Corte penale internazionale e accettazione della giurisdizione

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Corte penale internazionale e accettazione della giurisdizione
Diritti umani e diritto internazionale, vol. 6 (2012)
DIRITTO PENALE INTERNAZIONALE
Corte penale internazionale e accettazione della giurisdizione da parte
della Palestina: incompetenza o subalternità al Consiglio di sicurezza?
Il 22 gennaio 2009 l’Autorità nazionale palestinese (ANP), agendo espresCorte penale internazionale,
samente in base all’art. 12, par. 3, dello
Ufficio del Procuratore, Situation in
Statuto di Roma, ha depositato presso
Palestine, nota del 3 aprile 2012
la Cancelleria della Corte penale inter(www.icc-cpi.int)
nazionale una dichiarazione con cui ha
accettato l’esercizio della giurisdizione sui crimini commessi nel proprio territorio a partire dal 1° luglio 2002 (Declaration Recognizing the Jurisdiction of the
International Criminal Court del 21 gennaio 2009). Ciò avrebbe potuto indurre
la Corte a occuparsi dei numerosi crimini di guerra e contro l’umanità perpetrati dalle forze armate israeliane durante l’intervento militare nella striscia di Gaza del dicembre 2008, come riconosciuto dalla stessa Procura (Letter to the UN
High Commissioner on Human Rights del 12 gennaio 2010, par. 1).
L’indicata disposizione permette agli Stati estranei allo Statuto, il cui consenso è
necessario ai fini dell’esercizio della giurisdizione in conformità all’art. 12, par. 2
(che condiziona l’operato della Corte, nei casi di attivazione su iniziativa di uno Stato parte o del Procuratore, alla partecipazione allo Statuto dello Stato territoriale o
di cittadinanza del reo), di accettare su base ad hoc l’esercizio della stessa limitatamente a una determinata situazione in cui uno o più crimini di competenza della
Corte sembrino essere stati commessi nel loro territorio o dai loro cittadini. Si tratta
di uno strumento già utilizzato in passato, in particolare dalla Costa d’Avorio.
Finalmente, il 3 aprile 2012, all’esito di un esame preliminare assai travagliato e partecipato, volto a verificare se i presupposti di cui all’art. 12 fossero soddisfatti (come momento prodromico alla successiva analisi delle altre condizioni di
procedibilità previste dagli art. 15 e 53) e dunque se la dichiarazione palestinese
giustificasse l’apertura di un’indagine in assenza dell’iniziativa di uno Stato parte
o del Consiglio di sicurezza, la Procura, ampiamente sollecitata a prendere una
decisione in modo da occuparsi al più presto del conflitto israelo-palestinese, si è
pronunciata in una nota, dichiarandosi incompetente a decidere in base allo Statuto (Situation in Palestine del 3 aprile 2012, d’ora in avanti: nota).
Sotto esame, l’idoneità della dichiarazione palestinese a fondare validamente la giurisdizione della Corte sulla situazione che ne forma oggetto, dunque
l’ammissibilità della medesima agli effetti dell’art. 12, par. 3. Data la lettera della disposizione e la controversa natura giuridica dell’entità politica palestinese, il
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problema principale è se quest’ultima possa essere considerata “a State which is
not a Party to this Statute” ai fini dell’applicazione dell’art. 12, par. 3.
In proposito, la Procura ha precisato che lo Statuto “provides no authority
for [it] to adopt a method to define the term “State” under article 12(3)” (nota,
par. 6), concludendo di non poter intraprendere alcuna azione in esecuzione
della dichiarazione. Ciò spetterebbe invece a “the United Nations Secretary
General who, in case of doubt, will defer to the guidance of General Assembly”,
nonché all’Assemblea degli Stati parti (ASP) (ivi, par. 5). Essa ha poi aperto a
una ripresa dell’attività sulla situazione palestinese, subordinandola all’eventuale determinazione della statualità della Palestina da parte appunto dell’ONU
o dell’ASP, o alla sottoposizione della situazione alla Corte dal Consiglio di sicurezza, in conformità all’art. 13, lett. b) (ivi, par. 8).
