storia della letteratura inglese

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storia della letteratura inglese
Franco Marucci
STORIA DELLA
LETTERATURA INGLESE
DAL 1922 AL 2000
VOLUME V
TOMO I
IL MODERNISMO
LE LETTERE
INDICE DEL VOLUME QUINTO
dal 1922 al 2000
Tomo I
IL MODERNISMO
Parte prima
La letteratura interstiziale
p. 15
§ 1.
La letteratura interstiziale.
18
2-7.
SHAW dopo il 1921.
(§ 2. Dal Nobel al nonsense. Popolarità e declino di un drammaturgo senza
frontiere, p. 18. § 3. Saint Joan. La chiamata divina, un impensabile possibilismo, p. 23. § 4. Burlesche dei poteri costituiti, p. 27. § 5. Too True to
Be Good, p. 28. § 6. Altre stravaganze e apologhi sociopolitici, p. 30. § 7.
Ultimi drammi, p. 35).
37
8-11.
O’CASEY.
(§ 8. Le esplosioni della polveriera irlandese, p. 37. § 9. La trilogia dublinese, p. 40. § 10. Il corpo a corpo con il cattolicesimo, p. 45. § 11. Gli atti
unici, p. 50).
52
12.
55
13-16.
PRIESTLEY. RATTIGAN.
WELLS.
(§ 13. L’intellettuale poliedrico, nuovo e dilettantesco Leonardo, p. 55.
§ 14. Le incognite della scienza, p. 62. § 15. Le odissee del commesso,
p. 74. § 16. Tre intellettuali, alter ego davanti alla storia, p. 83).
91
17-22.
ARNOLD BENNETT.
(§ 17. L’album delle fotografie vittoriane, p. 91. § 18. Il provinciale nella
metropoli, p. 96. §§ 19-21. I romanzi delle cinque città [§ 19. Anna of the
Five Towns, p. 99. § 20. The Old Wives’ Tale, p. 102. § 21. Clayhanger, p.
109.]. § 22. I velleitari aggiornamenti del dopoguerra, p. 113).
118
23-28.
GALSWORTHY.
(§ 23. I funerali dell’aristocrazia, p. 118. § 24. Fuochi di paglia contro il fariseismo, p. 122. §§ 25-27. The Forsyte Saga [§ 25. La minaccia della sicurezza imprenditoriale, p. 125. § 26. Il malinconico calendario del
ricambio generazionale, p. 137. § 27. La nostalgia dei tempi cavallereschi,
p. 141]. § 28. Il teatro, p. 143).
147
29-38.
FORSTER.
(§ 29. Contro la falsità dei solchi educativi. Il ponte gettato tra le due culture, p. 147. § 30. Where Angels Fear to Tread. I cuori immaturi, p. 152.
8
INDICE
§ 31. The Longest Journey, p. 156. §§ 32-33. A Room with a View. [§ 32. I
cocciuti autoinganni di una turista alla ricerca di se stessa, p. 157. § 33. Il
soccorso dei «buoni uomini», p. 159]. §§ 34-36. Howards End [§ 34. Le tre
nazioni, p. 163. § 35. Chi erediterà l’Inghilterra?, p. 166. § 36. Il contadino inurbato riaccolto nel suo habitat, p. 168]. § 37. Maurice, p. 171. § 38.
A Passage to India. Le diversità inconciliate, p. 172).
p. 174
§§ 39-41.
BEERBOHM.
(§ 39. Rianimazioni dell’estetismo, p. 174. § 40. Gli esercizi di stile, p. 177.
§ 41. Zuleika Dobson e altri bozzetti, p. 180).
184
42-47.
CHESTERTON.
(§ 42. Il crociato contro gli ismi contemporanei, p. 184. § 43. Il mito della
taverna, p. 188. § 44. Eresia e ortodossia, p. 190. § 45. Le due fantasie sul
futuro e sul presente, p. 193. § 46. I racconti di Padre Brown, p. 196. § 47.
Altre opere narrative, p. 201).
203
48.
BELLOC. C. S. LEWIS. TOLKIEN.
210
49.
I POWYS.
215
50.
VERNON LEE.
220
51-58.
MAUGHAM.
(§ 51. Un umile autodidatta di mestiere, p. 220. § 52. Il solco naturalista.
Narrativa e teatro fino al 1914, p. 222. § 53. Of Human Bondage. Gli amari
amori, p. 225. § 54. The Moon and Sixpence. L’artista integrato e disintegrato, p. 229. § 55. Il teatro degli anni Venti, p. 230. § 56. Cakes and Ale.
Le sottili, caustiche, metabiografiche suggestioni della vita di Hardy,
p. 232. § 57. Il condono dell’adulterio, p. 234. § 58. I racconti, p. 238).
239
59.
CHESNEY, BUCHAN e SAKI e la «guerra dell’avvenire».
242
60.
I poeti giorgiani.
245
61.
La poesia della Grande guerra.
248
62.
OWEN.
254
63.
SASSOON.
258
64.
BROOKE.
265
65-66.
EDWARD THOMAS.
(§ 65. Diari e prose di prima della guerra, p. 265. § 66. Il canzoniere poetico, p. 271).
275
67.
ROSENBERG.
280
68.
Altri poeti della Grande guerra.
285
69.
GRAVES.
291
70.
MASEFIELD.
INDICE
p. 294
§ 71.
298
72.
STEVIE SMITH.
299
73.
La musica edoardiana.
DE LA
9
MARE.
Parte seconda
Il modernismo
313
74.
L’Inghilterra dal 1922 al 1945.
317
75.
Il modernismo.
322
76.
L’imagismo.
326
77-85.
YEATS dopo il 1919.
(§ 77. Il libro e l’immagine, p. 326. § 78. La pseudofilosofia lunare, p. 332.
§ 79. La coda di The Wild Swans at Coole, p. 339. § 80. Michael Robartes
and the Dancer. Lo sposalizio del corpo e dello spirito, p. 343. § 81. The
Tower. Il secondo avvento, p. 348. § 82. The Winding Stair and Other
Poems. L’idea platonica e la rivalsa dell’umano, p. 353. § 83. From A Full
Moon in March, p. 357. § 84. I testamenti, p. 358. § 85. Il teatro, p. 364).
372
86.
EDITH SITWELL.
377
87.
OSBERT e SACHEVERELL SITWELL.
379
88.
FIRBANK.
389
89-91.
WYNDHAM LEWIS.
(§ 89. Il fragore del vorticismo, p. 389. § 90. Quel solitario vulcano della
Destra, p. 394. § 91. La trilogia dell’oltremondo, p. 398).
401
92-105.
T. S. ELIOT.
(§ 92. Quali radici si abbarbicano, p. 401. § 93. La domanda soverchiante,
p. 410. § 94. Prufrock and Other Observations. Il momento alla sua crisi,
p. 415. § 95. Gerontion e le poesie del 1920, p. 425. §§ 96-97. The Waste
Land [§ 96. L’orchestrazione, p. 433. § 97. Il testimone del pastiche,
p. 440]. § 98. The Hollow Men e Ash-Wednesday, p. 445. § 99. Poesia nonsense, minore e incidentale, p. 450. §§ 100-101. Four Quartets [§ 100. La
musica del tempo, p. 452. § 101. L’alfa e l’omega, dal roseto al roveto,
p. 460]. § 102. Il teatro, azione liturgica e propedeutica dell’espiazione,
p. 467. § 103. Il sistema letterario eliotiano, p. 476. § 104. Gli altri saggi
letterari, p. 484. § 105. Il paziente inglese, p. 485).
491
106.
BUNTING.
494
107.
CHRISTOPHER FRY.
497
108.
WHITING.
497
109-122.
LAWRENCE.
(§ 109. Il messia del risveglio fallico, p. 497 . § 110. Primi romanzi, p. 504.
10
INDICE
§ 111. Sons and Lovers. Lo scenario minerario e il dilemma edipico, p. 508.
§ 112. I racconti, p. 513. § 113. The Rainbow. Analisi e amministrazione
delle pulsioni, p. 515. § 114. Women in Love. L’agone tra la vita e la morte,
p. 521. § 115. The Lost Girl, p. 530. § 116. Aaron’s Rod. I dilemmi di un
viandante biblico, p. 532. § 117. Kangaroo. L’apologo australiano, p. 537.
