs. n. 165/2001), di una proposta contrattuale di
un soggetto privato a ciò titolato dall’essere attualmente dipendente di altra
amministrazione pubblica; dall’altro, le regole sulla mobilità in uscita del personale
eccedentario altro non sono che la disciplina procedurale e sostanziale del potere
dell’amministrazione datrice di lavoro di risolvere un certo numero di contratti di lavoro.
In ambedue i casi, dunque, sono regole su rapporti giuridici tra soggetti privati o che, ex
lege, operano come tali.
Ma sono anche rapporti tra soggetti privati quelli della mobilità professionale (mutamento
di mansioni e di qualifica) e della mobilità territoriale (modificazione del luogo di
adempimento della prestazione di lavoro); anzi, questi aspetti della mobilità non hanno
autonomia rispetto al rapporto contrattuale di lavoro – che è, come si è detto, di natura
privatistica ex artt. 2, comma 2°, e art. 5, comma 2°, D.Lgs. n. 165/2001 – del quale le
due forme di mobilità considerate sono semplici aspetti dinamici (v. art. 2103 cod. civ.).
La mobilità, dunque, nelle diverse accezioni del termine, attiene sempre alla dinamica del
rapporto contrattuale di lavoro; di conseguenza, è necessariamente oggetto di
contrattazione collettiva (art. 2, comma 3°, D.Lgs. 165/2001).
Per il comparto scuola, l’art. 4 del ccnl attribuisce alla contrattazione integrativa nazionale
le seguenti materie:
- mobilità compartimentale;
- utilizzazione del personale in altre attività di insegnamento;
- utilizzazione del personale soprannumerario e di quello collocato fuori ruolo: procedure
e criteri di utilizzazione del personale (l. n. 268/2002 e l. n. 289/2004);
- mobilità intercompartimentale.
L’art. 10 dello stesso contratto, nel ribadire questa attribuzione di competenza, detta alcuni
criteri. La contrattazione integrativa nazionale sul tema si è svolta ed ha prodotto l’accordo
21 dicembre 2005, confermato con l’accordo 15 dicembre 2006, che contiene una puntuale
disciplina. Un tentativo di modificare per via legislativa una parte – tutto sommato, modesta
– della disciplina contrattuale è stato effettuato con gli artt. 8.3 e 11.7 D.Lgs. n. 59/2004,
ma il tentativo è stato prontamente rintuzzato con l’accordo sindacale del 2 marzo 2007 che
ha disposto la disapplicazione di queste norme di legge in forza dell’ art. 2, co. 2°, D.Lgs. n.
165/2001.
Quanto agli organi che sono chiamati a gestire i processi di mobilità, il contratto nazionale
integrativo indica il dirigente scolastico e “l’ufficio territorialmente competente”; il primo
per quanto riguarda i procedimenti interni all’istituto scolastico autonomo, il secondo per
quelli esterni. Le competenze del dirigente scolastico – anche a prescindere dal fatto che
sono coerenti con l’autonomia scolastica - non sono modificabili se non in via contrattuale,
appunto perché contrattualmente determinate. Per quanto riguarda
“l’ufficio
territorialmente competente”, le norme contrattuali – con questa espressione generica –
rinviano alle determinazioni organizzative dell’Amministrazione, cui spetta individuare quale
sia tale ufficio.
Nel momento in cui si attribuissero alle Regioni competenze in materia di personale
scolastico, sarà opportuno che le stesse siano coinvolte (attraverso una
rappresentanza della Conferenza delle Regioni nel comitato di settore) nella fase
della determinazione, in via contrattuale, delle regole sulla mobilità, specie di
quella interregionale.
d) potere disciplinare sul personale scolastico
In proposito, per il personale docente, l’art. 88 del ccnl del comparto Scuola richiama il
Titolo I, capo IV, parte III (artt. da 492 a 508) del D.Lgs. n. 297/1994 che, quindi, deve
considerarsi in vigore ed applicabile. Tale vigore ed applicabilità è, però, per così dire,
precaria e dipende dalla citata disposizione contrattuale. Invero, l’art. 2.2 del D.Lgs. n.
165/2001 dispone che “eventuali disposizioni di legge … che introducano discipline dei
rapporti di lavoro la cui applicabilità sia limitata ai dipendenti delle amministrazioni
pubbliche, o a categorie di essi, possono essere derogate da successivi contratti o accordi
successivi e, per la parte derogata, non sono ulteriormente applicabili, salvo che la legge
disponga espressamente in senso diverso”.
Di conseguenza, in prospettiva, il legislatore può certo intervenire in materia modificando il
D.Lgs. 297/1994, ma la nuova normativa sarebbe derogabile da un successivo contratto
collettivo a meno che non disponga diversamente, entrando così però in conflitto con
l’impianto generale del D.Lgs. 165. Può affermarsi, dunque, che ogni eventuale modifica
che si volesse introdurre nella disciplina della materia per adeguarla al nuovo assetto
istituzionale troverebbe il suo canale più idoneo in una modifica della disciplina
contrattuale. Comunque, non vi sono dubbi che un eventuale intervento legislativo
rientrerebbe nella competenza esclusiva dello Stato, essendo la responsabilità disciplinare
un tipico istituto del contratto di lavoro, appartenente, come tale, all’ordinamento civile.
Per ciò che riguarda il personale ATA, il contratto collettivo di comparto regola la
responsabilità disciplinare in modo sostanzialmente non difforme dagli altri comparti
dell’impiego alle dipendenze della pubblica amministrazione.
La competenza ad irrogare le sanzioni disciplinari al personale docente e ai dirigenti
scolastici è differenziata a seconda della gravità della stessa; analogamente avviene per il
personale ATA, ancorché con una minore articolazione e con l’esclusione di una diretta
competenza del Ministro. Una diversa ripartizione delle competenze gestionali ed
amministrative tra istituzione scolastica autonoma, Regione e Stato renderebbe opportuno
un riordino della materia anziché un meccanico trasferimento delle stesse competenze; ma
questo riordino, come già visto, deve – necessariamente, per il personale ATA; per ragioni
di opportunità, per il personale docente e per i dirigenti scolastici - essere compiuto
attraverso il contratto collettivo.
Comunque la riorganizzazione istituzionale in corso impone un approfondito ripensamento
sull’articolazione dell’esercizio disciplinare.
ALLEGATO 1
PRIME ANALISI DEL BILANCIO DELLO STATO
1. La situazione attuale
L’attuale dibattito sul finanziamento dell’istruzione – accentramento o decentramento,
trasferimento di risorse o federalismo fiscale – deve essere accompagnato da una analisi sullo
stato del sistema attuale e da una visione comparata delle diverse possibili strade da
percorrere in futuro per produrre un cambiamento strutturale del sistema e conseguire livelli
più elevati di efficienza e di efficacia. Nell’arco di un decennio, il cambiamento del sistema
dell’istruzione è stato sollecitato da numerosi soggetti, fonti normative ma anche fatti
contingenti. Ripercorrere il senso di queste sollecitazioni, accompagnandole con qualche dato,
può essere utile per discutere il trend futuro del sistema istruzione e soprattutto del suo
finanziamento. Il finanziamento del sistema di istruzione non si risolve solo nel “quantum”, la
sua configurazione essendo infatti espressione dello specifico modello di istruzione che si sta
cercando di sviluppare.
In Europa, la strategia di Lisbona per giungere alla società della conoscenza ha visto
affermarsi, dal punto di vista strutturare, due direttrici: un ampio trasferimento di funzioni dal
livello centrale a quello locale e una maggiore autonomia scolastica. L’autonomia scolastica è
tuttavia un processo graduale che incide prima sull’offerta formativa e successivamente sulle
risorse impiegate. Spesso questo decentramento di funzioni dell’istruzione è stato realizzato
all’interno di una revisione della struttura costituzionale (come ad esempio in Spagna) in senso
federale. Altrove l’autonomia scolastica (assoluta nel caso del Regno Unito) è derivata da una
attenta ricerca di efficienza nell’impiego dei fondi pubblici e da un controllo democratico della
spesa e dei risultati (accountability).
Il sistema di gestione e organizzazione delle risorse decentrato prevede comunque un livello
centrale che definisca il curriculum scolastico e i livelli essenziali delle prestazioni omogenee a
livello nazionale. Il decentramento può essere concepito in un quadro di federalismo fiscale:
tale opzione dovrebbe indurre una maggiore responsabilizzazione delle Regioni, forse anche un
maggior orientamento all’efficienza, ad una maggior competitività delle scuole nell’ottenimento
delle risorse e ad una integrazione locale del curriculum scolastico.
Rispetto a questo disegno generale, l’Italia è ancora in una condizione di incertezza. In un
contesto politico, dal 1997 ad oggi, dove le pulsioni al decentramento sono state
controbilanciate da spinte di segno contrario, sono intervenute riforme di ampio respiro: la
riforma del Titolo V della Costituzione e la Riforma Moratti sul diritto-dovere scolastico. Vale la
pena sottolineare che il nodo cruciale delle due riforme, da un punto di vista economico, è
l’assenza di una valutazione quantitativa del loro impatto sul bilancio dello Stato e degli enti di
governo locale.
Manca una programmazione dettagliata su chi debba finanziare cosa e con quali risorse.
Bisogna inoltre precisare che il decentramento delle competenze potrebbe essere affiancato
anche da un decentramento delle entrate finanziarie. Lo stesso articolo 119 della Costituzione
vigente evidenzia i problemi finanziari connessi al decentramento, che riguardano anche
l’autonomia delle entrate e delle uscite. L’articolo prevede la creazione di un fondo perequativo
per i territori con minore capacità fiscale per abitante.
Pertanto, se le variabili che entrano in gioco sono gli standard dei costi connessi alla
erogazione dei servizi e prestazioni, per il caso specifico dell’istruzione sono aperte alcune
questioni: quanto costa uno studente per livello scolastico?
