ArcanaU2-prefazione DavideSapienza
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ArcanaU2-prefazione DavideSapienza
LÀ FUORI A CERCARE ESPERIENZA Nel 2009 gli U2 hanno festeggiato un importante anniversario: il primo quarto di secolo dell’album THE UNFORGETTABLE FIRE, l’opera più avventurosa nella lunga carriera del quartetto. Venticinque anni festeggiati soprattutto con una nuova elettrizzante raccolta di canzoni, la terza del Ventunesimo secolo, intitolata No Line On The Horizon. Perché partire proprio da quel disco, il quarto album di studio che apriva una fase artistica e operativa inedita (all’epoca) per la band dublinese? Perché gli U2 per primi, nonostante gli ottimi risultati raggiunti con BOY, OCTOBER e WAR – senza dimenticare il leggendario minialbum live UNDER A BLOOD RED SKY – avevano compreso che forzare oltre sul pedale dell’epica e dei sentimenti gonfiati dall’effetto massa dei concerti poteva rischiare di far implodere una creatura innovativa e unica come quella creata da Larry Mullen, Adam Clayton, David “The Edge” Evans e Paul “Bono” Hewson a Dublino otto anni prima, nei giorni della tarda adolescenza. Citando un verso di una delle loro prime canzoni, Twilight, era con THE UNFORGETTABLE FIRE che “nell’ombra, il ragazzo incontra l’uomo”. Oggi può sembrare facile avventurarsi in un’analisi del genere. Ma chi ricorda le discussioni legate al gruppo che più di ogni altro aveva nettamente diviso detrattori e amanti di quella poetica musicale? I Clash erano lì lì per sciogliersi e così anche i Police: due band che avevano fatto un certo discorso artistico al quale gli U2 erano stati sensibilmente vicini. Chi ha in mente quanto fosse uncool essere fan di un gruppo musicale che nelle canzoni e nelle interviste parlava di Dio, citava la Bibbia, concludeva i concerti con una (splendida) canzone ispirata a un salmo, e che veniva pubblicanete caratterizzata da un leader senza peli sulla lingua, intento a condannare le ideologie e a parlare di ponti da costruire per collegare le rive opposte di un lungo e doloroso dopoguerra? Forse non così tanti, visto che gran parte degli attuali milioni di fan dei quattro irlandesi sono il frutto di un “raccolto” pressappoco radunato on the road negli ultimi vent’anni. Ecco perché quel “fuoco indimenticabile” – rivisto oggi – presenta una forza simbolica unica, in un percorso che appare sempre più circolare, fatto di andate e ritorni, una via artistica dove nel momento della creazione vale ancora l’assioma di A Sort Of Homecoming: “la tua terra si muove sotto / Lo scenario del tuo stesso sogno”. Quando questo libro nacque per la prima volta era il 1984, nel pieno del fuoco indimenticabile: nessuno al mondo si era ancora avventurato a dare un imprimatur letterario alle liriche di Bono, ma già si capiva che questi cardini – ancora oggi in gran parte validi – avrebbero segnato i volumi che lo avrebbero seguito e per questo oggi raccoglie il testimone un analista appassionato e rigoroso come Andrea Moranti, che ha saputo ritrovare tutti i fili di allora per tesserli nel presente. Agli U2 è sempre stato utile e ancora serve mettersi in discussione. È questo il loro quid speciale, il fluido della creatività che soprattutto nella scrittura e nello studio di registrazione prevale sulle più prosaiche considerazioni di “ricapitalizzazione dell’esistente”, che è la mentalità con cui approcciano i loro tour e tutte le operazioni finanziarie a loro collegate. Ma anche nei concerti c’è il momento della creatività, e sta nelle scenografie: tra le più innovative mai realizzate nella storia del rock. In mezzo a questo quarto di secolo si stende l’immenso golfo che separa l’innovazione dal manierismo ai tempi del rock come icona rassicurante, oggi che pare non aver più il ruolo di voce divergente, capace