§ 118. The Plumed Serpent. Nel Messico immaginario, p. 542. § 119. Lady
Chatterley’s Lover. I tabù sfatati, p. 550. § 120. Racconti e romanzi brevi
posteriori, p. 555. § 121. La poesia, p. 556. § 122. Profezia e pregiudizio
nella saggistica mediana e ultima, p. 562).
p. 568
§§ 123-124.
DOROTHY RICHARDSON.
(§§ 123-124. Pilgrimage [§ 123. L’anteprima inglese del monologo interiore, p. 568. § 124. La meta dell’autoconoscenza, p. 573]).
576
125-127.
FORD MADOX FORD.
(§ 125. Il restauratore dell’ordo antico dalla trincea del modernismo formale, p. 576. § 126. The Good Soldier. La crisi della cavalleria, p. 580.
§ 127. Parade’s End. Una coscienza nella Grande guerra, p. 584).
592
128-151.
JOYCE.
(§ 128. Il bygmester del palazzo dell’arte, p. 592. § 129. Biografia, p. 600.
§ 130. I saggi di critica ed estetica, p. 604. § 131. Le Epiphanies, p. 607.
§ 132. La poesia, p. 608. §§ 133-135. Dubliners [§ 133. La tessitura simbolica, p. 611. § 134. La paralisi nelle tre età umane, p. 615. § 135. The
Dead. Il gioco dei punti cardinali, p. 619]. §§ 136-138. A Portrait of the Artist as a Young Man [§ 136. Le prime due stesure, p. 623. § 137. L’«impossibile» perfezione della fede, p. 626. § 138. Ambivalenze joyciane sul
«giovane artista», p. 630]. § 139. Joyce giornalista e conferenziere, p. 632.
§§ 140-141 Exiles [§ 140. Contorsioni joyciane sul marito tradito, tradibile,
traditore, p. 634. § 141. Verso un nuovo alter ego, p. 635]. §§ 142-147.
Ulysses [§ 142. L’endogenesi, p. 637. § 143. Fili nel labirinto, p. 642. §
144. Protagonista la lingua, p. 648. § 145. Stephen Dedalus contro tre madri
e un padre, p. 651. § 146. Bloom, il perfettamente umano, p. 653. § 147.
Molly Bloom. Il più che umano, p. 657]. §§ 148-151. Finnegans Wake
[§ 148. Premesse e anticipazioni orientative, p. 658. § 149. La storia circolare, p. 664. § 150. La mimesi del sogno? Pro e contra, p. 667. § 151. La
parodia del Sinedrio, p. 671]).
675
§ 152.
677
153-156.
STEPHENS. O’BRIEN.
MANSFIELD.
(§ 153. Fuori dall’Eden, ma verso il purgatorio, p. 677. § 154. In a German
Pension. Schizzi della stazione termale, p. 685. § 155. Bliss and Other Stories. Impianto e casistica esistenziale del racconto mansfieldiano, p. 688.
§ 156. The Garden Party. Riti sacrificali di passaggio, p. 691).
694
157-168.
WOOLF.
(§ 157. Gli esorcismi dell’incompiuto, p. 694. § 158. Le ore woolfiane in
biblioteca, p. 701. § 159. Biografia, p. 708. § 160. The Voyage Out, p. 712.
§ 161. Night and Day, p. 715. § 162. Jacob’s Room. Il romanzo come biografia scheggiata, p. 716. § 163. Mrs Dalloway. Il senso della fine, p. 720.
§ 164. To the Lighthouse. La parabola metafisica dell’approdo, fallito, dilazionato, compiuto, con perdite umane, p. 724. § 165. Orlando. La cavalcata storica dell’ermafrodita, p. 729. § 166. The Waves. Sei monologanti,
stereofonie di un unico autore, p. 732. § 167. The Years. L’affollato caleidoscopio dei tempi moderni, p. 735. § 168. Between the Acts. I sortilegi
del domani, p. 737).
INDICE
p. 740
§ 169.
744
170-174.
11
Bloomsbury. ROGER FRY. STRACHEY.
COMPTON-BURNETT.
(§ 170. I panni sporchi del vittorianesimo, p. 744. § 171. Gli esordi, p. 751.
§ 172. La nemesi della tirannia parentale, p. 753. § 173. Romanzi della servitù e delle tre generazioni, p. 757. § 174. Agre e acri commedie familiari,
p. 760).
762
175.
GARNETT.
763
176.
Poeti della seconda guerra mondiale.
Indici
771
790
Indice dei nomi
Indice analitico
PARTE PRIMA
LA LETTERATURA INTERSTIZIALE
§ 1. La letteratura interstiziale. Ogni studio di segmenti letterari di apprezzabile ampiezza comporta da parte del critico e dello storico un gioco di spostamenti
in avanti e indietro degli autori in campo, come lo stratega dispone sulla mappa le
sue forze prima o oltre una certa linea, o lo scacchista le sue pedine sulla scacchiera. La categoria della letteratura «interstiziale» non esiste nominalmente nelle
periodizzazioni in uso della letteratura inglese novecentesca1. Coniamo dunque
questo termine per collocare e studiare alcuni scrittori e alcuni testi o gruppi di
testi che non abbiamo potuto o voluto trattare nel volume precedente di questa Storia, e per le ragioni che qui di seguito chiariremo. La loro inclusione qui si giustifica per questioni di baricentro specifico di questi scrittori, o per la loro
ritardatarietà rispetto ad altri e alla corrente o alle correnti principali della letteratura inglese dopo il 1921. Invece che etichettarli nella letteratura interstiziale,
avremmo appunto potuto tranquillamente identificarli come i ritardatari, o anche
gli inclassificabili. Ipso facto sono scrittori nati e cresciuti in epoca vittoriana, e il
cui segno più marcato intercorre ben prima di quello spartiacque del 1921, benché
continuino a produrre anche dopo in una specie di deriva: scrittori perciò stesso
edoardiani e anche giorgiani per anagrafe, ma esordienti prima e produttivi dopo
questi crinali; e scrittori che però non si sono messi al passo, non hanno innovato,
o innovato a tal punto da poter essere annoverati tra i modernisti; e cui si farebbe
un torto a classificarli come pieni scrittori novecenteschi, ma anche a relegare tra
quelli tout court vittoriani.
2. La triade principale, e più scomoda dal punto di vista della classificazione,
di questi scrittori tutti longevi a cavallo del 1921, è quella dei romanzieri, tra loro
legati e affiatati, Wells, Bennett e Galsworthy. Questa triade sembra partorita da un
demiurgo intelligente, perché i membri che la costituiscono sono come fratelli gemelli o hanno età scalate di pochi anni o addirittura mesi. Nascono tutti e tre nel
1866 o nel 1867, sono dei lavoratori infaticabili, autori di decine e decine se non
di centinaia di libri2, e una sincronia quasi perfetta fa sì che esordiscano a pochi
1
La storia inglese fino al 1921 è trattata in IV, § 250, cui rinviamo.
Esteriormente il discrimine sta anche qui: Bennett e Galsworthy sono scrittori di saghe, lavorano in
estensione e non nel romanzo breve.
2
I. LA LETTERATURA INTERSTIZIALE
16
mesi dalla fine del secolo, e che muoiano, almeno due di essi, a poca distanza, coperti di fama e di gloria. Sennonché la crema dell’innovazione faceva di ogni erba
un fascio accomunandoli nella scomunica di romanzieri scadenti e superficiali,
forti della constatazione oggettiva, che ancora li collega, che la produzione postbellica di tutti e tre registra uno scadimento nell’anonimato e anche nella letteratura di consumo. Ma una madre piuttosto inquieta e motoria fece sì che vedessero
la luce in tre zone diverse dell’Inghilterra e seguissero percorsi formativi apparentemente divergenti. Wells era praticamente londinese, e quasi proletario di origini; Bennett e Galsworthy, figli di avvocati, giunsero a Londra per fare gli scrittori,
rispettivamente dalle Midlands industrializzate e dall’entroterra collinare del Surrey. Wells e Bennett erano in costante rapporto epistolare, e il primo scriveva al secondo lettere lievemente accondiscendenti di stima all’uscita di quasi ogni
romanzo, cui Bennett rispondeva inchinandosi, epperò con qualche sempre caustica
ironia. Galsworthy dal canto suo aveva con Bennett stretti rapporti epistolari e di
frequentazione, e più sporadico era il legame con Wells; ma il trait d’union di tutti
e tre era Conrad. Orwell fu uno studioso e lettore vorace almeno di due di essi, e
il primo a notarne impressionisticamente la matrice comune, la quale a sua volta
contrastava con il tipo dello scrittore più giovane di cui Lawrence e Joyce potevano
essere i rappresentanti: lo scrittore nuovo, esordiente negli anni Venti, lavorava con
il cesello, era meno prolifico, più scrupoloso, più fanatico della forma narrativa,
meno ottimista; era soprattutto meno colto, disponeva di inferiore bagaglio ideologico (ma questo non può valere per Wells). Era la stessa differenza che intercorre tra Flaubert e Dickens3.
