roman polanski: tra grottesco e tragedia, cercando l`uomo
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roman polanski: tra grottesco e tragedia, cercando l`uomo
PROF. SERGIO BASSETTI CORSO DI FILMOLOGIA I MODULO 2006/07 “ROMAN POLANSKI: TRA GROTTESCO E TRAGEDIA, CERCANDO L’UOMO” LEZIONE I - 4/10/2006 Introduzione al cinema di Polanski Polanski non è uno sperimentatore. Nasce simultaneamente alla Nouvelle Vague, ne conosce la lezione, ma non ne assimila linguaggio, procedimenti, indirizzi.: rimane saldamente ancorato alla classicità. Se Godard è, in quegli anni, il campione della modernità, Polanski è sul lato opposto perché fa riferimento ad un formulario classico. Nel suo cinema troviamo dei temi ricorrenti: • LO SPAZIO CHIUSO che permette di scandagliare motivi come l’isolamento sociale, la claustrofobia, la solitudine come specchio del malessere individuale • RAPPORTI DI POTERE E DI FORZA: il loro mutare durante il procedere della storia si relaziona con lo spazio chiuso, perché è in uno spazio limitato che gli individui si esprimomo in maniera più spontanea e autentica (Il coltello nell’acqua gioca su questo, in questo caso lo spazio chiuso è rappresentato, paradossalmente, dal lago che rinvia anche a un altro elemento ricorrente del cinema di Polanski: l’ACQUA). • L’ACQUA è elemento che può essere letto in vari modi: principalmente per Polanski (cosi come d’altronde sia nella mitologia classica che nella religione Cristiana) essa rappresenta la femminilità e la fertilità, e non è un caso che strettamente legati all’acqua siano, in un modo o nell’altro, sempre personaggi femminili. Talvolta l’acqua allude alla rigenerazione, a una purificazione possibile, ma non necessariamente conseguita. Come si pongono gli oggetti nel cinema di Polanski? Per lui gli OGGETTI sono lo specchio delle tensioni dei personaggi. Il film Il pianista è la sintesi di tutti i suoi temi. I film di Polanski possono essere raggruppati anche seguendo il criterio del tema principale che li caretterizza: • GLI APPARTAMENTI: Repulsion, La morte e la fanciulla, L’inquilino del terzo piano, Il pianista • L’ACQUA: Il coltello nell’acqua, Cul de Sac, Chinatown, Pirati., Luna di fiele... • LA COPPIA (disturbata): Il coltello nell’acqua, Cul de sac, Luna di fiele, La morte e la fanciulla... In realtà la suddivisione non è così rigorosa ma c’è un passaggio e un concatenarsi continuo tra i temi all’inteno di tutti i suoi lavori, anche in quelli su commissione (ad esempio Chinatown del quale non scrive la sceneggiatura) è forte la presenza dei suoi temi tipici. Oliver Twist è un altro esempio tipico: la sceneggiatura differisce notevolmente dal testo dickensiano, e l’impronta di Polanski si fa sentire anche e soprattutto nella selezione degli episodi trasposti in immagini per lo schermo 1 Il periodo migliore del regista coincide con la sua collaborazione con lo sceneggiatore Gèrard Brac: in questa fase Polanski realizzerà, tra gli altri film, L’inquilino del terzo piano, considerato da molti il suo Shining, poiché uno dei temi portanti del film è la non corrispondenza tra oggettività e soggettività: lo spettatore è lasciato nel dubbio sull’interpretazione da attribuire agli eventi – realmente accaduti o frutto della fervida immaginazione del protagonista? –, e gli esiti non sembrano conseguenza immediata, necessaria e biunivoca, degli eventi che li avrebbero determinati). Polanski frequenta la scuola di cinema di Lodz e qui acquisisce un’alta competenza tecnica. Quando ne esce ha una solida esperienza in ogni settore, come montaggio, fotografia – è un’autorità persino nelle procedure di stampa della pellicola –, e impara quindi ad esercitare il controllo su tutti i processi produttivi e post-produttivi dei suoi lavori. Se si desidera contestualizzare il regista nello scenario globale del cinema polacco, egli si colloca nella corrente di rinascita post-bellica, della quale fanno parte Munk (La passeggera), Wajda, Kawalerovicz, Skolimovski (che collabora a Il coltello nell’acqua