di stimolare visioni altre rispetto alla musica popolare e al suo ruolo nella vita di tutti noi. Non va però dimenticato che, quando gli U2 “conclusero” quel primo quinquennio discografico partito con l’arrembante serie di 45 giri di fine anni Settanta, non era affatto detto che in pochi anni avrebbero guidato la parte più profonda (e persino spirituale) del pubblico rock verso la fine del Novecento allargandone la visuale, la percezione di sé rispetto al mondo. Invece, questo fecero: il che non è proprio cosa da poco. Il golfo, dicevamo. Quell’enorme mare che è il luogo di elezione del Profondo – il Se junghiano – e del sapersi mettere in discussione senza più farsi massacrare da una critica che ama giocare a freccette sulla pelle altrui: incapace di comprendere, troppe volte, i meccanismi del processo creativo spontaneo che è sempre stato alla fonte della magnifica forza rivoluzionaria della musica. Allora, navigando attraverso tanti dischi, progetti e concerti, gli U2 arrivano a dire che oltre il golfo, attualmente, non c’è più alcun confine e forse anche nessuna direzione, riga o linea (sostantivi tutti traducibili con “line”) all’orizzonte. Dunque, difficile avere controparti con le quali confrontarsi, come capitava ad esempio sino ai primi anni Novanta. Viene buona la splendida affermazione di Cedars Of Lebanon: “Scegli attentamente i tuoi nemici perché ti definiscono / Fa’ che siano interessanti, perché in qualche modo si prenderanno cura di te”. Vi è in questo gioco quella dualità tra Se e Ego che ha sempre contraddistinto il quartetto: gli U2 paiono quasi volerci dire, da un lato, che non sono più gli esploratori di ciò che il rock potrebbe ancora essere ma semplici cantori di una macchina da spettacolo che proprio con NO LINE ON THE HORIZON ha ritrovato un equilibrio estetico fondato – più che sui famosi “tre accordi e la verità” di fine anni Ottanta – su uno stile creato dal nulla trent’anni or sono. Ma da un’altra angolazione, il recente messaggio del gruppo ci dice anche che la ripetizione didascalica del grande show dei loro concerti (l’Ego) non va a toccare quel cuore vivo e pulsante che ci appare in molte canzoni nuove (il Se) capaci di restituire alla band una forza espressiva coesa e piena di “intenzione” come non la si sentiva da ACHTUNG BABY. Ecco perché il verso che alza subito il tono di NO LINE ON THE HORIZON sta nell’inciso della canzone che gli dà anche il titolo: “Le canzoni che tu hai in testa, adesso sono nella mia mente”. Un verso che pare catturare questo momento perpetuo in cui gli U2 tornano a sperimentare con i maghi Eno e Lanois soluzioni affascinanti, si mettono alla prova producendo un singolo obliquo come Get On Your Boots (che guarda caso non ha fatto sfracelli commerciali come Vertigo o Beautiful Day: splendidi pazzi, ma pur sempre “molto U2”). Nei tempi in cui la Rete non aveva ancora catturato in diretta le emozioni di milioni di appassionati, esisteva comunque un tempo per elaborare e fare passaparola a ritmi meno violenti o comunque immediati; in quei giorni non c’era il botta e risposta dei blog, le persone si incontravano nei negozi di dischi e ai concerti, leggevano le riviste musicali mentre media generalisti e tv non parlavano molto di rock perché era ancora troppo “brutto sporco e cattivo”. Oggi l’una (la Rete) rappresenta il potenziale espressivo e libertario più grande, gli altri (i media generalisti e soprattutto la tv) l’affermazione del pensiero unico e nella gran parte dei servizi dedicati alle superstar come gli U2, la ripetizione dei comunicati stampa delle case discografiche dove tutto è “un capolavoro” impera indisturbata. Ma qui siamo nelle pagine di un libro che ha le sue radici in un’edizione lontana, proprio di venticinque anni fa e che si impegna a rivedere un catalogo