Ai tradizionali principi guida dell`agere amministrativo, ovverosia il

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Ai tradizionali principi guida dell`agere amministrativo, ovverosia il
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OSSERVATORIO SULLA GIURISPRUDENZA AMMINISTRATIVA
AGGIORNATO AL 15 FEBBARIO 2011
MARIANNA CAPIZZI
Consiglio di Stato, sentenza 11 febbraio 2011, n. 895.
Sul rapporto tra diritto di accesso e diritto alla riservatezza.
Ai tradizionali principi guida dell’agere amministrativo, ovverosia il principio di
legalità, di buon andamento e di imparzialità, si è da tempo affiancato, anche per
effetto dei contributi forniti dalla dottrina e dalla giurisprudenza, il principio della
trasparenza e della pubblicità dell’azione amministrativa, principio che esprime
l’esigenza che gli amministrati possano esercitare un effettivo, efficace e
democratico controllo sullo svolgimento dell’attività dei pubblici poteri al fine di
verificarne la conformità ai parametri costituzionali, nonché la rispondenza agli
interessi della collettività.
Il diritto di accesso attua in pieno il principio della trasparenza e della pubblicità
dell’azione amministrativa, oltre che i valori dell’imparzialità e del buon
andamento individuati dall’art. 97 della Costituzione, ed è stato introdotto dalla
l.n. 241/1990 che ne ha predisposto una regolamentazione generale. Prima di
allora, infatti, vigeva un generale principio di segretezza e riservatezza (art. 3
D.P.R. 3/1957) degli atti amministrativi che, lasciando alla Pubblica
Amministrazione ampia discrezionalità in merito all’individuazione delle notizie
suscettibili di pubblicità e dei possibili destinatari delle stesse, si sostanziava, di
fatto, in una palese violazione del principio di imparzialità.
Di fronte a tali inaccettabili violazioni di principi giuridici costituzionalmente
garantiti, il legislatore nazionale è intervenuto dapprima riconoscendo la
possibilità di accesso a documenti amministrativi all’interno di discipline
normative di settori non omogenei e, successivamente, predisponendo nella legge
n. 241/1990, modificata dalla legge 15/2005 e 80/2005, e nel relativo
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regolamento di attuazione D.P.R. n. 184/2006 (che però, ha regolato soltanto le
modalità di esercizio del diritto d’accesso, non anche i casi di esclusione, articolo
24 l. 241/1990, le cui norme di attuazione sono ancora contenute nel D.P.R.
392/1992) una regolamentazione articolata e completa della materia in esame.
Oggi, dunque, l’accessibilità ai documenti amministrativi costituisce un principio
di carattere generale: l’art. 22, comma 2 della L.n. 241/1990 prevede che “l‟accesso
ai documenti amministrativi, attese le sue rilevanti finalità di pubblico interesse, costituisce
principio generale dell‟attività amministrativa al fine di favorire la partecipazione e di
assicurarne l‟imparzialità e la trasparenza…”.
La stessa norma prosegue affermando che il diritto di accesso “attiene ai livelli
essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il
territorio nazionale…”.
Questa norma ricalca esattamente quanto previsto nell’art. 117, comma 2°, lett. m)
della Costituzione che riserva alla competenza esclusiva dello Stato la disciplina
dei livelli essenziali delle prestazioni dei diritti civili e sociali sul territorio
nazionale cui le norme introdotte dalle autonomie locali, ai sensi del Titolo V della
Costituzione, non possono in alcun modo derogare.
Di particolare interesse e di indubbia rilevanza il rapporto, più volte esaminato dai
giudici amministrativi di primo e di secondo grado, tra diritto di accesso e diritto
alla riservatezza.
Che la riservatezza, ossia l’interesse privatistico a che sia mantenuto il riserbo in
ordine a vicende che coinvolgono la sfera personale o economico-patrimoniale di
singoli soggetti, sia persone fisiche o giuridiche, si ponga come limite al diritto di
accesso si ricava dall’articolo 24 della l.n. 241/1990 che al sesto comma dispone
che con regolamento adottato ai sensi dell’art. 17, comma 2 della legge 400/1988,
il Governo può prevedere casi di sottrazione all’accesso di documenti
amministrativi, quando riguardino la vita privata o la riservatezza di persone
fisiche, persone giuridiche, gruppi, imprese, associazioni con particolare
riferimento all’interesse epistolare, sanitario, professionale, finanziario, industriale
e commerciale di cui siano titolari.
Ma è la stessa legge sul procedimento amministrativo come riscritta dalle novelle
legislative del 2005, che indica il criterio di bilanciamento tra le opposte esigenze
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di conoscibilità dell’azione amministrativa e di riservatezza della sfera personale
dei terzi, il diritto alla tutela e alla difesa degli interessi giuridici. In particolare, il
settimo comma dell’art. 24 stabilisce che “deve comunque essere garantito ai richiedenti
l‟accesso ai documenti amministrativi la cui conoscenza sia necessaria per curare o per difendere i
propri interessi giuridici”.
In altri termini, dunque, il c.d. accesso difensivo deve essere garantito prevalendo
sulle opposte esigenze di tutela della riservatezza. Questa è destinata a
soccombere ogni qual volta l’acceso sia funzionale a qualsiasi forma di tutela, sia
giustiziale che stragiudiziale, di interessi giuridicamente rilevanti.
