l`oscurità che mi circonda - Edizioni Dehoniane Bologna

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Pena di morte
l’
oscurità che mi circonda
Il sogno americano e le voci blues dal carcere
C
hissà perché fulminano
(electrocute) le persone all’una di notte / la corrente è molto più forte, la
gente spegne tutte le luci»,
canta Blind Lemon Jefferson. Il terrore
nudo che ispira la messa a morte trova
in un altro brano del bluesman (Hangman’s blues) una delle rappresentazioni
più crude: «Quel vecchio crudele boia
mi sta aspettando per stringere il nodo /
ho così paura, Signore, che tremo nelle
scarpe». Un tema taglia l’intera storia
della canzone americana, un genere che
ha saputo guardare in faccia la violenza:
è la pena di morte, l’orrore che essa suscita. Un tema che attraversa tanto il
blues (nero) quanto la tradizione folk
(bianca) e la canzone d’autore rock, un
tema in qualche modo apparentato a
un’altra «figura» oscura, brutale, carica
di interdetti e di simbolismi: il linciaggio.
La canzone americana ha descritto
l’orrore nella sua fisica elementare e per
questo più brutale: la reclusione tra le
sbarre, la solitudine che precede l’esecuzione, le cinghie che si stringono, il cappio che si tende, l’interruttore che decreta la morte, l’ago che penetra le vene. Se
la letteratura a stelle e strisce si è spesso
arrestata fuori dalla camera della morte,
dal luogo dove si compie il supplizio, la
canzone USA vi è invece entrata. A essa
si deve una delle testimonianze più alte
contro quella penalità che culmina nella
morte di stato. «Avete visto le grazie della signora di ferro? / gambe d’acciaio
cuoio sulle braccia / che porta un uomo
a morire / occhio per occhio vita per vita / la morte è la signora di ferro sulla
sedia» (The iron Lady, Phil Ochs).
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Il fantasma del linciaggio
Uno dei nuclei tematici più densi
attorno al quale si è coagulato il blues
– la grande «voce» nera all’interno
della cultura americana assieme alla
tradizione religiosa degli spiritual – è il
motivo del carcere e, correlato a esso,
quello dei lavori forzati ai quali i prigionieri erano costretti. «Il blues non
solo utilizza l’esperienza carceraria come momento tematico fondamentale,
ma è col canto di carcere – che è essenzialmente canto di lavoro – in un rapporto costante di simbiosi e ricchissimo
interscambio». Nella storia del blues si
è attivata così una «continua circolazione di elementi testuali e musicali tra
il carcere e l’ambiente circostante», un
travaso «fitto e continuo».1 Ma Rainey: «Troppi giorni di dolore, troppi
giorni di tristezza / una palla al piede
e una catena ovunque io vada». Lightnin’ Hopkins: «Hey, signor carceriere
non vorrà essere così gentile da darmi
le chiavi / voglio solo aprire la porta /
questo davvero non è un posto per
me». Julius Daniels: «Sono stato arrestato domenica / lunedì sono finito
sotto processo / la giuria mi ha condannato / con la testa tra le mani ho
pianto». Big Mama Thornton: «Devo
scontare 99 anni e un giorno / ma ho
chiesto al guardiano di liberare Big
Mama / starsene al fresco/ non è che
una perdita di tempo». Blind Lemon
Jefferson: «Sono sempre più stanco di
dormire in questa cella solitaria».
Cosa spiega una produzione così insistita attorno a questo tema? Perché
tanta attenzione al carcere e alla durezza della vita dietro le sbarre? Cosa vibra
nell’animo del nero americano quando
ascolta questi blues?
