roman polanski: tra grottesco e tragedia, cercando l`uomo

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roman polanski: tra grottesco e tragedia, cercando l`uomo
PROF. SERGIO BASSETTI
CORSO DI FILMOLOGIA
I MODULO 2006/07
“ROMAN POLANSKI: TRA GROTTESCO E TRAGEDIA,
CERCANDO L’UOMO”
LEZIONE I - 4/10/2006
Introduzione al cinema di Polanski
Polanski non è uno sperimentatore. Nasce simultaneamente alla Nouvelle Vague, ne conosce la
lezione, ma non ne assimila linguaggio, procedimenti, indirizzi.: rimane saldamente ancorato alla
classicità.
Se Godard è, in quegli anni, il campione della modernità, Polanski è sul lato opposto perché fa
riferimento ad un formulario classico.
Nel suo cinema troviamo dei temi ricorrenti:
• LO SPAZIO CHIUSO che permette di scandagliare motivi come l’isolamento sociale, la
claustrofobia, la solitudine come specchio del malessere individuale
• RAPPORTI DI POTERE E DI FORZA: il loro mutare durante il procedere della storia si
relaziona con lo spazio chiuso, perché è in uno spazio limitato che gli individui si
esprimomo in maniera più spontanea e autentica (Il coltello nell’acqua gioca su questo, in
questo caso lo spazio chiuso è rappresentato, paradossalmente, dal lago che rinvia anche a
un altro elemento ricorrente del cinema di Polanski: l’ACQUA).
• L’ACQUA è elemento che può essere letto in vari modi: principalmente per Polanski (cosi
come d’altronde sia nella mitologia classica che nella religione Cristiana) essa rappresenta la
femminilità e la fertilità, e non è un caso che strettamente legati all’acqua siano, in un modo
o nell’altro, sempre personaggi femminili. Talvolta l’acqua allude alla rigenerazione, a una
purificazione possibile, ma non necessariamente conseguita.
Come si pongono gli oggetti nel cinema di Polanski? Per lui gli OGGETTI sono lo specchio delle
tensioni dei personaggi.
Il film Il pianista è la sintesi di tutti i suoi temi.
I film di Polanski possono essere raggruppati anche seguendo il criterio del tema principale che li
caretterizza:
• GLI APPARTAMENTI: Repulsion, La morte e la fanciulla, L’inquilino del terzo piano, Il
pianista
• L’ACQUA: Il coltello nell’acqua, Cul de Sac, Chinatown, Pirati., Luna di fiele...
• LA COPPIA (disturbata): Il coltello nell’acqua, Cul de sac, Luna di fiele, La morte e la
fanciulla...
In realtà la suddivisione non è così rigorosa ma c’è un passaggio e un concatenarsi continuo tra i
temi all’inteno di tutti i suoi lavori, anche in quelli su commissione (ad esempio Chinatown del
quale non scrive la sceneggiatura) è forte la presenza dei suoi temi tipici.
Oliver Twist è un altro esempio tipico: la sceneggiatura differisce notevolmente dal testo
dickensiano, e l’impronta di Polanski si fa sentire anche e soprattutto nella selezione degli episodi
trasposti in immagini per lo schermo
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Il periodo migliore del regista coincide con la sua collaborazione con lo sceneggiatore Gèrard Brac:
in questa fase Polanski realizzerà, tra gli altri film, L’inquilino del terzo piano, considerato da molti
il suo Shining, poiché uno dei temi portanti del film è la non corrispondenza tra oggettività e
soggettività: lo spettatore è lasciato nel dubbio sull’interpretazione da attribuire agli eventi –
realmente accaduti o frutto della fervida immaginazione del protagonista? –, e gli esiti non
sembrano conseguenza immediata, necessaria e biunivoca, degli eventi che li avrebbero
determinati).
Polanski frequenta la scuola di cinema di Lodz e qui acquisisce un’alta competenza tecnica. Quando
ne esce ha una solida esperienza in ogni settore, come montaggio, fotografia – è un’autorità persino
nelle procedure di stampa della pellicola –, e impara quindi ad esercitare il controllo su tutti i
processi produttivi e post-produttivi dei suoi lavori.
Se si desidera contestualizzare il regista nello scenario globale del cinema polacco, egli si colloca
nella corrente di rinascita post-bellica, della quale fanno parte Munk (La passeggera), Wajda,
Kawalerovicz, Skolimovski (che collabora a Il coltello nell’acqua scrivendone la sceneggiatura)
La tendenza di questi autori è di trarre ispirazione dalla storia polacca, di schierarsi politicamente
alla ricerca dell’identità nazionale perduta dopo il II conflitto mondiale, anche a costo di creare
incrinature nel rapporto padri/figli tradizionalmente coltivato nella cinematografia nazionale.
Polanski si discosta da questa visione della realtà, non cerca questi valori: fa una deviazione e crea
un suo territorio d’indagine al cui centro c’è l’individuo; la storia rimane fuori del quadro d’analisi.
Il film Il coltello nell’acqua paga lo scotto di questa scelta non-ideologica, poiché suscita lo
scetticismo della commissione preposta all’erogazione dei finanziamenti per la realizzazione di
nuove pellicole: esso infatti non contiene riferimenti alla situazione sociale della Polonia. Solo dopo
aggiunta di alcune battute che rinviano al quadro socio-politico nazionale, la commissione ne
approverà la realizzazione.
Il coltello nell’acqua (1962)
In questo film vengono messe a confronto le due generazioni in cui si divide la società del
dopoguerra: i burocrati e i ribelli (gli huligani, come venivano chiamati in quel periodo i giovani
insofferenti all’autorità precostituita, ma privi di valori ben precisi da proporre in alternativa).
In questo contesto, tramite la vicenda di un triangolo amoroso, non viene ricercato il collante della
solidarietà nazionale (come le tacite direttive del governo auspicavano) ma piuttosto viene
documentata la mancanza di esso, cioè l’attrito, l’antagonismo tra i due personaggi maschili che
dovrebbero incarnare opposte posizioni sociali, generazionali, etiche.
La donna in questo caso è il vertice del triangolo, rappresentando la posta in gioco della contesa tra
i due uomini: il marito, che incarna la figura del padre, burocrate e integrato, e l’amante che è figura
di figlio, ribelle e disadattato.
Nel mettere in scena questa storia, apparentemente banale, Polanski si mostra ironico e a volte
sottilmente blasfemo (non dimentichiamo che la Polonia è paese cattolicissimo), soprattutto in
alcuni riferimenti religiosi, espliciti ma sempre negati dal regista.
L’ispirazione originaria viene a Polanski dall’osservazione del paesaggio dei laghi polacchi Masuri,
e in quei luoghi gira la pellicola, tutta in esterni, la cui azione è contenuta in tre ambienti: i due
microcosmi della macchina e dell’interno della barca, e il macroambiente del lago, non meno
claustrofobico dei primi due.
Il film è in bianco e nero e la vicenda si svolge nell’arco delle 24 ore.
I titoli di testa hanno importanza in quanto, come in tutti i film di Polanski, ci anticipano il
significato da attribuire ai personaggi, la loro vera natura: in questo caso, durante tutta la dutrata dei
titoli non sono visibili i lineamenti dei due personaggi (marito e moglie che stanno viaggiando in
macchina) ma se ne scorge la sagoma indistinta dietro il riflesso del parabrezza, o si vedono di
spalle o in dettagli: si manifesta così che non si tratta di una storia individuale, particolare, ma
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piuttosto generalizzabile, che può essere trasferita ad altre situazioni perché sono i ruoli che
vengono analizzati, e non solo le storie di quei tre specifici personaggi.
C’è una simmetria tra le prime immagini del film (il viaggio in auto, la pioggia) e quelle finali: il
cerchio si chiude perfettamente con la ripetizione della stessa situazione, a significare la mancanza
di una conclusione vera e propria della vicenda. In realtà il segno di ciò che vediamo è
profondamente mutato, giacché i rapporti di forza tra moglie e marito si sono trasformati: l’uomo è
irreparabilmente in scacco, sia che accetti la verità dell’adulterio attuato dalla moglie, sia che tale
verità rifiuti, avvalorando e ratificando così la propria responsabilità di omicida (si ritiene infatti
colpevole dell’annegamento del giovane). Tertium non datur...
Già nelle prime scene si delineano i rapporti di forza tra i due coniugi: il marito vuole il controllo su
ogni cosa; la moglie, bambola dal volto totalmente inespressivo, è solo un bellissimo oggetto, che
Polanski equipara addirittura alla barca, denominata proprio col nome della donna, Krystyna.
L’huligano compare a pochi minuti dall’inizio nei panni di un autostoppista che, camminando al
centro della strada, obbliga l’uomo alla guida dell’auto a sterzare e a fermarsi (quindi opera una
forza contraria e oppositrice); il giovane inoltre assume anche la “regìa” – e quindi il controllo –
della situazione, permettendosi provocatoriamente di far notare al futuro antagonista che non ha
spento i fari, e che quindi non è affatto padrone della situazione come pretenderebbe.
Con ogni pretesto possibile il marito-burocrate scarica la sua collera sulla moglie. perché è lei
l’unico anello debole in quel momento; in una delle poche riprese soggettive del film la accusa di
essere pronta a far salire il ragazzo malgrado la sua esibita insolenza; poi, quasi a farle dispetto pur
avendo l’aria di esaudirne quel desiderio di ospitalità, fa accomodare in auto l’huligano con ironica
cortesia.
L’huligano ha già, con questa sua apparizione, delineato il suo ruolo: è colui che farà scoppiare
contraddizioni e tensioni tra i due coniugi, creando quella frattura che troverà un nuovo, diverso
equilibrio grazie al ribaltamento dei ruoli.
Da alcuni osservatori il giovane è stato paragonato alla figura di Amleto.
