Forche Caudine

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Forche Caudine
IN QUESTO NUMERO
FORCHE CAUDINE
Associazione dei Romani
d’origine molisana
L’importanza dei ricordi
Valeria
Notiziario dell’associazione
edito dal 1989
Giampiero Castellotti
presidente
Donato Iannone
vicepresidente
Gabriele Di Nucci
segretario
Gianluigi Ciamarra
Giovanni Scacciavillani
presidenti onorari
Di Blasio, classe 1976,
architetto, è un’apprezzata pittrice.
Spazia dal figurativo all’astratto.
Una passione, quella per l’arte,
diventata professione. Sono sempre
di più i quadri che le vengono
commissionati. Lei è nata e vive a
Roma,
orgogliosamente
“in
periferia”. Ma le sue radici paterne,
rivelate già dal cognome, sono in
Molise, a Casacalenda. Così Valeria
racconta a “Forche Caudine” il
legame con il paese bassomolisano
celebre per il rilevante movimento
di
artisti
contemporanei.
A
cominciare dal rapporto con la
nonna molisana, che oggi ha 91
anni.
Valeria Di Blasio, romana,
originaria di Casacalenda
Da
Fabio Scacciavillani
presidente com. scientifico
----------------------------------Supplemento al sito
www.forchecaudine.com
testata giornalistica registrata
il 30 maggio 2008 (n. 221)
presso il Tribunale di Roma
(già registrato il 9/1/90, n. 5
come periodico cartaceo).
Direttore: Giampiero Castellotti
WWW.FORCHECAUDINE.IT
[email protected]
------------------------------------La Newsletter di Forche Caudine
raggiunge 6.414 persone
(30% Roma, 30% Molise,
20% resto d’Italia, 20% estero).
Inoltre numerose associazioni
la inoltrano ai propri soci.
Roma a Firenze. Il nonno,
ingegnere,
si
trasferì
da
Roccamandolfi, in Molise, nel
capoluogo toscano. Assunto dal
Genio civile. Così Toni De Santoli,
stesso nome del nonno, è un
fiorentino doc. Classe 1946,
giornalista, giocatore di rugby,
giramondo. Ma non ha mai
dimenticato quello splendido paese
del Molise dove ha trascorso estati
entrate nel mito. E ora, su “Forche
Caudine”, ripercorre quegli anni
disegnando una splendido affresco
comune a tanti paesi molisani del
dopoguerra. Dodici pagine da
gustare d’un fiato.
Toni De Santoli, fiorentino,
originario di Roccamandolfi
Due storie che fanno parte di quel “grande Molise” che non ha confini. Una
comunità distribuita in tutto il mondo, ricca di valori e di competenze. Non
sempre sfruttate a dovere dagli amministratori regionali, che talvolta hanno
trasformato in puro folklore una presenza o un’esigenza di radici solide.
La memoria, anche inconsapevolmente, è il presente e il futuro. Disperderla –
o, peggio, negarla – è indubbiamente un segno di impoverimento.
Per cancellazioni,
anche in riferimento
alla legge sulla privacy:
[email protected].
La collaborazione è gratuita.
“Forche Caudine”
è realizzato per passione
e senza fini di lucro.
Liberi contributi all’associazione
Iban
IT16 J076 0103 2000 00062645890
intestato associazione
Forche Caudine
Ringraziamo le tantissime persone che ci scrivono e ci sostengono. La
nostra casella di posta ([email protected]) molto spesso è satura
proprio per la mole di corrispondenza che giunge da tutto il mondo.
Non avendo una rubrica di lettere sul giornale, per le risposte private
preghiamo tutti di avere un po’ di pazienza con i tempi…
FORCHE CAUDINE – PAGINA 2
EMOZIONI / 1
Neve da record
a Capracotta
Il paese molisano
fa il giro del mondo sui media
di GABRIELE DI NUCCI
Capracotta,
chi altri se no? Il paese più alto degli
Appennini, con i suoi 1.421 metri sul livello del mare,
annualmente si mette in evidenza per la quantità di neve
che lo ricopre. Non solo centimetri, ma metri. La sua web
camera, collocata in piazza Falconi, è un legame
imprescindibile per i tanti emigrati che hanno così modo,
quotidianamente, di controllare il loro piccolo angolo di
Paradiso. Tra un camion e qualche automobile, d’inverno il
vero protagonista è il manto bianco.
Tra il 7 e l’8 marzo scorsi, in appena sedici ore, sono caduti
più due metri e 56 centimetri di neve, tanto da far parlare
di primato mondiale che il paese avrebbe strappato a due
località statunitensi.
Proprio partendo da questo record – in fatto di guinness
gli americani sono particolarmente sensibili – la notizia ha
avuto forte risonanza soprattutto negli Stati Uniti e in
Gran Bretagna.
La “Cnn”, tra le maggiori e più note emittenti a stelle e
strisce, ha mandato in onda più servizi video e ha
pubblicato una news apposita sul proprio sito web. Altri
giornali – quali “Mirror”, “Telegraph”, “Time” – hanno
diffuso la notizia, accompagnandola al “timore” che cada
il primato attualmente detenuto da Boston e da Silver
Lake, in Colorado, per la nevicata del 1921 (193 centimetri
di neve in 24 ore).
A decidere a chi andrà il primato dopo l’evento italiano
sarà l’Organizzazione meteorologica mondiale.
Il “Mirror” ha intervistato una residente del posto, la
quale ha raccontato di aver vissuto tutta la vita a
Capracotta e non di non aver mai visto una nevicata del
genere. Il “Telegraph” ha titolato il proprio pezzo “Il
paese che ha raggiunto gli otto piedi (2,5 metri, ndr) di
neve in un giorno”, pubblicando le foto della nevicata.
“Un paesino italiano – si legge sul quotidiano inglese –
potrebbe diventare uno dei luoghi più nevosi del mondo
dopo essere stato ricoperto da 2,56 metri di neve in meno
di 24 ore. Gli abitanti salgono su grossi cumuli di neve per
entrare nelle finestre ai primi piani e vanno in giro con
ciaspole e sci“.
I giornalisti di TeleAesse, la dinamica web-tv dell’Alto
Sangro, hanno fatto sapere di essere stati contattati dalla
giornalista Margot Haddad della Cnn, in possesso di molti
scatti fotografici sulla nevicata molisana reperiti attraverso
la rete, ma a corto di immagini. Facendo una ricerca su
Youtube, la giornalista americana ha scoperto il video
dell’emittente con le spettacolari immagini della neve a
Pescopennataro, paese vicino a Capracotta, convincendosi
di poterle utilizzare sulla piattaforma Cnn.margot.
La redazione della tv ha rilasciato l’autorizzazione a Mrs.
Haddad con la promessa che, nel mandare in onda le
immagini, citi il riferimento della fonte.
■
FORCHE CAUDINE – PAGINA 3
EMOZIONI / 2
Sul treno d’epoca
Con il Molise dei giovani
che promuovono il paesaggio
di MC
Dieci ore tra le montagne molisano-abruzzesi, a bordo
della “transiberiana d’Italia”, la tratta ferroviaria da
Isernia a Carpinone, che offre un colpo d’occhio
mozzafiato per gran parte del suo itinerario.
Su uno dei vagoni anche i giovani molisani iscritti al
Master Unimol di II livello in Progettazione e promozione
del paesaggio culturale, che hanno presentato le loro
attività ai circa quattrocento passeggeri.
Ancora una volta un viaggio spettacolare: da Isernia a
Sulmona, tra montagne innevate e avvistamenti di lupi e
cinghiali. La transiberiana d’Italia conferma il potenziale di
fascino e il meraviglioso impatto ambientale, supportato
da numeri importanti: carrozze d’epoca “centoperte” e
“terrazzini” gremite per un totale di quattrocento
passeggeri che hanno vissuto le dieci ore di viaggio con
entusiasmo e voglia di vedere e apprezzare.
Non solo tanto paesaggio, ma anche brevi soste e, una
volta a Sulmona, una interessante tappe tra le bellezze
architettoniche e i sapori più noti, confetti in testa, della
bella cittadina abruzzese.
Assieme all’Associazione Culturale Le Rotaie, che ha
organizzato l?evento con la collaborazione della
Fondazione Ferrovie dello Stato Italiane e il sostegno della
Confederazione Mobilità Dolce, tanti molisani, ma anche
viaggiatori provenienti da fuori regione, pronti a
immergersi nello scenario, reso ancora più suggestivo
dalle montagne imbiancate, dell’Appennino molisanoabruzzese.
A bordo della "transiberiana d’Italia" era presente pure il
gruppo di lavoro del Master di II livello in ‘Progettazione e
Promozione del Paesaggio Culturale’ dell’Università del
Molise guidato dai docenti Gilda Antonelli e Luciano de
Bonis. E ha partecipato al viaggio anche il presidente della
Regione Molise, Paolo di Laura Frattura, che assieme alla
Direzione Generale per i Beni Culturali e Paesaggistici del
Molise è partner dell’Università del Molise nel Master.
Frattura è arrivato con l’inseparabile labrador Axel. Per lui
una giornata meno stressante del solito nella quale il
governatore ha comunque preso spunto per verificare di
persona la straordinaria portata promozionare del treno
d’epoca.
Con lui archeologi, architetti, esperti in didattica museale
ed in comunicazione, che hanno distribuito una brochure e
illustrato le particolarità del percorso attraversato: gli
architetti hanno spiegato con l’ausilio di tre diverse mappe
l’evoluzione del sistema insediativo regionale, le
archeologhe hanno evidenziato gli insediamenti che si
rinvengono sul percorso dalle prime tracce preistoriche
agli insediamenti sannitici e poi medioevali.
Gli esperti della didattica e comunicazione hanno, infine,
raccontato il territorio attraverso musei e castelli per
concludere con le tradizioni culinarie tipiche della zona,
altro patrimonio indiscusso da valorizzare.
Cultura e paesaggio si sono sposati bene nella giornata
trascorsa a bordo treno d’epoca.
Sullo sfondo le alture appenniniche e il desiderio di tutti,
governatore Frattura compreso, di assaggiare un po’ di
quel Molise che piace tanto e che, anche per il tramite del
Master Unimol, proverà a rilanciare le sue quotazioni di
Regione straordinaria sul piano paesaggistico e
dell’accoglienza. (Primonumero)
■
Panorama di Carpinone (Isernia)
FORCHE CAUDINE – PAGINA 4
FOTO NOTIZIE
Il Molise autentico
QUI CAMPOBASSO
QUI ISERNIA
CAPRACOTTA (Isernia). I profumi dei caciocavalli
dell’azienda Pallotta. Solo a vederli, l’acquolina in bocca...
MONTORIO DEI FRENTANI (Campobasso). Donne al
lavoro per la festa di San Giuseppe. Foto fornitaci da
Marcello Pastorini.
LARINO (CAMPOBASSO) - Bruno Mottillo di Larino e
Marina Colonna di San Martino si sono aggiudicati il
premio nazionale Ercole d’Olio per due loro prodotti, due
olii Dop di questo territorio. Foto di Michele Mignogna.
FROSOLONE (Isernia). Ecco la foto de “I borghi più belli
d’Italia”. Photo Credit: @ginpet72. Chosen by:
@ortodibalu. Il bel commento di Giorgio D’Antonio:
“L'apprezzamento per Frosolone viene non solo dalla
suggestione delle sue piazzette e. dei suoi vicoli... non
solo dalla cordialità della sua gente... Non solo dalle sue
risorse economiche, ma anche dai tramonti e dalle cime
che si stagliano nette sugli sfondi grigio-arancione
determinati dall'astro calante lì a ponente”.
FORCHE CAUDINE – PAGINA 5
MOLISE DA SCOPRIRE
Dieci luoghi, in bici…
“Life in travel”, uno dei principali siti di avventure in bicicletta,
per la prima volta solca il Molise. Con questi risultati…
“Per noi il Molise è stata una vera sorpresa. E non ci
può far altro che piacere sapere che il nostro articolo
sarà pubblicato sul vostro giornale”. Così Veronica del
sito “Life in travel”, uno dei principali portali di
cicloturismo, commenta con “Forche Caudine” una
novità davvero esaltante per noi romani d’origine
molisana: la scelta del Molise per un viaggio su due
ruote. Il primo, dopo tanti anni di prestigiosa attività di
“Life in travel”, con destinazione la più piccola regione
del Mezzogiorno. Del resto il giudizio di “Life in
travel” è davvero importante per chi ama il Molise. Il
sito aggrega cicloviaggiatori, persone con la voglia di
condividere conoscenze ed emozioni del cicloturismo,
il viaggio lento e senza stress. Un portale costruito
molto bene, ricchissimo di informazioni e di resoconti
di viaggi. Finora fatti in tutto il mondo, svariate volte
anche in altre regioni italiane e mai in Molise.
Ecco allora come Veronica dà inizio al suo racconto
sull’avventura alla scoperta della nostra regione.
“Una delle regioni italiane meno conosciute anche
dagli stessi italiani è senza ombra di dubbio il Molise.
Racchiuso tra Appennino, Monti del Matese e mare
solitamente viene lambito mentre si viaggia in
autostrada, ma in bicicletta tutto cambia. Scoprire
lentamente cosa vedere in Molise, pedalare da una
collina ad un'altra, costeggiare le montagne e risalirne
gli ardui pendii, è un'esperienza che consigliamo a
tutti. Dopo aver pedalato in Molise durante
Transitalia,
la
nostra
avventura
attraverso
l'Appennino in bicicletta, vogliamo suggerire qualche
luogo da non perdere assolutamente...”.
“Il Molise ha un territorio variegato: è prettamente
montuoso, ma le colline occupano oltre il 40%
dell'intera superficie. Attraversato dalle antiche vie di
transumanza dell'Appennino, i tratturi, fu abitato
dall'antico popolo italico dei sanniti ed ancora oggi è
possibile visitare alcuni siti storici importanti.
www.lifeintravel.it
Pedalando dall'Appennino attraverso il Sannio e i
Monti del Matese fino a toccare il mare a Termoli,
vogliamo consigliare cosa vedere in Molise durante un
viaggio in bici”.
Ecco i dieci luoghi consigliati da Veronica: come darle
torto?
VASTOGIRARDI – E’ uno dei primi paesi del Molise che
abbiamo visitato in bicicletta. Non lontano dal paese
nasce il fiume Trigno che scorre poi fino al mare in
provincia di Chieti. All'ingresso di Vastogirardi, che si
raggiunge salendo a 1200 metri di quota, è possibile
inoltrarsi lungo una strada secondaria sulla sinistra in
direzione del campo sportivo. Oltrepassato il campo, si
potrà continuare in bicicletta fino ai resti di un antico
tempio italico abbandonato un po' alle ingiurie del
tempo. Il paese è di origine medievale ed una delle
caratteristiche più interessanti è il nucleo del castello
fortificato da dove si entra e si esce dallo stesso.
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FORCHE CAUDINE – PAGINA 6
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PIETRABBONDANTE - Deve di certo il suo nome alla
posizione arroccata tra gli enormi massi chiamati
Morge. Prima di entrare in paese (prepararsi a pedalare
in salita!) si incontra il suggestivo Bovianum Vetus,
l'antico sito ellenistico-italico risalente al 95 a.C. e un
tempo capitale del Sannio. L'ingresso al sito è a
pagamento (4 euro circa), ma è una di quelle cose da
vedere in Molise per bellezza, interesse storico,
culturale e paesaggistico. Dal teatro del Bovianum Vetus
si ha un panorama ameno sul Molise dove i borghi
arroccati punteggiano e caratterizzano il territorio. Se si
ha ancora gamba salire fino alla piazza di
Pietrabbondante e poi arrampicarsi tra le Morge,
superare la chiesetta di Santa Maria Assunta e salire fino
alla croce, il punto più alto del paese.
BAGNOLI DEL TRIGNO - Dalla strada che lascia
Pietrabbondante perdendo quota si scorge questo
suggestivo borgo che svetta tra i massi ad est, sospeso
tra terra e cielo. L'origine di Bagnoli di Trigno è legata
ad alcune leggende delle quali non si ha però un
fondamento storico. Pittoresco come Pietrabbondante,
dovrai cimentarti in una bella ascesa per raggiungere il
paese. Non mancare una visita alla chiesa di San
Silvestro costruita sulla roccia, il suggestivo castello San
Felice e una passeggiata per le vie del borgo.
DURONIA - Domina i dintorni dall'alto del suo
promontorio, particolarità piuttosto diffusa in Molise. La
vera unicità di Duronia viene notata se si osserva il borgo
con attenzione: una fascia di vegetazione rada, di un
verde diverso, sembra tagliare la montagna culminando
proprio dove sorge il paese, di cosa si tratta? Duronia
viveva sull'antico tratturo Lucera – Castel di Sangro
percorso ogni anno da milioni di pecore che hanno
lasciato un segno evidente sul territorio. Vale la pena
raggiungerla in bicicletta e visitarla.
CAROVILLI – Una località interessante per la sua
posizione che ricorda quella di un presepe.
A Carovilli ci siamo sentiti davvero a casa e c’è stata
offerta la possibilità di conoscere un pochino meglio il
Molise, parlando con la sua gente di storia, cultura e
turismo.
Nei dintorni si trova Castiglione di Carovilli con l’oasi
del Wwf di Collearso, una tappa obbligata per chi ama
la Natura.
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FORCHE CAUDINE – PAGINA 7
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TRATTURO PESCASSEROLI-CANDELA – Chi viaggia in
mountain bike deve provare l'esperienza di una bella
pedalata lungo l'antico tratturo. Noi siamo stati
accompagnati da Mauro, molisano doc e grande
conoscitore del territorio. Ci siamo infangati,
impantanati, divertiti, abbiamo spinto, pedalato e
affondato le gomme nella palta, è stato insomma un
giro indimenticabile. Il tratturo raggiunge l'antica e
imperdibile città romana di Saepinum.
PESCOLANCIANO - L'abbiamo raggiunta percorrendo
quasi esclusivamente strade secondarie a parte l'ultima
parte del tragitto dove non siamo riusciti a trovare
un'alternativa. Pescolanciano sorge sul tratturo Castel di
Sangro-Lucera e l'antica via di comunicazione è ancora ben
evidente ai bordi del paese anche se purtroppo non viene
preservata né promossa. Pescolanciano vanta un bel
centro storico e un castello.
SAEPINUM - Sorge sul tratturo Pescasseroli-Candela e
conserva in buono stato alcuni edifici dell'epoca. Il foro,
la basilica, il teatro, le terme e il Decumano che
attraversava Saepinum da est ad ovest. Bisogna
prendersi tempo ed esplorarla con calma. Arrivarci in
bicicletta è un'emozione forte.
CIVITA SUPERIORE - Sorge dove iniziano i monti del
Matese, a Bojano. Civita poteva vantare uno dei manieri
di Federico II che oggi è purtroppo in rovina. Bojano ha
invece origini sannite. Per raggiungere Civita è
necessario inerpicarsi per qualche chilometro.
SORGENTE DEL BIFERNO - Ai piedi dei Monti del Matese
nasce il fiume Biferno la cui sorgente è da annoverare
tra le cose da vedere in Molise. A bordo strada l'acqua
zampilla in una grande vasca: qui si può riempire la
borraccia con acqua fresca di fonte.
Nel raccontarvi cosa vedere in Molise non mi sono
soffermata eccessivamente su strade, pendenze ed
altre particolarità del territorio, che si possono
conoscere scaricando la traccia gps del nostro viaggio in
bici e leggendo il nostro racconto dell'esperienza. Per
conoscere e scoprire un territorio non basta visitarlo in
bicicletta, bisogna sentirne il profumo, assaggiarne le
tipicità, conoscerne le genti... i molisani sono un popolo
affabile e disponibile, generoso e aperto. Non va persa
l'occasione per scambiare informazioni e punti di vista.
Le tipicità del Molise sono molte ma quelle che vi
consigliamo di assaggiare assolutamente sono: il
caciocavallo (famoso è quello di Vastogirardi), i
cavatelli, tipo di pasta mangiata solitamente con sugo di
carne di maiale, il buonissimo pane (chiedere quello con
le patate), la Pampanella (vi lasciamo scoprire da solo
cos'è) e i gustosi salumi.
LIFE IN TRAVEL
FORCHE CAUDINE – PAGINA 8
COPERTINA
Valeria Di Blasio, i colori del cuore
Romana, originaria di Casacalenda, architetto e pittrice.
L’omaggio alle grandi personalità e l’attenzione al sociale
di MARIA DI SAVERIO
Roma, città dal fascino unico. Metropoli che
inevitabilmente lascia il segno. Basta nascerci o viverci
per qualche anno per portarne le “tracce” dentro.
Valeria, nella Città Eterna, c’è nata. Trentanove anni
fa, nel 1976. C’è cresciuta, stringendo le migliori
amicizie. Qui s’è formata culturalmente, frequentando
il liceo classico e laureandosi in architettura nel 2002.
E qui si gode i suoi maggiori affetti, i genitori, la
nonna Nina, il marito Alessio. E poi, certamente su
tutti, il figlio Diego, che ora ha tre anni.
Eppure Valeria conserva in sé una sorta di scrigno
segreto che arricchisce la sua romanità. Un bauletto
di valori addizionali, sottotraccia, detenuti quasi
inconsapevolmente. E quel po’ di Molise eredità
della famiglia paterna. Ad iniziare dal cognome, Di
Blasio. A cui è associato l’amore infinito per la
natura, ma anche il forte senso di giustizia. Fino al
costante impegno sociale, concretizzatosi, ad
esempio, nei progetti architettonici di rigenerazione
urbana delle periferie. E forse, chissà, sono state
proprio le origini molisane, di Casacalenda, paese di
artisti (e di poeti), a garantirle la sensibilità e la
passione per l’arte, che con il tempo è diventata una
vera e propria professione. Una terra che
rappresenta soprattutto le memorie d’infanzia.
“Il Molise e Casacalenda per me rappresentano i
ricordi delle lunghe estati della mia infanzia
trascorse in compagnia dei miei adorati nonni, i
profumi della campagna, la ‘masseria’ fuori dal
paese, dove ritrovavo il contatto con la natura che in
città mi mancava – ci racconta Valeria. “Il Molise è la
riscoperta delle tradizioni popolari, e in particolare
ripenso al poeta Ermanno Catalano, che ho avuto il
piacere di conoscere e che mi ha regalato una copia
del suo libro ‘I tiempe cagnene’ – continua Valeria.