scrivendone la sceneggiatura) La tendenza di questi autori è di trarre ispirazione dalla storia polacca, di schierarsi politicamente alla ricerca dell’identità nazionale perduta dopo il II conflitto mondiale, anche a costo di creare incrinature nel rapporto padri/figli tradizionalmente coltivato nella cinematografia nazionale. Polanski si discosta da questa visione della realtà, non cerca questi valori: fa una deviazione e crea un suo territorio d’indagine al cui centro c’è l’individuo; la storia rimane fuori del quadro d’analisi. Il film Il coltello nell’acqua paga lo scotto di questa scelta non-ideologica, poiché suscita lo scetticismo della commissione preposta all’erogazione dei finanziamenti per la realizzazione di nuove pellicole: esso infatti non contiene riferimenti alla situazione sociale della Polonia. Solo dopo aggiunta di alcune battute che rinviano al quadro socio-politico nazionale, la commissione ne approverà la realizzazione. Il coltello nell’acqua (1962) In questo film vengono messe a confronto le due generazioni in cui si divide la società del dopoguerra: i burocrati e i ribelli (gli huligani, come venivano chiamati in quel periodo i giovani insofferenti all’autorità precostituita, ma privi di valori ben precisi da proporre in alternativa). In questo contesto, tramite la vicenda di un triangolo amoroso, non viene ricercato il collante della solidarietà nazionale (come le tacite direttive del governo auspicavano) ma piuttosto viene documentata la mancanza di esso, cioè l’attrito, l’antagonismo tra i due personaggi maschili che dovrebbero incarnare opposte posizioni sociali, generazionali, etiche. La donna in questo caso è il vertice del triangolo, rappresentando la posta in gioco della contesa tra i due uomini: il marito, che incarna la figura del padre, burocrate e integrato, e l’amante che è figura di figlio, ribelle e disadattato. Nel mettere in scena questa storia, apparentemente banale, Polanski si mostra ironico e a volte sottilmente blasfemo (non dimentichiamo che la Polonia è paese cattolicissimo), soprattutto in alcuni riferimenti religiosi, espliciti ma sempre negati dal regista. L’ispirazione originaria viene a Polanski dall’osservazione del paesaggio dei laghi polacchi Masuri, e in quei luoghi gira la pellicola, tutta in esterni, la cui azione è contenuta in tre ambienti: i due microcosmi della macchina e dell’interno della barca, e il macroambiente del lago, non meno claustrofobico dei primi due. Il film è in bianco e nero e la vicenda si svolge nell’arco delle 24 ore. I titoli di testa hanno importanza in quanto, come in tutti i film di Polanski, ci anticipano il significato da attribuire ai personaggi, la loro vera natura: in questo caso, durante tutta la dutrata dei titoli non sono visibili i lineamenti dei due personaggi (marito e moglie che stanno viaggiando in macchina) ma se ne scorge la sagoma indistinta dietro il riflesso del parabrezza, o si vedono di spalle o in dettagli: si manifesta così che non si tratta di una storia individuale, particolare, ma 2 piuttosto generalizzabile, che può essere trasferita ad altre situazioni perché sono i ruoli che vengono analizzati, e non solo le storie di quei tre specifici personaggi. C’è una simmetria tra le prime immagini del film (il viaggio in auto, la pioggia) e quelle finali: il cerchio si chiude perfettamente con la ripetizione della stessa situazione, a significare la mancanza di una conclusione vera e propria della vicenda. In realtà il segno di ciò che vediamo è profondamente mutato, giacché i rapporti di forza tra moglie e marito si sono trasformati: l’uomo è irreparabilmente in scacco, sia che accetti la verità dell’adulterio attuato dalla moglie, sia che tale verità rifiuti, avvalorando e ratificando così la propria responsabilità di omicida (si ritiene infatti colpevole dell’annegamento del giovane). Tertium non datur... Già nelle prime scene si delineano i rapporti di forza tra i due coniugi: il marito vuole il controllo su ogni cosa; la moglie, bambola