La sentenza in esame, che aderisce a detto ormai pacifico orientamento
giurisprudenziale, aggiunge un ulteriore elemento di valutazione. Il Collegio,
infatti, rileva che l’esigenza di difesa processuale può prevalere sulle opposte
esigenze di tutela della sfera della privacy personale solo ove la prima sia fondata
ed effettiva, solo ove, cioè, i dati personali, sensibili o sensibilissimi cui si chieda di
accedere siano effettivamente necessari per supportare in termini più concreti, una
instauranda azione giudiziale. Per consentire la visione o l’estrazione di copia di
documenti contenenti dati del tipo di quelli considerati occorre, in altri termini,
accertare che l’istante abbia un interesse concreto ed attuale alla conoscenza degli
stessi in quanto necessari per dimostrare la fondatezza di una pretesa fatta valere
in via giudiziale o anche solo stragiudiziale.
Nel caso sottoposto alla sua attenzione, un insegnante scolastico aveva impugnato
il parziale diniego di accesso, opposto dall’Amministrazione di appartenenza, alla
documentazione afferente gli atti istruttori propedeutici al trasferimento d’ufficio
per incompatibilità ambientale dello stesso istante. L’ufficio scolastico, in
particolare, pur consentendo all’appellante di venire in possesso di tutta la
documentazione amministrativa dallo stesso detenuta e posta a base del
procedimento di trasferimento d’ufficio in suo confronto aveva negato la
possibilità di conoscere l’identità di tutti i soggetti che, nell’ambito del su indicato
procedimento di trasferimento avevano riferito fatti ed espresso giudizi sui
comportamenti tenuti dall’insegnante nell’esercizio della sua attività professionale.
Orbene, ad avviso del Collegio: “Nel caso in esame non viene certamente in discussione il
tema della necessaria preminenza dell‟accesso motivato da esigenze di difesa (sul quale, in
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particolare, cfr. Cons. Stato, ad. plen. n. 5 del 1997), dato che appare pacifico che le esigenze
ostensive devono in ogni caso prevalere sulle esigenze di riservatezza di terze persone, se
funzionali alla difesa in giudizio delle ragioni dell‟istante (financo quando si fronteggiano con
esigenze di riservatezza afferenti dati sensibili o, in taluni casi, ultrasensibili della persona). La
questione è piuttosto quella del nesso strumentale che deve necessariamente sussistere (e che
l‟istante avrebbe dovuto quantomeno prospettare) tra gli specifici dati ritraibili da documenti
amministrativi non integralmente ostesi e la difesa in giudizio delle proprie ragioni. Ora, poiché
non vi è dubbio che la copertura dei dati sulle generalità dei dichiaranti risponde ad un esigenza
meritevole di tutela secondo l‟ordinamento giuridico (che coincide non soltanto con la salvaguardia
in sé della riservatezza dei dichiaranti e con la sottrazione degli stessi ad ipotetiche azioni
ritorsive dell‟interessata, quanto piuttosto con la esigenza di non scoraggiare l‟acquisizione di
informazioni testimoniali utili in vista del perseguimento del buon andamento amministrativo),
ne consegue che detta esigenza diviene recessiva soltanto a fronte della emergenza di un interesse
concreto e attuale del proponente l‟accesso ad entrare in possesso di quegli specifici dati per
conclamate esigenze difensive”.
Ciò posto, poiché la documentazione rilevante ai fini difensivi della richiedente
era stata consentita, il Collegio ha ritenuto legittimo il diniego impugnato “non
essendo stata allegata né emergendo altrimenti, allo stato dagli atti, la proficuità delle invocate
acquisizioni documentali in vista della (miglior) difesa delle proprie ragioni nel procedimento e,
eventualmente, nel successivo giudizio”.
Consiglio di Stato, sentenza 11 febbraio 2011, n.924
Sull’onere della prova del danno da occupazione illegittima di un’area.
Il normale svolgimento del procedimento ablatorio prevede che, intervenuta la
dichiarazione di pubblica utilità, la P.A. proceda alla determinazione ed all’offerta
dell’indennità e, successivamente, alla adozione del provvedimento di esproprio il
quale produce l’effetto traslativo della proprietà espropriata e consente al soggetto
procedente di occupare il bene per iniziare l’esecuzione dell’opera.
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Detto iter, tuttavia, è alquanto lungo e articolato e spesso non si concilia con
l’esigenza pubblica di pervenire rapidamente alla realizzazione dell’opera sia per
soddisfare gli interessi collettivi sottesi, sia per rispettare la tempistica dei
finanziamenti disponibili.
Per questa ragione si è progressivamente diffusa la prassi, oggi disciplinata
dall’articolo 22 bis del T.U. sugli espropri, di procedere all’occupazione
provvisoria prima del formale rilascio del decreto di esproprio al fine di assicurare
l’immediato avvio dei lavori e il rispetto dei termini finali di realizzazione
dell’opera.
In sostanza, nell’ambito del procedimento espropriativo si inserisce un sub
procedimento di occupazione che, prima dell’introduzione dell’articolo 22 bis
citato ad opera del d.lgs. n. 302/2002 si articolava nella emanazione di una
dichiarazione di pubblica utilità dell’opera, di una successiva dichiarazione di
indifferibilità ed urgenza e di un successivo decreto di occupazione. Il nuovo
articolo 22 bis non prevede significative innovazioni rispetto alla disciplina
precedente. L’unica differenza consiste nella mancata previsione della
dichiarazione di indifferibilità ed urgenza che deve ritenersi implicitamente
contenuta nel decreto di occupazione o nella dichiarazione di pubblica utilità.