“Oppure le serate di festa allietate dal ritmo dei
bufù, i piatti genuini e semplici ma nello stesso
tempo squisiti della cucina locale, il tempo che
scorreva ‘lento’ e permetteva di soffermarsi a
riflettere, a disegnare, a osservare un tramonto”.
Per un romano, il Molise è una sorta di integrazione,
di perfezionamento. Il dinamismo della città
arricchito dalla natura che preserva la riflessività.
Ma anche i rapporti umani più diretti, i legami
parentali.
“Il Molise mi richiama anche il legame forte che ho
con mia nonna Giovanna, chiamata da tutti Nina,
nata a Casacalenda – continua Valeria. “E’ una donna
molto intelligente e aperta di vedute, che ancora
oggi, a 91 anni, è per me una saggia e preziosa
confidente. E’ stata anche lei ad incoraggiarmi a
seguire le mie passioni, ad intraprendere questa
strada di pittrice”.
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FORCHE CAUDINE – PAGINA 9
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L’architetto Valeria Di Blasio
è anche apprezzata pittrice.
Splendide le sue opere
figurative, ricche di colori e
di
omaggi
a
grandi
personaggi soprattutto del
passato, come Pierpaolo
Pasolini, Anna Magnani, Aldo
Fabrizi, Massimo
Troisi,
Margherita Hack. Poi uno
splendido ritratto di Monica
Vitti. Nella sua produzione
anche paesaggi e astratti.
“Fin dall'adolescenza mi
dedico all'esecuzione di
ritratti cercando di cogliere
la profondità dello sguardo e
l'anima dei soggetti che
rappresento – racconta la
giovane pittrice.
“Soltanto recentemente ho
ampliato il mio repertorio
pittorico,
mantenendo
l'originaria predilezione per
la
rappresentazione
figurativa,
ma
sperimentando anche altre
esperienze
artistiche.
I
quadri astratti rientrano in
parte
nella
sfera
dell'architettura in quanto
possono essere concepiti
come complementi d'arredo
e
quindi
eseguiti
su
commissione, per adattarsi
allo spirito di ogni singolo
ambiente. Significativo è
stato l'insegnamento, non
solo dal punto di vista
professionale ma anche
umano e culturale, del
maestro Tullio De Franco,
docente del corso libero di
pittura presso la Rufa di
Roma”.
VALERIA DI BLASIO
Il fascino del figurativo
Alcune opere figurative di Valeria De Blasio.
Da sopra: Pierpaolo Pasolini, Monica Vitti, Aldo Fabrizi,
Anna Magnani, Massimo Troisi, Margherita Hack.
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FORCHE CAUDINE – PAGINA 10
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Nel curriculum di Valeria
sono
presenti
diverse
mostre: tra le più recenti la
collettiva “Melting Pot”
organizzata da Micro Arti
Visive negli spazi di “Porta
Mazzini” a Roma e la mostra
personale
nella
libreria
"Infinite
Parentesi"
in
località Castelverde (Roma),
entrambe a dicembre 2014
(l’esposizione alla libreria è
diventata permanente).
Sempre nel 2014, a luglio, s’è
svolta la mostra-aperitivo
sulla terrazza dell’hotel H10,
in zona Ostiense-Marconi.
In
precedenza
la
partecipazione alle rassegne
d'arte in viale Europa all’Eur
con l’associazione “Pittori
Roma Eur”, alle mostre
d'arte a Trastevere, a piazza
Trilussa
a
Roma
con
l’Associazione "Art Arvalia
Onlus", alla mostra “Cento
pittori di via Margutta” in via
Ugo Ojetti, a Roma. Fuori
dalla Capitale ha partecipato
alla mostra personale nel
borgo
medievale
di
Vitorchiano
(Viterbo),
all’interno dell’Auditorium
comunale, in concomitanza
con l’evento culturale “La
notte rosa” a giugno 2012 e
al
primo
Concorso
internazionale di pittura e
scultura “Città di Corchiano”
a dicembre 2011.
Centrale l’impegno sociale di
Valeria, un’attenzione e una
sensibilità presenti sin dalla
più tenera età verso i grandi
temi
ambientali
ed
economici: tante le battaglie
per
la
riqualificazione
urbana, contro lo strapotere
delle automobili, ma anche
di
denuncia
delle
speculazioni
bancarie,
finanziarie,
delle
multinazionali. Forse, anche
in questo, un po’ di tenacia
molisana non s’è smarrita
per strada.
■
Il fascino del bianco e nero
FORCHE CAUDINE – PAGINA 11
ALTRI QUADRI
DI VALERIA
VALERIA DI BLASIO
Omaggio a Casacalenda
Dall’album di famiglia in Molise
Bacio alla stazione
Sguardi rubati
Due immagini con nonna Nina, 91 enne, nata nel paese molisano.
Orizzonte rosso
Due foto-ricordo di Casacalenda.
Triopetra
Madre terra
Campagna di Casacalenda e con papà Gianfranco al mare, alcuni anni fa,
FORCHE CAUDINE – PAGINA 12
NOTIZIE FLASH
Presenze molisane
a Vinitaly (Verona)
Cultura: M5S
contro “monopolio”
Per
la
quarantanovesima
edizione del Vinitaly di Verona,
nello stand allestino dalla
Regione Molise sono state
coinvolte le seguenti le cantine
molisane co-espositrici: Cantine
Salvatore,
Azienda
Agricola
Cianfagna,
Cipressi
Claudio,
Azienda Agricola Vitivinicola di
Cieri Camillo, Cantine Catabbo,
Società Cooperativa Cantina
Sociale San Zenone.
Il Movimento Cinque Stelle Molise
chiede al ministro Franceschini
risposte sulla gestione del settore
cultura in regione. E lo fa attraverso
un’interrogazione parlamentare su
“criteri e modalità di attribuzione
della
gestione
dell’intero
patrimonio culturale molisano ad
un’unica associazione: la Me.Mo
Cantieri Culturali”.
L’interrogativo del M5S: “Perché il
progetto aggiudicatario non è stato
pubblicato
nella
sezione
trasparenza del sito della Direzione
regionale ai Beni culturali del
Molise, per permettere agli attori
del settore e ai cittadini di
conoscere le modalità di gestione e
valorizzazione dei beni comuni?”.
Carpinone,
vendesi castello
Il castello di Carpinone, di proprietà
privata (famiglia Caldora, residente
in Abruzzo), è in vendita tramite
un’agenzia abruzzese. Prezzo: un
milione di euro. Stesso destino del
castello Pignatelli di Monteroduni e
di quello di Macchiagodena, poi
acquistati,
rispettivamente
da
Comune e Regione.
Eurofestival,
ci sarà il Molise
Ci sarà anche un po’ di Molise al
prossimo
Eurofestival,
la
manifestazione canora che si
svolgerà quest’anno a Vienna dal 19
al 23 maggio. Il Molise è stato
inserito nel video della canzone
“Chain of lights”, interpretata da
Michele Perniola e Anita Simoncini,
che rappresenterà la Repubblica di
San Marino. Il videoclip è stato
sceneggiato da Antonello Carozza e
Rossella d’Orsi, con la regia di
Fabrizio Oggiano e la fotografia di
Carlo Terenzi. Ha coinvolto un
centinaio di comparse molisane ed è
stato girato tra Campobasso,
Termoli, Isernia, Venafro, Sepino,
Monteroduni e Macchia d’Isernia.
Nella sola area degustazione:
Cantina Giagnacovo, Tenimenti
Grieco, Campi Valerio.
Sommelier
di
servizio,
dell’Associazione
italiana
sommelier,
coordinati
dal
responsabile
servizi
Marco
Morelli.
L’Espresso
“bacchetta” Isernia
Nel numero 10 del settimanale
L’Espresso (12 marzo 2015), in un
pezzo del noto giornalista Fabrizio
Gatti, nella parte dedicata alla
Provincia di Isernia, si legge:
“L’ufficio turistico apre alle 9 tutti i
mercoledì, dice il cartello. Sono
quasi le 11, è mercoledì. Ufficio
turistico chiuso”.
FORCHE CAUDINE – PAGINA 13
DOSSIER
Il Molise, che farne?
Sempre più pressanti le minacce di smembramento per la regione.
C’è chi gioisce per ragioni identitarie, come nell’Alto Molise,
e chi sperando nel disarcionamento degli attuali amministratori.
Ma davvero chiudere questo capitolo conviene a tutti?
di TONY PALLADINO
Il Molise, dopo 52 anni di esistenza amministrativa (si
staccò dall’Abruzzo nel 1963), rischia di tornare ad
essere soltanto una denominazione da carta
geografica, al pari delle Prealpi Giulie o del Tavoliere
delle Puglie.
►►►
LA “NUOVA” ITALIA?
Il cosiddetto “Progetto Morassut”,
dal nome del parlamentare Pd proponente.
Le principali novità: accorpamento di Valle d’Aosta,
Piemonte e Liguria nell’unica regione “Alpina”;
Trentino-Alto Adige, Friuli-Venezia Giulia e Veneto
riunite nel “Triveneto”; Pesaro con l’Emilia-Romagna;
Umbria, Toscana e Viterbo nella regione “Appenninica”;
Roma a sé (Città metropolitana di Roma Capitale);
Marche meridionali, Abruzzo e Alto Molise nella regione
“Adriatica” (con Rieti); Frosinone e Latina con la Campania
nella “Tirrenica”; Campobasso con la Puglia nel “Levante”,
che includerebbe anche Matera; Potenza con la Calabria
nel “Ponente”; invariate Sicilia e Sardegna.
►►► In parlamento, benché la tanto ventilata
soppressione delle province sia rimasta lettera
morta, prendono sempre più corpo le ipotesi di
riorganizzare le regioni, trasformandole in
macroregioni.
Le prime ad essere sacrificate sarebbero le più
piccole, cioè la Valle d’Aosta (che è tuttavia regione a
statuto speciale, quindi sarà più difficile piegarla ai
nuovi diktat) e il Molise, “cenerentola” del nostro
Mezzogiorno.
Il territorio molisano potrebbe essere riaccorpato
tout court all’Abruzzo o, come ventilato da più parti,
costituire l’estremo sud di una macroregione
adriatica comprendente Marche e Abruzzo e, forse,
anche la provincia di Rieti. Un’altra ipotesi vede il
basso Molise fuso alla Puglia.
Questa alchimia di confini suscita reazioni di segno
opposto nello stesso Molise.
Nell’area di Agnone, ma non solo lì, c’è chi gioisce in
nome di una lontana identità storica, quella sannita. E in
fondo anche morfologica, vedendo con maggiore favore
i monti abruzzesi rispetto alle colline del basso Molise.
Anche altri sono pronti ad esultare, ma perché la
chiusura
della
“giovane”
regione
molisana
equivarrebbe alla bocciatura definitiva della sua classe
politica: non più un esercito di amministratori ed ex
amministratori, con stipendi e vitalizi da nababbi, ma
solo qualche sparuto rappresentante da spedire,
probabilmente, nel nuovo capoluogo anconetano.
Certo, le vicende di cronaca, anche le più recenti, non
aiutano a sostenere una classe politica duramente
bocciata dalla stessa Corte dei Conti, basta leggersi la
relazione del procuratore regionale Carlo Alberto
Manfredi Selvaggi durante la cerimonia di apertura
dell'anno giudiziario a Campobasso: tra le spese
effettuate dai gruppi consiliari alla Regione Molise,
citate nella relazione del procuratore, non mancano
bollette dell'Enel per utenze sconosciute, dolci
comprati in pasticceria, bottiglie di vino, pranzi e
cene per seimila euro in un unico ristorante, viaggi
fuori regione. In fondo niente di diverso dai colleghi
di altre regioni.
continua alla pagina seguente ►►►
FORCHE CAUDINE – PAGINA 14
►►► segue dalla pagina precedente
OPINIONI / CH IUDERE LA REGION E…
E’ utile al Molise?
di PIETRO MAIO
Tuttavia,
tuonano
altri,
perché eliminare una regione
soltanto
perché
male
amministrata?
Basterebbe
sbattere in galera, casomai
buttandone la chiave, gli
amministratori corrotti, che
non rappresentano certo un
esempio virtuoso per una
regione che ha bisogno
soprattutto
di
farsi
conoscere.
Diminuire
i
rappresentanti,
gli
organismi, gli spazi di
partecipazione
potrebbe
anche equivalere alla cattiva
potatura che uccide l’intero
albero.
E
costituirebbe
certamente un fattore di
impoverimento.
C’è poi chi, numeri alla mano,
mettendo da parte le
tentazioni
campanilistiche
osserva con obiettività che
una regione con 300mila
residenti, molti tra l’altro
sparsi per il mondo, non sta
in piedi. Tanto più una
provincia come Isernia, con
un capoluogo da 21mila
abitanti, 86mila in tutta la
provincia (dato che continua
inesorabilmente a scendere).
continua alla pagina seguente ►►►
In queste ore viene riproposta da più parti l'ipotesi di chiudere la Regione
ritenendola inadeguata, inutile e incapace di risolvere i problemi dei cittadini.
Rispetto questa posizione e non ho contrarietà preconcette a tornare con
l'Abruzzo. Pescara non è lontana e Luciano D'Alfonso ha costruito un ottimo
rapporto con il nostro territorio e con Campobasso dove ha lavorato per tanti
anni e dove ha studiato per la sua seconda laurea nel nostro Ateneo.
Chiudere la Regione ci consentirebbe di sgravarci, da subito, di 420 milioni di
debito sanitario e di 60 milioni di disavanzo di bilancio accumulato al 31
dicembre 2012 e su cui il governo ha impugnato l'assestamento 2014
approvata il 22 dicembre scorso. Con la chiusura della Regione scenderebbe il
prezzo della benzina, diminuirebbero le accise sulle bollette e calerebbero le
tasse sulle imprese. Su questi vantaggi è opportuno riflettere come
giustamente chiedono Cgil-Cisl-Uil perché il futuro della nostra comunità è
più importante del mantenimento dell'Ente Regione.
La crisi più dura che ha colpito l'Occidente dal 1929 non lascerà le cose
immutate e non sarà il trascorrere del tempo a far tornare tutto come prima.
Il Molise degli anni ottanta, che riceveva miliardi di finanziamenti pubblici
per opere faraoniche rimaste incompiute come il nuovo Ospedale di Agnone
o il secondo tratto della Fresilia, non tornerà più. Le aziende finanziate in
perdita dallo Stato per anni non esisteranno più perché i tedeschi non sono
disponibili a pagare i nostri debiti.
Per questo è giusto riflettere sulla chiusura della Regione e compiere la scelta
antipatiche della Cisl che lo scorso anno si è riunificata con l'Abruzzo.
Ovviamente dopo aver chiuso la Regione nessuno avrà più un capro
espiatorio a cui addossare le colpe dei propri fallimenti, delle proprie
incapacità e delle proprie inadeguatezze.
Tolta la foglia di fico dietro cui tutti si nascondono, resteranno 312mila
persone che avranno bisogno di ospedali, di lavoro, di scuole e di strade.
Bisognerà trovare un’occupazione oltre che ai 210 dipendenti delle Province
su 420 addetti anche ai 3.200 dell'Asrem, ai 160 dell'Arpa, ai 650 della
Regione, alle centinaia di impiegati delle società regionali e degli uffici statali
che oggi sono in Molise perché esiste la Regione. Chi avrà un problema
troverà il comune senza soldi, la Provincia che non riesce nemmeno a fare lo
sgombero neve e la Regione chiusa con gli addetti della vigilanza licenziati
insieme a quelli delle aziende di servizi per informatica e altre attività.
Campobasso, per la prima volta nella storia dal 1806 quando divenne
Provincia autonoma per volontà di Giuseppe Napoleone e Gioacchino Murat,
esprimerà solo il sindaco che resterà l'unico interlocutore autorevole del
territorio visto che le nuove leggi elettorali legate ai confini regionali
ridurranno a uno i parlamentari del Molise se ci andrà bene.
Se questo è quello che si vuole siamo sulla buona strada. Basta dare un
ultimo colpo alla delegittimazione delle istituzioni con un'aggressione
strumentale mirata ed il gioco è fatto. Tanto per chi cavalca l'onda non c’è
problema né di lavoro e né di futuro.
Il problema sarà dei molisani che ovviamente lo scopriranno dopo quando
sarà troppo tardi, come è successo ai dipendenti provinciali. Molti di loro
erano d'accordo a chiedere la destituzione dei politici dalla gestione delle
Province e oggi si ritrovano ad essere esuberi.
Domani sarà lo stesso per chi opera direttamente e indirettamente per la
Regione Molise con la differenza che per protestare dovranno andare a
L'Aquila o a Roma perché a Campobasso non ci sarà più nessuno.
FORCHE CAUDINE – PAGINA 15
►►► segue dalla pagina precedente
OPINIONI / CH IUDERE LA REGION E…
Molise alla frutta. Anzi, alla chimica
di PIERINO VAGO
Altri ancora non ci stanno,
perché il Molise ha una propria
storia inconfutabile (si pensi al
Contado o, più indietro, ai
sanniti) e vederlo ridotto come
una serie di piccoli tasselli di
risiko, da elargire ai cugini
abruzzesi o ai sottostanti
pugliesi, non fa bene. Specie in
memoria di coloro che per anni
hanno combattuto, spesso
anche fisicamente (ci furono
persino incidenti negli anni
Cinquanta),
per
ottenere
l’autonomia regionale.
Certo,
il
federalismo
“all’italiana” ha fatto danni
infiniti, moltiplicando i centri di
spesa
all’inverosimile
e
partorendo carrozzoni pubblici
ad ogni livello. Le conseguenze
odierne sono figlie delle scelte
sciagurate di ieri. Regioni e
province, pur avendo un senso
storico, dovrebbero rimanere
pure denominazioni. Sarebbe
viceversa
opportuno,
coerentemente con la nostra
storia, potenziare le funzioni
dei comuni, gli enti locali più
vicini alle esigenze dei cittadini.
Tenendo però presente che in
Italia la metà dei comuni ha
meno di tremila residenti, per
cui
sarebbe
ragionevole
accorpare finalmente (e sul
serio) i principali servizi tra
quelli limitrofi.
Riguardo a questo paventato
rimescolamento di confini
brucia però una domanda:
perché marchigiani, abruzzesi o
pugliesi
amministrerebbero
meglio il Molise rispetto a
quanto non sono riusciti a fare i
molisani stessi?
La risorsa del Molise è il paesaggio. Non smetteremo mai di scriverlo. Certo,
le montagne non sono quelle del Trentino, la costa non ha nulla a che
vedere con quella salentina, le “firme” dell’arte non reggono il confronto
con quelle toscane, i castelli non sono quelli valdostani. Dobbiamo esserne
coscienti. Tuttavia il Molise possiede caratteristiche proprie che non sono
meno preziose di quelle sfoggiate da altre regioni. E anziché inseguire
farfalle su prati sterminati, gli amministratori (e i tanti consulenti)
dovrebbero concentrarsi sulla valorizzazione di pochi elementi, davvero
unici e autenticamente autoctoni.
Quali esempi di ciò, basterebbe citare la rete dei tratturi, da salvaguardare
oltre che da valorizzare. Oppure lo straordinario patrimonio morfologico, di
cui non sempre si ha coscienza (si pensi, ad esempio, alle grotte, tra le più
profonde d’Italia). E ancora ai siti storici (e preistorici), alla cultura sannita,
al fascino della civiltà contadina.
Resta, però, un problema: la diffusa inettitudine nello sfruttare tutto ciò nel
modo più idoneo. Scontata una domanda: da dove nasce questa atavica
incapacità?
Le risposte potrebbero essere molteplici. Pesa, ad esempio, proprio la
struttura montana del territorio, equivalente quasi sempre all’isolamento
ancestrale. E’ altrettanto vero, però, che in altre regioni la montagna
assicura turismo tutto l’anno.
C’è un’altra lettura, più sociale. E’ quella che addossa la colpa alla bassa
produttività degli uffici di governo molisani. A tutti i livelli. Ed in effetti, un
po’ di responsabilità ce l’hanno i tanti enti, spesso inutili e con funzioni
sovrapponibili, imbottiti di funzionari dalla pancia piena e dallo stipendio
sicuro, che hanno quale principale bandiera il mantenimento dello status
quo, cioè la stasi e la totale apatia. Poche idee, tante chiacchiere, zero
risultati. Così la visibilità rimane al lumicino, le produzioni sono poco
valorizzate, il turismo non decolla, l’innovazione e l’internazionalizzazione
costituiscono una chimera. E quando questa miniera del pubblico impiego o
della pensione sarà molto ridimensionata, il tempo perso peserà come un
macigno sulle nuove generazioni.
Le scorciatoie “dall’alto”
Dove la politica è costretta a prendere decisioni è nelle proposte che
giungono “dall’alto”. E, in genere, da fuori. Ciclicamente spuntano progetti
faraonici: ora l’ennesima batteria di pali eolici in stile californiano, ora la
megastalla sponsorizzata dalla multinazionale del latte, ora le centrali a
turbogas o altri megaimpianti del genere. L’ultimo, in ordine di tempo, è
l’ampliamento dello stabilimento chimico della multinazionale americana
Momentive a Termoli (silano Nxt da utilizzare nella produzione di
pneumatici), a fronte di un paio di dozzine di occupati in più (promessi
dall’azienda). E’ chiaro che in un periodo in cui lo smantellamento dello
poche fabbriche molisane è realtà quotidiana, un ampliamento generi
molte attese. Ma, questo il punto, il futuro della regione non può essere
affidato ai capricci di una multinazionale, né di altre operazioni del genere:
il punto centrale è che manca un piano strategico regionale d’insieme che
indichi chiaramente quale strada intraprendere per un futuro meno
burrascoso. E andrebbe fatto subito, perlomeno per contrastare i flussi di
migrazione che hanno ripreso vigore.
FORCHE CAUDINE – PAGINA 16
OPINIONI / CH IUDERE LA REGION E…
Sì alle macroregioni,
no alla smembramento del Molise
di ALBINO IACOVONE
(ex sindaco di Castelverrino)
Con l'istituzione delle Regioni la spesa pubblica ha
oltrepassato quelli che erano e sono i bisogni dei
cittadini ed ora è ineludibile la necessità di una
modifica radicale dell' ordinamento regionale.
Le Regioni, forse con qualche eccezione,
unitamente al modo in cui sono state amministrate
(o male amministrate), hanno determinato
l’enorme lievitazione della spesa pubblica (non
sempre produttiva).