3. Orwell aveva insomma capito tutto, che lo scrittore di riferimento di questa
triade è Dickens; o quanto meno che l’area più ampia cui guardano, e la tradizione,
è quella del realismo ottocentesco. I tre scrittori non possono tuttavia essere passati sotto silenzio, né tanto meno sottovalutati e dileggiati come fecero in blocco i
contemporanei e gli immediati posteri, esponenti come Orwell dell’intellighenzia
radicale e inconfessatamente bloomsburyana. La mole della loro opera è impressionante, ed è indubbiamente un dato antimoderno e antimodernista. Wells, il meno
dotato come scrittore puro, è però il reinventore della distopia vittoriana, e lascia
il vuoto dietro di sé benché dopo il 1900 non sapesse trovare un valido ricambio e
la sua scrittura «peters out»4. Bennett è la penna più fine del terzetto, impareggiabile nella commedia patetica del villaggio periferico in fase di transizione e nella
burlesca eroicomica, anche se lo si può definire un grandissimo imitatore e anche
se ha scritto un solo e sia pur sommo capolavoro, contornato da svariati romanzi
scadenti e di cassetta. Galsworthy, che non scriveva per soldi, raggiunse l’apice
della fama quando quella di Bennett era in discesa, ai primi anni Venti, ma con
una saga che sembrava mirata a compiacere la borghesia abbiente. Galsworthy è
interstiziale per il tema, la transizione al moderno, ma da una posizione nostalgica; altri suoi dati, come il senso dell’assenza del pubblico e la caduta dello spirito seriale, sono già più modernistici. Galsworthy non aveva, a parole, alcuna
3
4
OCE II, 231.
«si spegne progressivamente».
§ 1. LA LETTERATURA INTERSTIZIALE
17
collusione con il modernismo formale, e ne parlava dopo il 1922 con giudizi molto
sbrigativi e impazienti5; la prassi dice però di una smania di adeguarsi ai nuovi
strumenti espressivi; in particolare gli dovremo attribuire una sua forma orecchiata,
edulcorata, e più generica di stream of consciousness, ma pur sempre di quello.
Forster giudicava Galsworthy uno di quegli scrittori che «avevano tratto le loro
impressioni e formato i loro atteggiamenti in un periodo precedente, prima della
prima delle due guerre»6.
4. Ma molti altri ve ne sono, di scrittori, il cui statuto e la cui collocazione temporale può essere sub judice, come un Chesterton, un de la Mare, un Beerbohm,
un Firbank. Emblematici i casi di Beerbohm e Chesterton. Il primo è un esteta che,
essendo nato un poco in ritardo, non è più confitto armi e bagagli nel movimento
estetico, e da membro giovane lo guarda e ne fa il testimone posteriore; standone
defilato lo può osservare sotto il velame della nostalgia, più spesso della parodia
riduttiva. Chesterton, coetaneo di Beerbohm, avrebbe forse ricalcato le sue posizioni se avesse frequentato l’università di Oxford, la fucina degli esteti. Fu a loro
vicino perché ricevette un’istruzione pittorica; meditò regolarmente il suicidio,
forse fu toccato brevemente dall’omosessualità, carezzò il paganesimo; ma attuò
alla fine una sua rivoluzione. Il suo amore e la sua nostalgia per il Medioevo, che
poterono animarsi sulla spinta di Morris, non hanno più alcunché della gentilezza
preraffaellita, ma semmai l’esuberanza e la sguaiataggine di Dickens. Il primo ha
qualche raro addentellato, il secondo nessuno con il modernismo, anche se è questo un ismo che Chesterton, il crociato contro gli ismi, non combatte. Un polo aggregativo del fine secolo e dei primi del nuovo è dunque il cattolicesimo, come
risposta di vita a varie ricette diffuse e seguite, come il socialismo. Da Chesterton
e da Belloc e da Ford, ma soprattutto dai primi due, nacque un cattolicesimo bellicoso e belligerante, integralista, vissuto in regime di coerenza. Altri cattolicesimi
posteriori saranno solo freddamente ideologici, non esuberanti ricette di vita, come
quelli di Waugh e di Greene. Un altro piccolo gruppo di inclassificabili è dei poeti
morti nella Grande guerra, i quali costituiscono di fatto e per converso non già dei
ritardatari ma, in molti casi, degli anticipatori. Sono coetanei degli altri che abbiamo nominato, producono naturalmente e scrivono prima del 1921, ma vengono
pubblicati dopo questa data, e hanno un’influenza e una risonanza postuma e quindi
posteriore. Ma sono interstiziali anche scrittori che per la brevità della loro vita
sono solo edoardiani – il regno durò solo nove anni – o giorgiani, entro il 1921
medesimo o poco oltre. I confini e le demarcazioni temporali degli scrittori sono
appunto sfasate rispetto alle periodizzazioni. In tutto questo un ulteriore fenomeno
da studiare caso per caso è l’energia metamorfica eventuale. Vi sono scrittori longevi che si rigenerano, altri che rimangono uguali a se stessi e si ripetono nell’arco
biografico. Wells attraversa tre fasi, ma per certi aspetti sono regressioni e involuzioni e non avanzamenti, perché la sua prima arte apre effettivamente nuovi territori, ma le altre due sono l’una la riedizione e la riesumazione della commedia
sociale più autenticamente vittoriana e l’altra una ripresa del conversation piece e
5
6
Cfr. la biografia di GINDIN 1987, 477-478, cit. in § 23.1, Bibl.
Two Cheers for Democracy, Harmondsworth 1970, 288 (I ed. 1951).
I. LA LETTERATURA INTERSTIZIALE
18
del romanzo di idee. Due scrittori che non possono essere studiati sotto questa etichetta, perché non sono i tributari di nessuna, sono infine Yeats e Shaw dopo il
1919 e il 1921. Yeats muta pelle molto più di Shaw, ma non si può dirlo davvero
un ritardatario.
5. Il nostro criterio ordinatore sarà quello delle date di nascita, con il terminus
a quo, empiricamente fissato, nel 1860. Il discrimine della letteratura interstiziale
è in realtà dettato dal fiuto, dalla reazione istantanea, dallo sguardo d’insieme, dal
colpo d’occhio. Una demarcazione più intrinseca è quella fornita da quegli scrittori più inequivocamente moderni o modernisti che videro proprio questi superstiti
come il banco di prova e come un tipo di scrittura da cui ripartire, avendola scartata e superata: il più chiaro e netto di questi rifiuti è Mr. Bennett and Mrs. Brown
di Virginia Woolf 7, uno scritto non certo memorabile, anche proditorio e tutt’altro
che imparziale, che contiene implicitamente questa nostra categorizzazione della
letteratura interstiziale.