Ora, non si comprende perché la Procura abbia atteso più di tre anni per
giungere ad argomentare in modo tanto superficiale e succinto. Le motivazioni
addotte hanno carattere procedurale e non potevano non essere note già nel
gennaio 2009. Oltretutto la Procura avrebbe potuto – se non dovuto, stando a
quanto trapela dalla nota – interrogare il Segretario generale. Una simile attesa,
per una decisione così motivata, non può che essere dettata da contingenze di
carattere politico. Data l’incertezza nella comunità internazionale dello stato giuridico della Palestina, la Procura sembra essersi voluta liberare di una ‘patata
bollente’, in attesa che l’ONU si pronunci sulla domanda di ammissione quale
nuovo Stato membro, e aver risentito della prospettiva assai verosimile dell’esercizio da parte degli Stati Uniti della loro facoltà di veto all’interno del Consiglio di sicurezza (chiamato, ai sensi dell’art. 4, par. 2, della Carta, ad adottare una
raccomandazione al riguardo). Ciò si riflette nella scelta della Procura, dopo aver
indugiato tanto, di esprimersi proprio ora e trova riscontro nel testo della nota.
Inoltre, la decisione appare proprio quando all’ingresso della Palestina
nell’UNESCO, perfezionatosi nel novembre 2011, gli Stati Uniti hanno reagito
interrompendo il versamento dei contributi finanziari dovuti all’Organizzazione.
Prima di provare ad approfondire le riflessioni appena tratteggiate, conviene dare conto, anche solo brevemente, del problema giuridico sollevato dalla
dichiarazione palestinese. Due sono i profili, invero strettamente interrelati,
sotto cui esso si presta a essere affrontato. Uno di natura sostanziale, l’altro di
natura procedurale. Tralasceremo il primo – non senza darne qualche rapido
cenno – poiché è stato ampiamente sviluppato dalla dottrina, che ha già assunto
pressoché tutte le posizioni sostenibili, spesso influenzate dalle inclinazioni politiche dei singoli autori. Analizzeremo invece il secondo, su cui la Procura si è
concentrata in prevalenza, giacché più funzionale al nostro discorso.
Ebbene, al di là dell’aspetto sostanziale – che induce a domandarsi cosa debba intendersi per “State” ai sensi dell’art. 12, par. 3, e a verificare se la Palestina
possa ricadere nella nozione così individuata – esaminato da alcuni autori accogliendo l’interpretazione letterale (D. Benoliel, R. Perry, “Israel, Palestine, and
the ICC”, in Michigan Journal of International Law 2010, p. 73 ss.; M.N. Shaw,
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“The Article 12(3) Declaration of the Palestinian Authority, the International
Criminal Court and International Law”, in Journal of International Criminal Justice 2011, p. 301 ss.), da altri seguendo l’interpretazione teleologica (G. Palmisano, “La Corte penale internazionale di fronte all’operazione “Piombo fuso” e al
problema della statualità della Palestina”, in I diritti dell’uomo 3/2009, p. 49 ss.; A.
Pellet, “The Palestinian Declaration and the Jurisdiction of the International
Criminal Court”, in Journal of International Criminal Justice 2010, p. 980 ss.; Y.
Shany, “In Defence of Functional Interpretation of Article 12(3) of the Rome
Statute”, ivi, p. 329 ss.), da altri ancora sostenendo, più condivisibilmente,
l’irrilevanza della questione della statualità (Y. Ronen, “ICC Jurisdiction over Acts
Committed in the Gaza Strip”, ivi, p. 3 ss.), è di primaria importanza ai nostri fini
tentare di capire quale sia l’organo (politico, giudiziario, inquisitorio o amministrativo) e/o l’autorità (interna o esterna alla Corte) competente a pronunciarsi e
con quali effetti. Ancorché in questa sede non sia possibile dare una risposta articolata ed esaustiva, proveremo a tessere per grandi linee le fila del ragionamento.