E' difficile tenere sotto controllo e ridurre la spesa
pubblica se non continuando, dopo le province, a
rivedere con efficacia il sistema regionale che
sicuramente è stato la causa principale di una
gestione finanziaria pubblica non sempre
parsimoniosa.
Non penso che le Regioni debbano essere
soppresse del tutto, ritengo, però, che debbano
essere riviste nella loro articolazione territoriale e
con una nuova e diversa organizzazione che non
potrà che essere meno penalizzante per i cittadini.
E' inutile, quindi, girarci intorno: le macro regioni
sono necessarie !
Tutto sta nel procedere con accortezza e senza
sminuire le identità di ogni singola realtà regionale.
Ed allora, proprio in virtù di questa valutazione, e
per una Regione quale è la nostra, sempre più
destinata alla emarginazione, è indispensabile e,
credo, inevitabile ragionare in termini di
allargamento del territorio regionale.
Solo in questo modo potremo salvaguardare anche
i nostri piccoli centri da una sempre più incisiva
emarginazione.
Tali segnali, che pochi ricordano, arrivano da
lontano e si sono concretizzati nel silenzio assoluto
di chi oggi lamenta tale situazione (mi riferisco
principalmente ai tanti politicanti di turno): quanti
Uffici, Direzioni (Enel, Sip, Ferrovie, Provveditorati,
Ufficio Regionale Scolastico), servizi pubblici (linee
ferroviarie, automobilistiche..) lentamente sono
stati ridotti o addirittura soppressi ?
Ignoriamo l'interminabile elenco di ciò che il Molise
ha già perso e continua a perdere (ospedali, scuole,
uffici postali, tribunali, ufficio giudice di pace) ?
Pensare che battersi per la conservazione
dell'autonomia regionale possa essere la soluzione
migliore, trascurando altre forme di aggregazione,
credo sia illusorio nei tempi difficili in cui viviamo.
Albino Iacovone
Non è solo un problema di identità che, comunque,
non verrebbe meno. E, soprattutto, non sono e non
possono essere definiti traditori del Molise tutti
coloro che realisticamente ritengono che nelle
attuali situazioni sia utopistico pensare di poter
conservare una autonomia che, diciamocela tutta,
non è stata valorizzata.
Le opportunità per il Molise sono state buttate al
vento !
Questa nostra Regione, se fossero state valorizzate
e potenziate le peculiarità del suo territorio (aria,
ambiente,
risorse
artistiche,
culturali,
archeologiche e paesaggistiche, agroalimentare e
così via) avrebbe potuto e dovuto essere una
piccola Umbria o una piccola Valle d’Aosta.
Tutto ciò non si è realizzato e tutti i soggetti
politici, sindacali, imprenditoriali, istituzionali, non
sono esenti da colpe, non avendo saputo
compiutamente utilizzare l’intempestivo distacco
dall'Abruzzo e, dunque, salvaguardare la nostra
autonomia. E' assurdo spostare verso Sud i confini
del Molise (per ovvii motivi !).
(continua alla pagina seguente ►►►)
FORCHE CAUDINE – PAGINA 17
(►►► segue dalla pagina precedente)
Invito tutti, prescindendo dalle rispettive posizioni,
e, principalmente, gli attuali rappresentanti
istituzionali ad accantonare sterili contrapposizioni
e infruttuosi preconcetti e a lavorare per
raggiungere una soluzione condivisa e meno
penalizzante per il Molise, che, secondo me, non
può prescindere dalla riunificazione con l'Abruzzo,
nella prospettiva di una macro regione che includa
le Marche e, qualora non sufficiente (secondo
quello che sarà il nuovo ordinamento regionale),
anche il Lazio e l'Umbria.
E' evidente che sia impossibile che ciò avvenga solo
per il Molise.
Inoltre, la proposta di legge dell’onorevole Roberto
Morassut (Pd), pur con tanti elementi da discutere,
rivedere e modificare, una su tutte l’assurdità di
dividere in due il Molise ed inserirlo in contesti
regionali diversi, va nella direzione che, già negli
anni 1990, uno studio della Fondazione Agnelli
proponeva, ovvero la costituzione di 12
macroregioni o aree di sviluppo diffuso. Tale studio,
già allora, prevedeva 22mila miliardi di risparmio
generati dall’operazione di accorpamento, senza
nuove tasse e senza spese ulteriori.
Non c’è altra strada da percorrere se non quella di
dimezzare il numero delle Regioni, accorpare quelle
più piccole, non tanto e non solo per ridurre
sperperi e clientele, ma, soprattutto, per snellire e
deburocratizzare il sistema, semplificarne l’assetto
organizzativo e aumentarne l’efficienza e l’efficacia.
Costituire una sola regione medioadriatica MarcheAbruzzo-Molise (nella sua interezza e non
smembrato, come lo vorrebbe l’onorevole
Morassut) permetterebbe di meglio valorizzare il
maggior gettito fiscale, oltre a ridurre le spese
correnti, i consumi intermedi, stipendi, rimborsi,
indennità, etc., consentendo anche un forte
risparmio attraverso l’unificazione delle varie
autorità, agenzie, consorzi, enti, imprese pubbliche,
che, con la loro proliferazione, hanno causato e
causano dispendio di tempi e costi.
Castelverrino (Isernia)
Un esempio su tanti: nel 2012, i consigli regionali di
Abruzzo, Marche e Molise, sommati, sono costati
all’incirca 60 milioni di euro; se avessimo un unico
consiglio regionale, almeno la metà di questa cifra
sarebbe liberata, insieme a tante altre risorse, per
politiche economiche, di crescita e di sviluppo.
La vicenda è in itinere e, nell’ ottica di una sua felice
conclusione, occorre una franca e approfondita
discussione, che coinvolga direttamente le
popolazioni interessate, per non commettere
approssimativi errori di valutazione.
Una simile rivoluzione dell' assetto regionale
richiede, ovviamente, ben altro che una semplice
proposta di un singolo Parlamentare, essendo
necessaria una legge costituzionale con correlata
complessità e lunghezza dell’ iter da seguire.
Si tratta di decisioni che vanno oltre il mero aspetto
politico-partitico e di condivisione o non
condivisione da parte del politico ed amministratore
di turno.
La scelta delle macroregioni e dell’ unione del Molise
con l' Abruzzo e le Marche (e se necessario con
l'Umbria e Lazio), dovrà fondarsi solo su profili
economici: ogni altra considerazione che spesso, in
questi giorni, ha accompagnato tali discussioni
(emotività,campanilismo,coltivazione del proprio
orticello, etc.) è del tutto marginale e non risolutiva
di problematiche che ormai non possono più essere
guardate con occhio ristretto bensì in un contesto
che travalica il confine regionale per approdare a
quello nazionale ed europeo.
A tutti piacerebbe essere autonomi, bisogna, però,
essere anche consapevoli che è ineludibile e
necessario che si operi sull' Ordinamento regionale.
E' bene, pertanto, attrezzarsi per scegliere un futuro
differente, altrimenti saranno altri a scegliere dove e
come collocare il Molise.
FORCHE CAUDINE – PAGINA 18
DOSSIER
Zuccherini amari
I nodi al pettine. Nel pubblico e nel privato.
di GIAMPIERO CASTELLOTTI
Sperpero di denaro. E’ il ritornello che si sente
ripetere più spesso quando si parla di “grandi aziende
molisane”.
Laddove
l’aggettivo
“grandi”
è
conseguenza di qualche decina di dipendenti –
strappati alla piaga dell’emigrazione - rapportati alle
esigue dimensioni del territorio.
Si tratta di aziende che, talvolta, dalla natura privata,
in genere frutto di investimenti sbagliati da parte di
un imprenditore e quindi ormai cotte e stracotte,
sono
improvvisamente
diventate
pubbliche.
Assicurando così – con la salvaguardia di posti di
lavoro sacri e preziosi (ma a spese della comunità) –
anche sicuri bacini di voti. E talvolta di malaffare. I
“piani di rilancio”, di cui sono piene le nobili
intenzioni e i libri paga delle consulenze, rimangono
puntualmente lettera morta. E forse è anche meglio
così, perché, quando applicati, hanno prodotto danni
aggiuntivi.
Tale modus operandi politico-imprenditoriale,
trascinatosi per decenni con simboli non soltanto
scudocrociati, ha indubbiamente generato periodi di
benessere per tante famiglie molisane e meridionali in
genere, a cui è stato garantito uno stipendio sicuro,
offrendo l’alternativa al trattore e al sudore dei
campi. Ma, di fatto, ha contribuito a produrre una
crescita fragile del tessuto economico molisano (e
meridionale in genere), spesso artificiosa, fino
all’attuale situazione di sfascio del panorama
industriale regionale. E non solo di quello, purtroppo.
Insomma, si è “scialato”, con fitti reti di complicità.
Anzi, la capacità di “scialare”, e di farlo nel migliore
dei modi, è stato quasi un diktat e un titolo di merito
per conquistare posti nelle stanze dei bottoni. Ed ora,
amaramente, si paga il conto. Sacrifici che peseranno
soprattutto sulle nuove generazioni.
►►►
►►► Del resto già i “meccanismi di presunta
crescita” hanno presentato incongruenze.
Rimanendo sul fronte delle “grandi imprese”, ad
esempio, ha prevalso un quadro fatto di pochi
imprenditori veri, alcuni finiti malissimo a causa di una
politica connivente ma famelica, a cui si sono
affiancate oscure figure politico-amministrative, in
quota a questo o a quel partito, con l’abilità
d’improvvisarsi manager per ogni situazione
emergente. Cioè le redini dell’economia regionale
sono state affidate ad imprenditori azzoppati e a
manager fasulli. Il ruolo per entrambi, il più delle volte,
s’è ridotto alla funzione di assicurare continue
bombole d’ossigeno a moribondi carrozzoni privati e
pubblici, oltre agli inflazionati pubblico-privati. Fino ai
casi, sul più noto modello nazionale, in cui il ruolo
dell’imprenditore e del politico è diventato
palesemente osmotico, con gli inevitabili rischi del
malaffare e dei conflitti d’interesse.
La logica del clientelismo, imperante in tutta Italia ma
con punte d’eccellenza in una regione piccola come il
Molise (con un più vivo protagonismo delle “parentele”
rispetto alle “amicizie”), ha contribuito a tenere in piedi
tanti organismi mangiasoldi, spazianti dall’industria –
con prevalenza per l’agroalimentare e l’ambiente – alla
ricettività turistica invernale (con risultati evidenti) fino
alle rinomate “in house” (o “partecipate”), appendici
degli apparati governativi locali con funzioni spesso
analoghe a quelle degli assessorati.
continua alla pagina seguente ►►►
FORCHE CAUDINE – PAGINA 19
►►► segue dalla pagina precedente
Ora molti nodi stanno venendo al pettine:
l’imperativo è “tagliare” (spesso senza logica) e a
farne le spese non sono certo i principali uffici
pubblici, quelli talvolta più costosi, inutili e produttori
di burocrazia, ma gli apparati di seconda linea e,
ahimè, gli stessi servizi sul territorio (il caso delle
prestazioni sanitarie è lampante).
Vietato ammalarsi
Partendo proprio dalla sanità, la mannaia ha già
falcidiato i principali nosocomi molisani. Il caso di
Agnone è forse quello che ha fatto più rumore. Ma
anche, ad esempio, Venafro o Larino non sono messi
meglio.
La targa dell’ospedale di Agnone (Isernia)
Ora il decreto Balduzzi, al vaglio del parlamento, farà
il resto: entro sei mesi bisognerà adeguarsi ai nuovi
standard qualitativi – basati su indici demografici nell’assistenza ospedaliera, che in concreto equivale a
dire ospedali ridimensionati, reparti cancellati, meno
servizi. Specie nello spopolato Molise, dai numeri
flebili di residenti e ancora più flebili di abitanti reali.
Proprio a causa del quadro demografico, in Molise
sarebbero a rischio i reparti di ostetricia e
ginecologia in provincia di Isernia e di neurochirurgia
in quella di Campobasso.
All’ospedale “San Timoteo” di Termoli, secondo le
nuove regole, potrebbero essere cancellati i reparti di
ostetricia, otorino, pediatria ed urologia. Cioè,
secondo il nuovo decreto (a cui il governatore
molisano Frattura non s’è opposto nella Conferenza
Stato-Regioni di agosto dello scorso anno, risultando
assente), non avrebbe senso tenere in piedi reparti
per pochi pazienti.
Va ricordato che il piccolo Molise è indebitato, sul
fronte sanità, per oltre 400 milioni di euro.
Praticamente quasi milletrecento euro a residente,
neonati compresi. Soldi di cui qualcuno, anzi più di
qualcuno, ha beneficiato. A danno di chi sarà
costretto, suo malgrado, ad un ricovero ospedaliero
nei prossimi anni.
Intanto, per stare nella cronaca di questi giorni, 150
infermieri precari della sanità molisana molto
probabilmente dal prossimo 31 marzo non avranno
più il rinnovo degli incarichi. E’ la conseguenza
concreta, fatta di lacrime e sangue, di questo
contesto.
Un’altra vicenda emblematica della situazione
molisana è quella dello Zuccherificio del Molise.
Sede a Termoli. Nato nel 1968 sotto forma di società
per azioni, per volontà dell’allora ministro
dell’Agricoltura, il molisano Giacomo Sedati (prima
azienda del nucleo industriale di Termoli), per
diversi anni è diventata società mista (privata e
pubblica) fino a vedere – more solito - la sola
partecipazione della Regione Molise.
Oggi il suo futuro si presenta a tinte fosche. La Rsu
dell’azienda ha diffuso nei giorni scorsi un
comunicato emblematico: “Anni fa si sperperava
denaro pubblico per far camminare il sistema
lavorativo molisano – si legge nel documento
sindacale - ora si buttano i soldi in degrado e cassa
integrazione che sempre denaro pubblico è”.
Quindi: “Chiediamo in maniera serena le dimissioni
dell’intero Consiglio regionale, che non ha saputo
difendere il territorio e gli interessi chi ci abita, che
vorrebbe continuare a farlo. Ci vergogniamo di
essere molisani”.
La recente storia amministrativa molisana è ricca di
vicende del genere.
Neve scioglisoldi
Un’altra, ugualmente paradigmatica, è quella della
gestione della località sciistica di Campitello
Matese, in provincia di Campobasso. Sul tema c’è un
corposo documento redatto dal Movimento Cinque
Stelle, che ricostruisce anni di follie finanziarie,
debiti e inevitabile declino della stazione sciistica.
Anche qui con lo zampino pubblico.
continua alla pagina seguente ►►►
FORCHE CAUDINE – PAGINA 20
►►► segue dalla pagina precedente
Il comprensorio sciistico matesino, creato da alcuni
imprenditori lombardi negli anni Sessanta, dopo un po’
d’anni passò di mano, fino a coinvolgere una cordata di
imprenditori molisani e una serie di enti locali. Nel 1999
si costituì la società per azioni consortile Campitello
Matese con capitale sociale di oltre un miliardo di lire
(1.020 azioni del valore di un milione di lire ciascuna,
suddivise in 849 della Provincia di Campobasso, 170 del
Comune di San Massimo e una del Comune di
Roccamandolfi). Nel 2000 la Regione Molise
sottoscrisse un aumento di capitale con quattro
miliardi di lire.
Da qui una serie di politiche scellerate e clientelari,
come sottolinea il documento, che porteranno ad uno
stato di crisi e alla necessità, con la finanziaria
regionale del 2009, di operare una “ristrutturazione
economica e finanziaria delle imprese a partecipazione
regionale, da realizzarsi anche a mezzo di ulteriori
sottoscrizioni di aumenti di capitale, sulla base di
adeguati e motivati programmi di risanamento”.
Insomma, altri soldi.
Vede la luce la società “Sviluppo Montagna Molisana
spa”, nome che è tutto un programma (qual è la ricetta
per “sviluppare una montagna”, per di più molisana?).
La Regione Molise, certa del fatto suo, con delibera di
Giunta regionale 1005 del 29 settembre 2009, v’investe
altri 350mila euro. Nel contempo nasce “Funivie del
Molise spa”, sempre sotto la protezione dell’ente
pubblico. Qui la Regione Molise è ancora più generosa
(con i soldi del contribuente): con la delibera 211 del 29
marzo 2011, vi immette ben 3.500.000 euro. A questi
soldi, ricorda il documento, “vanno aggiunti altri
mandati di pagamento a diverso titolo dalla Regione
Molise a ‘Sviluppo Montagna Molisana spa’ per
4.248.000 euro che sommati ai 2.876.958 euro fanno
un totale di 7.124.958 euro”.
In fatto di aziende partecipate interamente dalla
Regione Molise, non ci si può dimenticare di Molise
Dati, società con 500 azioni e 258.230 euro di capitale
sociale (onere complessivo gravante sul bilancio
regionale: 5.569.467 euro più Iva (dato 2014). Di
recente la Regione Molise ha rinnovato la convenzione
con tale società “in house” incaricata della gestione
del sistema informativo regionale e le ha tagliato due
milioni di euro, praticamente gli utili, per evitare –
come ha spiegato il governatore Frattura – il relativo
pagamento di tasse per circa 700 mila euro. Ma il
presidente molisano ha anche raccontato: “Per i
componenti del Cda era prevista una premialità di
risultato pari al 7 per cento dell’utile lordo della
società, così come stabilito dalla Dgr 421 del 2012 della
Regione Molise. Su circa due milioni di utili per il 2012
è stato corrisposto agli amministratori l’importo di 285
mila euro, circa 200 mila euro in più rispetto agli 88
mila euro dell’indennità deliberata, soldi dei cittadini
molisani. Un nostro errore, allora, tagliare e revocare
prebende simili?”.
Insomma una società di fatto pubblica, che
immaginiamo generi utili anche sul fronte pubblico,
garantisce non solo corposi premi di risultato ai
propri componenti del consiglio di amministrazione,
ma addirittura – secondo quanto afferma il
governatore Frattura – ne distribuisce molto più del
pattuito.
Inoltre, come ricorda Giuseppe Saluppo, intanto “si
continuano a pagare 11 dirigenti e impiegati di primo
livello alla Molise Dati, su 27 persone
complessivamente, che costano l’anno un milione e
500mila euro”.
Non sappiamo se sia la Molise Dati a gestire il sito
istituzionale della Regione Molise (o forse, proprio
perché lo sappiamo preferiamo rifugiarci nel
dubbio). Di quel sito, però, ricordiamo che non è
proprio un modello per le scuole di grafica e
soprattutto che fino a qualche anno fa non
riuscivamo a trovare facilmente le notizie
d’interesse, in compenso nella home page c’erano
foto e biografia dell’ex governatore.
L’elenco delle società partecipate dalla Regione
Molise include anche altre “perle”. E’ il caso della
“Autostrada del Molise spa” (capitale sociale di tre
milioni), azienda frutto della finanziaria 2008
(realizzazione Termoli-San Vittore), di cui poco si
comprende oggi il senso dal momento che non c’è
tutta questa certezza che si realizzi un’opera da
molti considerata inutile, oltre che poco in linea con
la recessione e con i tagli su cui già ci siamo
lungamente soffermati. Una targa di questa società
per azioni, tra l’altro, fa bella mostra in via Pianciani
a Roma, nell’edificio che ospita gli uffici dell’Anas. Il
risultato d’esercizio ha registrato un passivo di circa
440 mila euro per gli anni 2010-2012.
continua alla pagina seguente ►►►
FORCHE CAUDINE – PAGINA 21
►►► segue dalla pagina precedente
La lista delle partecipate non è finita. C’è, ad esempio,
FinMolise spa, cioè la Finanziaria regionale per lo
sviluppo del Molise, interamente di proprietà della
Regione. E c’è poi Sviluppo Italia Molise, eredità della
nazionale Sviluppo Italia spa, allorché la Regione ha
deciso di acquisire l’intero controllo della sezione
regionale. Come rilevato da più parti, le due società
hanno di fatto obiettivi analoghi, per cui integrarle
non sarebbe una cattiva idea.
Ma c’è di più. Tramite FinMolise, c’è un altro fiume di
società con partecipazione indiretta della Regione. Di
queste ben una quindicina sono in liquidazione,
fallimento, chiuse o in concordato. Nel dettaglio:
Aeroporto del Molise (!), Castellina, Centro fieristico
polifunzionale di Selvapiana, Citem, Finmolise srl,
Flexopack, Geomeccanica, IilSud, Innova, Intemo,
LTAuto, Lim, Molise innovazione, Sviam e Tsm.
Sempre tramite FinMolise spa, ci sono altre società
indirettamente partecipate dalla Regione. Tra queste:
Agri sviluppo 2000 di Larino, Asvir Moligal di
Campobasso, Contagricol di Bonefro (imballaggi),
Coteb di Larino (agricoltura), Energia verde di Isernia,
Ifim di Isernia (leasing finanziario), Indalco di
Ripalimosani (paste alimentari), Matese per
l’occupazione di Campobasso, Molise sviluppo di
Campobasso.
Della crisi della Gam, Gestione agroalimentare
molisana, ci siamo più volte occupati. Questa società,
interamente partecipata dalla Regione, a sua volta
garantisce la partecipazione indiretta dell’ente locale
molisano ad altre due società con noti problemi, la
Avicola molisana di Bojano e la Solagrital (con
commissario liquidatore nominato l’11 ottobre 2012).
Altra società di questo lungo elenco, interamente
partecipata e operante nel turismo, è Korai srl, con
un onere complessivo gravante sul bilancio
regionale di 377 mila euro (anno 2012).
C’è poi il dramma della cassa integrazione, che in
Molise coinvolge ormai centinaia e centinaia di
lavoratori, dalla Fiat di Termoli nel 2014 alla
drammatica
situazione
dei
45
dipendenti
dell’impresa di costruzione Falcione, in cassa
integrazione per dodici mesi da giugno 2014, ma che
per sette mesi non hanno ricevuto soldi.
Cassa integrazione anche per i 277 lavoratori della
Gam di Bojano, emblema della filiera avicola
molisana. Il programma di crisi aziendale è
autorizzato fino al prossimo novembre.