dal volto totalmente inespressivo, è solo un bellissimo oggetto, che Polanski equipara addirittura alla barca, denominata proprio col nome della donna, Krystyna. L’huligano compare a pochi minuti dall’inizio nei panni di un autostoppista che, camminando al centro della strada, obbliga l’uomo alla guida dell’auto a sterzare e a fermarsi (quindi opera una forza contraria e oppositrice); il giovane inoltre assume anche la “regìa” – e quindi il controllo – della situazione, permettendosi provocatoriamente di far notare al futuro antagonista che non ha spento i fari, e che quindi non è affatto padrone della situazione come pretenderebbe. Con ogni pretesto possibile il marito-burocrate scarica la sua collera sulla moglie. perché è lei l’unico anello debole in quel momento; in una delle poche riprese soggettive del film la accusa di essere pronta a far salire il ragazzo malgrado la sua esibita insolenza; poi, quasi a farle dispetto pur avendo l’aria di esaudirne quel desiderio di ospitalità, fa accomodare in auto l’huligano con ironica cortesia. L’huligano ha già, con questa sua apparizione, delineato il suo ruolo: è colui che farà scoppiare contraddizioni e tensioni tra i due coniugi, creando quella frattura che troverà un nuovo, diverso equilibrio grazie al ribaltamento dei ruoli. Da alcuni osservatori il giovane è stato paragonato alla figura di Amleto. La collocazione dei personaggi nello spazio corrisponde al loro ruolo in ciascun momento della storia, per cui le posizioni (primo piano vs. sfondo; frapposizione di ciascuno tra gli altri due; composizione di geometrie “a triangolo”; focalizzazione dell’uno rispetto agli altri, etc) variano col variare dei ruoli. Anche i rapporti col vestiario sono importanti: ad es. all’inizio i due coniugi sono vestiti di bianco e il giovane di nero, mantre alla fine quest’ultimo vestirà letteralmente i panni del marito di lei indossandone l’accappatoio bianco. Di fatto sostituendosi a lui nella “funzione” matrimoniale primaria. Ogni inquadratura evidenzia la situazione che si sta delineando o ne anticipa la soluzione: le stesse vele della barca, stese e inquadrate dal basso, rappresentano il triangolo che ricorre spesso come forma. Ma i rinvii figurali alla forma triangolare sono molteplici e vari. Dal punto di vista del linguaggio filmico la scena in cui i tre si preparano a salire sulla barca presenta già la maggior parte delle soluzioni che verranno adottate durante il resto del film e in tutta la produzione polanskiana: • l’utilizzo delle ottiche corte, dei grandangoli che permettono ampiezza e grande profondità di campo, e quindi l’inserimento di più personaggi, e relative azioni, all’interno della stessa inquadratura: spesso ad ogni azione corrisponde un piano diverso, posto però in stretta relazione con gli altri, che vengono scandagliati dal regista mediante lunghi piani sequenza senza soluzione di continuità (echi del “montaggio proibito” di Bazin). • Piano sequenza a retrocedere dal particolare al quadro d’insieme, e poi chiusura simmetrica con lo stesso movimento della mdp “a rovescio” (in un caso specifico, il particolare della fune sul molo d’attracco, che fa da punto di partenza e d’arrivo del piano sequenza). • Semisoggettive in cui la mdp, posta alle spalle del personaggio – di cui usa la nuca come quinta –, ne segue le azioni. 3 Dopo i primi dieci minuti di film si chiude il prologo: la vela dell’imbarcazione chiude l’nquadratura come una sorta di sipario; il medesimo sipario ritroveremo, simmetricamente e con la stessa composizione d’inquadratura, quando il tradimento sarà compiuto e verrà introdotto l’epilogo. Gli oggetti all’interno della storia sono molto importanti e il loro significato è legato a doppio filo sia ai personaggi che al titolo del film; in particolare il significato più forte lo trasmettono questi tre elementi: • Il coltello, che è il simbolo dell’huligano. La sua forma allungata, la capacità di penetrare ne fanno un simbolo fallico, quindi di quelle vitalità e giovinezza che