descrizione storica - CAI - Sezione "Monte Nero"

Transcript

descrizione storica - CAI - Sezione "Monte Nero"
GIAIDEIT
NOTA STORICA
I Moti Friulani del 1864
Il Giaideit con i Monti Strabùt e Cuèi di Giai racchiudono la conca ove sorge Illegio, piccola e
storica frazione del Comune di Tolmezzo.
La zona fu testimone, dopo il fallimento dei moti friulani del 1864, del passaggio degli insorti
friulani, al seguito di Giovanbattista Cella da Udine, che passarono per questi luoghi per sfuggire
agli austriaci che davano loro la caccia. Questa è una vicenda semisconosciuta della nostra storia
Risorgimentale, nella quale alcuni patrioti per un mese, fra ottobre e novembre del 1864, riuscirono
a tener in scacco migliaia di soldati austriaci.
I moti risorgimentali friulani del 1864 furono il frutto della situazione che si venne a creare dopo la
seconda guerra d’indipendenza del 1859 e la successiva impresa dei Mille di Garibaldi del 1860 che
aveva portato, dopo i plebisciti nell’Italia centrale e meridionale, alla costituzione, nel 1861, del
nuovo stato unitario italiano: il Regno d’Italia con re Vittorio Emanuele II.
Nel 1864 non facevano però ancora parte del neo costituito stato italiano né Roma e il Lazio (Stato
Pontificio, protetto dalla Francia di Napoleone III) né il Veneto, il Trentino, il Friuli e la Venezia
Giulia (territori sotto il dominio dell’Impero Asburgico).
Nel giovane Regno le strategie da adottare per arrivare al completamento dell’unità d’Italia, con
l’annessione delle terre del nord est e del Lazio erano differenti a seconda delle posizioni politiche
assunte dagli allora protagonisti politici.
La Destra storica, filo-monarchica, sosteneva che soltanto la diplomazia esercitata dal governo,
anche se condizionata dall’alleanza con la Francia, era titolata a
risolvere la questione
dell’annessione di quei territori.
La Sinistra storica del partito d’azione (democratici, repubblicani, mazziniani garibaldini) asseriva
invece il diritto del popolo di affrettare mediante iniziative insurrezionali il compimento dell’unità
d’Italia.
E’ in quest’ultima ottica che Mazzini, sostenuto da Garibaldi, pensò di organizzare una vasta
insurrezione popolare che dal Trentino al Friuli avrebbe poi dato origine ad altre rivolte fuori
dall’Italia, anche in altri territori soggetti all’Austria.
L’ipotesi mazziniana, sostenuta segretamente dal re Vittorio Emanuele III che tra l’altro si era
impegnato a fornire cospicui aiuti economici a sostegno della causa, si fondava sull’organizzazione
di bande armate in Trentino, Veneto, Cadore e Friuli che avrebbero dovuto provocare insurrezioni
popolari tali da costringere il regio esercito italiano ad impegnarsi in una guerra contro l’Austria.
Mazzini era convinto che tale insurrezione avrebbe prodotto altre rivolte indipendentiste in Polonia,
Ungheria e Serbia tali da aggravare ancor di più la situazione militare asburgica e quindi facilitando
le operazioni per la definitiva liberazione delle terre irredente.
Napoleone III venne però a conoscenza di questi progetti e impose il suo divieto assoluto di
intraprendere qualsiasi atto ostile nei confronti della duplice monarchia. Il re d’Italia a quel punto
decise di abbandonare Mazzini e Garibaldi.
Mazzini però non rinunciò ad agire e anche se sapeva di poter far affidamento su poche risorse
finanziarie, ma decise ugualmente di attuare il suo tentativo, nella convinzione che l’insurrezione
popolare avrebbe potuto ugualmente liberare le terre del nord est dal dominio Austriaco. Nel 1863
i comitati d’azione mazziniani cominciarono a preparare i piani per l’insurrezione e a formare le
bande di patrioti composte ciascuna da cinquanta uomini comandati da ufficiali garibaldini.
Dopo lunghi preparativi, contatti con gruppi rivoluzionari, ordini e contrordini, il 16 ottobre 1864
una banda composta da circa cinquanta di uomini, denominata la banda di Navarons, detta anche
banda “Tolazzi o delle Alpi Friulane” armati di fucili, revolver e di bombe a mano, guidata dal
medico dott. Antonio Andreuzzi, repubblicano, mazziniano, e da Francesco Tolazzi (responsabile
militare della banda)
partì dal piccolo ed isolato borgo montano di Navarons alla volta di
Spilimbergo e Maniago dove attaccarono e disarmarono la guarnigione austriaca riuscendo ad
occupare la caserma della gendarmeria dove venne issato il tricolore. Nonostante però gli inviti
all’insurrezione, la gente non aderì alla sollevazione contro gli austriaci. Perciò, constatata
l’indifferenza della popolazione locale, la banda fu costretta a prendere la via verso Tramonti di
Sopra e successivamente, per sfuggire alla caccia degli austriaci, sui monti tra il Meduna e il
Cellina, dove l’8 novembre 1864, sulla Forca degli Agnelli, gli ultimi sedici componenti della
banda si sciolsero.