Il carcere è la manifestazione – nella sua immediatezza fisica – dello stato
di oppressione nel quale l’afroamericano è immerso. Ne è come il prolungamento. Le sbarre certificano, nella loro
brutale evidenza, l’impossibilità di movimento al quale lo schiavo prima, il nero sottoposto alla segregazione poi, sono costretti. La fine della schiavitù non
certificò l’immediata «liberazione» dei
neri. L’uguaglianza rimase a lungo un
fantasma irraggiungibile. Non c’è dunque una netta opposizione tra l’oppressione che il nero vive e subisce lontano
dalle sbarre e il carcere stesso. Quest’ultimo è la forma più brutale, istituzionalizzata della prima. Era dunque inevitabile che attorno al dramma del carcere
si condensasse la produzione poetica
del blues. La pena di morte si pone al limite estremo di questo «sistema»: ne è
la forma parossistica, lo scatenamento –
istituzionalizzato – di forze che attraversano il corpo sociale. La violenza che
circola liberamente nella società si abbatte ora sul corpo del condannato.
Una parentela oscura – e ancora più
temibile perché trattenuta nel regno
dell’indicibile – lega la pena di morte al
linciaggio. Quest’ultimo ne è in qualche
modo la forma «liberata», pre-legale,
che solo dopo una lunga «convivenza»
venne interamente riassorbita nella pena di morte. La violenza «ritualizzata»
che infestava il Sud degli Stati Uniti
venne progressivamente confiscata dalla stato: divenne, con la pena di morte,
morte di stato. Una violenza che esplodeva con terribile regolarità: «Tra il
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1882 e il 1968 furono 3.417 gli afroamericani vittime della violenza di massa
bianca».2
«Il linciaggio – ha scritto Alessandro
Portelli –, come ogni rito, è un messaggio. Non è una sanzione contro il singolo, ma uno strumento disciplinare, comunicazione giudiziaria preventiva
contro tutti. Poco conta che la vittima
sia colpevole o meno: il terrore è più
profondo quando si colpiscono a caso
gli innocenti».3 Secondo Adam Gussow
il linciaggio (e i contraccolpi psicologici
del terrore che esso seminava) è il grande rimosso che percorre il blues. Mai
portato a livello di linguaggio (l’unico
brano che esplicitamente affronta il tema – come vedremo – è la bellissima
Strange fruit), «il linciaggio è inscritto
nella tradizione blues in modi svariati:
ora come terrore dell’accerchiamento,
della tortura e dello smembramento,
ora come materializzazione di un fantasma che bussa alle porte del cantante
blues, che lo insegue, gli infligge ogni
sorta di male».4
Gli hard times o la bad luck, i tempi
duri e la cattiva sorte, gli jinx e il mojo
(la scalogna e il malocchio) e ogni forma
di trouble – di guai –, e ancora i cani furiosi sbucati fuori dall’inferno (hellhound) o i cani assetati di sangue
(bloodhound) lanciati all’inseguimento
di un evaso, le diverse personificazioni
del male che ricorrono del blues – i diavoli (devils) che piovono dal cielo o bussano alle porte o, addirittura, il blues in
persona «che cammina come un uomo» – non sarebbero altro, nell’interpretazione di Gussow, che trascrizioni
inconsce della figura del linciaggio. Il
blues è allora la risposta – rielaborata
poeticamente – alla violenza fisica e psicologica che, attraverso la minaccia della violenza ritualizzata, veniva esercitata sui neri. Questa personificazione del
male è praticamente onnipresente nel
blues. Il blues accerchia, preme, tende a
rompere le difese, a sfaldare la stessa
identità del soggetto aggredito, a penetrare, a deformare, a spezzare.
«Blues perché non concedi al povero Bill una pausa? / Blues perché non
concedi al povero Bill una pausa? / Perché non cerchi di darmi una mano anziché cercare di spezzarmi il collo (break
my neck)?» (Conversation with the blues,
Big Bill Broonzy).
Come sottolinea ancora Gussow, l’e-
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spressione «break my neck» «è un’immagine estratta dalla grammatica del
linciaggio». Il prezzo dell’invasione del
blues o delle figure che lo incarnano è
spesso la follia, la fuga o una violenza altrettanto insensata, la disgregazione dei
legami affettivi e familiari. Il senso della
minaccia, della precarietà, di qualcosa
che è fuori controllo, di qualcosa che assedia, che opprime, che aggredisce, che
rende blue: ecco il blues, ecco il fantasma del linciaggio.