La collocazione dei personaggi nello spazio corrisponde al loro ruolo in ciascun momento della
storia, per cui le posizioni (primo piano vs. sfondo; frapposizione di ciascuno tra gli altri due;
composizione di geometrie “a triangolo”; focalizzazione dell’uno rispetto agli altri, etc) variano col
variare dei ruoli.
Anche i rapporti col vestiario sono importanti: ad es. all’inizio i due coniugi sono vestiti di bianco e
il giovane di nero, mantre alla fine quest’ultimo vestirà letteralmente i panni del marito di lei
indossandone l’accappatoio bianco. Di fatto sostituendosi a lui nella “funzione” matrimoniale
primaria.
Ogni inquadratura evidenzia la situazione che si sta delineando o ne anticipa la soluzione: le stesse
vele della barca, stese e inquadrate dal basso, rappresentano il triangolo che ricorre spesso come
forma. Ma i rinvii figurali alla forma triangolare sono molteplici e vari.
Dal punto di vista del linguaggio filmico la scena in cui i tre si preparano a salire sulla barca
presenta già la maggior parte delle soluzioni che verranno adottate durante il resto del film e in tutta
la produzione polanskiana:
• l’utilizzo delle ottiche corte, dei grandangoli che permettono ampiezza e grande profondità
di campo, e quindi l’inserimento di più personaggi, e relative azioni, all’interno della stessa
inquadratura: spesso ad ogni azione corrisponde un piano diverso, posto però in stretta
relazione con gli altri, che vengono scandagliati dal regista mediante lunghi piani sequenza
senza soluzione di continuità (echi del “montaggio proibito” di Bazin).
• Piano sequenza a retrocedere dal particolare al quadro d’insieme, e poi chiusura simmetrica
con lo stesso movimento della mdp “a rovescio” (in un caso specifico, il particolare della
fune sul molo d’attracco, che fa da punto di partenza e d’arrivo del piano sequenza).
• Semisoggettive in cui la mdp, posta alle spalle del personaggio – di cui usa la nuca come
quinta –, ne segue le azioni.
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Dopo i primi dieci minuti di film si chiude il prologo: la vela dell’imbarcazione chiude
l’nquadratura come una sorta di sipario; il medesimo sipario ritroveremo, simmetricamente e con la
stessa composizione d’inquadratura, quando il tradimento sarà compiuto e verrà introdotto
l’epilogo.
Gli oggetti all’interno della storia sono molto importanti e il loro significato è legato a doppio filo
sia ai personaggi che al titolo del film; in particolare il significato più forte lo trasmettono questi tre
elementi:
• Il coltello, che è il simbolo dell’huligano. La sua forma allungata, la capacità di penetrare ne
fanno un simbolo fallico, quindi di quelle vitalità e giovinezza che suscitano l’invidia del
marito, deciso ad appropriarsene.
• La barca simboleggia il marito: è la proprietà e il controllo.
• L’acqua rispecchia la natura femminile: simbologia già presente nella mitologia greca, come
nell’antichità che, infine, nel periodo Romantico. L’acqua è amica, accogliente, feconda (ma
può trasformarsi in minaccia e pericolo) soprattutto quando è, come in questo caso, lacustre:
cioè non animata da moti violenti o scossa dalle tempeste
Il titolo Il coltello nell’acqua ci fornisce la soluzione di questo gioco di forze e di simboli: il
coltello, simbolo di aggressività, può penetrare l’acqua ma essa lo inghiotte, lo fa scomparire, lo
neutralizza, per cui è la donna che alla fine risulterà la vincitrice.
Come gia evidenziato all’inizio, uno dei temi che spesso ricorrono nel cinema polanskiano è la
claustrofobia: in questo caso, benché l’azione si svolga in spazi aperti, si è in realtà costretti
all’interno dell’imbarcazione, circondati dall’acqua, e questa sensazione oppressiva viene trasmessa
attraverso la disposizione delle azioni su piani differenti ma tutti “compressi” nella stessa
inquadratura.
Altre soluzioni continuano a fornirci elementi sulla natura dei personaggi:
• Durante la traversata i tre vengono inquadrati uno per uno con lo stesso sfondo, in cui è
visibile all’orizzonte la linea dell’acqua, alcuni alberi e il cielo: i due uomini penetrano i 3
livelli perché si trovano in posizione eretta mentre la donna, che è sdraiata a prendere il sole,
rimane inscritta al di sotto della linea d’orizzonte, e quindi con il solo sfondo dell’acqua, a
sottolinearne ulteriormente l’appartenenza a quello è il suo elemento/emblema
• I discorsi del marito-burocrate su un nostromo di sua conoscenza sembrano sottolineare
l’ossequio dell’uomo a una vecchia concezione di disciplina “cieca”, che egli rimpiange e
che tenta a più riprese di imporre al giovane: con l’unico risultato di creare frizioni
reciproche, ed evidenziare la frattura generazionale, e poi ideologica, tra i due.
• Il giovane si lancia in varie prove di forza e abilità (come a dimostrazione della sua virilità:
cerca di trascinare la barca da solo, gioca abilmente col coltello, si arrampica tra le funi,
sull’albero, etc…) che il marito raccoglie come altrettante sfide cui risponde con
dimostrazioni di perizia e di comando (la capacità di guidare la barca, il gioco delle carte…);
finché, dopo aver “annullato” le capacità dell’altro con le proprie, non si risolve a misurarsi
proprio sui “terreni di gioco” proposti dal ragazzo (il passatempo pericoloso del coltello tra
le dita…): a quel punto traspare già, evidente, la sua incombente sconfitta.
• Il ragazzo di tanto in tanto estende la propria azione a ruoli e operazioni che competono al
“capitano” dell’imbarcazione, e cioè al marito: ad esempio lo vediamo giocare con la
bussola, quasi a sbeffeggiare la tronfia sicumera di quest’ultimo; o si trova a dover reggere il
timone perché i due coniugi sono in acqua: quando questi però non riescono a risalire sulla
barca, non sappiamo quanto l’inadeguatezza del ragazzo alla guida dell’imbarcazione sia
reale o simulata, e strumentale; sarà comunque la donna a riprendere possesso della barca
mentre il marito si trova ancora ad annaspare in acqua.
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L’unico momento di collaborazione tra i tre è durante l’episodio in cui la barca si ribalta
(probabilmente una delle variazioni volute dalla Commissione per inserire un messaggio sociale).
La natura, fonte di ispirazione primaria del film, si pone sempre come elemento sovrano sulle
vicende, e ne determina tutti gli snodi drammaturgici.
Il momento in cui è chiaro l’elemento del desiderio sessuale è sottolineato dal ronzio di una
zanzara: come a introdurre l’idea di qualcosa che viene percepito ma ancora non del tutto
identificato chiaramente neanche dai protagonisti. Dopo che la zanzara verrà schiacciata, di lì a
poco, il desiderio troverà la sua soddisfazione.
Durante i giochi di società a cui i tre si dedicano per ingannare il tempo sottocoperta, si crea l’intesa
tra Krystyna (la donna) e il ragazzo: l’intesa si muove sul terreno di una comunicazione connotativa
(la musica e la poesia durante la penitenza per il gioco del Mikado), mentre il linguaggio del marito
tecnocrate continua a restare legato a scarni valori denotativi, per cui ad ogni parola corrisponde un
significato e solo quello, e non c’è spazio per sensi aggiunti, per sottotesti, per vaghezze di
significato.
Il momento in cui il rapporto tra la donna e il ragazzo diventa più definito, e infine fisico, in realtà si
è già delineato in precedenza: il marito è già sconfitto, ha già ceduto il suo potere, il ragazzo indossa
il suo accappatoio e ne assume il ruolo; il marito è presente, ironicamente, solo con il suono della
sveglia: lui non c’è fisicamente, ed è tutt’altro che “sveglio” mentre l’intesa tra i due giovani si
definisce.
La vela-sipario chiude l’atto teatrale: l’acqua, e quindi la donna, domina ogni cosa
incontrastatamente.
Il ragazzo si allontanerà sui tronchi con un incedere incerto come il suo futuro: la sua presenza non
è più necessaria, forse non lo è mai stata; la donna eserciterà la sua vendetta sul marito suggellando
il ribaltamento dei ruoli con l’aver spodestato quest’ultimo dal suo trono-territorio-potere (la barca).
La donna fa credere al marito che il ragazzo sia affogato, l’uomo è combattuto tra l’onestà e la
paura di rivolgersi alla polizia; tenta anche di fare dell’ironia su questa eventualità (l’episodio della
ruota di scorta) ma ormai la sua sicurezza non è che un pallido ricordo.
In questo finale a cornice, in macchina, con la pioggia, la donna rivela il suo tradimento:
l’accettazione di questa verità, anche se dolorosa, laverebbe la coscienza del marito dal peso
dell’omicidio; ma lui decide, almeno apparentemente, di non crederle.
Si trovano ad un bivio: da una parte la strada conduce alla Polizia, dall’altra c’è la fuga. L’uomo ha
due opzioni: accettare l’idea di aver compiuto un delitto, o abdicare per sempre al suo orgoglio
virile e alla sua sicurezza, polverizzati dal tradimento di una moglie che lui vedeva come semplice
oggetto inerte e inoffensivo, privo di volontà, da poter plasmare e gestire totalmente.
Il film non dà nessun tipo di soluzione a questi interrogativi, semmai aggiunge un dubbio: quel che
abbiamo visto rappresentato dalle immagini è realmente quel che è accaduto o la donna ha
immaginato tutto in una sua fantasia liberatoria? Forse il ragazzo è morto davvero... O forse non c’è
mai stato...
Questa è la chiave di lettura della maggior parte delle pellicole di Polanski: l’eventualità di non
corrispondenza tra le immagini proposte ai nostri occhi e gli eventi rappresentati nella vicenda.