§ 2. Shaw dopo il 1921*. II/I. Dal Nobel al «nonsense». Popolarità e declino
di un drammaturgo senza frontiere. Saint Joan valse a Shaw il Nobel nel 1925 e
ne consolidò la fama di Grande Vecchio dell’Europa letteraria1; anzi, dopo Wilde,
dello scrittore inglese più esportabile ed esportato nel globo, da Londra a New
York e fino alle sponde del Levante. Strabilianti gli estremi di questa popolarità: i
suoi drammi restavano in cartellone per settimane e settimane, venivano quasi simultaneamente tradotti e rappresentati nelle principali lingue europee, e anche
dove non lo erano seminavano lo scalpore per il divieto della censura; la prima avveniva spesso addirittura fuori d’Inghilterra, e un festival gli fu creato su misura nel
1927 nella cittadina termale di Malvern. E presto i drammi vennero da lui ridotti,
e quindi resi ulteriormente popolari, per la radio e per il cinema. Fotografato, ritratto, scolpito (un busto di Rodin) in ruoli pubblici e pose intime, il drammaturgo,
che viveva in un bellissimo eremo immerso nel verde dello Hertfordshire, era ovunque acclamato, e come una delle tante vedettes vittoriane varcava periodicamente
gli oceani per presentarsi in America, in Sudafrica e in India; in Russia fece un
viaggio nel 1931 e fu ricevuto da Stalin. Era il genio teatrale per antonomasia, il
richiesto opinionista, l’intrattenitore che pure faceva pensare con le sue infinite
boutades, la voce di una certa Inghilterra (era da tutti assimilato come un inglese)
candida, pragmatica, agnostica, ma rispettosa delle religioni storiche da una posizione sincretistica, e il paladino di un socialcomunismo moderato, non massimalista, e debitamente inquinato da dosi di liberalismo classico. Era oltretutto un tipo
* Aggiungiamo alla Bibliografia data in IV, § 287, cui si rinvia, Shaw: An Autobiography
1898-1950: The Playwright Years, a cura di S. WEINTRAUB, New York 1970, e, dello stesso, The
Unexpected Shaw: Biographical Approaches to G.B.S. and His Work, New York 1982. Le prefazioni ai drammi saranno citate come Prefaces dall’ed. in un vol. Prefaces by Bernard Shaw, London 1938.
7
1
§ 158.1.
CRHE 300.
§§ 2-7. SHAW DOPO IL 1921
19
fisico inconfondibile: allampanato, il viso affilato era incorniciato da un crespo
barbone bianco sempre molto curato, la testa avvolta da una chioma corta e candidissima. Ma il tratto distintivo e proverbiale era un abbigliamento eccentrico da
Jaeger, con scarponcini con frangia e calzettoni di lana grossa a righe, calzoni e
giubba alla zuava e alpenstock. Sembrava in questi panni, a molti, un giulivo boyscout con l’elasticità di un atleta. Nel 1924 Shaw ebbe il pubblico riconoscimento
di Pirandello, e anche il drammaturgo tedesco Siegfried Trebitsch gli era un adepto
e lo traduceva2; alla morte nel 1950 scrisse per lui un deferente necrologio, oltre a
molti altri, Thomas Mann. La popolarità non è però intrinsecamente, sappiamo,
vera grandezza. In patria Eliot lo ricordava con la sua tipica, sibillina cautela; Yeats
in una delle rarissime note sul compatriota scorgeva il polo a lui opposto, l’assenza
del creatore; bella e franca la boutade del critico William Archer, che Shaw aveva
fatto così tanto rumore ma senza lasciar traccia3. A mo’ di contrappeso bisogna infatti subito rilevare che Shaw dopo il 1921 vive di rendita o quasi, e che i suoi
pochi drammi a tutto tondo (non più di nove), separati da altri di breve respiro,
benché avessero larghissimo successo immediato non sono sopravvissuti. In termini di valore assoluto e duraturo, il solo Saint Joan ha riscosso e riscuote un quasi
unanime consenso ed è rimasto stabilmente in repertorio. Questa china discendente è rispecchiata dalla critica, che a volte si tronca di colpo dopo Saint Joan,
altre si limita a una celere scorsa panoramica, all’insegna dell’indulgente tesi che
il drammaturgo era in declino ma ancora capace di lampi di classe e di humour.
L’appunto più frequentemente mosso all’ultimo Shaw è l’assenza di personaggi
psicologicamente scavati e di vera azione; e lo si è detto solo capace di far parlare
dei personaggi in ribalte sempre più approssimative, senza legami con lo scenario:
«Most of my plays are almost independent of scenery», ammetteva lui stesso4.
2. Anche Orwell, operante nello stesso esatto trentennio, rifletteva sulla base
ugualmente totalitaria dei regimi fascisti e comunisti, e il decennio 1920-1930 è
quello di incubazione del suo romanzo e saggio politico «socialista», ed è anche il
momento in cui la letteratura inglese deve o rifugiarsi «nel ventre della balena» –
e balena magari del postestetismo di Bloomsbury – o politicizzarsi. La differenza
è che Shaw scrive sotto un velo di allegoria, di gioco e di irriverenza, e attraverso
2
Uno dei drammi ammessi al canone shaviano definitivo è la cavalleresca traduzione di un dramma di
questo devoto traduttore, nella versione inglese Jitta’s Atonement [L’espiazione di Jitta]. L’originale di Trebitsch ebbe la prima a Vienna nel 1920 e fu tradotto da Shaw, che non sapeva benissimo il tedesco, con un
«metodo telepatico di assorbimento», tanto da potersi parlare di «coinvenzione» (PURDOM 1964, 276). Ebbe
qualche sporadica rappresentazione newyorchese e londinese nei primi anni Venti. Si tratta della storia di una
relazione triangolare, tra due professori universitari e una donna, Jitta, amante del collega di uno e moglie
dell’altro. Durante un convegno amoroso Jitta promette all’amante, colto da un attacco di cuore, e che glielo
chiede come una sorta di risarcimento, di fare uscire un suo libro, di vago sapore freudiano, e in una certa
forma un parto di entrambi, sotto il nome del proprio marito, che ad esequie avvenute è curioso di sapere
chi sia la donna che ha assistito il collega al capezzale e recalcitra all’idea di apporre il suo nome al libro.
La donna rivela l’accaduto ma, pena uno scandalo che sarebbe la rovina del professore, obbliga il marito riluttante a pubblicare il libro come suo. Alla fine la verità della tresca viene a galla, ma, proprio perché tutti
confessano passati altarini, è assicurato l’happy end. Il motivo shaviano, comune a molto pessimismo fin de
siècle, è la critica dell’indissolubilità matrimoniale, constatata la difficoltà di una compatibilità caratteriale
duratura tra i coniugi.
3
CRHE 301.
4
«Gran parte dei miei drammi sono quasi indipendenti dallo scenario», cit. in HOLROYD 1991, 14.
I. LA LETTERATURA INTERSTIZIALE
20
strati e spessori di carattere parodistico, burlesco, maccheronico persino. Il suo genere è anche quello della bagattella, del nonsense teatrale, magari tratto da uno
spunto effimero di cronaca, invero massimamente serio, ma sfatato da Shaw, che
ricorreva alla categoria della «tomfoolery». Già alcuni lavoretti del 1910 e degli
anni successivi inauguravano un teatro di istantanee, di schegge, di sketches che si
esauriscono nel lazzo; The Glimpse of Reality confluisce in una farsa plautina in
un solo quadro con il frate travestito, il conte gabbato e altri stereotipi della commedia classica grecolatina. Anche nei drammi più articolati Shaw è fin troppo portato alla gag incidentale, quella ad esempio prammatica e abusata nella quale
deflagra il battibecco tra un sottoposto impertinente, arguto, e provocatore anche
se involontariamente, e un superiore irascibile, scenetta giocata sugli imprevisti, gli
equivoci, i giochi di parole, le freddure. La specialità di Shaw diventa, negli anni
Trenta, il dramma semionirico o decisamente onirico, perciò fantastico o surreale
e quindi anche assurdo. The Apple Cart si svolge tutto nel regno della fantasia e
della favola, ma anche altri, partendo da una base di verosimile, scantonano. Shaw
è maestro in questo gioco sul confine, perché i personaggi e le azioni si muovono
e si svolgono di qua e di là in modo imprevisto e sorprendente. Inventa così una sua
nuova forma o formula teatrale in cui la garanzia drammatica viene disattesa nella
propensione a un teatro dell’imprevisto scenico; e in cui le incursioni del drammaturgo, vietate per principio, sono affidate al personaggio portavoce di turno. Si
può dunque parlare di modernismo drammatico shaviano sui generis. Gli ravvisavamo già uno straniamento brechtiano, ed è uno straniamento che si intensifica
dopo il 1921 mediante i procedimenti reiterati del personaggio che esce dal suo
ruolo e dell’anacronismo scenico5. Secondo questa prospettiva è ancora più sperimentale lo Shaw «minimalista», dei drammi in un unico atto o anche in un’unica
scena, dal dialogo scarnificato e ridotto, che può far pensare a una remotissima anteprima di un Beckett e di un Pinter.