di canzoni spesso straordinarie, molte volte emozionanti e raramente noiose: quello che occorre è stabilire una relazione tra la musica e le parole che Bono ha scelto per esprimerla al suo meglio, affinché si capisca quale forza ha avuto questo percorso nei suoi primi trenta lunghi anni e attraverso tanti album. Da I Will Follow che apre arrembante BOY nel 1980, alla splendida Cedars Of Lebanon che chiude NO LINE ON THE HORIZON trent’anni dopo (e la cui base musicale è la stessa di un brano di Harold Budd prodotto da Daniel Lanois negli anni Ottanta) si può dire che i quattro ragazzi la loro rivoluzione l’abbiano fatta più volte e che poi, più volte, abbiano rallentato nuovamente il passo per aspettare tutti senza lasciare nessuno per strada. Gli U2 – in quanto azienda – sanno perfettamente cosa fare e quando farlo. Nulla è mai successo per caso nella macchina organizzativa guidata da Paul McGuinness e dal loro management. Certo, a volte può apparirci che in questa solida certezza di essere azienda non bisognosa di troppi scossoni per poter “restare sul mercato”, a volte rischino comunque di perdersi: come accadde (era il 1997) ai tempi di POP, album ricco di canzoni stimolanti ma troppo ammiccante a ciò che era cool in quell’epoca di musica creata a partire da “suoni” più che da “contenuti”, presto scivolata via nell’universo. In NO LINE ON THE HORIZON, Bono canta convinto anche “l’infinito è un gran bel posto da dove partire”. È da questa visuale che si staglia il profilo duale della sua rock band. L’infinito sarebbe un gran bel posto, verrebbe da dire, visto che a metà dell’opera la band pare optare per il rassicurante recinto dorato che si è creata nel corso di una gloriosa carriera: brani come Unknown Caller e I’ll Go Crazy If I Don’t Go Crazy Tonight sembrano fare affidamento sulle cose più melense che avevano avvelenato il livello artistico degli ultimi album (a differenza del sentito gospel di Moment Of Surrender); il che rende in genere quel tipo di U2 uguali a qualsiasi altra star da classifica, rinunciando a dare più impulso a quell’elemento di novità che l’album peraltro rappresenta nell’immaginario musicale della band. Pensiamo a Bad, che diede origine a questo genere di ballate sentimentali, e alla sua inarrivabile originalità e vediamo che da questo punto di osservazione il tempo non ha giovato. Ma torniamo al nostro magico misterioso viaggio da e verso il fuoco indimenticabile. Gli U2 di quei primi anni Ottanta, per lasciar parlare la scintilla primordiale, si erano letteralmente chiusi in un castello (lo Slane Castle in Irlanda) per riscoprire la fiamma: è difficile comprendere adesso l’impatto emotivo provocato da THE UNFORGETTABLE FIRE, preceduto dal fuorviante singolo Pride (In The Name Of Love), unica canzone in senso tradizionale di tutta l’opera. Gli U2 decidevano di lasciarsi alle spalle quella spruzzata di punk che accompagnava sempre i piatti del loro menù musicale per raccogliere intuizioni importanti da gruppi come Echo & The Bunnymen. Dal quartetto di Liverpool, i dublinesi avevano già rubacchiato l’immaginario delle foto promozionali. Ora andavano a vedere cosa c’era sotto quel fitto bosco di suoni ed emozioni cupe, sapendo bene che con Indian Summer Sky (un pezzo che pare un’outtake di Heaven Up Here dei Bunnymen) la luce si sarebbe vista perché “Nella foresta c’è una radura / Corro laggiù, verso la luce”. La scoperta di questa radura fuori dalla foresta fu sensazionale. Perché mentre impazzavano pop band superficiali e nazionalpopolari, gli U2 si preparavano a creare una nuova forma di canzone di massa che avrebbe trovato il suo apice tre anni dopo con THE JOSHUA TREE. Allora, recinti non ce n’erano: agli artisti, la casa discografica chiedeva più spesso che no di essere originali. L’infinito (allora