Al riguardo, le aporie e le incongruenze delle considerazioni della Procura
sono piuttosto evidenti. In assenza di espresse previsioni in materia, e al preteso
fine di assicurare una soluzione uniforme alla questione se un’entità politica costituisca uno Stato ai fini dell’applicazione dello Statuto, essa infatti ha equiparato –
sul presupposto che la nozione di Stato agli effetti della partecipazione allo Statuto, in base all’art. 125 (e quindi dell’attribuzione, in via automatica e definitiva,
della giurisdizione alla Corte), equivalga a quella di Stato legittimato ad accettare,
in via limitata e provvisoria, la giurisdizione della Corte nelle forme e con le modalità di cui all’art. 12, par. 3 (nota, par. 5-6) – la competenza ad accertare la sussistenza della giurisdizione in conformità all’art. 12, par. 3, con quella a determinare se un’entità costituisca uno Stato legittimato ad aderire allo Statuto ai sensi
dell’art. 125 (ivi, par. 6). Tuttavia, la Procura dimentica che una cosa è l’idoneità a
divenire parti dello Statuto, che ha come conseguenza (oltre a conferire poteri
giurisdizionali su base territoriale o personale) di attribuire agli Stati diritti soggettivi e obblighi giuridici nei confronti della Corte e degli altri contraenti, inquadrandoli in un sistema di poteri e responsabilità governato dallo Statuto; altra è
l’accettazione della giurisdizione come presupposto per l’esercizio della stessa ai
sensi dell’art. 12, par. 3. Una questione, la prima, è legata alla stipulazione dei
trattati. L’altra si atteggia invece a condizione per lo svolgimento da parte
dell’organo giudiziario delle funzioni accordate dal trattato istitutivo ed è strumentale alla sua attivazione (tant’è che l’art. 12, al par. 2, esige esplicitamente di
essere letto in combinazione con l’art. 13). Quest’ultima ipotesi comporta, per
l’entità ‘dichiarante’, l’assunzione del solo obbligo di cooperare con la Corte, in
conformità agli art. 86 e seguenti dello Statuto (v. l’art. 12, par. 3, ultima frase),
non anche ad esempio quello di contribuire al bilancio, in conformità all’art. 115.
Né implica l’acquisizione di prerogative all’interno dell’ASP, notoriamente deputata all’assolvimento di funzioni cruciali per la sopravvivenza della Corte.
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D’altronde, la stessa ANP si limita a impegnarsi a “cooperate with the Court […]
in conformity with Chapter IX of the Statute” (Declaration, cit.).
Ora, la prima questione va risolta nella logica del diritto dei trattati, come tale
esterna alla Corte, la seconda invece in quella interna al sistema giuridico introdotto dallo Statuto, il cui principale obiettivo è di porre fine all’impunità degli autori
dei crimini e dovrebbe quindi favorire anziché ostacolare l’esercizio dell’azione
penale. In tale direzione muove la prassi della Corte, che ha spesso dato prova di
forzare i dati ricavabili dallo Statuto anche a costo di sacrificare regimi preclusivi
esterni, la cui resistenza normativa li avrebbe resi in principio insuscettibili di essere accantonati (E. Cimiotta, “Immunità personali dei Capi di Stato dalla giurisdizione della Corte penale internazionale e responsabilità statale per gravi illeciti internazionali”, in Rivista di diritto internazionale 2011, p. 1083 ss.).
Ebbene, se la prima sembrerebbe rientrare nelle competenze del Segretario generale ai sensi dell’art. 125, la seconda no. A chi spetta allora decidere?
Alcuni autori indicano la Cancelleria, statutariamente preposta alla ricezione
delle predette dichiarazioni e pertanto nella medesima posizione del Segretario
generale in relazione agli strumenti di adesione agli accordi per i quali agisce in
qualità di depositario (D. Akande, “ICC Prosecutor Decides that He Can’t Decide on the Statehood of Palestine” del 5 aprile 2012, p. 2, in www.ejiltalk.org). Essa sembrerebbe dover valutare almeno in prima battuta se accettare dichiarazioni
provenienti da entità territoriali che pretendono di essere considerate come Stati,
sotto l’autorità dei giudici ai sensi dell’art. 19 dello Statuto e della regola 60 del
Regolamento di procedura e prova (RPP). Inoltre, andrebbe tenuto conto della
regola 44 del RPP, che accorda un ruolo in proposito esclusivamente alla Cancelleria, come pure del fatto che si tratta di verificare la ricevibilità della dichiarazione come momento attributivo della giurisdizione, precedente l’attivazione. Infine,
dopo aver confermato di aver ricevuto la dichiarazione palestinese, in attuazione
della regola 44, par. 2, la stessa Cancelleria ha fatto salva, vista l’incertezza che caratterizza lo stato giuridico dell’ANP, ogni “judicial determination on the applicability of article 12, paragraph 3” (Palestinian National Authority del 23 gennaio
2009). Difficilmente per “judicial determination” può intendersi una delibera del
Segretario generale, dell’Assemblea generale o dell’ASP.