suscitano l’invidia del marito, deciso ad appropriarsene. • La barca simboleggia il marito: è la proprietà e il controllo. • L’acqua rispecchia la natura femminile: simbologia già presente nella mitologia greca, come nell’antichità che, infine, nel periodo Romantico. L’acqua è amica, accogliente, feconda (ma può trasformarsi in minaccia e pericolo) soprattutto quando è, come in questo caso, lacustre: cioè non animata da moti violenti o scossa dalle tempeste Il titolo Il coltello nell’acqua ci fornisce la soluzione di questo gioco di forze e di simboli: il coltello, simbolo di aggressività, può penetrare l’acqua ma essa lo inghiotte, lo fa scomparire, lo neutralizza, per cui è la donna che alla fine risulterà la vincitrice. Come gia evidenziato all’inizio, uno dei temi che spesso ricorrono nel cinema polanskiano è la claustrofobia: in questo caso, benché l’azione si svolga in spazi aperti, si è in realtà costretti all’interno dell’imbarcazione, circondati dall’acqua, e questa sensazione oppressiva viene trasmessa attraverso la disposizione delle azioni su piani differenti ma tutti “compressi” nella stessa inquadratura. Altre soluzioni continuano a fornirci elementi sulla natura dei personaggi: • Durante la traversata i tre vengono inquadrati uno per uno con lo stesso sfondo, in cui è visibile all’orizzonte la linea dell’acqua, alcuni alberi e il cielo: i due uomini penetrano i 3 livelli perché si trovano in posizione eretta mentre la donna, che è sdraiata a prendere il sole, rimane inscritta al di sotto della linea d’orizzonte, e quindi con il solo sfondo dell’acqua, a sottolinearne ulteriormente l’appartenenza a quello è il suo elemento/emblema • I discorsi del marito-burocrate su un nostromo di sua conoscenza sembrano sottolineare l’ossequio dell’uomo a una vecchia concezione di disciplina “cieca”, che egli rimpiange e che tenta a più riprese di imporre al giovane: con l’unico risultato di creare frizioni reciproche, ed evidenziare la frattura generazionale, e poi ideologica, tra i due. • Il giovane si lancia in varie prove di forza e abilità (come a dimostrazione della sua virilità: cerca di trascinare la barca da solo, gioca abilmente col coltello, si arrampica tra le funi, sull’albero, etc…) che il marito raccoglie come altrettante sfide cui risponde con dimostrazioni di perizia e di comando (la capacità di guidare la barca, il gioco delle carte…); finché, dopo aver “annullato” le capacità dell’altro con le proprie, non si risolve a misurarsi proprio sui “terreni di gioco” proposti dal ragazzo (il passatempo pericoloso del coltello tra le dita…): a quel punto traspare già, evidente, la sua incombente sconfitta. • Il ragazzo di tanto in tanto estende la propria azione a ruoli e operazioni che competono al “capitano” dell’imbarcazione, e cioè al marito: ad esempio lo vediamo giocare con la bussola, quasi a sbeffeggiare la tronfia sicumera di quest’ultimo; o si trova a dover reggere il timone perché i due coniugi sono in acqua: quando questi però non riescono a risalire sulla barca, non sappiamo quanto l’inadeguatezza del ragazzo alla guida dell’imbarcazione sia reale o simulata, e strumentale; sarà comunque la donna a riprendere possesso della barca mentre il marito si trova ancora ad annaspare in acqua. 4 L’unico momento di collaborazione tra i tre è durante l’episodio in cui la barca si ribalta (probabilmente una delle variazioni volute dalla Commissione per inserire un messaggio sociale). La natura, fonte di ispirazione primaria del film, si pone sempre come elemento sovrano sulle vicende, e ne determina tutti gli snodi drammaturgici. Il momento in cui è chiaro l’elemento del desiderio sessuale è sottolineato dal ronzio di una zanzara: come a introdurre l’idea di qualcosa che viene percepito ma ancora non del tutto identificato chiaramente neanche dai protagonisti. Dopo che la zanzara verrà schiacciata, di lì a poco, il desiderio troverà la sua soddisfazione. Durante i giochi di società a cui i tre si dedicano per ingannare il tempo sottocoperta, si