3. Lo smalto che perdono i drammi rimane intatto in almeno alcune delle prefazioni, che ai
drammi si rapportano, senza novità, in modo sempre molto libero. Shaw si conferma un prosatore elegante, fin troppo elegante. Nelle demarcazioni stilistiche del suo tempo è un saggista accademico, ampolloso, forbito, adepto di una prosa latineggiante – compiaciuta, infiorettata – che
quasi nessuno più scriveva nel primo dopoguerra6. Lo si constata pure dall’unità di misura del suo
periodo, periodo che si allunga, concentrico di principali e secondarie a loro volta embricate in
altre secondarie; e di lessemi spesso polisillabici di derivazione latina. La sua prosa non conosce
o quasi la virgola e l’interpunzione intermedia, cosicché è di laboriosa lettura e costruzione oltre
alla densità del concetto. Shaw si riteneva un «critico e castigatore morale mediante il ridicolo
(o altrimenti un commediografo)». Era preoccupato testimone della situazione politica e sociale,
ma la studia con distacco e levità, non con angoscia. Confessava7 di aver vissuto «fra due guerre
mondiali senza aver saltato un pasto e avendo sempre dormito la notte nel proprio letto», e in 28
anni, riferiva la sua dattilografa, aveva perso la pazienza solo due volte8. La procedura dei saggi
e delle prefazioni è spesso quella di difendere una tesi umanitaria, illuministica9, tollerante, det-
5
Su ciò cfr. le utili puntualizzazioni di WEINTRAUB 1982, 223-233.
Rivelava (Prefaces, 775) che l’unica grammatica che avesse mai studiato era quella latina.
7
WEINTRAUB 1970, 216.
8
HOLROYD 1991, 26.
9
Frequente il paragone con Voltaire (cfr. Archer in CRHE 300) per l’illuministica imperturbabilità.
6
§§ 2-7. SHAW DOPO IL 1921
21
tata dal buon senso. Non però fino al punto da non vedere i buoni motivi della posizione opposta: male uccidere per sport, ma male non uccidere mai animali per principio, perché qualche animale, anche solo per legittima difesa, va ucciso. Bene rendere le prigioni più umane e meno
punitive; anzi meglio abolirle, ma inutile tacere che in certi casi i detenuti sono violenti, e che
il metodo della persuasione e della mitezza non funziona. Nella prefazione al libro dei Webb
sul sistema carcerario inglese, udiamo uno sviluppo di molte delle premesse di Dickens e di
Reade, e di altre di Butler. Shaw ammette che vi siano criminali inguaribili, per il resto ritiene
le carceri popolate di piccoli delinquenti che sono sempre meno delinquenti di tanti altri che la
fanno franca. Sono le circostanze che inducono al reato, e imprigionare priva il carcerato delle
libertà e del benessere della vita e lo rende poi recidivo quando esce; e dunque si migliorino le
circostanze e si avranno meno delinquenti. Pollice verso, analogamente, al sistema della carcerazione separata, su cui tanto accanitamente si discettava nei decenni vittoriani. Anche in politica Shaw propende per la tolleranza e l’equidistanza, e rifugge dai radicalismi, da pensatore
non dedito a speranze millenaristiche né fiducioso in interventi divini e magici dall’alto che risolvano la situazione. Subito dopo la Grande guerra, dopo avere sponsorizzato il socialista MacDonald, Shaw si era spostato in realtà a destra sino al sostegno del filofascista Mosley e delle
dittature continentali. Dietro al suo argomentare si legge l’obiettivo imprescindibile che era proprio del socialista Orwell: rendere la vita «decente», cioè vivibile: «If people are fit to live, let
them live under decent human conditions»10. Con Orwell, Shaw ritiene l’inglese tendenzialmente anarchico, e quindi precisa11 che il sogno del socialismo di una società perfettamente organizzata, senza povertà e superlavoro, cozza contro l’aspirazione a plasmarsi la propria vita e
la ripugnanza verso l’ingerenza dello stato. Il sistema ideale, cardine dell’utopia shaviana, è che
i governi debbano essere organismi decisionali, e quindi forti, ciò senza pregiudicare che «l’individuo sia legge a se stesso», lasciandogli in pratica le libertà essenziali12. Comune a molti riformisti ottocenteschi è l’idea dell’organizzazione sociale come una prigione. Dickens coniava
McChoakumchild, Shaw fa rimare il «child training» con il «child taming»13. Il socialismo shaviano è in parte quello distaccato, dal linguaggio specialistico, «in poltrona», che Orwell aborriva. Shaw non scese mai in trincea a difesa delle libertà minacciate come Orwell, perché era
troppo vecchio per combattere e perché non prevedeva ideologicamente questo impegno. Il dissenso con Orwell si fa frontale quando il fabianesimo, anzi il socialcomunismo shaviano, idoleggia Stalin e il grande dittatore. La prefazione al dramma The Millionairess studia il carisma
individuale dei born bosses, dei grandi condottieri, figure storiche magnetiche come Guglielmo
il conquistatore e Napoleone. La panoramica storica recente è rivisitata allo scopo di dimostrare
come il fallimento del sistema democratico faciliti l’ascesa del boss, cioè delle dittature. Ma
Mussolini non è satireggiato in questa prefazione, è anzi un machiavellico che prende atto che
l’era delle libertà era finita e occorreva tornare allo stato funzionante; e l’Italia fascista, credeva
Shaw, funzionava. Si proclamava ammiratore di Einstein, ma esce in questo strafalcione antidiplomatico: «Non c’è dubbio che gli ebrei sono estremamente odiosi», e «sarebbe stato meglio
per il mondo se gli ebrei non fossero esistiti»14. Poi come sempre si corregge e soggiunge che
tutti abbiamo sangue misto, non ultimo Hitler stesso. La prefazione a Saint Joan fa della pulzella
un’altra rappresentante della categoria dei leader storici carismatici, come Socrate e Napoleone;
ma i bosses santi, per il timore che ispirano, vengono violentemente eliminati, e – compensazione
– in 99 casi su 100 il dittatore finisce pazzo. Con The Apple Cart, e nella prefazione a questo
dramma, Shaw rende manifesto di essersi convertito al monarchismo, prima essendo stato un de-
10
«Se l’uomo è adatto alla vita, che viva in condizioni umane decenti» (Prefaces, 299).
Prefaces, 307.
12
Prefaces, 300.
13
Grosso modo «insegnare al bambino» opposto a «domare il bambino» (Prefaces, 317).
14
Prefaces, 487.
11
I. LA LETTERATURA INTERSTIZIALE
22
mocratico. Si corregge: ha inteso mostrare la corda di ambedue i sistemi, almeno per come li intendono gli idealisti. Il conflitto è anzi tra plutocrazia da un lato e i due sistemi dall’altro: sono
i ricchi che hanno inghiottito la democrazia. Il dramma intendeva porre all’attenzione le lentezze e gli inconvenienti del sistema democratico, rappresentativo e parlamentare. Riportato verbatim è un discorso pubblico da lui tenuto sugli inconvenienti della democrazia. Di quest’ultima
Shaw non accetta il principio che sia un governo da parte del popolo, il che è un miraggio. È
un’idea ripresa da Mill che il buon governo è quello che fa il minimo per consentire all’autonomia dell’individuo di avere libero campo15. D’altro canto ovunque la società si è evoluta in senso
socialista, perché lo stato gestisce e coordina ormai ovunque parecchi servizi pubblici. Il punto
della prefazione a The Apple Cart è che un falso democraticismo sfocia in un’oligarchia orwelliana che «abusa del potere per il suo proprio tornaconto».