Dunque, le fasi principali di questa particolare procedura sono: 1) emanazione di
una dichiarazione di pubblica utilità dell’opera; 2) emanazione di un successivo
decreto di occupazione; 3) effettiva e materiale occupazione del terreno e
realizzazione dell’opera pubblica; 4) emanazione del decreto di esproprio entro 5
anni successivi al decreto di occupazione.
Orbene, se entro detto termine non viene emanato il decreto di esproprio, il bene
occupato deve essere rilasciato e deve tornare al suo legittimo proprietario. Se nel
frattempo, però, è stata realizzata l’opera pubblica, il rimedio della restituzione al
privato sarebbe in contrasto con la realizzazione della funzione sociale per cui
l’opera è stata compiuta. Per risolvere tale contrasto la giurisprudenza ha
elaborato la diversa figura dell’occupazione appropriativa.
Per l’ipotesi di occupazione d’urgenza il d.p.r. 327/2001, al 5° comma dell’articolo
22 bis riconosce al proprietario dell’area interessata dall’occupazione il diritto di
percepire un’indennità idonea a risarcire il medesimo della perdita della
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disponibilità del bene prima dell’intervento del formale decreto di esproprio: “Per
il periodo intercorrente tra la data di immissione in possesso e la data di corresponsione
dell'indennità di espropriazione o del corrispettivo, stabilito per l'atto di cessione volontaria è
dovuta l'indennità di occupazione, da computare ai sensi dell'articolo 50, comma 1”.
Il successivo comma 6 dispone, tuttavia, che: “Il decreto che dispone l'occupazione ai
sensi del comma 1 perde efficacia qualora non venga emanato il decreto di esproprio nel termine
di cui all'articolo 13”.
Dunque, nell’ipotesi in cui l’Amministrazione espropriante non emani il decreto di
esproprio entro il termine di cinque anni dalla dichiarazione di pubblica utilità, il
comportamento dell’Amministrazione stessa diventa sine titulo, dunque illegittimo
ed idoneo a determinare una richiesta di risarcimento del danno da parte del
privato.
Nella sentenza indicata in epigrafe il Consiglio di Stato afferma, tuttavia, che
perché il proprietario dell’area interessata dall’occupazione possa legittimamente
avanzare richiesta di risarcimento del danno deve provare l’effettiva apprensione
del bene da parte dell’Amministrazione in quanto: “la materia espropriativa è quella
che in cui, più di ogni altra ed anzitutto sul piano sostanziale, gli aspetti materiali
dell‟esecuzione dei provvedimenti, non rivestendo minor rilievo rispetto a quelli giuridici, si
intrecciano con questi ultimi, sino al punto da prendere, in alcuni casi, il sopravvento, con
rilevantissime implicazioni, anche sul piano civilistico, in ordine all‟assetto definitivo da darsi
alla proprietà oggetto dei procedimenti ablatori; e che proprio in relazione a ciò particolare
attenzione va adibita agli aspetti dell‟efficacia dei relativi provvedimenti ablatori, a buona parte
dei quali non a caso il legislatore riconosce carattere recettizio, ed alle vicende della loro
esecuzione”.
E’, dunque, onere del privato dimostrare l’elemento del danno ingiusto idoneo a
fondare una domanda risarcitoria ammissibile e detto pregiudizio si sostanzia,
nell’ipotesi di procedimento d’occupazione d’urgenza, nella materiale ed effettiva
occupazione dell’area da parte dell’Ente espropriante. La prova del pregiudizio in
questione va fornita, aggiunge il Collegio, con la produzione dell’avviso di
immissione in possesso, del successivo verbale attestante lo stato di consistenza
che avrebbe dovuto essere redatto contestualmente a tale immissione o, al più,
con documenti endoprocedimentali idonei a comprovare in modo inequivoco
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l’avvenuta presa in possesso del terreno. Non possono, al contrario, ritenersi
sufficienti eventuali
dichiarazioni sostitutive di atto notorio
o rilievi
aerofotogrammetrici dell’area in questione asseritamente risalenti all’epoca dei fatti
di causa in quanto non idonei a comprovare la materialità dell’apprensione
dell’area.
Né, conclude il Collegio, l’acquisizione della prova della effettiva occupazione può
ritenersi onere del giudice amministrativo per il principio, vigente nel processo
amministrativo, dell’onere del principio di prova. Questo, infatti, che comporta
l’onere per il ricorrente di presentare almeno un indizio di prova perché il giudice
possa esercitare i propri poteri istruttori (cfr., ex multis, Cons. Stato, sez. V, 7
ottobre 2009, n. 6118), è “contemplato dal “sistema” proprio in quanto il ricorrente, di per
sé, non ha la disponibilità delle prove, essendo queste nell‟esclusivo possesso dell‟amministrazione
ed essendo quindi sufficiente che egli fornisca un principio di prova”.
Viceversa, conclude il Collegio, “la disciplina contenuta nell‟art. 2697 cod. civ.
(corrispondente, ora, all‟art. 64, comma 1, cod. proc. amm.) secondo la quale spetta a chi agisce
in giudizio indicare e provare i fatti, deve trovare integrale applicazione anche nel processo
amministrativo ogniqualvolta non ricorra tale disuguaglianza di posizioni tra Pubblica
Amministrazione e privato, come - per l‟appunto - nel caso di specie, laddove si verte
esclusivamente sulla spettanza, o meno, di un risarcimento del danno: con la conseguenza che, a
pena di un‟inammissibile inversione del regime dell‟onere della prova, non è consentito al giudice
amministrativo di sostituirsi alla parte onerata quando quest‟ultima si trovi nell‟impossibilità di
provare il fatto posto a base della sua azione (cfr., al riguardo, ex plurimis, Cons. Stato , Sez.
