Forche Caudine
Transcript
Forche Caudine
IN QUESTO NUMERO FORCHE CAUDINE Associazione dei Romani d’origine molisana L’importanza dei ricordi Valeria Notiziario dell’associazione edito dal 1989 Giampiero Castellotti presidente Donato Iannone vicepresidente Gabriele Di Nucci segretario Gianluigi Ciamarra Giovanni Scacciavillani presidenti onorari Di Blasio, classe 1976, architetto, è un’apprezzata pittrice. Spazia dal figurativo all’astratto. Una passione, quella per l’arte, diventata professione. Sono sempre di più i quadri che le vengono commissionati. Lei è nata e vive a Roma, orgogliosamente “in periferia”. Ma le sue radici paterne, rivelate già dal cognome, sono in Molise, a Casacalenda. Così Valeria racconta a “Forche Caudine” il legame con il paese bassomolisano celebre per il rilevante movimento di artisti contemporanei. A cominciare dal rapporto con la nonna molisana, che oggi ha 91 anni. Valeria Di Blasio, romana, originaria di Casacalenda Da Fabio Scacciavillani presidente com. scientifico ----------------------------------Supplemento al sito www.forchecaudine.com testata giornalistica registrata il 30 maggio 2008 (n. 221) presso il Tribunale di Roma (già registrato il 9/1/90, n. 5 come periodico cartaceo). Direttore: Giampiero Castellotti WWW.FORCHECAUDINE.IT [email protected] ------------------------------------La Newsletter di Forche Caudine raggiunge 6.414 persone (30% Roma, 30% Molise, 20% resto d’Italia, 20% estero). Inoltre numerose associazioni la inoltrano ai propri soci. Roma a Firenze. Il nonno, ingegnere, si trasferì da Roccamandolfi, in Molise, nel capoluogo toscano. Assunto dal Genio civile. Così Toni De Santoli, stesso nome del nonno, è un fiorentino doc. Classe 1946, giornalista, giocatore di rugby, giramondo. Ma non ha mai dimenticato quello splendido paese del Molise dove ha trascorso estati entrate nel mito. E ora, su “Forche Caudine”, ripercorre quegli anni disegnando una splendido affresco comune a tanti paesi molisani del dopoguerra. Dodici pagine da gustare d’un fiato. Toni De Santoli, fiorentino, originario di Roccamandolfi Due storie che fanno parte di quel “grande Molise” che non ha confini. Una comunità distribuita in tutto il mondo, ricca di valori e di competenze. Non sempre sfruttate a dovere dagli amministratori regionali, che talvolta hanno trasformato in puro folklore una presenza o un’esigenza di radici solide. La memoria, anche inconsapevolmente, è il presente e il futuro. Disperderla – o, peggio, negarla – è indubbiamente un segno di impoverimento. Per cancellazioni, anche in riferimento alla legge sulla privacy: [email protected]. La collaborazione è gratuita. “Forche Caudine” è realizzato per passione e senza fini di lucro. Liberi contributi all’associazione Iban IT16 J076 0103 2000 00062645890 intestato associazione Forche Caudine Ringraziamo le tantissime persone che ci scrivono e ci sostengono. La nostra casella di posta ([email protected]) molto spesso è satura proprio per la mole di corrispondenza che giunge da tutto il mondo. Non avendo una rubrica di lettere sul giornale, per le risposte private preghiamo tutti di avere un po’ di pazienza con i tempi… FORCHE CAUDINE – PAGINA 2 EMOZIONI / 1 Neve da record a Capracotta Il paese molisano fa il giro del mondo sui media di GABRIELE DI NUCCI Capracotta, chi altri se no? Il paese più alto degli Appennini, con i suoi 1.421 metri sul livello del mare, annualmente si mette in evidenza per la quantità di neve che lo ricopre. Non solo centimetri, ma metri. La sua web camera, collocata in piazza Falconi, è un legame imprescindibile per i tanti emigrati che hanno così modo, quotidianamente, di controllare il loro piccolo angolo di Paradiso. Tra un camion e qualche automobile, d’inverno il vero protagonista è il manto bianco. Tra il 7 e l’8 marzo scorsi, in appena sedici ore, sono caduti più due metri e 56 centimetri di neve, tanto da far parlare di primato mondiale che il paese avrebbe strappato a due località statunitensi. Proprio partendo da questo record – in fatto di guinness gli americani sono particolarmente sensibili – la notizia ha avuto forte risonanza soprattutto negli Stati Uniti e in Gran Bretagna. La “Cnn”, tra le maggiori e più note emittenti a stelle e strisce, ha mandato in onda più servizi video e ha pubblicato una news apposita sul proprio sito web. Altri giornali – quali “Mirror”, “Telegraph”, “Time” – hanno diffuso la notizia, accompagnandola al “timore” che cada il primato attualmente detenuto da Boston e da Silver Lake, in Colorado, per la nevicata del 1921 (193 centimetri di neve in 24 ore). A decidere a chi andrà il primato dopo l’evento italiano sarà l’Organizzazione meteorologica mondiale. Il “Mirror” ha intervistato una residente del posto, la quale ha raccontato di aver vissuto tutta la vita a Capracotta e non di non aver mai visto una nevicata del genere. Il “Telegraph” ha titolato il proprio pezzo “Il paese che ha raggiunto gli otto piedi (2,5 metri, ndr) di neve in un giorno”, pubblicando le foto della nevicata. “Un paesino italiano – si legge sul quotidiano inglese – potrebbe diventare uno dei luoghi più nevosi del mondo dopo essere stato ricoperto da 2,56 metri di neve in meno di 24 ore. Gli abitanti salgono su grossi cumuli di neve per entrare nelle finestre ai primi piani e vanno in giro con ciaspole e sci“. I giornalisti di TeleAesse, la dinamica web-tv dell’Alto Sangro, hanno fatto sapere di essere stati contattati dalla giornalista Margot Haddad della Cnn, in possesso di molti scatti fotografici sulla nevicata molisana reperiti attraverso la rete, ma a corto di immagini. Facendo una ricerca su Youtube, la giornalista americana ha scoperto il video dell’emittente con le spettacolari immagini della neve a Pescopennataro, paese vicino a Capracotta, convincendosi di poterle utilizzare sulla piattaforma Cnn.margot. La redazione della tv ha rilasciato l’autorizzazione a Mrs. Haddad con la promessa che, nel mandare in onda le immagini, citi il riferimento della fonte. ■ FORCHE CAUDINE – PAGINA 3 EMOZIONI / 2 Sul treno d’epoca Con il Molise dei giovani che promuovono il paesaggio di MC Dieci ore tra le montagne molisano-abruzzesi, a bordo della “transiberiana d’Italia”, la tratta ferroviaria da Isernia a Carpinone, che offre un colpo d’occhio mozzafiato per gran parte del suo itinerario. Su uno dei vagoni anche i giovani molisani iscritti al Master Unimol di II livello in Progettazione e promozione del paesaggio culturale, che hanno presentato le loro attività ai circa quattrocento passeggeri. Ancora una volta un viaggio spettacolare: da Isernia a Sulmona, tra montagne innevate e avvistamenti di lupi e cinghiali. La transiberiana d’Italia conferma il potenziale di fascino e il meraviglioso impatto ambientale, supportato da numeri importanti: carrozze d’epoca “centoperte” e “terrazzini” gremite per un totale di quattrocento passeggeri che hanno vissuto le dieci ore di viaggio con entusiasmo e voglia di vedere e apprezzare. Non solo tanto paesaggio, ma anche brevi soste e, una volta a Sulmona, una interessante tappe tra le bellezze architettoniche e i sapori più noti, confetti in testa, della bella cittadina abruzzese. Assieme all’Associazione Culturale Le Rotaie, che ha organizzato l?evento con la collaborazione della Fondazione Ferrovie dello Stato Italiane e il sostegno della Confederazione Mobilità Dolce, tanti molisani, ma anche viaggiatori provenienti da fuori regione, pronti a immergersi nello scenario, reso ancora più suggestivo dalle montagne imbiancate, dell’Appennino molisanoabruzzese. A bordo della "transiberiana d’Italia" era presente pure il gruppo di lavoro del Master di II livello in ‘Progettazione e Promozione del Paesaggio Culturale’ dell’Università del Molise guidato dai docenti Gilda Antonelli e Luciano de Bonis. E ha partecipato al viaggio anche il presidente della Regione Molise, Paolo di Laura Frattura, che assieme alla Direzione Generale per i Beni Culturali e Paesaggistici del Molise è partner dell’Università del Molise nel Master. Frattura è arrivato con l’inseparabile labrador Axel. Per lui una giornata meno stressante del solito nella quale il governatore ha comunque preso spunto per verificare di persona la straordinaria portata promozionare del treno d’epoca. Con lui archeologi, architetti, esperti in didattica museale ed in comunicazione, che hanno distribuito una brochure e illustrato le particolarità del percorso attraversato: gli architetti hanno spiegato con l’ausilio di tre diverse mappe l’evoluzione del sistema insediativo regionale, le archeologhe hanno evidenziato gli insediamenti che si rinvengono sul percorso dalle prime tracce preistoriche agli insediamenti sannitici e poi medioevali. Gli esperti della didattica e comunicazione hanno, infine, raccontato il territorio attraverso musei e castelli per concludere con le tradizioni culinarie tipiche della zona, altro patrimonio indiscusso da valorizzare. Cultura e paesaggio si sono sposati bene nella giornata trascorsa a bordo treno d’epoca. Sullo sfondo le alture appenniniche e il desiderio di tutti, governatore Frattura compreso, di assaggiare un po’ di quel Molise che piace tanto e che, anche per il tramite del Master Unimol, proverà a rilanciare le sue quotazioni di Regione straordinaria sul piano paesaggistico e dell’accoglienza. (Primonumero) ■ Panorama di Carpinone (Isernia) FORCHE CAUDINE – PAGINA 4 FOTO NOTIZIE Il Molise autentico QUI CAMPOBASSO QUI ISERNIA CAPRACOTTA (Isernia). I profumi dei caciocavalli dell’azienda Pallotta. Solo a vederli, l’acquolina in bocca... MONTORIO DEI FRENTANI (Campobasso). Donne al lavoro per la festa di San Giuseppe. Foto fornitaci da Marcello Pastorini. LARINO (CAMPOBASSO) - Bruno Mottillo di Larino e Marina Colonna di San Martino si sono aggiudicati il premio nazionale Ercole d’Olio per due loro prodotti, due olii Dop di questo territorio. Foto di Michele Mignogna. FROSOLONE (Isernia). Ecco la foto de “I borghi più belli d’Italia”. Photo Credit: @ginpet72. Chosen by: @ortodibalu. Il bel commento di Giorgio D’Antonio: “L'apprezzamento per Frosolone viene non solo dalla suggestione delle sue piazzette e. dei suoi vicoli... non solo dalla cordialità della sua gente... Non solo dalle sue risorse economiche, ma anche dai tramonti e dalle cime che si stagliano nette sugli sfondi grigio-arancione determinati dall'astro calante lì a ponente”. FORCHE CAUDINE – PAGINA 5 MOLISE DA SCOPRIRE Dieci luoghi, in bici… “Life in travel”, uno dei principali siti di avventure in bicicletta, per la prima volta solca il Molise. Con questi risultati… “Per noi il Molise è stata una vera sorpresa. E non ci può far altro che piacere sapere che il nostro articolo sarà pubblicato sul vostro giornale”. Così Veronica del sito “Life in travel”, uno dei principali portali di cicloturismo, commenta con “Forche Caudine” una novità davvero esaltante per noi romani d’origine molisana: la scelta del Molise per un viaggio su due ruote. Il primo, dopo tanti anni di prestigiosa attività di “Life in travel”, con destinazione la più piccola regione del Mezzogiorno. Del resto il giudizio di “Life in travel” è davvero importante per chi ama il Molise. Il sito aggrega cicloviaggiatori, persone con la voglia di condividere conoscenze ed emozioni del cicloturismo, il viaggio lento e senza stress. Un portale costruito molto bene, ricchissimo di informazioni e di resoconti di viaggi. Finora fatti in tutto il mondo, svariate volte anche in altre regioni italiane e mai in Molise. Ecco allora come Veronica dà inizio al suo racconto sull’avventura alla scoperta della nostra regione. “Una delle regioni italiane meno conosciute anche dagli stessi italiani è senza ombra di dubbio il Molise. Racchiuso tra Appennino, Monti del Matese e mare solitamente viene lambito mentre si viaggia in autostrada, ma in bicicletta tutto cambia. Scoprire lentamente cosa vedere in Molise, pedalare da una collina ad un'altra, costeggiare le montagne e risalirne gli ardui pendii, è un'esperienza che consigliamo a tutti. Dopo aver pedalato in Molise durante Transitalia, la nostra avventura attraverso l'Appennino in bicicletta, vogliamo suggerire qualche luogo da non perdere assolutamente...”. “Il Molise ha un territorio variegato: è prettamente montuoso, ma le colline occupano oltre il 40% dell'intera superficie. Attraversato dalle antiche vie di transumanza dell'Appennino, i tratturi, fu abitato dall'antico popolo italico dei sanniti ed ancora oggi è possibile visitare alcuni siti storici importanti. www.lifeintravel.it Pedalando dall'Appennino attraverso il Sannio e i Monti del Matese fino a toccare il mare a Termoli, vogliamo consigliare cosa vedere in Molise durante un viaggio in bici”. Ecco i dieci luoghi consigliati da Veronica: come darle torto? VASTOGIRARDI – E’ uno dei primi paesi del Molise che abbiamo visitato in bicicletta. Non lontano dal paese nasce il fiume Trigno che scorre poi fino al mare in provincia di Chieti. All'ingresso di Vastogirardi, che si raggiunge salendo a 1200 metri di quota, è possibile inoltrarsi lungo una strada secondaria sulla sinistra in direzione del campo sportivo. Oltrepassato il campo, si potrà continuare in bicicletta fino ai resti di un antico tempio italico abbandonato un po' alle ingiurie del tempo. Il paese è di origine medievale ed una delle caratteristiche più interessanti è il nucleo del castello fortificato da dove si entra e si esce dallo stesso. continua alla pagina seguente ►►► FORCHE CAUDINE – PAGINA 6 ►►► segue dalla pagina precedente PIETRABBONDANTE - Deve di certo il suo nome alla posizione arroccata tra gli enormi massi chiamati Morge. Prima di entrare in paese (prepararsi a pedalare in salita!) si incontra il suggestivo Bovianum Vetus, l'antico sito ellenistico-italico risalente al 95 a.C. e un tempo capitale del Sannio. L'ingresso al sito è a pagamento (4 euro circa), ma è una di quelle cose da vedere in Molise per bellezza, interesse storico, culturale e paesaggistico. Dal teatro del Bovianum Vetus si ha un panorama ameno sul Molise dove i borghi arroccati punteggiano e caratterizzano il territorio. Se si ha ancora gamba salire fino alla piazza di Pietrabbondante e poi arrampicarsi tra le Morge, superare la chiesetta di Santa Maria Assunta e salire fino alla croce, il punto più alto del paese. BAGNOLI DEL TRIGNO - Dalla strada che lascia Pietrabbondante perdendo quota si scorge questo suggestivo borgo che svetta tra i massi ad est, sospeso tra terra e cielo. L'origine di Bagnoli di Trigno è legata ad alcune leggende delle quali non si ha però un fondamento storico. Pittoresco come Pietrabbondante, dovrai cimentarti in una bella ascesa per raggiungere il paese. Non mancare una visita alla chiesa di San Silvestro costruita sulla roccia, il suggestivo castello San Felice e una passeggiata per le vie del borgo. DURONIA - Domina i dintorni dall'alto del suo promontorio, particolarità piuttosto diffusa in Molise. La vera unicità di Duronia viene notata se si osserva il borgo con attenzione: una fascia di vegetazione rada, di un verde diverso, sembra tagliare la montagna culminando proprio dove sorge il paese, di cosa si tratta? Duronia viveva sull'antico tratturo Lucera – Castel di Sangro percorso ogni anno da milioni di pecore che hanno lasciato un segno evidente sul territorio. Vale la pena raggiungerla in bicicletta e visitarla. CAROVILLI – Una località interessante per la sua posizione che ricorda quella di un presepe. A Carovilli ci siamo sentiti davvero a casa e c’è stata offerta la possibilità di conoscere un pochino meglio il Molise, parlando con la sua gente di storia, cultura e turismo. Nei dintorni si trova Castiglione di Carovilli con l’oasi del Wwf di Collearso, una tappa obbligata per chi ama la Natura. continua alla pagina seguente ►►► FORCHE CAUDINE – PAGINA 7 ►►► segue dalla pagina precedente TRATTURO PESCASSEROLI-CANDELA – Chi viaggia in mountain bike deve provare l'esperienza di una bella pedalata lungo l'antico tratturo. Noi siamo stati accompagnati da Mauro, molisano doc e grande conoscitore del territorio. Ci siamo infangati, impantanati, divertiti, abbiamo spinto, pedalato e affondato le gomme nella palta, è stato insomma un giro indimenticabile. Il tratturo raggiunge l'antica e imperdibile città romana di Saepinum. PESCOLANCIANO - L'abbiamo raggiunta percorrendo quasi esclusivamente strade secondarie a parte l'ultima parte del tragitto dove non siamo riusciti a trovare un'alternativa. Pescolanciano sorge sul tratturo Castel di Sangro-Lucera e l'antica via di comunicazione è ancora ben evidente ai bordi del paese anche se purtroppo non viene preservata né promossa. Pescolanciano vanta un bel centro storico e un castello. SAEPINUM - Sorge sul tratturo Pescasseroli-Candela e conserva in buono stato alcuni edifici dell'epoca. Il foro, la basilica, il teatro, le terme e il Decumano che attraversava Saepinum da est ad ovest. Bisogna prendersi tempo ed esplorarla con calma. Arrivarci in bicicletta è un'emozione forte. CIVITA SUPERIORE - Sorge dove iniziano i monti del Matese, a Bojano. Civita poteva vantare uno dei manieri di Federico II che oggi è purtroppo in rovina. Bojano ha invece origini sannite. Per raggiungere Civita è necessario inerpicarsi per qualche chilometro. SORGENTE DEL BIFERNO - Ai piedi dei Monti del Matese nasce il fiume Biferno la cui sorgente è da annoverare tra le cose da vedere in Molise. A bordo strada l'acqua zampilla in una grande vasca: qui si può riempire la borraccia con acqua fresca di fonte. Nel raccontarvi cosa vedere in Molise non mi sono soffermata eccessivamente su strade, pendenze ed altre particolarità del territorio, che si possono conoscere scaricando la traccia gps del nostro viaggio in bici e leggendo il nostro racconto dell'esperienza. Per conoscere e scoprire un territorio non basta visitarlo in bicicletta, bisogna sentirne il profumo, assaggiarne le tipicità, conoscerne le genti... i molisani sono un popolo affabile e disponibile, generoso e aperto. Non va persa l'occasione per scambiare informazioni e punti di vista. Le tipicità del Molise sono molte ma quelle che vi consigliamo di assaggiare assolutamente sono: il caciocavallo (famoso è quello di Vastogirardi), i cavatelli, tipo di pasta mangiata solitamente con sugo di carne di maiale, il buonissimo pane (chiedere quello con le patate), la Pampanella (vi lasciamo scoprire da solo cos'è) e i gustosi salumi. LIFE IN TRAVEL FORCHE CAUDINE – PAGINA 8 COPERTINA Valeria Di Blasio, i colori del cuore Romana, originaria di Casacalenda, architetto e pittrice. L’omaggio alle grandi personalità e l’attenzione al sociale di MARIA DI SAVERIO Roma, città dal fascino unico. Metropoli che inevitabilmente lascia il segno. Basta nascerci o viverci per qualche anno per portarne le “tracce” dentro. Valeria, nella Città Eterna, c’è nata. Trentanove anni fa, nel 1976. C’è cresciuta, stringendo le migliori amicizie. Qui s’è formata culturalmente, frequentando il liceo classico e laureandosi in architettura nel 2002. E qui si gode i suoi maggiori affetti, i genitori, la nonna Nina, il marito Alessio. E poi, certamente su tutti, il figlio Diego, che ora ha tre anni. Eppure Valeria conserva in sé una sorta di scrigno segreto che arricchisce la sua romanità. Un bauletto di valori addizionali, sottotraccia, detenuti quasi inconsapevolmente. E quel po’ di Molise eredità della famiglia paterna. Ad iniziare dal cognome, Di Blasio. A cui è associato l’amore infinito per la natura, ma anche il forte senso di giustizia. Fino al costante impegno sociale, concretizzatosi, ad esempio, nei progetti architettonici di rigenerazione urbana delle periferie. E forse, chissà, sono state proprio le origini molisane, di Casacalenda, paese di artisti (e di poeti), a garantirle la sensibilità e la passione per l’arte, che con il tempo è diventata una vera e propria professione. Una terra che rappresenta soprattutto le memorie d’infanzia. “Il Molise e Casacalenda per me rappresentano i ricordi delle lunghe estati della mia infanzia trascorse in compagnia dei miei adorati nonni, i profumi della campagna, la ‘masseria’ fuori dal paese, dove ritrovavo il contatto con la natura che in città mi mancava – ci racconta Valeria. “Il Molise è la riscoperta delle tradizioni popolari, e in particolare ripenso al poeta Ermanno Catalano, che ho avuto il piacere di conoscere e che mi ha regalato una copia del suo libro ‘I tiempe cagnene’ – continua Valeria. “Oppure le serate di festa allietate