Una spesa elevata, superiore ad una certa soglia, potrebbe dipendere da fattori diversi dalla
qualità: potrebbe essere il riflesso di una qualche rigidità o di una gestione delle risorse non
sempre appropriata.
Altri ministeri oltre MPI finanziano l’istruzione, anche altri Ministeri che attuano programmi
variamente finalizzati all’educazione: ambiente, infrastrutture e trasporti, estero.
In questa fase non sono ancora stati presi in considerazione per la definizione del costo
standard.
In prima approssimazione e relativamente al bilancio 2003:
- Ministero dell’economia e delle finanze: Si tratta di spese destinate al diritto allo studio;
- Ministero dell’interno: per la distribuzione gratuita di libri di testo a favore di studenti
appartenenti a famiglie meno abbienti e frequentanti la scuola media o la scuola secondaria
di 2° grado;
- Ministero degli affari esteri: spese miste, nelle quali alle esigenze di istruzione all’estero si
accompagnano anche altri tipi di destinazione: interventi culturali, esigenze connesse alla
vita e all’attività degli istituti italiani di cultura, spese a favore di studenti (anche adulti)
stranieri (soprattutto per la diffusione della lingua e della cultura italiane), altro ancora;
- Ministero delle infrastrutture e dei trasporti: Si tratta prevalentemente di somme girate agli
Enti locali;
- Ministero del lavoro e delle politiche sociali: finanzia la spesa per l’obbligo formativo per un
importo complessivo di € 204 milioni di euro, la cui destinazione è regionale.
2. Il Bilancio dello Stato: MPI
Il bilancio dello Stato viene quindi a riflettere le spese, disposte secondo una classificazione
economica e funzionale, dei diversi centri di responsabilità con cui il Ministero dell’Istruzione è
stato riorganizzato. Fondamentale, ai fini dell’esercizio di regionalizzazione della spesa per
l’istruzione, viene ad essere l’articolazione delle spese degli uffici scolastici regionali, quali
centri di responsabilità amministrativa e di gestione delle risorse finanziarie necessarie per il
finanziamento delle funzioni amministrative degli uffici regionali e di gestione delle istituzioni
scolastiche.
Le spese sono ripartibili a seconda che siano sostenute per l’amministrazione generale
(automantenimento degli apparati amministrativi) o per le strutture scolastiche. Pertanto, il
bilancio dello Stato consente di effettuare la distinzione fra la spesa generale di
amministrazione e di indirizzo politico e le spese che possono essere attribuite direttamente
alle strutture scolastiche. Distinzione quest’ultima di fondamentale importanza se si considera
come possibile scenario di medio periodo l’attribuzione di tutte le spese per le funzioni
amministrative e scolastiche alle Regioni e / o agli enti sub-regionali. Se l’operazione ora
descritta è praticabile, viceversa l’analisi della spesa sostenuta dalle strutture scolastiche per i
diversi gradi di istruzione a livello regionale non è ancora possibile con i dati ufficiali disponibili.
2.1 Costo per tipologia di servizio
Dei 40.533 milioni di euro del bilancio consuntivo del MPI dell’anno 2005, 40.412 sono spese
riconducibili all’istruzione primaria e secondaria. Di questi, 39.188 milioni di euro (il 97%) sono
relativi a costo del personale.
È possibile inoltre aggregare tali spese per tipologia di scuola e, più in generale, di servizio,
disaggregando anche, per l’istruzione secondaria superiore, fra le diverse tipologie di istituti:
Consuntivo
2005
15.517.135
Indirizzo politico
Servizi
generali
delle
pubbliche
26.781.873
amministrazioni
10.437.216
Affari economici
4.362.524.591
Scuola materna
13.003.805.642
Scuola elementare
9.227.172.877
Scuola media inferiore
Istruzione
classica,
scientifica,
4.598.956.906
magistrale
Istruzione artistica attraverso licei ed
575.367.395
istituti d'arte
Istruzione tecnica
Istruzione professionale
Istruzione attraverso istituti di alta
cultura
Sistema universitario
Infrastrutture universitarie
Formazione post-universitaria
Educandati e convitti
Ricerca per la didattica
Programmazione e coordinamento
dell'istruzione
Diritto
allo
studio,
condizione
studentesca
Istituzioni scolastiche internazionali
Supporto all'attività Istituzionale delle
Amministrazioni
5.006.719.276
3.287.958.589
Totale
40.533.583.994
4.460.054
6.625.706
953.263
1.082.364
73.270.540
183.588.396
54.638.724
24.379.820
472.937
68.870.690
2.2 Costo regionalizzato
2.2.1 Uffici periferici MPI
a. Funzioni
Il DPR 319 del 2003 definisce l’organizzazione del MIUR articolata per Dipartimenti, tra cui
quello per l’Istruzione, disciplinato dall’art. 6, che è diviso in 5 direzioni di livello dirigenziale
generale e al quale si raccordano gli USR (disciplinati dall’art. 8).
Gli USR (uffici di livello dirigenziale generale) sono articolati in USP (ex CSA) a livello
provinciale (affidati in genere a dirigenti non di livello dirigenziale).
Al DPR 319/2003 sono allegate le Tabelle che fissano gli organici del personale (divisi tra
amministrazione centrale e periferica). Tali tabelle sono state riformulate (con riferimento a
organici complessivi del Ministero) dal DPCM 12 ottobre 2005.
La legge n. 233 del 2006, che converte il DL n. 181 del 2006, ha disposto la divisione del MIUR
in due distinti ministeri il MPI e il MUeR (e istituisce per ciascun ministero gli Uffici Strumentali
e di diretta collaborazione con il Ministro). Il DPCM del 14 luglio 2006, che dispone l’attuazione
della legge n. 233/2006 e la divisione dei Ministeri, ha rinviato per quanto riguarda i relativi
organici al DPCM 12 ottobre 2005.
Le competenze delle amministrazioni periferiche del MPI sono prettamente organizzative e
amministrative e, nella prospettiva aperta dagli articoli 117 e 118 della Costituzione, sono di
competenza delle Regioni, così come affermato dalla sentenza Corte Cost. n. 13 del 2004.
Naturalmente le competenze vanno esercitate dalle Regioni nel rispetto del principio di
continuità del servizio, a garanzia dei diritti dei cittadini. L’assorbimento delle funzioni
amministrative ed organizzative delle amministrazioni periferiche del MPI da parte delle
Regioni deve prevedere una unificazione delle strutture, al fine di evitare sovrapposizioni. In
attesa di un trasferimento alle Regioni degli USR e USP si potrà procedere con accordi
territoriali.
b. Costi di automantenimento
Gli Uffici Scolastici Regionali, essendo ordinatori primari di spesa, ricevono direttamente dal
Bilancio dello Stato le risorse stanziate su diversi capitoli.
Dal bilancio dello Stato del 2005 risultano le seguenti spese a consuntivo per il funzionamento
degli Uffici scolastici regionali e provinciali.
Costo
UMPI
Piemonte
Lombardia
Liguria
Veneto
Friuli
Venezia
Giulia
Emilia
Romagna
Toscana
Umbria
Marche
Lazio
Abruzzo
Molise
Campania
Puglia
Basilicata
Calabria
Sicilia
Sardegna
uffici
periferici
18.979.624
31.877.485
8.538.042
15.784.347
7.062.009
16.549.494
18.363.356
5.891.931
7.713.633
22.655.442
31.668.344
4.194.037
31.135.397
22.476.227
5.365.824
19.029.915
31.434.788
11.704.421
Totale
310.424.316
c. Fondi per funzionamento delle strutture scolastiche gestiti dagli USR
Dall’analisi La Corte dei Conti “Indagine sulla riorganizzazione dell’Amministrazione scolastica
con particolare riguardo alle strutture decentrate (Uffici scolastici regionali e Centri servizi
amministrativi), del 2 marzo 2007, risultano poi altri elementi di interesse, in particolare il
fatto che oltre a tali costi di funzionamento degli uffici, sono assegnati agli USR i fondi da
destinarsi al funzionamento delle strutture scolastiche.
In particolare sono assegnati alle scuole, tramite un passaggio alla contabilità degli USP, le
risorse per i seguenti scopi:
a) Spese per supplenza brevi.
b) Spese per la formazione e aggiornamento del personale.
c) Assegnazioni per il funzionamento amministrativo e didattico delle istituzioni scolastiche.
d) Spese per le funzioni amministrative, tecniche ed ausiliarie al subentro degli enti locali.
e) Spese per la realizzazione dell’autonomia scolastica.
f) Spese per la sperimentazione didattica e metodologica nelle classi con alunni diversamente
abili.
g) Compensi e indennità per il miglioramento dell’offerta formativa.
2.2.2 Suddivisione costo servizio scolastico per regione
Come si diceva precedentemente dal bilancio del MPI è individuabile per regione solo il costo
complessivo delle strutture scolastiche, completo di costo del personale e di funzionamento:
Costo strutture
scolastiche
Piemonte
Lombardia
Liguria
Veneto
Friuli
Venezia
Giulia
Emilia
Romagna
Toscana
Umbria
Marche
Lazio
Abruzzo
Molise
Campania
Puglia
Basilicata
Calabria
Sicilia
Sardegna
2.628.143.600
5.402.797.750
886.808.998
2.789.990.027
757.322.454
2.299.460.945
2.185.285.786
604.343.471
1.051.211.600
3.653.094.570
973.932.796
272.748.260
5.084.581.229
3.190.089.527
568.774.443
1.981.086.757
4.343.843.094
1.331.373.101
Totale
40.004.888.408
Il costo regionale suddiviso per le diverse tipologie di scuole è quindi calcolabile in diversi
modi.