4. Shaw si proclamava un laico con tre punti cardinali di fede: l’evoluzione creatrice, il socialismo e il vegetarianismo; nel 1942 si presentava più semplicemente come repubblicano e
comunista. Ma dichiarando Giovanna d’Arco una santa inquina di fideismo questo laicismo. Dà
credito per esempio, nella prefazione al dramma, alla telepatia, alle voci e alle visioni, o almeno
ne trova una giustificazione psicologica e psichica. Questa la circonlocuzione: erano la drammatizzazione della pressione su di lei della forza che sta dietro l’evoluzione, erano cioè l’«appetito evolutivo»16. Sui rapporti tra la scienza e la fede, tema anche di ‘In Good King Charles’s
Golden Days’, Shaw confessava un suo pentimento: era stato scientista, era ritornato fideista. La
scienza ingenera credulità, la religione scetticismo. Guardava alla scienza, all’epoca del dramma
(1935), con sospetto, e invece con rispetto e simpatia alle intuizioni dei poeti e dei profeti17. Se
sulle fallacie e le incompletezze della Bibbia Shaw è esplicito e categorico, sembra d’altra parte
di riudire il vecchio Arnold, perché pur essendo la Sacra scrittura un coacervo di illusioni, di abbagli, di fole, non se ne può fare a meno, e ha un altissimo valore poetico e storico. Ora appunto
l’evoluzione creatrice non è un credo esattamente totalitario, un sistema teologico che tagli la
strada ad altri sistemi e ne sia inconciliabile, e prova ne è che anche un cattolico ortodosso come
Teilhard de Chardin è un evoluzionista. È anche vero che Shaw si proclama agnostico e non credente nelle religioni rivelate, ma che come ogni onesto dubitatore inglese non cessa di indagare
da laico il fenomeno della religione. In una bella pagina delle prefazioni riassume cosa è stato
Gesù, cioè il solito personaggio storico dotato ed eclettico, ma da studiarsi come uomo. Questo
tormentoso eppur laico interesse lo porta ad affrontare nodi problematici della fede in senso paradossalmente ancora più fideista che non un credente: e basti ricordare di nuovo con quale ossessivo coinvolgimento Shaw parla delle visioni e delle voci di Giovanna d’Arco. D’altra parte
la teoria dell’evoluzione creatrice deve pronunciarsi su chi la determina e chi la aziona, su chi è
il primo motore aristotelico, a meno che non sposi quella dell’autogenerazione del moto evolutivo. L’evoluzione creatrice è più che mai una palla al piede dell’ideologia shaviana, diciamolo
francamente, ed è spesso acrobatico e forzato il tentativo del drammaturgo di farne il deus ex machina dei suoi drammi. Dei racconti in prosa di Shaw The Black Girl in Search of Her God18
(1931-1932), il più famoso, è una parabola teologica che illustra parodisticamente il mutamento
dell’imago divina nei vari libri della Bibbia. Una barzelletta «cattolica» è The Aerial Football19,
con un vescovo e una povera donna che si presentano alle porte del paradiso e ne ricevono una
sorpresa, mentre The Miraculous Revenge20 – un irlandese deve investigare un miracolo «catto15
Prefaces, 331.
GRENE 1987, 132-150, è fra i pochi che discute cosa veramente Shaw pensa e vuol fare pensare circa
le voci che dice di udire Giovanna, e circa i miracoli; e osserva che Shaw è impacciato nel trattarli, li presenta come «invenzioni, cioè illazioni che prendono il posto di tediose spiegazioni».
17
Prefaces, 636.
18
La ragazza negra in cerca del suo Dio.
19
Il calcio aereo.
20
La vendetta del miracolo.
16
§§ 2-7. SHAW DOPO IL 1921
23
lico» e scoperchia una tomba – appartiene a quel genere grottesco e macabro associato per antonomasia a Stevenson. The Emperor and the Little Girl 21 (1916) è soffuso di un insolito pathos
favolistico, facendo aggirare il Kaiser, preso dal rimorso, nei campi di battaglia, a colloquio, da
pari a pari, con una bambinetta che finisce dilaniata dalle bombe. A Dressing Room Secret22 è
un ennesimo frutto del contenzioso shaviano con Shakespeare, dei cui Othello e Macbeth Shaw
contesta l’altezza.
§ 3. Shaw. II/II. «Saint Joan». La chiamata divina, un impensabile possibilismo.
Il primo dei drammi brevi che intercalano i più lunghi era apparso nel 1901, The Admirable
Bashville; Or, Constancy Unrewarded 23, di uno Shaw che si riscrive adottando il genere, come
disse, di uno «scherzo letterario». È una versione in blank verse di un suo romanzo giovanile,
Cashel Byron’s Profession, cui Shaw ricorse per prevenire riduzioni pirata in America24, sulla situazione della stanca Lydia che anela a un uomo senza arte né cultura, e lo trova nel forzuto Cashel, che tenta a lasciare il ring per amore di lei. Dopo un vittorioso incontro Cashel è però
ricercato dalla polizia per disturbo della quiete pubblica e internato in carcere. Ma con un colpo
di scena finale si rivela che è di origini nobili e il matrimonio viene celebrato. È una riuscita farsa
d’intrattenimento, la cui ricchezza di evoluzioni improbabili e di colpi di scena rivela la provenienza dal seriale; la patina del verso l’apparenta al teatro parodistico di un Gay, con echeggiamenti e calchi di Shakespeare e Milton che ne fanno a tratti un delizioso e deliziante pastiche
maccheronico, tale perché scritto su una materia, gli incontri di pugilato, aliena e refrattaria a un
trattamento in versi. In Press Cuttings25 (1909), che vuole essere una spassosa farsa del militarismo e del femminismo, ed è cosparsa di battute comiche una dietro l’altra, al Ministero della
guerra il generale Kitchener – storico – riceve una suffragetta indirizzatagli dal Primo ministro;
ma questo esordio si rivela un esilarante colpo di scena. Si tratta dello stesso primo ministro –
il cui nome, Balsquith, è una goliardica fusione di Asquith e Balfour – che è ricorso a questo stratagemma per la ferocia delle campagne delle suffragette e per sfuggire ai controlli ed evitare
noie. È infatti un momento di caos per la proclamazione di leggi di esclusione delle donne da un
perimetro di due miglia attorno a Westminster. Il dibattito verte, provocatoriamente e paradossalmente, sulla operabilità e utilità della legge marziale: sostenuta dal generale con parole franche e rabbrividenti, scartata dal premier. Questo scontro precede The Apple Cart perché dà voce,
senza del tutto affossarla, alla prospettiva che per governare si debba ricorrere alle maniere forti
e che la democrazia abbia dei limiti; d’altro canto la sconfessione del militarismo autoritario
proviene dalle sole parole tronfie del generale che ne espone tutte le risorse. Il tempo, grazie ad
alcune allusioni ad hoc, è quello della guerra angloprussiana «delle corazzate» e del pericolo temuto dell’invasione prussiana dell’Inghilterra. Non si può pensare a un discorso più biecamente
militaristico e guerrafondaio, più sordo all’appeasement, di quello del generale. Nella seconda
partizione interna il Primo ministro riceve quindi allo stesso ministero una delegazione della
lega antisuffragette. Il contrasto drammatico avviene sotto forma di una donna tuttofare atten-
21
L’imperatore e la bambinetta.
Il segreto della guardaroba.
L’ammirevole Bashville, o la costanza non ricompensata, che evoca nel titolo un celebre dramma di
Barrie (IV, § 299.2). Rispetto al suo romanzo, Shaw sposta nel titolo l’attenzione al vispo domestico che ama
non corrisposto la padrona.
24
Pure in blank verse è il fulmineo, spassoso sketch parodistico, l’ultimo numero del canone shaviano
(1949), Shakes versus Shav [Shakes contro Shav], in cui s’immagina che il Bardo rinasca e si presenti al festival di Malvern per smascherare la sua presunta reincarnazione, Shaw medesimo. Shaw risponde per le rime
a Shakespeare, mettendo i suoi capolavori sullo stesso piano degli immortali lavori shakespeariani; anzi, secondo la sua posizione, sopra.
25
Ritagli della stampa, cui fu rifiutato il permesso di rappresentabilità prima che i nomi dei protagonisti fossero mimetizzati.