dal ritmo dei bufù, i piatti genuini e semplici ma nello stesso tempo squisiti della cucina locale, il tempo che scorreva ‘lento’ e permetteva di soffermarsi a riflettere, a disegnare, a osservare un tramonto”. Per un romano, il Molise è una sorta di integrazione, di perfezionamento. Il dinamismo della città arricchito dalla natura che preserva la riflessività. Ma anche i rapporti umani più diretti, i legami parentali. “Il Molise mi richiama anche il legame forte che ho con mia nonna Giovanna, chiamata da tutti Nina, nata a Casacalenda – continua Valeria. “E’ una donna molto intelligente e aperta di vedute, che ancora oggi, a 91 anni, è per me una saggia e preziosa confidente. E’ stata anche lei ad incoraggiarmi a seguire le mie passioni, ad intraprendere questa strada di pittrice”. continua alla pagina seguente ►►► FORCHE CAUDINE – PAGINA 9 ►►► segue dalla pagina precedente L’architetto Valeria Di Blasio è anche apprezzata pittrice. Splendide le sue opere figurative, ricche di colori e di omaggi a grandi personaggi soprattutto del passato, come Pierpaolo Pasolini, Anna Magnani, Aldo Fabrizi, Massimo Troisi, Margherita Hack. Poi uno splendido ritratto di Monica Vitti. Nella sua produzione anche paesaggi e astratti. “Fin dall'adolescenza mi dedico all'esecuzione di ritratti cercando di cogliere la profondità dello sguardo e l'anima dei soggetti che rappresento – racconta la giovane pittrice. “Soltanto recentemente ho ampliato il mio repertorio pittorico, mantenendo l'originaria predilezione per la rappresentazione figurativa, ma sperimentando anche altre esperienze artistiche. I quadri astratti rientrano in parte nella sfera dell'architettura in quanto possono essere concepiti come complementi d'arredo e quindi eseguiti su commissione, per adattarsi allo spirito di ogni singolo ambiente. Significativo è stato l'insegnamento, non solo dal punto di vista professionale ma anche umano e culturale, del maestro Tullio De Franco, docente del corso libero di pittura presso la Rufa di Roma”. VALERIA DI BLASIO Il fascino del figurativo Alcune opere figurative di Valeria De Blasio. Da sopra: Pierpaolo Pasolini, Monica Vitti, Aldo Fabrizi, Anna Magnani, Massimo Troisi, Margherita Hack. continua alla pagina seguente ►►► FORCHE CAUDINE – PAGINA 10 ►►► segue dalla pagina precedente Nel curriculum di Valeria sono presenti diverse mostre: tra le più recenti la collettiva “Melting Pot” organizzata da Micro Arti Visive negli spazi di “Porta Mazzini” a Roma e la mostra personale nella libreria "Infinite Parentesi" in località Castelverde (Roma), entrambe a dicembre 2014 (l’esposizione alla libreria è diventata permanente). Sempre nel 2014, a luglio, s’è svolta la mostra-aperitivo sulla terrazza dell’hotel H10, in zona Ostiense-Marconi. In precedenza la partecipazione alle rassegne d'arte in viale Europa all’Eur con l’associazione “Pittori Roma Eur”, alle mostre d'arte a Trastevere, a piazza Trilussa a Roma con l’Associazione "Art Arvalia Onlus", alla mostra “Cento pittori di via Margutta” in via Ugo Ojetti, a Roma. Fuori dalla Capitale ha partecipato alla mostra personale nel borgo medievale di Vitorchiano (Viterbo), all’interno dell’Auditorium comunale, in concomitanza con l’evento culturale “La notte rosa” a giugno 2012 e al primo Concorso internazionale di pittura e scultura “Città di Corchiano” a dicembre 2011. Centrale l’impegno sociale di Valeria, un’attenzione e una sensibilità presenti sin dalla più tenera età verso i grandi temi ambientali ed economici: tante le battaglie per la riqualificazione urbana, contro lo strapotere delle automobili, ma anche di denuncia delle speculazioni bancarie, finanziarie, delle multinazionali. Forse, anche in questo, un po’ di tenacia molisana non s’è smarrita per strada. ■ Il fascino del bianco e nero FORCHE CAUDINE – PAGINA 11 ALTRI QUADRI DI VALERIA VALERIA DI BLASIO Omaggio a Casacalenda Dall’album di famiglia in Molise Bacio alla stazione Sguardi rubati Due immagini con nonna Nina, 91 enne, nata nel paese molisano. Orizzonte rosso Due foto-ricordo di Casacalenda. Triopetra Madre terra Campagna di Casacalenda e con papà Gianfranco al mare, alcuni anni fa, FORCHE CAUDINE – PAGINA 12 NOTIZIE FLASH Presenze molisane a Vinitaly (Verona) Cultura: M5S contro “monopolio” Per la quarantanovesima edizione del Vinitaly di Verona, nello stand allestino dalla Regione Molise sono state coinvolte le seguenti le cantine molisane co-espositrici: Cantine Salvatore, Azienda Agricola Cianfagna, Cipressi Claudio, Azienda Agricola Vitivinicola di Cieri Camillo, Cantine Catabbo, Società Cooperativa Cantina Sociale San Zenone. Il Movimento Cinque Stelle Molise chiede al ministro Franceschini risposte sulla gestione del settore cultura in regione. E lo fa attraverso un’interrogazione parlamentare su “criteri e modalità di attribuzione della gestione dell’intero patrimonio culturale molisano ad un’unica associazione: la Me.Mo Cantieri Culturali”. L’interrogativo del M5S: “Perché il progetto aggiudicatario non è stato pubblicato nella sezione trasparenza del sito della Direzione regionale ai Beni culturali del Molise, per permettere agli attori del settore e ai cittadini di conoscere le modalità di gestione e valorizzazione dei beni comuni?”. Carpinone, vendesi castello Il castello di Carpinone, di proprietà privata (famiglia Caldora, residente in Abruzzo), è in vendita tramite un’agenzia abruzzese. Prezzo: un milione di euro. Stesso destino del castello Pignatelli di Monteroduni e di quello di Macchiagodena, poi acquistati, rispettivamente da Comune e Regione. Eurofestival, ci sarà il Molise Ci sarà anche un po’ di Molise al prossimo Eurofestival, la manifestazione canora che si svolgerà quest’anno a Vienna dal 19 al 23 maggio. Il Molise è stato inserito nel video della canzone “Chain of lights”, interpretata da Michele Perniola e Anita Simoncini, che rappresenterà la Repubblica di San Marino. Il videoclip è stato sceneggiato da Antonello Carozza e Rossella d’Orsi, con la regia di Fabrizio Oggiano e la fotografia di Carlo Terenzi. Ha coinvolto un centinaio di comparse molisane ed è stato girato tra Campobasso, Termoli, Isernia, Venafro, Sepino, Monteroduni e Macchia d’Isernia. Nella sola area degustazione: Cantina Giagnacovo, Tenimenti Grieco, Campi Valerio. Sommelier di servizio, dell’Associazione italiana sommelier, coordinati dal responsabile servizi Marco Morelli. L’Espresso “bacchetta” Isernia Nel numero 10 del settimanale L’Espresso (12 marzo 2015), in un pezzo del noto giornalista Fabrizio Gatti, nella parte dedicata alla Provincia di Isernia, si legge: “L’ufficio turistico apre alle 9 tutti i mercoledì, dice il cartello. Sono quasi le 11, è mercoledì. Ufficio turistico chiuso”. FORCHE CAUDINE – PAGINA 13 DOSSIER Il Molise, che farne? Sempre più pressanti le minacce di smembramento per la regione. C’è chi gioisce per ragioni identitarie, come nell’Alto Molise, e chi sperando nel disarcionamento degli attuali amministratori. Ma davvero chiudere questo capitolo conviene a tutti? di TONY PALLADINO Il Molise, dopo 52 anni di esistenza amministrativa (si staccò dall’Abruzzo nel 1963), rischia di tornare ad essere soltanto una denominazione da carta geografica, al pari delle Prealpi Giulie o del Tavoliere delle Puglie. ►►► LA “NUOVA” ITALIA? Il cosiddetto “Progetto Morassut”, dal nome del parlamentare Pd proponente. Le principali novità: accorpamento di Valle d’Aosta, Piemonte e Liguria nell’unica regione “Alpina”; Trentino-Alto Adige, Friuli-Venezia Giulia e Veneto riunite nel “Triveneto”; Pesaro con l’Emilia-Romagna; Umbria, Toscana e Viterbo nella regione “Appenninica”; Roma a sé (Città metropolitana di Roma Capitale); Marche meridionali, Abruzzo e Alto Molise nella regione “Adriatica” (con Rieti); Frosinone e Latina con la Campania nella “Tirrenica”; Campobasso con la Puglia nel “Levante”, che includerebbe anche Matera; Potenza con la Calabria nel “Ponente”; invariate Sicilia e Sardegna. ►►► In parlamento, benché la tanto ventilata soppressione delle province sia rimasta lettera morta, prendono sempre più corpo le ipotesi di riorganizzare le regioni, trasformandole in macroregioni. Le prime ad essere sacrificate sarebbero le più piccole, cioè la Valle d’Aosta (che è tuttavia regione a statuto speciale, quindi sarà più difficile piegarla ai nuovi diktat) e il Molise, “cenerentola” del nostro Mezzogiorno. Il territorio molisano potrebbe essere riaccorpato tout court all’Abruzzo o, come ventilato da più parti, costituire l’estremo sud di una macroregione adriatica comprendente Marche e Abruzzo e, forse, anche la provincia di Rieti. Un’altra ipotesi vede il basso Molise fuso alla Puglia. Questa alchimia di confini suscita reazioni di segno opposto nello stesso Molise. Nell’area di Agnone, ma non solo lì, c’è chi gioisce in nome di una lontana identità storica, quella sannita. E in fondo anche morfologica, vedendo con maggiore favore i monti abruzzesi rispetto alle colline del basso Molise. Anche altri sono pronti ad esultare, ma perché la chiusura della “giovane” regione molisana equivarrebbe alla bocciatura definitiva della sua classe politica: non più un esercito di amministratori ed ex amministratori, con stipendi e vitalizi da nababbi, ma solo qualche sparuto rappresentante da spedire, probabilmente, nel nuovo capoluogo anconetano. Certo, le vicende di cronaca, anche le più recenti, non aiutano a sostenere una classe politica duramente bocciata dalla stessa Corte dei Conti, basta leggersi la relazione del procuratore regionale Carlo Alberto Manfredi Selvaggi durante la cerimonia di apertura dell'anno giudiziario a Campobasso: tra le spese effettuate dai gruppi consiliari alla Regione Molise, citate nella relazione del procuratore, non mancano bollette dell'Enel per utenze sconosciute, dolci comprati in pasticceria, bottiglie di vino, pranzi e cene per seimila euro in un unico ristorante, viaggi fuori regione. In fondo niente di diverso dai colleghi di altre regioni. continua alla pagina seguente ►►► FORCHE CAUDINE – PAGINA 14 ►►► segue dalla pagina precedente OPINIONI / CH IUDERE LA REGION E… E’ utile al Molise? di PIETRO MAIO Tuttavia, tuonano altri, perché eliminare una regione soltanto perché male amministrata? Basterebbe sbattere in galera, casomai buttandone la chiave, gli amministratori corrotti, che non rappresentano certo un esempio virtuoso per una regione che ha bisogno soprattutto di farsi conoscere. Diminuire i rappresentanti, gli organismi, gli spazi di partecipazione potrebbe anche equivalere alla cattiva potatura che uccide l’intero albero. E costituirebbe certamente un fattore di impoverimento. C’è poi chi, numeri alla mano, mettendo da parte le tentazioni campanilistiche osserva con obiettività che una regione con 300mila residenti, molti tra l’altro sparsi per il mondo, non sta in piedi. Tanto più una provincia come Isernia, con un capoluogo da 21mila abitanti, 86mila in tutta la provincia (dato che continua inesorabilmente a scendere). continua alla pagina seguente ►►► In queste ore viene riproposta da più parti l'ipotesi di chiudere la Regione ritenendola inadeguata, inutile e incapace di risolvere i problemi dei cittadini. Rispetto questa posizione e non ho contrarietà preconcette a tornare con l'Abruzzo. Pescara non è lontana e Luciano D'Alfonso ha costruito un ottimo rapporto con il nostro territorio e con Campobasso dove ha lavorato per tanti anni e dove ha studiato per la sua seconda laurea nel nostro Ateneo. Chiudere la Regione ci consentirebbe di sgravarci, da subito, di 420 milioni di debito sanitario e di 60 milioni di disavanzo di bilancio accumulato al 31 dicembre 2012 e su cui il governo ha impugnato l'assestamento 2014 approvata il 22 dicembre scorso. Con la chiusura della Regione scenderebbe il prezzo della benzina, diminuirebbero le accise sulle bollette e calerebbero le tasse sulle imprese. Su questi vantaggi è opportuno riflettere come giustamente chiedono Cgil-Cisl-Uil perché il futuro della nostra comunità è più importante del mantenimento dell'Ente Regione. La crisi più dura che ha colpito l'Occidente dal 1929 non lascerà le cose immutate e non sarà il trascorrere del tempo a far tornare tutto come prima. Il Molise degli anni ottanta, che riceveva miliardi di finanziamenti pubblici per opere faraoniche rimaste incompiute come il nuovo Ospedale di Agnone o il secondo tratto della Fresilia, non tornerà più. Le aziende finanziate in perdita dallo Stato per anni non esisteranno più perché i tedeschi non sono disponibili a pagare i nostri debiti. Per questo è giusto riflettere sulla chiusura della Regione e compiere la scelta antipatiche della Cisl che lo scorso anno si è riunificata con l'Abruzzo. Ovviamente dopo aver chiuso la Regione nessuno avrà più un capro espiatorio a cui addossare le colpe dei propri fallimenti, delle proprie incapacità e delle proprie inadeguatezze. Tolta la foglia di fico dietro cui tutti si nascondono, resteranno 312mila persone che avranno bisogno di ospedali, di lavoro, di scuole e di strade. Bisognerà trovare un’occupazione oltre che ai 210 dipendenti delle Province su 420 addetti anche ai 3.200 dell'Asrem, ai 160 dell'Arpa, ai 650 della Regione, alle centinaia di impiegati delle società regionali e degli uffici statali che oggi sono in Molise perché esiste la Regione. Chi avrà un problema troverà il comune senza soldi, la Provincia che non riesce nemmeno a fare lo sgombero neve e la Regione chiusa con gli addetti della vigilanza licenziati insieme a quelli delle aziende di servizi per informatica e altre attività. Campobasso, per la prima volta nella storia dal 1806 quando divenne Provincia autonoma per volontà di Giuseppe Napoleone e Gioacchino Murat, esprimerà solo il sindaco che resterà l'unico interlocutore autorevole del territorio visto che le nuove leggi elettorali legate ai confini regionali ridurranno a uno i parlamentari del Molise se ci andrà bene. Se questo è quello che si vuole siamo sulla buona strada. Basta dare un ultimo colpo alla delegittimazione delle istituzioni con un'aggressione strumentale mirata ed il gioco è fatto. Tanto per chi cavalca l'onda non c’è problema né di lavoro e né di futuro. Il problema sarà dei molisani che ovviamente lo scopriranno dopo quando sarà troppo tardi, come è successo ai dipendenti provinciali. Molti di loro erano d'accordo a chiedere la destituzione dei politici dalla gestione delle Province e oggi si ritrovano ad essere esuberi. Domani sarà lo stesso per chi opera direttamente e indirettamente per la Regione Molise con la differenza che per protestare dovranno andare a L'Aquila o a Roma perché a Campobasso non ci sarà più nessuno. FORCHE CAUDINE – PAGINA 15 ►►► segue dalla pagina precedente OPINIONI / CH IUDERE LA REGION E… Molise alla frutta. Anzi, alla chimica di PIERINO VAGO Altri ancora non ci stanno, perché il Molise ha una propria storia inconfutabile (si pensi al Contado o, più indietro, ai sanniti) e vederlo ridotto come una serie di piccoli tasselli di risiko, da elargire ai cugini abruzzesi o ai sottostanti pugliesi, non fa bene. Specie in memoria di coloro che per anni hanno combattuto, spesso anche fisicamente (ci furono persino incidenti negli anni Cinquanta), per ottenere l’autonomia regionale. Certo, il federalismo “all’italiana” ha fatto danni infiniti, moltiplicando i centri di spesa all’inverosimile e partorendo carrozzoni pubblici ad ogni livello. Le conseguenze odierne sono figlie delle scelte sciagurate di ieri. Regioni e province, pur avendo un senso storico, dovrebbero rimanere pure denominazioni. Sarebbe viceversa opportuno, coerentemente con la nostra storia, potenziare le funzioni dei comuni, gli enti locali più vicini alle esigenze dei cittadini. Tenendo però presente che in Italia la metà dei comuni ha meno di tremila residenti, per cui sarebbe ragionevole accorpare finalmente (e sul serio) i principali servizi tra quelli limitrofi. Riguardo a questo paventato rimescolamento di confini brucia però una domanda: perché marchigiani, abruzzesi o pugliesi amministrerebbero meglio il Molise rispetto a quanto non sono riusciti a fare i molisani stessi? La risorsa del Molise è il paesaggio. Non smetteremo mai di scriverlo. Certo, le montagne non sono quelle del Trentino, la costa non ha nulla a che vedere con quella salentina, le “firme” dell’arte non reggono il confronto con quelle toscane, i castelli non sono quelli valdostani. Dobbiamo esserne coscienti. Tuttavia il Molise possiede caratteristiche proprie che non sono meno preziose di quelle sfoggiate da altre regioni. E anziché inseguire farfalle su prati sterminati, gli amministratori (e i tanti consulenti) dovrebbero concentrarsi sulla valorizzazione di pochi elementi, davvero unici e autenticamente autoctoni. Quali esempi di ciò, basterebbe citare la rete dei tratturi, da salvaguardare oltre che da valorizzare. Oppure lo straordinario patrimonio morfologico, di cui non sempre si ha coscienza (si pensi, ad esempio, alle grotte, tra le più profonde d’Italia). E ancora ai siti storici (e preistorici), alla cultura sannita, al fascino della civiltà contadina. Resta, però, un problema: la diffusa inettitudine nello sfruttare tutto ciò nel modo più idoneo. Scontata una domanda: da dove nasce questa atavica incapacità? Le risposte potrebbero essere molteplici. Pesa, ad esempio, proprio la struttura montana del territorio, equivalente quasi sempre all’isolamento ancestrale. E’ altrettanto vero, però, che in altre regioni la montagna assicura turismo tutto l’anno. C’è un’altra lettura, più sociale. E’ quella che addossa la colpa alla bassa produttività degli uffici di governo molisani. A tutti i livelli. Ed in effetti, un po’ di responsabilità ce l’hanno i tanti enti, spesso inutili e con funzioni sovrapponibili, imbottiti di funzionari dalla pancia piena e dallo stipendio sicuro, che hanno quale principale bandiera il mantenimento dello status quo, cioè la stasi e la totale apatia. Poche idee, tante chiacchiere, zero risultati. Così la visibilità rimane al lumicino, le produzioni sono poco valorizzate, il turismo non decolla, l’innovazione e l’internazionalizzazione costituiscono una chimera. E quando questa miniera del pubblico impiego o della pensione sarà molto ridimensionata, il tempo perso peserà come un macigno sulle nuove generazioni. Le scorciatoie “dall’alto” Dove la politica è costretta a prendere decisioni è nelle proposte che giungono “dall’alto”. E, in genere, da fuori. Ciclicamente spuntano progetti faraonici: ora l’ennesima batteria di pali eolici in stile californiano, ora la megastalla sponsorizzata dalla multinazionale del latte, ora le centrali a turbogas o altri megaimpianti del genere. L’ultimo, in ordine di tempo, è l’ampliamento dello stabilimento chimico della multinazionale americana Momentive a Termoli (silano Nxt da utilizzare nella produzione di pneumatici), a fronte di un paio di dozzine di occupati in più (promessi dall’azienda). E’ chiaro che in un periodo in cui lo smantellamento dello poche fabbriche molisane è realtà quotidiana, un ampliamento generi molte attese. Ma, questo il punto, il futuro della regione non può essere affidato ai capricci di una multinazionale, né di altre operazioni del genere: il punto centrale è che manca un piano strategico regionale d’insieme che indichi chiaramente quale strada intraprendere per un futuro meno burrascoso. E andrebbe fatto subito, perlomeno per contrastare i flussi di migrazione che hanno ripreso vigore. FORCHE CAUDINE – PAGINA 16 OPINIONI / CH IUDERE LA REGION E… Sì alle macroregioni, no alla smembramento del Molise di ALBINO IACOVONE (ex sindaco di Castelverrino) Con l'istituzione delle Regioni la spesa pubblica ha oltrepassato quelli che erano e sono i bisogni dei cittadini ed ora è ineludibile la necessità di una modifica radicale dell' ordinamento regionale. Le Regioni, forse con qualche eccezione, unitamente al modo in cui sono state amministrate (o male amministrate), hanno determinato l’enorme lievitazione della spesa pubblica (non sempre produttiva). E' difficile tenere sotto controllo e ridurre la spesa pubblica se non continuando, dopo le province, a rivedere con efficacia il sistema regionale che sicuramente è stato la causa principale di una gestione finanziaria pubblica non sempre parsimoniosa. Non penso che le Regioni debbano essere soppresse del tutto, ritengo, però, che debbano essere riviste nella loro articolazione territoriale e con una nuova e diversa organizzazione