In particolare due modalità di calcolo possibili sono:
- costo dell’istruzione per regione ripartito in base al numero degli allievi iscritti nelle diverse
tipologie di scuole sul totale iscritti all’istruzione
- rapporto tra costo nazionale delle diverse tipologie di scuole rapportato al peso % delle
diverse regioni sul totale bilancio del MPI.
Ma Il modo migliore per calcolare il costo per regione dei diversi servizi è però quello del costo
standard per allievo, anche in considerazione della sua centralità nelle prospettive di
attuazione del federalismo fiscale.
2.3. Costo Standard
Il costo standard per allievo identifica si può calcolare in diversi modi.
a) Costo standard allievo unico per i diversi ordini e gradi Modalità di calcolo: totale spese per
servizio territoriale dell’istruzione di MPI, diviso per tutti gli allievi di ogni ordine e grado:
Costo standard
€ 5.236
b) Costo standard allievo diversificato per i diversi ordini e gradi Modalità di calcolo: spese per
l’istruzione di MPI diviso rispettivamente per gli allievi di ogni ordine e grado:
Ordine e grado
Infanzia
Elementari
Media
Liceo e magistrale
Licei e istituti d'arte
Istruzione tecnica
Istruzione
professionale
Spese MPI
€ 4.362.524.591
€ 13.003.805.642
€ 9.227.172.877
€ 4.598.956.906
€ 575.367.395
€ 5.006.719.276
Allievi
971.064
2.536.806
1.663.770
1.014.956
98.739
892.008
Costo
standard
€ 4.493
€ 5.126
€ 5.546
€ 4.531
€ 5.827
€ 5.613
€ 3.287.958.589
540.564
€ 6.082
ALLEGATO 2
I - LA RIPARTIZIONE DELLE FUNZIONI IN MATERIA DI ISTRUZIONE TRA ISTITUZIONI SCOLASTICHE, ENTI LOCALI,
REGIONI E STATO PRIMA DELL’ENTRATA IN VIGORE DEL TITOLO V
1. Competenze già attribuite alle scuole autonome dal d. P.R. 8 marzo 1999, n. 275
a) Didattiche
a) Elaborazione del POF (piano dell’offerta formativa), comprensivo di opzioni didattiche,
organizzative, di ricerca, sperimentazione e sviluppo. È il documento fondamentale
costitutivo dell’identità culturale e progettuale delle istituzioni scolastiche ed esplica la
progettazione curricolare, extracurricolare, educativa e organizzativa che le singole scuole
adottano nell’ambito della loro autonomia.
b) Possibilità di promuovere o aderire ad accordi per raggiungere fini istituzionali
c) Possibilità di individuazione di una quota dei curricoli
d) Possibilità di arricchire e ampliare l’offerta formativa
e) Possibilità di proporre progetti di innovazione nazionale
b) Amministrative
a) Carriera
scolastica
e
rapporti
con
gli
alunni
(iscrizioni,
frequenze,
certificazioni,documentazione, valutazione, riconoscimento studi compiuti in Italia e
all’estero ai fini della prosecuzione degli studi, valutazione dei crediti e debiti formativi,
partecipazione a progetti territoriali e internazionali, realizzazione di scambi educativi
internazionali, regolamento di disciplina degli alunni)
b) amministrazione e gestione del patrimonio e delle risorse e definizione e stipula dei
contratti di prestazione d’opera in conformità a quanto stabilito dal regolamento di
contabilità di cui all'articolo 21, commi 1 e 14, della legge 15 marzo 1997, n. 59, che
può contenere deroghe alle norme vigenti in materia di contabilità dello Stato (v. d.m. 1
febbraio 2001, n. 44).
c) riorganizzazione dei servizi amministrativi e contabili tenendo conto del nuovo assetto
istituzionale delle scuole e della complessità dei compiti ad esse affidati, per garantire
all'utenza un efficace servizio. Previsione di modalità organizzative particolari per le
scuole articolate in più sedi.
d) iniziative autonome di specifica formazione e aggiornamento culturale e professionale
del relativo personale per corrispondere alle esigenze derivanti dal
regolamento
dell’autonomia.
e) potere di proposta o intesa con gli enti locali ai fini della realizzazione del giusto
dimensionamento (art. 4 d. P.R. 18 giugno 1998, n. 233) e della loro articolazione
territoriale.
f) possibilità di promuovere o aderire ad accordi per raggiungere fini istituzionali
g) gestione dello stato giuridico ed economico del personale della scuola non riservato da
apposite disposizioni all’amministrazione centrale o periferica dello Stato.
2. Funzioni amministrative attribuite agli enti locali dal d.p.R. 112/1998
139. Trasferimenti alle province ed ai comuni.
1. Salvo quanto previsto dall'articolo 137 del presente decreto legislativo, ai sensi dell'articolo
128 della Costituzione sono attribuiti alle province, in relazione all'istruzione secondaria
superiore, e ai comuni, in relazione agli altri gradi inferiori di scuola, i compiti e le funzioni
concernenti:
a) l'istituzione, l'aggregazione, la fusione e la soppressione di scuole in attuazione degli
strumenti di programmazione;
b) la redazione dei piani di organizzazione della rete delle istituzioni scolastiche;
c) i servizi di supporto organizzativo del servizio di istruzione per gli alunni con handicap o
in situazione di svantaggio;
d) il piano di utilizzazione degli edifici e di uso delle attrezzature, d'intesa con le istituzioni
scolastiche;
e) la sospensione delle lezioni in casi gravi e urgenti;
f) le iniziative e le attività di promozione relative all'ambito delle funzioni conferite;
g) la costituzione, i controlli e la vigilanza, ivi compreso lo scioglimento, sugli organi
collegiali scolastici a livello territoriale.
2. I comuni, anche in collaborazione con le comunità montane e le province, ciascuno in
relazione ai gradi di istruzione di propria competenza, esercitano, anche d'intesa con le
istituzioni scolastiche, iniziative relative a:
a) educazione degli adulti;
b) interventi integrati di orientamento scolastico e professionale;
c) azioni tese a realizzare le pari opportunità di istruzione;
d) azioni di supporto tese a promuovere e sostenere la coerenza e la continuità in verticale
e orizzontale tra i diversi gradi e ordini di scuola;
e) interventi perequativi;
f) interventi integrati di prevenzione della dispersione scolastica e di educazione alla
salute.
3. La risoluzione dei conflitti di competenze è conferita alle province, ad eccezione dei conflitti
tra istituzioni della scuola materna e primaria, la cui risoluzione è conferita ai comuni
3. Funzioni amministrative delegate alle Regioni dal d.P.R. 112/1998
138. a) la programmazione dell'offerta formativa integrata tra istruzione e formazione
professionale;
b) la programmazione, sul piano regionale, nei limiti delle disponibilità di risorse umane e
finanziarie, della rete scolastica, sulla base dei piani provinciali, assicurando il coordinamento
con la programmazione di cui alla lettera a);
c) la suddivisione, sulla base anche delle proposte degli enti locali interessati, del territorio
regionale in ambiti funzionali al miglioramento dell'offerta formativa;
d) la determinazione del calendario scolastico;
e) i contributi alle scuole non statali;
f) le iniziative e le attività di promozione relative all'ambito delle funzioni conferite.
4. Funzioni residue statali in base al d.P.R. 112/1998
a) criteri e parametri per l’organizzazione della rete scolastica
b) valutazione del sistema scolastico
c)determinazione e assegnazione delle risorse finanziarie a carico del bilancio dello Stato
d) determinazione e assegnazione del personale alle istituzioni scolastiche
5. Funzioni statali in base al d.lgs. 300/1999 (art. 75, c. 3):
a) attività di supporto alle istituzioni scolastiche autonome
b) rapporti con amministrazioni regionali, enti locali, università e agenzie formative
c) reclutamento e mobilità del personale (ferma restando la dimensione provinciale dei ruoli
del personale docente e ATA)
d) assegnazione di risorse finanziarie e di personale alle istituzioni scolastiche.
L’articolo 75 prevede anche un organo collegiale a livello regionale, presso l’USR, che non è
mai stato realizzato.
II - I LEP DEL SISTEMA DI ISTRUZIONE E FORMAZIONE PROFESSIONALE (DLGS. N. 226/05)
•
Livelli essenziali dell’offerta formativa (art. 16), che concernono:
“a) il soddisfacimento della domanda di frequenza;
b) l'adozione di interventi di orientamento e tutorato, anche per favorire la continuità del
processo di apprendimento nei percorsi di istruzione e formazione tecnica superiore,
nell'università o nell'alta formazione artistica, musicale e coreutica, nonché per il recupero
e lo sviluppo degli apprendimenti dello studente;
c) l'adozione di misure che favoriscano la continuità formativa anche attraverso la
permanenza dei docenti di cui all'articolo 19 nella stessa sede per l'intera durata del
percorso, ovvero per la durata di almeno un periodo didattico qualora il percorso stesso sia
articolato in periodi;
d) la realizzazione di tirocini formativi ed esperienze in alternanza, in relazione alle figure
professionali caratterizzanti i percorsi formativi”.
Si precisa – e questo sembra proprio un “principio” – che “ai fini del soddisfacimento della
domanda di frequenza di cui al comma 1 lettera a), e' considerata anche l'offerta formativa
finalizzata al conseguimento di qualifiche professionali attraverso i percorsi in apprendistato
di cui all'articolo 48 del decreto legislativo 10 settembre 2003, n. 276”.
•
Livelli essenziali dell'orario minimo annuale e dell'articolazione dei percorsi formativi (art.
17), che concernono la garanzia di un orario complessivo obbligatorio dei percorsi formativi
di almeno 990 ore annue, nonché l'articolazione dei percorsi formativi nelle seguenti
tipologie:
a) percorsi di durata triennale, che si concludono con il conseguimento di un titolo di
qualifica professionale, che costituisce titolo per l'accesso al quarto anno del sistema
dell'istruzione e formazione professionale;
b) percorsi di durata almeno quadriennale, che si concludono con il conseguimento di un
titolo di diploma professionale.