V, 10 novembre 2010 n. 8006)”.
Consiglio di Stato, sentenza 8 febbraio 2011, n. 843.
Sui diversi tipi project financig e sui caratteri del project c.d. “a doppia gara”
Il project financing (finanza di progetto) consiste in un'operazione finanziaria
attraverso la quale le Pubbliche Amministrazioni realizzano opere pubbliche il cui
onere finanziario è parzialmente o totalmente a carico del privato, sulla base di un
piano finanziario in grado di garantire l'autofinanziamento dell'operazione stessa.
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Originariamente disciplinato negli articoli 37 bis e ss. della Legge Quadro in
materia di Lavori Pubblici (L. n. 109/1994), è oggi contemplato nell’articolo 153 e
ss. del Codice dei Contratti Pubblici. La norma da ultimo citata prevede, in
particolare,
che
l’Amministrazione
aggiudicatrice,
al
fine
di
pervenire
all’individuazione del soggetto realizzatore dell’opera pubblica, può seguire due
diverse procedure: quella a gara unica, prevista e disciplinata nei commi 1-14 e la
procedura a doppia gara, individuata nel successivo comma 15.
La procedura a gara unica si snoda attraverso le seguenti fasi: l’ente appaltante,
anzitutto, pubblica un bando di gara, ponendo a base dello stesso uno studio di
fattibilità (strumento attuativo del programma triennale dei lavori nel quale
devono riportarsi le analisi dello stato di fatto dei lavori programmati sotto il
profilo storico-artistico, architettonico, paesaggistico, di sostenibilità ambientale,
socio-economica, amministrativa e tecnica); indi, prende in esame le offerte che
sono pervenute nei termini indicati nel bando; redige una graduatoria secondo il
criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa e nomina promotore il
soggetto che ha presentato la migliore offerta; pone in approvazione il progetto
preliminare presentato dal promotore, sottoponendolo a conferenza di servizi, ex
articoli 14-bis e seguenti della l.n. 241/1990; quando il progetto non necessita di
modifiche progettuali, procede direttamente alla stipula del contratto di
concessione; qualora il progetto debba essere modificato, richiede al promotore di
procedere, stabilendone anche i termini: alle modifiche progettuali stabilite in sede
di conferenza di servizi, ad adeguare il piano economico-finanziario, a svolgere
tutti gli adempimenti di legge, anche ai fini della valutazione di impatto
ambientale. La predisposizione di tali modifiche e lo svolgimento di tali
adempimenti, in quanto onere del promotore, non comporta alcun compenso
aggiuntivo, né incremento delle spese sostenute ed indicate nel piano economicofinanziario per la predisposizione delle offerte. Qualora le modifiche proposte
non siano accettate dal promotore, l’amministrazione aggiudicatrice, fissando il
termine per la risposta, ha facoltà di chiedere progressivamente ai concorrenti
successivi in graduatoria la disponibilità a stipulare il contratto di concessione,
previa modifica del progetto preliminare del promotore, eventuale adeguamento
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del piano economico-finanziario nonché svolgimento di tutti gli adempimenti di
legge.
Quindi, se il progetto preliminare può essere approvato così come presentato in
gara, l’amministrazione ha l’obbligo di stipulare il contratto di concessione col
promotore; in caso contrario, se il progetto necessita di modifiche, è onere del
promotore effettuare le modifiche e, così operando, egli mantiene il diritto di
stipulare il contratto.
Parzialmente diversa la procedura a doppia gara. In essa, l’amministrazione
aggiudicatrice, dopo aver proceduto ad individuare il promotore seguendo gli
stessi passaggi sopra evidenziati, procede a mettere a base di gara il progetto
precedentemente approvato. Dunque, la stazione appaltante pubblica un bando
ponendo a base di gara il progetto preliminare approvato e il piano economico
finanziario; ove non siano state presentate offerte (che avranno ad oggetto
proposte di miglioramento di tipo tecnico-economico del progetto preliminare e
della convenzione) il contratto è aggiudicato al promotore; ove siano state
presentate una o più offerte, il promotore può, entro 45 giorni dalla
comunicazione dell’amministrazione aggiudicatrice, adeguare la propria proposta a
quella del miglior offerte, aggiudicandosi il contratto. In questo caso,
l’amministrazione aggiudicatrice rimborsa al miglior offerente, a spese del
promotore, i costi sostenuti per la partecipazione alla gara, nella misura massima
di cui al comma 9, terzo periodo, dell’articolo 153 del Codice. Ove il promotore
non adegui entro detto termine la propria proposta a quella del miglior offerente
individuato in gara, quest’ultimo è aggiudicatario del contratto e l’amministrazione
aggiudicatrice rimborsa al promotore, a spese dell’aggiudicatario, i costi sostenuti
nella misura massima di cui al comma 9, terzo periodo dell’art. 153 del Codice.
Nella pronuncia indicata in epigrafe il Consiglio di Stato sottolinea la diversa
funzione che connota ciascuna delle fasi sopra descritte, soffermandosi, altresì su
un aspetto particolare della proposta del soggetto aggiudicatario del progetto:
l’eventuale possibilità del promotore di asseverare il piano economico-finanziario
in data successiva a quella della presentazione della proposta.