che non potrà che essere meno penalizzante per i cittadini. E' inutile, quindi, girarci intorno: le macro regioni sono necessarie ! Tutto sta nel procedere con accortezza e senza sminuire le identità di ogni singola realtà regionale. Ed allora, proprio in virtù di questa valutazione, e per una Regione quale è la nostra, sempre più destinata alla emarginazione, è indispensabile e, credo, inevitabile ragionare in termini di allargamento del territorio regionale. Solo in questo modo potremo salvaguardare anche i nostri piccoli centri da una sempre più incisiva emarginazione. Tali segnali, che pochi ricordano, arrivano da lontano e si sono concretizzati nel silenzio assoluto di chi oggi lamenta tale situazione (mi riferisco principalmente ai tanti politicanti di turno): quanti Uffici, Direzioni (Enel, Sip, Ferrovie, Provveditorati, Ufficio Regionale Scolastico), servizi pubblici (linee ferroviarie, automobilistiche..) lentamente sono stati ridotti o addirittura soppressi ? Ignoriamo l'interminabile elenco di ciò che il Molise ha già perso e continua a perdere (ospedali, scuole, uffici postali, tribunali, ufficio giudice di pace) ? Pensare che battersi per la conservazione dell'autonomia regionale possa essere la soluzione migliore, trascurando altre forme di aggregazione, credo sia illusorio nei tempi difficili in cui viviamo. Albino Iacovone Non è solo un problema di identità che, comunque, non verrebbe meno. E, soprattutto, non sono e non possono essere definiti traditori del Molise tutti coloro che realisticamente ritengono che nelle attuali situazioni sia utopistico pensare di poter conservare una autonomia che, diciamocela tutta, non è stata valorizzata. Le opportunità per il Molise sono state buttate al vento ! Questa nostra Regione, se fossero state valorizzate e potenziate le peculiarità del suo territorio (aria, ambiente, risorse artistiche, culturali, archeologiche e paesaggistiche, agroalimentare e così via) avrebbe potuto e dovuto essere una piccola Umbria o una piccola Valle d’Aosta. Tutto ciò non si è realizzato e tutti i soggetti politici, sindacali, imprenditoriali, istituzionali, non sono esenti da colpe, non avendo saputo compiutamente utilizzare l’intempestivo distacco dall'Abruzzo e, dunque, salvaguardare la nostra autonomia. E' assurdo spostare verso Sud i confini del Molise (per ovvii motivi !). (continua alla pagina seguente ►►►) FORCHE CAUDINE – PAGINA 17 (►►► segue dalla pagina precedente) Invito tutti, prescindendo dalle rispettive posizioni, e, principalmente, gli attuali rappresentanti istituzionali ad accantonare sterili contrapposizioni e infruttuosi preconcetti e a lavorare per raggiungere una soluzione condivisa e meno penalizzante per il Molise, che, secondo me, non può prescindere dalla riunificazione con l'Abruzzo, nella prospettiva di una macro regione che includa le Marche e, qualora non sufficiente (secondo quello che sarà il nuovo ordinamento regionale), anche il Lazio e l'Umbria. E' evidente che sia impossibile che ciò avvenga solo per il Molise. Inoltre, la proposta di legge dell’onorevole Roberto Morassut (Pd), pur con tanti elementi da discutere, rivedere e modificare, una su tutte l’assurdità di dividere in due il Molise ed inserirlo in contesti regionali diversi, va nella direzione che, già negli anni 1990, uno studio della Fondazione Agnelli proponeva, ovvero la costituzione di 12 macroregioni o aree di sviluppo diffuso. Tale studio, già allora, prevedeva 22mila miliardi di risparmio generati dall’operazione di accorpamento, senza nuove tasse e senza spese ulteriori. Non c’è altra strada da percorrere se non quella di dimezzare il numero delle Regioni, accorpare quelle più piccole, non tanto e non solo per ridurre sperperi e clientele, ma, soprattutto, per snellire e deburocratizzare il sistema, semplificarne l’assetto organizzativo e aumentarne l’efficienza e l’efficacia. Costituire una sola regione medioadriatica MarcheAbruzzo-Molise (nella sua interezza e non smembrato, come lo vorrebbe l’onorevole Morassut) permetterebbe di meglio valorizzare il maggior gettito fiscale, oltre a ridurre le spese correnti, i consumi intermedi, stipendi, rimborsi, indennità, etc., consentendo anche un forte risparmio attraverso l’unificazione delle varie autorità, agenzie, consorzi, enti, imprese pubbliche, che, con la loro proliferazione, hanno causato e causano dispendio di tempi e costi. Castelverrino (Isernia) Un esempio su tanti: nel 2012, i consigli regionali di Abruzzo, Marche e Molise, sommati, sono costati all’incirca 60 milioni di euro; se avessimo un unico consiglio regionale, almeno la metà di questa cifra sarebbe liberata, insieme a tante altre risorse, per politiche economiche, di crescita e di sviluppo. La vicenda è in itinere e, nell’ ottica di una sua felice conclusione, occorre una franca e approfondita discussione, che coinvolga direttamente le popolazioni interessate, per non commettere approssimativi errori di valutazione. Una simile rivoluzione dell' assetto regionale richiede, ovviamente, ben altro che una semplice proposta di un singolo Parlamentare, essendo necessaria una legge costituzionale con correlata complessità e lunghezza dell’ iter da seguire. Si tratta di decisioni che vanno oltre il mero aspetto politico-partitico e di condivisione o non condivisione da parte del politico ed amministratore di turno. La scelta delle macroregioni e dell’ unione del Molise con l' Abruzzo e le Marche (e se necessario con l'Umbria e Lazio), dovrà fondarsi solo su profili economici: ogni altra considerazione che spesso, in questi giorni, ha accompagnato tali discussioni (emotività,campanilismo,coltivazione del proprio orticello, etc.) è del tutto marginale e non risolutiva di problematiche che ormai non possono più essere guardate con occhio ristretto bensì in un contesto che travalica il confine regionale per approdare a quello nazionale ed europeo. A tutti piacerebbe essere autonomi, bisogna, però, essere anche consapevoli che è ineludibile e necessario che si operi sull' Ordinamento regionale. E' bene, pertanto, attrezzarsi per scegliere un futuro differente, altrimenti saranno altri a scegliere dove e come collocare il Molise. FORCHE CAUDINE – PAGINA 18 DOSSIER Zuccherini amari I nodi al pettine. Nel pubblico e nel privato. di GIAMPIERO CASTELLOTTI Sperpero di denaro. E’ il ritornello che si sente ripetere più spesso quando si parla di “grandi aziende molisane”. Laddove l’aggettivo “grandi” è conseguenza di qualche decina di dipendenti – strappati alla piaga dell’emigrazione - rapportati alle esigue dimensioni del territorio. Si tratta di aziende che, talvolta, dalla natura privata, in genere frutto di investimenti sbagliati da parte di un imprenditore e quindi ormai cotte e stracotte, sono improvvisamente diventate pubbliche. Assicurando così – con la salvaguardia di posti di lavoro sacri e preziosi (ma a spese della comunità) – anche sicuri bacini di voti. E talvolta di malaffare. I “piani di rilancio”, di cui sono piene le nobili intenzioni e i libri paga delle consulenze, rimangono puntualmente lettera morta. E forse è anche meglio così, perché, quando applicati, hanno prodotto danni aggiuntivi. Tale modus operandi politico-imprenditoriale, trascinatosi per decenni con simboli non soltanto scudocrociati, ha indubbiamente generato periodi di benessere per tante famiglie molisane e meridionali in genere, a cui è stato garantito uno stipendio sicuro, offrendo l’alternativa al trattore e al sudore dei campi. Ma, di fatto, ha contribuito a produrre una crescita fragile del tessuto economico molisano (e meridionale in genere), spesso artificiosa, fino all’attuale situazione di sfascio del panorama industriale regionale. E non solo di quello, purtroppo. Insomma, si è “scialato”, con fitti reti di complicità. Anzi, la capacità di “scialare”, e di farlo nel migliore dei modi, è stato quasi un diktat e un titolo di merito per conquistare posti nelle stanze dei bottoni. Ed ora, amaramente, si paga il conto. Sacrifici che peseranno soprattutto sulle nuove generazioni. ►►► ►►► Del resto già i “meccanismi di presunta crescita” hanno presentato incongruenze. Rimanendo sul fronte delle “grandi imprese”, ad esempio, ha prevalso un quadro fatto di pochi imprenditori veri, alcuni finiti malissimo a causa di una politica connivente ma famelica, a cui si sono affiancate oscure figure politico-amministrative, in quota a questo o a quel partito, con l’abilità d’improvvisarsi manager per ogni situazione emergente. Cioè le redini dell’economia regionale sono state affidate ad imprenditori azzoppati e a manager fasulli. Il ruolo per entrambi, il più delle volte, s’è ridotto alla funzione di assicurare continue bombole d’ossigeno a moribondi carrozzoni privati e pubblici, oltre agli inflazionati pubblico-privati. Fino ai casi, sul più noto modello nazionale, in cui il ruolo dell’imprenditore e del politico è diventato palesemente osmotico, con gli inevitabili rischi del malaffare e dei conflitti d’interesse. La logica del clientelismo, imperante in tutta Italia ma con punte d’eccellenza in una regione piccola come il Molise (con un più vivo protagonismo delle “parentele” rispetto alle “amicizie”), ha contribuito a tenere in piedi tanti organismi mangiasoldi, spazianti dall’industria – con prevalenza per l’agroalimentare e l’ambiente – alla ricettività turistica invernale (con risultati evidenti) fino alle rinomate “in house” (o “partecipate”), appendici degli apparati governativi locali con funzioni spesso analoghe a quelle degli assessorati. continua alla pagina seguente ►►► FORCHE CAUDINE – PAGINA 19 ►►► segue dalla pagina precedente Ora molti nodi stanno venendo al pettine: l’imperativo è “tagliare” (spesso senza logica) e a farne le spese non sono certo i principali uffici pubblici, quelli talvolta più costosi, inutili e produttori di burocrazia, ma gli apparati di seconda linea e, ahimè, gli stessi servizi sul territorio (il caso delle prestazioni sanitarie è lampante). Vietato ammalarsi Partendo proprio dalla sanità, la mannaia ha già falcidiato i principali nosocomi molisani. Il caso di Agnone è forse quello che ha fatto più rumore. Ma anche, ad esempio, Venafro o Larino non sono messi meglio. La targa dell’ospedale di Agnone (Isernia) Ora il decreto Balduzzi, al vaglio del parlamento, farà il resto: entro sei mesi bisognerà adeguarsi ai nuovi standard qualitativi – basati su indici demografici nell’assistenza ospedaliera, che in concreto equivale a dire ospedali ridimensionati, reparti cancellati, meno servizi. Specie nello spopolato Molise, dai numeri flebili di residenti e ancora più flebili di abitanti reali. Proprio a causa del quadro demografico, in Molise sarebbero a rischio i reparti di ostetricia e ginecologia in provincia di Isernia e di neurochirurgia in quella di Campobasso. All’ospedale “San Timoteo” di Termoli, secondo le nuove regole, potrebbero essere cancellati i reparti di ostetricia, otorino, pediatria ed urologia. Cioè, secondo il nuovo decreto (a cui il governatore molisano Frattura non s’è opposto nella Conferenza Stato-Regioni di agosto dello scorso anno, risultando assente), non avrebbe senso tenere in piedi reparti per pochi pazienti. Va ricordato che il piccolo Molise è indebitato, sul fronte sanità, per oltre 400 milioni di euro. Praticamente quasi milletrecento euro a residente, neonati compresi. Soldi di cui qualcuno, anzi più di qualcuno, ha beneficiato. A danno di chi sarà costretto, suo malgrado, ad un ricovero ospedaliero nei prossimi anni. Intanto, per stare nella cronaca di questi giorni, 150 infermieri precari della sanità molisana molto probabilmente dal prossimo 31 marzo non avranno più il rinnovo degli incarichi. E’ la conseguenza concreta, fatta di lacrime e sangue, di questo contesto. Un’altra vicenda emblematica della situazione molisana è quella dello Zuccherificio del Molise. Sede a Termoli. Nato nel 1968 sotto forma di società per azioni, per volontà dell’allora ministro dell’Agricoltura, il molisano Giacomo Sedati (prima azienda del nucleo industriale di Termoli), per diversi anni è diventata società mista (privata e pubblica) fino a vedere – more solito - la sola partecipazione della Regione Molise. Oggi il suo futuro si presenta a tinte fosche. La Rsu dell’azienda ha diffuso nei giorni scorsi un comunicato emblematico: “Anni fa si sperperava denaro pubblico per far camminare il sistema lavorativo molisano – si legge nel documento sindacale - ora si buttano i soldi in degrado e cassa integrazione che sempre denaro pubblico è”. Quindi: “Chiediamo in maniera serena le dimissioni dell’intero Consiglio regionale, che non ha saputo difendere il territorio e gli interessi chi ci abita, che vorrebbe continuare a farlo. Ci vergogniamo di essere molisani”. La recente storia amministrativa molisana è ricca di vicende del genere. Neve scioglisoldi Un’altra, ugualmente paradigmatica, è quella della gestione della località sciistica di Campitello Matese, in provincia di Campobasso. Sul tema c’è un corposo documento redatto dal Movimento Cinque Stelle, che ricostruisce anni di follie finanziarie, debiti e inevitabile declino della stazione sciistica. Anche qui con lo zampino pubblico. continua alla pagina seguente ►►► FORCHE CAUDINE – PAGINA 20 ►►► segue dalla pagina precedente Il comprensorio sciistico matesino, creato da alcuni imprenditori lombardi negli anni Sessanta, dopo un po’ d’anni passò di mano, fino a coinvolgere una cordata di imprenditori molisani e una serie di enti locali. Nel 1999 si costituì la società per azioni consortile Campitello Matese con capitale sociale di oltre un miliardo di lire (1.020 azioni del valore di un milione di lire ciascuna, suddivise in 849 della Provincia di Campobasso, 170 del Comune di San Massimo e una del Comune di Roccamandolfi). Nel 2000 la Regione Molise sottoscrisse un aumento di capitale con quattro miliardi di lire. Da qui una serie di politiche scellerate e clientelari, come sottolinea il documento, che porteranno ad uno stato di crisi e alla necessità, con la finanziaria regionale del 2009, di operare una “ristrutturazione economica e finanziaria delle imprese a partecipazione regionale, da realizzarsi anche a mezzo di ulteriori sottoscrizioni di aumenti di capitale, sulla base di adeguati e motivati programmi di risanamento”. Insomma, altri soldi. Vede la luce la società “Sviluppo Montagna Molisana spa”, nome che è tutto un programma (qual è la ricetta per “sviluppare una montagna”, per di più molisana?). La Regione Molise, certa del fatto suo, con delibera di Giunta regionale 1005 del 29 settembre 2009, v’investe altri 350mila euro. Nel contempo nasce “Funivie del Molise spa”, sempre sotto la protezione dell’ente pubblico. Qui la Regione Molise è ancora più generosa (con i soldi del contribuente): con la delibera 211 del 29 marzo 2011, vi immette ben 3.500.000 euro. A questi soldi, ricorda il documento, “vanno aggiunti altri mandati di pagamento a diverso titolo dalla Regione Molise a ‘Sviluppo Montagna Molisana spa’ per 4.248.000 euro che sommati ai 2.876.958 euro fanno un totale di 7.124.958 euro”. In fatto di aziende partecipate interamente dalla Regione Molise, non ci si può dimenticare di Molise Dati, società con 500 azioni e 258.230 euro di capitale sociale (onere complessivo gravante sul bilancio regionale: 5.569.467 euro più Iva (dato 2014). Di recente la Regione Molise ha rinnovato la convenzione con tale società “in house” incaricata della gestione del sistema informativo regionale e le ha tagliato due milioni di euro, praticamente gli utili, per evitare – come ha spiegato il governatore Frattura – il relativo pagamento di tasse per circa 700 mila euro. Ma il presidente molisano ha anche raccontato: “Per i componenti del Cda era prevista una premialità di risultato pari al 7 per cento dell’utile lordo della società, così come stabilito dalla Dgr 421 del 2012 della Regione Molise. Su circa due milioni di utili per il 2012 è stato corrisposto agli amministratori l’importo di 285 mila euro, circa 200 mila euro in più rispetto agli 88 mila euro dell’indennità deliberata, soldi dei cittadini molisani. Un nostro errore, allora, tagliare e revocare prebende simili?”. Insomma una società di fatto pubblica, che immaginiamo generi utili anche sul fronte pubblico, garantisce non solo corposi premi di risultato ai propri componenti del consiglio di amministrazione, ma addirittura – secondo quanto afferma il governatore Frattura – ne distribuisce molto più del pattuito. Inoltre, come ricorda Giuseppe Saluppo, intanto “si continuano a pagare 11 dirigenti e impiegati di primo livello alla Molise Dati, su 27 persone complessivamente, che costano l’anno un milione e 500mila euro”. Non sappiamo se sia la Molise Dati a gestire il sito istituzionale della Regione Molise (o forse, proprio perché lo sappiamo preferiamo rifugiarci nel dubbio). Di quel sito, però, ricordiamo che non è proprio un modello per le scuole di grafica e soprattutto che fino a qualche anno fa non riuscivamo a trovare facilmente le notizie d’interesse, in compenso nella home page c’erano foto e biografia dell’ex governatore. L’elenco delle società partecipate dalla Regione Molise include anche altre “perle”. E’ il caso della “Autostrada del Molise spa” (capitale sociale di tre milioni), azienda frutto della finanziaria 2008 (realizzazione Termoli-San Vittore), di cui poco si comprende oggi il senso dal momento che non c’è tutta questa certezza che si realizzi un’opera da molti considerata inutile, oltre che poco in linea con la recessione e con i tagli su cui già ci siamo lungamente soffermati. Una targa di questa società per azioni, tra l’altro, fa bella mostra in via Pianciani a Roma, nell’edificio che ospita gli uffici dell’Anas. Il risultato d’esercizio ha registrato un passivo di circa 440 mila euro per gli anni 2010-2012. continua alla pagina seguente ►►► FORCHE CAUDINE – PAGINA 21 ►►► segue dalla pagina precedente La lista delle partecipate non è finita. C’è, ad esempio, FinMolise spa, cioè la Finanziaria regionale per lo sviluppo del Molise, interamente di proprietà della Regione. E c’è poi Sviluppo Italia Molise, eredità della nazionale Sviluppo Italia spa, allorché la Regione ha deciso di acquisire l’intero controllo della sezione regionale. Come rilevato da più parti, le due società hanno di fatto obiettivi analoghi, per cui integrarle non sarebbe una cattiva idea. Ma c’è di più. Tramite FinMolise, c’è un altro fiume di società con partecipazione indiretta della Regione. Di queste ben una quindicina sono in liquidazione, fallimento, chiuse o in concordato. Nel dettaglio: Aeroporto del Molise (!), Castellina, Centro fieristico polifunzionale di Selvapiana, Citem, Finmolise srl, Flexopack, Geomeccanica, IilSud, Innova, Intemo, LTAuto, Lim, Molise innovazione, Sviam e Tsm. Sempre tramite FinMolise spa, ci sono altre società indirettamente partecipate dalla Regione. Tra queste: Agri sviluppo 2000 di Larino, Asvir Moligal di Campobasso, Contagricol di Bonefro (imballaggi), Coteb di Larino (agricoltura), Energia verde di Isernia, Ifim di Isernia (leasing finanziario), Indalco di Ripalimosani (paste alimentari), Matese per l’occupazione di Campobasso, Molise sviluppo di Campobasso. Della crisi della Gam, Gestione agroalimentare molisana, ci siamo più volte occupati. Questa società, interamente partecipata dalla Regione, a sua volta garantisce la partecipazione indiretta dell’ente locale molisano ad altre due società con noti problemi, la Avicola molisana di Bojano e la Solagrital (con commissario liquidatore nominato l’11 ottobre 2012). Altra società di questo lungo elenco, interamente partecipata e operante nel turismo, è Korai srl, con un onere complessivo gravante sul bilancio regionale di 377 mila euro (anno 2012). C’è poi il dramma della cassa integrazione, che in Molise coinvolge ormai centinaia e centinaia di lavoratori, dalla Fiat di Termoli nel 2014 alla drammatica situazione dei 45 dipendenti dell’impresa di costruzione Falcione, in cassa integrazione per dodici mesi da giugno 2014, ma che per sette mesi non hanno ricevuto soldi. Cassa integrazione anche per i 277 lavoratori della Gam di Bojano, emblema della filiera avicola molisana. Il programma di crisi aziendale è autorizzato fino al prossimo novembre. Alla tessile Ittierre di Pettoranello, un tempo fiore all’occhiello del territorio, la cassa integrazione per i 247 dipendenti scadrà il prossimo 3 aprile. E’ previsto un