A tal fine “le Regioni assicurano l'adozione di misure che consentano l'avvio contemporaneo
dei percorsi del sistema educativo di istruzione e formazione”.
•
Livelli essenziali dei percorsi (art. 18), che consistono in:
a) “personalizzazione, per fornire allo studente, attraverso l'esperienza reale e la riflessione
sull'operare responsabile e produttivo, gli strumenti culturali e le competenze professionali
per l'inserimento attivo nella società, nel mondo del lavoro e nelle professioni”;
b) “l'acquisizione […] di competenze linguistiche, matematiche, scientifiche, tecnologiche,
storico sociali ed economiche, destinando a tale fine quote dell'orario complessivo
obbligatorio idonee al raggiungimento degli obiettivi indicati nel profilo educativo, culturale
e professionale dello studente, nonché di competenze professionali mirate in relazione al
livello del titolo cui si riferiscono” (gli standard minimi formativi relativi a tali competenze
sono definiti con accordo in sede di Conferenza Stato-Regioni ai fini della spendibilità
nazionale ed europea dei titoli e qualifiche professionali conseguiti all'esito dei percorsi);
c) “l'insegnamento della religione cattolica come previsto dall'Accordo che apporta
modifiche al Concordato lateranense e al relativo protocollo addizionale […] e dalle
conseguenti intese, e delle attività fisiche e motorie”;
d) “il riferimento a figure di differente livello, relative ad aree professionali definite, sentite
le parti sociali, mediante accordi in sede di Conferenza unificata […] recepiti con decreti del
Presidente della Repubblica su proposta del Ministro dell'istruzione, dell'università e della
ricerca, di concerto con il Ministro del lavoro e delle politiche sociali. Tali figure possono
essere articolate in specifici profili professionali sulla base dei fabbisogni del territorio”.
•
•
Livelli essenziali dei requisiti dei docenti (art. 19), per cui le Regioni assicurano “che le
attività educative e formative siano affidate a personale docente in possesso di abilitazione
all'insegnamento e ad esperti in possesso di documentata esperienza maturata per almeno
cinque anni nel settore professionale di riferimento”.
Livelli essenziali della valutazione e certificazione delle competenze (art. 20), in virtù dei
quali le Regioni assicurano:
a) “che gli apprendimenti e il comportamento degli studenti siano oggetto di valutazione
collegiale e di certificazione, periodica e annuale, da parte dei docenti e degli esperti […]”;
b) “che a tutti gli studenti iscritti ai percorsi sia rilasciata certificazione periodica e annuale
delle competenze, che documenti il livello di raggiungimento degli obiettivi formativi”;
c) “che, previo superamento di appositi esami, lo studente consegua la qualifica di
operatore professionale con riferimento alla relativa figura professionale, a conclusione dei
percorsi di durata triennale, ovvero il diploma professionale di tecnico, a conclusione dei
percorsi di durata almeno quadriennale”;
d) “che, ai fini della continuità dei percorsi, […] il titolo conclusivo dei percorsi di istruzione
e formazione tecnica superiore (IFTS) assuma la denominazione di «diploma professionale
di tecnico superiore»”;
e) “che nelle commissioni per gli esami di cui alla lettera c) sia assicurata la presenza dei
docenti e degli esperti di cui all'articolo 19”;
f) “che le competenze certificate siano registrate sul «libretto formativo del cittadino» di cui
all'articolo 2, comma 1, lettera i), del decreto legislativo 10 settembre 2003, n. 276”.
•
Livelli essenziali delle strutture e dei relativi servizi (art. 21), che comportano – previo
accordo in sede di conferenza unificata:
a) “la previsione di organi di governo”;
b) “l'adeguatezza delle capacità gestionali e della situazione economica”;
c) “il rispetto dei contratti collettivi nazionali di lavoro del personale dipendente dalle
medesime istituzioni”;
d) “la completezza dell'offerta formativa comprendente entrambe le tipologie di cui
all'articolo 17, comma 1, lettere a) e b) [cioè triennale o quadriennale]”;
e) “lo svolgimento del corso annuale integrativo di cui all'articolo 15, comma 6 [cioè il
corso integrativo che permette di accedere all’esame di stato per coloro che provengono
dai corsi quadriennali di istruzione e formazione professionale]”;
f) “l'adeguatezza dei locali, in relazione sia allo svolgimento delle attività didattiche e
formative, sia al rispetto della normativa vigente in materia di sicurezza sui luoghi di
lavoro, di prevenzione incendi e di infortunistica”;
g) “l'adeguatezza didattica, con particolare riferimento alla disponibilità di laboratori, con
relativa strumentazione per gli indirizzi formativi nei quali la sede formativa intende
operare”;
h) l'adeguatezza tecnologica, con particolare riferimento alla tipologia delle attrezzature e
strumenti rispondenti all'evoluzione tecnologica;
i) la disponibilità di attrezzature e strumenti ad uso sia collettivo che individuale;
l) la capacità di progettazione e realizzazione di stage, tirocini ed esperienze formative,
coerenti con gli indirizzi formativi attivati.
MARZO 2008
Costruire il federalismo scolastico
A fondamento dei processi interistituzionali è la nuova formulazione dell’art. 114 Cost secondo
cui “La Repubblica è costituita dai Comuni, dalle Province, dalle Città metropolitane, dalle
Regioni e dallo Stato” che sostituisce la precedente secondo cui “La Repubblica si riparte in
Regioni, Province e Comuni”.
Repubblica e Stato non coincidono più: ognuno di essi, seppure nell’ambito delle proprie
competenze e dunque limitatamente alle proprie responsabilità, concorre all’attuazione dei
diritti costituzionalmente riconosciuti ai cittadini e lo Stato non può più ritenersi l’unico garante
di essi.
L’attuazione di tali diritti (sostanzialmente quelli previsti negli articoli 33 e 34 Cost) richiede la
condivisione di una “vision” del sistema educativo di istruzione e formazione e del suo corretto
sviluppo per il quale ogni ente che compone la Repubblica è responsabilizzato dei compiti e
delle competenze ad esso costituzionalmente spettanti.
Istruzione: una nuova distribuzione di competenze
tra Stato e autonomie territoriali
Il tema dell’istruzione e della formazione va ricollocato nel nuovo scenario istituzionale definito
dal nuovo Titolo V, che produce effetti sul sistema educativo con un nuovo riparto delle
competenze tra Stato e autonomie territoriali.
In sintesi il nuovo assetto costituzionale delinea un sistema educativo di istruzione e di
formazione unitario nel quale:
• lo Stato detta le norme generali; individua i livelli delle prestazioni, ne controlla
l’attuazione ed eventualmente interviene in sostituzione dell’ente territoriale
inadempiente; definisce i principi fondamentali;
• le Regioni, nel quadro di principi fondamentali stabiliti dallo Stato, disciplinano le
funzioni di organizzazione e di amministrazione di carattere generale, definendo le linee
programmatiche di sviluppo dei servizi;
• le autonomie locali sono competenti per la gestione dei servizi;
• le istituzioni scolastiche hanno piena autonomia funzionale;
le Regioni dispongono di competenza legislativa esclusiva in materia di istruzione e
formazione professionale.
Le Regioni sono chiamate a svolgere per l’area istruzione un ruolo di indirizzo, di
programmazione e coordinamento accompagnato da un’attività di monitoraggio dei processi e
di valutazione degli esiti ispirato ai principi di sussidiarietà ed autonomia.
•
La definizione dell’ambito di competenza statale e di quello regionale presuppone un lavoro
legislativo quale condizione prioritaria - come sottolineato dalla sentenza della Corte
Costituzionale n. 13/03 - per poter divenire terminali del trasferimento di competenze
postulate dal titolo V.
Tale lavoro concerne due ambiti:
a) normativo statale e regionale;
b) regolamentare ed organizzativo amministrativo.
Le iniziative della IX Commissione degli Assessori delle Regioni
Conferenza delle Regioni e delle Province Autonome: documento del 12 luglio 2006
Nel nuovo contesto istituzionale si colloca il documento, approvato dalla Conferenza delle
Regioni e delle Province Autonome il 12 luglio 2006, su proposta della IX Commissione, volto
a individuare concreti passi per dare attuazione al titolo V della Costituzione sui temi
dell’istruzione e della formazione.
Le indicazioni fanno riferimento ad alcuni criteri fondamentali, quali:
1) ”l’ambito territoriale di operatività costituisce elemento fondamentale per la delimitazione
dell’ambito delle competenze nazionali e regionali previste dalla Costituzione;
2) la programmazione dell’offerta di istruzione e formazione e della rete scolastica e formativa
deve trovare coerente realizzazione nella potestà regionale di allocazione delle risorse
umane disponibili operata nell’ambito territoriale;
3) la gestione regionale del servizio scolastico e formativo deve avvenire nel rispetto dei Livelli
Essenziali delle Prestazioni e secondo criteri che ne garantiscono l’unitarietà.”
Viene sottolineata la prospettiva che il cambiamento deve avvenire tenendo conto che:
a) “lo stato giuridico ed economico rimangono oggetto di contrattazione nazionale e
decentrata;
b) le procedure di assegnazione del personale nel territorio di competenza sono attuate dalle
Regioni per ambiti provinciali;
c) l’intero processo di trasferimento di competenze alle Regioni dovrà essere caratterizzato
dalla valorizzazione delle relazioni sindacali”.
Il progetto attuativo della riforma costituzionale non può realizzarsi senza il consenso, infatti,
delle parti sociali, rappresentative degli interessi del personale della scuola e
dell’amministrazione che sarà coinvolto nei cambiamenti.