Sotto il primo profilo, il Collegio rileva che allorchè si proceda ad avviare una
procedura di project financing cosiddetta a doppia gara, occorre tenere distinte,
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come di recente stabilito dall’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato nella
sentenza 1 aprile 2010, n. 2155, la fase preliminare dell’individuazione del
promotore e la successiva fase selettiva finalizzata all’affidamento della
concessione: “Mentre quest‟ultima presenta i caratteri della gara soggetta ai principi
comunitari e nazionali dell‟evidenza pubblica, la scelta del promotore, ancorché
procedimentalizzata, “è connotata da amplissima discrezionalità amministrativa, essendo intesa
non già alla scelta della migliore fra una pluralità di offerte sulla base di criteri tecnici ed
economici preordinati, ma alla valutazione stessa di un interesse pubblico che giustifichi, alla
stregua della programmazione delle opere pubbliche, l‟accoglimento della proposta formulata
dall‟aspirante promotore.” Peraltro, il modus procedendi che caratterizza la finanza di progetto è
improntato alla logica della collaborazione, in funzione del perseguimento del pubblico interesse,
tra promotore ed amministrazione che ispira tutta la fase preliminare di scelta e di approvazione
della proposta di project financing da sottoporre poi a pubblica gara (Cons. Stato, sez. V,
28.5.2010, n. 3399). Non può quindi parlarsi di una “cristallizzazione” negli atti di gara
delle caratteristiche e dei contenuti del progetto da realizzare, tenuto conto che i limiti della
proposta risiedono esclusivamente nel rispetto dei parametri atti a garantire una certa omogeneità
alle offerte progettuali, consistenti nell‟ubicazione e nella descrizione dell‟intervento da realizzare,
nella destinazione urbanistica, nella consistenza e nella tipologia del servizio da gestire”.
Dunque, nel project financing la fase preliminare dell'individuazione del
promotore e la successiva fase selettiva finalizzata all'affidamento della
concessione non possono essere considerate come autonome e distinte,
costituendo momenti di una procedura selettiva unitaria. Tuttavia, ciascuna fase di
detta procedura è soggetta a regole peculiari: mentre la fase selettiva finalizzata
all’affidamento della concessione, nella disciplina dettata dalla l. 11 febbraio 1994,
n. 109, sostanzialmente confluita nell'originario impianto del d.lg. 12 aprile 2006
n. 163, costituisce una vera e propria gara soggetta ai principi comunitari e
nazionali in materia di evidenza pubblica (sia pure con le peculiarità e le deroghe
previste in materia di affidamento di concessioni, nonché specificamente per il
project financing in quanto tale), al contrario la scelta del promotore, ancorché in
qualche misura procedimentalizzata e quindi entro certi limiti sindacabile in sede
giurisdizionale, è connotata da amplissima discrezionalità amministrativa, essendo
intesa non già alla scelta della migliore fra una pluralità di offerte sulla base di
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criteri tecnici ed economici predeterminati, ma alla valutazione dell'esistenza stessa
di un interesse pubblico che giustifichi, alla stregua della programmazione delle
opere
pubbliche,
l'accoglimento
della
proposta
formulata
dall'aspirante
promotore.
Di interesse anche quanto stabilito dal Collegio in merito all’eventuale mancata
asseverazione del piano economico-finanziario al momento della presentazione
della proposta che, ad avviso del Collegio, non costituisce motivo rilevante ai fini
dell’inammissibilità della proposta presentata dal promotore. Tale conclusione,
afferma il Collegio, è supportata non soltanto dal dato normativo offerto
dall’articolo 153 del Codice degli appalti ma, altresì, da quanto unanimemente
sostenuto dal Consiglio di Stato già prima dell’entrata in vigore del d.lgs. n.
163/2006.
Sotto il primo profilo, il Collegio osserva che l’art. 153 del Codice degli appalti
non prevede, come causa di esclusione, la mancata presentazione, unitamente alla
proposta,
dell’asseverazione.
Sicchè,
qualora
l’avviso
predisposto
dall’Amministrazione ometta, anch’esso, qualunque riferimento alla necessità di
questo specifico adempimento deve ritenersi ammissibile la proposta dell’impresa
individuata come promotore nonostante, benché al momento della sua
presentazione, mancasse di asseverazione da parte di un Istituto di credito.
Detto principio, ricorda il Collegio, costituisce un orientamento giurisprudenziale
ormai consolidato in seno al Consiglio di Stato che aveva già stabilito, sotto la
vigenza dell’art. 37-bis della legge 109/1994, a proposito della possibilità di
integrazione, che la trasmissione successiva di un’asseverazione “non esorbita
dall‟alveo proprio della potestà di integrazione attribuita all‟amministrazione giudicatrice, dacché
l‟adempimento in discorso non postula alcun intervento sul contenuto del piano economicofinanziario posto a corredo della proposta e, dunque, essa può sicuramente sopravvenire ai sensi
del comma 2-ter anche dopo il completo spirare del termine finale di presentazione” (Cons.
Stato, sez. V, 19.4.2005, n. 1802).
Sicchè, conclude il Collegio: “Del tutto similmente all‟integrazione disposta
dall‟amministrazione, può quindi considerarsi ammissibile l‟integrazione operata sua sponte dal
proponente, a maggior ragione quando risulti che la richiesta di asseverazione era già stata
inoltrata all‟istituto bancario al momento della presentazione della proposta”.