Lirismo tragico
«Qualcosa di freddo sta strisciando
/ uno spettro triste si è impossessato di
me / e sento che sto sprofondando»
(Lonnie Johnson). «Mi sono alzato questa mattina / la iella era tutta attorno al
mio letto» (Son House). «Guai guai alle
costole ogni santo giorno / sembra proprio che i guai debbano seguirmi fino
alla tomba» (Bessie Smith). «Signore mi
sono alzato stamattina / il blues era tutto attorno al mio letto» (Tommy Johnson). «Non ho mai visto un tempo così
duro / il lupo continua ad aggirasi fuori dalla mia porta» (Ida Cox). «I blues
mi furono addosso, Dio mio, e mi rincorsero di albero in albero / avresti dovuto sentirmi implorare, signor Blues,
non mi ammazzare» (Little Brother
Montgomery). «Mi sono alzato stamattina, i blues camminavano come un uomo / bene, blues, dammi la tua mano
destra» (Robert Johnson).
Lo spettro del linciaggio non comprende né spiega l’intero mondo poetico del blues. Non riassume insomma un
genere musicale capace di abbracciare –
poeticamente – l’intero universo afroamericano. In un certo senso il linciaggio
non inchioda, al suo rituale di morte, la
vitalità del blues. Come ha scritto il teologo James Hal Cone, «quando il blues
cattura l’assurdità della vita del nero
nell’America bianca e la esprime in musica e parole, consente alla gente nera di
interporre una distanza dai problemi
che la attanagliano nell’attimo presente,
permettendo loro di rimasticarli sotto
forma artistica, offrendo così una catarsi liberatrice».5 E tuttavia, quello messo
in luce da Gussow, resta un nodo che
non si può ignorare: «I blues sono un
modo di simbolizzare ciò che a livello
inconscio opprime il soggetto nero: la
periodica eruzione della violenza di
massa ritualizzata dei bianchi».
Siamo entrati nel DNA della cultura
afroamericana. Ha affemato lo scrittore
Ralph Ellison:6 «Il blues è un impulso a
tenere in vita nella propria coscienza
sofferente i dettagli dolorosi e gli episodi di un’esperienza brutale, a testarne la
ruvida grana, e a trascenderla, non attraverso la consolazione della filosofia
bensì spremendo da essa un lirismo vicino al tragico e vicino al comico. Come
forma, il blues è la cronaca autobiografica di una catastrofe personale espressa
liricamente». Nel blues preme dunque
un’urgenza che possiamo definire euristica. Non è un caso allora che la formula usata da molti cantanti sia: «blues
is the truth», «il blues è la verità». E la
verità del blues coincide con il senso di
precarietà – economica, affettiva, ontologica – al quale è inchiodata l’esistenza
dell’afroamericano.
«Sono andato al crocevia, sono caduto in ginocchio / ho chiesto al Signore lassù: “Abbi pietà, risparmia il povero Bob”», canta Robert Johnson. Luciano Federighi ha notato come l’intera
composizione del bluesman – Cross
road blues – sia una «metafora di fragilità e d’impotenza, di cui testimonia anche il succedersi continuo di preghiere
strazianti e invocazioni d’aiuto». «Il sole sta calando, il buio mi sorprenderà
qui / senza una dolce donna che comprenda la mia angoscia / potete correre
e dire al mio amico, il povero Willie
Brown / che me ne sto al crocevia, Signore sto sprofondando».
Il fantasma del linciaggio traspare
anche nel «tema dell’invisibilità del nero – uno dei topoi più originali dell’arte
afroamericana del secolo scorso» e che
«anticipa di molto il capolavoro Uomo
invisibile di Ralph Ellison (1952)».7
L’invisibilità può rovesciarsi nel suo terribile contrario: la caccia all’uomo. Solo, abbandonato a se stesso, senza aiuti,
circondato dall’oscurità, il nero può facilmente tramutarsi in una vittima.