rinnovo per altri sei mesi, anche se – nonostante i proclami di rilancio - l’eccellenza del tessile in provincia di Isernia, con il suo forte indotto, rimarrà probabilmente solo un ricordo. Il governatore Frattura, però, ringrazia il viceministro De Vincenti per la sensibilità dimostrata “nei confronti delle situazioni produttive più difficili” del Molise, assicurando sei mesi di cassa integrazione. E dopo? Dopo resta la competizione globale, il mercato internazionale. I politici amici possono ormai fare ben poco… ■ Ridere, per non piangere… Simulazione di un aeroporto nel Basso Molise da inaugurare nel 2067 a cura del neogovernatore Iorio IV (costo del rendering: un quintale di scamorze appassite) FORCHE CAUDINE – PAGINA 22 L’AFFONDO Paolo il caldo di PIERINO VAGO C’è davvero l’imbarazzo della scelta: è più facile di quanto si possa credere individuare la cartina al tornasole più idonea a misurare il tasso di alcalinità dell’attuale intellighenzia politica molisana. I social network, ad esempio, con il loro buon livello di narcisismo e di autoreferenzialità, offrono materiale chimico a iosa: sarebbe da masochisti non trastullarsi negli stimolanti esperimenti scientifici in tal senso. In particolare ci si può soffermare sui profili digitali dei più rampanti rappresentanti del Partito democratico, quelli che in genere non lesinano il cravattone e gli occhiali – secondo loro – di tendenza: qui, a beneficio degli ultimi cortigiani (la penuria di posti di lavoro ne ha assottigliato le fila) che ben galleggiano tra tsunami di insulti espressi in bit, i nostri amministratori in genere s’industriano a dividersi tra irresistibili note sui prossimi impegni televisivi (“Amici (ahrarara), tra un’ora sarò in tv!”, troppo pochi i commenti modulati sulla saggezza sordiana del “E chi se ne frega”) e tra un’assicurazione al cugino del fido elettore del basso Molise (della serie: “Mi sto impegnando per affrontare i problemi dei dipendenti degli zuccherifici con occhi azzurri, auto Fiat Punto usata e 32 anni di contributi…”). Insomma, per le persone intelligenti, quelle che sanno cogliere le mille sfumature di grigio dei “finti giovani” amministratori molisani, è puro divertimento rilevare come un politico provincialotto, braccia sottratte all’agricoltura, provi ad emulare abitudini e atteggiamenti dei navigati omologhi provenienti da ben altre regioni (e soprattutto con ben altri retroterra culturali). Ecco allora il campionario di segreterie politiche con l’immancabile “Prondo” al telefono, i siti internet con programmi degni di un Commodore 64 Emulator, le immagini arricchite dalle citazioni dei grandi personaggi della storia o americanizzate dalla presenza di moglie e figli, l’elenco di atti limitati ad interrogazioni parlamentari su ospedali o fabbriche che chiudono. E via di questo passo. Se poi l’esperimento di misurazione ambisce anche a qualche premio internazionale, consigliamo la nota del governatore Paolo Di Laura Frattura sul tritacarne mediatico che lo sta cingendo come una ventricina di Montecilfone, in virtù di un’anomala e originale alleanza che vede insieme navigati bucanieri di destra e sfigati masanielli “de sinistra”, passando per un centro che in Molise inghiotte davvero di tutto, meglio del termovalorizzatore di Acerra. Il governatore, accalorato da questa corale mobilitazione degli organi d’informazione contro il suo operato (o non operato) istituzionale, che s’affianca alla dinamica raccolta di firme per l’impeachment, ricorda come il cattivo rapporto con “i giornali sgraditi al potere” abbia caratterizzato anche le precedenti forze di governo (con le quali, è bene ricordarlo, si candidò). Ed evidenzia, ben informato e con classe, che “c’era chi inveiva su tanto di carta intestata contro la stampa locale definendola senza troppi giri di parole ‘spazzatura’” o che “hanno tentato, in qualche caso riuscendoci pure, di dettare la linea nelle rassegne stampa delle emittenti locali”. E si lamenta (letteralmente) che “all’operato o a un intervento in aula del governatore si concede uno spazio assolutamente marginale (pochi secondi), mentre di enfasi ed eco godono i detrattori del governatore (con minuti e minuti a disposizione e qualche volta intere trasmissioni)”. Infine sfodera controffensive personali, rispondendo ad un consigliere dell’Ordine dei giornalisti (ebbene sì, c’è anche in Molise) che gli ha rilevato “indole dittatoriale”, ricordando ai cittadini che lo stesso riveste un ruolo politico, essendo portavoce del presidente di centrodestra (quindi ex compagno di partito del governatore) della Provincia di Campobasso. Mentre la società molisana si disgrega, le ingiustizie tra garantiti e non garantiti si accentuano, la disoccupazione galoppa e l’emigrazione sta tornando a livelli da dopoguerra, questo è il livello del dibattito politico molisano. Forse, per misurare l’alcalinità, possiamo risparmiarci persino la cartina al tornasole. ■ FORCHE CAUDINE – PAGINA 23 PROPOSTE Per una viabilità funzionale a cura dell’associazione “Tradizioni e sviluppo” Agnone (Isernia) Ricucire le aree interne del Molise e dell’Abruzzo, favorire le relazioni e gli scambi tra la zona industriale di Bojano e la zona industriale del Sangro, avvicinare l’Alto Molise a Campobasso e alle aree produttive della confinante Regione abruzzese sono alcuni degli obiettivi prioritari delle nostre prospettive. Lo scorso 17 marzo una delegazione dell’associazione, accompagnata dal vicario delegato dal vescovo di Trivento monsignor Scotti, che personalmente incoraggia tutte le iniziative che rilanciano e rivitalizzano il territorio, ha incontrato nella sede della Provincia di Isernia il vicepresidente Cristofaro Carrino, i consiglieri Mike Matticoli (delegato alla Viabilità, Infrastrutture e Trasporti), Giuseppe Di Pilla, Francesco Lombardi, Lorenzo Coia e Sergio Sardelli, e il direttore generale Lino Mastronardi. Un appuntamento che fa seguito all’incontro, tenuto a metà gennaio, con l’assessore ai lavori pubblici della Regione Molise Pierpaolo Nagni a Campobasso e con i vertici Anas del Molise per conoscere, valutare e discutere del piano regionale sulla viabilità. L’intento dell’associazione è quello di verificare se esista una programmazione sulla viabilità, orientata in tal senso e per chiedere la restituzione e/o l’affidamento all’Anas sia del tratto viario da Pescolanciano a Castiglione Messer Marino che della Fondovalle Verrino. Dal confronto con amministratori e tecnici è emerso che vi è stato interessamento per l’affidamento dei suddetti assi viari all’Anas e che, nell’estate del 2013, la Provincia di Isernia ha stilato la bozza di un protocollo di intesa con Anas compartimento Abruzzo, Provincia di Chieti, Camera di commercio di Chieti, Confindustria di Chieti ed il Patto Territoriale Sangro Aventino per disciplinare lo studio territoriale di area vasta riguardante gli assetti stradali tra l’Alto Molise e il Chietino. Le linee di indirizzo, che vanno perfezionate ed arricchite, partono da uno studio economico e sociale delle zone interne dell’Alto Molise (territorio che ruota intorno ai Comuni di Agnone, Frosolone e Trivento) e dell’Alto Vastese (Castiglione Messer Marino, Schiavi, Montazzoli, Roccaspinalveti, Fraine, Atessa), che riconosce la necessità di migliorare i collegamenti tra queste aree e tra le principali direttrici del Molise e dell’Abruzzo, per permettere spostamenti agevoli ai cittadini sia per motivi occupazionali, commerciali, culturali, sia per porre le basi di un’integrazione di servizi ed opportunità. Nella bozza emerge chiara ed impellente la necessità di rendere efficace il servizio stradale a supporto delle aree a vocazione e a rilevanza produttiva, industriale, agricola e turistica. Agnone (Isernia) Nonché di creare un moderno assetto socio-economicoambientale delle popolazioni montane, di dare priorità ai collegamenti e ai trasporti tra l’area chietina del Sangro e l’area non solo quella alto-molisana ma molisana in generale, evitando una diversa allocazione della popolazione, e di studiare un programma infrastrutturale adeguato a tal fine. “L’obiettivo – spiega Vincenzo Scarano, portavoce dell’associazione - è quello di realizzare una trasversale condivisa che colleghi la fondovalle Biferno, la fondovalle Trigno, la fondovalle Sangro, di congiungere l’Alto-Medio Molise e l’Abruzzo attraverso la prosecuzione della fondovalle Verrino verso Capracotta e Castel del Giudice, agevolando il collegamento dei Comuni molisani ed abruzzesi alle direttrici principali. Pensare ad una viabilità più funzionale alle esigenze del territorio significa anche: avvicinare l’Alto Molise a Campobasso, collegare l’area industriale di Bojano con quella del Sangro e di Sulmona, dare la possibilità alle aree interne limitrofe di Molise ed Abruzzo di interagire per collaborare alla realizzazione di progetti che coinvolgano i servizi primari della sanità, della viabilità e dell’istruzione”. In questo momento storico, in cui sta aumentando la consapevolezza di una collaborazione concreta tra le due Regioni al fine di migliorare servizi e attività pensando anche al rilancio delle aree interne -, si sono aperte discussioni in prospettiva di nuovi assetti regionali e la Regione Molise sta riprogrammando le attività in merito alla viabilità (dopo le recenti decisioni sull’autostrada), emerge come non mai la necessità di dare input ad una nuova prospettiva in termini di relazioni viarie, che possa segnare il passo per l’immediato futuro e ridare speranza ai residenti delle zone interessate. ■ FORCHE CAUDINE – PAGINA 24 MOLISANI Durante Antonarelli, alla riscoperta di un benefattore di EMANUELE BRACONE (Termolionline) Una ricorrenza, anzi una riscoperta di un personaggio particolare. L’11 marzo ricorre il 100° anniversario della nascita di Durante Antonarelli, medico e giornalista (Lupara 11 marzo 1915 – Vasto 13 dicembre 1993). Lo ricorda Michele Antonarelli. Figlio di Michele e di Teresina Del Vecchio, dopo gli anni dell’infanzia trascorsi nel suo paese natale, che amò in modo incondizionato per tutta la sua vita e dove volle essere sepolto, completati gli studi medi e superiori nel Convitto “Pagano” di Campobasso, conseguì la laurea in Medicina e Chirurgia presso l’Università di Roma. Sposato con Giuseppina de Paola, di antica famiglia di Riccia, ebbe cinque figli: Michele, Enzo, Massimo, Marcello e Maria Teresa. Ben presto, per condivisa volontà soprattutto della madre, tornò nella sua terra per svolgere l’attività professionale autenticamente intesa come missione-servizio per la sua gente, a Lupara prima, poi a Capracotta e, quindi, a Termoli. Uomo di grande cultura e di spiccata sensibilità sociale, sempre ispirato dai valori cristiani, sentì ben presto il bisogno di mettere le sue qualità al servizio della terra tanto amata, il Molise. Quel Molise che doveva affrontare la somma dei problemi derivanti da secoli di sottosviluppo sociale, culturale ed economico a quelli derivanti dalle distruzioni della II Guerra mondiale. Iniziò, allora, con lo pseudonimo di “Andur” a scrivere sui giornali di maggior diffusione una lunga serie di articoli con stile brillante, spesso anticonformista, comunque personale ed inconfondibile per il lettore di quei tempi. Lo scenario era “…quell’immediato dopoguerra, in verità assai triste, che vedeva la nostra gente molisana immersa miserevolmente nel più vasto contesto della depressione meridionale. Gente, quella, che era, anche se moralmente esemplare, civilmente ed economicamente povera, politicamente e socialmente digiuna.” Proprio a Lupara cominciò a svilupparsi la produzione giornalistica di oltre 300 articoli che volle raccogliere in volumi che intitolò “Lotta per il Molise con il giornale (1947-1959)” e donò alla biblioteca del suo paese natale. Fu anche autore di numerosi lavori su temi di medicina sociale, pubblicati su riviste scientifiche a diffusione nazionale, nonché di novelle che meritarono riconoscimenti e premi letterari. Una di queste, dal titolo “Il pugnale di Cecco” è stata sceneggiata e rappresentata a Lupara il 3 gennaio 1999 presso il teatro comunale. La sua vivace produzione giornalistica e letteraria lo portò ad acquisire una grande notorietà. Durante Antonarelli Il professor Silvio Arcolesse, quando lo incontrava per il corso di Campobasso lo salutava, apostrofandolo ad alta voce: “Andur, quella penna che sa di tempesta!…”. Vincenzo Di Lisio lo incitava: ”Non disarmare la tua penna!”. L’avvocato Franco Cianci così lo ricorda: “E per Lupara – che egli assurge quasi a simbolo della disperazione, della miseria di tutte le zone diseredate del Molise - egli dedica pagine roventi sulla sete, sul problema dell’acqua, delle botti dei pompieri giunte per spegnere un incendio ed assalite, invece, dalla gente assetata; sull’apatia della gente, sulla sfiducia, la solitudine, la noia, che avrebbero, poi, spinto la popolazione verso quelle bibliche migrazioni degli anni ’40 e ’50.” Insieme a lui altri validi esponenti della cultura della nostra regione presero ad agitare quella che definivano “la questione molisana”. continua alla pagina seguente ►►► FORCHE CAUDINE – PAGINA 25 ►►► segue dalla pagina precedente Ecco come Durante Antonarelli ricordava quei momenti: “Ho voluto comunque mettere in evidenza quell’ambiente, quel clima, quell’aria che si respirava. Mi piace a questo punto fare ancora presente che fu proprio allora, in quel momento malinconico e triste, che la nostra gente cominciò quasi per incanto a recepire qualcosa, cominciò ad aprire gli occhi, cominciò quasi a sperare. E fummo noi della Stampa molisana prima di tutti a suonare il campanello d’allarme, quindi le campane e infine creammo tanto chiasso intorno ai grandi e piccoli problemi di casa nostra. Fummo i primi ad impostare un serio discorso per il Molise. E in quella operazione di stampa fummo assidui, perseveranti, caparbi, spesso duri; e tanto potemmo perché eravamo tutti punti dall’entusiasmo”. Ancora: “Impostammo allora un dignitoso discorso sui tanti problemi che avevamo di fronte, dalla educazione civile politica e sociale dei Molisani che erano appena usciti, e a caro prezzo, da una dittatura ventennale e dalla guerra, alla realizzazione dell’Ente Regione, a quella dell’acquedotto e alla irrigazione delle nostre ubertose piane; e puntammo il dito su tanti altri problemi tutti importanti: agricoltura, commercio, artigianato, salute, previdenza e assistenza, strade, scuole, ecc.”. Durante Antonarelli, primo fra gli altri, iniziò a sviluppare l’idea che solo attraverso la conquista dell’autonomia regionale si sarebbero potuti realizzare quei sogni di riscatto. Solo un Molise autonomo avrebbe potuto smettere di rappresentare una sorta di Cenerentola dell’Abruzzo, del meridione, dell’Italia intera. Il primo atto di autonomia fu la fondazione dell’Associazione molisana della stampa, di cui fu fautore, accanto a mio padre, Venanzio Vigliardi. Un nutrito gruppo di giovani intellettuali-giornalisti, fra i quali spiccavano d’Acunto, Vecchiarelli, Carchietti, Delli Veneri, Amoroso, Rocco, Ruggieri, Mastronardi, Caluori, Rosati, Sciarretta, D’Erminio, Tatta, Todisco, Galasso, Tedeschi, riuniti a congresso “Sotto i colori della Regione” il 25 agosto 1948 a Campobasso, deliberarono il distacco dall’Associazione Abruzzese-Molisana della Stampa. Lupara (Campobasso) Due immagini di Termoli (Campobasso) L’associazione si riunì ancora a congresso negli anni successivi, divenendo il germe di quel consenso popolare, di quella convinzione che solo dall’autonomia potesse derivare il riscatto da quella durissima condizione di carenza sociale, economica e culturale della nostra gente nell’immediato II dopoguerra. I politici del tempo, Sedati, Sammartino, Colitto, Monte, La Penna, etc., vennero quasi sospinti da quel fervore culturale e dal movimento d’opinione popolare ad impegnarsi nella realizzazione della Regione Molise. In questo senso, credo, Durante Antonarelli deve essere considerato uno dei “padri fondatori” della nostra Regione. La ricorrenza dei 100 anni dalla sua nascita potrebbe costituire l’occasione di rendere questo riconoscimento alla sua memoria, nonché di analizzare le motivazioni che hanno condotto all’autonomia regionale del Molise, lo sviluppo che questa autonomia ha indotto, la sussistenza o meno di quelle ragioni in un contesto profondamente mutato rispetto all’epoca della sua opera. ■ FORCHE CAUDINE – PAGINA 26 LA LETTURA Rocca, mon amour E’ uno dei più bei paesi del Molise: Roccamandolfi (Isernia). Eccelsamene raccontato da un illustre “figlio” che vive a Firenze. di TONI DE SANTOLI Per andare da Firenze a Roccamandolfi ci volevano due giorni. Poteva bastarne anche uno, ma allora bisognava correre ventre a terra e sperare che le coincidenze non saltassero. L’Autostrada del Sole non esisteva ancora e non c’era neanche il traforo fra Cassino e Venafro (inaugurato nel 1960). Per raggiungere da Cassino il Molise, si doveva superare il Passo delle Tre Croci, a mille metri d’altitudine, un tornante dopo l’altro, curve a gomito, strapiombi, crepacci. Il Passo delle Tre Croci, oltretutto, era riserva di caccia di un folto gruppo di banditi, i quali però non sembravano poi tanto efferati. Intorno al ’47 furono comunque debellati dal ministero degli Interni. Firenze-Roma in treno (il “direttissimo”) richiedeva tre ore e mezzo di viaggio (due e mezzo col “Settebello”, lanciato però dopo il ’50) mentre da Roma a Cantalupo nel Sannio ci volevano dalle sei alle sette ore di corriera passando per Colleferro, Frosinone, San Pietro Infine, Cassino, appunto; quindi Venafro, Isernia, Castelpetroso. Arrivati a Cantalupo nel Sannio, prendevamo il torpedone Campobasso-Roccamandolfi o montavamo sulla Fiat “Millecento” di Mario “il milionario”, il solo auto-noleggiatore della zona, uno che aveva schiacciato una diecina d’anni in America e così al suo rientro in patria, al suo ritorno a Cantalupo, era stato immediatamente soprannominato, appunto, “il milionario”. In treno, tutto bene. Ma sulla corriera si pativano le “pene dell’inferno”, sia per via delle innumerevoli curve in salita e in discesa, che per il tanfo provocato dalla commistione fra l’odore del carburante e l’odore del materiale che serviva come rivestimento dei sedili. Era consigliabile mangiare di tanto in tanto qualcosa di secco e, soprattutto, di salato. Oggi da Firenze con l’Eurostar si arriva a Roma in un’ora e ventotto minuti; da Roma a Cantalupo in pullman la ci si fa in due ore e mezzo, appena tre se le strada è bagnata o se intorno a Isernia c’è traffico. Siamo tuttavia sicuri che ora sia più “bello” di ieri? Di sicuro più ‘comodo’ è. E’ anche pratico, conveniente, sfrecciare da Firenze a Napoli in appena tre ore (al massimo tre e un quarto) o da Milano a Bari in sette o otto ore appena. Ma si perde qualcosa. Si perde il senso della distanza. Si perde il senso stesso del viaggio, del viaggio che ‘deve’ recare con sé qualcosa di inedito, di curioso, di singolare. Di dolcemente ‘epico’. Si perde il gusto dell’incontro, della conversazione, sul treno o sul pullman: i viaggiatori chiamati a trascorrere un paio d’ore appena sul convoglio ferroviario o sul pullman, neanche ci pensano ad avviare una chiacchierata o a ‘studiare’ il ‘dirimpettaio’. Non si guardano nemmeno. Non vogliono neppure essere guardati. Rifuggono lo sguardo altrui. Ne sono quasi infastiditi. Prima, no. Prima ci si avvicinava, si simpatizzava. Dopo tre o quattro ore di viaggio, avevamo raccontato la nostra vita al signore o alla signora che sedevano di fronte, o di fianco a noi. Avevamo rilasciato confidenze al signore o alla signora che il Caso ci aveva fatto incontrare sul treno o sulla corriera. C’eravamo confessati. C’eravamo aperti. E loro s’erano aperti con noi. Grandi amicizie nacquero un tempo sui nostri treni, sulle nostre corriere. Vi sorsero anche grandi amori, vi sbocciarono flirt, vi s’intrecciarono complicità. Dopo quattro o cinque ore di treno o di torpedone, ci sembrava di averli sempre conosciuti il compagno o la compagna di viaggio allegri, espansivi, cordiali, animati da sana curiosità. Proiettati verso gli altri, più ancora che verso se stessi. Era una vita dolce. Ben più dolce di quella che siamo chiamati a condurre oggigiorno. Di sicuro, più umana. Benché ora non si faccia altro che parlar d’”amore” e l’amore neanche sappiamo che cos’è… Le mie milizie… A Roma la notte la passavamo da certi parenti che abitavano in Via Giambullari o