sì) era il posto giusto da dove partire. È fondamentale non sottostimare oggi, alla luce della clonazione continua di stili musicali e vocali a cui assistiamo quotidianamente, ciò che significava fare musica. Essere in cerca di libertà, bellezza, espressione di contenuti raccolti tra i propri coetanei. Era la nostra generazione, post-sessantottina, postpunk, pre-MTV. Alcuni anni dopo, il posto degli U2 sarebbe diventato quello “dove le strade non hanno nome”. Con THE JOSHUA TREE – grazie a Brian Eno e a Danny Lanosi, capaci interpreti delle intuizioni musicali del quartetto trasformate poi in canzoni memorabili – la band riuscì a cristallizzare nel tempo il grande filone artistico pescato al centro della terra, lì dove il fuoco è indimenticabile e inestinguibile. Erano gli U2 senza maschere, con le esagerazioni del Bono-profeta e le scalette rassicuranti (anche allora) dei lunghi tour mondiali: ma andava bene così, perché allora quei quattro erano la rivoluzione della musica di massa incarnata e non solo ne erano diventati consapevoli ma non avevano vergogna a interpretare un ruolo unificante in un universo di musica popolare che si stava sgretolando in mille rivoli. THE UNFORGETTABLE FIRE viene celebrato un quarto di secolo dopo: non solo, ci fanno anche riascoltare B-side tra le più belle nella carriera del gruppo (Bass Trap, Love Comes Tumbling, Boomerang I e II), che da sole valgono intere porzioni degli ultimi album per fascino, profondità, ampiezza di paesaggi musicali, impegno, ricerca, e fede nel potere della musica. Fummo tutti felici di vedere questo quartetto decollare, giovani prometei portatori di fuoco in un mondo che giocava a essere cool, vederli scalare le classifiche di tutto il mondo, diventare il più grande gruppo rock della Terra. Perché lo facevano a modo loro: lavorando duro, sfidando tante difficoltà, lasciando esprimere un frontman come Bono. Che ogni giorno di più dimostrava di aver avuto pochi precedenti nella storia del rock, manovrando ogni volta quei “tre accordi e la verità” come se fosse un nuovo editto rock con cui orientarsi. Il tutto durò pochi anni. Certo, nelle ere geologiche del rock sette primavere sono un’enormità: i Beatles in sette anni volarono con l’infinito producendo quattordici album. Ma con un fremito, un film e un concerto di addio al decennio degli Ottanta, anche i quattro ragazzi irlandesi decisero di provare a vedere cosa stava oltre: oltre il Muro crollato dell’Occidente, della Cortina di ferro conficcata nella città più fremente d’Europa, Berlino. Decisero di non aver paura, di salire sul Muro e vedere se più in là c’era ancora un infinito da dove (ri)partire. Lì, dove Occidente e Oriente sembravano potersi incontrare, loro dissero “attenta, tesoro!” ma anche One: “siamo una cosa sola, ma non siamo uguali”. Il cammino era ancora lungo. Lo si capì quando la band tornò a suonare dal vivo con un tour innovativo e senza precedenti per impatto. Si apriva ufficialmente la fine del Ventesimo secolo, gli U2 chiamavano ZOOROPA quella Terra dei Sogni e per celebrarla degnamente si dichiaravano Numb – storditi – eppure si proponevano comunque di vederla anche come se fosse The First Time per essere, infine, ancora e sempre viandanti. Per The Wanderer chiamarono nientemeno che Johnny Cash. La sua voce chiudeva uno dei più ammalianti dischi firmati U2 e proiettava la band verso un futuro tra ciò che sono le pulsioni interiori più vere e preziose e quelle che sono le esigenze esteriori di convivenza nel mondo globalizzato di una strana, imprevedibile creatura chiamata rock: “Andai là fuori / In cerca di esperienza / Per assaggiare e toccare / E per provare tutto ciò / Che un uomo riesce a provare / Prima di pentirsi”. Provare a contraddirlo, un orizzonte del genere. DAVIDE SAPIENZA, OTTOBRE 2009