C’è infine un brano che ha violato
l’interdetto che ha coperto – nella coscienza della società americana – il linciaggio. Questo brano è la celeberrima,
Strange fruit, immortalata dalla voce di
Billie Holliday: «Gli alberi del Sud danno uno strano frutto / sangue sulle foglie sangue sulle radici / corpi neri
oscillano nella brezza del Sud / uno
strano frutto è appeso agli alberi / ecco
il frutto che i corvi beccano / la pioggia
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bagna / il vento succhia / il sole fa marcire / gli alberi fanno cadere».
La pena di morte in qualche modo
riassorbe l’orrore del linciaggio. Con
una differenza: se quest’ultimo fu a
lungo coperto da una vera interdizione, infiltrandosi in forme mascherate
nella poetica del blues, la seconda viene denunciata apertamente. Il brano
di Blind Lemon Jefferson, Hangman’s
blues, cattura in tutte le sue componenti e in tutte le sue figure l’orrore
dell’esecuzione: il boia, il giudice, la
folla che si stringe attorno al penitenziario, il terrore che invade: «La corda
del boia è così dura e forte / lasciate
che vi dica che la forca è terribile a vedersi / mi impiccano al mattino / e tagliano la corda quando è notte / gente
tutt’intorno alla corte e il tempo corre
veloce / presto un killer buono a nulla
esalerà il suo ultimo respiro».
Il blues ha espresso la totale esposizione, la terribile solitudine che inchioda – spiritualmente e fisicamente – il
condannato a morte. «Sto andando verso la sedia elettrica con il pastore al mio
fianco / non avrei paura di morire ma
sto per morire in un modo terribile / Signore, Signore, Signore, Signore, / Signore tutto quello che posso fare è sedermi e piangere / la mia povera madre è a casa, non sa neanche che sto per
morire» (James Platt).
Con un procedimento tipico del
blues – il rovesciamento ironico – Bessie
Smith si «immunizza» da questo terrore. La punizione non può essere elusa,
ma – con il canto – il potere letale incarnato dalla sedia elettrica viene come
spodestato: «Giudice, giudice gentile,
ottimo giudice / mandami sulla sedia
elettrica / giudice, giudice ascolta la
mia supplica / lasciami volare via di qui
/ puoi friggermi davvero non mi importa / l’ho colpito con il mio Barlow / l’ho
accoltellato in un fianco / sono rimasta
ferma a guardare / mentre tremava e
moriva / giudice per favore spediscimi
sulla sedia elettrica / non voglio spendere 99 anni in prigione».
Le ballate di Sacco e Vanzetti
«Vado alla morte con una canzone
sulle labbra e con una speranza nel cuore che nulla riuscirà a cancellare».8 Chi
scrive è Nicola Sacco, poche ore prima
di entrare nella camera della morte. A
condividere il suo drammatico destino
di morte è Bartolomeo Vanzetti, l’ami-
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co di sempre. Carcere di Charlestown,
agosto 1927: dopo sette anni di prigionia, i due anarchici italiani – accusati di
avere ucciso due uomini durante una
rapina – vengono «giustiziati». Il processo che li ha condotti all’esecuzione è
pieno di ambiguità, contraddizioni, lacune. La macchina della morte non si
ferma, nonostante l’impianto accusatorio mostri molte falle, vere e proprie
«sofisticazioni». La doppia esecuzione
susciterà un’eco mondiale, e finirà per
ispirare alcune delle voci più importanti della canzone americana. Nel 1971
Ennio Morricone compone la colonna
sonora del film diretto da Giuliano
Montaldo «Sacco e Vanzetti», Joan
Baez scrive parole di chiara risonanza
evangelica. «Benedetti siano i perseguitati / e benedetti siano i puri di cuore /
benedetti siano i misericordiosi / e benedetti siano i portatori di lutto». (The
ballad of Sacco e Vanzetti – Part one)
Nessun abbraccio attende chi sbarca negli Stati Uniti. La terra promessa,
la terra di pace e libertà, la terra del sogno mostra il suo volto «affilato», fatto
di rigetto ed esclusione. «La bellezza
dello spirito umano è la volontà / il desiderio di provare i propri sogni / ma
quando c’è una terra promessa / i coraggiosi andranno e gli altri seguiranno / e così le masse si affollano attraverso l’oceano in una terra di pace e
speranza / ma nessuno udì la voce o
vide la luce / e furono sbattuti contro
la riva / e nessuno fu accolto dall’eco
della frase “alzo la mia lampada dietro
la porta d’oro”» (The ballad of Sacco e
Vanzetti – Part two).