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LEZIONE II – 9/10/2006
Repulsion (1965)
Repulsion è il secondo lungometraggio di Polanski: un film inglese che lambisce il cinema di
genere. Solo cinque anni prima era uscito Psyco, e l’influenza di questo film su tutto il cinema di
matrice psico-patologica che seguirà, è difficilmente confutabile
Anche la pellicola di Polanski mostra legami con quella di Hitchcock: la storia si fonda su
atteggiamenti devianti di origine psichica; ci si misura infatti con un caso di schizofrenia paranoide,
di personalità multipla (come per il personaggio di Norman Bates); inoltre anche certe soluzioni
adottate in Psyco per rivelare, attraverso dettagli minori, il disturbo del protagonista, sembrano
trovare replica nel caso di Carole (Catherine Deneuve, che interpreta la ragazza psicotica):
Pensiuamo alle carrellate sugli oggetti collezionati nella camera della ragazza: oggetti infantili,
ninnoli puerili che appartengono ad un passato dal quale la protagonista non vuole staccarsi, proprio
come Norman (si veda l’analoga carrellata hitchcockiana sugli orsacchiotti e i pelouches nella
camera dell’assassino di Psyco).
Altro riferimento a Hitchcock lo rinveniamo nei dischi che si vedono ma che non suonano mai: la
musica è manifestazione del tempo; come può essere presente – in quanto scorrere del tempo,
innanzitutto – in un luogo congelato nel passato? (vedremo anche diversi orologi rotti durante il
film).
Polanski nega qualsiasi ammiccamento al suo illustre collega, ma è difficile non vedere le
similitudini.
La protagonista di Repulsion è una ragazza molto bella ma dallo sguardo assente, lavora in un
istituto di bellezza e il suo scivolare nella follia è lento e graduale, senza scatti né gesti che possano
far presagire l’abisso in cui sta per cadere; è piuttosto la sfera sonora del film che ci suggerisce
qualcosa, e con essa i giochi di luce/ombra, come nel cinema espressionista.
I suoni che accompagano la vicenda possono essere divisi in due gruppi:
1. quelli che negano la realtà oggettiva
2. quelli che negano la dimensione soggettiva di Carole, che però in quel momento ci viene
rappresentata come reale sullo schermo
La protagonista, nella sua casa – che rappresenta il luogo della sua mente, quindi la
materializzazione esterna del suo inconscio – è titolare (e “produttrice”) di due categorie di suoni
che rafforzano l’idea stessa della sua dualità, della sua scissione: delle repulsione e attrazione che
poi si riveleranno ben presto di natura sessuale.
Ad esempio, quando Carole sente i sospiri della sorella che nella stanza adiacente fa sesso con il suo
uomo, poco dopo avverte anche – in opposizione ai gemiti “peccaminosi” di poco prima – le
campane del convento che si trova dinanzi alle sue finestre: quelle campane, e l’dea religiosa cui si
è soliti associarle, rappresentano per lei la redenzione, l’appartenenza a uno stato virginale,
incorrotto. Dunque si instaura un antagonismo tra infanzia ed età adulta, intese come purezza e
degenerazione, saldezza e smarrimento, oggetto di desiderio e oggetto di rifiuto, fantasia e realtà.
C’è un particolare che si ripeterà in maniera circolare all’inizio e alla fine, e che mette il primo
mattone nel muro che la protagonista sta per costruirsi verso il mondo esterno: si tratta di una
fotografia che la ritrae con la sua famiglia e che la vede bambina ma già con lo sguardo assente e
rivolto altrove. Forse Polanski ci vuol dire che quel momento della vita di Carol è stato l’inizio della
sua malattia... forse la sua repulsione per il sesso, per gli uomini, viene da un’antica violenza subita
nell’infanzia? Questo non viene mai chiarito durante il film ma alla fine questa immagine si
ripeterà, proiettando sul film, retrospettivamente, l’ombra di quello sguardo perduto nel nulla,
distaccato dalla realtà che circonda la bambina: in una parola, già malato.
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In maniera affine, e con intenti non dissimili, Kubrick riprenderà questa soluzione in Shining, quasi
a ribadire che il tempo (lì per Torrance, qui per Carole) non è passato, è congelato, immobile come
le fotografie che vediamo.
I titoli di testa
Come sempre, già i titoli di testa ci dicono qualcosa sugli eventi ai quali stiamo per assistere:
• iniziano con il particolare di un occhio femminile (un ammiccamento e omaggio a Le chien
andalou di Buñuel) attraversato orizzontalmente, si potrebbe dire “tagliato”, dal nome stesso
di Polanski: e questo è già un elemento inquietante…
• i nomi scorrono in obliquo, e questo crea un effetto straniante, la sensazione di una
mancanza di simmetria ed equilibrio (una sensazione che verrà raforzata da altri elementi
durante lo svolgersi della storia: come ad esempio la cartolina raffigurante la torre di Pisa
che la protagonista riceve dalla sorella in vacanza in Italia con il suo ragazzo)
• La musica è ridotta all’alternarsi tra i suoni di due timpani che riproducono il battito
cardiaco: quasi a voler alludere a una vicenda che nasce e si sviluppa all’interno della
protagonista, nella sua soggettività. Quel suono sembra provenire dal suo corpo ma non
appartiene comunque ad esso.
L’inizio del film è segnato da un’immagine di morte, si tratta in realtà di una cliente del salone di
bellezza nel quale lavora Carole, che sta sdraiata sul lettino e sta facendo una maschera per il viso
con la creta: allo spettatore, però, questa appare come una maschera funebre, forse anche perché
dopo quei titoli di testa così poco rassicuranti è proprio quel che ci si aspetta. In realtà
l’accostamento tra il salone di bellezza e quella sgradevole visione della maschera di creta inaugura
la relazione metaforica – più volte ribadita nel corso del film – tra seduzione, bellezza e sofferenza,
dolore, morte. Più avanti questa associazione si ripresenterà quando la ragazza ferisce
inavvertitamente (?) una cliente durante una seduta di manicure: si tratta di una pratica di bellezza,
di un trattamento rivolto al perfezionamento dell’aspetto (in vista di una maggiore attrattiva, forse
di un maggior fascino seduttivo) eppure causa morte, dolore, sangue.
Dal punto di vista del linguaggio cinematografico Polanski si affida molto al suono per suggerire la
follia e soprattutto la scissione della protagonista: si pensi al rumore delle crepe che esiste solo nella
sua fantasia; allo squillo del telefono e del campanello che irrompono all’improvviso riportandola/ci
di prepotenza alla realtà; al pianoforte che suona in lontananza e che ripete sempre le stesse scale,
identici esercizi, a sottolineare l’immobilità circolare del tempo; la ripetizione di qualcosa che già è
stato, il suono delle campane e le risa delle suore, il ticchettio degli orologi. Tutti questi suoni si
rincorrono secondo dinamiche responsoriali: quelli che provengono dalla mente di Carol vengono
immancabilmente seguiti dai suoni che appartengono alla realtà, ma che nella sua mente dissestata
assumono valori e significati completamente soggettivi, imprevedibili, e comunque diversi dal
senso comune. Altro elemento importante è la luce che, come si è già accennato, viene utilizzata in
sintonia con certi stilemi espressionisti: a volte taglia il volto di lei a metà, a ribadire la coesistenza
di luci ed ombre, di positività e negatività, nella sua personalità, o evidenzia solo alcuni dettagli,
lasciando il resto in ombra.
L’utilizzo dei grandangoli – peraltro costante in Polanski – ci restituisce una visione della realtà
dilatata e deformata: le mura dell’appartamento sono espressione tangibile della mente della
protagonista, che stenta a guardarsi negli specchi ma indugia in più d’una occasione a osservare
l’immagine del proprio riflessa su superfici cromate (un bollitore, un recipiente all’istituto di
bellezza) che ne deformano grottescamente i lineamenti. C’è sempre molta profondità di campo,
tutto è a fuoco: Polanski ci restituisce sempre il senso dello spazio, laddove quello del tempo, il suo
scorrere reale, non è suffragato da nessun elemento certo. E’, smentito, piuttosto.
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Quando la sorella di Carole decide di partire con il fidanzato per l’Italia, assistiamo al crollo
definitivo della ragazza che si barrica in casa, perdendo gradualmente ogni residuo contatto con la
realtà; l’appartamento assume l’aspetto di un campo di battaglia, e presto lo diventerà davvero; gli
oggetti sono abbandonati in terra, in un progressivo rispecchiamento del disordine che ormai la
possiede completamente; lei si aggira per le stanze come un fantasma, mangia pochissimo fino a
smettere del tutto, tira fuori dal frigo il coniglio che la sorella le aveva lasciato per arrostirlo, e lo
lascia imputridire senza neanche avvertirne le esalazioni ributtant: anch’esso diviene emblema
diretto di una decomposizione di cui la ragazza non è più consapevole nè, quindi, capace di frenare
l’avanzata. Il baratro è spalancato.
Molti sono gli spunti, gli indizi che Polanski ci fornisce per intuire la condizione psichica della
ragazza: il disagio ambiguo che lei prova in presenza del compagno della sorella; la repulsione
verso gli oggetti che gli appartengono e che lei trova in bagno (la maglietta sporca di sudore, che
Carole si avvicina al volto voluttuosamente, per poi provarne subito repulsione, nausea e orrore;
oppure il rasoio, che poi utilizzerà per uccidere il padrone di casa); il terrore che la allontana dal
ragazzo che la corteggia e che la spinge ad ucciderlo quando lui, preoccupato per non averla più
vista al lavoro, la andrà a cercare in casa. Vi sono poi alcuni discorsi tra avventori di un bar e un
breve momento di complicità tra Carole e una sua collega che fanno forse velata allusione a pulsioni
omosessuali latenti; vengono citate a più riprese fiabe della tradizione, come “Cenerentola”: alla
fine, quando Carol in stato catatonico verrà condotta fuori dalla sua abitazione, sarà proprio il
fidanzato della sorella a portarla in braccio, quasi in una parodia distorta della principessa
addormentata e del suo principe azzurro.