Se la competenza della Cancelleria appare incontestabile, quanto meno a livello amministrativo, qualche problema emerge invece dall’analisi del regime giuridico che sovraintende all’attività della Procura. Nel regolarne le incombenze in
vista dell’apertura di un’indagine, l’art. 15, in base al quale la Procura ha dichiarato di aver agito nel caso in esame, sembrerebbe negarle ogni prerogativa. Vi è
prescritto che possa iniziare a investigare d’ufficio (par. 1) e che a tal fine dovrà
limitarsi a verificare la fondatezza delle informazioni ricevute (par. 2). Ne consegue che, una volta riscontrata, per la serietà delle medesime, una “reasonable basis to proceed with an investigation”, essa dovrà chiedere alla Camera preliminare
l’autorizzazione a procedere (par. 3). Spetta a quest’ultima invece, prima di rilasciare l’autorizzazione, accertare – oltre a quanto precede – che il caso “appears
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to fall within the jurisdiction of the Court”, senza pregiudizio per le successive
decisioni delle altre Camere, proprio riguardo alla giurisdizione della Corte sul
caso (par. 4). La lettera della disposizione sembrerebbe militare in favore
dell’attribuzione al solo impianto giudiziario, non anche alla Procura, del compito
di accertare la giurisdizione in relazione a una determinata situazione. Potrebbe
aggiungersi che le dichiarazioni di cui all’art. 12, par. 3, si limitano a fornire un
titolo di giurisdizione alla Corte, non attivando al contempo quest’ultima sulle situazioni che ne formano oggetto, per cui è necessario che siano seguite, come
prescritto dall’art. 13, lett. c), dall’iniziativa autonoma del Procuratore in base appunto all’art. 15. Pertanto, nel caso in esame, non è chiaro se la Procura si trovasse nella circostanza disciplinata dall’art. 15, poiché non stava valutando se dare il
via alle indagini, come momento di attivazione della Corte, ma se la dichiarazione
palestinese fosse ammissibile, come momento diverso ancorché connesso. Del
resto, neppure sono state seguite le modalità previste dall’art. 15, par. 6, e dall’art.
53, par. 2 (come specificate dalle regole 49, 105 e 106) a proposito della decisione
di non sottoporre alla Camera preliminare una richiesta di autorizzazione a investigare, che avrebbero voluto la contestuale comunicazione, ai giudici e a chi ha
fornito le informazioni, della decisione e delle sue motivazioni. Quest’ultima è
contenuta in una mera nota, per giunta priva di protocollo, non in un provvedimento strutturato e formalizzato, teso all’archiviazione.
A ben vedere, tuttavia, oltre al fatto che la Procura ha sempre manifestato
l’intenzione di affrontare la questione di giurisdizione sollevata dalla dichiarazione
palestinese (v. Summary of Submissions on whether the Declaration Lodged by
the Palestinian National Authority Meets Statutory Requirements del 3 maggio
2010, par. 11), se la giurisdizione non apparisse fondata già nel corso dell’esame
preliminare regolato dall’art. 15, essa non potrebbe avvalersi di una “reasonable
basis to proceed”. Essendo chiamata a verificarne l’esistenza, la Procura dovrebbe
necessariamente constatare che sia stato commesso un crimine ricadente nella
competenza materiale e temporale della Corte. L’art. 53, par. 1, lett. a), poi, le
impone, al fine di ritenere giustificato iniziare a indagare in base allo Statuto, di
riscontrare basi ragionevoli per ritenere che “a crime within the jurisdiction of the
Court has been or is being committed”. Non vi è motivo per negare alla nozione
di “jurisdiction” le dimensioni territoriale e personale. Peraltro, qualificata in questi termini l’ammissibilità della dichiarazione palestinese, la Procura avrebbe potuto sollecitare l’intervento della Camera preliminare, in conformità all’art. 19,
par. 3 e 6. La decisione eventualmente resa al riguardo avrebbe poi potuto essere
impugnata davanti alla Camera d’appello, in conformità all’art. 82.