Le Regioni e le Province autonome per prevenire il formarsi di un neocentralismo in sede
locale, secondo il principio della sussidiarietà, riservano “a se stesse le funzioni relative alla
programmazione, al monitoraggio e alla valutazione ed attribuendo i compiti di gestione ai
livelli territoriali più prossimi all’utenza, nel rispetto e nella valorizzazione dell’autonomia delle
istituzioni scolastiche.”
Le Regioni hanno la consapevolezza che per poter condividere una visione comune occorre
l’impegno dello Stato, delle Regioni e degli Enti locali e che è necessario elaborare “un progetto
condiviso, fondato sul principio della leale collaborazione e con un’ampia convergenza
nell’interpretazione del vigente quadro istituzionale”.
Le Regioni propongono la sottoscrizione di un Accordo Quadro, da concludere in sede di
Conferenza Unificata, che rappresenta lo strumento per mettere in chiaro le volontà delle
Regioni, del Ministero della Pubblica Istruzione e del Ministero per gli Affari Regionali e le
Autonomie locali e deve riguardare:
la distribuzione di competenze tra lo Stato, Regioni e Autonomie territoriali e
funzionali, in particolare le istituzioni scolastiche, al fine di evitare conflitti e
controversie tra soggetti istituzionali;
il coordinamento tra le Regioni, sia rispetto alle relazioni interne che agli accordi tra
Stato e Regioni e tra singole Regioni e Stato;
lo sviluppo di orientamenti comuni nelle materie di competenza esclusiva o primaria
delle Regioni, quali, ad esempio, l’istruzione e la formazione professionale e la
programmazione e l’organizzazione dell’offerta formativa sul territorio;
la qualificazione delle Regioni come enti di legislazione e non di diretta gestione, con
preminenti compiti di programmazione della rete scolastica e dell’offerta
integrata di istruzione e formazione, di allocazione territoriale delle risorse, di
monitoraggio e valutazione delle politiche formative, di impulso alle Autonomie
Locali e funzionali”.
Il Master Plan delle azioni per il 2009
La Conferenza delle Regioni e delle Province Autonome ha approvato e condiviso all’unanimità,
il 14 dicembre 2006, il Master Plan delle azioni da porre in essere per realizzare
compiutamente il Titolo V della Costituzione nel settore istruzione. Nel documento è individuata
la data del 1 settembre 2009 quale termine finale entro il quale le Regioni dovranno aver
completato la predisposizione delle condizioni per l’esercizio delle funzioni loro attribuite dal
Titolo V, mentre si demanda ad un apposito Accordo quadro Stato-Regioni, da definire in sede
di Conferenza Unificata, l’individuazione dell’oggetto, delle fasi e delle modalità del processo di
trasferimento e di riorganizzazione istituzionale con la nuova allocazione delle competenze.
IX Commissione degli Assessori all’Istruzione: proposta del 19 luglio 2007 per
l’attuazione del Master Plan
Per imprimere un più decisivo impulso al processo di cambiamento introdotto dalle modifiche
costituzionali, la IX Commissione degli Assessori ha approvato, nella seduta del 19 luglio
2007, una proposta organica attuativa del Master Plan.
Il documento è articolato in due parti:
1. “Il disegno delle competenze istituzionali legislative e della ripartizione delle funzioni
amministrative nel titolo V: riflessi sulle competenze di tutti i soggetti istituzionali”;
2. “Il personale scolastico nel trasferimento di funzioni dallo stato alle regioni in materia di
istruzione”
La proposta analizza il testo costituzionale e avanza delle proposte per giungere a delle
decisioni che abbiano influenza sul miglioramento del servizio di istruzione, sulla qualità della
scuola e su alcune condizioni organizzative relative al personale scolastico, perché, l’obiettivo
principale della trasformazione istituzionale e della soluzione prospettata (dipendenza organica
dallo Stato e dipendenza funzionale dalla Regione) è la valorizzazione di tutto il personale della
scuola e il sostegno al suo lavoro.
Insediamento del tavolo tecnico politico e dei gruppi tecnici
L’insediamento del tavolo tecnico politico sull’istruzione, avvenuto il 26 luglio 2007 presso la
Conferenza Unificata, rappresenta l’inizio di un lavoro che deve garantire standard qualitativi e
quantitativi uniformi su tutto il territorio nazionale, l’autonomia scolastica e il ruolo centrale
delle Regioni.
Il confronto tecnico sull’attuazione del titolo V e sulla ricognizione delle competenze degli enti
istituzionali coinvolti nel processo attuativo è iniziato il 14 novembre 2007 presso il Ministero
della Pubblica istruzione.
L’obiettivo è giungere all’individuazione concreta dei vari ambiti delle competenze, per una
seria riqualificazione dell’istruzione, intesa non più solo come materia riservata alla
competenza statale, ma come bene ed investimento al quale concorrono e sono interessati
tutti i soggetti costitutivi la Repubblica.
LUGLIO 2009
Federalismo scolastico
Alfonso Rubinacci
Il decentramento costituzionale
Il federalismo e il rafforzamento dei livelli locali di governo, l’attuazione del principio di
sussidiarietà, lo sviluppo di azioni di controllo e valutazione della qualità dei servizi sono
riconducibili alla nuova configurazione istituzionale definita dalle modifiche al Titolo V, parte
seconda, della Costituzione. Il federalismo, strumento di promozione dello sviluppo locale, si
pone il duplice obiettivo di:
• trasformare la gerarchia verticale delle istituzioni in una ‘cooperazione’ tra i vari livelli di
governo al servizio degli interessi degli individui;
• superare la rigidità delle architetture istituzionali, lasciando livelli di libertà per
consentire ad istanze diverse di convivere.
Si tratta di una scelta delicata e, in qualche modo, sfidante, che rende ancora più complessa in
Italia l’attuazione del federalismo.
Con questa prospettiva, la Legge Costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3 configura gli assetti
istituzionali di un nuovo modello di Stato, politicamente decentrato, con importanti
implicazioni per l'organizzazione del settore pubblico; realizza un concreto decentramento
istituzionale, legislativo, amministrativo e fiscale, alleggerendo conseguentemente lo Stato di
competenze, strutture, uffici e spese.
Gli enti costitutivi della Repubblica
Nel nuovo testo dell’art. 114 – secondo il quale “La Repubblica è costituita dai Comuni, dalle
Province, dalle Città Metropolitane, dalle Regioni e dallo Stato", sostitutivo della precedente
formulazione secondo cui La Repubblica si riparte in Regioni, Province e Comuni – è
condensata la premessa indispensabile da porre all'inizio di qualunque ragionamento che
riguardi il decentramento legislativo e amministrativo.
Nella nuova formulazione:
• non vi è più un'articolazione interna della Repubblica, ma un’elencazione dei soggetti
istituzionali costitutivi;
• l’ente territorialmente più piccolo è indicato per primo, per sottolineare il significato
della volontà legislativa di porre al primo posto l'ente più vicino ai cittadini;
• viene, per la prima volta, indicata nella Costituzione la ‘città metropolitana’ una forma
organizzativa territoriale, disciplinata a livello di legge ordinaria.
La funzione legislativa di Stato e Regioni
L’art. 117 della Costituzione introduce un nuovo criterio di riparto delle competenze legislative
tra Stato e Regioni. Esso estende la potestà legislativa esclusiva anche alle Regioni a
statuto ordinario e costituisce l'ipotesi ordinaria di riferimento ogni qualvolta non sia coinvolta
una materia espressamente attribuita alla potestà legislativa esclusiva dello Stato.
Le precedenti norme costituzionali non contenevano limiti alla potestà legislativa statale,
invece limitavano la potestà legislativa concorrente delle Regioni. Il nuovo testo dispone sia
per lo Stato sia per le Regioni, limiti nuovi: oltre al rispetto della Costituzione, sono vincoli
quelli derivanti dall'ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali. In coerenza alla
nuova dimensione politica dell'Europa, si realizza all'interno della Costituzione un radicamento
strutturale dell'ordinamento comunitario.
Il federalismo scolastico e l’autonomia
La legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3 produce importanti effetti sul sistema scolastico,
tracciando un sistema educativo unitario nel quale allo Stato è riconosciuta la competenza
esclusiva “sulle norme generali sull’istruzione” e sulla “determinazione dei livelli essenziali
delle prestazioni (LEP) concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto
il territorio nazionale” (art. 117, secondo comma lettera n) e m). è attribuita, inoltre, allo Stato
la determinazione di principi fondamentali nelle materie di legislazione concorrente (art.
117, terzo comma).
Alle Regioni, oltre alla potestà legislativa esclusiva sull’istruzione e sulla formazione
professionale (art. 117, terzo comma), è riconosciuta la potestà legislativa concorrente in
materia d’istruzione sulla quale insistono sia lo Stato (con i principi fondamentali, le norme
generali e i LEP) sia le Regioni (con le norme di dettaglio).
La riforma costituzionale pone, certamente, una serie di questioni complesse e di non facile
soluzione perché ha rovesciato i principi dell’attribuzione delle competenze di Stato, Regioni ed
autonomie locali. Si tratta, dunque, di una trasformazione molta impegnativa e di grande
consistenza. Questo spiega i motivi della sua sostanziale inattuazione, a quasi otto anni
dall’approvazione.
La tutela costituzionale dell’autonomia
Lo specifico riferimento della Costituzione, all’art. 117, terzo comma, quarto periodo “… salva
l’autonomia delle istituzioni scolastiche...” apre grandi prospettive, ma pone diverse questioni.
La prima è quella relativa alla titolarità del potere di determinazione del contenuto
dell’autonomia perché il DPR n. 275/1999, nel definire le istituzioni scolastiche come
‘espressioni di autonomia funzionale’, le ha configurate, soprattutto, come organismi
rappresentativi della comunità scolastica.