Alla fine di questo incubo, quando la sorella e il suo uomo tornano dal viaggio e si trovano dinanzi
all’orribile spettacolo della casa devastata, dei cadaveri (che però non vengono mai mostrati del
tutto) e del penoso stato in cui versa Carol, irrompono in casa i vicini, che durante tutto il film non
si sono mai visti e che in pochi attimi invadono lo spazio dell’appartamento in una scena dalle
venature grottesche: oltre a scontati rinvii ai successivi L’inquilino del terzo piano e Rosemary’s
baby, questa sequenza ci porta a pensare che forse, a dispetto di quel che abbiamo visto sino a quel
momento, anche gli omicidi, oltre agli stupri, sono solo il frutto della mente di Carole. Ma come
sempre in Polanski l’ambiguità è privilegiata rispetto a intrecci suscettibili di soluzioni
inequivocabili. Il regista Alan J. Pakula (Perchè un assassinio, Tutti gli uomini del presidente, La
scelta di Sophie) diceva: “E’ terribilmente importante dare agli spettatori cose che non possono
afferrare assieme ad altre che invece possono comprendere, così che alla fine il film si fondi sulla
sua stessa tessitura complessiva, e non si risolva solo in una comunicazione semplicistica”. Polanski
sembra un interprete esemplare di questo punto di vista.
LEZIONE III – 11/10/2006
Cul de sac (1966)
Terzo lungometraggio di Polanski e uno dei suoi film più sentiti, come da lui più volte dichiarato.
Già il titolo la dice lunga: infatti il significato di cul de sac è vicolo cieco, strada senza uscita; in
effetti proprio un vicolo cieco si rivelerà, per i personaggi della storia, il castello di Holy Island.
Gli elementi-chiave sono fondamentalmente due:
• L’isolamento, determinato dall’acqua che con l’alta marea trasforma la penisola su cui sorge
il castello in un’isola virtuale.
• Lo scontro tra i personaggi: una coppia dall’equilibrio precario proietta all’esterno le sue
tensioni interne come risposta all’arrivo di un’altra coppia.
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Le due coppie in questione sono due coniugi male assortiti e due gangster altrettanto goffi e
clownistici, che capitano per caso sull’isola perché in fuga dopo una rapina fallita.
L’elemento estraneo (dei due gangster solo uno sopravvive; l’altro muore ben presto delle ferite
riportate nella rapina) trova inizialmente uno scudo, una solidarietà tra i coniugi, che lo esclude; ma
in seguito con l’una e con l’altro si cominciano a creare intese – dalle quali chi resta fuori è escluso
– sempre finalizzate a determinare la gestione del potere (come ne Il coltello nell’acqua, dove le
implicazioni erano anche a sfondo sessuale, elemento che qui è del tutto assente); le alleanze che si
creano viaggiano però sempre sui binari dell’irrazionalità, dell’emotività, senza seguire disegni
preordinati.
Il titolo del film doveva essere inizialmente Quando arriverà Katelbach (questo il nome del capo
dei due malviventi che dovrebbe tirarli fuori dai guai ma che non arriverà mai): il riferimento a
Beckett e al suo Aspettando Godot è più che esplicito, non solo per via del titolo ma anche per i
personaggi dei due gangster che ci ricordano i beckettiani Vladimiro ed Estragone.
Polanski ci trasporta in un “teatro dell’assurdo” che, tramite la messa in scena di situazioni e
personaggi che sfuggono all’analisi e alle spiegazioni razionali, si rifiuta di trarre ispirazione dal
naturalismo e usa le tecniche drammatiche per esprimere l’assurdità della condizione umana (parte
dal concetto di assurdo elaborato da Camus nel ’42 con il “mito di Sìsifo”). Presente nel trattamento
della vicenda è anche Harold Pinter con la “commedia della minaccia”(comedy of menace), un
modello drammaturgico nato in Inghilterra sul finire degli anni ’50, che mette in scena e analizza le
reazioni dei personaggi a minacce terrificanti e spesso oscure con gli stessi espedienti
drammaturgici della commedia (e in questo caso, del grottesco)
Ne Il Mito di Sisifo del 1942 (testo-chiave dell’esistenzialismo) Camus, tramite la figura mitologica
del re di Corinto (condannato da Zeus a portare all’infinito sulla cima di una montagna una
pesantissima pietra che poi inesorabilmente sarebbe rotolata di nuovo a valle, e di nuovo Sisifo
avrebbe dovuto ricondurla in cima; e così via) parla dell’assurdo che caratterizza l’esperienza
umana dell’insuperabile scissione tra la ragione e l’irrazionalità. Per Camus la non rassegnazione
alla condizione umana trova due soluzioni: l’eroismo o il suicidio, quest’ultimo si limiterebbe ad
interrompere il rapporto tra uomo e mondo, mentre il vero rapporto con l’assurdo è fatto di
coscienza e rivolta. Si può quindi continuare senza cedere alla non-azione, malgrado la
consapevolezza dei propri limiti e dell’assenza di senso. Sisifo è l’uomo che assume su di sé il
destino dell’assurdo e allo stesso tempo non cede alla non-azione: nega gli dei e solleva i macigni.
Così sono i personaggi di Cul de sac, che andranno avanti stoicamente sino alla fine, malgrado da
un certo momento le loro azioni smarriscano totalmente ogni significato.
La donna sarà l’unica a salvarsi con la fuga, dopo aver messo gli uomini l’uno contro l’altro.
Nel potere invisibile di Katelbach, che sovrasta direttamente o indirettamente tutti i personaggi,
qualche osservatore ha voluto leggere una allusione all’invasione nazista, al potere contro cui i
personaggi continuano a muoversi malgrado il loro destino irrevocabile: si è parlato di “eroismo
polacco”, di un eroismo fine a sé stesso tipico di quella nazione.
Polanski parla di quest’opera come della più cinematografica che abbia girato, e una delle sue
preferite; ma malgrado il successo di critica non sarà un successo di pubblico.
Gli elementi polanskiani sono molti:
• L’immobilità del tempo (il disco che si incanta e che fa da preludio alla fuga della donna)
• La coppia implosa
• La segregazione e la minaccia come catalizzatori dell’affioramento e della manifestazione di
passioni e comportamenti altrimenti occulti
• Il soccombere del maschio rispetto a lucidità e mancanza di scrupoli della donna
I titoli di testa
Si parte già da un’equivoco visivo: un puntino nero si avvicina verso di noi proveniente da una
distesa luminosa, da una lunga strada lambita dall’acqua: sembra trattarsi di una macchina in
movimento con qualcuno alla guida ma in realtà, quando l’immagine si fa più nitida, ci si accorge
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che nell’auto c’è si un uomo, ma non è lui che guida, giacché l’auto è spinta da un altro uomo con
un braccio ferito, nascosto al nostro sguardo dall’automobile stessa.
Quando questi decide di lasciare il compare ferito in auto e di dirigersi verso il castello a piedi, per
cercare un telefono e avvertire Katelbach della condizione in cui si trovano, incontrerà una varietà
di animali che nel film hanno un ruolo particolarmente significativo: i granchi, che lo spaventano,
potrebbero rinviare alla donna protagonista, in coincidenza con la cui prima apparizione essi
“entrano in scena”; i polli, che sono i sovrani incontrastati del castello, e le cui uova richiamano la
“testa d’uovo” del protagonista; un cane di pietra all’ingresso. Abbiamo già visto e più oltre
torneremo a vedere dei gabbiani, che paiono riferibili al desiderio di volo, di librarsi da terra (in
ogni senso) del protagonista maschile, che non per nulla ha l’hobby degli aquiloni.
L’uso dei suoni è sempre associato alle azioni come suggerimento.
Per due volte nel film lo spettatore si sostituisce allo specchio: Polanski invita a rifletterci nei
protagonisti, una volta in quello maschile e poi in quello femminile.
Tutti i personaggi maschili sono devirilizzati o goffi, quindi inadeguati; l’unica a suo agio in
quell’ambiente difficile è la figura femminile.
Si accumulano gli elementi che concorrono a creare una situazione assurda.
Il telefono viene tagliato come in Repulsion, a perfezionare l’isolamento completo.
Un nuovo riferimento a Buñuel lo si può individuare nel marito truccato e vestito da donna: come
Viridiana che è un personaggio maschile con velo da sposa.
Il surrealismo come letteralità di quella corrente di pensiero, però, c’entra poco: questo movimento
è ormai finito, l’utopia surrealista che negli anni ’20 e ‘30 postulava e invocava l’affiorare
dell’inconscio, delle pulsioni irrazionali individuali ha trovato imprevedibile e ben più drammatica
attuazione nell’affiorare del peggiore inconscio di massa che ha dato origine alla seconda guerra
mondiale.
L’identificazione più immediata dei due personaggi maschili è con i polli: lei quindi, che è
proprietaria e gestrice del pollaio del castello, governa anche allegoricamente i suoi “pennuti”.
Altro animale, la civetta – il cui verso possiamo ascoltare a più riprese nell’episodio della sepoltura
del gangster deceduto –, è associato a lei: il suo richiamo è sempre associato alla presenza in campo
di lei, vista quindi come predatrice.
Dal momento in cui il gangster sopravvissuto (Dick) scava la fossa per il suo amico morto, si avvia
il valzer delle alleanze tra i protagonisti.
Subito a seguire, Polanski realizza un piano sequenza di 8 minuti durante il quale, mentre la donna
fa il bagno in mare, il marito rivela al gangster tutto il suo amore per lei e la disperazione della sua
condizione. Mentre dorme Dick emette lo stesso verso del gallo, che è l’animale che lo identifica:
non a caso nel tentativo di scacciarlo, tirandogli una pietra, l’uomo fa male a sé stesso.