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Consiglio di Stato, sentenza 8 febbraio 2011, n. 854
Sull’obbligo di motivazione del provvedimento di affidamento di un servizio
pubblico locale tramite il sistema dell’in house e sui presupposti di risarcibilità
della lesione di interessi legittimi pretensivi
Le forme di gestione dei servizi pubblici locali sono oggi previste e disciplinate
dall’articolo 23 bis d.l. 25 giugno 2008 n.112, convertito in l. 133 6 agosto 2008.
Rispetto al sistema previgente, consacrato dall’articolo 113 del T.U.E.L., come
modificato dalle successive leggi finanziarie, e dall’articolo 13 del decreto Bersani,
la nuova disposizione ha introdotto tre principali modifiche: ha consacrato, come
principio fondamentale, quello della necessità della gara; ha eliminato
l’elencazione e la tipizzazione dei sistemi possibili di affidamento del servizio
pubblico locale (cinque nell’articolo 113 del T.U.E.L. e tre nel successivo articolo
13 del decreto Bersani); ha stabilito un criterio di affidamento da utilizzarsi in via
ordinaria (al secondo comma) e, a seguire, i casi in cui tale criterio può essere
derogato tramite il ricorso a criteri alternativi (nel terzo comma).
Il criterio generale è individuato nel 2° comma della disposizione indicata che
stabilisce: “Il conferimento della gestione dei servizi pubblici locali avviene, in via ordinaria, a
favore di imprenditori o di società in qualunque forma costituite individuati mediante procedure
competitive ad evidenza pubblica” e, la norma lo ribadisce, ciò al fine di garantire
l’attuazione dei principi sanciti nel Trattato istitutivo della Comunità Europea,
nonché di quelli relativi ai contratti pubblici, individuati dalla norma nei principi
“di economicità, efficacia, imparzialità, trasparenza, adeguata pubblicità, non discriminazione,
parità di trattamento, mutuo riconoscimento, proporzionalità”.
Il 3° comma individua il criterio derogatorio e aggiunge “In deroga alle modalità di
affidamento ordinario di cui al comma 2, per situazioni che, a causa di peculiari caratteristiche
economiche, sociali, ambientali e geomorfologiche del contesto territoriale di riferimento, non
permettono un efficace e utile ricorso al mercato, l'affidamento può avvenire nel rispetto dei
principi della disciplina comunitaria.”
La norma, dunque, prevede che nell’ipotesi in cui l’applicazione del criterio
ordinario indicato nel comma precedente non possa trovare applicazione perché
le peculiari caratteristiche economiche, sociali, ambientali e geomorfologiche del
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contesto territoriale non consentono un efficace ed utile ricorso al mercato,
l’affidamento del servizio pubblico locale può avvenire “nel rispetto dei principi della
disciplina comunitaria”. La norma, dunque, non fa espresso riferimento ad un
particolare sistema alternativo di affidamento del servizio e tale lacuna ha indotto
la dottrina e la giurisprudenza ad individuare i possibili sistemi alternativi.
Ebbene, non può di certo dubitarsi che uno di questi sistemi sia costituito
dall’affidamento in house, che è l’unico sistema derogatorio del principio di gara
riconosciuto e ritenuto legittimo dalla giurisprudenza comunitaria in quanto
strumento non di distorsione della concorrenza, ma di autoproduzione del bene.
Anche nel corpo stesso dell’articolo 23 bis, peraltro, si ritrova un aggancio
normativo dell’ammissibilità di questo sistema: l’articolo 10 lettera a) utilizza,
infatti l’espressione “assoggettamento dei soggetti affidatari diretti di servizi pubblici locali”.
Nella pronuncia in commento il Consiglio di Stato afferma che sebbene
l’affidamento del servizio ad una società in house sia una scelta possibile e legittima
da parte dell’amministrazione perché trova fondamento normativo, oltre che
nell’ordinamento giuridico interno, anche in quello comunitario, la stessa deve
sempre essere corredata da un’apposita motivazione in cui l’Ente appaltante
indichi in maniera puntuale non soltanto la sussistenza dei presupposti necessari
per procedere all’affidamento in house, ma altresì le ragioni per le quali questa
modalità di affidamento del servizio possa considerarsi più conveniente per
l’Amministrazione stessa rispetto altre: “Se è vero infatti, come sostenuto nel motivo in
esame, che la scelta di non trasferire ad un soggetto terzo la funzione amministrativa atta a
soddisfare la domanda relativa ad un pubblico servizio costituisce per la P.A. una facoltà
legittima (come previsto dal Trattato CE), ciò non esclude che comunque la decisione di ricorrere
ad una società "in house" invece che ad un soggetto terzo debba essere effettuata, per le ragioni
prima evidenziate, previa valutazione comparativa dei rispettivi servizi offerti”.
Di particolare interesse, altresì, le considerazioni formulate dal Consiglio di Stato
in ordine ai presupposti di risarcibilità degli interessi legittimi pretesivi.
Come noto, con la storica sentenza n. 500/1999, la Corte di Cassazione,
superando il suo precedente orientamento, ha accordato per la prima volta tutela
risarcitoria agli interessi legittimi.