22
23
24
I. LA LETTERATURA INTERSTIZIALE
dente del generale, che esprime l’opinione pubblica comune, che mira al sodo ed esprime la disaffezione e l’indifferenza per le grandi questioni ideali che tolgono il sonno ai potenti. Le lega
antisuffragio è pittoresca e pomposamente bellicosa nelle due rappresentanti che si atteggiano ad
amazzoni, e il dialogo con il generale si arricchisce di gags verbali un po’ fruste. La loro delirante
sete di azione induce anche il generale, fautore dell’autoritarismo, alla moderazione26. Il dramma
si perde poi in un clima di assurdo spinto che porta a molti matrimoni burleschi in scena. The
Glimpse of Reality27 (1909), «piccola tragedia» storica, presenta un buon inizio, cioè la situazione
scabrosa, e browninghiana in apparenza, di un frate annoso che confessa una ragazza senza dote,
e che pensa di procacciarsela attirando un cliente ricco alla taverna del padre. Lo schifoso monaco,
che ha 113 anni e membra sfatte, evoca barlumi di quell’attrazione macabra che Salomè aveva per
Jokanaan, ma solo per un attimo e quindi per parodia: si rivela infatti per un conte travestito,
quello stesso che la ragazza con il padre taverniere si appresta a uccidere per derubarlo, e che
uscendo dal travestimento si scaglia con veemenza contro l’assassino. In breve il punto è come il
taverniere ucciderà il conte per guadagnare le dieci corone promesse dal signore locale all’assassino, e come il conte parerà gli astuti tentativi. Ma il piccolo pezzo langue assai prima dello
scioglimento; il conte cerca di uccidere l’assassino ma rimane in vita ricattato, e le corone della
dote affluiscono. In Passion, Poison, and Petrifaction; or, the Fatal Gazogene28 (1905) un assassino entra in una casa di uno sfarzo pacchiano, e dove una stanca signora di pretese si è appena
addormentata. È il marito, che sta per avvicinarsi al letto trattenuto da uno starnuto della dormiente; ma subito dopo bussa alla porta l’amante di lei in abito da sera; il marito offre all’ospite
del whisky avvelenato. Qui, più che in ogni altro di questi piccoli drammi, Shaw vorrebbe far gustare lo spirito della freddura. Alla fine il marito ha la moglie tutta per sé, e l’amante morente può
essere salvato con un antidoto a base di calce scrostata dal soffitto. Il risultato – assurdo – è che
il morente è trasformato in una statua vivente, che benedice i coniugi riconciliati. The Fascinating Foundling29 (1909), non privo di punte di pregevole humour, ruota sull’incontro tra un bellimbusto, orfano, e il Lord Cancelliere, cui chiede di essere avviato al teatro e che gli si trovi una
moglie anziana. Subito dopo entra nell’ufficio un’orfana avvenente, una suffragetta, che è la persona giusta, e l’affare è fatto: la scenettina è fra le più sapide, anche per le battute molto franche
e veritiere dei valletti e degli inservienti, figure con le quali Shaw centra sempre il bersaglio. The
Music-Cure30 (1914) descrive il dramma di un giovane politicante che ha comprato azioni che
credeva in rialzo e invece sono crollate, e ne è stato pertanto ridotto in uno stato di prostrazione
nervosa. Anche questa è una farsa assurda di dubbia tenuta: il paziente, addormentato con dell’oppio, crede di vedere dei coccodrilli, e tale ritiene una pianista che penetra nella stanza, di
nome Strega. Quest’ultima, una specie di virago, è stata mandata dalla madre del giovane, che sentendola suonare una polacca di Chopin se ne innamora, e le si offre come maritino addomesticato
e bisognoso di protezione (e anche deliziato dalla prospettiva di qualche bastonata).
2. L’occasione esterna di Saint Joan31 (1923) fu la canonizzazione della pulzella ad opera del Sant’Uffizio nel 1920; un dramma sulla sua figura covava in realtà da tempo32. Shaw, documentandosi a fondo, ne ripercorse la parabola in sei
26
L’idea che i grandi combattenti della storia siano stati donne in travestimento, e che le donne «governano il mondo servendosi degli uomini», echeggia naturalmente il sottofondo filosofico di Man and Superman.
27
Un barlume di realtà.
28
Passione, veleno e pietrificazione; o il fatale sifone.
29
Il trovatello affascinante.
30
La cura della musica.
31
Santa Giovanna.
32
Shaw, depistando molti (cfr. ad esempio WOODBRIDGE 1963, 117), addusse che l’idea gli venne per
caso, che non sapeva cosa scrivere, e perché quindi non scrivere su Santa Giovanna. Rispetto alla tradizione
§§ 2-7. SHAW DOPO IL 1921
25
scene più un epilogo, a dimostrare la fine fatale che fanno i benefattori della società
stritolati dalle istituzioni, e anche piegando la giovane guerriera al ruolo di antesignana di un protestantesimo ante litteram che segue la via privata al contatto con
Dio, al di fuori di ogni mediazione dell’apparato ecclesiastico. Shaw indaga la
fonte del coraggio e come il coraggio e lo spirito dell’azione siano stimolati dall’esempio di un’eroina indomita. Ammira inoltre da puritano una fede di base che
poggia sull’illuminazione privata: la pulzella è una prefigurazione di Fox quacchero33 e di tutte le sette dissenzienti evangeliche future. Shaw è scettico e minimizzatore a ben guardare sui miracoli: fatti ed eventi naturali, per quanto
eccezionali e imprevisti, come l’improvvisa sovrapproduzione di uova da parte
delle galline dopo un lungo e tenace sciopero, sono miracolosi solo per effetto
della coincidenza; l’arcivescovo stesso nutre uno scetticismo di marca vittoriana nel
dichiarare che i miracoli sono «semplici e innocenti trucchi» per fortificare la fede,
e non implicano alcunché di realmente soprannaturale. Anche il repentino cambio
del vento, che permette ai francesi di guadare la Loira e respingere gli inglesi, rientra nell’ordine naturale34. Il dramma si sofferma su altrettanti momenti centrali in
un arco che va dal 1429 al 1456, l’anno nel quale in forma onirica, e in un’uscita
dall’illusionismo scenico, non solo il processo è rivisto e ribaltato, ma entra in
scena anche un ecclesiastico cattolico inglese contemporaneo a leggere la bolla
della canonizzazione. Saint Joan si colloca nel solco delle riabilitazioni delle sante
ritenute streghe, e ha qualche addentellato con la letteratura demonica e faustiana
nella sua versione più libera. L’attrito scenico, il sapore farsesco e grottesco e in
taluni frangenti «assurdo», fanno pensare a un remake faustiano di Browning, l’epilogo dei Parleyings, intitolato Fust and His Friends35. Nel dialogo di apertura tra
la pulzella e il capitano abbondano i doppi sensi proprio perché le parole parlate
non si giovano delle maiuscole grafiche: Giovanna ha ricevuto ordini dal Signore,
che non è il signore; un analogo qui pro quo ruota sul Re e il re. È il primo dei contrasti drammatici e di registro: il capitano è incredulo e brusco davanti a una contadina che si proclama investita da Dio di una missione, e lo racconta con il
massimo del candore, della naturalezza e dell’understatement. La sua franchezza
è il frutto di una fede inconsapevole e ingenua che le dice che tutti sono uguali davanti a Dio, e che al suo cospetto non esistono i titoli e le nomee. Il significato dell’inconsapevole disegno politico-religioso di Giovanna comincia a prendere corpo
nel prosieguo del dialogo: da un lato la sua missione le è stata conferita dalle «voci»
angeliche e dai messaggeri divini, e dall’altro la sua missione è restituire la Francia ai francesi secondo i confini naturali e linguistici. È il programma messianico
di una guerra ispirata da Dio per attuare il suo comandamento. Nella seconda scena
precedente, drammatica e melodrammatica e biografica, il trattamento shaviano dell’eroina è del tutto antiromantico: nessun amore carnale – salvo la pura simpatia platonica per il «bastardo» Dunois – le viene attribuito, come in Schiller, falsariga di Verdi, la cui opera Giovanna d’Arco non è però mai stranamente citata
da Shaw nella prefazione, e nemmeno ricordata dai critici fontisti e comparatisti.
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Che appare realmente da protagonista in ‘In Good King Charles’s Golden Days’.
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Come osserva anche il vescovo Cauchon, la stessa Giovanna non parla di miracoli, e il suo operato
«miracoloso» è solo frutto della sua lucidità e della sua fermezza. Riecheggiando Carlyle, il vescovo ricorda
le risorse eccezionali del «coraggio della fede», quand’anche si tratti di una «fede falsa».
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IV, § 23.5.
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I. LA LETTERATURA INTERSTIZIALE
si assiste al carosello dei prelati senza fede, degli uomini cinici di mondo e dei governanti inetti. Nessuno ha statura eroica, tutti grotteschi e meschini. Carlo, il Delfino, è indebitato fino al collo e lo zimbello degli attendenti e dell’arcivescovo.