Il carcere e l’onta delle accuse infamanti non spezzano la delicata trama di
affetti che legano i due italiani alle rispettive famiglie. Joan Baez presta a
Bartolomeo Vanzetti parole di ferma e
commossa dignità. «Sì, padre, sono dietro le sbarre / non aver paura di parlare del mio reato / il crimine di amare i
dimenticati / solo il silenzio è vergogna
/ e quando guardo le stelle lo sento /
siamo figli della vita / la morte è poca
cosa». (The ballad of Sacco e Vanzetti –
Part two)
Nicola Sacco lascia al figlio Dante
un testamento di dignità e amore: «Perdonami figlio per questa morte ingiusta
/ che ti porta via tuo padre / perdona
tutti coloro che sono miei amici / io sono con te quindi non piangere / i più
deboli che piangono per un aiuto / il
perseguitato e la vittima / sono tuoi
amici / e compagni nella lotta» (The
ballad of Sacco e Vanzetti – Part three).
Anche Pete Seeger, altra voce storica della tradizione folk USA, ha cantato le lettere di Sacco destinate al figlio
Dante. «Se niente accade ci porteranno
alla sedia elettrica dopo mezzanotte / e
quindi sono qui accanto a te con amore
aprendo il mio cuore / come lo ero ieri.
/ Non piangere Dante, troppe lacrime
sono andate sprecate / perché le lacrime di tua madre sono già andate sprecate per sette anni / e non hanno portato a nulla di buono. / E così figlio mio
invece di piangere sii forte e coraggioso
/ così da poter confortare tua madre»
(Sacco’s letter to his son).
Un altro cantore americano ha riscritto la vicenda dei due anarchici italiani, dedicando loro diversi brani: è
Woody Guthrie. La parabola di Sacco e
Vanzetti, diventa nella riscrittura dell’autore di This land is your land, figura delle ingiustizie che attraversano l’America, ma anche un richiamo alla lotta, all’impegno. Anche in Guthrie risuona un linguaggio fortemente espressivo,
che mostra assonanze bibliche, ben rivelato da Maurizio Bettelli.9
«Tutti i dollari del mondo se ne vanno rotolando / fin dentro alle casseforti
dello zio Sam / qualcuno diventa sempre più ricco, sempre di più / ma la povera gente diventa sempre più povera /
la saetta del fulmine / il rombo del tuono / e il lamento delle nuvole che passano sibilando / il diluvio e la tempesta
per Sacco e Vanzetti / hanno costretto i
ricchi a strapparsi i capelli e piangere»
(The flood and the storm).
Figura chiave del processo fu il giudice Thayer. A lui Guthrie indirizza parole di fuoco: «Sperai che la gente riuscisse a tirare giù il giudice Thayer / dal
suo scranno del tribunale e lo rincorresse per tutta la città / sperai che lo inseguisse intorno al balcone del giudice / e
lo infilzasse con il forcone del diavolo a
ogni piè sospinto» (Red wine).
Quest’opera di rimemorizzazione,
di sottrazione all’oblio, trova in Two
good men il suo punto più alto: «Mi ricorderò per sempre di questi due uomini per bene / che sono morti per insegnarmi a vivere».