Il recepimento della salvaguardia dell’autonomia scolastica, nel nuovo quadro costituzionale,
ha l'effetto di imporre alle Regioni ed allo Stato di tenere conto che l’autonomia scolastica
rappresenta una condizione istituzionale riconosciuta dalla Costituzione.
È vero che lo Stato e le Regioni intervengono sulle funzioni e sull’organizzazione del servizio
scolastico, lo Stato nel fissare le norme generali sull’istruzione e i principi fondamentali e
le Regioni determinando le norme di dettaglio, ma le norme si pongono come limiti esterni e
non possono invadere le forme d’autonomia riconosciute alla scuola. Ciò richiede di ripensare,
anche, l’impianto organizzativo e i modelli di governance sia del sistema d’istruzione nel suo
complesso sia delle singole scuole.
L’iniziativa delle Regioni
In questa prospettiva si colloca il documento, approvato dalla Conferenza delle Regioni e delle
Province Autonome il 12 luglio 2006, volto “a dare attuazione al Titolo V, parte seconda, della
Costituzione, sugli aspetti riguardanti l’istruzione e la formazione del sistema educativo che
hanno rilevanza tra l’altro sul pieno sviluppo dell’autonomia scolastica, sul riassetto delle
articolazioni organizzative centrali e periferiche del Ministero della Pubblica Istruzione”. Il
documento assicura una base di partenza solida, rispetto alla quale, comunque, oggi risulta
definita legislativamente una sola parte seppure essenziale, quale quella rivolta all’attuazione
del federalismo fiscale, stabilito dall’art. 119 della Costituzione.
Sulla stessa lunghezza d’onda, si colloca il Master Plan delle azioni da porre in essere per
realizzare compiutamente il Titolo V nel settore istruzione, approvato e condiviso all’unanimità
il 14 dicembre 2006 dalla stessa Conferenza. Nel documento si demanda ad un apposito
Accordo quadro Stato-Regioni l’individuazione dell’oggetto, delle fasi e delle modalità del
processo di trasferimento e di riorganizzazione istituzionale con la nuova allocazione delle
competenze.
Le Regioni, inoltre, sempre in sede di Conferenza dei Presidenti, hanno approvato il 9 ottobre
2008 una proposta unitaria che affronta le questioni del “disegno delle competenze istituzionali
legislative e della ripartizione delle funzioni amministrative nel Titolo V e del personale
scolastico nel trasferimento di funzioni dallo Stato alle Regioni in materia d’istruzione”.
La ricognizione delle competenze
I problemi che hanno fin qui ritardato l’attuazione del Titolo V sono di diverso genere.
Squisitamente giuridici sono quelli che attengono all’interpretazione delle nuove norme
costituzionali, in relazione alla perimetrazione delle competenze legislative tra Stato e Regioni.
Dunque, occorre porsi preliminarmente il problema dell’individuazione dei confini nelle
competenze legislative di Stato e Regioni, sforzandosi di dipanare la matassa costituzionale
che vede la coesistenza di ‘norme generali’ e di ‘principi fondamentali’ dell’istruzione e che
all’interno della legislazione concorrente pone due eccezioni in favore rispettivamente dello
Stato (autonomia scolastica) e delle Regioni (istruzione e formazione professionale).
Norme generali e norme non generali
Il primo e più delicato problema del nuovo assetto costituzionale è individuare cosa sia ‘norma
generale’ sull’istruzione (materia di competenza esclusiva dello Stato) e cosa invece norma
‘non generale’. Secondo l’Accordo Quadro, in corso di definizione in sede di Conferenza
Unificata tra MIUR, Regioni, ANCI, UPI, UNCEM, le norme generali, di competenza dello
Stato, dovrebbero regolare, in particolare, i seguenti ambiti:
• definizione, limiti, contenuti ed organi di rappresentanza dell’autonomia delle istituzioni
scolastiche;
• ordinamenti scolastici (tipologia e durata dei corsi d’istruzione primaria, secondaria e
post-secondaria, monte ore annuo; modalità di passaggio tra i diversi ordini di scuola e
tra sistema di istruzione e sistema di istruzione e formazione professionale) e la carriera
degli alunni;
• valutazione degli apprendimenti;
• contenuti essenziali dei programmi necessari per il conseguimento di titoli spendibili;
• criteri per l’organizzazione generale dell’istruzione scolastica;
• criteri e meccanismi di selezione e di reclutamento del personale dirigente, docente e
non docente;
• stato giuridico del personale docente e della dirigenza scolastica;
• monitoraggio e valutazione del sistema d’istruzione;
• modalità d’esercizio del potere sostitutivo;
• diritti e obblighi delle scuole non statali e paritarie ai sensi della Legge 62/2000.
Va sottolineato che per quanto riguarda la questione ‘norme generali’, il settore
dell’istruzione è stato il primo ambito ad avere ricevuto, con la legge delega n. 53/2003 e la
successiva normativa secondaria, una regolamentazione legislativa, successiva alla riforma
costituzionale del 2001.
Il Parlamento, infatti, per norma generale ha inteso:
• la definizione generale e complessiva del ‘sistema educativo di istruzione e di
formazione’, comprese le sue articolazioni in cicli e le sue finalità ultime;
• la regolamentazione dell’accesso al sistema e i termini del diritto-dovere e relativa
fruizione;
• la previsione generale del contenuto dei programmi dei vari cicli del sistema e del
nucleo essenziale dei piani di studio scolastici per la ‘quota nazionale’;
• la definizione degli standard minimi formativi, richiesti per la spendibilità nazionale dei
titoli professionali conseguiti all’esito dei percorsi formativi, nonché per il passaggio ai
percorsi scolastici.
Principi fondamentali
La Costituzione riconosce allo Stato anche la competenza a dettare i principi fondamentali
della legislazione concorrente. Il legislatore statale, dunque, interviene soltanto per principi,
lasciando al legislatore regionale lo spazio e la possibilità di regolamentare con legge propria
gli aspetti di dettaglio.
I principi fondamentali dovrebbero riguardare, tra l’altro, i seguenti ambiti:
• libertà di insegnamento;
• sviluppo dell’autonomia scolastica e delle relative rappresentanze;
• libertà di accesso all’istruzione ed alla formazione su tutto il territorio nazionale;
• azioni positive per compensare gli svantaggi derivanti da disabilità e da diverse origini
etniche e culturali;
• azioni positive per compensare svantaggi ambientali e territoriali, con particolare
riferimento alle zone montane, alle piccole isole e ai piccoli comuni;
• requisiti minimi per il funzionamento degli istituti scolastici.
Dapprima la Corte costituzionale ha confermato la possibilità di desumere i principi
fondamentali dalle leggi vigenti (fra le altre sent. 282/2002, 94/2003), e successivamente
questa possibilità è stata confermata dalla legge 131/2003 (c.d. legge ‘La Loggia’), all’art. 1,
comma 3.
I livelli essenziali delle prestazioni
L’articolo 117, comma 2, lettera m) della Costituzione attribuisce alla competenza statale
esclusiva la “determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e
sociali che debbono essere garantiti su tutto il territorio nazionale”.
Poiché i livelli essenziali limitano anche la competenza legislativa esclusiva delle Regioni, essi
debbono essere correttamente individuati per prevenire illegittime limitazioni della competenza
legislativa regionale e dell’autonomia scolastica. Il punto di partenza per l’individuazione dei
LEP è costituito da quella parte della normativa costituzionale dalla quale scaturiscono diritti di
cittadinanza sociale. Le ‘aree’ di prestazioni obbligatorie, a titolo indicativo, dovrebbero
riguardare i livelli essenziali che consentono l’accesso nel sistema, garantiscono l’erogazione
del servizio d’istruzione ‘statale’ su tutto il territorio nazionale, fissano l’orario minimo annuale,
stabiliscono i criteri e i requisiti per il reclutamento del personale docente, dirigente e ATA.
Le competenze del livello regionale
In questo quadro costituzionale va definito il ruolo delle Regioni, quali soggetti politici, non solo
capaci di tradurre in politiche attive i bisogni delle singole comunità regionali, ma anche
responsabili della costruzione del quadro giuridico nazionale, nel rigoroso rispetto del principio
di unità e indivisibilità della Repubblica.
È necessario precisare il ruolo programmatorio e/o gestionale di Regioni, Province, Comuni e
istituzioni scolastiche per evitare conflitti, duplicazione di sedi decisionali, ma anche per meglio
definire la portata dell'autonomia scolastica.
Il trasferimento, inoltre, di competenze in materia di istruzione a livello regionale potrà
segnare un ulteriore passo nella definizione delle competenze delle istituzioni scolastiche.
Quattro aree di intervento
Le competenze attribuibili alle Regioni per il settore istruzione sono riconducibili alle seguenti
aree:
• area della programmazione dell’offerta. Vi trovano collocazione le funzioni relative alla
rilevazione dei fabbisogni formativi del territorio, alla programmazione dello sviluppo
dell’offerta formativa, nonché la gestione dei rapporti con gli enti locali e con le
istituzioni scolastiche per l’offerta formativa territoriale integrata per l’istruzione e
formazione tecnica superiore, e i rapporti scuola lavoro;
• area della valutazione e controllo efficacia/efficienza. Vi trovano collocazione le funzioni
relative alla vigilanza sull’attuazione delle norme generali e sull’osservanza degli
standard programmati, le attività di verifica del livello d’efficienza delle istituzioni
scolastiche e del grado di realizzazione dell’offerta formativa, anche rispetto al sistema
delle scuole paritarie;
• area dell’organizzazione e gestione. Sono ricomprese le funzioni di definizione a livello
regionale delle dotazioni organiche del personale docente e dell’organico funzionale di
ciascuna istituzione scolastica, nonché di assegnazione alle istituzioni scolastiche e
educative delle risorse di personale e finanziarie di programmazione e gestione delle
risorse per il diritto allo studio;
• area di sostegno dell’autonomia scolastica. Possono esservi collocate le funzioni relative
alle attività di supporto alle istituzioni scolastiche.