Alla tessile Ittierre di Pettoranello, un tempo fiore
all’occhiello del territorio, la cassa integrazione per i
247 dipendenti scadrà il prossimo 3 aprile. E’
previsto un rinnovo per altri sei mesi, anche se –
nonostante i proclami di rilancio - l’eccellenza del
tessile in provincia di Isernia, con il suo forte
indotto, rimarrà probabilmente solo un ricordo. Il
governatore Frattura, però, ringrazia il viceministro
De Vincenti per la sensibilità dimostrata “nei
confronti delle situazioni produttive più difficili” del
Molise, assicurando sei mesi di cassa integrazione. E
dopo? Dopo resta la competizione globale, il
mercato internazionale. I politici amici possono
ormai fare ben poco…
■
Ridere, per non piangere…
Simulazione di un aeroporto nel Basso Molise
da inaugurare nel 2067 a cura del neogovernatore Iorio IV
(costo del rendering: un quintale di scamorze appassite)
FORCHE CAUDINE – PAGINA 22
L’AFFONDO
Paolo il caldo
di PIERINO VAGO
C’è davvero l’imbarazzo della scelta: è più facile di
quanto si possa credere individuare la cartina al tornasole
più idonea a misurare il tasso di alcalinità dell’attuale
intellighenzia politica molisana.
I social network, ad esempio, con il loro buon livello di
narcisismo e di autoreferenzialità, offrono materiale
chimico a iosa: sarebbe da masochisti non trastullarsi negli
stimolanti esperimenti scientifici in tal senso.
In particolare ci si può soffermare sui profili digitali dei più
rampanti rappresentanti del Partito democratico, quelli
che in genere non lesinano il cravattone e gli occhiali –
secondo loro – di tendenza: qui, a beneficio degli ultimi
cortigiani (la penuria di posti di lavoro ne ha assottigliato
le fila) che ben galleggiano tra tsunami di insulti espressi
in bit, i nostri amministratori in genere s’industriano a
dividersi tra irresistibili note sui prossimi impegni televisivi
(“Amici (ahrarara), tra un’ora sarò in tv!”, troppo pochi i
commenti modulati sulla saggezza sordiana del “E chi se
ne frega”) e tra un’assicurazione al cugino del fido
elettore del basso Molise (della serie: “Mi sto impegnando
per affrontare i problemi dei dipendenti degli zuccherifici
con occhi azzurri, auto Fiat Punto usata e 32 anni di
contributi…”).
Insomma, per le persone intelligenti, quelle che sanno
cogliere le mille sfumature di grigio dei “finti giovani”
amministratori molisani, è puro divertimento rilevare
come un politico provincialotto, braccia sottratte
all’agricoltura, provi ad emulare abitudini e atteggiamenti
dei navigati omologhi provenienti da ben altre regioni (e
soprattutto con ben altri retroterra culturali).
Ecco allora il campionario di segreterie politiche con
l’immancabile “Prondo” al telefono, i siti internet con
programmi degni di un Commodore 64 Emulator, le
immagini arricchite dalle citazioni dei grandi personaggi
della storia o americanizzate dalla presenza di moglie e
figli, l’elenco di atti limitati ad interrogazioni parlamentari
su ospedali o fabbriche che chiudono. E via di questo
passo.
Se poi l’esperimento di misurazione ambisce anche a
qualche premio internazionale, consigliamo la nota del
governatore Paolo Di Laura Frattura sul tritacarne
mediatico che lo sta cingendo come una ventricina di
Montecilfone, in virtù di un’anomala e originale alleanza
che vede insieme navigati bucanieri di destra e sfigati
masanielli “de sinistra”, passando per un centro che in
Molise inghiotte davvero di tutto, meglio del
termovalorizzatore di Acerra.
Il governatore, accalorato da questa corale mobilitazione
degli organi d’informazione contro il suo operato (o non
operato) istituzionale, che s’affianca alla dinamica
raccolta di firme per l’impeachment, ricorda come il
cattivo rapporto con “i giornali sgraditi al potere” abbia
caratterizzato anche le precedenti forze di governo (con
le quali, è bene ricordarlo, si candidò). Ed evidenzia, ben
informato e con classe, che “c’era chi inveiva su tanto di
carta intestata contro la stampa locale definendola senza
troppi giri di parole ‘spazzatura’” o che “hanno tentato,
in qualche caso riuscendoci pure, di dettare la linea nelle
rassegne stampa delle emittenti locali”. E si lamenta
(letteralmente) che “all’operato o a un intervento in aula
del governatore si concede uno spazio assolutamente
marginale (pochi secondi), mentre di enfasi ed eco
godono i detrattori del governatore (con minuti e minuti
a disposizione e qualche volta intere trasmissioni)”.
Infine sfodera controffensive personali, rispondendo ad
un consigliere dell’Ordine dei giornalisti (ebbene sì, c’è
anche in Molise) che gli ha rilevato “indole dittatoriale”,
ricordando ai cittadini che lo stesso riveste un ruolo
politico, essendo portavoce del presidente di
centrodestra (quindi ex compagno di partito del
governatore) della Provincia di Campobasso.
Mentre la società molisana si disgrega, le ingiustizie tra
garantiti e non garantiti si accentuano, la disoccupazione
galoppa e l’emigrazione sta tornando a livelli da
dopoguerra, questo è il livello del dibattito politico
molisano. Forse, per misurare l’alcalinità, possiamo
risparmiarci persino la cartina al tornasole.
■
FORCHE CAUDINE – PAGINA 23
PROPOSTE
Per una viabilità funzionale
a cura dell’associazione “Tradizioni e sviluppo”
Agnone (Isernia)
Ricucire le aree interne del Molise e dell’Abruzzo,
favorire le relazioni e gli scambi tra la zona industriale di
Bojano e la zona industriale del Sangro, avvicinare l’Alto
Molise a Campobasso e alle aree produttive della
confinante Regione abruzzese sono alcuni degli obiettivi
prioritari delle nostre prospettive.
Lo scorso 17 marzo una delegazione dell’associazione,
accompagnata dal vicario delegato dal vescovo di
Trivento monsignor Scotti, che personalmente
incoraggia tutte le iniziative che rilanciano e rivitalizzano
il territorio, ha incontrato nella sede della Provincia di
Isernia il vicepresidente Cristofaro Carrino, i consiglieri
Mike Matticoli (delegato alla Viabilità, Infrastrutture e
Trasporti), Giuseppe Di Pilla, Francesco Lombardi,
Lorenzo Coia e Sergio Sardelli, e il direttore generale
Lino Mastronardi.
Un appuntamento che fa seguito all’incontro, tenuto a
metà gennaio, con l’assessore ai lavori pubblici della
Regione Molise Pierpaolo Nagni a Campobasso e con i
vertici Anas del Molise per conoscere, valutare e
discutere del piano regionale sulla viabilità.
L’intento dell’associazione è quello di verificare se esista
una programmazione sulla viabilità, orientata in tal
senso e per chiedere la restituzione e/o l’affidamento
all’Anas sia del tratto viario da Pescolanciano a
Castiglione Messer Marino che della Fondovalle Verrino.
Dal confronto con amministratori e tecnici è emerso che
vi è stato interessamento per l’affidamento dei suddetti
assi viari all’Anas e che, nell’estate del 2013, la Provincia
di Isernia ha stilato la bozza di un protocollo di intesa
con Anas compartimento Abruzzo, Provincia di Chieti,
Camera di commercio di Chieti, Confindustria di Chieti
ed il Patto Territoriale Sangro Aventino per disciplinare
lo studio territoriale di area vasta riguardante gli assetti
stradali tra l’Alto Molise e il Chietino.
Le linee di indirizzo, che vanno perfezionate ed
arricchite, partono da uno studio economico e sociale
delle zone interne dell’Alto Molise (territorio che ruota
intorno ai Comuni di Agnone, Frosolone e Trivento) e
dell’Alto Vastese (Castiglione Messer Marino, Schiavi,
Montazzoli, Roccaspinalveti, Fraine, Atessa), che
riconosce la necessità di migliorare i collegamenti tra
queste aree e tra le principali direttrici del Molise e
dell’Abruzzo, per permettere spostamenti agevoli ai
cittadini sia per motivi occupazionali, commerciali,
culturali, sia per porre le basi di un’integrazione di
servizi ed opportunità. Nella bozza emerge chiara ed
impellente la necessità di rendere efficace il servizio stradale
a supporto delle aree a vocazione e a rilevanza produttiva,
industriale, agricola e turistica.
Agnone (Isernia)
Nonché di creare un moderno assetto socio-economicoambientale delle popolazioni montane, di dare priorità
ai collegamenti e ai trasporti tra l’area chietina del
Sangro e l’area non solo quella alto-molisana ma
molisana in generale, evitando una diversa allocazione
della popolazione, e di studiare un programma
infrastrutturale adeguato a tal fine.
“L’obiettivo – spiega Vincenzo Scarano, portavoce
dell’associazione - è quello di realizzare una trasversale
condivisa che colleghi la fondovalle Biferno, la
fondovalle Trigno, la fondovalle Sangro, di congiungere
l’Alto-Medio Molise e l’Abruzzo attraverso la
prosecuzione della fondovalle Verrino verso Capracotta
e Castel del Giudice, agevolando il collegamento dei
Comuni molisani ed abruzzesi alle direttrici principali.
Pensare ad una viabilità più funzionale alle esigenze del
territorio significa anche: avvicinare l’Alto Molise a
Campobasso, collegare l’area industriale di Bojano con
quella del Sangro e di Sulmona, dare la possibilità alle
aree interne limitrofe di Molise ed Abruzzo di interagire
per collaborare alla realizzazione di progetti che
coinvolgano i servizi primari della sanità, della viabilità
e dell’istruzione”.
In questo momento storico, in cui sta aumentando la
consapevolezza di una collaborazione concreta tra le
due Regioni al fine di migliorare servizi e attività pensando anche al rilancio delle aree interne -, si sono
aperte discussioni in prospettiva di nuovi assetti
regionali e la Regione Molise sta riprogrammando le
attività in merito alla viabilità (dopo le recenti decisioni
sull’autostrada), emerge come non mai la necessità di
dare input ad una nuova prospettiva in termini di
relazioni viarie, che possa segnare il passo per
l’immediato futuro e ridare speranza ai residenti delle
zone interessate.
■
FORCHE CAUDINE – PAGINA 24
MOLISANI
Durante Antonarelli,
alla riscoperta di un benefattore
di EMANUELE BRACONE (Termolionline)
Una ricorrenza, anzi una riscoperta di un personaggio
particolare. L’11 marzo ricorre il 100° anniversario della
nascita di Durante Antonarelli, medico e giornalista
(Lupara 11 marzo 1915 – Vasto 13 dicembre 1993). Lo
ricorda Michele Antonarelli.
Figlio di Michele e di Teresina Del Vecchio, dopo gli anni
dell’infanzia trascorsi nel suo paese natale, che amò in
modo incondizionato per tutta la sua vita e dove volle
essere sepolto, completati gli studi medi e superiori nel
Convitto “Pagano” di Campobasso, conseguì la laurea in
Medicina e Chirurgia presso l’Università di Roma.
Sposato con Giuseppina de Paola, di antica famiglia di
Riccia, ebbe cinque figli: Michele, Enzo, Massimo,
Marcello e Maria Teresa. Ben presto, per condivisa
volontà soprattutto della madre, tornò nella sua terra
per svolgere l’attività professionale autenticamente
intesa come missione-servizio per la sua gente, a Lupara
prima, poi a Capracotta e, quindi, a Termoli.
Uomo di grande cultura e di spiccata sensibilità sociale,
sempre ispirato dai valori cristiani, sentì ben presto il
bisogno di mettere le sue qualità al servizio della terra
tanto amata, il Molise. Quel Molise che doveva affrontare
la somma dei problemi derivanti da secoli di sottosviluppo
sociale, culturale ed economico a quelli derivanti dalle
distruzioni della II Guerra mondiale. Iniziò, allora, con lo
pseudonimo di “Andur” a scrivere sui giornali di maggior
diffusione una lunga serie di articoli con stile brillante,
spesso anticonformista, comunque personale ed
inconfondibile per il lettore di quei tempi.
Lo scenario era “…quell’immediato dopoguerra, in verità
assai triste, che vedeva la nostra gente molisana immersa
miserevolmente nel più vasto contesto della depressione
meridionale. Gente, quella, che era, anche se moralmente
esemplare, civilmente ed economicamente povera,
politicamente e socialmente digiuna.”
Proprio a Lupara cominciò a svilupparsi la produzione
giornalistica di oltre 300 articoli che volle raccogliere in
volumi che intitolò “Lotta per il Molise con il giornale
(1947-1959)” e donò alla biblioteca del suo paese natale.
Fu anche autore di numerosi lavori su temi di medicina
sociale, pubblicati su riviste scientifiche a diffusione
nazionale, nonché di novelle che meritarono
riconoscimenti e premi letterari. Una di queste, dal titolo
“Il pugnale di Cecco” è stata sceneggiata e
rappresentata a Lupara il 3 gennaio 1999 presso il teatro
comunale. La sua vivace produzione giornalistica e
letteraria lo portò ad acquisire una grande notorietà.
Durante Antonarelli
Il professor Silvio Arcolesse, quando lo incontrava per il
corso di Campobasso lo salutava, apostrofandolo ad
alta voce: “Andur, quella penna che sa di tempesta!…”.
Vincenzo Di Lisio lo incitava: ”Non disarmare la tua
penna!”.
L’avvocato Franco Cianci così lo ricorda: “E per Lupara –
che egli assurge quasi a simbolo della disperazione,
della miseria di tutte le zone diseredate del Molise - egli
dedica pagine roventi sulla sete, sul problema
dell’acqua, delle botti dei pompieri giunte per spegnere
un incendio ed assalite, invece, dalla gente assetata;
sull’apatia della gente, sulla sfiducia, la solitudine, la
noia, che avrebbero, poi, spinto la popolazione verso
quelle bibliche migrazioni degli anni ’40 e ’50.” Insieme
a lui altri validi esponenti della cultura della nostra
regione presero ad agitare quella che definivano “la
questione molisana”.
continua alla pagina seguente ►►►
FORCHE CAUDINE – PAGINA 25
►►► segue dalla pagina precedente
Ecco come Durante Antonarelli ricordava quei momenti:
“Ho voluto comunque
mettere in
evidenza
quell’ambiente, quel clima, quell’aria che si respirava.
Mi piace a questo punto fare ancora presente che fu
proprio allora, in quel momento malinconico e triste, che
la nostra gente cominciò quasi per incanto a recepire
qualcosa, cominciò ad aprire gli occhi, cominciò quasi a
sperare.
E fummo noi della Stampa molisana prima di tutti a
suonare il campanello d’allarme, quindi le campane e
infine creammo tanto chiasso intorno ai grandi e piccoli
problemi di casa nostra.
Fummo i primi ad impostare un serio discorso per il
Molise.
E in quella operazione di stampa fummo assidui,
perseveranti, caparbi, spesso duri; e tanto potemmo
perché eravamo tutti punti dall’entusiasmo”.
Ancora: “Impostammo allora un dignitoso discorso sui
tanti problemi che avevamo di fronte, dalla educazione
civile politica e sociale dei Molisani che erano appena
usciti, e a caro prezzo, da una dittatura ventennale e dalla
guerra, alla realizzazione dell’Ente Regione, a quella
dell’acquedotto e alla irrigazione delle nostre ubertose
piane; e puntammo il dito su tanti altri problemi tutti
importanti: agricoltura, commercio, artigianato, salute,
previdenza e assistenza, strade, scuole, ecc.”.
Durante Antonarelli, primo fra gli altri, iniziò a sviluppare
l’idea che solo attraverso la conquista dell’autonomia
regionale si sarebbero potuti realizzare quei sogni di
riscatto. Solo un Molise autonomo avrebbe potuto
smettere di rappresentare una sorta di Cenerentola
dell’Abruzzo, del meridione, dell’Italia intera.
Il primo atto di autonomia fu la fondazione
dell’Associazione molisana della stampa, di cui fu fautore,
accanto a mio padre, Venanzio Vigliardi. Un nutrito gruppo
di giovani intellettuali-giornalisti, fra i quali spiccavano
d’Acunto, Vecchiarelli, Carchietti, Delli Veneri, Amoroso,
Rocco, Ruggieri, Mastronardi, Caluori, Rosati, Sciarretta,
D’Erminio, Tatta, Todisco, Galasso, Tedeschi, riuniti a
congresso “Sotto i colori della Regione” il 25 agosto 1948 a
Campobasso, deliberarono il distacco dall’Associazione
Abruzzese-Molisana della Stampa.
Lupara (Campobasso)
Due immagini di Termoli (Campobasso)
L’associazione si riunì ancora a congresso negli anni
successivi, divenendo il germe di quel consenso
popolare, di quella convinzione che solo dall’autonomia
potesse derivare il riscatto da quella durissima
condizione di carenza sociale, economica e culturale
della nostra gente nell’immediato II dopoguerra.
I politici del tempo, Sedati, Sammartino, Colitto, Monte,
La Penna, etc., vennero quasi sospinti da quel fervore
culturale e dal movimento d’opinione popolare ad
impegnarsi nella realizzazione della Regione Molise. In
questo senso, credo, Durante Antonarelli deve essere
considerato uno dei “padri fondatori” della nostra
Regione. La ricorrenza dei 100 anni dalla sua nascita
potrebbe costituire l’occasione di rendere questo
riconoscimento alla sua memoria, nonché di analizzare
le motivazioni che hanno condotto all’autonomia
regionale del Molise, lo sviluppo che questa autonomia
ha indotto, la sussistenza o meno di quelle ragioni in un
contesto profondamente mutato rispetto all’epoca della
sua opera.
■
FORCHE CAUDINE – PAGINA 26
LA LETTURA
Rocca, mon amour
E’ uno dei più bei paesi del Molise: Roccamandolfi (Isernia).
Eccelsamene raccontato da un illustre “figlio” che vive a Firenze.
di TONI DE SANTOLI
Per andare da Firenze a Roccamandolfi ci volevano due giorni.
Poteva bastarne anche uno, ma allora bisognava correre
ventre a terra e sperare che le coincidenze non saltassero.
L’Autostrada del Sole non esisteva ancora e non c’era neanche
il traforo fra Cassino e Venafro (inaugurato nel 1960).
Per raggiungere da Cassino il Molise, si doveva superare il
Passo delle Tre Croci, a mille metri d’altitudine, un tornante
dopo l’altro, curve a gomito, strapiombi, crepacci.
Il Passo delle Tre Croci, oltretutto, era riserva di caccia di un
folto gruppo di banditi, i quali però non sembravano poi tanto
efferati. Intorno al ’47 furono comunque debellati dal
ministero degli Interni.
Firenze-Roma in treno (il “direttissimo”) richiedeva tre ore e
mezzo di viaggio (due e mezzo col “Settebello”, lanciato però
dopo il ’50) mentre da Roma a Cantalupo nel Sannio ci
volevano dalle sei alle sette ore di corriera passando per
Colleferro, Frosinone, San Pietro Infine, Cassino, appunto;
quindi Venafro, Isernia, Castelpetroso. Arrivati a Cantalupo nel
Sannio, prendevamo il torpedone Campobasso-Roccamandolfi
o montavamo sulla Fiat “Millecento” di Mario “il milionario”, il
solo auto-noleggiatore della zona, uno che aveva schiacciato
una diecina d’anni in America e così al suo rientro in patria, al
suo ritorno a Cantalupo, era stato immediatamente
soprannominato, appunto, “il milionario”.
In treno, tutto bene. Ma sulla corriera si pativano le “pene
dell’inferno”, sia per via delle innumerevoli curve in salita e in
discesa, che per il tanfo provocato dalla commistione fra
l’odore del carburante e l’odore del materiale che serviva
come rivestimento dei sedili. Era consigliabile mangiare di
tanto in tanto qualcosa di secco e, soprattutto, di salato.
Oggi da Firenze con l’Eurostar si arriva a Roma in un’ora e
ventotto minuti; da Roma a Cantalupo in pullman la ci si fa in
due ore e mezzo, appena tre se le strada è bagnata o se
intorno a Isernia c’è traffico.
Siamo tuttavia sicuri che ora sia più “bello” di ieri? Di sicuro più
‘comodo’ è. E’ anche pratico, conveniente, sfrecciare da
Firenze a Napoli in appena tre ore (al massimo tre e un quarto)
o da Milano a Bari in sette o otto ore appena. Ma si perde
qualcosa. Si perde il senso della distanza. Si perde il senso
stesso del viaggio, del viaggio che ‘deve’ recare con sé qualcosa
di inedito, di curioso, di singolare. Di dolcemente ‘epico’. Si
perde il gusto dell’incontro, della conversazione, sul treno o sul
pullman: i viaggiatori chiamati a trascorrere un paio d’ore
appena sul convoglio ferroviario o sul pullman, neanche ci
pensano ad avviare una chiacchierata o a ‘studiare’ il
‘dirimpettaio’. Non si guardano nemmeno. Non vogliono
neppure essere guardati. Rifuggono lo sguardo altrui. Ne sono
quasi infastiditi.
Prima, no. Prima ci si avvicinava, si simpatizzava. Dopo tre o
quattro ore di viaggio, avevamo raccontato la nostra vita al
signore o alla signora che sedevano di fronte, o di fianco a noi.
Avevamo rilasciato confidenze al signore o alla signora che il
Caso ci aveva fatto incontrare sul treno o sulla corriera.
C’eravamo confessati. C’eravamo aperti. E loro s’erano aperti
con noi.
Grandi amicizie nacquero un tempo sui nostri treni, sulle
nostre corriere. Vi sorsero anche grandi amori, vi sbocciarono
flirt, vi s’intrecciarono complicità. Dopo quattro o cinque ore
di treno o di torpedone, ci sembrava di averli sempre
conosciuti il compagno o la compagna di viaggio allegri,
espansivi, cordiali, animati da sana curiosità. Proiettati verso
gli altri, più ancora che verso se stessi. Era una vita dolce. Ben
più dolce di quella che siamo chiamati a condurre oggigiorno.
Di sicuro, più umana. Benché ora non si faccia altro che parlar
d’”amore” e l’amore neanche sappiamo che cos’è…
Le mie milizie…
A Roma la notte la passavamo da certi parenti che abitavano
in Via Giambullari o da altri che vivevano in Piazzale Ardeatino.
Talvolta s’andava al “Massimo D’Azeglio”, vicino alla Stazione
Termini. Il giorno dopo, finalmente, giungevamo a
Roccamandolfi… Guadagnavamo così la nostra ‘Shangri-la’… Il
viaggio era appunto terminato. Terminato dopo non si sa
neanche quante ‘leghe’… E sembrava che fosse durato non
uno o due giorni, ma settimane, settimane intere… L’arrivo a
Roccamandolfi mi elettrizzava.
continua alla pagina seguente ►►►
FORCHE CAUDINE – PAGINA 27
►►► segue dalla pagina precedente
Cominciavo subito a scalpitare sotto il sole gagliardo e nell’aria
asciutta dell’estate roccolana. Di anno in anno, al mio ritorno
radunavo in paese le mie “milizie”. Venti, trenta, anche
quaranta bambini e ragazzini del posto, ‘autoctoni’, i quali scattanti come grilli, instancabili come cavalli normanni sembrava che non aspettassero altro.