crea l’intesa tra Krystyna (la donna) e il ragazzo: l’intesa si muove sul terreno di una comunicazione connotativa (la musica e la poesia durante la penitenza per il gioco del Mikado), mentre il linguaggio del marito tecnocrate continua a restare legato a scarni valori denotativi, per cui ad ogni parola corrisponde un significato e solo quello, e non c’è spazio per sensi aggiunti, per sottotesti, per vaghezze di significato. Il momento in cui il rapporto tra la donna e il ragazzo diventa più definito, e infine fisico, in realtà si è già delineato in precedenza: il marito è già sconfitto, ha già ceduto il suo potere, il ragazzo indossa il suo accappatoio e ne assume il ruolo; il marito è presente, ironicamente, solo con il suono della sveglia: lui non c’è fisicamente, ed è tutt’altro che “sveglio” mentre l’intesa tra i due giovani si definisce. La vela-sipario chiude l’atto teatrale: l’acqua, e quindi la donna, domina ogni cosa incontrastatamente. Il ragazzo si allontanerà sui tronchi con un incedere incerto come il suo futuro: la sua presenza non è più necessaria, forse non lo è mai stata; la donna eserciterà la sua vendetta sul marito suggellando il ribaltamento dei ruoli con l’aver spodestato quest’ultimo dal suo trono-territorio-potere (la barca). La donna fa credere al marito che il ragazzo sia affogato, l’uomo è combattuto tra l’onestà e la paura di rivolgersi alla polizia; tenta anche di fare dell’ironia su questa eventualità (l’episodio della ruota di scorta) ma ormai la sua sicurezza non è che un pallido ricordo. In questo finale a cornice, in macchina, con la pioggia, la donna rivela il suo tradimento: l’accettazione di questa verità, anche se dolorosa, laverebbe la coscienza del marito dal peso dell’omicidio; ma lui decide, almeno apparentemente, di non crederle. Si trovano ad un bivio: da una parte la strada conduce alla Polizia, dall’altra c’è la fuga. L’uomo ha due opzioni: accettare l’idea di aver compiuto un delitto, o abdicare per sempre al suo orgoglio virile e alla sua sicurezza, polverizzati dal tradimento di una moglie che lui vedeva come semplice oggetto inerte e inoffensivo, privo di volontà, da poter plasmare e gestire totalmente. Il film non dà nessun tipo di soluzione a questi interrogativi, semmai aggiunge un dubbio: quel che abbiamo visto rappresentato dalle immagini è realmente quel che è accaduto o la donna ha immaginato tutto in una sua fantasia liberatoria? Forse il ragazzo è morto davvero... O forse non c’è mai stato... Questa è la chiave di lettura della maggior parte delle pellicole di Polanski: l’eventualità di non corrispondenza tra le immagini proposte ai nostri occhi e gli eventi rappresentati nella vicenda. 5 LEZIONE II – 9/10/2006 Repulsion (1965) Repulsion è il secondo lungometraggio di Polanski: un film inglese che lambisce il cinema di genere. Solo cinque anni prima era uscito Psyco, e l’influenza di questo film su tutto il cinema di matrice psico-patologica che seguirà, è difficilmente confutabile Anche la pellicola di Polanski mostra legami con quella di Hitchcock: la storia si fonda su atteggiamenti devianti di origine psichica; ci si misura infatti con un caso di schizofrenia paranoide, di personalità multipla (come per il personaggio di Norman Bates); inoltre anche certe soluzioni adottate in Psyco per rivelare, attraverso dettagli minori, il disturbo del protagonista, sembrano trovare replica nel caso di Carole (Catherine Deneuve, che interpreta la ragazza psicotica): Pensiuamo alle carrellate sugli oggetti collezionati nella camera della ragazza: oggetti infantili, ninnoli puerili che appartengono ad un passato dal quale la protagonista non vuole staccarsi, proprio come Norman (si veda l’analoga carrellata hitchcockiana sugli orsacchiotti e i pelouches nella camera dell’assassino di Psyco). Altro riferimento a Hitchcock lo rinveniamo nei dischi che si vedono ma che non suonano mai: la musica è manifestazione del tempo; come può essere presente – in quanto scorrere del tempo, innanzitutto – in un