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Detta sentenza si è distinta non soltanto per avere riconosciuto la risarcibilità dei
danni derivanti dalla lesione di interessi legittimi, ma, altresì, per avere affermato la
riconducubilità in queste ipotesi della responsabilità dell’Amministrazione al
modello della responsabilità extracontrattuale ex articolo 2043 c.c. e per aver
affermato che ai fini della risarcibilità di detti interessi fosse necessaria una verifica
preliminare sul tipo di interesse leso, se pretensivo o oppositivo.
Sicchè, ha statuito la Corte, per comprendere se è configurabile una responsabilità
extracontrattuale della P.A., se si è prodotto un danno ex art. 2043 c.c. “…il
giudice…dovrà procedere in ordine successivo a svolgere le seguenti indagini: a) in primo luogo
dovrà accertare la sussistenza di un evento dannoso; b) procederà, quindi, a stabilire se l‟accertato
danno sia qualificabile come danno ingiusto in relazione alla sua dipendenza su un interesse
rilevante per l‟ordinamento che può essere indifferentemente un interesse tutelato nelle forme del
diritto soggettivo, ovvero nelle forme dell‟interesse legittimo, o altro interesse giuridicamente
rilevante…c)dovrà, inoltre, accertare….se l‟evento dannoso sia riferibile ad una condotta della
P.A.; provvederà, infatti, a stabilire se il detto evento dannoso sia imputabile a dolo o a colpa
della P.A.; la colpa, infatti, costituisce elemento essenziale della responsabilità
extracontrattuale…”.
Inoltre, ad avviso della citata sentenza, in caso di lesione di un interesse legittimo
pretensivo, che si configura nel caso di illegittimo diniego del chiesto
provvedimento o di ingiustificato ritardo nella sua adesione “…dovrà vagliarsi la
consistenza della protezione che l‟ordinamento giuridico riserva alle istanze di ampliamento della
sfera giuridica del pretendente. Valutazione che implica un giudizio prognostico da condurre in
riferimento alla normativa di settore, sulla fondatezza o meno dell‟istanza, onde stabilire se il
pretendente fosse titolare non già di una mera aspettativa, come tale non tutelabile, bensì di una
situazione suscettibile di determinare un oggettivo affidamento circa la sua conclusione positiva e
cioè di una situazione che, secondo la disciplina applicabile era destinata secondo un criterio di
normalità ad un esito favorevole e risultava quindi, giuridicamente tutelata”.
Dunque, gli interessi legittimi pretesivi necessitano, ad avviso della Corte, di un
giudizio prognostico in ordine alla consistenza della protezione che l’ordinamento
riservava alle istanze di ampliamento della sfera giuridica del pretendente;
nell’ipotesi in cui il privato faccia valere un interesse legittimo oppositivo, invece,
la risarcibilità della lesione del medesimo non potrebbe comportare la
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formulazione
di
alcun
giudizio
prognostico
e
potrebbe
conseguire
dall’accertamento della illegittimità anche solo formale del provvedimento
impugnato.
La dottrina maggioritaria e la giurisprudenza più recente hanno fortemente
criticato la radicale posizione assunta dalla Cassazione nel 1999, sulla base della
considerazione che la stessa avrebbe dato luogo ad un sistema di iperprotezione
dell’interesse oppositivo il quale avrebbe ricevuto protezione anche in presenza di
vizi procedimentali meramente formali che, tuttavia, non potrebbero impedire
all’Amministrazione una riedizione del potere dagli stessi esiti. Al contrario, si è
sostenuto che anche con riguardo agli interessi oppositivi possono aversi vizi
formali del provvedimento amministrativo che, anche se eliminati, non
cambierebbero il contenuto sostanziale del provvedimento, stante la non
spettanza al singolo del bene della vita. Dunque, anche con riferimento a tali
interessi, è oggi richiesto, ai fini del riconoscimento al singolo di un risarcimento
danni, un giudizio prognostico da parte del G.A. che accerti la lesione o meno del
bene della vita.
La sentenza indicata in epigrafe riprende e conferma le considerazioni formulate
dalla Corte di Cassazione nel lontano 1999 e conferma: “Osserva la Sezione che la
domanda di risarcimento dei danni è regolata dal principio dell'onere della prova di cui all'art.
2697 c.c., sicché grava sul danneggiato l'onere di provare, ai sensi del citato articolo, tutti gli
elementi costitutivi della domanda di risarcimento del danno per fatto illecito (danno, nesso
causale e colpa). Il risarcimento del danno non è quindi una conseguenza automatica e costante
dell'annullamento giurisdizionale, richiedendo la positiva verifica, oltre che della lesione della
situazione soggettiva di interesse tutelata dall'ordinamento, della sussistenza della colpa o del
dolo dell'Amministrazione e del nesso causale tra l'illecito e il danno subito. Il risarcimento del
danno conseguente a lesione di interesse legittimo pretensivo è subordinato, pur in presenza di
tutti i requisiti dell'illecito (condotta, colpa, nesso di causalità, evento dannoso), alla
dimostrazione, secondo un giudizio di prognosi formulato ex ante, che l'aspirazione al
provvedimento fosse destinata nel caso di specie ad esito favorevole, quindi alla dimostrazione,
ancorché fondata con il ricorso a presunzioni, della spettanza definitiva del bene collegato a tale
interesse, ma siffatto giudizio prognostico non può essere consentito allorché detta spettanza sia
caratterizzata da consistenti margini di aleatorietà (Consiglio Stato, sez. V, 15 settembre
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2010, n. 6797). Deve quindi escludersi che l'annullamento di un atto illegittimo per difetto di
motivazione possa ex se comportare il diritto al risarcimento dei danni subiti, in quanto tale
vizio non esclude (ma, anzi, consente) il riesercizio del potere, con la conseguenza che la domanda
di risarcimento non può essere valutata che all'esito nel nuovo eventuale esercizio del potere. Va
dunque respinta la domanda di risarcimento del danno nel caso di accertamento giudiziale
dell'illegittimità di un provvedimento, come nel caso che occupa, per difetto di motivazione, nulla
potendo evincersi da detta statuizione riguardo alla fondatezza della pretesa fatta valere
dall'interessato ed al nesso di causalità tra il danno e la condotta dell'amministrazione”.