In ogni caso, l’assenza di un meccanismo statutario per determinare se
un’entità politica costituisca “a State which is not a Party” agli effetti dell’art. 12,
par. 3, non significa che il problema debba essere risolto altrove, come sostiene la
Procura. Si tratta di una questione di fatto, logicamente preliminare alla valutazione delle altre condizioni di procedibilità. Come tale, ancorché il regime normativo
di riferimento possa sembrare ambiguo, essa può e deve essere esaminata innanzi-
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tutto dal Procuratore (G. Palmisano, op. cit., p. 50; Y. Ronen, op. cit., pp. 22-23;
M.N. Shaw, op. cit., p. 303), poi eventualmente dai giudici nei vari stati e gradi del
procedimento. Del resto, sebbene sulle prime abbia declinato la propria competenza, esso in qualche misura ha effettuato una valutazione di merito, interpretando (impropriamente, secondo alcuni: W. Schabas, “The Prosecutor and Palestine”
dell’8 aprile 2012, p. 3 ss., in www.humanrightsdoctorate.blogspot.it) determinati
elementi provenienti dall’attività dell’ONU riguardo allo status della Palestina, per
arrivare a negarle la qualità di Stato agli effetti dell’art. 12 (par. 7 della nota).
Qualunque sia il contenuto normativo delle previsioni analizzate in precedenza, nello stato in cui versava il procedimento la portata della giurisdizione
andava determinata in modo soltanto sommario e provvisorio. L’art. 53, par. 1,
esige che la Procura rilevi solo l’esistenza di una “reasonable basis” per ritenere
la giurisdizione sussistente; mentre l’art. 15, par. 4, impone alla Camera preliminare di accertare che il caso “appears to fall” nella competenza della Corte. Nessuno dei due organi è allora chiamato, neppure con riguardo alla dichiarazione
palestinese, a determinarne in modo definitivo l’ammissibilità. In passato la
Camera preliminare ha chiarito che lo standard probatorio richiesto dall’art. 15,
par. 4, “does not require that the conclusion reached on the facts be the only
possible or reasonable one”; al contrario, “it is sufficient […] to prove that there
is a reasonable conclusion alongside others (not necessarily supporting the same
finding), which can be supported on the basis of the evidence and information
available” (Decision Pursuant to Article 15 of the Rome Statute on the Authorization of an Investigation into the Situation in the Republic of Kenya, ICC-01/0919 del 31 marzo 2010, par. 33). Ne deriva che, anche laddove la Camera avesse
ritenuto ragionevole l’inammissibilità della dichiarazione palestinese, essa sarebbe stata comunque tenuta a concedere l’autorizzazione qualora avesse ritenuto al
contempo ragionevole l’ammissibilità. Così, se il Procuratore avesse prodotto
(anche assieme ad elementi di segno contrario) informazioni tali da poter ragionevolmente ricavare che la Palestina è uno Stato, in generale o ai soli fini
dell’art. 12, par. 3, tale standard sarebbe stato soddisfatto. Tuttavia, pur essendo
al corrente dei criteri di valutazione che la Camera avrebbe adottato (Draft Policy Paper on Preliminary Examinations del 4 ottobre 2010, par. 45), pur essendo dunque consapevole che con ogni probabilità quest’ultima avrebbe autorizzato lo svolgimento delle indagini (se non altro per il materiale che avrebbe potuto
essere allegato alla richiesta di autorizzazione: oltre al noto rapporto della Commissione di inchiesta dell’ONU sul conflitto a Gaza del settembre 2009, da cui
traspare ogni “reasonable basis” della consumazione dei crimini, una serie di pareri presentati da giuristi, alcuni dei quali, autorevolmente sostenuti, concludono
in favore della giurisdizione della Corte), la Procura si è dichiarata incompetente. A nostro avviso ciò denota la vena politica del suo operato.