Giunta presso di lui, e ammessa a corte, Giovanna, vestita come un soldato, cioè
da maschio, perché Dio l’ha investita guerriero, risolve facilmente la prova cui la
si sottopone e smaschera il re travestito e riconosce quello vero. Indomita la mascolina Giovanna vuole procedere contro le fortezze inglesi sul ponte di Orléans,
e il vento «miracoloso» spunta come promesso da Santa Caterina nelle sue visioni.
La scena quarta opera uno spostamento al campo inglese, dove gli sconfitti addebitano l’infausto evento ad opera di magia e ritengono Giovanna una strega che ha
agito con poteri diabolici.
3. La questione teologica sul tappeto è se Giovanna agisce per magia o per eresia. Il dibattito a quattro voci che occupa la scena – tra il vescovo francese e prelati e funzionari inglesi –
presenta Giovanna come, in nuce, spirito o avvisaglia del protestantesimo: saltando la Chiesa presume un diretto contatto con Dio. Non per nulla il vescovo l’equipara a Maometto e l’associa a
Hus e alle eresie che stanno dilagando in tutta Europa. Epperò è individuato in lei anche un
segno storico: non solo, se non si tampona il fenomeno, si aggira la funzione mediatrice del
prete, tra l’uomo e Dio, ma si liquida l’aristocrazia, giacché il re e solo il re deve rispondere a
Dio. I rappresentanti del potere temporale, nella sua alleanza con quello spirituale, intravedono
in Giovanna gli albori di un cataclisma e di un terremoto culturale. In terzo luogo, infatti, Giovanna non sa di agire anche in funzione per così dire antiimperialistica, frena cioè gli espansionismi territoriali delle grandi potenze36 poiché appoggia una politica di nazionalismi, cioè di
confini rigorosamente disegnati sulle nazioni come unità socio-linguistico-razziali. Nella penultima scena Giovanna ha svolto la sua missione e sta per tornare al villaggio, nostalgica; eppure stimola il re alla conquista di Parigi pur circondata dallo scetticismo e da un certo calo di
entusiasmo. Anche il simpatico e baldo Dunois riconduce i casi della guerra alla concretezza, e
il re costituisce il solito controcanto a queste diatribe solenni. Giovanna lo sfida all’azione con
un candore che viene preso per superbia e disobbedienza. La scena ultima del processo sottolinea nelle parole dell’inquisitore l’eziologia dell’eresia. Nell’interrogatorio Giovanna è la più
candida naturalità e umanità, fino al punto dell’arguzia, della battuta provocatoria, della familiarizzazione del tragico. È anche femminilmente vana, oltre che ferma nel rispondere. Non può
che riconfermare di anteporre il dettame vivido di Dio a quello morto della Chiesa. Giovanna
cede perché si rende conto che Santa Caterina le ha promesso che non sarebbe morta bruciata,
e che allora è il diavolo che le ha parlato, come si cerca di farle confessare; e a malincuore firma
il pentimento. Ma all’udire che sarà in prigione a vita straccia il foglio riconvintasi che le voci
erano veritiere, e con un grido di slancio verso le bellezze del creato che le sarebbero per sempre precluse. L’epilogo è collocato un quarto di secolo dopo, ed è un colloquio spettrale notturno tra il re, ex delfino, e i fantasmi dei partecipanti al processo, che, troppo tardi revisionato,
ha rivelato le sommarietà e la corruzione dei giudici. Dopo lo spettro di Giovanna via via gli altri
revenants si sconfessano, rimpiangono, si rammaricano, redenti, metamorfosati come effetto
della morte della pulzella. Tra essi anche un soldato bestemmiatore che si prende un giorno di
licenza dall’inferno in onore di Giovanna, alla quale ha dato due rametti con cui fare quella croce
che implorava sul rogo. L’ultimo fantasma ad entrare è, con un salto avanti nel tempo al 1920,
un signore in abiti clericali che proclama la canonizzazione. Ma Giovanna, che l’ha chiesto, non
potrà rivivere, ché «l’eretico è sempre meglio morto».
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Ciò può essere un riflesso contemporaneo, la fine della prima guerra mondiale che riduce ai minimi
termini gli Imperi centrali e riplasma lo scacchiere europeo secondo il principio delle nazionalità.
§§ 2-7. SHAW DOPO IL 1921
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§ 4. Shaw. II/III. Burlesche dei poteri costituiti. Il legame, dunque assai traslato,
che accomuna The Apple Cart37 (1929), che reca il sottotitolo «una stravaganza politica», a un dramma storico documentato come Saint Joan, come pure al penultimo
di Shaw e nuovamente storico dopo molte altre stravaganze, è il bisogno che il
mondo invoca di un leader forte e di una dirigenza politica decisa. Il dramma discute, riprendendo un proverbio, l’ipotesi di un immaginario ribaltone del monarchismo costituzionale inglese, ma non lo fa in parole esplicite, bensì sotto forma di
un apologo fantapolitico che ha il sapore di Büchner e guarda alla distopia di Orwell – che, conoscendo Shaw, lo può aver tenuto presente in qualche angolo della
sua mente. Di qui i nomi stilizzati, latineggianti, maccheronici: Shaw non saprà più
d’ora in avanti rappresentare una questione ideologica se non sotto le specie della
burla e dalla farsa irreale e surreale. È dunque un dramma utopistico, ambientato
nell’ultimo quarto del secolo ventesimo38, tempo di disaffezione politica, e – contrariamente a Orwell – di benessere, essendo la povertà stata del tutto abolita, senza
che si annuncino o attuino razionamenti di beni di consumo (fra cui la orwelliana
cioccolata) e di generi di lusso: una profezia del Welfare State, si è detto. Il guaio
è l’indirizzo dittatoriale – e anche questo è orwelliano – che sta prendendo il re, il
quale è messo alle strette dal suo governo laburista. Preso tempo per meditare su
questo ultimatum – che trascorre con l’amante – il re riceve l’ambasciatore americano che – ancora prefigurando Orwell – annuncia il rientro dell’America, voluto
plebiscitariamente, nell’Impero britannico. Il re abdica per presentarsi alle elezioni
come privato cittadino nel borgo di Windsor. Ma il governo sa che così il re diventerebbe dittatore eletto dal popolo, e il ritiro dell’ultimatum ripuntella lo status quo.
2. Formalmente il dramma consta di due lunghe sedute del Consiglio reale, separate da un interludio, nelle quali si intende satireggiare la solita pochezza e meschinità della politica, fatta di
marionette comiche, di omuncoli in un clima di commediola burlesca. La questione all’ordine del
giorno è la governabilità e la capacità di governare, che poggia per principio sul polso duro o
sulla blandizie: troppa democrazia frena l’attivismo politico, qualcuno che comanda è necessario, e quindi la monarchia costituzionale è un inciampo. A questo Consiglio giunge fra i primi Boanerges, fresco Ministro del Commercio, che in udienza privata chiede al monarca costituzionale
Magnus un’azione energica per fronteggiare la crisi. Boanerges, un sindacalista venuto su dal
nulla, è evidentemente un bolscevico, ché ha una blusa rossa e russa addosso, ed esce spesso fuori
in panegirici del sistema repubblicano, da instaurarsi senza spargimento di sangue e senza una rivoluzione. Fra lui e il re si inquadra il nodo problematico: serve un monarca costituzionale che
funga da «francobollo adesivo», oppure un monarca forte, semidivino come ai vecchi tempi dei
romani? Gli ribatte il re Magnus che in fondo il presidente di una repubblica ha dieci volte più
potere di un re fantoccio che fa comodo ai plutocrati. Da tutto questo appare una velata richiesta
di più potere effettivo a chi governa, e un rifiuto opposto alle cautele del sistema democratico.
Quando, assente momentaneamente il re, il gabinetto si riunisce al completo, si concerta come limitare le prerogative regali. La descrizione di questa Inghilterra futura è di uno stato sociale di
affluenza basata anche, come in Nineteen Eigthy-Four di Orwell, sull’investimento di capitali in
plaghe di povertà e di mano d’opera a poco prezzo. Si è attuata una specie di quel socialismo che
Orwell ha in mente e per cui si batte: «we have the best paid proletariat in the world»39. Dunque
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Il carro delle mele.
Il tempo interno è spostato di trent’anni avanti, o nel 2000 come vuole VALENCY 1973, 391.
«abbiamo il proletariato meglio pagato nel mondo».