da altri che vivevano in Piazzale Ardeatino. Talvolta s’andava al “Massimo D’Azeglio”, vicino alla Stazione Termini. Il giorno dopo, finalmente, giungevamo a Roccamandolfi… Guadagnavamo così la nostra ‘Shangri-la’… Il viaggio era appunto terminato. Terminato dopo non si sa neanche quante ‘leghe’… E sembrava che fosse durato non uno o due giorni, ma settimane, settimane intere… L’arrivo a Roccamandolfi mi elettrizzava. continua alla pagina seguente ►►► FORCHE CAUDINE – PAGINA 27 ►►► segue dalla pagina precedente Cominciavo subito a scalpitare sotto il sole gagliardo e nell’aria asciutta dell’estate roccolana. Di anno in anno, al mio ritorno radunavo in paese le mie “milizie”. Venti, trenta, anche quaranta bambini e ragazzini del posto, ‘autoctoni’, i quali scattanti come grilli, instancabili come cavalli normanni sembrava che non aspettassero altro. Fabbricavamo in poche ore bellissime spade di legno, trasformavamo cenci, stracci, in bandiere, stendardi, gagliardetti; ci procuravamo barattoli e carburo (le “bombe a mano”!) e nelle forre, nelle selve, sulle balze, fra i crepacci, andavamo all’assalto di agguerritissimi eserciti che, ‘naturalmente’, sbaragliavamo dopo epica lotta. Il più delle volte tornavamo a casa con le ginocchia e i gomiti spaccati e con qualche bel livido sulle gambe o sulle braccia, ma fieri, appunto, di aver riportato ancora una volta una strepitosa vittoria! Era il 1952, il 1953, il 1954, il 1955. Nel ’54 la televisione non aveva ancora raggiunto il Mezzogiorno (vi sarebbe arrivata fra il ’58 e il ’59) mentre a Roccamandolfi la radio ce l’avevano, sì e no, dieci o dodici famiglie sulle due o trecento del borgo. Ce n’era una, però, al “Caffè Risorgimento”: un apparecchio marroncino, panciuto, fornito di bellissime manopole bianco sporco. Il proprietario del locale, Mencuccio (alto uno e ottanta mentre suo padre Mattia sfiorava appena il metro e cinquantacinque…), ne aveva una cura scrupolosa, religiosa: lo spolverava in continuazione, lo contemplava; poco ci mancava che ci parlasse. Introverso, taciturno, forse un depresso senza sapere d’esserlo, Mencuccio pareva mostrare più cura appunto per gli oggetti che per le persone. Ma chissà… Nessuno lo vide mai sorridere in tutta la sua vita. Nessuno lo vide mai gioire, né tantomeno esultare. L’uomo passava giorni interi senza aprir bocca e aveva spesso l’aria dell’afflitto o dello scocciato. Ma con gli avventori si comportava in modo impeccabile, ‘signorile’: trattava tutti allo stesso modo, lo stagnaro e il notaio, l’ingegnere e il muratore, l’ufficiale postale e lo spaccapietre. Faceva anche credito. Tutti gli esercenti, tutti i negozianti di Roccamandolfi (come quelli degli altri paesi del Meridione di allora) facevano credito alle donne - alle madri di famiglia - le quali in negozio si presentavano trepidanti e un po’ in soggezione col ‘libretto’, il taccuino su cui veniva di volta in volta segnata la somma di denaro dovuta dal cliente. C’erano famiglie che per forza di cose saldavano ogni due o tre mesi, anche sei. Alcune il conto lo pagavano a fine anno. Altre liquidavano dopo un paio d’anni, grate per la comprensione, per la fiducia ricevute. Era un modo di vivere, sissignori, molto umano. A me, da bambino, sembrava “lo stile sannita”! Lo stile sannita Ma “lo stile sannita” era anche un altro. Consisteva in sessioni di pugilato che potevano durare una, due ore, anche più. Sessioni con due soli contendenti (soggetti fra gli undici-dodici anni e i tredici-quattordici) seguiti da una folla di bambini e ragazzi ora rumorosa, ora silenziosa, comunque attenta, partecipe. I due avversari se le davano di santa ragione. Bava alla bocca, la collera negli occhi, fra una smorfia e l’altra di coraggio, disprezzo, ira, senso di superiorità, i due ‘nemici’ di turno si pestavano con coraggio, temerarietà. Si massacravano. Si massacravano lanciando con voci stentoree minacce impressionanti: “I’ t’accid!”, “I’ te facc’e!”, “I’ te streppeio!”. Traduzione: “io t’ammazzo”, “io ti distruggo”, “io ti ti sfiguro”. Altro che Mohammed Alì o Marvin Hagler, Marciano o Antuofermo… Cazzotti rapidi e poderosi sibilavano nell’aria e spesso centravano il bersaglio. Non di rado, uno che avesse già incassato colpi numerosi, ben portati, durissimi, trovava grazie al proprio orgoglio (giustamente ‘smisurato’,,,) la forza di contrattaccare e quindi, pur ammaccato, sanguinante, tumefatto, reagiva con efficacia nell’incontenibile, iracondo, soprassalto e piegava il ‘nemico’ che fino a un minuto prima, o anche meno, era apparso come il padrone del campo. Le contese non avvenivano in spazi ristretti. Anzi. Potevano esplodere nei pressi della chiesa di San Giacomo, nel centro di Rocca, e finire all’”Edificio” (così chiamata la nuova sede delle Scuole Elementari costruita intorno al 1930), sulla “rotabile” che porta a Cantalupo: un bel tragitto, un tragitto di un chilometro o quasi, fra le case, gli orti, le rimesse; nella polvere bianca, densa, polvere ”roccolana”. C’erano, tuttavia, i “rounds”… Tacitamente, i due avversari s’accordavano circa la necessità di riprendere di volta in volta fiato. Poi il pugilato riesplodeva, di colpo, più intenso e più selvaggio di prima. Per consuetudine, per plurisecolare, o, chissà, plurimillenaria consuetudine, il confronto non poteva finire in parità: dovevano esserci, per forza, un vincitore e un vinto. Il vincitore in genere si chinava sul vinto, esausto, sdraiato sul terreno, stordito dalla valanga di botte prese, e diceva pressappoco: “Che non si ripeta più… Ho tutto dimenticato, tutto!”. Bastava una parola fuori posto, bastava un’allusione giudicata poco carina, bastava un’offesa, un gesto ritenuto oltraggioso, perché due ragazzi roccolani decidessero di risolvere la questione con le maniere forti. Rancori, tuttavia, non ne rimanevano: la contesa lavava quel che c’era da lavare… Quello che più mi colpiva, era il distacco dei genitori dell’uno e dell’altro contendente. Non vidi mai in tutti quegli anni un padre o una madre prendere le parti del figliolo impegnato nell’aspro combattimento o reduce dall’aspro combattimento. Non si creavano frizioni, dissapori, ostilità fra le due famiglie. Le famiglie lasciavano che i ragazzi se la sbrigassero da soli, con le loro sole forze, con la loro sola volontà. Venivo da Firenze e avevo amici e compagni di scuola aggressivi, risoluti. Ragazzi che sapevano picchiare, tipini mai domi, animati - già a dieci, undici, dodici anni - da una sconfinata fierezza. continua alla pagina seguente ►►► FORCHE CAUDINE – PAGINA 28 ►►► segue dalla pagina precedente Ma i “corpo a corpo” che avvenivano a Roccamandolfi cinquanta, sessanta e più anni fa, erano davvero ‘qualcos’altro’. Parevano ‘primitivi’. Anzi, erano ‘primitivi’ o, comunque, molto ‘antichi’. I fiorentini del Novecento, come quelli dell’Ottocento, rappresentavano del resto una società non più omogenea in senso antropologico, ‘etnico’, diversa, piuttosto diversa, dalla ‘fiorentinità’ dei tempi di Anghiari, Montaperti, Campaldino… I roccolani, no: i roccolani di mezzo secolo fa nel loro complesso erano ancora “gli stessi” roccolani di mille o duemila anni prima. Non sentivano il freddo, resistevano bene alla fame e alla sete, sfidavano la sorte, la sfidavano con allegria, con spavalderia, anche per capire - in modo comunque inconscio - fin dove potessero arrivare. Una ‘manager’ ante litteram Roccamandolfi è un luogo remoto, appollaiato sotto i monti del Matese, versante adriatico. Tuttora non v’è una strada di transito: la strada, quella che da parte da Cantalupo, là si ferma. E’ la “rotabile”, sinuosa, strappata alla roccia (a quanto mi risulta) intorno al 1895 da eccellenti ingegneri, da eccellenti operai. Prima che la “rotabile” fosse inaugurata, a Rocca ci si arrivava solo attraverso due sentieri, due mulattiere, anzi: quella che saliva da San Massimo, dal fondovalle ubertoso, movimentato; quella che scendeva, scoscesa (impraticabile o quasi fra novembre e marzo), da Castelpizzuto, da Letino, dalle sommità del Massiccio del Matese. Nei tempi antichi si diceva che se uno non voleva farsi trovare e ricominciare indisturbato daccapo, bastava allora che raggiungesse Roccamandolfi per poi sistemarvisi. Come fece difatti il mio bisnonno paterno Giovanni, irpino, soldato dell’Esercito delle Due Sicilie, sbandato e, a quanto si dice, rincorso da un mandato di cattura per omicidio: in Irpinia, avrebbe assassinato a rivoltellate la fidanzata, sorpresa in un frutteto con un altro uomo del cui destino, però, nulla si sa. Roccamandolfi fece la fortuna del mio bisnonno: vi incontrò la mia bisnonna, Candida Baccaro, la cui famiglia possedeva terre fertili, un po’ a valle, esposte al sole, e da quel momento in poi lui altro non dovette fare (oltretutto, era bene che rigasse dritto, senza dare troppo nell’occhio…) che seguire con diligenza l’ingegno della moglie bionda, occhi celesti, fronte spaziosa; della roccolana sveglia, spigliata, intraprendente, che scriveva poesiole e studiava il Francese. Il matrimonio ebbe luogo nel 1867. Giovanni aveva ventinove anni; Candida, diciassette. Lei così sposò il forestiero alto, dinoccolato, di bell’aspetto, versato in Latino, arguto e spiritoso, e il ‘forestiero’ con un passato da nascondere (ma che, alla lunga, non poté essere nascosto!), sposò una ‘manager’ assolutamente “ante litteram”… Dalla loro unione nacquero nel 1869 la zia Mariannina, nel 1874 la zia Elia e, nel 1884 (il 3 di gennaio), il mio nonno Antonio, detto Nino. Il quale per lavoro nel 1910 – l’anno dopo aver ottenuto a Pavia la laurea in Ingegneria e Fisica con specializzazione in ponti e strade – fu assunto al Genio Civile e inviato in Toscana, dove conobbe la mia nonna Piera, pistoiese doc. Fu così che nacque il ramo toscano della famiglia. Ed ecco perché ogni estate da Firenze andavamo a Roccamandolfi. Andavamo in un “altro mondo” davvero… Un mondo che nel bene e nel male, nella gioia e nel dolore, pareva un film, un grande, interminabile film… I loro cognomi I roccolani sono Sanniti. Così sanniti, e un po’ romanizzati, che fra il VI e il VII Secolo seppero assorbire i Longobardi (e poi gli Svevi, gli Aragonesi) insediatisi in paese. Nella loro parlata del resto non c’è nulla di germanico: la loro parlata è di ceppo partenopeo, impermeabile - fra il Cinque e il Seicento - anche alla lingua spagnola, sebbene certi studiosi dicano il contrario… Anzi, la “lingua” roccolana fino a meno di un secolo fa conservò termini latini tipo “cra” e “biscra”, vale a dire, “oggi” e “domani”. Forse Latino del volgo, ma pur sempre Latino… I cognomi dei roccolani sono questi: Scasserra, Gianfrancesco, D’Andrea, Pinelli, Castrilli, Del Riccio, Farrace, Berlingieri, De Filippis, Baccaro, Ciallella, Bojanelli, Martelli, Lombardi, Iannitelli, Rizzi, Di Marco, Ricciardone, Forgione, Cimino, Innamorato, D’Angelo, Di Castro. Solo i “Martelli” e i “Lombardi” non sembrano poi tanto ‘autoctoni’, anche se a Rocca risiedono ormai da secoli… Come i “Berlingieri”, la cui origine non è del tutto sannita o romana, ma, verosimilmente, germanica. O germano-iberica. A Roccamandolfi si vive fin dall’Età del Bronzo, se non da prima ancora… Sfido io: a Rocca c’è una sorgente, chiamata “Trainara”, in fondo al paese, incassata fra le montagne, dispensatrice di acqua fredda, anzi, gelida; gelida anche a luglio, agosto. Fino a meno di trent’anni fa, numerosi paesani d’estate andavano alla “Trainara” e collocavano bottiglie di birra sotto le tre generose cannelle che sporgevano dalla roccia, roccia dura, durissima; ma, qua e là, friabile, farinosa. A molti di noi piace pensare che la “Trainara” ci fosse già due o tremila anni fa. Secondo me, c’è da parecchio più tempo ancora, dal Paleolitico, dal Neolitico, se non da ere più remote ancora. A fianco della “Trainara”, ormai sommersi dalla vegetazione fitta, spessa, si trovano i resti di un mulino. Di un mulino ampio, massiccio, in cui sgobbavano quindi chissà quanti roccolani che da esso traevano il giusto compenso. Non sappiamo, però, quando - e come - questo mulino andò in disuso. A giudicare dalla ‘vetustà’ dei suoi resti, e dalla vegetazione che appunto lo avvolge, lo nasconde, probabilmente ci andò almeno un paio di secoli fa. Il luogo, anche sotto il sole e alla luce abbacinante dell’estate, è cupo, è lugubre: rappresenta infatti l’abbandono, rappresenta ‘la fine’, la fine avvenuta non si sa bene, no, in quale epoca, e che a famiglie roccolane dovette per forza esser costato delusione, angoscia, patemi. continua alla pagina seguente ►►► FORCHE CAUDINE – PAGINA 29 ►►► segue dalla pagina precedente Nessun servilismo A Roccamandolfi un tempo la dissenteria non colpiva soltanto bambini o ragazzini di città come me che vi soggiornavano d’estate. Colpiva anche i piccoli, i piccolini del posto. La nonna Piera arrivava a Rocca sempre provvista di fermenti lattici, scatoloni di fermenti lattici, la cui distribuzione avveniva in casa nostra, o sotto casa nostra, nell’ordine, senza chiasso, con disciplina, disciplina ‘pistoiese’, disciplina ‘roccolana’. Le donne, la mamme, le sorelle maggiori ringraziavano con eleganza e dignità sannite. Ringraziavano senza atteggiamenti servili, o ‘pittoreschi’. I roccolani non conoscevano, e non conoscono, il servilismo. Non sapevano, e non sanno, che cosa esso sia… Nel loro modo di fare si delineava questo tacito concetto: io vi seguo, voglio esservi d’aiuto, voglio rendermi utile, ma senza che voi poi vi sentiate autorizzati a pretendere chissà cosa da noi, senza che dobbiate poi farci pesare il vostro ‘bel gesto’, senza che dobbiate accampare ‘diritti di superiorità’ nei nostri confronti. Eccoli i roccolani, i montanari del Matese. Gente, sì, ancora sannita. C’erano mosche a Roccamandolfi. Mosche dappertutto. Sfido io: ogni santo giorno, muli, asini, capre, pecore, cani da guardia, anche cavalli, attraversavano il paese. C’erano merde massicce, fumanti, quasi ovunque… A toglierle dalla circolazione ci pensavano il Comune, i roccolani stessi che di fronte alle loro case quei monumentali escrementi di certo non ce li volevano; e le piogge, le piogge che cominciavano nella seconda metà d’agosto e che a settembre inoltrato si facevano frequenti, insistenti. A ottobre arrivava il diluvio. La pioggia, così, lavava Roccamandolfi. La lavava bene grazie alle scalinate delle quali è fatto il paese. Anzi, Rocca, con l’eccezione della parte bassa, quella che si stende lungo la “rotabile”, è tutta ‘una scalinata’, suggestiva, spettacolosa, ramificata. E’ un reticolo di scalinate, viuzze, vicoli. Così si è sviluppato il paese attraverso i secoli, anzi, i millenni. C’è la Rocca medievale, sia giù alla “Trainara”, che ‘in coppa’; c’è la Rocca del Cinque e Seicento - a mezza costa - e c’è quella dell’Ottocento e del primo Novecento che scorre appunto sulla “rotabile”. Poco sopra la “Trainara”, per esempio, si trova tuttora un fabbricato basso, ma molto ampio, fatto di tufo, con pochissime finestre, finestre anguste, quadrate, che finestre nemmeno sono… Si vede che l’edificio è del Due o del Trecento! E’ un edificio “muto”, dall’aria ‘solitaria’, malinconica, povera. Non vi ho mai visto nessuno. Nessuno che vi entrasse, nessuno che ne uscisse. Torniamo alle mosche. Le quali non davano tregua. Erano piccine, erano ‘petulanti’, assillanti. Si appiccicavano non solo su asini, muli, cavalli; ma anche sul capo, sulle gote, sulle mani e le gambine dei bambini, bambini di due, tre anni che sedevano sugli scalini delle loro case o nelle minuscole piazzole antistanti. Le mamme o le nonne non sempre avevano tempo per liberare dal martirio i piccini. Ma tanti piccini ormai neanche più s’accorgevano delle bestiole così ferocemente attaccate alla loro pelle. Bestiole che ne lambivano, e a volte ne aggredivano, le labbra, le orecchie. A settembre, poi, arrivavano gli scorpioni, neri, veloci, anche piuttosto grossi. Uscivano dagli interstizi, dalle intercapedini, dalle fessure: te li ritrovavi in camera, in cucina, in salotto. Nelle intercapedini scorrazzavano soprattutto i topi, i quali, specie di notte, nella loro misteriosa frenesia, facevano un gran trambusto. “Non è nulla, non sono che i topi…!”, diceva a letto, compassata, imperturbabile, la nonna Piera a me che apparivo un poco impaurito. Poi, fra i sette e gli otto anni, cominciai a farcela anch’io l’abitudine al fracasso, continuo, provocato dai topi, specie fra la primavera e l’autunno; molto meno in inverno. Le loro aspettative Arrivavo a Roccamandolfi pieno di giocattoli. Ricevevo altri giocattoli quando a Rocca, in agosto, da Firenze mi raggiungevano mio papà e mia mamma. Ricordo che un giorno (sarà stato nell’estate del ’53 o del ’54) dai miei genitori ricevetti un cannone che sparava bellissime palle bianche, ciascuna delle quali il doppio di due palline da tennis messe insieme. Giocattolo prodigioso, giocattolo insuperabile, che si aggiungeva alle pistole a tamburo ‘Pecos Bill’ (dodici colpi!) e a tanti altri strumenti fabbricati per la delizia dei bambini di allora. Per la delizia dei bambini ‘ricchi’ come me… Solo che già a quei tempi la mia famiglia qualche rovescio finanziario (dovuto alla guerra, dovuto anche alle circostanze, inesplicabili) l’aveva subito e, quindi, tanto ‘ricchi’ più non eravamo… Eppure, per me il bel giocattolo vistoso e scintillante c’era sempre. Insieme ai fumetti, “Pecos Bill”, “Oklahoma”, “L’Intrepido”, “Il Monello”, “Rataplan”, “L’Impavido”, altri ancora. Così, ogni estate, al mio arrivo a Roccamandolfi, i miei compagni di giochi mi stringevano d’assedio… Nelle loro voci afone o argentine, domandavano subito: quando te ne vai, questo giocattolo a chi di noi lo lasci?? Questi ‘giornalini’ (fumetti, appunto) a chi li lasci?? Ricordo benissimo le loro espressioni. Espressioni di bambini vestiti di stracci, eppur lucenti, quelle espressioni; sguardi guizzanti, amichevoli, gioiosi, “ansiosi”. Occhi di fanciulli i quali avrebbero accettato con somma gioia anche un solo ‘giornalino’, anche un pugnale o una daga di gomma da duecento lire… A loro bastava il gesto. Bastava il pensiero. Gesto e pensiero che mai avrebbero dimenticato. I ragazzini della Rocca di allora avevano una memoria da elefante… Tutto ricordavano. Tutto, nei minimi dettagli. Alla fine delle vacanze, alla vigilia della partenza per Firenze, lasciavo ciò che avevo ai miei esultanti compagni di giochi, poveri in canna, ma animati – come i loro genitori, i loro nonni – da nobiltà d’animo. Quella mi sembrava la cosa giusta da fare. La cosa più naturale da fare. Naturale come l’esistenza stessa della Terra, naturale come l’esistenza stessa di Roccamandolfi. Ripartire per la città coi giocattoli sarebbe parso volgare ai bambini del paese. continua alla pagina seguente ►►► FORCHE CAUDINE – PAGINA 30 ►►► segue dalla pagina precedente Sarebbe stato, sì, un atto volgare, una grossa indelicatezza, una ‘sconvenienza’. Sarebbe stata dimostrazione di egoismo, di piccineria. Di mediocrità. In casa mia, del resto, vigeva un principio non scritto, tacito… Mescolarsi ai ragazzi del posto, stringere amicizia coi ragazzi del posto, poiché “noi non siamo superiori alle loro famiglie”. Ma non c’era ombra di paternalismo nel modo di fare dei miei familiari verso i roccolani. I quali, questo, lo notavano eccome; notavano tutto i roccolani, istintivi, perspicaci, acuti. C’era tutto il paese ai funerali del nonno Nino, che avvennero il 7 marzo 1955, sotto la pioggia battente, alla sferza della Tramontana. C’era tutto il paese ‘anche’ al funerale (il 5 giugno 1980) della nonna Piera, la pistoiese doc giunta una prima volta a Roccamandolfi nel 1920, poco dopo le nozze col nonno. Da Rocca la nonna restò folgorata. Non aveva mai visto nulla di simile in vita sua, lei che appunto veniva da Pistoia e che da bambina e da ragazza andava al mare a Livorno (ai Bagni Pancaldi) e quindi nella campagna pistoiese, in luoghi chiamati Gello, La Cugna, San Biagio in Cascheri, posti ‘dolci’, ‘carini’, ‘bellini’, puliti, insomma, ben tenuti. Diversi, profondamente diversi, anche nello spirito e nella forma mentis delle genti che vi abitavano, da Roccamandolfi, dal borgo del Matese dove, arrivandoci per la prima volta, i casi erano due: o te ne innamoravi all’istante o non t’andava di passarci neanche mezza giornata… Alcuni, incapaci di superare il ‘blocco’ alzato dalle cacche, dalle mosche, dai somari, dai muli, dalla polvere, dalla “strana” parlata locale, ripartivano, sì, il giorno stesso o il