Insieme a quella di Navarone, altre bande dovevano contemporaneamente muoversi nell’arco delle
Prealpi Venete e Friulane ma, per una serie di motivi, solamente la banda detta di “Maiano” o di
“Cacciatori delle Alpi” composta da ventisette uomini, condotta da Gianbattista Cella di Udine, già
ufficiale garibaldino durante l’impresa dei Mille, attuò dal 6 al 13 novembre 1864 una manovra
diversiva in Carnia, per distogliere la Val Meduna parte degli austriaci che danno la caccia alla
banda di Andreuzzi.
Il Cella si mosse con i suoi uomini da San Daniele e dopo un’incursione a Venzone, dove tentò di
sobillare senza riuscirvi la cittadinanza, si portò a Moggio Udinese dove completò l’armamento e
dopo essersi approvvigionato di viveri per qualche giorno si mosse verso Dondola.
Successivamente per eludere la cattura da parte degli austriaci fuggì sui monti della Carnia nella
Valle d’Incaroio, da dove si spinse fino a Illegio dove la sera del 9 novembre pernottano presso la
malga Oltreviso. Lasciata la malga Oltreviso il 10 novembre la banda proseguì per Casera
Plasecca dove ricevette la notizia che numerose truppe austriache allo loro ricerca stavano
setacciando la zona. A quel punto i garibaldini ripiegarono sugli Stavoli di Moggio, a ridosso del
Monte Amariana, dove giunsero nella sera del sabato 12 novembre. Domenica 13 novembre 1864, i
componenti superstiti della banda di Majano, resesi conto di non trovare seguito nella popolazione e
dell’inutilità di proseguire nell’impresa si sciolsero.
Le autorità militari e civili austriache, ai primi resoconti sugli episodi insurrezionali, reagirono
prontamente attuando energiche misure di repressione. Nelle province di Udine ed in alcune parti
di quelle di Treviso e Belluno venne proclamato lo stato d’assedio che prevedeva la pena capitale
per gli insorti. Fu mobilitata una brigata che posta agli ordini del Maggior Generale Krismanich
stabilì il proprio quartier generale a Udine. Tale unità era composta dal Reggimento Fanteria
“Barone Mamula” n.25, da 19 Battaglioni Cacciatori e da parecchi distaccamenti prelevati dalle
guarnigioni di Treviso Gorizia e Conegliano. Inoltre, agli ordini del Maggiore Claner, venne
costituita anche una colonna mobile che divisa in vari distaccamenti di perlustrazione aveva il
compito di dare la caccia agli insorti. Anche la gendarmeria ed i reparti di polizia
furono
largamente impegnati sia a sostegno delle unità militari sia nelle indagini per scoprire gli autori del
moto ed i loro fiancheggiatori. La loro opera fu così assidua che in quindici giorni di caccia spietata,
compiendo arresti e perquisizioni, riuscirono a soffocare il moto.
L’insurrezione friulana fu inizialmente considerata da Vienna come l’inizio di una più ampia
impresa rivoluzionaria condotta da Mazzini e Garibaldi. In seguito l’autorità austriaca, non appena
appurò l’estraneità
dei fatti da parte del governo italiano e che le popolazioni dei territori
interessate non erano insorte, ridimensionò l’accaduto.
I capi dei moti friulani, aiutati da altri patrioti, riuscirono a fuggire e sconfinare in Italia mentre la
maggior parte dei componenti delle bande di insorti, dopo i giorni passati alla macchia, si arresero
presentandosi spontaneamente alle autorità austriache ciò permise loro di evitare la condanna a
morte.
Il processo contro gli insorti e i loro favoreggiatori, si svolse a Venezia tra il gennaio e il febbraio
1966 dove i 73 imputati, quasi tutti friulani, vennero condannati in quanto riconosciuti rei di alto
tradimento, ma nel clima di crisi nel quale si trovava in quel periodo l’impero asburgico, ad essi fu
applicato il minimo della pena. La loro detenzione durò fino alla liberazione del Veneto avvenuta
nel 1866 al termine della terza guerra d’indipendenza.
BIBLIOGRAFIA:
Per approfondire l’argomento, si segnalano i seguenti testi:
-
GIORGIO MADINELLI, I sentieri dei garibaldini – Escursioni sui monti tra Medusa e
Cellina sulle orme degli insorti friulani del 1864, Ediciclo Editore, 2003, Portogruaro (VE);
-
GIORGIO MADINELLI, In Carnia con Garibaldi – Escursioni in Serio e Grauzaria sulle
orme degli insorti friulani del 1864, Ediciclo Editore, agosto 2007, Portogruaro (VE).
-
ERNESTO DE AGOSTANI, Ricordi Militari del Friuli 1797 – 1870, 2° Vol., Tarantola
Tavoschi, Udine 1976;