Nella medesima direzione muove poi il fatto che sia stato ritenuto competente il Segretario generale, nella sua funzione di depositario dello Statuto.
Dando conto della prassi seguita riguardo ad accordi aperti alla partecipazione
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di “all States”, in assenza di ulteriori specificazioni (ossia di previsioni analoghe
a quelle contenute negli art. 81-83 della Convenzione di Vienna sul diritto dei
trattati), la Procura ha ricordato che nei casi in cui chi intende partecipare abbia
uno status giuridico controverso il Segretario è solito rimettersi all’Assemblea
generale, chiamata a determinare quali entità siano suscettibili di ricadere nella
“all States formula” impiegata dall’accordo in causa, ancorché non rientrino nelle categorie enumerate dall’art. 81 della Convenzione di Vienna (UN Doc.
ST/LEG/7/Rev. 1, par. 81-83). Tuttavia, si osservi, il Segretario generale usa seguire questa prassi solo riguardo ad accordi che siano stati “adopted by the General Assembly” (ivi, par. 81), in ordine ai quali la determinazione della statualità di entità dalla natura incerta “would fall outside his competence”, con la conseguenza che, in tali ipotesi, esso “would be able to implement it only if the
General Assembly provided him with the complete list of the States coming within the formula” (ivi, corsivi aggiunti). Il coinvolgimento dell’Assemblea generale sembrerebbe dipendere dalla circostanza che l’accordo sia stato “adopted”
dalla medesima. Tuttavia, nel caso di un accordo esterno all’ONU, qual è lo Statuto di Roma, concluso nell’ambito di una conferenza intergovernativa autonoma, ciò non sembra giustificarsi. Per regolare le vicende legate alla sua esistenza, interpretazione ed efficacia, esso ha istituito un organo assembleare (art.
119, par. 2), rappresentativo degli Stati parti: l’ASP, che stando alla logica riportata in precedenza dovrebbe potersi occupare dei casi dubbi. Si tratta di un organo espressione della base sociale dell’accordo istitutivo della Corte, una base
notoriamente diversa da quella della Carta di San Francisco, rappresentata
nell’Assemblea generale. Pertanto, anche sotto questo profilo il ragionamento
della Procura non pare inattaccabile, poiché rimette agli organi dell’ONU e solo
“in due course” all’ASP (il che sembra porla in secondo piano, tant’è che per la
Procura essa “could also […] decide to address the matter”; nota, par. 5) la valutazione dell’ammissibilità della dichiarazione palestinese, quando invece
l’Assemblea generale non ha alcuna competenza e, data l’incertezza dello stato
giuridico della Palestina, il Segretario generale, se mai dovesse interessarsi al
problema, verosimilmente lo riterrà per prassi “outside his competence”. A
quest’ultimo non resterebbe allora che rivolgersi all’ASP, formata in larga parte
da Stati che hanno già riconosciuto l’esistenza della Palestina nei loro rapporti
bilaterali. Da tale angolazione, sembra che la Procura abbia voluto scongiurare
il ‘rischio’ di mettere l’ASP nelle condizioni di pronunciarsi, anticipando il Consiglio di sicurezza, ed eludere la prospettiva di entrare in collisione con esso.
Ciò avrebbe potuto stimolare l’uso del potere di deferral previsto dall’art. 16
dello Statuto, in caso (assai probabile) l’ammissione della Palestina all’ONU sia
negata proprio per volontà di detto organo.
La deferenza verso il Consiglio di sicurezza traspare infine dai paragrafi 7 e 8
della nota. Nel primo il Procuratore (superando l’asserita incompetenza) enfatizza la circostanza, evidentemente ultronea (per i motivi esposti da W. Schabas,
op. cit., p. 3), che il Consiglio non abbia ancora preso posizione sull’ingresso del-
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la Palestina nell’ONU, ammettendo come ciò influenzi negativamente la sua
percezione dell’attuale status dell’ANP agli effetti dell’art. 12, par. 3 (nota,
par. 7). Nel secondo, ‘rassicura’ che potrà tornare in futuro a occuparsi dei crimini perpetrati nei territori palestinesi qualora il Consiglio dia attuazione
all’art. 13, lett. b). Ora, oltre all’assai scarsa probabilità che questa evenienza si
concretizzi (per il veto pressoché certo degli Stati Uniti), non è chiaro se tale disposizione esiga che la situazione deferita coinvolga un territorio statale.