L’Accordo-Quadro
Dare un miglior servizio educativo, rendere sostanziali i diritti formali, migliorare il governo del
sistema devono essere gli obiettivi del processo di attuazione del Titolo V.
Il futuro Accordo Quadro Stato-Regioni ed autonomie locali è teso a individuare gli ambiti dei
conferimenti e delle connesse azioni per la realizzazione del Titolo V della Costituzione.
In sintesi la prospettiva che si apre è dunque quella che:
• lo stato giuridico ed economico del personale rimane oggetto di contrattazione
nazionale e decentrata;
• le procedure d’assegnazione del personale nel territorio di competenza sono attuate
dalle Regioni per ambiti provinciali;
• il processo di trasferimento di competenze alle Regioni deve valorizzare le relazioni
sindacali;
va garantita alle Regioni la piena copertura degli oneri connessi all’esercizio delle nuove
funzioni;
• le funzioni relative alla programmazione, al monitoraggio e alla valutazione d’ambito
regionale sono svolte dalle Regioni;
• i compiti di gestione sono attribuiti ai livelli territoriali più prossimi all’utenza, nel
rispetto dell’autonomia delle istituzioni scolastiche.
Il percorso di attuazione dell’Accordo richiede una strategia complessiva che dovrebbe
condurre:
o alla presentazione, da parte del Governo, del disegno di legge di riassetto della
normativa statale in materia di norme generali e di principi fondamentali
nonché dei criteri per la definizione dei livelli essenziali delle prestazioni
entro il 31 dicembre 2009;
o all’approvazione, da parte delle Regioni, della normativa di organizzazione entro
il primo settembre 2010;
o all’adozione, da parte dello Stato, di D.P.C.M. di completamento del
trasferimento alle Regioni e agli altri enti territoriali sia delle competenze loro
attribuite dal D.lgs. 112/1998, sia di quelle ulteriori risultanti dal Titolo V, entro
il 30 giugno 2010.
è previsto che Stato e Regioni si impegnano a dare attuazione all’Accordo entro il 31 dicembre
2011, fermo restando la data del 1° settembre 2010 per l’avvio dell’esercizio delle funzioni di
gestione del personale della scuola.
È previsto anche l’impegno di Stato e Regioni alla verifica congiunta dei risultati
dell’applicazione dell’Accordo e alla ridefinizione dei contenuti dello stesso che nel tempo, in
relazione allo sviluppo della legislazione nazionale e regionale, non fossero più adeguati.
L’attuazione del federalismo scolastico secondo le linee di indirizzo definite con l’Accordo
Quadro deve procedere attraverso un percorso condiviso, ispirato al principio di leale
collaborazione, fra autonomie locali, regioni e stato con particolare riferimento alla definizione
dei LEP (livelli essenziali di prestazione), alla determinazione dei fabbisogni standard, alla
costruzione degli strumenti di perequazione degli esiti formativi al fine di delineare un sistema
educativo unitario, coerente e sostenibile.
•
La doppia ‘dipendenza’ del personale della scuola
La gestione del servizio d’istruzione è riconosciuta alle scuole dell’autonomia, che applicano
direttamente le norme generali statali a garanzia dell’unitarietà del sistema d’istruzione;
mentre l’organizzazione e la programmazione sul territorio è realizzata dagli enti locali in
conformità a leggi regionali, emanate anche in attuazione dei principi fondamentali dallo
Stato.
L’Accordo traccia anche la prospettiva con cui affrontare la questione più delicata e cruciale,
cioè quella della gestione del personale dirigente, docente ed ATA. È ipotizzato il passaggio del
personale della scuola alle dipendenze funzionali delle Regioni e degli enti locali, ma
l’indicazione è che tale tipo di rapporto attiene alla programmazione e distribuzione territoriale;
la titolarità del rapporto di lavoro del personale della scuola rimane, dunque, allo Stato.
La dipendenza organica dallo Stato riguarda ad esempio lo stato giuridico, la libertà
d'insegnamento, la definizione dei criteri di accesso al ruolo e sono mantenute in tale ambito
sia la contrattazione nazionale sia la mobilità sull'intero territorio nazionale. Nel rispetto dei
criteri e regole fissate dallo Stato con norma generale, le materie relative alle procedure
concorsuali e del reclutamento, alla mobilità professionale e alla mobilità territoriale regionale,
potranno trovare una nuova ripartizione tra Stato, Regioni, altri enti territoriali e istituzioni
scolastiche.
Il federalismo fiscale
Da alcuni decenni è in atto un processo di decentramento della spesa pubblica, non però
accompagnato da un parallelo decentramento delle decisioni di entrata.
Il riconoscimento del principio di autonomia finanziaria di entrata e di spesa degli enti
territoriali (comuni, province, città metropolitana, regioni), è sancito legislativamente dalla
riforma costituzionale all’art. 119, primo comma “I Comuni, le Province, le Città metropolitane
e le Regioni hanno autonomia finanziaria di entrata e di spesa”.
Cosa dice la Costituzione
Sul piano finanziario a tutti i soggetti istituzionali territoriali, in termini di assoluta parità
perché costitutivi della Repubblica (art. 114) è assicurato l’accesso a risorse, prevalentemente
di natura fiscale, idonee a consentire l’esercizio delle funzioni e dei compiti di governo che la
Costituzione e le leggi attribuiscono ad essi. La struttura dell’art. 119 presenta tre articolazioni
fondamentali.
La prima (commi 1- 2- 3- 4) delinea le modalità di finanziamento di tutte le attività degli enti
territoriali e perciò non solo delle funzioni fondamentali, cioè quelle stabilite dalle leggi dello
Stato, ai sensi dell’art. 117, secondo comma, lettera p).
La seconda (comma 5) indica un’attività di intervento finanziario dello Stato a integrazione
delle risorse ordinarie delle autonomie locali.
La terza (comma 6) regola la capacità di indebitamento ‘autonomo’ degli enti territoriali
limitatamente alle spese di investimento.
Il cardine dell’attuazione del federalismo è nella costruzione di un’architettura istituzionale che
armonizzi l’autonomia impositiva delle Regioni e degli enti locali con l’impianto unitario del
sistema fiscale e con la necessità di perequare le diverse capacità fiscali dei contesti territoriali
regionali.
Cosa dice la legge ordinaria
La legge 5 maggio 2009, n. 42, sul federalismo fiscale segna l’avvio di una fase di
attuazione dopo otto anni dall’approvazione, della riforma del Titolo V, anche se contiene solo
principi e linee guida.
Il Governo è chiamato a definire i contenuti della legge delega con la predisposizione, entro
due anni, dei relativi decreti legislativi, destinati a dare nuovo assetto alla finanza pubblica,
che saranno esaminati da una Commissione Parlamentare bicamerale per l’attuazione del
federalismo, con compiti prevalentemente istruttori, e che saranno monitorati dalla Conferenza
permanente per il coordinamento della finanza pubblica, composta nell’ambito della
Conferenza Unificata, destinata a fungere da organismo stabile di coordinamento della finanza
pubblica. La Conferenza dovrà mettere a disposizione del Parlamento, dei Consigli Regionali e
della Province Autonome tutti gli elementi informativi raccolti, e le sue determinazioni saranno
trasmesse alle Camere. I decreti attuativi dovranno prevedere una fase transitoria, di 5 anni,
per garantire flessibilità e le necessarie perequazioni in favore delle Regioni più svantaggiate. Il
cantiere del federalismo è destinato a restare aperto almeno sette anni, perché l’entrata a
regime è prevista non prima del 2016.
Il nuovo quadro normativo interviene sui rapporti finanziari tra Stato e Autonomie territoriali,
con l’obiettivo di determinare, senza rinunciare al principio di solidarietà, una maggiore
efficienza nell’utilizzo delle risorse pubbliche. Un punto significativo della riforma è il passaggio
dal criterio della spesa storica a quello dei costi standard nell’attribuzione delle risorse agli
enti territoriali.
Questa prospettiva presuppone la ripartizione della funzione legislativa tra lo Stato, le Regioni
e delle funzioni amministrative tra i diversi soggetti, la definizione dei livelli essenziali di
prestazione, la valutazione dei costi dell’operazione, la costituzione di un quadro di riferimento
dei dati disponibili, la quantificazione degli aiuti al Mezzogiorno.
Competenze legislative e mezzi di finanziamento
L’articolo 8 classifica le competenze legislative regionali e stabilisce distinte modalità e quantità
di finanziamento di tali competenze. La legge delega dispone che, per le funzioni fondamentali,
vada assicurato a tutte le Regioni, attraverso l’apporto del fondo perequativo, il finanziamento
integrale, sulla base del fabbisogno rapportato ai costi standard.
Per quanto concerne le spese regionali non riconducibili alle funzioni relative ai livelli essenziali
esse sono finanziate – oltre che con quote del fondo perequativo – con il gettito di:
• tributi propri derivati;
• addizionali sulle basi imponibili dei tributi erariali;
• tributi propri istituiti dalle regioni con proprie leggi.
Il finanziamento del sistema educativo
Bisognerà osservare con grande attenzione come sarà declinato il tema del federalismo
fiscale nel sistema educativo. La legge 5 maggio 2009, n. 42 definisce un modello di
finanziamento integrale dell’attività regionale volta al rispetto dei livelli essenziali, e in ciò è
espressamente inclusa l’istruzione. Il finanziamento si articola su due poli:
ricorso a risorse ‘regionali’, nel senso dei ‘tributi propri derivati’ e di compartecipazione
al gettito di imposte statali, al fondo perequativo, ma senza il ricorso a trasferimenti
statali veri e propri;
• superamento della spesa storica attraverso la determinazione del costo standard, che
si configura come indicatore di finanziamento delle spese relative alle prestazioni fissate
dalla legge statale.