Come s’è detto, il personaggio del marito (George) è legato agli aquiloni, che materializzano la sua
aspirazione a librarsi: ma il suo non può essere che il breve volo di un pollo, destinato a ricadere
ben presto, e pesantemente a terra; un pennuto dotato di ali ma ancorato irrimediabilmente al suolo.
Il mondo esterno irrompe in due modi:
1. l’aereo, cioè una salvezza che però è irraggiungibile
2. gli ospiti molesti
Di fronte a tutto questo i tre personaggi si coalizzano a testuggine contro il mondo esterno,
aspirando solo a rimanere soli, a essere gli unici occupanti di quel loro microcosmo che – s’è già
detto – è anche palcoscenico di un teatro dell’assurdo.
Alla fine, George, la vittima designata, si fa carnefice (come in Luna di fiele) uccidendo inutilmente
e (quasi) involontariamente Dick. Teresa, la moglie, fugge con un uomo (uno degli ospiti molesti
tornato indietro per recuperare il suo fucile) e George fugge dal microcosmo-prigione
rannicchiandosi in posizione fetale su uno scoglio: qui scoppia a piangere invocando il nome della
sua prima moglie, mentre il destino/realtà, sotto forma di aereo, sorvola l’uomo in preda alla
disperazione, e si allontana definitivamente. Irraggiungibile una volta di più.
La traiettoria esistenziale di ciascuno si è spostata in direzioni impreviste.
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LEZIONE IV - 16/10/2006
“Rosemary’s baby” (1968)
Anche in quest’opera non è chiaro se quanto vediamo sia un incubo di Rosemary. Il film è in diretta
relazione con Repulsion: anche Rosemary è una persona non risolta. Mentre in Repulsion si trattava
di una sindrome da schizofrenia paranoide, qui si potrebbe trattare di una sindrome psicogena legata
al parto: la storia potrebbe anche raccontare la soggettività di una donna allo stesso tempo
affascinata e terrorizzata dall’idea di dare alla luce un figlio, e le cui paure vengono portate alle
estreme conseguenze e poriettate all’esterno, su quanti la circondano. Anche in Rosemary, come in
Carole sembra esserci un trauma legato al periodo infantile (il suo sogno con le suore; ancora una
volta entra in gioco l’educazione cattolica: ma mentre in Repulsion era vista come oasi di salvezza –
benchè solo in apparenza –, per Rosemary l’educazione confessionale, e quindi la religione, sono
sinonimo di sopruso, di repressione). Come molti altri personaggi di Polanski, lei è una outsider,
che arriva dalla provincia nella grande città.
Il film esordisce come una commedia à la Doris Day, ma già dai primi accordi dissonanti della
musica si intuisce qualcosa di sinistro; di lì a poche battute si avvia una ninna nanna (la prima
colonna sonora cinematografica a collegare l’idea di una cantilena infantile a quella di un orrore
rimosso) che nell’idea di Krisztof Komeda, compositore delle musiche, doveva rappresentare una
sorta di versione demoniaca della celeberrima Que serà serà di D. Day. Altra idea di dissonanza e
dualità ci viene dalle due linee melodiche gemelle che procedono in parallelo ma in tonalità
differenti.
Anche qui si ripropone un tema caro a Polanski: l’idea della doppiezza, della ambiguità.
Ancora una volta le immagini del finale riprendono quanto già visto all’inizio, ma in questo caso
non c’è immobilità del tempo: il tempo passa ma non sapremo mai se Rosemary abbia dato
attuyazione, nella sua fantasia, alla nascita di un neonato che in realtà potrebbe anche essere morto
prima di venire alla luce. Di qui la necessità di proiettare all’esterno i sensi di colpa di una
gravidanza amata/odiata, e comunque non conclusa: la perdita del bimbo diviene, nella mente
alterata di Rosemary, uno spossessamento del bambino, di cui i suoi bizzarri vicini di casa – e un
marito troppo distratto dalla carriera – si sono resi responsabili.
È una natività blasfema ma nulla ci dice che sia avvenuta veramente.
Polanski cerca di fuorviarci con i titoli di testa che sono di colore rosa in netto contrasto con quel
che poi vedremo nel film e in netto contrasto con l’andamento della m.d.p. che esegue una
panoramica da destra a sinistra, spesso utilizzata dal regista per dare quel senso di tensione e
mancanza di equilibrio di cui si è già parlato: il movimento da destra a sinistra infatti è visto come
subliminalmente innaturale, quantomeno nella cultura occidentale (con chiaro riferimento alla
direzione della scrittura... e il cinema è scrittura con la luce). La panoramica finisce sul finto gotico
degli appartamenti Dakota (tristemente noti, oggi, anche per l’assassinio di John Lennon) che
Polanski mette subito in frizione con quell’emblema di modernità che è la skyline di New York.
Il luogo ha collezionato nel tempo una serie di fatti raccapriccianti (come l’Overlook Hotel del
successivo Shining).
L’unico amico che potrebbe offrire uno sguardo obiettivo, dall’esterno, muore ben presto; ma a ben
riflettere anche lui non è del tutto attendibile, perché il lavoro che svolge (scrive racconti per
ragazzi) lo predispone fatalmente a “fantasticare” sulla realtà.
C’è una ragazza che si suicida (ci si lascia credere che la setta abbia tentato di fecondare lei, prima
di Rosemary, e che la giovane abbia preferito la morte) e un attore che diviene cieco; e poi oggetti
rubati che presumibilmente servono a compiere rituali malefici; ma in effetti potrebbe essere tutto
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frutto delle paranoie di Rosemary: le ragazze si suicidano anche senza copule sataniche; gli
individui possono restare ciechi poer cause naturali; gli oggetti si dimenticano o si “nascondono”
nella quotidianità di ciascuno...
Il film fa parte della “serie degli appartamenti”: come nel successivo L’inquilino del terzo piano i
due coniugi protagonisti subentrano ad una precedente inquilina che è morta (ne L’inquilino è in
coma).
Alcuni indizi disseminati qua e là ci portano a credere che la precedente inquilina possa essere stata
uccisa perché non più disposta ad aderire alla “setta satanica” (l’idea del complotto, delle alleanze
tenute segrete, dei taciti accordi compiuti alle spalle degli altri, sono motivi che spesso tornano in
Polanski).
L’armadio – elemento di passaggio tra l’appartamento di Rosemary e quello dei due “diabolici”
vicini di casa – è un altro elemento che troviamo spesso nella produzione del regista, che ad esso
affida un valore di mistero, di contenitore di qualcosa di indefinibile e sinistro.
L’amico scrittore esordisce quasi subito con racconti sugli eventi negativi che si sono avvicendati
nell’edificio, e ovviamente Rosemary ne rimane colpita.
Il termine “gessoso” utilizzato per descrivere il sapore del dolce è importante all’interno della storia
e tornerà più volte. L’aspetto stesso di Rosemary verrà definito simile al gesso, quando le sue
condizioni di salute cominceranno a deteriorarsi visibilmente.
È dopo il concepimento che Rosemary comincia a collegare tutti gli elementi che fino a quel
momento ha avuto sotto gli occhi ma ai quali non ha sin lì dato peso; lo stesso Polanski però con
pochi tocchi destituisce di attendibilità tutti i personaggi, compresi quelli favorevoli alla donna: di
ogni evento, come s’è accennato, egli fornisce la spiegazione “a tesi” sottoscritta da una sempre più
impressionata Rosemary, ma contemporaneamente ci offre indizi che minano la veridicità di
ciascuna spiegazione.
C’è un lungo piano sequenza di lei nella cabina telefonica: ormai Rosemary travisa tutto ciò che
vede, ogni cosa per lei assume un significato altro rispetto a quello più evidente; e con l’equivoco
sull’identità della figura che aspetta fuori della cabina telefonica, Polanski corrobora in noi il
sospetto di una serie di abbagli di Rosemary: sospetto che ci aveva già instillato con l’episodio,
apparentemente insignificante, dell’appuntamento con Hutch; qui una Rosemary visibilmente
alterata aveva scambiato un estraneo per il suo amico, dimostrando l’incapacità di discriminare tra
realtà e fantasia, tra oggettività e proiezioni soggettive. Il significato di questo piccolo errore si può
leggere come una inattendibilità di Rosemary ormai in via di consolidamento: presa dal panico, la
ragazza è portata a vedere solo quel che crede di vedere, quale che sia la realtà.
Non ci sono ottiche deformanti che indichino una visione in soggettiva, né soluzioni di linguaggio o
di tipo sonoro che ci lascino interpretare in maniera univoca gli eventi.
Gli ultimi 15 minuti della pellicola sono puro grottesco: forse la vera fine della storia è quando a
Rosemary viene riferito che il bambino è morto; tutto il resto – che segue alla somministrazione di
un farmaco per iniezione: non dimentichiamolo – è la proiezione di una madre ferita che non vuole
accettare la realtà, e dell’evento luttuoso rifiuta i sensi di colpa, preferendo attribuire a un complotto
esterno il tragico destino di suo figlio.
LEZIONE V – 18/10/2006
Chinatown (1974)
Stavolta Polanski accetta di lavorare sulla sceneggiatura di un altro autore. Il film si colloca in un
filone che si può identificare come quello “dei detectives sconfitti” (ad esempio l’Harrry Caul de La
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conversazione di F.F.Coppola; il giornalista-detective di Perchè un assassinio di A.J. Pakula; o il
protagonista di Bersaglio di notte di A. Penn).
In Chinatown il protagonista farà luce sul caso senza avere alcuna possibilità di cambiare le cose, di
modificare il destino: è anzi il fatalismo, l’inerzia forse, a essere invocata come sola possibile
soluzione: “Lascia perdere Jake... è Chinatown” recita l’ultima battuta del film.