Fabbricavamo in poche ore bellissime spade di legno,
trasformavamo cenci, stracci, in bandiere, stendardi, gagliardetti;
ci procuravamo barattoli e carburo (le “bombe a mano”!) e nelle
forre, nelle selve, sulle balze, fra i crepacci, andavamo all’assalto
di agguerritissimi eserciti che, ‘naturalmente’, sbaragliavamo
dopo epica lotta. Il più delle volte tornavamo a casa con le
ginocchia e i gomiti spaccati e con qualche bel livido sulle gambe
o sulle braccia, ma fieri, appunto, di aver riportato ancora una
volta una strepitosa vittoria!
Era il 1952, il 1953, il 1954, il 1955. Nel ’54 la televisione non
aveva ancora raggiunto il Mezzogiorno (vi sarebbe arrivata fra il
’58 e il ’59) mentre a Roccamandolfi la radio ce l’avevano, sì e
no, dieci o dodici famiglie sulle due o trecento del borgo. Ce
n’era una, però, al “Caffè Risorgimento”: un apparecchio
marroncino, panciuto, fornito di bellissime manopole bianco
sporco. Il proprietario del locale, Mencuccio (alto uno e ottanta
mentre suo padre Mattia sfiorava appena il metro e
cinquantacinque…), ne aveva una cura scrupolosa, religiosa: lo
spolverava in continuazione, lo contemplava; poco ci mancava
che ci parlasse.
Introverso, taciturno, forse un depresso senza sapere d’esserlo,
Mencuccio pareva mostrare più cura appunto per gli oggetti
che per le persone. Ma chissà… Nessuno lo vide mai sorridere
in tutta la sua vita. Nessuno lo vide mai gioire, né tantomeno
esultare. L’uomo passava giorni interi senza aprir bocca e aveva
spesso l’aria dell’afflitto o dello scocciato. Ma con gli avventori
si comportava in modo impeccabile, ‘signorile’: trattava tutti
allo stesso modo, lo stagnaro e il notaio, l’ingegnere e il
muratore, l’ufficiale postale e lo spaccapietre. Faceva anche
credito. Tutti gli esercenti, tutti i negozianti di Roccamandolfi
(come quelli degli altri paesi del Meridione di allora) facevano
credito alle donne - alle madri di famiglia - le quali in negozio si
presentavano trepidanti e un po’ in soggezione col ‘libretto’, il
taccuino su cui veniva di volta in volta segnata la somma di
denaro dovuta dal cliente. C’erano famiglie che per forza di
cose saldavano ogni due o tre mesi, anche sei. Alcune il conto
lo pagavano a fine anno. Altre liquidavano dopo un paio d’anni,
grate per la comprensione, per la fiducia ricevute. Era un modo
di vivere, sissignori, molto umano. A me, da bambino,
sembrava “lo stile sannita”!
Lo stile sannita
Ma “lo stile sannita” era anche un altro. Consisteva in sessioni di
pugilato che potevano durare una, due ore, anche più. Sessioni
con due soli contendenti (soggetti fra gli undici-dodici anni e i
tredici-quattordici) seguiti da una folla di bambini e ragazzi ora
rumorosa, ora silenziosa, comunque attenta, partecipe.
I due avversari se le davano di santa ragione. Bava alla bocca, la
collera negli occhi, fra una smorfia e l’altra di coraggio,
disprezzo, ira, senso di superiorità, i due ‘nemici’ di turno si
pestavano con coraggio, temerarietà. Si massacravano.
Si massacravano lanciando con voci stentoree minacce
impressionanti: “I’ t’accid!”, “I’ te facc’e!”, “I’ te streppeio!”.
Traduzione: “io t’ammazzo”, “io ti distruggo”, “io ti ti sfiguro”.
Altro che Mohammed Alì o Marvin Hagler, Marciano o
Antuofermo… Cazzotti rapidi e poderosi sibilavano nell’aria e
spesso centravano il bersaglio. Non di rado, uno che avesse
già incassato colpi numerosi, ben portati, durissimi, trovava
grazie al proprio orgoglio (giustamente ‘smisurato’,,,) la forza
di contrattaccare e quindi, pur ammaccato, sanguinante,
tumefatto, reagiva con efficacia nell’incontenibile, iracondo,
soprassalto e piegava il ‘nemico’ che fino a un minuto prima, o
anche meno, era apparso come il padrone del campo.
Le contese non avvenivano in spazi ristretti. Anzi. Potevano
esplodere nei pressi della chiesa di San Giacomo, nel centro di
Rocca, e finire all’”Edificio” (così chiamata la nuova sede delle
Scuole Elementari costruita intorno al 1930), sulla “rotabile”
che porta a Cantalupo: un bel tragitto, un tragitto di un
chilometro o quasi, fra le case, gli orti, le rimesse; nella
polvere bianca, densa, polvere ”roccolana”. C’erano, tuttavia, i
“rounds”… Tacitamente, i due avversari s’accordavano circa la
necessità di riprendere di volta in volta fiato. Poi il pugilato
riesplodeva, di colpo, più intenso e più selvaggio di prima. Per
consuetudine, per plurisecolare, o, chissà, plurimillenaria
consuetudine, il confronto non poteva finire in parità:
dovevano esserci, per forza, un vincitore e un vinto. Il vincitore
in genere si chinava sul vinto, esausto, sdraiato sul terreno,
stordito dalla valanga di botte prese, e diceva pressappoco:
“Che non si ripeta più… Ho tutto dimenticato, tutto!”.
Bastava una parola fuori posto, bastava un’allusione giudicata
poco carina, bastava un’offesa, un gesto ritenuto oltraggioso,
perché due ragazzi roccolani decidessero di risolvere la
questione con le maniere forti. Rancori, tuttavia, non ne
rimanevano: la contesa lavava quel che c’era da lavare… Quello
che più mi colpiva, era il distacco dei genitori dell’uno e
dell’altro contendente. Non vidi mai in tutti quegli anni un padre
o una madre prendere le parti del figliolo impegnato nell’aspro
combattimento o reduce dall’aspro combattimento. Non si
creavano frizioni, dissapori, ostilità fra le due famiglie. Le
famiglie lasciavano che i ragazzi se la sbrigassero da soli, con le
loro sole forze, con la loro sola volontà.
Venivo da Firenze e avevo amici e compagni di scuola
aggressivi, risoluti. Ragazzi che sapevano picchiare, tipini mai
domi, animati - già a dieci, undici, dodici anni - da una
sconfinata fierezza.
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FORCHE CAUDINE – PAGINA 28
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Ma i “corpo a corpo” che avvenivano a Roccamandolfi
cinquanta, sessanta e più anni fa, erano davvero
‘qualcos’altro’. Parevano ‘primitivi’. Anzi, erano ‘primitivi’ o,
comunque, molto ‘antichi’. I fiorentini del Novecento, come
quelli dell’Ottocento, rappresentavano del resto una società
non più omogenea in senso antropologico, ‘etnico’, diversa,
piuttosto diversa, dalla ‘fiorentinità’ dei tempi di Anghiari,
Montaperti, Campaldino… I roccolani, no: i roccolani di mezzo
secolo fa nel loro complesso erano ancora “gli stessi” roccolani
di mille o duemila anni prima. Non sentivano il freddo,
resistevano bene alla fame e alla sete, sfidavano la sorte, la
sfidavano con allegria, con spavalderia, anche per capire - in
modo comunque inconscio - fin dove potessero arrivare.
Una ‘manager’ ante litteram
Roccamandolfi è un luogo remoto, appollaiato sotto i monti
del Matese, versante adriatico. Tuttora non v’è una strada di
transito: la strada, quella che da parte da Cantalupo, là si
ferma. E’ la “rotabile”, sinuosa, strappata alla roccia (a quanto
mi risulta) intorno al 1895 da eccellenti ingegneri, da eccellenti
operai. Prima che la “rotabile” fosse inaugurata, a Rocca ci si
arrivava solo attraverso due sentieri, due mulattiere, anzi:
quella che saliva da San Massimo, dal fondovalle ubertoso,
movimentato; quella che scendeva, scoscesa (impraticabile o
quasi fra novembre e marzo), da Castelpizzuto, da Letino, dalle
sommità del Massiccio del Matese.
Nei tempi antichi si diceva che se uno non voleva farsi
trovare e ricominciare indisturbato daccapo, bastava allora
che raggiungesse Roccamandolfi per poi sistemarvisi. Come
fece difatti il mio bisnonno paterno Giovanni, irpino, soldato
dell’Esercito delle Due Sicilie, sbandato e, a quanto si dice,
rincorso da un mandato di cattura per omicidio: in Irpinia,
avrebbe assassinato a rivoltellate la fidanzata, sorpresa in un
frutteto con un altro uomo del cui destino, però, nulla si sa.
Roccamandolfi fece la fortuna del mio bisnonno: vi incontrò
la mia bisnonna, Candida Baccaro, la cui famiglia possedeva
terre fertili, un po’ a valle, esposte al sole, e da quel
momento in poi lui altro non dovette fare (oltretutto, era
bene che rigasse dritto, senza dare troppo nell’occhio…) che
seguire con diligenza l’ingegno della moglie bionda, occhi
celesti, fronte spaziosa; della roccolana sveglia, spigliata,
intraprendente, che scriveva poesiole e studiava il Francese.
Il matrimonio ebbe luogo nel 1867. Giovanni aveva
ventinove anni; Candida, diciassette. Lei così sposò il
forestiero alto, dinoccolato, di bell’aspetto, versato in Latino,
arguto e spiritoso, e il ‘forestiero’ con un passato da
nascondere (ma che, alla lunga, non poté essere nascosto!),
sposò una ‘manager’ assolutamente “ante litteram”… Dalla
loro unione nacquero nel 1869 la zia Mariannina, nel 1874 la
zia Elia e, nel 1884 (il 3 di gennaio), il mio nonno Antonio,
detto Nino. Il quale per lavoro nel 1910 – l’anno dopo aver
ottenuto a Pavia la laurea in Ingegneria e Fisica con
specializzazione in ponti e strade – fu assunto al Genio Civile
e inviato in Toscana, dove conobbe la mia nonna Piera,
pistoiese doc. Fu così che nacque il ramo toscano della
famiglia. Ed ecco perché ogni estate da Firenze andavamo a
Roccamandolfi. Andavamo in un “altro mondo” davvero… Un
mondo che nel bene e nel male, nella gioia e nel dolore,
pareva un film, un grande, interminabile film…
I loro cognomi
I roccolani sono Sanniti. Così sanniti, e un po’ romanizzati,
che fra il VI e il VII Secolo seppero assorbire i Longobardi (e
poi gli Svevi, gli Aragonesi) insediatisi in paese. Nella loro
parlata del resto non c’è nulla di germanico: la loro parlata è
di ceppo partenopeo, impermeabile - fra il Cinque e il
Seicento - anche alla lingua spagnola, sebbene certi studiosi
dicano il contrario… Anzi, la “lingua” roccolana fino a meno
di un secolo fa conservò termini latini tipo “cra” e “biscra”,
vale a dire, “oggi” e “domani”. Forse Latino del volgo, ma
pur sempre Latino… I cognomi dei roccolani sono questi:
Scasserra, Gianfrancesco, D’Andrea, Pinelli, Castrilli, Del
Riccio, Farrace, Berlingieri, De Filippis, Baccaro, Ciallella,
Bojanelli, Martelli, Lombardi, Iannitelli, Rizzi, Di Marco,
Ricciardone, Forgione, Cimino, Innamorato, D’Angelo, Di
Castro. Solo i “Martelli” e i “Lombardi” non sembrano poi
tanto ‘autoctoni’, anche se a Rocca risiedono ormai da
secoli… Come i “Berlingieri”, la cui origine non è del tutto
sannita o romana, ma, verosimilmente, germanica. O
germano-iberica.
A Roccamandolfi si vive fin dall’Età del Bronzo, se non da
prima ancora… Sfido io: a Rocca c’è una sorgente, chiamata
“Trainara”, in fondo al paese, incassata fra le montagne,
dispensatrice di acqua fredda, anzi, gelida; gelida anche a
luglio, agosto. Fino a meno di trent’anni fa, numerosi
paesani d’estate andavano alla “Trainara” e collocavano
bottiglie di birra sotto le tre generose cannelle che
sporgevano dalla roccia, roccia dura, durissima; ma, qua e là,
friabile, farinosa. A molti di noi piace pensare che la
“Trainara” ci fosse già due o tremila anni fa. Secondo me, c’è
da parecchio più tempo ancora, dal Paleolitico, dal Neolitico,
se non da ere più remote ancora.
A fianco della “Trainara”, ormai sommersi dalla vegetazione
fitta, spessa, si trovano i resti di un mulino. Di un mulino
ampio, massiccio, in cui sgobbavano quindi chissà quanti
roccolani che da esso traevano il giusto compenso. Non
sappiamo, però, quando - e come - questo mulino andò in
disuso. A giudicare dalla ‘vetustà’ dei suoi resti, e dalla
vegetazione che appunto lo avvolge, lo nasconde,
probabilmente ci andò almeno un paio di secoli fa.
Il luogo, anche sotto il sole e alla luce abbacinante
dell’estate, è cupo, è lugubre: rappresenta infatti
l’abbandono, rappresenta ‘la fine’, la fine avvenuta non si sa
bene, no, in quale epoca, e che a famiglie roccolane dovette
per forza esser costato delusione, angoscia, patemi.
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FORCHE CAUDINE – PAGINA 29
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Nessun servilismo
A Roccamandolfi un tempo la dissenteria non colpiva soltanto
bambini o ragazzini di città come me che vi soggiornavano
d’estate. Colpiva anche i piccoli, i piccolini del posto. La nonna
Piera arrivava a Rocca sempre provvista di fermenti lattici,
scatoloni di fermenti lattici, la cui distribuzione avveniva in casa
nostra, o sotto casa nostra, nell’ordine, senza chiasso, con
disciplina, disciplina ‘pistoiese’, disciplina ‘roccolana’. Le donne,
la mamme, le sorelle maggiori ringraziavano con eleganza e
dignità sannite. Ringraziavano senza atteggiamenti servili, o
‘pittoreschi’. I roccolani non conoscevano, e non conoscono, il
servilismo. Non sapevano, e non sanno, che cosa esso sia… Nel
loro modo di fare si delineava questo tacito concetto: io vi
seguo, voglio esservi d’aiuto, voglio rendermi utile, ma senza
che voi poi vi sentiate autorizzati a pretendere chissà cosa da
noi, senza che dobbiate poi farci pesare il vostro ‘bel gesto’,
senza che dobbiate accampare ‘diritti di superiorità’ nei nostri
confronti. Eccoli i roccolani, i montanari del Matese. Gente, sì,
ancora sannita.
C’erano mosche a Roccamandolfi. Mosche dappertutto. Sfido
io: ogni santo giorno, muli, asini, capre, pecore, cani da
guardia, anche cavalli, attraversavano il paese. C’erano merde
massicce, fumanti, quasi ovunque… A toglierle dalla
circolazione ci pensavano il Comune, i roccolani stessi che di
fronte alle loro case quei monumentali escrementi di certo
non ce li volevano; e le piogge, le piogge che cominciavano
nella seconda metà d’agosto e che a settembre inoltrato si
facevano frequenti, insistenti. A ottobre arrivava il diluvio. La
pioggia, così, lavava Roccamandolfi. La lavava bene grazie alle
scalinate delle quali è fatto il paese. Anzi, Rocca, con
l’eccezione della parte bassa, quella che si stende lungo la
“rotabile”, è tutta ‘una scalinata’, suggestiva, spettacolosa,
ramificata. E’ un reticolo di scalinate, viuzze, vicoli. Così si è
sviluppato il paese attraverso i secoli, anzi, i millenni. C’è la
Rocca medievale, sia giù alla “Trainara”, che ‘in coppa’; c’è la
Rocca del Cinque e Seicento - a mezza costa - e c’è quella
dell’Ottocento e del primo Novecento che scorre appunto sulla
“rotabile”. Poco sopra la “Trainara”, per esempio, si trova
tuttora un fabbricato basso, ma molto ampio, fatto di tufo, con
pochissime finestre, finestre anguste, quadrate, che finestre
nemmeno sono… Si vede che l’edificio è del Due o del
Trecento! E’ un edificio “muto”, dall’aria ‘solitaria’,
malinconica, povera. Non vi ho mai visto nessuno. Nessuno
che vi entrasse, nessuno che ne uscisse.
Torniamo alle mosche. Le quali non davano tregua. Erano
piccine, erano ‘petulanti’, assillanti. Si appiccicavano non solo
su asini, muli, cavalli; ma anche sul capo, sulle gote, sulle mani
e le gambine dei bambini, bambini di due, tre anni che
sedevano sugli scalini delle loro case o nelle minuscole piazzole
antistanti. Le mamme o le nonne non sempre avevano tempo
per liberare dal martirio i piccini. Ma tanti piccini ormai
neanche più s’accorgevano delle bestiole così ferocemente
attaccate alla loro pelle. Bestiole che ne lambivano, e a volte
ne aggredivano, le labbra, le orecchie. A settembre, poi,
arrivavano gli scorpioni, neri, veloci, anche piuttosto grossi.
Uscivano dagli interstizi, dalle intercapedini, dalle fessure: te li
ritrovavi in camera, in cucina, in salotto. Nelle intercapedini
scorrazzavano soprattutto i topi, i quali, specie di notte, nella
loro misteriosa frenesia, facevano un gran trambusto.
“Non è nulla, non sono che i topi…!”, diceva a letto,
compassata, imperturbabile, la nonna Piera a me che
apparivo un poco impaurito. Poi, fra i sette e gli otto anni,
cominciai a farcela anch’io l’abitudine al fracasso, continuo,
provocato dai topi, specie fra la primavera e l’autunno; molto
meno in inverno.
Le loro aspettative
Arrivavo a Roccamandolfi pieno di giocattoli. Ricevevo altri
giocattoli quando a Rocca, in agosto, da Firenze mi
raggiungevano mio papà e mia mamma. Ricordo che un
giorno (sarà stato nell’estate del ’53 o del ’54) dai miei
genitori ricevetti un cannone che sparava bellissime palle
bianche, ciascuna delle quali il doppio di due palline da
tennis messe insieme. Giocattolo prodigioso, giocattolo
insuperabile, che si aggiungeva alle pistole a tamburo ‘Pecos
Bill’ (dodici colpi!) e a tanti altri strumenti fabbricati per la
delizia dei bambini di allora. Per la delizia dei bambini ‘ricchi’
come me… Solo che già a quei tempi la mia famiglia qualche
rovescio finanziario (dovuto alla guerra, dovuto anche alle
circostanze, inesplicabili) l’aveva subito e, quindi, tanto
‘ricchi’ più non eravamo… Eppure, per me il bel giocattolo
vistoso e scintillante c’era sempre. Insieme ai fumetti,
“Pecos Bill”, “Oklahoma”, “L’Intrepido”, “Il Monello”,
“Rataplan”, “L’Impavido”, altri ancora.
Così, ogni estate, al mio arrivo a Roccamandolfi, i miei
compagni di giochi mi stringevano d’assedio… Nelle loro voci
afone o argentine, domandavano subito: quando te ne vai,
questo giocattolo a chi di noi lo lasci?? Questi ‘giornalini’
(fumetti, appunto) a chi li lasci?? Ricordo benissimo le loro
espressioni. Espressioni di bambini vestiti di stracci, eppur
lucenti, quelle espressioni; sguardi guizzanti, amichevoli,
gioiosi, “ansiosi”. Occhi di fanciulli i quali avrebbero
accettato con somma gioia anche un solo ‘giornalino’, anche
un pugnale o una daga di gomma da duecento lire… A loro
bastava il gesto. Bastava il pensiero. Gesto e pensiero che
mai avrebbero dimenticato. I ragazzini della Rocca di allora
avevano una memoria da elefante… Tutto ricordavano.
Tutto, nei minimi dettagli. Alla fine delle vacanze, alla vigilia
della partenza per Firenze, lasciavo ciò che avevo ai miei
esultanti compagni di giochi, poveri in canna, ma animati –
come i loro genitori, i loro nonni – da nobiltà d’animo.
Quella mi sembrava la cosa giusta da fare. La cosa più
naturale da fare. Naturale come l’esistenza stessa della
Terra, naturale come l’esistenza stessa di Roccamandolfi.
Ripartire per la città coi giocattoli sarebbe parso volgare ai
bambini del paese.
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FORCHE CAUDINE – PAGINA 30
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Sarebbe stato, sì, un atto volgare, una grossa indelicatezza,
una ‘sconvenienza’. Sarebbe stata dimostrazione di egoismo,
di piccineria. Di mediocrità. In casa mia, del resto, vigeva un
principio non scritto, tacito… Mescolarsi ai ragazzi del posto,
stringere amicizia coi ragazzi del posto, poiché “noi non
siamo superiori alle loro famiglie”. Ma non c’era ombra di
paternalismo nel modo di fare dei miei familiari verso i
roccolani. I quali, questo, lo notavano eccome; notavano
tutto i roccolani, istintivi, perspicaci, acuti. C’era tutto il paese
ai funerali del nonno Nino, che avvennero il 7 marzo 1955,
sotto la pioggia battente, alla sferza della Tramontana. C’era
tutto il paese ‘anche’ al funerale (il 5 giugno 1980) della
nonna Piera, la pistoiese doc giunta una prima volta a
Roccamandolfi nel 1920, poco dopo le nozze col nonno. Da
Rocca la nonna restò folgorata. Non aveva mai visto nulla di
simile in vita sua, lei che appunto veniva da Pistoia e che da
bambina e da ragazza andava al mare a Livorno (ai Bagni
Pancaldi) e quindi nella campagna pistoiese, in luoghi
chiamati Gello, La Cugna, San Biagio in Cascheri, posti ‘dolci’,
‘carini’, ‘bellini’, puliti, insomma, ben tenuti. Diversi,
profondamente diversi, anche nello spirito e nella forma
mentis delle genti che vi abitavano, da Roccamandolfi, dal
borgo del Matese dove, arrivandoci per la prima volta, i casi
erano due: o te ne innamoravi all’istante o non t’andava di
passarci neanche mezza giornata… Alcuni, incapaci di
superare il ‘blocco’ alzato dalle cacche, dalle mosche, dai
somari, dai muli, dalla polvere, dalla “strana” parlata locale,
ripartivano, sì, il giorno stesso o il giorno dopo. Ma erano
molto più numerosi coloro i quali venivano colpiti in un
baleno dal misterioso potere del paese, dalla bellezza della
polvere bianca, dalla bellezza degli altri colori (il celestino di
certe case, il rosa di altre); da quella delle scalinate fatte con
la lava e col travertino, degli archi, volte, vicoli, balconi
ricolmi di fiori. Colpiti dalla comunicativa, dalla gentilezza,
dalla fierezza della gente e dalla musicalità del dialetto locale.