E in You souls of Boston, Sacco e
Vanzetti, nei versi di Guthrie, diventano
«i nostri figli più nobili. / La vecchia
Boston diventò una buia città vecchia /
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quando abbassarono l’interruttore in
quella notte d’estate d’agosto / la gente
per strada piangeva marciava e cantava
/ in tutte le lingue del mondo».
Come ha scritto Alessandro Portelli: «Woody Guthrie riconosce in Sacco
e Vanzetti la nuova tradizione democratica dell’America, i nuovi padri pellegrini».10
La mor te statalizzata
Nel 1995, il regista Tim Robbins
realizza il film Dead man walking, ispirato dal libro omonimo – e dalla battaglia contro la pena di morte – di suor
Helen Prejean. Lo sguardo della cinepresa si avvolge attorno alla vicenda di
Patrick Sonnier e al rapporto che il condannato a morte – il dead man
walking, l’uomo morto che cammina,
così come viene annunciato il passaggio
del condannato verso la stanza dell’esecuzione – intesse con sorella Helen. Il
film non cerca scorciatoie. Il condannato è colpevole di duplice omicidio, «è
arrogante, odioso e brutale». Non suscita simpatie, non è accattivante. Il cuore
del film «è contenuto nei quindici minuti del prefinale: un’agghiacciante registrazione delle nude e semplici procedure dell’esecuzione, che in Louisiana
avviene per iniezione».11 Il fuoco dell’opera insomma converge sui «rituali meticolosi, burocratici, medici» che scandiscono la somministrazione della morte.
Con la pena di morte la violenza ritualizzata – che eruttava in occasione dei
linciaggi – diventa statale. Non c’è più
spazio per la brutalità generalizzata, di
massa, per i corpi smembrati e carbonizzati, per i corpi appesi a un albero.
Al loro posto subentra una sorta di igienizzazione della morte. La burocrazia
entra nella camera di morte. Si assiste a
un tragico paradosso: si somministra la
morte in modo – apparentemente – indolore. «È tutto molto clinico, medicalizzato, senza spargimento di sangue.
Una morte asettica».12
Ma va registrato anche un altro paradosso: all’esecuzione possono assistere i familiari della vittima, nonché gli
organi di stampa. La morte in America
è offerta istituzionalmente allo sguardo.
La pena di morte salda la tecnologia
della punizione a quella della visibilità.
L’attimo di parossistica violenza che si
abbatte sul condannato deve coincidere
con lo spettacolo della sua morte. Il segreto della prigione, nel momento in cui
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paradossalmente cessa il suo potere e la
sua presa sull’individuo, si rovescia nella sua esposizione spettacolare.
Per la colonna sonora di Dead man
walking, il regista Tim Robbins chiama
alcune delle voci più significative della
canzone d’autore americana, da Tom
Waits a Steve Earle, da Susanne Vega a
Johnny Cash. Tra questi c’è anche Bruce Springsteen che aveva già cantato la
pena di morte in due brani, Nebraska e
Johnny 99.
Nell’opera di Springsteen il tema
della legge e della sua violazione torna
ossessivamente. I suoi brani sono pieni
di uomini che tentano di resistere alla
vertigine dell’illegalità (Atlantic city),
che lottano per non varcare quel confine e si trattengono sull’orlo (Straight time), che lo infrangono inconsapevolmente (Johnny 99) o consapevolmente
(Nebraska), che difendono la legge senza assolutizzarla (Highway Patrolman,
The line), che la fuggono (State trooper),
o che le oppongono una norma diversa
(The new timer). Scomparsa come limite geografico, come esplorazione dell’ignoto, come appello alla conquista, la
frontiera si è come conficcata nelle esistenze individuali, come una vocazione
– o una condanna – al movimento. È
ancora una violazione, un’urgenza, ma
che mette fuori gioco non più il confine
che corre tra il noto e l’ignoto ma un
nuovo limite: la legalità. Chi infrange la
legge è letteralmente un fuori-legge,
qualcuno che ha violato lo spazio della
norma, che sta dall’altra parte, che è catapultato in un’altra dimensione, e che
finisce per assomigliare a quella wilderness, a quell’alterità che la frontiera accerchia.