giorno dopo. Ma erano molto più numerosi coloro i quali venivano colpiti in un baleno dal misterioso potere del paese, dalla bellezza della polvere bianca, dalla bellezza degli altri colori (il celestino di certe case, il rosa di altre); da quella delle scalinate fatte con la lava e col travertino, degli archi, volte, vicoli, balconi ricolmi di fiori. Colpiti dalla comunicativa, dalla gentilezza, dalla fierezza della gente e dalla musicalità del dialetto locale. Stregati dalla maestosità delle montagne e dall’atmosfera singolarmente simile a quella del Deserto: l’atmosfera che tutto ti fa dimenticare, sei hai bisogno e voglia di dimenticare. Tutto… Così accadde appunto alla nonna Piera, che aveva vent’anni quando mise per la prima volta piede a Roccamandolfi: le sembrò d’esservi ‘tornata’, le sembrò d’averci già vissuto. Dopo pochi giorni, tutto, dei roccolani, le era familiare: il dialetto, la verve, l’immediatezza. La disinvoltura. Le erano familiari gli scorci, gli infiniti scorci del paese, uno più incantevole dell’altro. Le era familiare l’”assenza” delle ore, dei minuti: a Rocca ci si regolava in base all’alba, al mezzodì, al pomeriggio, all’imbrunire, alla notte… “Nove e dieci” o “undici e quaranta”, non avevano senso… Non avevano significato! Tranne che per l’Ufficio della Posta e del Telegrafo, che veniva fatto funzionare come un ‘orologio svizzero’, e per le autolinee comunali, un orologio svizzero anch’esse. La nonna già nell’estate del ’37 o del ’38 a Rocca circolava beata in pantaloni: pantaloni neri o pantaloni blù. Continuò a portare i pantaloni fino ai giorni della sua ultima estate roccolana, quella del ’78. Ma non si ha ricordo di roccolani che mostrassero sorpresa, meraviglia, o che ricorressero allo scherno, alla spiritosaggine sciocca, gratuita. La società roccolana era una società “evoluta”. Altro che “arretrata”! Era una società senza ‘guitti’. Manlio Mainelli Ma di “attori”, di “commedianti”, ce n’erano - a onor del vero - anche a Rocca… Erano personaggi inconfondibili, ciascuno con una propria, ben definita natura. Un poco altèri, ma in modo innocente; sussiegosi più all’apparenza che nella sostanza; solenni, piuttosto solenni, ma niente affatto pomposi, tutt’altro che prosopopeici. Istrionici, mai. Benchè il paese fosse popolato di gente estrosa, piena di vita, effervescente, a Roccamandolfi in tutta la mia vita non ho incontrato un solo istrione, un solo gigione. Il più grande “attore” di tutti era Manlio Mainelli. Manlio Mainelli era nipote del molto autoritario, eppur amabile, notaio Mainelli, giurista, umanista, latinista – e proprietario terriero. Fra gli Anni Quaranta e Cinquanta, della stirpe Mainelli non erano rimasti che loro due, zio e nipote, entrambi scapoli. Vivevano insieme nella ‘dimora avita’, una casa del Seicento a due piani, immensa, bene arredata, un po’ disadorna qua e là, con grandi finestre. Il portone si trovava sulla via che collegava (e collega) l’antico ingresso del paese alla scalinata che a sua volta conduceva (e conduce) a Palazzo Pignatelli, vale a dire al centro del borgo. Sull’altro lato la magione guardava a Oriente, al fondovalle che fra le montagne scorre fra balze, declivi, selve, verso San Massimo, verso la Piana di Bojano. Il colpo d’occhio era uno spettacolo: nelle giornate limpide, si scorgeva il colle di Ferrazzano, quasi s’intravedeva – a quindici o ventimila metri in linea d’aria – la periferia di Campobasso! Manlio era un uomo alto, imponente, grassoccio, un po’ bolso, dall’aspetto severo, ma non troppo. La natura tuttavia non era stata tanto generosa con lui. Si diceva che non gli avesse dato la tempra, la grinta dei Mainelli. Manlio era un incostante o, perlomeno, incostante in tutto ciò che poteva riguardare il disbrigo delle pratiche quotidiane. Un lavoro non avrebbe saputo mantenerlo. Forse non avrebbe neanche saputo obbedire come si ubbidisce in ufficio, in fabbrica, nell’Esercito. Di sicuro, non sapeva comandare. Faceva il grave, il burbero, il ‘duro’, ma non era né grave, né burbero, né tantomeno ‘duro’: non incuteva soggezione a nessuno. Il suo mondo si divideva in due sfere: quella della fantasia e quella dei rapporti con amici, conoscenti (pochi). continua alla pagina seguente ►►► FORCHE CAUDINE – PAGINA 31 ►►► segue dalla pagina precedente Con la fantasia viaggiava in mezzo mondo, visitava metropoli, attraversava oceani, incontrava grandi personalità dalle quali riscuoteva affetto e stima. Con gli amici s’imbarcava - infervorandovisi come un fanciullo - in complicatissime analisi della ‘scena politica internazionale’, analisi che lui sviluppava soprattutto d’estate, durante le passeggiate lungo la “rotabile”, fra le sei e le sette di sera, in compagnia di mio zio Peppino D’Andrea, il quale, imperturbabile, si limitava a tacere e ad ascoltare. Corrispondente da Roccamandolfi del “Giornale d’Italia”, ogni giorno, specie con mia nonna e con Peppino D’Andrea, ripeteva la solita frase, con aria artefatta (eppur simpatica!) da personaggio che vuol farsi credere indaffaratissimo: “Ho così tanta posta da evadere, ma così tanta…! Mi ci vorrebbe un segretario, ma non ne trovo uno!”. Diceva di lavorare per giornali e riviste francesi e tedesche alle quali inviava saggi e articoli in francese e in tedesco. Parlava di sue commedie e tragedie che venivano rappresentate con straordinario successo nei più prestigiosi teatri d’Europa. A sentir lui, ministri degli Esteri, grandi industriali, generali, ammiragli, esploratori, grandi inviati speciali lo consultavano allo scopo di ricevere la necessaria ‘illuminazione’, gli telefonavano ogni giorno o lo inondavano di telegrammi… Spesso gli inviavano corrieri che però a Rocca arrivavano sempre a notte fonda, quando in giro non c’era un’anima… Non solo: lui conosceva il Sanscrito, conosceva a menadito e per “”esperienza diretta”” - ogni litorale del Mediterraneo e ogni ramificazione del Delta del Nilo… La sua Conoscenza abbracciava anche l’archeologia, la botanica, perfino il Nucleare… In politica si dichiarava socialista monarchico. Era un anglofilo, questo lo era davvero, un fiero anglofilo con tutta la bella, toccante ingenuità del caso. Schiacciato dalla massa abnorme della propria debolezza, come svuotato nell’assetto nervoso da chissà quale insaziabile ‘bestia’ che in lui s’agitava (almeno così credo) fin dai tempi della pubertà, uno così in un paese del Casentino o della Garfagnana, del Parmense o del Reggiano, sarebbe stato prima o poi spinto al suicidio o, nella ‘migliore’ delle ipotesi, se ne sarebbe deciso il ricovero in manicomio. A Rocca, invece, nessuno si fece mai gioco di lui. Mai nessuno di lui si burlò. Nessuno mai di rispetto gli mancò. Si vedeva che non sempre era ‘presente’. Si vedeva che, spesso, la sua mente volava via e chissà dove volava. Manlio discorreva di imprese mai realizzate, di città mai viste, di esponenti politici mai conosciuti… Ma non parlava mai di sé. La propria personalità gli era molto chiara, è verosimile che lui nell’intimo se ne vergognasse. Dopo la morte dello zio notaio, i suoi sbalzi d’umore si fecero più frequenti: muto da ore e ore, di colpo ripigliava a chiacchierare e non c’era nessuno che potesse fermarlo, nemmeno Peppino D’Andrea, il suo unico, vero grande amico. Appunto, il grande ascoltatore. Questo era un uomo che avrebbe voluto diventare un grande giornalista o un celebre chirurgo, un gran soldato o un alto dirigente di partito: ma lui capiva di non averne le qualità, s’accorgeva che in nulla era veramente versato. Questa fu una delle sue tragedie. L’altra sua tragedia, la Donna. La figura femminile, che per lui sempre fu un mistero, lo eccitava. Da ragazzo lo eccitava in un modo che in lui si rivelava con una spasmodicità visibile, anche ‘troppo’ visibile; meno visibile - ma pur sempre presente - dagli anni della prima maturità in poi. La Donna lo paralizzava. Lo ottenebrava. Manlio, chiuso nelle sue paure, torturato da forze oscure e invisibili, prigioniero di una timidezza altrettanto inesplicabile, non sapeva corteggiare una donna, non sapeva conversare per più di cinque minuti con una donna: cominciava a sudare, perdeva il filo logico, incappava nella balbuzie, inventava qualcosa pur di allontanarsi, lui, lui che appunto subiva in maniera così profonda, il fascino femminile. Ma era proprio per questo che scappava… Proprio per questo che fuggiva senza trovar mai l’approdo sperato. Povero Manlio: visse la propria vita sognando un bacio che mai ricevette, sognando un bacio che mai potè dare. A nessuna donna seppe dire “vi amo”, da nessuna donna si sentì dire “vi amo”. Di quest’uomo, di quest’infelice che talvolta riacquisiva però un’aria fanciullesca, innocente, conservo un gran bel ricordo. Manlio Mainelli era un signore. Un gran bel signore: io che ero bambino, da lui ricevevo le attenzioni che in genere si riservano, o a quel tempo si riservavano, agli adulti. Anzi, in certe circostanze lui mostrava deferenza nei miei riguardi, una deferenza che non mi sfuggiva allora e che adesso mi commuove. Ecco, a quell’epoca lui mi sembrava un ragazzo un po’ invecchiato, ma pur sempre un ragazzo, Manlio Mainelli. continua alla pagina seguente ►►► FORCHE CAUDINE – PAGINA 32 ►►► segue dalla pagina precedente Il clou dell’estate Il ‘clou’ dell’estate a Roccamandolfi lo si raggiungeva per la festa di San Liberato e per la festa di San Donato. La festa di San Liberato cadeva (e cade) nella prima domenica di giugno; la festa di San Donato nella prima domenica di agosto. Delle due, quella più sentita era la festa di San Liberato, il cui corpo, incartapecorito, è tuttora custodito - e alla vista del pubblico - nella chiesa di San Giacomo. Ma le celebrazioni in onore di San Donato richiamavano molta più gente, se non altro per il fatto che ai primi d’agosto a Rocca c’erano più villeggianti che mosche e topini… Per San Donato, arrivavano le bande, le orchestre: venivano dalla Puglia, da Gravina, da Gioia del Colle e, se ben rammento, da Acquaviva delle Fonti. Erano bande di prim’ordine, costituite da venti, anche trenta elementi, tutti in uniforme scura, tutti un poco marziali, ma anche un pochino ‘caserecci’… Più marziali, comunque, che caserecci! I musicanti in genere arrivavano la sera della vigilia, venivano alloggiati presso l’”Edificio”, accuditi di tutto punto da roccolane allegre e pimpanti, capaci di preparare piatti squisiti e abbondanti col solo uso di spaghetti, cipolle, pomodori, d’un po’ di carne di cavallo (o di mulo…), qualche altro povero ingrediente. La mattina dopo, secondo la tradizione (a detta degli storiografi, nata nel Settecento), i musicanti effettuavano con la dovuta pompa il proprio ingresso in paese: suonavano miscellanee di Verdi, Mascagni, Puccini, anche Massenet. Cominciava l’”apoteosi”! I roccolani si accalcavano frizzanti e gioiosi intorno alla banda. Le donne salutavano dalle finestre, il tripudio era generale. Gli uomini – allevatori, contadini, fabbri, stagnari, muratori, falegnami, pecorai, spaccapietre, elettricisti, impiegati, mugnai, ‘signorini’ che vivacchiavano di rendita su qualche pezzo di terra e su cinque o sei dozzine fra mucche, capre, galline - uscivano ben rasati, vaporosi, in giacca e cravatta, a passo felpato, la sigaretta fra le dita (si trattava sempre di ‘Nazionali semplici’ o di ‘Alfa’ o di ‘Sax’: cannonate!), lo sguardo attento, attento e ampio come un periscopio. Le ragazze indossavano il ‘bel vestito’, in molti casi ricavato da abiti della mamma o della zia, anche della nonna. Sorridevano gaie. Si parlavano fitto fitto fra loro, non di rado arrossendo. Si guardavano intorno… Sbirciavano in ‘modo birichino’… S’illuminavano se scorgevano il ragazzo dei loro sogni o se arrivava un tale, da Caserta o da Benevento, da Campobasso o da Isernia, il quale rappresentava il loro ideale… L’ideale del loro senso estetico di sannite “pagane” per le quali la forma, la beltà, sono “sostanza”: non c’è “sostanza” senza forma o beltà. Del resto, sia per San Liberato che per San Donato, da Caserta, Benevento, Isernia, Agnone, Trivento, a Roccamandolfi arrivavano folle di scoppiettanti venditori ambulanti i quali nel chiasso che al chiasso aggiungevano - mettevano in bella mostra tomboli d’Isernia, pizzi, broccati, penne biro, zuppiere, piatti, posate, bicchieri, caraffe, scarpe da uomo e da donna, scarponi, calzettoni, camicie, maglioni, pancere, altri indumenti vari, eppoi mandorle, vellane, perfino panforti di Siena e così via. I più ammirati erano due o tre casertani, tutti dai capelli rossi, tutti slanciati, longilinei, sicuri di sé, compassati; “cool”, si direbbe oggigiorno. Uno di loro, un taciturno che viaggiava su una magnifica “Guzzi”, vendeva un alimento chiamato scapece, senza dubbio dall’alto potere nutriente… Non so tuttora di che cosa fosse fatta la scapece, soda, giallastra, ma ricordo più che bene che emanava un odore per me nauseabondo, pestilenziale. Eppure ai roccolani piaceva. Forse piaceva da secoli, da millenni! La questione doveva essere atavica. Ancestrale. Forse si cibavano di scapece anche i lavoranti del mulino sotto la “Trainara”… A sera arrivava il concerto. Il concerto si teneva in Piazza Marconi, chiamata, semplicemente, “piazza”: un lastricato di lava fra la chiesa di San Giacomo e una montagna, boscosa, che su Rocca si erge con aria protettiva, confortante, direi. In “piazza” si radunavano tutti i roccolani, anche gli infermi… C’erano fra la folla, il cui allegro brusìo cessava non appena il Maestro alzava la bacchetta, contadini, braccianti, manovali, pecorai; molti dei quali avevano, sì e no, raggiunto la Quinta Elementare; molti dei quali semi-analfabeti o analfabeti del tutto. Eppure, alla luce della Luna, ascoltavano Verdi, Mascagni, Puccini, a bocc’aperta, in raccoglimento, estatici. Concentrati. Rapiti dalle melodie eseguite dalle splendide bande pugliesi. Una bomba sarebbe potuta piombare sulla “piazza” e nessuno ci avrebbe fatto caso… A me tutta quella gente (gli allevatori, i contadini, i muratori, gli impiegati, le ragazze, i venditori ambulanti tipo i casertani dai capelli rossi, la banda che veniva dalla Puglia) dava un gran bel senso di libertà. Era come se a me bambino e poi adolescente, volesse dirmi, ma con ‘levitas’ davvero sannita, romana!: vivi la tua vita, senza sprecare tempo, sii lieto, sii buono con te stesso e con gli altri, guarda quante belle cose puoi fare, ma non chiedere mai l’impossibile, soprattutto non chiederlo agli altri. Questo, certo, l’ho capito in tempi recenti, ma un qualche influsso da parte di quelle belle persone dovette aver raggiunto la mia psiche nelle indimenticabili estati di allora, le estati del 1957, 1958, 1959, 1960. continua alla pagina seguente ►►► FORCHE CAUDINE – PAGINA 33 ►►► segue dalla pagina precedente I miei migliori amici Le estati del ’57, ’58. ’59, ’60… Le ricordo bene, eccome, alla stregua di quelle precedenti. Ne rammento l’atmosfera, lo spirito. Fra il ’58 e il ’59 a Rocca cominciarono – finalmente – a circolare più liquidi, vale a dire: quattrini! Questo, sia per le rimesse dall’estero degli emigrati, sia per l’effetto della Ricostruzione nazionale dalla quale era sortito l’ormai famosissimo fenomeno del “Boom”. C’era più lavoro, il potere d’acquisto della lira aumentava, si avviava quindi lo sganciamento dalla povertà, anzi, dalla miseria nera. I roccolani ora apparivano più sorridenti di prima, più allegri di prima, più fiduciosi, più pimpanti ancora. Era una meraviglia. Era un’alba nuova, dopo la ripresa, tristissima, dell’emigrazione fra il ’46 e il ’55-’56 o giù di lì… La Roccamandolfi del 1959, quindi, sotto quest’aspetto era felicemente diversa dalla Roccamandolfi del 1953, ’54, ’55. Diversa dalla Rocca nella quale, un giorno d’estate, in “piazza”, un bambino del posto a un tratto si gettò famelico su alcuni biscotti caduti di mano a mia mamma, seduta al caffè di Chiarina e Ettoruccio: il piccolino divorò in quattro e quattr’otto quelle ‘prelibatezze’, come se da esse fosse dipesa la sua propria vita… Mia madre allora comprò scatole di altri biscotti e le regalò al bimbo, che non so chi fosse e mi auguro che sia ancora vivo e che da tanto tempo conduca una vita dignitosa, serena. Quelle estati… Come dimenticarle?? Ricordo che i miei migliori amici erano: Liberato Napolitano (detto da mia nonna, chissà perché!, “Bernardo”), Raffaele, detto (ancora da mia nonna!) “Fischietto”, Liberato “Ranciumè”, Ermes Rettura (il figliolo di Colomba e Galileo), Michelino il figliolo di Addolorata, Mario Mazzuto, i fratelli “Pellerin’”, Mimmo Boianelli, Nicola il figlio del “mupo”, Gianni, l’atletico rampollo del farmacista carrista dell’”Ariete” in Africa Settentrionale durante la guerra, un signore “tutto d’un pezzo” che non si separava mai dalla propria rivoltella e viveva nell’ossessione che l’avvenente moglie lo tradisse… Si dice che un giorno il passionale personaggio andò alla caccia di un tizio “sospettato” di avergli insidiato la consorte e, risoluto e collerico, vi andò appunto con la rivoltella… Per fortuna, nulla di tragico accadde nella circostanza. Ormai non s’andava più a fare la “guerra” alle Castagnete o a Campdiciell’, alla “Trainara” o nelle cave di Santa Lucia… Passavamo il tempo a giocare a pallone, a bere le aranciate fatte con le ‘bustine’, a girovagare per il paese, a prenderci gioco di forestieri “buffi”, “ridicoli”… “Corpi estranei”! Passavamo il tempo, Liberato Napolitano e io, a sbirciare dal basso (bello il paese a scalinate…!) le ‘guagliole’ dalle forme appariscenti, le ‘guagliole’ che in noi provocavano insomma un ciclopico rimescolìo! Tipo una biondona, “fatale”, che abitava nei pressi della “piazza”, ma che dal ’61 o ’62 più non vedemmo… Emigrata, forse, chissà dove… A Roma o a Milano, a New York o a Perth… Già, chissà…Mistero. Fitto mistero. Quelle estati, s’è detto… Ma l’estate del ’59 venne però funestata dalla morte del figlio, del giovane figlio, di Bartolomeo, annegato al “Torrione”, come altri prima di lui. Il “Torrione”… Residuo della Glaciazione… Luogo ‘lunare’, incassato fra i crepacci che si aprono e si restringono a monte (se ben ricordo) di Santa Lucia. Un lago, un laghetto su cui non batte mai il sole, freddo, freddissimo, quindi, anche in piena estate. Eppure, ragazzi di Rocca ci andavano a fare il bagno… Per alcuni, l’ultimo bagno della loro breve, brevissima, vita. Al “Torrione” difficilmente raggiungibile per via del sentiero stretto e scosceso - mi ci portarono in varie occasioni, nel ’54 o nel ’55, Ermes Rettura e i suoi fratelli, Alfiero e Franco. Forse sono vivo per miracolo e questo lo devo al buon senso di Ermes, Alfiero, Franco Rettura. I quali, difatti, mi sorvegliarono sempre con una attenzione che in seguito non avrei riscontrato in nessun’altra persona. I roccolani erano fatti così. “Anche” così. Gli emigranti Gli emigranti. La partenza degli emigranti era qualcosa che quasi ti spezzava il cuore, ti scombussolava. Gli emigranti da Roccamandolfi partivano sempre fra le sette e le otto-nove di mattina. Nel distacco dal paese venivano seguiti, addirittura con mestizia, da parenti, amici. Non avevano fine gli abbracci, le raccomandazioni, i consigli. Non aveva fine il pianto. Il pianto di chi partiva e di chi restava. Gli abbracci erano appassionati, ‘ferrei’. Le lacrime, grosse, calde. Piangevano come viti tagliate uomini che per anni avevano dato la caccia ai lupi del Matese, che s’erano troncati la schiena sui campi, che con non chalance ‘sannita’, ‘matesina’, avevano superato ostacoli, vinto avversità. Non facevano grossi drammi quelli diretti in Germania, in Belgio o in Svizzera. Ma i roccolani che partivano alla volta dell’America, del Canada, dell’Australia, del Brasile o dell’Argentina poco prima di montare sulla corriera, poche ore prima di raggiungere Napoli, da dove si sarebbero imbarcati per attraversare quindi gli oceani, si chiedevano se Rocca l’avrebbero più rivista… continua alla pagina seguente ►►► FORCHE CAUDINE – PAGINA 34 ►►► segue dalla pagina precedente Roccamandolfi, svuotato dall’emigrazione: dai 3.300 residenti di inizio Novecento agli attuali 962. Molti di loro più non la rividero. Molti di loro morirono e furono sepolti nel New Jersey, nell’Ontario, nel Western Australia, nel Minas Gerais, nel Boca. Lo strappo era violento, ‘crudo’. Loro, all’uscita del paese, in cima al Muraglione, da dove nasce la “rotabile”, si guardavano intorno e nulla sembrava restargli della vecchia baldanza, della vecchia