La legge sul federalismo rende, dunque, esplicito che rientrano nel finanziamento ‘garantito’ le
spese per l’istruzione dipendenti dallo svolgimento delle funzioni amministrative attribuite alle
regioni. L’esatta dimensione di questa previsione non è tuttavia chiara: se, ad esempio, una
volta ricomprese nel finanziamento, secondo le forme e le modalità stabilite per i LEP, tutte le
“spese per lo svolgimento delle funzioni amministrative attribuite alle regioni dalle leggi
vigenti”, non è certo se residuino o meno altre funzioni amministrative regionali in materia di
istruzione che dovrebbero essere finanziate diversamente (cioè con fondi propri aggiuntivi).
•
Riforme e governance
Come emerge dal quadro sintetizzato, le molte questioni che sono poste e che deriveranno
dall’attuazione del Titolo V della Costituzione si intrecciano con quelle, non meno complesse,
ma di lunga durata, del nostro sistema educativo. Riforme ordinamentali e una nuova
concezione della governance non dovrebbero oggi più essere affrontate separatamente, come
accaduto da lungo tempo, perché entrambe, avendo come obiettivo il miglioramento della
performance della scuola (come servizio, e come esiti formativi degli studenti) quale risorsa
prioritaria del paese, rappresentano aspetti di un unico processo riformatore che si costruisce
sulla partecipazione e sulla responsabilità delle istituzioni, dei cittadini e dei territori.
Glossario minimo
Federalismo
• Il concetto di federalismo col tempo ha subito delle variazioni. Si è passati da un federalismo
‘duale’, nel quale vi era la tendenza a privilegiare un potenziamento dei poteri dello Stato
centrale rispetto agli altri Stati membri, ad un federalismo ‘cooperativo’, caratterizzato da
piena parità dei soggetti costitutivi dello Stato. Una struttura federale si distingue da una
semplicemente decentrata per la procedura di ripartizione delle competenze fra governi locali e
governo centrale. Il decentramento avviene, quindi, per un atto col quale parte della sovranità
assoluta ed esclusiva di cui lo Stato gode è trasferita, più o meno temporaneamente, agli Enti
locali. In un ordinamento federale, invece, la ripartizione dei compiti avviene secondo il diverso
principio di sussidiarietà. L'erogazione dei servizi avviene così dal basso, non dall'alto, come
prevede adesso la nostra struttura di governo.
Sussidiarietà
• La sussidiarietà indica il concetto per cui un’autorità centrale svolge una funzione
essenzialmente sussidiaria, essendo ad essa attribuiti quei soli compiti che le autorità locali
non sono in grado di svolgere. La sussidiarietà verticale sta ad indicare il principio secondo il
quale le decisioni sono assunte al livello di governo superiore se ciò produce un valore
aggiunto. La sussidiarietà orizzontale delimita il ruolo pubblico al sostegno e al governo della
rete dei servizi, indicando quanto può essere fatto dalla famiglia e, a seguire, dalle altre
formazioni sociali.
Decentramento
• Il decentramento indica il rafforzamento dei livelli di governo territoriale con la distribuzione
di compiti agli organi periferici dello Stato, alle Regioni e agli Enti locali.
Governance
• La governance è il processo attraverso il quale le istituzioni risolvono collettivamente i
problemi e affrontano le necessità della società, usando il governo di sistema come strumento.
Conferenza Stato, Regioni, autonomie locali
• La Conferenza Unificata costituisce la sede della negoziazione politica tra Amministrazioni
centrali e Sistema delle autonomie e opera per favorire la cooperazione tra l’attività dello
Stato, Regioni, Province autonome e Autonomie locali.
Federalismo fiscale
• Il federalismo fiscale è il riconoscimento del principio di autonomia finanziaria di entrata e di
spesa degli enti territoriali, cioè la capacità di raccogliere autonomamente imposte per
finanziare interventi pubblici nel proprio territorio.
Siti utili
• http://www.associazionedeicostituzionalisti.it
L’Associazione è stata costituita l’11 ottobre 1985 con lo scopo di “favorire l’approfondimento
dello studio e dei metodi d’insegnamento del diritto costituzionale, promuovendo e
coordinando incontri tra studiosi e ricerche collettive”.
• http://www.parlamentiregionali.it
La Conferenza dei Parlamenti regionali promuove gli opportuni raccordi con le Assemblee
legislative di ambito nazionale, comunitario e internazionale ed altresì con Assise di carattere
non legislativo che connotano contesti regionali in via di definizione istituzionale. La
Conferenza promuove ogni altra iniziativa idonea a valorizzare le funzioni e le prerogative
istituzionali delle Assemblee regionali e il loro ruolo di rappresentanza democratica.
• http:/www.regioni.it
La Conferenza dei Presidenti delle Regioni e delle Province autonome è la sede ufficiale
dell’interlocuzione istituzionale interregionale. In questa sede sono predisposti i
documenti, poi presentati e illustrati al Governo nelle riunioni della Conferenza Stato-Regioni
e della Conferenza Unificata. La Conferenza è un laboratorio politico-istituzionale in grado di
formulare proposte anche nel campo delle riforme istituzionali. Nel massimo rispetto della
sovranità e dell'autonomia del Parlamento si sono registrati diversi e decisivi confronti
durante il dibattito che ha accompagnato la riforma del Titolo V della Costituzione.
• http://www.anci.it
L'Associazione Nazionale dei Comuni Italiani costituisce il sistema della rappresentanza di
Comuni, Città Metropolitane ed enti di derivazione comunale dinanzi a istituzioni e organismi
internazionali e dell’Unione Europea, Comitato delle Regioni, Parlamento della Repubblica,
Governo, Regioni, organi della Pubblica Amministrazione e a ogni altro soggetto, di rilievo
istituzionale, che eserciti funzioni di interesse locale. Promuove e diffonde, a tutti i livelli, la
coscienza dei valori della sussidiarietà, dell’autonomia, del decentramento.
• http://www.federalismi.it
È una rivista che tratta le tematiche relative ai processi di riforma istituzionale in atto in Italia;
segue l’attuazione della riforma del Titolo V della Costituzione.
• www.tuttoscuola.com
Per approfondimenti tematici a cura dello stesso autore, consultare gli articoli pubblicati sulla
rivista “Tuttoscuola”, sezione “Federalismo scolastico”.
Risorse documentali:
Banca d’Italia, Considerazioni finali, 2008.
Fondazione ANCI ricerche, L’istruzione: il ruolo delle amministrazioni locali. Funzioni, criticità e
prospettive, maggio 2009.
ISAE, Finanza pubblica e istituzioni, giugno 2009.
Servizio studi del Senato, Dossier, n. 126, maggio 2009.
Servizio studi della Camera, Dossier documentazione e ricerche, n. 111/2.
Indicazioni bibliografiche
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Napoli, 2005.
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Bassanini F., La ‘manutenzione straordinaria’ del ‘nuovo’ Titolo V, in “Astrid Rassegna”, n. 7,
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Bettinelli E., Rigano F., La riforma del Titolo V della Costituzione e la giurisprudenza
costituzionale, Giappichelli, Torino, 2004.
Cerulli Irelli V., Pinelli C., Verso il federalismo, Il Mulino, Bologna, 2003.
Cerulli Irelli V., La Nuova disciplina generale dell’azione amministrativa, Jovene, Napoli, 2006.
Groppi T., Olivetti M., La repubblica delle autonomie, Giappichelli, Torino, 2003.
Groppi T., La riforma del titolo V della Costituzione tra attuazione e auto applicazione, in
www.quadernicostituzionali.it.
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Roversi Monaco F., La riforma del Titolo V della Costituzione: la nuova autonomia delle Regioni
nel campo della scuola, Confronti, 2002.
Riferimenti normativi
• Legge 15 marzo 1997, n. 59: Delega al Governo per il conferimento di funzioni e compiti alle
regioni ed enti locali, per la riforma della pubblica amministrazione e per la semplificazione
amministrativa.
• D.Lgs. 31 marzo 1998, n. 112: Conferimento di compiti amministrativi dello Stato alle regioni
e agli enti locali, in attuazione del capo I legge 15 marzo 1997, n. 59.
• D.P.R. 8 marzo 1999, n. 275: Regolamento recante norme in materia di autonomia delle
istituzioni scolastiche, ai sensi dell’art. 21 legge 15 marzo 1997, n. 59.
• D.Lgs. 30 luglio 1999, n. 286: Riordino e potenziamento dei meccanismi e strumenti di
monitoraggio e valutazione costi, rendimenti e risultati dell’attività svolta dalle amministrazioni
pubbliche, a norma dell’art. 11 legge 15 marzo 1997, n. 57.
• D.Lgs. 30 luglio 1999, n. 300: Riforma dell’organizzazione del Governo, a norma dell’articolo
11 della legge 15 marzo 1997, n. 59.
• D.Lgs. 30 marzo 2001, n. 165: Norme generali sull’ordinamento del lavoro alle dipendenze
delle amministrazioni pubbliche.
• Legge Costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3: Modifiche al titolo V della parte seconda della
Costituzione del 1948.
• Legge 5 giugno 2003, n. 131: Disposizioni per l’adeguamento dell’ordinamento della
Repubblica alla Legge Costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3.
• Legge 4 marzo 2009, n. 15: Delega al Governo finalizzata all’ottimizzazione della produttività
del lavoro pubblico e all’efficienza delle pubbliche amministrazioni.
• Legge 5 maggio 2009, n. 42: Delega al Governo in materia di federalismo fiscale, in
attuazione dell’articolo 119 della Costituzione.