Il modo di analizzare i fatti di Jake Gittes è apparentato a quello di Rosemary: il processo che li
porta alla conoscenza è di tipo additivo, ma la capacità di analisi di entrambi i protagonisti si muove
lungo i binari del pregiudizio; lei proietta i suoi apriorismi su quel che vede, laddove lui sbaglia
sempre l’interpretazione dei fatti perché il pregiudizio – appunto – ne inquina la lettura.
L’ultima parte della sua indagine si colloca non più nella sfera pubblica ma in quella privata
(l’incesto che può essere ricondotto alla violenza sessuale sulla Carole di Repulsion) e torna –
benchè estremizzato dall’aggravante dell’incesto stesso – l’elemento del rapporto tra un uomo e una
donna con grande differenza di età (come in Cul de sac).
Polanski ha sempre voluto mettere in scena le proiezioni dell’orrore interiore dell’individuo verso
l’esterno: in questo caso, invece, l’orrore è tutto esterno, del mondo, e avvolge i personaggi: il
detective protagonista non può che assistere impotente alla rovina prodotta da quella corruzione che
va faticosamente mettendo in luce. E qualunque suo intervento salvifico, nient’affatto risolutivo,
finisce invece per rientrare fatalmente nel disegno rovinoso predisposto dal destino e, piuù
concretamente, dai poteri forti come il patriarca Noah Cross.
Non a caso Polanski mette in scena un finale in cui il capitale, nelle sembianze di Noah Cross –
apparentemente in scacco, sino a poco prima –, si rivela vincitore assoluto, e proietta la sua ombra
sinistra anche sulla giovane nipote (che è anche la figlia frutto dell’incesto), sulla felicità del cui
destino sarebbe impossibile scommettere.
L’eroe non è in realtà una persona con particolari doti investigative, “non ha buon naso”, tanto che
gli viene anche simbolicamente affettato il naso durante uno scontro con i gorilla di Cross (è lo
stesso regista che recita la parte del “mutilatore” di Gittes). Altro significato metaforico di quella
ferita è quello della castrazione: una battuta volgare di Gittes su un certo uso “improprio” del naso
stesso, sembra corroborare questa interpretazione.
Nella sua precedente carriera in polizia, Gittes aveva causato la morte di una donna: la storia si
ripeterà, decretando per lui una sconfitta non solo professionale ma anche esistenziale.
Vuole andare troppo a fondo nelle cose (contravvenendo alle raccomandazioni apprese durante il
suo periodo in polizia che consigliavano di fare il meno possibile a Chinatown, tanto le cose
sarebbero andate comunque male) e tutto finisce in tragedia.
È un film sul “guardare che non è sufficiente per capire”: il vedere può essere misinterpretato, le
apparenze ingannano.
Come sempre Polanski dissemina sapientemente elementi iconografici che ci riportano alla forma
circolare dell’occhio e all’atto del vedere, così come alla menomazione della vista: gli occhiali rotti,
gli orologi da taschino infranti, le luci di posizione dell’auto – il “gruppo ottico”, secondo una
denoiminazione corretta – spaccate a bella posta; etc).
L’episodio chiave: quando Gittes rientra in ufficio una donna lo aspetta ma lui non se ne accorge e
racconta una barzelletta spinta appena ascoltata dal barbiere; gli amici fanno ogni genere di gesto
per fargli capire della presenza femminile ma lui non raccoglie…è poco intuitivo per essere un
detective, non sa interpretare correttamente i segnali che vede davanti ai suoi occhi. Già qui
Polanski sembra volerci mettere in guardia sulle capacità di lettura che Gittes (non) possiede.
Sappiamo che il regista è intervenuto a più riprese per modificare la sceneggiatura originale.
L’idea del sesso e della femminilità è all’inizio legata alla perdita già subìta da Gittes, ma anche
all’episodio del cliente che scopre il tradimento della moglie attraverso le foto fornite dal detective;
questa associazione femminilità/perdita si ripropone tragicfamente alla fine, quando la donna
muore.
Le relazioni sono: uomo – donna – perdita – emozioni violente; intorno a tutto questo gira la storia e
naturalmente intorno all’elemento dell’ACQUA=l’acqua è vita, è fertilità per la città di Los Angeles
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e l’uomo vuole convogliarla da un’altra parte per compiere una speculazione edilizia, affermando di
volersi “comprare il futuro”. Noah Cross è pura malvagità che proietta la sua ombra sul passato, sul
presente e sul futuro: violenta l’acqua, la natura e la città stessa così come ha fatto con la figlia.
Questo è un tema tipico in Polanski che considera la pervasività del male come totale, irrimediabile.
I giochi verbali nel film sono molto importanti per comprendere il vero significato degli eventi e la
vera natura dei personaggi,: già il nome Noah Cross la dice lunga, essendo ovviamente legato alla
tradizione religiosa cristiano-giudaica (Noè, quindi acqua; Croce) che si associa più col capitalismo
che con l’ideologia progressista; in questo caso il nome è legato anche all’idea che lui sia il
detentore del destino. In una circostanza chiave la parola “grass” (erba) viene trasformata in “glass”
(vetro ma anche occhiali, che saranno uno degli elementi chiave della storia).
In questo film il protagonista è sempre presente, la storia è tutta in soggettiva intellettuale, psicoemotiva, anche se non strettamente oculare: nel senso che la narrazione non coincide
necessariamente col punto di vista ottico.
Le fotografie che si vedono sono un altro elemento chiave di cui lui, come noi, non è in grado di
leggere correttamente il significato, se non quando è troppo tardi.
Il primo profetico accenno alla malvagità e iniquità dell potere economico (vero motivo portante del
film, che si avvia invece su ben altri binari) viene dato durante la seduta dal barbiere, parlando di
mutui bancari.
Gittes (J. Nicholson) è convinto che Evelyn (Faye Dunaway), la figlia di Noah Cross, sia la
colpevole ma continua a prendere cantonate, quando scopre la verità è troppo tardi e malgrado
cerchi di modificare il destino fino alla fine le cose seguiranno il loro corso: il vecchio Noah Cross
ha in mano il futuro (rappresentato dalla figlia/nipote concepita con lo stupro di Evelyn).
Anche il destino di Evelyn è già segnato, gli indizi circa la sua fine sono molteplici durante lo
svolgersi della storia: la macchia nell’occhio, lo sfiorarsi la palpebra dell’occhio che le esploderà
nel finale; il suo occhio è inutile, perché non sa vedere così come quello di Gittes; colui che detiene
il potere, invece, ha sempre un altro occhio a disposizione, a seconda delle circostanze (gli occhiali,
come già detto, stanno per l’atto del vedere: Cross ne ha sempre un paio di ricambio, sostitutivi di
quelli che ha perso, e che dovrebbero inchiodarlo alla sua responsabilità).
LEZIONE VI – 23/10/2006
L’inquilino del terzo piano (1976)
È lo stesso Polanski ad interpretare il protagonista di questo film, il timido impiegato polacco
Trelkowsky.
La sceneggiatura si basa su un libro di Roland Topor: Le locataire chimérique.
Polanski mette in scena la tragedia individuale di un uomo costantemente prevaricato dagli altri,
una personalità debole che assorbe ciò che lo circonda; il film gira attorno al quesito su cosa sia
l’identità (il protagonista stesso se lo chiede quando fa il discorso su “io e il mio braccio, io e la mia
testa… etc”); la struttura riprende quella di Rosemary’s baby compresa la scena finale,
iperbolicamente grottesca per essere reale, oggettiva.
Oltre al tema dell’identità c’è quello del razzismo, dai toni autobiografici, che tornerà di lì a qualche
anno ne Il pianista ma non più nel registro grottesco, e non più in chiave di tragedia individuale,
quanto piuttosto in quella planetaria della guerra e dello sterminio nazista. Un altro parallelo con il
pianista Szpilman lo troviamo nella persecuzione subita da entrambi gli individui, autoreclusi in
appartamenti, costretti al silenzio dal terrore dei propri vicini (conosciuti e sconosciuti): la loro vita
o morte dipende dalla fiducia che accordano ad altri, e da chi sia la persona cui la accordano
(addirittura a Szpilman verrà suggerito di gettarsi dalla finestra in caso di irruzione da parte dei
nazisti nel suo appartamento: quasi un’eco del destino di Trelkowsky).
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Torna anche il tema del triangolo: Trelkowsky – Simone – Stella (la sua amica che T. incontra in
ospedale e con la quale avrà una breve e tormentata relazione).
Trelkowsky è anch’egli un outsider, uno straniero: non solo per la sua nazionalità ma perché esterno
al condominio. Il desiderio di essere accettato sarà tale che, in concorso con la sua vulnerabilità
emotiva, lo porterà ad assorbire e far propria la personalità di Simone Choule (la precedente
inquilina morta suicida) così come gli viene trasmessa da quell’appartamento che ne ha trattenuto
una sorta di impronta (ancora una volta, un po’ come l’Overlook Hotel in Shining di S. Kubrick).
Il regista ammanta però tutto di ambiguità: non si capirà mai se il fragile equilibrio del protagonista
venga scosso dalla vicenda della suicida e dalla “particolarità” degli inquilini dello stabile, fino a
portarlo alla paranoia e alla follia conclusiva, oppure se l’idea del complotto sia realtà.
Di questa ambiguità si lamenterà l’autore del libro, Topor, che invece propende verso l’ipotesi della
congiura da parte degli inquilini del palazzo. E’ singolare come, replicando quanto era già accaduto
per il libro di Ira Levine da cui era stato tratto Rosemary’s baby, Polanski preferisca sempre le
letture molteplici, polivalenti, piuttosto che una corrispondenza biunivoca tra azioni e loro
significato. Dunque Polanski fornisce indizi, ma non impone soluzioni.