Stregati dalla maestosità delle montagne e dall’atmosfera
singolarmente simile a quella del Deserto: l’atmosfera che
tutto ti fa dimenticare, sei hai bisogno e voglia di
dimenticare. Tutto…
Così accadde appunto alla nonna Piera, che aveva vent’anni
quando mise per la prima volta piede a Roccamandolfi: le
sembrò d’esservi ‘tornata’, le sembrò d’averci già vissuto.
Dopo pochi giorni, tutto, dei roccolani, le era familiare: il
dialetto, la verve, l’immediatezza. La disinvoltura. Le erano
familiari gli scorci, gli infiniti scorci del paese, uno più
incantevole dell’altro. Le era familiare l’”assenza” delle ore, dei
minuti: a Rocca ci si regolava in base all’alba, al mezzodì, al
pomeriggio, all’imbrunire, alla notte… “Nove e dieci” o “undici
e quaranta”, non avevano senso… Non avevano significato!
Tranne che per l’Ufficio della Posta e del Telegrafo, che veniva
fatto funzionare come un ‘orologio svizzero’, e per le autolinee
comunali, un orologio svizzero anch’esse.
La nonna già nell’estate del ’37 o del ’38 a Rocca circolava
beata in pantaloni: pantaloni neri o pantaloni blù. Continuò a
portare i pantaloni fino ai giorni della sua ultima estate
roccolana, quella del ’78. Ma non si ha ricordo di roccolani
che mostrassero sorpresa, meraviglia, o che ricorressero allo
scherno, alla spiritosaggine sciocca, gratuita. La società
roccolana era una società “evoluta”. Altro che “arretrata”!
Era una società senza ‘guitti’.
Manlio Mainelli
Ma di “attori”, di “commedianti”, ce n’erano - a onor del
vero - anche a Rocca… Erano personaggi inconfondibili,
ciascuno con una propria, ben definita natura. Un poco
altèri, ma in modo innocente; sussiegosi più all’apparenza
che nella sostanza; solenni, piuttosto solenni, ma niente
affatto pomposi, tutt’altro che prosopopeici. Istrionici, mai.
Benchè il paese fosse popolato di gente estrosa, piena di
vita, effervescente, a Roccamandolfi in tutta la mia vita non
ho incontrato un solo istrione, un solo gigione.
Il più grande “attore” di tutti era Manlio Mainelli. Manlio
Mainelli era nipote del molto autoritario, eppur amabile,
notaio Mainelli, giurista, umanista, latinista – e proprietario
terriero. Fra gli Anni Quaranta e Cinquanta, della stirpe
Mainelli non erano rimasti che loro due, zio e nipote,
entrambi scapoli. Vivevano insieme nella ‘dimora avita’, una
casa del Seicento a due piani, immensa, bene arredata, un
po’ disadorna qua e là, con grandi finestre. Il portone si
trovava sulla via che collegava (e collega) l’antico ingresso
del paese alla scalinata che a sua volta conduceva (e
conduce) a Palazzo Pignatelli, vale a dire al centro del borgo.
Sull’altro lato la magione guardava a Oriente, al fondovalle
che fra le montagne scorre fra balze, declivi, selve, verso San
Massimo, verso la Piana di Bojano. Il colpo d’occhio era uno
spettacolo: nelle giornate limpide, si scorgeva il colle di
Ferrazzano, quasi s’intravedeva – a quindici o ventimila
metri in linea d’aria – la periferia di Campobasso!
Manlio era un uomo alto, imponente, grassoccio, un po’
bolso, dall’aspetto severo, ma non troppo. La natura
tuttavia non era stata tanto generosa con lui. Si diceva che
non gli avesse dato la tempra, la grinta dei Mainelli. Manlio
era un incostante o, perlomeno, incostante in tutto ciò che
poteva riguardare il disbrigo delle pratiche quotidiane. Un
lavoro non avrebbe saputo mantenerlo. Forse non avrebbe
neanche saputo obbedire come si ubbidisce in ufficio, in
fabbrica, nell’Esercito. Di sicuro, non sapeva comandare.
Faceva il grave, il burbero, il ‘duro’, ma non era né grave, né
burbero, né tantomeno ‘duro’: non incuteva soggezione a
nessuno. Il suo mondo si divideva in due sfere: quella della
fantasia e quella dei rapporti con amici, conoscenti (pochi).
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FORCHE CAUDINE – PAGINA 31
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Con la fantasia viaggiava in mezzo mondo, visitava metropoli,
attraversava oceani, incontrava grandi personalità dalle quali
riscuoteva affetto e stima.
Con gli amici s’imbarcava - infervorandovisi come un
fanciullo - in complicatissime analisi della ‘scena politica
internazionale’, analisi che lui sviluppava soprattutto
d’estate, durante le passeggiate lungo la “rotabile”, fra le sei
e le sette di sera, in compagnia di mio zio Peppino D’Andrea,
il quale, imperturbabile, si limitava a tacere e ad ascoltare.
Corrispondente da Roccamandolfi del “Giornale d’Italia”,
ogni giorno, specie con mia nonna e con Peppino D’Andrea,
ripeteva la solita frase, con aria artefatta (eppur simpatica!)
da personaggio che vuol farsi credere indaffaratissimo: “Ho
così tanta posta da evadere, ma così tanta…! Mi ci vorrebbe
un segretario, ma non ne trovo uno!”.
Diceva di lavorare per giornali e riviste francesi e tedesche
alle quali inviava saggi e articoli in francese e in tedesco.
Parlava di sue commedie e tragedie che venivano
rappresentate con straordinario successo nei più prestigiosi
teatri d’Europa.
A sentir lui, ministri degli Esteri, grandi industriali, generali,
ammiragli, esploratori, grandi inviati speciali lo consultavano
allo scopo di ricevere la necessaria ‘illuminazione’, gli
telefonavano ogni giorno o lo inondavano di telegrammi…
Spesso gli inviavano corrieri che però a Rocca arrivavano
sempre a notte fonda, quando in giro non c’era un’anima…
Non solo: lui conosceva il Sanscrito, conosceva a menadito e per “”esperienza diretta”” - ogni litorale del Mediterraneo
e ogni ramificazione del Delta del Nilo…
La sua Conoscenza abbracciava anche l’archeologia, la
botanica, perfino il Nucleare…
In politica si dichiarava socialista monarchico.
Era un anglofilo, questo lo era davvero, un fiero anglofilo con
tutta la bella, toccante ingenuità del caso.
Schiacciato dalla massa abnorme della propria debolezza,
come svuotato nell’assetto nervoso da chissà quale
insaziabile ‘bestia’ che in lui s’agitava (almeno così credo) fin
dai tempi della pubertà, uno così in un paese del Casentino o
della Garfagnana, del Parmense o del Reggiano, sarebbe
stato prima o poi spinto al suicidio o, nella ‘migliore’ delle
ipotesi, se ne sarebbe deciso il ricovero in manicomio. A
Rocca, invece, nessuno si fece mai gioco di lui. Mai nessuno
di lui si burlò. Nessuno mai di rispetto gli mancò.
Si vedeva che non sempre era ‘presente’. Si vedeva che,
spesso, la sua mente volava via e chissà dove volava. Manlio
discorreva di imprese mai realizzate, di città mai viste, di
esponenti politici mai conosciuti… Ma non parlava mai di sé.
La propria personalità gli era molto chiara, è verosimile che
lui nell’intimo se ne vergognasse. Dopo la morte dello zio
notaio, i suoi sbalzi d’umore si fecero più frequenti: muto da
ore e ore, di colpo ripigliava a chiacchierare e non c’era
nessuno che potesse fermarlo, nemmeno Peppino D’Andrea,
il suo unico, vero grande amico. Appunto, il grande
ascoltatore. Questo era un uomo che avrebbe voluto
diventare un grande giornalista o un celebre chirurgo, un
gran soldato o un alto dirigente di partito: ma lui capiva di
non averne le qualità, s’accorgeva che in nulla era veramente
versato.
Questa fu una delle sue tragedie.
L’altra sua tragedia, la Donna. La figura femminile, che per
lui sempre fu un mistero, lo eccitava. Da ragazzo lo eccitava
in un modo che in lui si rivelava con una spasmodicità
visibile, anche ‘troppo’ visibile; meno visibile - ma pur
sempre presente - dagli anni della prima maturità in poi. La
Donna lo paralizzava. Lo ottenebrava. Manlio, chiuso nelle
sue paure, torturato da forze oscure e invisibili, prigioniero
di una timidezza altrettanto inesplicabile, non sapeva
corteggiare una donna, non sapeva conversare per più di
cinque minuti con una donna: cominciava a sudare, perdeva
il filo logico, incappava nella balbuzie, inventava qualcosa
pur di allontanarsi, lui, lui che appunto subiva in maniera
così profonda, il fascino femminile. Ma era proprio per
questo che scappava… Proprio per questo che fuggiva senza
trovar mai l’approdo sperato. Povero Manlio: visse la
propria vita sognando un bacio che mai ricevette, sognando
un bacio che mai potè dare. A nessuna donna seppe dire “vi
amo”, da nessuna donna si sentì dire “vi amo”.
Di quest’uomo, di quest’infelice che talvolta riacquisiva però
un’aria fanciullesca, innocente, conservo un gran bel
ricordo. Manlio Mainelli era un signore. Un gran bel signore:
io che ero bambino, da lui ricevevo le attenzioni che in
genere si riservano, o a quel tempo si riservavano, agli
adulti. Anzi, in certe circostanze lui mostrava deferenza nei
miei riguardi, una deferenza che non mi sfuggiva allora e che
adesso mi commuove. Ecco, a quell’epoca lui mi sembrava
un ragazzo un po’ invecchiato, ma pur sempre un ragazzo,
Manlio Mainelli.
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FORCHE CAUDINE – PAGINA 32
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Il clou dell’estate
Il ‘clou’ dell’estate a Roccamandolfi lo si raggiungeva per la
festa di San Liberato e per la festa di San Donato. La festa di
San Liberato cadeva (e cade) nella prima domenica di giugno;
la festa di San Donato nella prima domenica di agosto. Delle
due, quella più sentita era la festa di San Liberato, il cui
corpo, incartapecorito, è tuttora custodito - e alla vista del
pubblico - nella chiesa di San Giacomo. Ma le celebrazioni in
onore di San Donato richiamavano molta più gente, se non
altro per il fatto che ai primi d’agosto a Rocca c’erano più
villeggianti che mosche e topini…
Per San Donato, arrivavano le bande, le orchestre: venivano
dalla Puglia, da Gravina, da Gioia del Colle e, se ben
rammento, da Acquaviva delle Fonti. Erano bande di
prim’ordine, costituite da venti, anche trenta elementi, tutti
in uniforme scura, tutti un poco marziali, ma anche un
pochino ‘caserecci’… Più marziali, comunque, che caserecci!
I musicanti in genere arrivavano la sera della vigilia, venivano
alloggiati presso l’”Edificio”, accuditi di tutto punto da
roccolane allegre e pimpanti, capaci di preparare piatti
squisiti e abbondanti col solo uso di spaghetti, cipolle,
pomodori, d’un po’ di carne di cavallo (o di mulo…), qualche
altro povero ingrediente. La mattina dopo, secondo la
tradizione (a detta degli storiografi, nata nel Settecento), i
musicanti effettuavano con la dovuta pompa il proprio
ingresso in paese: suonavano miscellanee di Verdi, Mascagni,
Puccini, anche Massenet. Cominciava l’”apoteosi”!
I roccolani si accalcavano frizzanti e gioiosi intorno alla
banda. Le donne salutavano dalle finestre, il tripudio era
generale. Gli uomini – allevatori, contadini, fabbri, stagnari,
muratori, falegnami, pecorai, spaccapietre, elettricisti,
impiegati, mugnai, ‘signorini’ che vivacchiavano di rendita su
qualche pezzo di terra e su cinque o sei dozzine fra mucche,
capre, galline - uscivano ben rasati, vaporosi, in giacca e
cravatta, a passo felpato, la sigaretta fra le dita (si trattava
sempre di ‘Nazionali semplici’ o di ‘Alfa’ o di ‘Sax’:
cannonate!), lo sguardo attento, attento e ampio come un
periscopio. Le ragazze indossavano il ‘bel vestito’, in molti
casi ricavato da abiti della mamma o della zia, anche della
nonna. Sorridevano gaie. Si parlavano fitto fitto fra loro, non
di rado arrossendo. Si guardavano intorno… Sbirciavano in
‘modo birichino’… S’illuminavano se scorgevano il ragazzo
dei loro sogni o se arrivava un tale, da Caserta o da
Benevento, da Campobasso o da Isernia, il quale
rappresentava il loro ideale… L’ideale del loro senso estetico
di sannite “pagane” per le quali la forma, la beltà, sono
“sostanza”: non c’è “sostanza” senza forma o beltà. Del
resto, sia per San Liberato che per San Donato, da Caserta,
Benevento, Isernia, Agnone, Trivento, a Roccamandolfi
arrivavano folle di scoppiettanti venditori ambulanti i quali nel chiasso che al chiasso aggiungevano - mettevano in bella
mostra tomboli d’Isernia, pizzi, broccati, penne biro,
zuppiere, piatti, posate, bicchieri, caraffe, scarpe da uomo e
da donna, scarponi, calzettoni, camicie, maglioni, pancere,
altri indumenti vari, eppoi mandorle, vellane, perfino
panforti di Siena e così via. I più ammirati erano due o tre
casertani, tutti dai capelli rossi, tutti slanciati, longilinei, sicuri
di sé, compassati; “cool”, si direbbe oggigiorno.
Uno di loro, un taciturno che viaggiava su una magnifica
“Guzzi”, vendeva un alimento chiamato scapece, senza
dubbio dall’alto potere nutriente… Non so tuttora di che
cosa fosse fatta la scapece, soda, giallastra, ma ricordo più
che bene che emanava un odore per me nauseabondo,
pestilenziale.
Eppure ai roccolani piaceva. Forse piaceva da secoli, da
millenni! La questione doveva essere atavica. Ancestrale.
Forse si cibavano di scapece anche i lavoranti del mulino
sotto la “Trainara”…
A sera arrivava il concerto. Il concerto si teneva in Piazza
Marconi, chiamata, semplicemente, “piazza”: un lastricato
di lava fra la chiesa di San Giacomo e una montagna,
boscosa, che su Rocca si erge con aria protettiva,
confortante, direi. In “piazza” si radunavano tutti i roccolani,
anche gli infermi…
C’erano fra la folla, il cui allegro brusìo cessava non appena il
Maestro alzava la bacchetta, contadini, braccianti, manovali,
pecorai; molti dei quali avevano, sì e no, raggiunto la Quinta
Elementare; molti dei quali semi-analfabeti o analfabeti del
tutto. Eppure, alla luce della Luna, ascoltavano Verdi,
Mascagni, Puccini, a bocc’aperta, in raccoglimento, estatici.
Concentrati. Rapiti dalle melodie eseguite dalle splendide
bande pugliesi. Una bomba sarebbe potuta piombare sulla
“piazza” e nessuno ci avrebbe fatto caso…
A me tutta quella gente (gli allevatori, i contadini, i muratori,
gli impiegati, le ragazze, i venditori ambulanti tipo i casertani
dai capelli rossi, la banda che veniva dalla Puglia) dava un
gran bel senso di libertà. Era come se a me bambino e poi
adolescente, volesse dirmi, ma con ‘levitas’ davvero sannita,
romana!: vivi la tua vita, senza sprecare tempo, sii lieto, sii
buono con te stesso e con gli altri, guarda quante belle cose
puoi fare, ma non chiedere mai l’impossibile, soprattutto
non chiederlo agli altri.
Questo, certo, l’ho capito in tempi recenti, ma un qualche
influsso da parte di quelle belle persone dovette aver
raggiunto la mia psiche nelle indimenticabili estati di allora,
le estati del 1957, 1958, 1959, 1960.
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FORCHE CAUDINE – PAGINA 33
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I miei migliori amici
Le estati del ’57, ’58. ’59, ’60… Le ricordo bene, eccome, alla
stregua di quelle precedenti. Ne rammento l’atmosfera, lo
spirito. Fra il ’58 e il ’59 a Rocca cominciarono – finalmente –
a circolare più liquidi, vale a dire: quattrini! Questo, sia per le
rimesse dall’estero degli emigrati, sia per l’effetto della
Ricostruzione nazionale dalla quale era sortito l’ormai
famosissimo fenomeno del “Boom”. C’era più lavoro, il
potere d’acquisto della lira aumentava, si avviava quindi lo
sganciamento dalla povertà, anzi, dalla miseria nera. I
roccolani ora apparivano più sorridenti di prima, più allegri di
prima, più fiduciosi, più pimpanti ancora. Era una meraviglia.
Era un’alba nuova, dopo la ripresa, tristissima,
dell’emigrazione fra il ’46 e il ’55-’56 o giù di lì… La
Roccamandolfi del 1959, quindi, sotto quest’aspetto era
felicemente diversa dalla Roccamandolfi del 1953, ’54, ’55.
Diversa dalla Rocca nella quale, un giorno d’estate, in
“piazza”, un bambino del posto a un tratto si gettò famelico
su alcuni biscotti caduti di mano a mia mamma, seduta al
caffè di Chiarina e Ettoruccio: il piccolino divorò in quattro e
quattr’otto quelle ‘prelibatezze’, come se da esse fosse
dipesa la sua propria vita… Mia madre allora comprò scatole
di altri biscotti e le regalò al bimbo, che non so chi fosse e mi
auguro che sia ancora vivo e che da tanto tempo conduca
una vita dignitosa, serena.
Quelle estati… Come dimenticarle?? Ricordo che i miei
migliori amici erano: Liberato Napolitano (detto da mia
nonna, chissà perché!, “Bernardo”), Raffaele, detto (ancora
da mia nonna!) “Fischietto”, Liberato “Ranciumè”, Ermes
Rettura (il figliolo di Colomba e Galileo), Michelino il figliolo di
Addolorata, Mario Mazzuto, i fratelli “Pellerin’”, Mimmo
Boianelli, Nicola il figlio del “mupo”, Gianni, l’atletico
rampollo del farmacista carrista dell’”Ariete” in Africa
Settentrionale durante la guerra, un signore “tutto d’un
pezzo” che non si separava mai dalla propria rivoltella e
viveva nell’ossessione che l’avvenente moglie lo tradisse… Si
dice che un giorno il passionale personaggio andò alla caccia
di un tizio “sospettato” di avergli insidiato la consorte e,
risoluto e collerico, vi andò appunto con la rivoltella… Per
fortuna, nulla di tragico accadde nella circostanza.
Ormai non s’andava più a fare la “guerra” alle Castagnete o a
Campdiciell’, alla “Trainara” o nelle cave di Santa Lucia…
Passavamo il tempo a giocare a pallone, a bere le aranciate
fatte con le ‘bustine’, a girovagare per il paese, a prenderci
gioco di forestieri “buffi”, “ridicoli”… “Corpi estranei”!
Passavamo il tempo, Liberato Napolitano e io, a sbirciare dal
basso (bello il paese a scalinate…!) le ‘guagliole’ dalle forme
appariscenti, le ‘guagliole’ che in noi provocavano insomma un
ciclopico rimescolìo! Tipo una biondona, “fatale”, che abitava
nei pressi della “piazza”, ma che dal ’61 o ’62 più non
vedemmo… Emigrata, forse, chissà dove… A Roma o a Milano,
a New York o a Perth… Già, chissà…Mistero. Fitto mistero.
Quelle estati, s’è detto… Ma l’estate del ’59 venne però
funestata dalla morte del figlio, del giovane figlio, di
Bartolomeo, annegato al “Torrione”, come altri prima di lui. Il
“Torrione”… Residuo della Glaciazione… Luogo ‘lunare’,
incassato fra i crepacci che si aprono e si restringono a monte
(se ben ricordo) di Santa Lucia.
Un lago, un laghetto su cui non batte mai il sole, freddo,
freddissimo, quindi, anche in piena estate. Eppure, ragazzi di
Rocca ci andavano a fare il bagno… Per alcuni, l’ultimo
bagno della loro breve, brevissima, vita. Al “Torrione” difficilmente raggiungibile per via del sentiero stretto e
scosceso - mi ci portarono in varie occasioni, nel ’54 o nel
’55, Ermes Rettura e i suoi fratelli, Alfiero e Franco. Forse
sono vivo per miracolo e questo lo devo al buon senso di
Ermes, Alfiero, Franco Rettura. I quali, difatti, mi
sorvegliarono sempre con una attenzione che in seguito non
avrei riscontrato in nessun’altra persona. I roccolani erano
fatti così. “Anche” così.
Gli emigranti
Gli emigranti. La partenza degli emigranti era qualcosa che
quasi ti spezzava il cuore, ti scombussolava. Gli emigranti da
Roccamandolfi partivano sempre fra le sette e le otto-nove
di mattina. Nel distacco dal paese venivano seguiti,
addirittura con mestizia, da parenti, amici. Non avevano fine
gli abbracci, le raccomandazioni, i consigli. Non aveva fine il
pianto. Il pianto di chi partiva e di chi restava. Gli abbracci
erano appassionati, ‘ferrei’. Le lacrime, grosse, calde.
Piangevano come viti tagliate uomini che per anni avevano
dato la caccia ai lupi del Matese, che s’erano troncati la
schiena sui campi, che con non chalance ‘sannita’,
‘matesina’, avevano superato ostacoli, vinto avversità. Non
facevano grossi drammi quelli diretti in Germania, in Belgio
o in Svizzera. Ma i roccolani che partivano alla volta
dell’America, del Canada, dell’Australia, del Brasile o
dell’Argentina poco prima di montare sulla corriera, poche
ore prima di raggiungere Napoli, da dove si sarebbero
imbarcati per attraversare quindi gli oceani, si chiedevano se
Rocca l’avrebbero più rivista…
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FORCHE CAUDINE – PAGINA 34
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Roccamandolfi, svuotato dall’emigrazione:
dai 3.300 residenti di inizio Novecento agli attuali 962.