luogo congelato nel passato? (vedremo anche diversi orologi rotti durante il film). Polanski nega qualsiasi ammiccamento al suo illustre collega, ma è difficile non vedere le similitudini. La protagonista di Repulsion è una ragazza molto bella ma dallo sguardo assente, lavora in un istituto di bellezza e il suo scivolare nella follia è lento e graduale, senza scatti né gesti che possano far presagire l’abisso in cui sta per cadere; è piuttosto la sfera sonora del film che ci suggerisce qualcosa, e con essa i giochi di luce/ombra, come nel cinema espressionista. I suoni che accompagano la vicenda possono essere divisi in due gruppi: 1. quelli che negano la realtà oggettiva 2. quelli che negano la dimensione soggettiva di Carole, che però in quel momento ci viene rappresentata come reale sullo schermo La protagonista, nella sua casa – che rappresenta il luogo della sua mente, quindi la materializzazione esterna del suo inconscio – è titolare (e “produttrice”) di due categorie di suoni che rafforzano l’idea stessa della sua dualità, della sua scissione: delle repulsione e attrazione che poi si riveleranno ben presto di natura sessuale. Ad esempio, quando Carole sente i sospiri della sorella che nella stanza adiacente fa sesso con il suo uomo, poco dopo avverte anche – in opposizione ai gemiti “peccaminosi” di poco prima – le campane del convento che si trova dinanzi alle sue finestre: quelle campane, e l’dea religiosa cui si è soliti associarle, rappresentano per lei la redenzione, l’appartenenza a uno stato virginale, incorrotto. Dunque si instaura un antagonismo tra infanzia ed età adulta, intese come purezza e degenerazione, saldezza e smarrimento, oggetto di desiderio e oggetto di rifiuto, fantasia e realtà. C’è un particolare che si ripeterà in maniera circolare all’inizio e alla fine, e che mette il primo mattone nel muro che la protagonista sta per costruirsi verso il mondo esterno: si tratta di una fotografia che la ritrae con la sua famiglia e che la vede bambina ma già con lo sguardo assente e rivolto altrove. Forse Polanski ci vuol dire che quel momento della vita di Carol è stato l’inizio della sua malattia... forse la sua repulsione per il sesso, per gli uomini, viene da un’antica violenza subita nell’infanzia? Questo non viene mai chiarito durante il film ma alla fine questa immagine si ripeterà, proiettando sul film, retrospettivamente, l’ombra di quello sguardo perduto nel nulla, distaccato dalla realtà che circonda la bambina: in una parola, già malato. 6 In maniera affine, e con intenti non dissimili, Kubrick riprenderà questa soluzione in Shining, quasi a ribadire che il tempo (lì per Torrance, qui per Carole) non è passato, è congelato, immobile come le fotografie che vediamo. I titoli di testa Come sempre, già i titoli di testa ci dicono qualcosa sugli eventi ai quali stiamo per assistere: • iniziano con il particolare di un occhio femminile (un ammiccamento e omaggio a Le chien andalou di Buñuel) attraversato orizzontalmente, si potrebbe dire “tagliato”, dal nome stesso di Polanski: e questo è già un elemento inquietante… • i nomi scorrono in obliquo, e questo crea un effetto straniante, la sensazione di una mancanza di simmetria ed equilibrio (una sensazione che verrà raforzata da altri elementi durante lo svolgersi della storia: come ad esempio la cartolina raffigurante la torre di Pisa che la protagonista riceve dalla sorella in vacanza in Italia con il suo ragazzo) • La musica è ridotta all’alternarsi tra i suoni di due timpani che riproducono il battito cardiaco: quasi a voler alludere a una vicenda che nasce e si sviluppa all’interno della protagonista, nella sua soggettività. Quel suono sembra provenire dal suo corpo ma non appartiene comunque ad esso. L’inizio del film è segnato da un’immagine di morte, si tratta in realtà di una cliente del salone di bellezza nel quale lavora Carole, che sta sdraiata sul lettino e sta facendo una maschera per il viso con la creta: allo spettatore, però, questa appare come una maschera