Consiglio di Stato, sentenza 3 febbraio 2011, n. 780
Sulla responsabilità precontrattuale della stazione appaltante nell’ipotesi di revoca
degli atti di gara per violazione di norme imperative.
In tema di gare, è possibile distinguere diversi tipi di danni risarcibili a seconda del
tipo di responsabilità che si configura in capo alla stazione appaltante.
Qualora vi sia stata l’ingiustificata rottura delle trattative o la mancata stipulazione
del contratto a causa della revoca dell’aggiudicazione e di un comportamento
scorretto della P.A. che non ha, ad esempio, tempestivamente adempiuto
all’obbligo di comunicare tale atto all’aggiudicatario, la giurisprudenza
amministrativa è concorde nel ritenere che si profila un’ipotesi di responsabilità
precontrattuale della P.A. ove il danno risarcibile è costituito dal danno
emergente, ossia dalle spese sostenute per partecipare, e dal lucro cessante, pari
alle occasioni perse a causa dell’aver concorso ad una gara inutile, mentre non va
risarcito l’interesse positivo, costituito dall’utile d’impresa derivante dalla
stipulazione del contratto.
Orbene, nella sentenza in esame il Consiglio di Stato sottolinea che non sempre
l’esercizio del potere di revoca dell’aggiudicazione da parte dell’Amministrazione
comporta la configurazione in capo alla stessa di una responsabilità di tipo
precontrattuale e il conseguente obbligo di risarcire il privato del danno da questi
subito. Invero, pur in presenza di un atto di revoca dell’aggiudicazione che
impedisce all’Ente appaltante di stipulare il contratto, il comportamento
dell’Amministrazione può ritenersi pienamente legittimo allorché il potere di
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autotutela sia stato esercitato nel rispetto delle norme procedimentali previste
dalla legge n. 241/1990 e sia stato motivato dalla necessità di evitare la
conclusione di un contratto illecito. Ciò, continua la Corte, vale ancor di più
allorché l’aggiudicatario conosceva o poteva conoscere i vizi di illiceità che
avrebbero travolto il successivo contratto, non potendosi in tal caso ravvisare un
ragionevole affidamento, giuridicamente tutelato, alla relativa stipula.
Rileva, dunque, il Collegio: “…per la pacifica giurisprudenza della Corte di Cassazione
(consolidatasi per le controversie devolute ratione temporis al giudice civile):
non si può ritenere accoglibile una domanda volta al risarcimento del danno derivante da
responsabilità precontrattuale, quando il contratto non sia stato stipulato, perché una delle parti
– anche in extremis – rileva che la stipula comporterebbe la violazione di norme imperative (per
tutte, Sez. Un., 11 febbraio 1982, n. 835; Sez. Un., 14 marzo 1985, n. 1987);
- l‟Amministrazione pubblica, quando abbia posto in essere trattative per addivenire alla stipula
di un contratto da concludere a seguito di un procedimento ad evidenza pubblica, può senz‟altro
recedere dalle trattative senza incorrere in alcuna responsabilità (Sez. I, 29 luglio 1987, n.
6545), non potendosi anche in tal caso ravvisare un „ragionevole affidamento‟, giuridicamente
tutelato, alla relativa stipula.
La Sezione rileva che tali orientamenti, a loro volta, sono espressione di un più generale principio
generale, per il quale l‟Amministrazione deve sempre evitare di concludere un contratto
contrastante con norme imperative e cioè:
- deve interrompere la trattativa privata avviata quando sia prescritta la gara ad evidenza
pubblica;
- deve annullare gli atti della gara ad evidenza pubblica, se il previsto contratto di per sé risulta
in contrasto con una norma imperativa.
Infatti, l‟ordinamento da un lato apprezza con favore il ritorno alla legalità, prevedendo i poteri
di autotutela dell‟Amministrazione, dall‟altro non prende in favorevole considerazione – sotto il
profilo di possibili pretese risarcitorie - la posizione di coloro che, coinvolti nella trattativa privata
o nella gara finalizzate alla stipula del contratto che si rilevi contra legem, abbiano
consapevolmente o colposamente aderito alla iniziativa illegittima dell‟Amministrazione….
Oltre dunque alle considerazioni sopra riportate sulla rilevanza in sé delle norme imperative (ciò
che già rileverebbe per escludere un legittimo affidamento), nella specie proprio la qualità dei
professionisti coinvolti avrebbe dovuto da subito far loro constatare la manifesta illegittimità della
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iniziale determinazione dell‟Amministrazione: ciò evidenzia non solo la mancanza di un
legittimo affidamento, ma anche la loro colpa professionale, dal momento che rientra – o deve
rientrare - nel bagaglio di comune conoscenza degli avvocati la regola per cui le Amministrazioni
statali si avvalgono e si devono avvalere del patrocinio della Avvocatura dello Stato”.
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