Molti di loro più non la rividero. Molti di loro morirono e
furono sepolti nel New Jersey, nell’Ontario, nel Western
Australia, nel Minas Gerais, nel Boca.
Lo strappo era violento, ‘crudo’. Loro, all’uscita del paese, in
cima al Muraglione, da dove nasce la “rotabile”, si
guardavano intorno e nulla sembrava restargli della vecchia
baldanza, della vecchia disinvoltura. Sapevano che nel giro di
pochi minuti, alla loro vista sarebbero spariti il campanile
della chiesa di San Giacomo, l’”Edificio”, il Camposanto, le
montagne, la selva delle ‘Castagnete’, i ruscelli, i boschi e
tutti gli altri luoghi così familiari: luoghi che nella loro psiche
rappresentavano ‘il centro del mondo’. Rocca per loro era, sì,
il centro del mondo con le sue plurimillenarie tradizioni,
consuetudini, i suoi colori e sapori anch’essi antichi, di
un’antichità immensa, calda. A tutti più vicina di quanto si
potesse lì per lì pensare.
Pur provvisti di un contratto di lavoro o comunque di un
impiego, si mettevano in marcia verso l’ignoto e, come prima
cosa, speravano di riuscire a farsi raggiungere oltreoceano
nel giro di ‘pochi’ anni dalle mogli, dai figlioli, dalle madri,
dalle sorelle o dai fratelli minori. La loro prima meta era
questa. Questo diventava il cardine, lo scopo della loro vita.
Andarsene in Paesi d’oltremare dove si parlava un’altra
lingua, dove vigevano altre leggi e si seguivano altri usi,
sembrava una condanna. Era una condanna. Un esilio…
Nulla sarebbe più stato come prima. Nulla.
Non vidi mai un roccolano partire per i ‘nuovi mondi’
contento, felice. Mai.
Alice Cialella, bellezza di Roccamandolfi
A furia di salire e scendere, si acquista una camminata
sciolta, bella, “molleggiante”. Se, poi, fino dall’età di undici o
dodici anni si va in giro con la ‘tina’ per ore e ore al giorno,
allora sì che l’incedere presto diventa ‘regale’, anche
solenne, e, questo, a insaputa delle roccolane che lo
esibivano. La ‘tina’ era quel recipiente di rame, o comunque
di metallo, a forma di vaso, con due maniglie, che si usava
per portare l’acqua, dato che l’acquedotto a Rocca arrivò
solo nel ’54, ma anche dopo il ’54 parecchie famiglie
preferirono seguitare a servirsi dell’acqua della “Trainara”,
abitudine andata in disuso solo negli Anni Settanta o
Ottanta.
La ‘tina’ pesava… L’acqua pesa! Donne e ragazze sul capo
piazzavano un rotolo di panno e sull’indispensabile rotolo di
panno posavano quindi il recipiente, che veniva riempito
d’acqua quasi fino all’orlo.
Le donne con la ‘tina’ le guardavo a lungo, ammirato:
procedevano dritte, leggere, in movimenti armoniosi;
sapevano anche voltarsi - e senza danni, senza sprechi - se
uno le chiamava o se qualcosa attirava la loro necessaria
attenzione; nulla perdevano del proprio aplomb! Erano,
insomma, uno spettacolo. Uno spettacolo, oserei dire,
anche ‘sensuale’… Le ragazze e le donne con la ‘tina’
sembravano più belle delle altre, più ‘femmine’ delle altre.
Anche più alte delle altre! I loro abiti, poi, erano ‘moderni’,
‘moderni’ senza che ci se ne accorgesse… Per via di
numerosi, inevitabili riadattamenti, tagli vari e numerose
ricuciture, erano panni attillati che quindi fasciavano bene
vita, fianchi, cosce. Insomma, la ragazza con la ‘tina’
esprimeva - eccome! - un grosso ‘appeal’.
Le donne di Rocca
Le donne che ricordo io erano piacenti. Erano belle,
avvenenti. Poche le more, numerose le castane, tutt’altro
che rare le bionde. Le bionde, a differenza delle altre,
presentavano tratti somatici ‘germanici’ (vale a dire
longobardi, svevi): spaziosa la fronte, alti gli zigomi, un po’
affilato il volto, lunghe le gambe o, comunque, tutt’altro che
corte; sottili (ma non sempre) le labbra, largo il bacino, non
tanto vistoso il seno. More, castane, bionde, si muovevano
benissimo: avevano un incedere elegante. Dipendeva dalla
‘razza’ (sannita-romano-longobarda), o dal ‘coacervo’ di
‘razze’, ma anche dal modo in cui era, ed è, fatta
Roccamandolfi: tutta scalinate, come s’è visto.
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FORCHE CAUDINE – PAGINA 35
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Nella ragazza roccolana, immune agli sciocchi languori delle
fanciulle romane, torinesi, e fornita di una energia inesauribile,
l’impulso aveva presto buon gioco sulla Ragione. E, forse,
l’impulso risulta ben più saggio, ben più prezioso, appunto,
della Ragione, chissà… Sta di fatto che, nella “scelta”, le
roccolane non sbagliavano quasi mai: si legavano a un uomo e
con quell’uomo tutto dividevano, in letizia, con gioia. “Lei” e
“lui” diventavano davvero una sola entità.
Le ragazze di Rocca non si buttavano, non si sciupavano… Il
bacio lo davano quando sentivano di volerlo dare, il chè non
accadeva certo di frequente, benché le loro pulsioni fossero
tanto robuste quanto quelle dei maschietti. Non avvertivano
il ‘fascino’ degli ‘altolocati’… Anzi, si beffavano, giustamente ma entro i dovuti limiti - degli ‘altolocati’ sciocchi, fatui, i
quali irrompevano sulla scena con baldanza, spocchia,
sicumera si diceva una volta. Dinanzi a questi insopportabili e in vari casi indecenti - rampolli, alzavano un muro che
nemmeno il cannone “Bertha” avrebbe saputo abbattere…
Questi personaggi (non molti, comunque) dalle fanciulle in
questione ricevevano il seguente, lapidario, inappellabile
giudizio: “’Nu puorc”. E così ti sistemavano! Non avevi più
‘chance’. Non esistevi più. Squalificato a vita!
Nella nostra famiglia vigeva un ordine tacito: non corteggiare
le ragazze di Rocca. Ma questo poiché non sarebbe stato
carino illudere le ragazze di Rocca, prendersi gioco delle
ragazze di Rocca. Non sarebbe stato giusto farsi forti del
proprio censo allo scopo di soddisfare istinti carnali con le
‘guagliole’ del posto. Sarebbe stato deprecabile, anzi, abietto.
La giovane roccolana che fosse caduta nella rete tesa dal
signorino, e fosse poi stata piantata dal signorino (come in vari
casi avvenne), in paese avrebbe dovuto continuare a vivere
giorno dopo giorno mentre ‘lui’ se ne sarebbe tornato
soddisfatto in città. La ragazza avrebbe dovuto quindi vivere
per sempre fra quelle quattro case col marchio della “stupida”,
della “leggera”, della “puttana”. Si sarebbe giocata il rispetto di
tutti. Avrebbe macchiato la sua stessa famiglia. Avrebbe
avvilito, mortificato, umiliato i suoi genitori stessi. Nessuno le
avrebbe mai fatto la corte. Nessuno si sarebbe mai sognato di
chiederla in moglie. Sarebbe diventata una reietta e come
reietta avrebbe dovuto vivere per sempre. Magari si sarebbe
sentita costretta a rifugiarsi nella grande città e qualcuna di
esse a quei tempi dovette rifugiarsi nella grande città.
Mio padre e suo fratello, lo zio Franco, mai corteggiarono
ragazze di Rocca. Mai ne corteggiai io. Oltretutto, il tacito
ordine che aleggiava in casa, lo trovavo sacrosanto. Anzi,
naturale. Alla mia famiglia sono grato di quest’insegnamento
Comunque quando ero ragazzo, diciamo fra i 14 e i 16 anni, ce
n’erano alcune che mi facevano “impazzire”, ma
l’”impazzimento” riuscivo a nasconderlo abbastanza bene. Ve
le presento: Antonietta, che avrebbe sposato il simpaticissimo,
esuberante Liberato figlio di Peppino e Maria i quali nel ’58
aprirono un bel bar con tanto di biliardo, e poi di tv, all’ingresso
del paese; Rita, che abitava sulla “Rotabile” e mi pare che la sua
famiglia fosse proprietaria del pastificio di Rocca; Vittoria, figliola
dell’indimenticabile, socievole Antonecchia, guardia municipale,
un bel tipo, affabile, ben educato; Fernanda, figlia di Mencuccio
padrone del Caffè Risorgimento.
Una più bella dell’altra! Una più “femmina” dell’altra. Tutte
seducenti! Antonietta già a quindici anni dimostrava di
sapere il fatto suo; non aveva grilli per la testa, studiava con
profitto; tutt’altro che una ragazza frivola. Rita, Rita la
sognatrice, la ragazza di gran sensibilità, molto curata,
attenta, un po’ introversa: uno splendore di roccolana, nello
spirito e nelle ‘curve’. Vittoria, molto snella, con occhi grandi
grandi, immensamente femminile, aria ingenua, sorriso
smagliante, un bel tratto, distinto (ma tanti roccolani
avevano un “tratto”, una certa distinzione). Fernanda,
“tenebrosa”, introversa, enigmatica, dura all’apparenza.
Queste bellissime figure femminili mi stregavano. Ma a me
bastava restare “stregato”. La sola “contemplazione”
rappresentava l’”appagamento”…
Comunicativa roccolana
I roccolani comunicavano. Sapevano comunicare. Ce
l’avevano nel sangue. Ne presi coscienza nell’inverno 196061, avevo quattordici-quindici anni. Quell’inverno lo passai a
Rocca con la nonna Piera. Andavo a scuola a Bojano, la
mattina alle sette e mezzo montavo sulla corriera
Roccamandolfi-Campobasso e scendevo appunto, con altri
ragazzi come me, nella “capitale” dei Pentri. Sempre con la
corriera, rientravo a Rocca intorno all’una e mezzo. Alle tre o
alle quattro, finiti i compiti, mi precipitavo a giocare a
pallone in “piazza” o al campo di calcio che si stendeva
sassoso (!) sul retro dell’”Edificio” e da cui si vedevano le
montagne che all’imbrunire si tingevano di rosa. Intorno alle
sei facevo un salto al caffè di Peppino Lombardi, all’uscita
del paese, accanto a Casa Mainelli. Al caffè di Peppino
Lombardi (dove c’era la televisione!) roccolani giocavano a
“bazzica”, a biliardo: erano partite movimentate: ci si
affrontava per soldi…
Vincere un incontro poteva procurare l’incasso di cento o
duecento lire quando un pacco di pasta ne costava, sì e no,
trenta o quaranta, e una ‘boatta’ (barattolo) di pummarola
anche meno. Si risolveva quindi qualche problemino, anche
se si rischiava di crearsene qualcuno… Le contese - nel denso
banco di fumo delle “Nazionali”, delle “Alfa”, delle “Sax” e al
suono della tv o della radio - erano gagliarde, vibranti:
scorrevano sul filo del ‘conflitto di personalità’, un conflitto
piuttosto acceso, ma tenuto entro i limiti della decenza,
salvo qualche rara eccezione alla regola… Fu allora che mi
accorsi dell’autocontrollo di questi meridionali orgogliosi,
esuberanti, tutti d’un pezzo, ma per nulla (almeno ai miei
occhi) ‘pittoreschi’ o sguaiati. Non si faceva più a coltellate: il
ricorso al coltello, frequente fino all’Ottocento, era
tramontato fra la Prima e la Seconda Guerra Mondiale.
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FORCHE CAUDINE – PAGINA 36
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Adesso i roccolani – gente la quale conosce la Logica risolvevano dispute e controversie grazie alla dialettica: l’uno
ascoltava le ragioni dell’altro e c’era sempre un mediatore, un
‘arbitro’ che ben tutelava entrambe le parti. Il dialetto, poi, con
tutte le sue infinite sfumature e la sua efficacia, era uno
strumento in più per i due, o più, avversari.
Un grosso strumento in virtù del quale si poteva esprimere con
compiutezza quel che si pensava o si sentiva.
Spesso nel confronto, che in stile davvero mediterraneo (ma
non “pittoresco”…) poteva svolgersi anche all’aperto o al Caffè
Risorgimento oppure al caffè in “piazza”, si finiva per rendersi
conto che ora ci si conosceva un po’ meglio.
Non di rado si creava così mutuo rispetto, anche se certi
rancori restavano, sordi, muti.
Tutto questo avveniva con una certa, spiritosa teatralità che
serviva anche a raffreddare, a divertire un po’ gli animi.
Semmai le donne apparivano più “rissose” degli uomini.
Talvolta nell’aria rimbombavano frasi come queste:
“I’ mo’ pass nu’ guaie…”, strillava una.
“None, o’ guaie lo pass’ie”, replicava l’altra.
“Niende affatto, lo passo io…!”.
“No, no, lo passo io!”.
Come in “Miseria e nobiltà”! Uno spasso, il più delle volte.
Fu a Roccamandolfi, ancor prima che a Firenze o altrove, che
imparai a pensare non una, bensì due volte, a quello che stavo
per dire…
La montagna che è madre
Ai roccolani, montanari, d’estate (ma anche in primavera)
piaceva andare in montagna…
Ce n’erano alcuni che in montagna ci andavano anche
d’inverno, a caccia di lupi o a eseguire lavori vari, lavori eseguiti
con perizia, con criterio sanniti, romani, longobardi, Ne ricordo
uno che un giorno in paese tornò con due carcasse di lupi.
Partivano in due, tre, quattro, anche di più, la mattina presto,
muniti di pantaloni di velluto, camicie di panno spesso,
scarponi di ottimo cuoio, calzettoni di lana, bastoni.
Portavano con sé acqua della “Trainara”, vino locale rosso (non
più di undici gradi), pane (il pane grigio e saporito di Rocca),
prosciutto salato, frutta.
Andavano a Campitello di Rocca o a Campitello di San
Massimo, alla Macchia Longa o ancora più lontano, sul
versante casertano del Massiccio del Matese.
Tornavano intorno alle cinque o le sei di pomeriggio, festosi,
soddisfatti, con un colorito più vivo del solito e la gente li
osservava, li ammirava, gli domandava com’era andata
l’escursione.
Loro, sorridenti, lusingati, raccontavano nei minimi particolari
l’escursione.
In montagna ci andava anche un mio cugino, Raffaele De
Filippis, detto Raffaelluccio, classe 1918, professore di scuola
superiore, prima a Bolzano, poi a Napoli, un bel tipo, di colorito
chiaro, occhi celesti, fisico snello, dritto.
Mio nonno e sua nonna (la zia Mariannina) erano fratello e
sorella.
Raffaelluccio durante la Seconda Guerra Mondiale aveva fatto
la Campagna di Francia, l’Albania, il Fronte russo…
Nell’Esercito del Regno del Sud, s’era sobbarcato ‘anche’ la
Campagna d’Italia, nelle Forze Armate del Regno del Sud!
Aveva fatto la guerra come alpino, tenente e poi capitano, nel
Battaglione “Tirano” (composto da abruzzesi e molisani),
Divisione “Julia”. A Nikolaievka, primi del ’43 coi suoi uomini e
con altre Compagnie o Battaglioni della “Julia” e della
“Tridentina” aveva salvato la vita a tanti, tantissimi
commilitoni in ritirata con una resistenza così ordinata, tenace
di cui i sovietici non vennero mai veramente a capo,
nonostante lo spiegamento di carriarmati, i massicci, temibili
T34.
Raffaelluccio in montagna ci andava comunque da solo.
Voleva andarci da solo. Nel periodo compreso, grosso modo,
fra il ’46 e il ’60, d’estate, in ferie, ci andava ogni santo giorno:
partiva all’alba, o anche prima, non rientrava che a sera, col
suo passo felpato, l’aria assorta, quasi ascetica. Credo che alla
Macchia Longa o in altri punti del Massiccio del Matese
parlasse agli spiriti dei suoi commilitoni caduti sul Fronte
Orientale. Era un uomo con un grosso senso del pudore. Di ciò
che avvertiva nel proprio intimo e che si riconduceva appunto
alla Campagna di Russia, non ne parlò con nessuno per
parecchio tempo… Dinanzi agli altri si chiudeva in sé. Non
c’era modo di cavargli di bocca una sola parola. A uno un po’
disattento, frettoloso nei giudizi, sarebbe sembrato un arido,
un indifferente, quindi, o un soggetto che non aveva ‘nulla da
dire’…
Tutt’altro. Era un riflessivo, un rigoroso. Era un sensibile: di
qui, appunto, il suo profondo senso del pudore.
Credo – l’ho sempre creduto – che si domandasse perché lui
era uscito illeso dalla guerra quando nella guerra così tanti ci
avevano invece rimesso la vita. Provava così un grosso senso
di colpa, si identificava nei compagni d’arme caduti e a loro
chiedeva ‘scusa’… Pensava che il Destino fosse stato ‘troppo’
generoso con lui, sì, ‘troppo’. Perché…?? Perché questo
privilegio…?
Un grande uomo, un grande roccolano Raffaele De Filippis:
sono orgoglioso che nelle mie vene scorra anche un po’ del
suo sangue.
Ci passai insieme la fine d’anno del 1991, alle Castagnete, nel
villino di Magda Berlingieri, signora Barbieri. In giacca blù e
cravatta (ma questo già lo sapevo), Raffaelluccio era uno
spettacolo. Che signorilità. Che tratto! Quella sera, per la
prima volta da quand’ero nato, lo vidi allegro, sorridente,
disteso. Frizzante.
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FORCHE CAUDINE – PAGINA 37
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Zia Mariannina
La zia Mariannina (nata, riepiloghiamo, a Roccamandolfi nel
1869) morì nel ’57. Trascorse a letto (un letto in ottone, alto,
monumentale) gli ultimi cinque o sei anni della sua vita.
Era una donna di quelle, come si suol dire, proprio
“all’antica”: a tutto pensava, a tutto arrivava.
Cattolica praticante mai lo fu. Nella nostra famiglia non c’era
un solo cattolico praticante. Eppure c’era in lei tanta fede,
una gran fede davvero: quella, probabilmente, che si nutre
per gli esseri umani e grazie agli esseri umani e senza che ci
sia bisogno di insegnamenti dal pulpito.
In fotografie scattate intorno al 1890 nello Studio Fotografico
“Trombetta” di Campobasso, si vede una ragazza dai capelli
un po’ corti, dalle spalle un poco strette, ma, soprattutto, si
nota in quella giovane donna lo sguardo della persona –
come si dice oggigiorno – interiorizzata, un po’ macerata, per
la quale, forse, la vita non è proprio una gran meraviglia, ma,
a maggior ragione, bisogna spenderla bene, metterla a frutto
questa vita. Bisogna essere d’aiuto agli altri. Soprattutto agli
sfortunati, a coloro i quali, da sé, non ce la fanno.
Ecco, questa era la Roccamandolfi che io conobbi da
bambino, da adolescente. Così era il “mio” Mezzogiorno.
Un Mezzogiorno che, forse, io tuttora idealizzo un po’. Ma
se lo idealizzo, questo avviene per merito ‘suo’!
■
Ogni volta che con la nonna Piera l’andavo a trovare nella
casa in cima al paese, e che a me bambino pareva un
palazzo, magari un poco trascurato, ma pur sempre un
‘palazzo’; gli occhi le si illuminavano. Restava a guardarmi,
concentrata, felice, con un sorriso che a me sembrava quello
gioioso e sincero - anche innocente - d’una bambina. Avevo
proprio quest’impressione: che in quei momenti (ma anche
in altri, s’intende!) lei tornasse bambina. Quel sorriso, tanto
soave, doveva per forza essere espressione di delicatezza
d’animo. Specchio d’un essere umano proiettato più verso gli
altri che verso se stesso.
^^^
FORCHE CAUDINE – PAGINA 38
RAGIONANDO
Ci stiamo convincendo che…
di UMBERTO BERARDO
professore
Che la maggioranza del popolo italiano fosse legata al
pensiero neoliberista lo abbiamo sempre saputo ed a
convincercene sono stati i risultati elettorali della sua storia.
La marginalità di un elettorato orientato verso principi di
eguaglianza e solidarietà conferma che ci sono state
sempre difficoltà a costruire la giustizia sociale
fondandola su pari opportunità, su una piena occupazione
o almeno su un reddito minimo di cittadinanza capace di
impedire la povertà di larghi strati della popolazione; una
cosa, tuttavia, gli italiani l'hanno fin qui sempre impedita
ed è l'involuzione di taluni principi affermati nella carta
costituzionale come la libertà, la garanzia di un lavoro
sicuro ed un diritto di voto fondato su una reale capacità di
scelta dei propri governanti.
I cittadini hanno ugualmente difeso con i denti un welfare
fondato soprattutto su un diritto generalizzato
all'istruzione ed alla salute. Quando tali diritti sono stati
messi in discussione da determinate forze politiche, fiumane
di gente hanno riempito le piazze per rivendicarne la difesa.
Il governo Renzi sta pasticciando sulle riforme
costituzionali e propone una legge elettorale che di fatto
prevede un parlamento di nominati con una struttura
peggiore di quella attuale, eliminando la regola
fondamentale della democrazia, una piena espressione di
scelta da parte del popolo, la cui sovranità se ne va a far
friggere. Sul piano economico e sociale il Job Act e le
misure economiche varate dall'esecutivo sono funzionali
agli interessi finanziari e della Confindustria, mentre
riducono pesantemente le garanzie del mondo del lavoro.
Il sistema sanitario, che da noi era uno dei migliori al
mondo, oggi viene pesantemente ridimensionato e tutto
lascia pensare che si voglia affidare al momento la tutela
della salute ad un sistema integrato, ma per il futuro
sempre più al privato.
La Rai doveva essere liberata dalla morsa dei partiti politici
ed ora, pensate un po', dovrebbe essere affidata ad un cda
con una figura espressione dei dipendenti, due di nomina
governativa e altri quattro votati dalle Camere riunite
presieduto da un amministratore delegato nominato dal
governo: davvero un bel passo avanti verso l'autonomia!