disinvoltura. Sapevano che nel giro di pochi minuti, alla loro vista sarebbero spariti il campanile della chiesa di San Giacomo, l’”Edificio”, il Camposanto, le montagne, la selva delle ‘Castagnete’, i ruscelli, i boschi e tutti gli altri luoghi così familiari: luoghi che nella loro psiche rappresentavano ‘il centro del mondo’. Rocca per loro era, sì, il centro del mondo con le sue plurimillenarie tradizioni, consuetudini, i suoi colori e sapori anch’essi antichi, di un’antichità immensa, calda. A tutti più vicina di quanto si potesse lì per lì pensare. Pur provvisti di un contratto di lavoro o comunque di un impiego, si mettevano in marcia verso l’ignoto e, come prima cosa, speravano di riuscire a farsi raggiungere oltreoceano nel giro di ‘pochi’ anni dalle mogli, dai figlioli, dalle madri, dalle sorelle o dai fratelli minori. La loro prima meta era questa. Questo diventava il cardine, lo scopo della loro vita. Andarsene in Paesi d’oltremare dove si parlava un’altra lingua, dove vigevano altre leggi e si seguivano altri usi, sembrava una condanna. Era una condanna. Un esilio… Nulla sarebbe più stato come prima. Nulla. Non vidi mai un roccolano partire per i ‘nuovi mondi’ contento, felice. Mai. Alice Cialella, bellezza di Roccamandolfi A furia di salire e scendere, si acquista una camminata sciolta, bella, “molleggiante”. Se, poi, fino dall’età di undici o dodici anni si va in giro con la ‘tina’ per ore e ore al giorno, allora sì che l’incedere presto diventa ‘regale’, anche solenne, e, questo, a insaputa delle roccolane che lo esibivano. La ‘tina’ era quel recipiente di rame, o comunque di metallo, a forma di vaso, con due maniglie, che si usava per portare l’acqua, dato che l’acquedotto a Rocca arrivò solo nel ’54, ma anche dopo il ’54 parecchie famiglie preferirono seguitare a servirsi dell’acqua della “Trainara”, abitudine andata in disuso solo negli Anni Settanta o Ottanta. La ‘tina’ pesava… L’acqua pesa! Donne e ragazze sul capo piazzavano un rotolo di panno e sull’indispensabile rotolo di panno posavano quindi il recipiente, che veniva riempito d’acqua quasi fino all’orlo. Le donne con la ‘tina’ le guardavo a lungo, ammirato: procedevano dritte, leggere, in movimenti armoniosi; sapevano anche voltarsi - e senza danni, senza sprechi - se uno le chiamava o se qualcosa attirava la loro necessaria attenzione; nulla perdevano del proprio aplomb! Erano, insomma, uno spettacolo. Uno spettacolo, oserei dire, anche ‘sensuale’… Le ragazze e le donne con la ‘tina’ sembravano più belle delle altre, più ‘femmine’ delle altre. Anche più alte delle altre! I loro abiti, poi, erano ‘moderni’, ‘moderni’ senza che ci se ne accorgesse… Per via di numerosi, inevitabili riadattamenti, tagli vari e numerose ricuciture, erano panni attillati che quindi fasciavano bene vita, fianchi, cosce. Insomma, la ragazza con la ‘tina’ esprimeva - eccome! - un grosso ‘appeal’. Le donne di Rocca Le donne che ricordo io erano piacenti. Erano belle, avvenenti. Poche le more, numerose le castane, tutt’altro che rare le bionde. Le bionde, a differenza delle altre, presentavano tratti somatici ‘germanici’ (vale a dire longobardi, svevi): spaziosa la fronte, alti gli zigomi, un po’ affilato il volto, lunghe le gambe o, comunque, tutt’altro che corte; sottili (ma non sempre) le labbra, largo il bacino, non tanto vistoso il seno. More, castane, bionde, si muovevano benissimo: avevano un incedere elegante. Dipendeva dalla ‘razza’ (sannita-romano-longobarda), o dal ‘coacervo’ di ‘razze’, ma anche dal modo in cui era, ed è, fatta Roccamandolfi: tutta scalinate, come s’è visto. continua alla pagina seguente ►►► FORCHE CAUDINE – PAGINA 35 ►►► segue dalla pagina precedente Nella ragazza roccolana, immune agli sciocchi languori delle fanciulle romane, torinesi, e fornita di una energia inesauribile, l’impulso aveva presto buon gioco sulla Ragione. E, forse, l’impulso risulta ben più saggio, ben più prezioso, appunto, della Ragione, chissà… Sta di fatto che, nella “scelta”, le roccolane non sbagliavano quasi mai: si legavano a un uomo e con quell’uomo tutto dividevano, in letizia, con gioia. “Lei” e “lui” diventavano davvero una sola entità. Le ragazze di Rocca non si buttavano, non si sciupavano… Il bacio lo davano quando sentivano di volerlo dare, il chè non accadeva certo di frequente, benché le loro pulsioni fossero tanto robuste quanto quelle dei maschietti. Non avvertivano il ‘fascino’ degli ‘altolocati’… Anzi, si beffavano, giustamente ma entro i dovuti limiti - degli ‘altolocati’ sciocchi, fatui, i quali irrompevano sulla scena con baldanza, spocchia, sicumera si diceva una volta. Dinanzi a questi insopportabili e in vari casi indecenti - rampolli, alzavano un muro che nemmeno il cannone “Bertha” avrebbe saputo abbattere… Questi personaggi (non molti, comunque) dalle fanciulle in questione ricevevano il seguente, lapidario, inappellabile giudizio: “’Nu puorc”. E così ti sistemavano! Non avevi più ‘chance’. Non esistevi più. Squalificato a vita! Nella nostra famiglia vigeva un ordine tacito: non corteggiare le ragazze di Rocca. Ma questo poiché non sarebbe stato carino illudere le ragazze di Rocca, prendersi gioco delle ragazze di Rocca. Non sarebbe stato giusto farsi forti del proprio censo allo scopo di soddisfare istinti carnali con le ‘guagliole’ del posto. Sarebbe stato deprecabile, anzi, abietto. La giovane roccolana che fosse caduta nella rete tesa dal signorino, e fosse poi stata piantata dal signorino (come in vari casi avvenne), in paese avrebbe dovuto continuare a vivere giorno dopo giorno mentre ‘lui’ se ne sarebbe tornato soddisfatto in città. La ragazza avrebbe dovuto quindi vivere per sempre fra quelle quattro case col marchio della “stupida”, della “leggera”, della “puttana”. Si sarebbe giocata il rispetto di tutti. Avrebbe macchiato la sua stessa famiglia. Avrebbe avvilito, mortificato, umiliato i suoi genitori stessi. Nessuno le avrebbe mai fatto la corte. Nessuno si sarebbe mai sognato di chiederla in moglie. Sarebbe diventata una reietta e come reietta avrebbe dovuto vivere per sempre. Magari si sarebbe sentita costretta a rifugiarsi nella grande città e qualcuna di esse a quei tempi dovette rifugiarsi nella grande città. Mio padre e suo fratello, lo zio Franco, mai corteggiarono ragazze di Rocca. Mai ne corteggiai io. Oltretutto, il tacito ordine che aleggiava in casa, lo trovavo sacrosanto. Anzi, naturale. Alla mia famiglia sono grato di quest’insegnamento Comunque quando ero ragazzo, diciamo fra i 14 e i 16 anni, ce n’erano alcune che mi facevano “impazzire”, ma l’”impazzimento” riuscivo a nasconderlo abbastanza bene. Ve le presento: Antonietta, che avrebbe sposato il simpaticissimo, esuberante Liberato figlio di Peppino e Maria i quali nel ’58 aprirono un bel bar con tanto di biliardo, e poi di tv, all’ingresso del paese; Rita, che abitava sulla “Rotabile” e mi pare che la sua famiglia fosse proprietaria del pastificio di Rocca; Vittoria, figliola dell’indimenticabile, socievole Antonecchia, guardia municipale, un bel tipo, affabile, ben educato; Fernanda, figlia di Mencuccio padrone del Caffè Risorgimento. Una più bella dell’altra! Una più “femmina” dell’altra. Tutte seducenti! Antonietta già a quindici anni dimostrava di sapere il fatto suo; non aveva grilli per la testa, studiava con profitto; tutt’altro che una ragazza frivola. Rita, Rita la sognatrice, la ragazza di gran sensibilità, molto curata, attenta, un po’ introversa: uno splendore di roccolana, nello spirito e nelle ‘curve’. Vittoria, molto snella, con occhi grandi grandi, immensamente femminile, aria ingenua, sorriso smagliante, un bel tratto, distinto (ma tanti roccolani avevano un “tratto”, una certa distinzione). Fernanda, “tenebrosa”, introversa, enigmatica, dura all’apparenza. Queste bellissime figure femminili mi stregavano. Ma a me bastava restare “stregato”. La sola “contemplazione” rappresentava l’”appagamento”… Comunicativa roccolana I roccolani comunicavano. Sapevano comunicare. Ce l’avevano nel sangue. Ne presi coscienza nell’inverno 196061, avevo quattordici-quindici anni. Quell’inverno lo passai a Rocca con la nonna Piera. Andavo a scuola a Bojano, la mattina alle sette e mezzo montavo sulla corriera Roccamandolfi-Campobasso e scendevo appunto, con altri ragazzi come me, nella “capitale” dei Pentri. Sempre con la corriera, rientravo a Rocca intorno all’una e mezzo. Alle tre o alle quattro, finiti i compiti, mi precipitavo a giocare a pallone in “piazza” o al campo di calcio che si stendeva sassoso (!) sul retro dell’”Edificio” e da cui si vedevano le montagne che all’imbrunire si tingevano di rosa. Intorno alle sei facevo un salto al caffè di Peppino Lombardi, all’uscita del paese, accanto a Casa Mainelli. Al caffè di Peppino Lombardi (dove c’era la televisione!) roccolani giocavano a “bazzica”, a biliardo: erano partite movimentate: ci si affrontava per soldi… Vincere un incontro poteva procurare l’incasso di cento o duecento lire quando un pacco di pasta ne costava, sì e no, trenta o quaranta, e una ‘boatta’ (barattolo) di pummarola anche meno. Si risolveva quindi qualche problemino, anche se si rischiava di crearsene qualcuno… Le contese - nel denso banco di fumo delle “Nazionali”, delle “Alfa”, delle “Sax” e al suono della tv o della radio - erano gagliarde, vibranti: scorrevano sul filo del ‘conflitto di personalità’, un conflitto piuttosto acceso, ma tenuto entro i limiti della decenza, salvo qualche rara eccezione alla regola… Fu allora che mi accorsi dell’autocontrollo di questi meridionali orgogliosi, esuberanti, tutti d’un pezzo, ma per nulla (almeno ai miei occhi) ‘pittoreschi’ o sguaiati. Non si faceva più a coltellate: il ricorso al coltello, frequente fino all’Ottocento, era tramontato fra la Prima e la Seconda Guerra Mondiale. continua alla pagina seguente ►►► FORCHE CAUDINE – PAGINA 36 ►►► segue dalla pagina precedente Adesso i roccolani – gente la quale conosce la Logica risolvevano dispute e controversie grazie alla dialettica: l’uno ascoltava le ragioni dell’altro e c’era sempre un mediatore, un ‘arbitro’ che ben tutelava entrambe le parti. Il dialetto, poi, con tutte le sue infinite sfumature e la sua efficacia, era uno strumento in più per i due, o più, avversari. Un grosso strumento in virtù del quale si poteva esprimere con compiutezza quel che si pensava o si sentiva. Spesso nel confronto, che in stile davvero mediterraneo (ma non “pittoresco”…) poteva svolgersi anche all’aperto o al Caffè Risorgimento oppure al caffè in “piazza”, si finiva per rendersi conto che ora ci si conosceva un po’ meglio. Non di rado si creava così mutuo rispetto, anche se certi rancori restavano, sordi, muti. Tutto questo avveniva con una certa, spiritosa teatralità che serviva anche a raffreddare, a divertire un po’ gli animi. Semmai le donne apparivano più “rissose” degli uomini. Talvolta nell’aria rimbombavano frasi come queste: “I’ mo’ pass nu’ guaie…”, strillava una. “None, o’ guaie lo pass’ie”, replicava l’altra. “Niende affatto, lo passo io…!”. “No, no, lo passo io!”. Come in “Miseria e nobiltà”! Uno spasso, il più delle volte. Fu a Roccamandolfi, ancor prima che a Firenze o altrove, che imparai a pensare non una, bensì due volte, a quello che stavo per dire… La montagna che è madre Ai roccolani, montanari, d’estate (ma anche in primavera) piaceva andare in montagna… Ce n’erano alcuni che in montagna ci andavano anche d’inverno, a caccia di lupi o a eseguire lavori vari, lavori eseguiti con perizia, con criterio sanniti, romani, longobardi, Ne ricordo uno che un giorno in paese tornò con due carcasse di lupi. Partivano in due, tre, quattro, anche di più, la mattina presto, muniti di pantaloni di velluto, camicie di panno spesso, scarponi di ottimo cuoio, calzettoni di lana, bastoni. Portavano con sé acqua della “Trainara”, vino locale rosso (non più di undici gradi), pane (il pane grigio e saporito di Rocca), prosciutto salato, frutta. Andavano a Campitello di Rocca o a Campitello di San Massimo, alla Macchia Longa o ancora più lontano, sul versante casertano del Massiccio del Matese. Tornavano intorno alle cinque o le sei di pomeriggio, festosi, soddisfatti, con un colorito più vivo del solito e la gente li osservava, li ammirava, gli domandava com’era andata l’escursione. Loro, sorridenti, lusingati, raccontavano nei minimi particolari l’escursione. In montagna ci andava anche un mio cugino, Raffaele De Filippis, detto Raffaelluccio, classe 1918, professore di scuola superiore, prima a Bolzano, poi a Napoli, un bel tipo, di colorito chiaro, occhi celesti, fisico snello, dritto. Mio nonno e sua nonna (la zia Mariannina) erano fratello e sorella. Raffaelluccio durante la Seconda Guerra Mondiale aveva fatto la Campagna di Francia, l’Albania, il Fronte russo… Nell’Esercito del Regno del Sud, s’era sobbarcato ‘anche’ la Campagna d’Italia, nelle Forze Armate del Regno del Sud! Aveva fatto la guerra come alpino, tenente e poi capitano, nel Battaglione “Tirano” (composto da abruzzesi e molisani), Divisione “Julia”. A Nikolaievka, primi del ’43 coi suoi uomini e con altre Compagnie o Battaglioni della “Julia” e della “Tridentina” aveva salvato la vita a tanti, tantissimi commilitoni in ritirata con una resistenza così ordinata, tenace di cui i sovietici non vennero mai veramente a capo, nonostante lo spiegamento di carriarmati, i massicci, temibili T34. Raffaelluccio in montagna ci andava comunque da solo. Voleva andarci da solo. Nel periodo compreso, grosso modo, fra il ’46 e il ’60, d’estate, in ferie, ci andava ogni santo giorno: partiva all’alba, o anche prima, non rientrava che a sera, col suo passo felpato, l’aria assorta, quasi ascetica. Credo che alla Macchia Longa o in altri punti del Massiccio del Matese parlasse agli spiriti dei suoi commilitoni caduti sul Fronte Orientale. Era un uomo con un grosso senso del pudore. Di ciò che avvertiva nel proprio intimo e che si riconduceva appunto alla Campagna di Russia, non ne parlò con nessuno per parecchio tempo… Dinanzi agli altri si chiudeva in sé. Non c’era modo di cavargli di bocca una sola parola. A uno un po’ disattento, frettoloso nei giudizi, sarebbe sembrato un arido, un indifferente, quindi, o un soggetto che non aveva ‘nulla da dire’… Tutt’altro. Era un riflessivo, un rigoroso. Era un sensibile: di qui, appunto, il suo profondo senso del pudore. Credo – l’ho sempre creduto – che si domandasse perché lui era uscito illeso dalla guerra quando nella guerra così tanti ci avevano invece rimesso la vita. Provava così un grosso senso di colpa, si identificava nei compagni d’arme caduti e a loro chiedeva ‘scusa’… Pensava che il Destino fosse stato ‘troppo’ generoso con lui, sì, ‘troppo’. Perché…?? Perché questo privilegio…? Un grande uomo, un grande roccolano Raffaele De Filippis: sono orgoglioso che nelle mie vene scorra anche un po’ del suo sangue. Ci passai insieme la fine d’anno del 1991, alle Castagnete, nel villino di Magda Berlingieri, signora Barbieri. In giacca blù e cravatta (ma questo già lo sapevo), Raffaelluccio era uno spettacolo. Che signorilità. Che tratto! Quella sera, per la prima volta da quand’ero nato, lo vidi allegro, sorridente, disteso. Frizzante. continua alla pagina seguente ►►► FORCHE CAUDINE – PAGINA 37 ►►► segue dalla pagina precedente Zia Mariannina La zia Mariannina (nata, riepiloghiamo, a Roccamandolfi nel 1869) morì nel ’57. Trascorse a letto (un letto in ottone, alto, monumentale) gli ultimi cinque o sei anni della sua vita. Era una donna di quelle, come si suol dire, proprio “all’antica”: a tutto pensava, a tutto arrivava. Cattolica praticante mai lo fu. Nella nostra famiglia non c’era un solo cattolico praticante. Eppure c’era in lei tanta fede, una gran fede davvero: quella, probabilmente, che si nutre per gli esseri umani e grazie agli esseri umani e senza che ci sia bisogno di insegnamenti dal pulpito. In fotografie scattate intorno al 1890 nello Studio Fotografico “Trombetta” di Campobasso, si vede una ragazza dai capelli un po’ corti, dalle spalle un poco strette, ma, soprattutto, si nota in quella giovane donna lo sguardo della persona – come si dice oggigiorno – interiorizzata, un po’ macerata, per la quale, forse, la vita non è proprio una gran meraviglia, ma, a maggior ragione, bisogna spenderla bene, metterla a frutto questa vita. Bisogna essere d’aiuto agli altri. Soprattutto agli sfortunati, a coloro i quali, da sé, non ce la fanno. Ecco, questa era la Roccamandolfi che io conobbi da bambino, da adolescente. Così era il “mio” Mezzogiorno. Un Mezzogiorno che, forse, io tuttora idealizzo un po’. Ma se lo idealizzo, questo avviene per merito ‘suo’! ■ Ogni volta che con la nonna Piera l’andavo a trovare nella casa in cima al paese, e che a me bambino pareva un palazzo, magari un poco trascurato, ma pur sempre un ‘palazzo’; gli occhi le si illuminavano. Restava a guardarmi, concentrata, felice, con un sorriso che a me sembrava quello gioioso e sincero - anche innocente - d’una bambina. Avevo proprio quest’impressione: che in quei momenti (ma anche in altri, s’intende!) lei tornasse bambina. Quel sorriso, tanto soave, doveva per forza essere espressione di delicatezza d’animo. Specchio d’un essere umano proiettato più verso gli altri che verso se stesso. ^^^ FORCHE CAUDINE – PAGINA 38 RAGIONANDO Ci stiamo convincendo che… di UMBERTO BERARDO professore Che la maggioranza del popolo italiano fosse legata al pensiero neoliberista lo abbiamo sempre saputo ed a convincercene sono stati i risultati elettorali della sua storia. La marginalità di un elettorato orientato verso principi di eguaglianza e solidarietà conferma che ci sono state sempre difficoltà a costruire la giustizia sociale fondandola su pari opportunità, su una piena occupazione o almeno su un reddito minimo di cittadinanza capace di impedire la povertà di larghi strati della popolazione; una cosa, tuttavia, gli italiani l'hanno fin qui sempre impedita ed è l'involuzione di taluni principi affermati nella carta costituzionale come la libertà, la garanzia di un lavoro sicuro ed un diritto di voto fondato su una reale capacità di scelta dei propri governanti. I cittadini hanno ugualmente difeso con i denti un welfare fondato soprattutto su un diritto generalizzato all'istruzione ed alla salute. Quando tali diritti sono stati messi in discussione da determinate forze politiche, fiumane di gente hanno riempito le piazze per rivendicarne la difesa. Il governo Renzi sta pasticciando sulle riforme costituzionali e propone una legge elettorale che di fatto prevede un parlamento di nominati con una struttura peggiore di quella attuale, eliminando la regola fondamentale della democrazia, una piena espressione di scelta da parte del popolo, la cui sovranità se ne va a far friggere. Sul piano economico e sociale il Job Act e le misure economiche varate dall'esecutivo sono funzionali agli interessi finanziari e della Confindustria, mentre riducono pesantemente le garanzie del mondo del lavoro. Il sistema sanitario, che da noi era uno dei migliori al mondo, oggi viene pesantemente ridimensionato e tutto lascia pensare che si voglia affidare al momento la tutela della salute ad un sistema integrato, ma per il futuro sempre più al privato. La Rai doveva essere liberata dalla morsa dei partiti politici ed ora, pensate un po', dovrebbe essere affidata ad un cda con una figura espressione dei dipendenti, due di nomina governativa e altri quattro votati dalle Camere riunite presieduto da un amministratore delegato nominato dal governo: davvero un bel passo avanti verso l'autonomia! Sull'ipotesi di riforma della scuola, dove siamo stati operatori educativi per trentasei anni, non nascondiamo che la regolarizzazione di centomila precari e dei vincitori del concorso 2012, l'assunzione futura per concorso, le classi meno numerose, l'apertura degli istituti anche nel pomeriggio e l'introduzione dei tirocini siano sicuramente aspetti positivi. Rimaniamo interdetti al contrario quando, con lo zuccherino di pochi spiccioli che dovrebbero premiare, si dice, il merito e la carriera, si vorrebbe far inghiottire ai docenti la perdita della libertà d'insegnamento, giacché, sarebbero giudicati per il merito e nominati in futuro per chiamata diretta dal dirigente scolastico tramite un albo verso il quale l'assunzione sarebbe rimessa al solo preside che avrebbe unicamente l'obbligo di consultare gli organi d'istituto. È l'ipotesi di una scuola neo manageriale in cui si rafforza il