Una volta che essa ha cessato di essere, il nuovo confine corre tra la legge
e la sua violazione. È come se la valenza mitica della frontiera – e la violenza
assorbita miticamente dalla frontiera –
cercasse nuovi luoghi, nuovi corpi su cui
scaricarsi.
Il condannato a morte di Dead man
walking cantato da Springsteen è bandito – letteralmente – dalla legge, dalla
comunità, sospinto in un luogo di indistinzione tra la vita e la morte: è ancora
in vita, ma è come se fosse già morto;
non è ancora morto, ma la sua vita è
stata spogliata di ogni determinazione.
È un morto in attesa. Intrappolato in
questa soglia tra la vita e la morte, in un
confine lungo il quale l’una e l’altra si
scambiano perché diventate equivalenti, l’uomo non invoca il perdono o l’oblio: chiede di non essere cancellato, di
lasciare una traccia, di essere egli stesso
una traccia.13 «Sorella, non chiedo il
perdono. / I miei peccati sono tutto ciò
che ho».
Se è il punto di vista del condannato quello scelto da Springsteen, Steve
Earle ha dato voce a una figura oscura,
che rimane solitamente ai margini della
narrazione. Non è la vittima, non è il
carnefice, è solo un ingranaggio della
macchina della morte: è la guardia carceraria. Ma la sua è una posizione «privilegiata», in grado di raccontare ciò
che avviene nel segreto del carcere: «Li
ho visti combattere come leoni / arrendersi come agnelli / li ho aiutati a sostenersi quando non si reggevano in piedi
/ e ho sentito i pianti delle loro madri
quando quella porta pesante sbatteva /
e ho visto le famiglie delle vittime tenersi per mano».
Tom Waits ha catturato il vuoto che
si insedia nelle case, nelle vite di chi resta. «Perché cucinare la cena? / Perché
rifare il letto? / Perché tornare a casa?
Fuori dalla porta attraverso i boschi /
c’è un mondo dove niente cresce. / È
difficile pronunciare il ringraziamento /
e sedersi a tavola al posto di qualcuno
che manca».
Luca Miele
1
A. ROFFENI, Blues, ballate e canti di lavoro
afroamericani, Newton Compton, Roma 1976.
2
J. GOLDSBY, A Spectacular Secret. Lynching
in American Life and Literature, University of
Chicago Press, Chicago 2006.
3
A. PORTELLI, Bianchi e neri nella letteratura americana: la dialettica dell’identità, De Donato, Bari 1977.
4
A. GUSSOW, Seems Like Murder Here.
Southern Violence and the Blues Tradition, University of Chicago Press, Chicago 2002.
5
J.H. CONE, The Spirituals and the Blues: an
interpretation, The Seabury Press, New York
1972.
6
Citato da L. FEDERIGHI, Blues on my mind,
L’Epos, Palermo 2001.
7
L. MONGE, Robert Johnson. I Got the Blues,
Arcana Edizioni, Milano 2008.
8
T. LORENZO, Sotto un cielo stellato. Vita e
morte di Nicola Sacco e Bartolomeo Vanzetti, Claudiana, Torino 2009.
9
M. BETTELLI (a cura di), Le canzoni di
Woody Guthrie, Feltrinelli, Milano 2008.
10
A. PORTELLI, «La libertà incisa nella roccia», Il manifesto 22.8.2002.
11
I. BIGNARDI, Il declino dell’impero americano. 50 registi e 101 film, Feltrinelli, Milano 1996.
12
H. PREJEAN, La morte degli innocenti. Una
testimonianza diretta sulla macchina della pena di
morte in America, San Paolo, Milano 2009.
13
L. MIELE, Oltre il confine. Miti e visioni
d’America nelle canzoni di Bruce Springsteen, Pardes, Bologna 2006.
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