Sull'ipotesi di riforma della scuola, dove siamo stati
operatori educativi per trentasei anni, non nascondiamo
che la regolarizzazione di centomila precari e dei vincitori
del concorso 2012, l'assunzione futura per concorso, le
classi meno numerose, l'apertura degli istituti anche nel
pomeriggio e l'introduzione dei tirocini siano sicuramente
aspetti positivi.
Rimaniamo interdetti al contrario quando, con lo zuccherino
di pochi spiccioli che dovrebbero premiare, si dice, il merito e
la carriera, si vorrebbe far inghiottire ai docenti la perdita
della libertà d'insegnamento, giacché, sarebbero giudicati per
il merito e nominati in futuro per chiamata diretta dal
dirigente scolastico tramite un albo verso il quale l'assunzione
sarebbe rimessa al solo preside che avrebbe unicamente
l'obbligo di consultare gli organi d'istituto.
È l'ipotesi di una scuola neo manageriale in cui si rafforza il
potere del preside togliendo qualsiasi controllo e decisione
agli organi collegiali sulle questioni di fondo legate al
funzionamento di un istituto scolastico.
Capite che in tal modo si può andare dritti verso la
soggezione ed il ricatto dei docenti da parte dei dirigenti
scolastici!
Le possibilità poi degli sgravi per le famiglie che scelgono
l'iscrizione dei figli in una scuola parificata e i meccanismi di
finanziamento privato diretto delle scuole sono la chiara
dimostrazione che anche per l'istruzione ci si sta orientando
verso un sistema di natura privatistica che a nostro parere
limita la pluralità e la libertà culturale e toglie autonomia e
risorse importanti alla scuola pubblica.
Noi siamo convinti che tutte queste decisioni del governo
Renzi, già in parte volute da Berlusconi, che infatti ne ha
condiviso per mesi la linea, rappresentino davvero un
pericolo serio per la democrazia, per la libertà e per tanti
diritti dei cittadini.
Di fronte a tali provvedimenti la percentuale dei cittadini
disposti ad ingoiare rospi ci appare sempre più alta.
In parlamento l'opposizione non è più capace né di
contrasto, né tantomeno di proposte alternative e questa è
la carta vincente di un Renzi che anche all'interno del suo
partito ha solo una minoranza che abbaia alla luna senza
riuscire a trovare la strada che possa portarla fuori dalle
contraddizioni e dal richiamo della poltrona occupata.
I sindacati sembrano non riuscire ad incidere più neanche
sulle scelte economiche e sociali e di questo passo
potrebbero essere marginalizzati.
I distinguo ormai appartengono solo a voci abbastanza
isolate d'intellettuali che si manifestano su taluni organi
d'informazione, ma che non arrivano più a fare opinione.
Cosa pensare allora?
Semplicemente si deve riflettere sul fatto che, se non ci si
muove per impedire che vengano approvati certi decreti o
disegni di legge, o se ne condivide la sostanza, o non si ha
sufficiente informazione in merito o si è incapaci di stili di
vita coerenti con un modo di pensare diverso da tali
decisioni.
Noi ci stiamo convincendo, nonostante i proclami della fine
delle ideologie, che lobbies economiche e politiche stiano
invece proprio tentando di allontanare la gente da una
società libera, giusta, egalitaria, solidale e democratica per
spostare l'opinione pubblica verso principi e valori di una
società e di un'economia che papa Francesco ha definito
fondata su "un'inequità che è la radice dei mali sociali".
Di fronte a tale situazione occorre lavorare subito per creare
un'alternativa all'esistente.
FORCHE CAUDINE – PAGINA 39
AMBIENTE
L’Expo delle multinazionali del cibo
di PASQUALE DI LENA
dottore agronomo
Appare sempre più evidente che lo scontro è tra chi lavora
la terra, la cura, e, attraverso il cibo prodotto, ne sente i
profumi e i sapori per offrire al consumatore la qualità,
quella che ha un’origine strettamente legata al territorio, e
tra chi questa terra, quando non la divora per dare spazio
al cemento e a miniere e cave, la sfrutta con un’agricoltura
intensiva che la inquina e, nel tempo, la distrugge solo per
produrre quantità. Lo scontro è, quindi, tra un’agricoltura
contadina e quella industriale.
La prima, l’agricoltura contadina, è quella che, mentre
mette a disposizione dell’uomo un cibo di qualità, si
preoccupa anche della salute dell’ambiente, cura il
paesaggio, alimenta la biodiversità e la stessa cultura che
il cibo con i suoi differenti prodotti esprime.
La seconda, quella industriale, invece, sotto l’azione di forti
e crescenti concimazioni, pesticidi, semi Ogm - essenziali
per ottenere la quantità – produce tutto a spese
dell’ambiente, del paesaggio, della biodiversità, e, anche,
del gusto, avendo la necessità di uniformare, livellare,
appiattire. Lo stesso discorso vale per zootecnia e
selvicoltura.
Una quantità di cibo che, a oggi, non ha portato a dare
quella sicurezza alimentare di cui ha bisogno l’umanità,
ma ad affamare ancor più il mondo e a metterlo in crisi.
Tutta colpa della bulimia di denaro che affligge i padroni
delle multinazionali, e non solo, anche della loro natura
incline all’esagerazione che, poi, si traduce in spreco di
cibo. Il cibo benedetto, che è la prima, vera, fondamentale
energia pulita di cui l’umanità non può fare assolutamente
a meno.
Infatti, non è un caso che sono un miliardo le persone che
muoiono di fame e molto di più quelle che convivono con la
fame in uno stato di crescente povertà, e, tutto questo,
mentre più di un terzo del cibo prodotto sono buttato. Una
massa enorme di energia che è sprecata per ingrassare i
quindici padroni della finanza mondiale; quella decina di
multinazionali che operano nell’agroalimentare e, altre, in
particolare quelle della chimica, dei medicinali, del
petrolio e dei semi, soprattutto Ogm.
Un lusso che il pianeta, l’umanità tutta, non può più
permettersi se non vuole arrivare a situazioni disastrose e
punti di non ritorno, in considerazione dei sette miliardi e
più di persone che ora abitano il pianeta (più del doppio dei
3 miliardi censiti 50anni fa) e dei 9 miliardi di abitanti
previsti per il 2050, cioè se non domani, dopodomani
L’Expo “2015", la grande esposizione mondiale che a maggio
si apre a Milano, nata con il proposito di “Nutrire il
pianeta, energia per la vita”, un’immagine e un messaggio
di grande forza, soprattutto di grande attualità, è
diventata e sarà la grande vetrina delle multinazionali.
Tant’è che lo slogan “Nutrire il pianeta” c’è già chi l’ha
trasformato in “Nutrire le multinazionali”.
Una grande occasione, per questi padroni affamati di
territorio, di affermare ancor più il loro strapotere, che è
tanta parte di quella crisi sistemica di cui soffre il mondo e
dei rischi riguardanti la difesa stessa del pianeta, nel
momento in cui andrà avanti il processo da loro avviato di
furto crescente di suolo e della natura che esso esprime, in
particolare la biodiversità, che è vita.
Continueranno ad affamare il pianeta, e, quindi, ad
aggravare il problema della sicurezza alimentare, non a
risolverlo, e, opereranno per abbassare i livelli della qualità
del cibo fino a uniformare i profumi, i sapori, e, con essi, il
gusto. Per loro la diversità non ha senso, non è un
patrimonio di storia, cultura, tradizioni, ma una perdita di
tempo, l’unico spreco che non ammettono.
L’Italia e con essa, non a caso, Spagna e Grecia, cioè i paesi
più rappresentativi dello stile di vita mediterraneo, già
colpite duramente a causa di uno sviluppo che ha mostrato
tutto il suo fallimento, stanno operando, per assecondare
le volontà delle multinazionali. Soprattutto l’Italia con
l’attuale governo se penso alle risposte date a quelle del
petrolio, con “Sblocca Italia”; l’applauso al “Ttpi”, il
trattato America del Nord-Europa, che più di altre azioni
spiega la loro volontà di comandare il mondo
appropriandosi delle sovranità nazionali; lo strappo alla
Carta costituzionale e alla partecipazione dei cittadini alle
scelte, negata dalla nuova proposta di legge elettorale.
Una situazione pesante, pericolosa per la stessa
democrazia, che, al di là degli annunci, si va aggravando
ogni giorno sempre più.
Uno strapotere, quello delle multinazionali, e, in questo
senso, un grande rischio per il territorio, il bene più
prezioso che il Paese ha, fonte di conoscenza,
progettazione e programmazione, straordinario e
fondamentale contenitore di risorse e di valori legati alla
storia, alla cultura, all’arte, alla ruralità ed alla sua
agricoltura, alle tradizioni. Le tante stupende tradizioni
che le nostre ottomila e più comunità hanno saputo
tessere nel corso di secoli e mettere a disposizione del
mondo, in particolare quelle che fanno riferimento al cibo,
alla cucina, alla tavola.
In questo senso l’Expo può risultare una grande occasione
persa per affermare, con la difesa, tutela e valorizzazione
del territorio, la Sovranità alimentare; dare a chi produce il
cibo la gestione delle sue risorse e dei suoi valori; stimolare
il ruolo che spetta al glocale, con tutti i suoi aspetti di vita,
organizzativi e culturali, per non subire e rimanere vittima
del Globale. Non era, poi, così difficile per questa
esposizione internazionale, che vede l’Italia protagonista,
organizzare e assicurare la sicurezza alimentare;
diffondere la cultura del cibo espressione di territori e di
saperi, il valore e il grande significato della sua qualità e
bontà, con il tempo protagonista insieme con la
stagionalità, la freschezza e la creatività protagoniste.
FORCHE CAUDINE – PAGINA 40
GENS
La corruzione distrugge l’economia
di FABIO SCACCIAVILLANI
economista
Se esistesse un’algebra del malaffare politico, lo scandalo
Lupi-Incalza potrebbe essere spiegato da una formula del
tipo: Corruzione = (Invadenza dello Stato x Inamovibilità
della burocrazia) + Avidità dei politici + Costi della Politica
– Controlli – Trasparenza – (Severità della pena x
probabilità della condanna).
Il valore delle variabili però dipende dalla sensibilità dei
cittadini in tema di legalità, o specularmente, dal consenso
che essi tributano ai corrotti. Che la cancrena della
corruzione in Italia sin dagli anni ‘60 sia un’endemica
emergenza economica, oltre che morale, dovrebbe essere
ormai un fatto incontrovertibile. Invece, nonostante gli
arresti a ciclo continuo, esiste una fetta dell’opinione
pubblica (con la memoria di un varano) che considera il
dilagare della delinquenza nei gangli del potere una mera
quisquilia.
Ad esempi,o i cocoriti della propaganda grillo-berluscoleghista, che vagheggiano il ritorno alla lira, arruffano le
penne appena si osa menzionare la corruzione. Per
costoro il trinomio cricca-casta-corruzione è l’etichetta
per irridere chi si scandalizza del letamaio e dei liquami in
cui sguazzano le istituzioni italiche (come è lecito
attendersi dai sodali ed alleati di Berlusconi, Belsito,
Bossi, Dell’Utri, Scajola, Cuffaro, Formigoni ecc.).
L’impareggiabile contributo del Club Cervelli Bungalira al
dibattito sull’etica pubblica si riassume in cotale augusto
ragionamento: la corruzione e il malgoverno erano diffusi
anche ai tempi della lira, ma ciò nonostante si viveva tutti
da nababbi, svalutando ogni due o tre anni senza troppi
patemi. I mercati mondiali ad ogni tracollo della lira erano
invasi dai nostri prodotti di punta, tipo la Duna (che nel trip
onirico scompaginava le vendite di Bmw e Mercedes), le
magliette Benetton, i computer Olivetti o i televisori Mivar
(giapponesi e coreani ancora tremano al pensiero).
Quindi se la Banca d’Italia fosse affidata agli eredi morali di
Craxi e Andreotti, la bacchetta magica della sovranità
monetaria sanerebbe infallibilmente tutte le storture
ataviche e renderebbe assolutamente compatibili il
latrocinio di Stato con lo sviluppo da tigri asiatiche e i
redditi lussemburghesi.
Il debito pubblico? Niente timori. Svanirebbe d’incanto:
basterebbe ridenominarlo in Bungalire grazie ad una
fantomatica lex monetae (segretamente promulgata tra i
banchi dei mercati ittici sulle coste adriatiche). I grulli che
avevano investito in Bot non si accorgerebbero di essere
stati depredati, anzi rilancerebbero la domanda subito
dopo aver ottenuto a tassi da usura un prestito dal banco
dei pegni, dietro consegna delle lenzuola superstiti.
Insomma per i fini palati bungaliristi gli effetti delle tasse
confiscatorie, della malagiustizia, della burocrazia
demenziale e della corruzione dilagante sono trascurabili. E in
ogni caso svanirebbero con la semplice aggiunta di una
mezza dozzina di zeri sulle banconote, alla faccia di chi si
ostina a esecrare il trinomio cricca-casta-corruzione. Questa
propaganda riesce a far breccia in quel pubblico che assume
informazioni dalla televisione in contemporanea alla cottura
del sugo o alla stiratura delle mutande, oppure si lascia
infarcire di slogan, via internet, l’involucro del proprio
analfabetismo economico. Invece le devastazioni della
corruzione sull’economia reale trascendono la mera
appropriazione di fondi pubblici. La corruzione è come un gas
letale, ma inodore che si diffonde nelle imprese e avvelena
l’economia legale. Quando l’ambiente si satura, i manager
che fanno carriera sono quelli più spregiudicati, non quelli più
capaci. Avanzano quelli che conoscono o tessono le reti di
relazioni inconfessabili, non quelli che innovano i prodotti.
Prosperano quelli che conoscono i riti ricattatori, non quelli
che sanno operare sui mercati internazionali.
Inoltre per restare in sella i faccendieri piazzano ai livelli
inferiori mezze tacche fedeli, ancor meglio se incompetenti,
senza speranza di trovare un altro lavoro decente, quindi
pronte a tutto pur di abbarbicarsi alla greppia. Per questo
molte imprese italiane – soprattutto quelle concentrate sul
mercato interno e sui rapporti con gli enti pubblici –
annoverano nel management mediocri figuri, quasi mai
professionisti. In sintesi, ottenere risultati tangibili solo grazie
alle tangenti distribuite nei cerchi e cerchietti magici ha
determinato l’inaridimento nel sistema economico italiano di
energie capaci di reggere la competizione internazionale. E
non saranno certo la Bungaliretta, la Patacca Padana o la
Piastra Grillina a mutare l’atroce realtà.
A parte qualche eccezione – lodevole ma irrilevante – sinistra,
destra, clericali, neofascisti in Italia sono uniti nello stesso
disprezzo per la legalità e le regole che considerano alla
stregua di una sottocultura aliena. Il ventennio della
mezzadria tra berluscoidi, leghisti e sinistra con il
caleidoscopio di amnistie, leggi salvaladri, prescrizioni,
lungaggini processuali, garantismo da 16 gradi di giudizio ha
rappresentato l’apoteosi di un processo durato 50 anni.
Oggi siamo al punto che per troppe aziende la stecca è
considerata imprescindibile perché costituisce l’asse portante
dell’unico sistema, grottesco, distorto e inquinato, nel quale
sono in grado di agire, mentre in un mercato concorrenziale
verrebbero maciullate. In altri termini, nel Belpaese criminali,
corrotti e corruttori sono ormai assurti al malemerito ruolo di
indispensabile motore dell’economia.
FORCHE CAUDINE – PAGINA 41
RICORDI
Papa Wojtyła, trent’anni fa
di OSCAR DE LENA
Era il 19 marzo del 1983, trentanni fa, quando il Papa
Giovanni Paolo II visitò, in mattinata la zona industriale di
San Salvo e nel pomeriggio Termoli.
Si intrattenne prima con gli operai della Magneti Marelli
dove celebrò la Santa Messa alla presenza di migliaia di
fedeli provenienti da ogni parte d'Abruzzo e poi con
quelli della Società Italiana Vetro (la SIV) dove rimase a
pranzo insieme agli operai.
Il momento più toccante del percorso del Papa lungo le
linee di lavorazione della Magneti Marelli fu certamente
quando un operaio, in tuta blu come tutti i suoi colleghi,
si staccò dal suo gruppo e si avvicinò con passo deciso al
Pontefice. Poche parole seguite da un caldo abbraccio. I
giornalisti dovettero aspettare qualche minuto prima di
conoscere i particolari dell'episodio. L'operaio, residente
in un piccolo centro del Molise, Montemitro, di origine
slava, volle farlo sapere al Papa che spese qualche
minuto con lui chiedendogli notizie della sua famiglia e
dei parenti lontani. Un colloquio, insomma, come fra
vecchi amici, proprio come prerogativa di Giovanni Paolo
II che, all'austerità del cerimoniale, preferiva il contatto
diretto con la gente.
Più avanti un gruppo di lavoratori attorniò il Papa
tenendo in mano ramoscelli di ulivo e cantando "Vola
vola", la più nota e forse anche la più bella canzone del
folklore abruzzese.
Quel giorno Papa Giovanni Paolo II, parlando sul piazzale
della Marelli a circa cinquantamila persone, aveva
ribadito la stretta connessione tra lavoro e preghiera, tra
progresso sociale e spirituale. Significative le sue parole:
"Da questa cittadina che prende il nome del monaco
Salvo, il mio pensiero si estende a tutti gli abitanti
d'Abruzzo e Molise ovunque essi si trovino, nelle
popolose città e nei paesi più piccoli, sulle montagne o in
riva al mare. E non dimentico coloro che hanno dovuto
lasciare questa terra per motivi di lavoro. Vorrei che tutti
si sentissero cordialmente abbracciati dal mio
benedicente saluto, che ad ognuno rivolgo da questo
luogo suggestivo, dove ancora sembra risuonare il motto
"Ora et labora" dei monaci benedettini che qui si
stabilirono fin dalla metà dell'ottavo secolo, provenienti
dalla non lontana abbazia di Montecassino”.
Alle ore 13 Giovanni Paolo II si trasferì alla SIV dove gli
venne fatto visitare la linea del forno Float, dove ogni
giorno esce una lunga lastra di vetro larga 3,2 metri e
lunga circa 30 chilometri. Visitando gli impianti di quella
che era la più grande vetreria d'Europa, la SIV; con i suoi
3.200 dipendenti, il Papa si volle avvicinare ad uno degli
alti forni per guardare con un apposita maschera di
protezione il bacino del vetro fuso a 1400°C.
Terminata la visita agli impianti Giovanni Paolo II fu
accompagnato nella mensa aziendale per pranzare con
alcuni dirigenti e tanti operai e sindacalisti.
Il menù di quel pranzo prevedeva: antipasto "delizie
dell'Adriatico" (a base di scampi e calamaretti); risotto
salmone e champagne; cosciotto di vitello alla Napoleone,
carote glassate e spinaci al burro; barchetta di ananas al
pon pon (gelato). Il tutto innaffiato con Trebbiano e
Cerasuolo d'Abruzzo, annata 1981.
Le diverse portate del pranzo furono preparate da un
ristorante di Chieti e uno di Francavilla al Mare.
Terminato il pranzo, molto apprezzato, il Papa, in elicottero
lasciò San Salvo ed atterrò sul piazzale del porto di Termoli
dove ad attenderlo c'era il Vescovo mons. Cosmo Francesco
Ruppi e il sindaco dell'epoca Remo Di Giandomenico. Dopo
gli scambi di benvenuto Giovanni Paolo II venne
accompagnato in Cattedrale per pregare sulla tomba di San
Timoteo e successivamente attraversando le vie principali di
Termoli, raggiunse la nuova piazza realizzata per
l'occasione e che poi prenderà il suo nome dove celebrò la
Santa Messa tra una immensa folla giunta da tutto il Molise
e dalle regioni limitrofe. Terminata la messa il Papa tornò
sul piazzale del porto dove con l'elicottero venne portato
all'aeroporto di Pescara e qui, con un aereo DC9, tornò a
Roma lasciando in tutti i presenti un ricordo indelebile.
Per ricordare quella storica giornata, abbiamo realizzato un
filmino che raccoglie i momenti più salienti accaduti
esattamente 32 anni fa visibile su Youtube
(www.youtube.com/ watch?v=rhzl69yLiGs#t=42).
FORCHE CAUDINE – PAGINA 42
HANDICAP
Turismo accessibile,
anche fonte economica
di GIOVANNI SCACCIAVILLANI
sindacalista Ugl, originario di Frosolone (Is)
Secondo una ricerca condotta dalla Commissione
europea, l’impatto economico del turismo
accessibile è assai rilevante. Il fatturato totale
complessivo è di oltre 750 miliardi di euro, così alto
da contribuire al Pil dell’eurozona con 142 miliardi di
euro e assicurare tra i tre e i quattro milioni di posti
di lavoro.
I numeri sono certamente destinati ad aumentare,
specie con l’aumento della vita media, e ciò rende
necessario migliorare la qualità dell’accoglienza e
dell’ospitalità, permettendo a tutti, ma davvero a
tutti, di accedere liberamente ai servizi senza
sentirsi discriminati.
◄ Giovanni Scacciavillani
E’ stato questo il tema del Meeting
Internazionale
sul
Turismo
Accessibile,
appuntamento nel quale si è parlato, delle
prassi italiane ed estere in materia di vacanze
accessibili ed ospitalità, delle politiche
innovative che mirano ad aumentare la
competitività del territorio, delle opportunità di
lavoro che si aprono ai giovani di oggi, dalle
tecnologie
per
l’informazione
e
la
comunicazione fino all’ambiente costruito, le
strutture ricettive e quelle ricreative e del tempo
libero.
Ospiti del Mita 2015 sono stati esperti di
accessibilità e design universale provenienti
dall’Ufficio del sindaco di New York che difende i
diritti delle persone disabili, i principali
esponenti della Commissione e del Parlamento
europeo, dell’Organizzazione Mondiale del
Turismo delle Nazioni Unite e, non da ultimo, il
Forum europeo della disabilità che rappresenta
gli ottanta milioni di disabili in Europa.
Oltre 1.500 persone iscritte all’associazione.
5.000 “amici” su Facebook.
6.414 persone che ricevono il notiziario.
Fino ad oggi 231 eventi promossi.
Forche Caudine. L’associazione con i numeri.
dal 1989
Forche Caudine sostiene il Patriarcato antiocheno dei Maroniti in Roma
devolvendo il 5 x mille nella dichiarazione dei redditi:
codice fiscale del patriarcato: 80130010582
FORCHE CAUDINE – PAGINA 43
FORCHE CAUDINE – PAGINA 44