D’altronde neppure è chiaro se uno Stato contraente, agendo ai sensi dell’art. 13,
lett. a), possa rinviare alla Corte una situazione relativa a entità non qualificabili
come Stati in base al diritto internazionale o al solo Statuto (poiché sembrano
sopravvivere i problemi inerenti all’idoneità del consenso eventualmente prestato all’esercizio della giurisdizione in via provvisoria o definitiva; altrimenti, tra
l’altro, il ragionamento della Procura non avrebbe senso). La questione meriterebbe di essere approfondita. In ogni caso, non si comprendono le ragioni di una
simile disparità di trattamento. L’equivoco in cui il Procuratore cade sta nel qualificare il referral come un atto di conferimento della giurisdizione (nota, par. 4).
A stretto rigore, invero, è lo Statuto di Roma ad avere un simile effetto. Esso si
preoccupa altresì di regolarne l’esercizio, permettendo il superamento dei limiti
personali e territoriali stabiliti dall’art. 12, par. 2. Al contrario, l’art. 13, lett. b),
configura unicamente un meccanismo di attivazione della Corte. Oltretutto, la
base normativa dell’imposizione della giurisdizione a uno Stato (e, in caso, a
un’entità non statale) che non abbia aderito allo Statuto (né accettato altrimenti
la competenza della Corte) risiede nella sua partecipazione alle Nazioni Unite e
dunque nell’obbligatorietà nei suoi confronti delle decisioni prese dal Consiglio
in base al cap. VII, qual è quella di referral. Non a caso, l’art. 13, lett. b), subordina l’esercizio del potere di rinvio all’applicazione del cap. VII, non anche del
cap. VI. Lo Statuto, infatti, non può per forza propria imporre l’azione penale
della Corte a Stati (e, di nuovo, entità non statali) terzi senza il loro consenso.
Data l’estraneità della Palestina all’ONU – almeno fin quando il Consiglio di sicurezza non vorrà diversamente (sic!) – non si vede come tale imposizione possa
prodursi, in particolare riguardo ai crimini commessi da cittadini palestinesi.
Al di là se fosse o meno legittimo accogliere la dichiarazione palestinese, il
fatto in sé che la Corte non abbia deciso testimonia ancora una volta la sua soggezione al Consiglio di sicurezza. Il rischio di un coinvolgimento in controversie
politiche altamente sensibili (che avrebbe potuto aprire la strada ad analoghe
dichiarazioni da parte di entità impegnate a rivendicare la propria indipendenza) e di un’ingerenza nel processo di pace in Medio Oriente, tanto temuto al
contempo da sostenitori e oppositori dell’ammissibilità della dichiarazione (Y.
Ronen, op. cit., p. 21 ss.; M.N. Shaw, op. cit., pp. 323-324), si sarebbe verificato
in ogni caso. Tuttavia, la non decisione in commento è ancora più inaccettabile,
perché tradisce l’aspettativa della punizione degli autori dei crimini, a qualsivoglia Paese e a qualsivoglia rango dell’organizzazione interna appartengano.
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La novità (di cui neppure vale la pena sorprendersi) è che stavolta, diversamente dai casi di attivazione e ‘disattivazione’ su impulso del Consiglio di sicurezza, la Corte si è piegata autonomamente a tali dinamiche. Essa si riconferma
una Corte penale africana, riluttante a occuparsi dei reati perpetrati altrove, a
cominciare dal Medio Oriente, teatro di uno dei conflitti più duraturi e di una
serie di barbarie largamente documentate, per la cui repressione sarebbe nata! A
dispetto della retorica imperante sulla sua pretesa indipendenza, va preso atto
che l’attività – e soprattutto l’inattività – della Corte, piaccia o no, è condizionata
da considerazioni di natura politica, prim’ancora che dall’esigenza di promuovere
la giustizia penale internazionale. Né l’auspicata iniziativa del Consiglio può produrre gli effetti desiderati, poiché esso al momento non dispone dei poteri necessari per devolvere alla Corte la situazione palestinese nel suo complesso.
Emanuele Cimiotta