I titoli di testa
Sono piuttosto inquietanti e ci introducono nel clima di dualità che permea tutto il film. La m.d.p.
montata sulla Louma inquadra una finestra, poi indietreggia: c’è Trelkowsky dietro il vetro; poi
viene inquadrato il vetro del cortile sfondato dalla caduta di Simone, quindi il bagno con una
sagoma di un uomo (è certamente Trelkowsky) e poi una figura di donna che al momento non
riusciamo ad identificare (è Simone Choule): ha un’espressione ambigua ed è in abito scuro
(identico a quello di Simone – appunto – che Trelkowsky indosserà nel finale). Quindi la cinepresa
si sposta di 180° su una finestra sottile (è quella del bagno: ma lo sapremo solo in seguito) dietro la
quale appare una giovane donna (sembra Isabelle Adjani, che interpreta Stella) e poi, in una sorta di
dissolvenza incrociata, al suo posto appare Trelkowsky. La m.d.p. continua a muoversi aerea
sfiorando i muri del palazzo fino ai tetti. Quello che ci è stato mostrato è l’ambiguità,
l’intercambiabilità tra le personalità, tra i sessi, tra i luoghi; tre personaggi di cui, neanche a dirlo,
non abbiamo assoluta certezza delle rispettive identità; e poi di nuovo una storia circolare perché
Trelkowsky è già lì, c’è sempre stato, è sempre stato l’inquilino del terzo piano (altra affinità con
Shining).
Gli indizi
Possiamo credere tutto e il contrario di tutto: il film potrebbe essere la storia di un complotto ordito
da malefici inquilini contro una ragazza omosessuale (ripetutamente ci vengono forniti indizi sul
lesbismo di Simone: sia dalla sua amica che da altri elementi) che, sentendosi additata per la sua
diversità, è stata spinta al suicidio. Un complotto che si ripete con l’altrimenti “diverso” (perché
straniero e quindi vittima anch’egli di pregiudizi) Trelkowsky, che arriverà alla stessa insostenibile
angoscia della ragazza che lo ha preceduto.
Oppure possiamo dare la lettura dell’assunzione della personalità di Simone da parte di Trelkowsky
come portato della sua assoluta debolezza e mancanza di personalità: egli quindi si lascia
suggestionare da questa presenza di cui è ancora impregnato l’appartamento e dagli eventi che sono
accaduti entro quelle mura; a ciò si aggiuunga la particolarità dei vicini di casa, e forse sensi di
colpa latenti per essersi augurato che la ragazza agonizzante in ospedale morisse così da poter
subentrare al suo posto nell’appartamento; ma c’è anche l’ipotesi che Simone potrebbe essere in
effetti un fantasma che si vuole vendicare, che vuole riprendere la sua vita, dalla quale si è
allontanata ma non separata: come lascerebbero intendere gli strani oggetti che ha lasciato nella sua
casa, spesso riferiti all’Egitto, alla regina Nefertiti (e questo già di per sè può dare quel tocco di
mistero e inquietudine), all’idea dell’imbalsamazione (Simone, in ospedale, è bendata alla maniera
di una mummia) come stadio intermedio tra la vita e la morte; per di piùà Trelkowsky ritrova un
dente di Simone, in una cavità del muro, che lo porta a riflettere (il discorso sull’integrità
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dell’individuo “io e le mie braccia, io e la mia testa...”: quindi l’elemento organico, la parte del
corpo, che ci rappresenta e in qualche misura ci sostituisce) e che innesca in lui, forse, il sospetto di
strani rituali, e sicuramente una reazione forte che avvia fatti inquietanti destinati a portarlo verso il
suo tragico epilogo.
Senza dimenticare – come s’è accennato – il corpo senza forma avvolto dalle bende di Simone nel
letto di ospedale, ovvero il parallelo con la mummia (Il romanzo della mummia di Gautier è tra gli
oggetti di Simone che sono rimasti nella casa) sia come stadio di transito tra vita e morte, sia come
allegoria di una personalità non risolta, quasi una crisalide che non è ancora farfalla (forse di nuovo
in riferimento all’omosessualità di Simone): in ogni caso una visione terrificante, sconvolgente, che
rimane impressa nella mente del protagonista così come nella nostra di spettatori, e che
probabilmente contribuisce a pilotare l’interpretazione degli indizi che seguono.
Lo spazio chiuso
L’appartamento, l’armadio, il bagno sono luoghi chiusi ma anche di passaggio, di transizione da
una dimensione all’altra.
Dell’appartamento come luogo impregnato della personalità di Simone, e quindi luogo della
trasformazione di Trelkowsky abbiamo già detto; l’armadio è qualcosa che nasconde e che rivela,
imprimendo alla storia un cambio di rotta ogni volta che viene spostato e mostra ciò che prima era
invisibile: il ritrovamento del dente ad esempio. Contiene i vestiti della ragazza che incuriosiscono
il protagonista, tanto che ad un certo punto comincerà a indossarli.
Il bagno è il luogo di transito per eccellenza (anche in Kubrick assume questa funzione), è il luogo
dell’altro dove le persone si fermano immobili di fronte ad un muro sul quale Trelkowsky scoprirà
in seguito dei geroglifici egiziani con ogni probabilità tracciati in passato dalla defunta appassionata
di egittologia.
In questo film i confini (tra realtà e fantasia; tra soggettivo e oggettivo; etc) sono sempre molto
labili: compreso quello che separa la tragedia dalla commedia.
LEZIONE VII – 25/10/2006
La morte e la fanciulla (1994)
È la storia di un triangolo dall’inizio alla fine: Paulina – Miranda – Geraldo. Si può anche pensare
ad un quartetto (come il quartetto d’archi n°14 in re minore di Schubert che dà il titolo al film),
Polanski gioca sul quarto personaggio (il Dubbio appunto, che aleggia sin dall’inizio e gioca, come
al solito, a consegnarci una duplice chiave di lettura).
C’è un’ossessione soggettiva sugli eventi che hanno segnato il passato della donna: lei li proietta sul
presente, condizionandolo. I suoi incubi trasudano all’esterno, riversandovisi e inquinandolo.
Ancora una volta il pregiudizio, quindi.
Il testo di partenza non prevede la confessione finale del medico, ma Polanski stesso, che pure l’ha
voluta, in un’intervista getta dubbi su di essa (“in quelle condizioni, sotto quelle pressioni, un uomo
è pronto a dire in modo convincente qualunque cosa”).
La vicenda verte sulla intercambiabilità di ruoli tra carnefice e vittima, uno altro dei temi prediletti
da Polanski (Repulsion, Luna di fiele, Cul de sac), sulla forza e la vulnerabilità combinate tra loro,
sui confini che legano e separano sesso, violenza e sentimento, sul luogo isolato, sull’acqua
identificata con la femminilità (in questo caso il mare in tempesta che rispecchia la femminilità
furente e letale di Paulina).
Le simmetrie:
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1. come sempre identità a specchio tra inizio e fine (la sala da concerto in cui i protagonisti
ascoltano il famoso brano di Schubert);
2. tra le confessioni-monologo di Paulina e del dottor. Miranda, entrambi risolti con la
soluzione del lungo piano sequenza, che nel caso della donna viene spezzato brevemente da
un controcampo del marito; ma la durata concessa alle due confessioni, e la musica sottesa
ad entrambe, sono le medesime;
3. l’opposizione tra due personaggi e un estraneo, possibile aguzzino: motivo presente in altri
film.
4. la prevaricazione del potere: il precedente è in Chinatown in cui Noah Cross dice di voler
recuperare la sua unica figlia, non sente la colpa di averla concepita con lo stupro – per di
più della sua prima figlia – e dice che alcune persone sono capaci di qualunque cose in
determinati momenti; formula ripresa anche dal dottor Miranda nella sua confessione; la
stessa Paulina pur avendo subito da lui torture e violenze, non sa trattenersi in quel momento
dal farsi sua carnefice. Il ruolo del carnefice potrebbe essere, quindi, solo una questione di
circostanze. Polanski esplora i lati bui che ci sono in ciascuno di noi: chiunque potrebbe
essere capace di indicibili orrori se la situazione li favorisse (c’è un riferimento anche alla
tragedia del nazismo, così come a tutte le nefandezze che i travet dell’orrore, i burocrati
della tortura e dello sterminio, hanno compiuto nel Novecento... pensiamo alle pulizie
etniche, ai genocidi mossi dal capitale e dai poteri economici; e via dicendo).
5. la circolarità: il dottore inciampa per due volte nella ruota di scorta seppur in situazioni
totalmente diverse; un’allusione alla circolarità della storia che torna al punto di partenza.
6. le simmetrie nei passati di Gerardo e Paulina: ci sono dei rapporti sessuali consumati
all’insaputa dell’altro, anche se nel caso della donna sono stati subiti passivamente, come
violenza.
La vera trasgressione, malgrado possa sembrare appannaggio di Paulina, è in realtà compiuta dal
dottore: egli ha realizzato quello che sostiene essere un gesto che qualsiasi uomo cova dentro di sé,
e cioè quella violenza al riparo dell’impunità che lui ha inflitto alla stessa donna per ben 14 volte.
Eppure egli si considera un bravo medico, che applica le sue conoscenze per prolungare la vita delle
vittime: esegue con diligenza il suo lavoro, senza però considerare che prolungando la loro vita in
alcuni casi aumenta solo la durata delle loro sofferenze. Polanski utilizza la storia per parlare del
lato oscuro dell’uomo, del male che si annida in ognuno di noi e che aspetta solo il momento
opportuno per affiorare.