potere del preside togliendo qualsiasi controllo e decisione agli organi collegiali sulle questioni di fondo legate al funzionamento di un istituto scolastico. Capite che in tal modo si può andare dritti verso la soggezione ed il ricatto dei docenti da parte dei dirigenti scolastici! Le possibilità poi degli sgravi per le famiglie che scelgono l'iscrizione dei figli in una scuola parificata e i meccanismi di finanziamento privato diretto delle scuole sono la chiara dimostrazione che anche per l'istruzione ci si sta orientando verso un sistema di natura privatistica che a nostro parere limita la pluralità e la libertà culturale e toglie autonomia e risorse importanti alla scuola pubblica. Noi siamo convinti che tutte queste decisioni del governo Renzi, già in parte volute da Berlusconi, che infatti ne ha condiviso per mesi la linea, rappresentino davvero un pericolo serio per la democrazia, per la libertà e per tanti diritti dei cittadini. Di fronte a tali provvedimenti la percentuale dei cittadini disposti ad ingoiare rospi ci appare sempre più alta. In parlamento l'opposizione non è più capace né di contrasto, né tantomeno di proposte alternative e questa è la carta vincente di un Renzi che anche all'interno del suo partito ha solo una minoranza che abbaia alla luna senza riuscire a trovare la strada che possa portarla fuori dalle contraddizioni e dal richiamo della poltrona occupata. I sindacati sembrano non riuscire ad incidere più neanche sulle scelte economiche e sociali e di questo passo potrebbero essere marginalizzati. I distinguo ormai appartengono solo a voci abbastanza isolate d'intellettuali che si manifestano su taluni organi d'informazione, ma che non arrivano più a fare opinione. Cosa pensare allora? Semplicemente si deve riflettere sul fatto che, se non ci si muove per impedire che vengano approvati certi decreti o disegni di legge, o se ne condivide la sostanza, o non si ha sufficiente informazione in merito o si è incapaci di stili di vita coerenti con un modo di pensare diverso da tali decisioni. Noi ci stiamo convincendo, nonostante i proclami della fine delle ideologie, che lobbies economiche e politiche stiano invece proprio tentando di allontanare la gente da una società libera, giusta, egalitaria, solidale e democratica per spostare l'opinione pubblica verso principi e valori di una società e di un'economia che papa Francesco ha definito fondata su "un'inequità che è la radice dei mali sociali". Di fronte a tale situazione occorre lavorare subito per creare un'alternativa all'esistente. FORCHE CAUDINE – PAGINA 39 AMBIENTE L’Expo delle multinazionali del cibo di PASQUALE DI LENA dottore agronomo Appare sempre più evidente che lo scontro è tra chi lavora la terra, la cura, e, attraverso il cibo prodotto, ne sente i profumi e i sapori per offrire al consumatore la qualità, quella che ha un’origine strettamente legata al territorio, e tra chi questa terra, quando non la divora per dare spazio al cemento e a miniere e cave, la sfrutta con un’agricoltura intensiva che la inquina e, nel tempo, la distrugge solo per produrre quantità. Lo scontro è, quindi, tra un’agricoltura contadina e quella industriale. La prima, l’agricoltura contadina, è quella che, mentre mette a disposizione dell’uomo un cibo di qualità, si preoccupa anche della salute dell’ambiente, cura il paesaggio, alimenta la biodiversità e la stessa cultura che il cibo con i suoi differenti prodotti esprime. La seconda, quella industriale, invece, sotto l’azione di forti e crescenti concimazioni, pesticidi, semi Ogm - essenziali per ottenere la quantità – produce tutto a spese dell’ambiente, del paesaggio, della biodiversità, e, anche, del gusto, avendo la necessità di uniformare, livellare, appiattire. Lo stesso discorso vale per zootecnia e selvicoltura. Una quantità di cibo che, a oggi, non ha portato a dare quella sicurezza alimentare di cui ha bisogno l’umanità, ma ad affamare ancor più il mondo e a metterlo in crisi. Tutta colpa della bulimia di denaro che affligge i padroni delle multinazionali, e non solo, anche della loro natura incline all’esagerazione che, poi, si traduce in spreco di cibo. Il cibo benedetto, che è la prima, vera, fondamentale energia pulita di cui l’umanità non può fare assolutamente a meno. Infatti, non è un caso che sono un miliardo le persone che muoiono di fame e molto di più quelle che convivono con la fame in uno stato di crescente povertà, e, tutto questo, mentre più di un terzo del cibo prodotto sono buttato. Una massa enorme di energia che è sprecata per ingrassare i quindici padroni della finanza mondiale; quella decina di multinazionali che operano nell’agroalimentare e, altre, in particolare quelle della chimica, dei medicinali, del petrolio e dei semi, soprattutto Ogm. Un lusso che il pianeta, l’umanità tutta, non può più permettersi se non vuole arrivare a situazioni disastrose e punti di non ritorno, in considerazione dei sette miliardi e più di persone che ora abitano il pianeta (più del doppio dei 3 miliardi censiti 50anni fa) e dei 9 miliardi di abitanti previsti per il 2050, cioè se non domani, dopodomani L’Expo “2015", la grande esposizione mondiale che a maggio si apre a Milano, nata con il proposito di “Nutrire il pianeta, energia per la vita”, un’immagine e un messaggio di grande forza, soprattutto di grande attualità, è diventata e sarà la grande vetrina delle multinazionali. Tant’è che lo slogan “Nutrire il pianeta” c’è già chi l’ha trasformato in “Nutrire le multinazionali”. Una grande occasione, per questi padroni affamati di territorio, di affermare ancor più il loro strapotere, che è tanta parte di quella crisi sistemica di cui soffre il mondo e dei rischi riguardanti la difesa stessa del pianeta, nel momento in cui andrà avanti il processo da loro avviato di furto crescente di suolo e della natura che esso esprime, in particolare la biodiversità, che è vita. Continueranno ad affamare il pianeta, e, quindi, ad aggravare il problema della sicurezza alimentare, non a risolverlo, e, opereranno per abbassare i livelli della qualità del cibo fino a uniformare i profumi, i sapori, e, con essi, il gusto. Per loro la diversità non ha senso, non è un patrimonio di storia, cultura, tradizioni, ma una perdita di tempo, l’unico spreco che non ammettono. L’Italia e con essa, non a caso, Spagna e Grecia, cioè i paesi più rappresentativi dello stile di vita mediterraneo, già colpite duramente a causa di uno sviluppo che ha mostrato tutto il suo fallimento, stanno operando, per assecondare le volontà delle multinazionali. Soprattutto l’Italia con l’attuale governo se penso alle risposte date a quelle del petrolio, con “Sblocca Italia”; l’applauso al “Ttpi”, il trattato America del Nord-Europa, che più di altre azioni spiega la loro volontà di comandare il mondo appropriandosi delle sovranità nazionali; lo strappo alla Carta costituzionale e alla partecipazione dei cittadini alle scelte, negata dalla nuova proposta di legge elettorale. Una situazione pesante, pericolosa per la stessa democrazia, che, al di là degli annunci, si va aggravando ogni giorno sempre più. Uno strapotere, quello delle multinazionali, e, in questo senso, un grande rischio per il territorio, il bene più prezioso che il Paese ha, fonte di conoscenza, progettazione e programmazione, straordinario e fondamentale contenitore di risorse e di valori legati alla storia, alla cultura, all’arte, alla ruralità ed alla sua agricoltura, alle tradizioni. Le tante stupende tradizioni che le nostre ottomila e più comunità hanno saputo tessere nel corso di secoli e mettere a disposizione del mondo, in particolare quelle che fanno riferimento al cibo, alla cucina, alla tavola. In questo senso l’Expo può risultare una grande occasione persa per affermare, con la difesa, tutela e valorizzazione del territorio, la Sovranità alimentare; dare a chi produce il cibo la gestione delle sue risorse e dei suoi valori; stimolare il ruolo che spetta al glocale, con tutti i suoi aspetti di vita, organizzativi e culturali, per non subire e rimanere vittima del Globale. Non era, poi, così difficile per questa esposizione internazionale, che vede l’Italia protagonista, organizzare e assicurare la sicurezza alimentare; diffondere la cultura del cibo espressione di territori e di saperi, il valore e il grande significato della sua qualità e bontà, con il tempo protagonista insieme con la stagionalità, la freschezza e la creatività protagoniste. FORCHE CAUDINE – PAGINA 40 GENS La corruzione distrugge l’economia di FABIO SCACCIAVILLANI economista Se esistesse un’algebra del malaffare politico, lo scandalo Lupi-Incalza potrebbe essere spiegato da una formula del tipo: Corruzione = (Invadenza dello Stato x Inamovibilità della burocrazia) + Avidità dei politici + Costi della Politica – Controlli – Trasparenza – (Severità della pena x probabilità della condanna). Il valore delle variabili però dipende dalla sensibilità dei cittadini in tema di legalità, o specularmente, dal consenso che essi tributano ai corrotti. Che la cancrena della corruzione in Italia sin dagli anni ‘60 sia un’endemica emergenza economica, oltre che morale, dovrebbe essere ormai un fatto incontrovertibile. Invece, nonostante gli arresti a ciclo continuo, esiste una fetta dell’opinione pubblica (con la memoria di un varano) che considera il dilagare della delinquenza nei gangli del potere una mera quisquilia. Ad esempi,o i cocoriti della propaganda grillo-berluscoleghista, che vagheggiano il ritorno alla lira, arruffano le penne appena si osa menzionare la corruzione. Per costoro il trinomio cricca-casta-corruzione è l’etichetta per irridere chi si scandalizza del letamaio e dei liquami in cui sguazzano le istituzioni italiche (come è lecito attendersi dai sodali ed alleati di Berlusconi, Belsito, Bossi, Dell’Utri, Scajola, Cuffaro, Formigoni ecc.). L’impareggiabile contributo del Club Cervelli Bungalira al dibattito sull’etica pubblica si riassume in cotale augusto ragionamento: la corruzione e il malgoverno erano diffusi anche ai tempi della lira, ma ciò nonostante si viveva tutti da nababbi, svalutando ogni due o tre anni senza troppi patemi. I mercati mondiali ad ogni tracollo della lira erano invasi dai nostri prodotti di punta, tipo la Duna (che nel trip onirico scompaginava le vendite di Bmw e Mercedes), le magliette Benetton, i computer Olivetti o i televisori Mivar (giapponesi e coreani ancora tremano al pensiero). Quindi se la Banca d’Italia fosse affidata agli eredi morali di Craxi e Andreotti, la bacchetta magica della sovranità monetaria sanerebbe infallibilmente tutte le storture ataviche e renderebbe assolutamente compatibili il latrocinio di Stato con lo sviluppo da tigri asiatiche e i redditi lussemburghesi. Il debito pubblico? Niente timori. Svanirebbe d’incanto: basterebbe ridenominarlo in Bungalire grazie ad una fantomatica lex monetae (segretamente promulgata tra i banchi dei mercati ittici sulle coste adriatiche). I grulli che avevano investito in Bot non si accorgerebbero di essere stati depredati, anzi rilancerebbero la domanda subito dopo aver ottenuto a tassi da usura un prestito dal banco dei pegni, dietro consegna delle lenzuola superstiti. Insomma per i fini palati bungaliristi gli effetti delle tasse confiscatorie, della malagiustizia, della burocrazia demenziale e della corruzione dilagante sono trascurabili. E in ogni caso svanirebbero con la semplice aggiunta di una mezza dozzina di zeri sulle banconote, alla faccia di chi si ostina a esecrare il trinomio cricca-casta-corruzione. Questa propaganda riesce a far breccia in quel pubblico che assume informazioni dalla televisione in contemporanea alla cottura del sugo o alla stiratura delle mutande, oppure si lascia infarcire di slogan, via internet, l’involucro del proprio analfabetismo economico. Invece le devastazioni della corruzione sull’economia reale trascendono la mera appropriazione di fondi pubblici. La corruzione è come un gas letale, ma inodore che si diffonde nelle imprese e avvelena l’economia legale. Quando l’ambiente si satura, i manager che fanno carriera sono quelli più spregiudicati, non quelli più capaci. Avanzano quelli che conoscono o tessono le reti di relazioni inconfessabili, non quelli che innovano i prodotti. Prosperano quelli che conoscono i riti ricattatori, non quelli che sanno operare sui mercati internazionali. Inoltre per restare in sella i faccendieri piazzano ai livelli inferiori mezze tacche fedeli, ancor meglio se incompetenti, senza speranza di trovare un altro lavoro decente, quindi pronte a tutto pur di abbarbicarsi alla greppia. Per questo molte imprese italiane – soprattutto quelle concentrate sul mercato interno e sui rapporti con gli enti pubblici – annoverano nel management mediocri figuri, quasi mai professionisti. In sintesi, ottenere risultati tangibili solo grazie alle tangenti distribuite nei cerchi e cerchietti magici ha determinato l’inaridimento nel sistema economico italiano di energie capaci di reggere la competizione internazionale. E non saranno certo la Bungaliretta, la Patacca Padana o la Piastra Grillina a mutare l’atroce realtà. A parte qualche eccezione – lodevole ma irrilevante – sinistra, destra, clericali, neofascisti in Italia sono uniti nello stesso disprezzo per la legalità e le regole che considerano alla stregua di una sottocultura aliena. Il ventennio della mezzadria tra berluscoidi, leghisti e sinistra con il caleidoscopio di amnistie, leggi salvaladri, prescrizioni, lungaggini processuali, garantismo da 16 gradi di giudizio ha rappresentato l’apoteosi di un processo durato 50 anni. Oggi siamo al punto che per troppe aziende la stecca è considerata imprescindibile perché costituisce l’asse portante dell’unico sistema, grottesco, distorto e inquinato, nel quale sono in grado di agire, mentre in un mercato concorrenziale verrebbero maciullate. In altri termini, nel Belpaese criminali, corrotti e corruttori sono ormai assurti al malemerito ruolo di indispensabile motore dell’economia. FORCHE CAUDINE – PAGINA 41 RICORDI Papa Wojtyła, trent’anni fa di OSCAR DE LENA Era il 19 marzo del 1983, trentanni fa, quando il Papa Giovanni Paolo II visitò, in mattinata la zona industriale di San Salvo e nel pomeriggio Termoli. Si intrattenne prima con gli operai della Magneti Marelli dove celebrò la Santa Messa alla presenza di migliaia di fedeli provenienti da ogni parte d'Abruzzo e poi con quelli della Società Italiana Vetro (la SIV) dove rimase a pranzo insieme agli operai. Il momento più toccante del percorso del Papa lungo le linee di lavorazione della Magneti Marelli fu certamente quando un operaio, in tuta blu come tutti i suoi colleghi, si staccò dal suo gruppo e si avvicinò con passo deciso al Pontefice. Poche parole seguite da un caldo abbraccio. I giornalisti dovettero aspettare qualche minuto prima di conoscere i particolari dell'episodio. L'operaio, residente in un piccolo centro del Molise, Montemitro, di origine slava, volle farlo sapere al Papa che spese qualche minuto con lui chiedendogli notizie della sua famiglia e dei parenti lontani. Un colloquio, insomma, come fra vecchi amici, proprio come prerogativa di Giovanni Paolo II che, all'austerità del cerimoniale, preferiva il contatto diretto con la gente. Più avanti un gruppo di lavoratori attorniò il Papa tenendo in mano ramoscelli di ulivo e cantando "Vola vola", la più nota e forse anche la più bella canzone del folklore abruzzese. Quel giorno Papa Giovanni Paolo II, parlando sul piazzale della Marelli a circa cinquantamila persone, aveva ribadito la stretta connessione tra lavoro e preghiera, tra progresso sociale e spirituale. Significative le sue parole: "Da questa cittadina che prende il nome del monaco Salvo, il mio pensiero si estende a tutti gli abitanti d'Abruzzo e Molise ovunque essi si trovino, nelle popolose città e nei paesi più piccoli, sulle montagne o in riva al mare. E non dimentico coloro che hanno dovuto lasciare questa terra per motivi di lavoro. Vorrei che tutti si sentissero cordialmente abbracciati dal mio benedicente saluto, che ad ognuno rivolgo da questo luogo suggestivo, dove ancora sembra risuonare il motto "Ora et labora" dei monaci benedettini che qui si stabilirono fin dalla metà dell'ottavo secolo, provenienti dalla non lontana abbazia di Montecassino”. Alle ore 13 Giovanni Paolo II si trasferì alla SIV dove gli venne fatto visitare la linea del forno Float, dove ogni giorno esce una lunga lastra di vetro larga 3,2 metri e lunga circa 30 chilometri. Visitando gli impianti di quella che era la più grande vetreria d'Europa, la SIV; con i suoi 3.200 dipendenti, il Papa si volle avvicinare ad uno degli alti forni per guardare con un apposita maschera di protezione il bacino del vetro fuso a 1400°C. Terminata la visita agli impianti Giovanni Paolo II fu accompagnato nella mensa aziendale per pranzare con alcuni dirigenti e tanti operai e sindacalisti. Il menù di quel pranzo prevedeva: antipasto "delizie dell'Adriatico" (a base di scampi e calamaretti); risotto salmone e champagne; cosciotto di vitello alla Napoleone, carote glassate e spinaci al burro; barchetta di ananas al pon pon (gelato). Il tutto innaffiato con Trebbiano e Cerasuolo d'Abruzzo, annata 1981. Le diverse portate del pranzo furono preparate da un ristorante di Chieti e uno di Francavilla al Mare. Terminato il pranzo, molto apprezzato, il Papa, in elicottero lasciò San Salvo ed atterrò sul piazzale del porto di Termoli dove ad attenderlo c'era il Vescovo mons. Cosmo Francesco Ruppi e il sindaco dell'epoca Remo Di Giandomenico. Dopo gli scambi di benvenuto Giovanni Paolo II venne accompagnato in Cattedrale per pregare sulla tomba di San Timoteo e successivamente attraversando le vie principali di Termoli, raggiunse la nuova piazza realizzata per l'occasione e che poi prenderà il suo nome dove celebrò la Santa Messa tra una immensa folla giunta da tutto il Molise e dalle regioni limitrofe. Terminata la messa il Papa tornò sul piazzale del porto dove con l'elicottero venne portato all'aeroporto di Pescara e qui, con un aereo DC9, tornò a Roma lasciando in tutti i presenti un ricordo indelebile. Per ricordare quella storica giornata, abbiamo realizzato un filmino che raccoglie i momenti più salienti accaduti esattamente 32 anni fa visibile su Youtube (www.youtube.com/ watch?v=rhzl69yLiGs#t=42). FORCHE CAUDINE – PAGINA 42 HANDICAP Turismo accessibile, anche fonte economica di GIOVANNI SCACCIAVILLANI sindacalista Ugl, originario di Frosolone (Is) Secondo una ricerca condotta dalla Commissione europea, l’impatto economico del turismo accessibile è assai rilevante. Il fatturato totale complessivo è di oltre 750 miliardi di euro, così alto da contribuire al Pil dell’eurozona con 142 miliardi di euro e assicurare tra i tre e i quattro milioni di posti di lavoro. I numeri sono certamente destinati ad aumentare, specie con l’aumento della vita media, e ciò rende necessario migliorare la qualità dell’accoglienza e dell’ospitalità, permettendo a tutti, ma davvero a tutti, di accedere liberamente ai servizi senza sentirsi discriminati. ◄ Giovanni Scacciavillani E’ stato questo il tema del Meeting Internazionale sul Turismo Accessibile, appuntamento nel quale si è parlato, delle prassi italiane ed estere in materia di vacanze accessibili ed ospitalità, delle politiche innovative che mirano ad aumentare la competitività del territorio, delle opportunità di lavoro che si aprono ai giovani di oggi, dalle tecnologie per l’informazione e la comunicazione fino all’ambiente costruito, le strutture ricettive e quelle ricreative e del tempo libero. Ospiti del Mita 2015 sono stati esperti di accessibilità e design universale provenienti dall’Ufficio del sindaco di New York che difende i diritti delle persone disabili, i principali esponenti della Commissione e del Parlamento europeo, dell’Organizzazione Mondiale del Turismo delle Nazioni Unite e, non da ultimo, il Forum europeo della disabilità che rappresenta gli ottanta milioni di disabili in Europa. Oltre 1.500 persone iscritte all’associazione. 5.000 “amici” su Facebook. 6.414 persone che ricevono il notiziario. Fino ad oggi 231 eventi promossi. Forche Caudine. L’associazione con i numeri. dal 1989 Forche Caudine sostiene il Patriarcato antiocheno dei Maroniti in Roma devolvendo il 5 x mille nella dichiarazione dei redditi: codice fiscale del patriarcato: 80130010582 FORCHE CAUDINE – PAGINA 43 FORCHE CAUDINE – PAGINA 44