Ciascuno dei personaggi rappresenta un archetipo: la donna è il furore vendicativo; il medico è il
possibile innocente/possibile colpevole che deve comunque discolparsi, negare le sue
responsabilità, vere o immaginarie che siano; il marito è il buon senso, l’unico forse in cui gli
spettatori possano identificarsi, è l’indomani di tutte le guerre, colui che ha vissuto la violenza e ora
la rifiuta; ma nella situazione in cui i tre si trovano, cioè nel completo isolamento, senza corrente
elettrica e senza telefono, riemergono le belve in ciascuno di loro, l’uomo biologico prende il
sopravvento su quello storico e culturale.
L’atto di prevaricazione di Paulina su Miranda è una violenza psico-emotiva: lei lo violenta
psicologicamente cercando un risarcimeto per la violenza subita in passato, ma non esiste
risarcimento per quel male subito…
Un elemento ci ricollega ancora al cinema di Kubrick: la musica sublime che può accompagnare la
violenza ma non può trattenerla (Arancia meccanica)
Nel pre-finale c’è un momento chiave in cui Paulina guarda l’abisso e poi c’è un movimento di
macchina in avanti a simulare un salto nel vuoto (come ne L’inquilino del terzo piano): in quel
frangente lei e Miranda sembrano due amanti, aleggia tra loro una sorta di complicità malata; la
morte si consuma dunque in quel movimento di macchina che forse non è una soggettiva; la morte
era necessaria ma inutile, e il richiamo dell’abisso non risolverebbe nulla nella storia: ciascuno di
noi è schiavo di un ruolo.
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Si torna quindi nella sala da concerto, si confermano i ruoli: il dott. Miranda sarà sempre tra i due
coniugi, perché il rapporto tra carnefice e vittima rimane, e non può esserci espiazione per – nè vera
liberazione dal – male subìto. In questo momento le parole di Paulina pronunciate durante la sua
confessione al marito circa le violenze subìte in prigionia acquisiscono un senso: “non ti ho mai
detto di essere stata violentata perché altrimenti l’ombra di quell’uomo sarebbe stata sempre tra
noi”.
LEZIONE VIII – 30/10/2006
Il pianista (2002)
Rilancia la figura di Polanski dopo La nona porta che era stato accolto tiepidamente.
Il pianista vince numerosi premi (tra cui la Palma d’oro).
L’approccio all’olocausto da parte del cinema è stato spesso permeato di valori spettacolari, fittizi, e
di emotività aggiunta, tali da rendere impraticabile una lettura autentica della tragedia “dopo la
quale non sarà più lecito scrivere poesia”.
Polanski cerca di adottare uno sguardo distaccato, quasi scientifico, simile all’approccio di Primo
Levi. I fatti non sono filtrati attraverso la mìmesis ma osservati con spirito cronistico, impersonale:
anche il peggior orrore è rappresentato con toni freddi e analitici, per permetterci di guardare alla
vicenda con razionalità; senza quindi alcun sovraccarico emotivo. Non sembra difficile riconoscere
qui un’eco del teatro brechtiano, soprattutto in termini di verfremdungseffekt, ovvero quell’“effetto
di straniamento” con cui – come è noto – si intende la presa di distanze, il distacco sentimentale
dello spettatore dall’azione scenica, in netta contrapposizione col suo diretto coinvolgimento
emotivo in essa. Costringendolo a distanziarsi, in termini affettivi, da quel che gli viene mostrato,
l’autore obbliga lo spettatore ad una presa di posizione intellettuale, fondata sulla ragione – e
dunque non emotiva, né mediata solo da impulsi “passionali” – nei confronti dell’orrore che
documenta. Agli occhi di Polanski, il giusto atteggiamento per giudicare l’abiezione dello sterminio
nazista non sembra dunque coincidere con una voluttuosa, liberatoria e catartica commiserazione –
ed autocommiserazione – da parte dello spettatore: questi sentimenti, infatti, sono effimeri, sin
troppo facili da metabolizzare e superare: con il risultato di un’efficacia didattica passeggera, di
troppo breve respiro. Al contrario, lo sdegno deve vestirsi di ragione, oltre che di emozione e
impulsi, così da radicarsi durevolemente nella memoria, nel giudizio, nella riflessione
dell’osservatore. Alla luce di questo atteggiamento emotivamente sottrattivo, Il pianista differisce
totalmente da Schlindler’s list di Spielberg.
Polanski non fa suddivisioni di tipo morale tra buoni da una parte e cattivi dall’altra, ma mostra gli
aspetti peggiori e migliori su entrambi i versanti: come sempre il suo sottotesto è quello di
dimostrare come, in determinate circostanze, l’individuo sia capace di qualunque cosa.
Ne L’inquilino del terzo piano ci sono già i germi di quella che sarà la figura del pianista polacco
Wladislaw Szpilman: l’outsider svuotato di ogni dignità e portato alla morte senza una ragione; si
perdono le coordinate logiche all’interno della storia; il non-senso e l’assurdo prendono il
sopravvento, solo che in questo caso l’aggressività verso il diverso non è più solo una
soggettivizzazione trasferita sul piano della realtà dalla vittima di turno, ma si oggetivizza e
universalizza in quanto non tragedia esclusiva di Szpilman: i tedeschi trasformano in outsiders
un’intera etnia e procedono con metodico zelo al suo sterminio.
Il regista inserisce nella storia di Szpilman elementi autobiografici della sua vita all’interno del
ghetto di Cracovia; anche il suo punto di vista sulle guerre, e le lotte politiche in genere, si fa
sentire: le reputa solo un lasciapassare per legittimare la barbarie di cui ogni uomo è capace (le
parole di Noah Cross ritornano, così come quelle di Miranda).
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Gli episodi brutali ci sono, ma proposti senza compiacimento: con il protagonista siamo presenti in
veste di testimoni silenziosi dell’orrore; lui registra quel che vede, ma si sottrae emotivamente e
fisicamente: la macchina da presa segue la stessa linea. Tutto viene rappresentato senza l’iperbole
espressiva che ha caratterizzato il cinema di Polanski sino a quel momento.
Le inquadrature sono quasi tutte in luoghi chiusi o rigidamente delimitati, non c’è mai il respiro
dello spazio; l’unico momento in cui lo sguardo si allarga è quando verso la fine Szpilman
oltrepassa il muro e vede la città ridotta ad un cumulo di macerie. Lo sguardo spazia, si, ma
sull’orrore cosmico, sulla distruzione e il nulla sistematizzati.
Il motivo polanskiano del fatalismo e dell’arbitrarietà della sorte prevale anche qui, malgrado
Szpilman riceva un trattamento di favore per la sua fama di pianista apprezzato della radio di
Varsavia. Non viene mai messo in scena un rapporto di causa effetto tra malvagità e punizione, o tra
generosità, bontà, e premio. Il destino ha un andamento aleatorio, non c’è ricompensa dovuta per il
bene nè per il male che ciascuno pratica.
Il film procede per rarefazione: all’inizio è affollato di persone e voci; poi si sposta nella
individualità circoscritta di un individuo che sceglie l’isolamento per sopravvivere: dovrà lottare per
mantenere la lucidità tenendo a bada l’orrore che richia di sopraffarlo in ogni momento; in questo
senso Szpilman differisce dagli altri personaggi polanskiani che soccombono alla follia.
L’unica cosa a disposizione di Szpilman è il tempo, ed è paradossalmente il suo peggior nemico
perché può minare la sua lucidità ed obiettività: diversamnete dallo spettatore, non sa come
finiranno le cose, come andrà la guerra, quanto durerà, quale sarà il suo destino; si limita ad
osservare ciò che gli accade intorno.
Polanski ci fa vedere solo immagini frammentarie e rubate della battaglia, che sono necessarie al
protagonista per capire qualcosa di quel che sta accadendo all’esterno del suo microcosmo cieco.
La musica, ovviamente è importante: Szpilman suona sempre Chopin, dapprima il “Notturno in do
diesis minore”, postumo; poi la “Grande polacca brillante op.22” (Allegro molto), infine la “Ballata
n.1 in sol minore op.23”.
La musica suonata dall’ufficiale nazista ovviamente è di Beethoven (polacco suona polacco;
tedesco suona tedesco) e si tratta della “Sonata op.27, n.2- Al chiaro di luna”.
Quando incontra l’ufficiale nazista pian piano la situazione si ribalta, poichè riesce a creare con
l’ufficiale una comunicazione estetica che gradualmente si fa etica: il tedesco lo aiuta, ma non per
questo ne riceverà un premio; s’è già detto che la forza di Polanski è nell’essere fuori da questi
clichè.
Sempre durante il momento dell’incontro tra il pianista e l’ufficiale ci troviamo dinanzi a una
sequenza di simbologie: sul piano sono appoggiate la latta di cetrioli che Szpilman custodisce
gelosamente e l’uniforme con cappello dell’ufficiale nazista. Szpilman è l’uomo biologico,
abbrutito, ridotto a occuparsi – vitalisticamente, disperatamente – dei suoi bisogni elementari (ecco
dunque il cibo, e quindi quei preziosi cetrioli), ma capace di risorgere, di ripristinare i suoi valori;
l’ufficiale è l’uomo culturale, arrivato al capolinea della storia (è questo il senso di quell’uniforme,
che dell’abisso della storia è emblema riconosciuto), chino dopo aver capitolato sotto il peso di una
degenerazione della civiltà che altro non è se non pura barbarie. I due estremi sembrano incontrarsi
a mezza via.
Mentre la musica di Chopin pervade la stanza, un raggio di sole unisce idealmente i due personaggi
che, pur avviati su itinerari antagonisti, custodiscono dentro di sé la grazia e la bellezza: è questo
che ancora rende possibile un punto d’incontro, malgrado il male del mondo e malgrado le
condizioni di Szpilman ne facciano poco più che una larva. Eppure c’è ancora spazio per la bellezza
(ne La morte e la fanciulla veniva espresso lo stesso concetto).
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