funebre, forse anche perché dopo quei titoli di testa così poco rassicuranti è proprio quel che ci si aspetta. In realtà l’accostamento tra il salone di bellezza e quella sgradevole visione della maschera di creta inaugura la relazione metaforica – più volte ribadita nel corso del film – tra seduzione, bellezza e sofferenza, dolore, morte. Più avanti questa associazione si ripresenterà quando la ragazza ferisce inavvertitamente (?) una cliente durante una seduta di manicure: si tratta di una pratica di bellezza, di un trattamento rivolto al perfezionamento dell’aspetto (in vista di una maggiore attrattiva, forse di un maggior fascino seduttivo) eppure causa morte, dolore, sangue. Dal punto di vista del linguaggio cinematografico Polanski si affida molto al suono per suggerire la follia e soprattutto la scissione della protagonista: si pensi al rumore delle crepe che esiste solo nella sua fantasia; allo squillo del telefono e del campanello che irrompono all’improvviso riportandola/ci di prepotenza alla realtà; al pianoforte che suona in lontananza e che ripete sempre le stesse scale, identici esercizi, a sottolineare l’immobilità circolare del tempo; la ripetizione di qualcosa che già è stato, il suono delle campane e le risa delle suore, il ticchettio degli orologi. Tutti questi suoni si rincorrono secondo dinamiche responsoriali: quelli che provengono dalla mente di Carol vengono immancabilmente seguiti dai suoni che appartengono alla realtà, ma che nella sua mente dissestata assumono valori e significati completamente soggettivi, imprevedibili, e comunque diversi dal senso comune. Altro elemento importante è la luce che, come si è già accennato, viene utilizzata in sintonia con certi stilemi espressionisti: a volte taglia il volto di lei a metà, a ribadire la coesistenza di luci ed ombre, di positività e negatività, nella sua personalità, o evidenzia solo alcuni dettagli, lasciando il resto in ombra. L’utilizzo dei grandangoli – peraltro costante in Polanski – ci restituisce una visione della realtà dilatata e deformata: le mura dell’appartamento sono espressione tangibile della mente della protagonista, che stenta a guardarsi negli specchi ma indugia in più d’una occasione a osservare l’immagine del proprio riflessa su superfici cromate (un bollitore, un recipiente all’istituto di bellezza) che ne deformano grottescamente i lineamenti. C’è sempre molta profondità di campo, tutto è a fuoco: Polanski ci restituisce sempre il senso dello spazio, laddove quello del tempo, il suo scorrere reale, non è suffragato da nessun elemento certo. E’, smentito, piuttosto. 7 Quando la sorella di Carole decide di partire con il fidanzato per l’Italia, assistiamo al crollo definitivo della ragazza che si barrica in casa, perdendo gradualmente ogni residuo contatto con la realtà; l’appartamento assume l’aspetto di un campo di battaglia, e presto lo diventerà davvero; gli oggetti sono abbandonati in terra, in un progressivo rispecchiamento del disordine che ormai la possiede completamente; lei si aggira per le stanze come un fantasma, mangia pochissimo fino a smettere del tutto, tira fuori dal frigo il coniglio che la sorella le aveva lasciato per arrostirlo, e lo lascia imputridire senza neanche avvertirne le esalazioni ributtant: anch’esso diviene emblema diretto di una decomposizione di cui la ragazza non è più consapevole nè, quindi, capace di frenare l’avanzata. Il baratro è spalancato. Molti sono gli spunti, gli indizi che Polanski ci fornisce per intuire la condizione psichica della ragazza: il disagio ambiguo che lei prova in presenza del compagno della sorella; la repulsione verso gli oggetti che gli appartengono e che lei trova in bagno (la maglietta sporca di sudore, che Carole si avvicina al volto voluttuosamente, per poi provarne subito repulsione, nausea e orrore; oppure il rasoio, che poi utilizzerà per uccidere il padrone di casa); il terrore che la allontana dal ragazzo che la corteggia e che la spinge ad ucciderlo quando lui, preoccupato per non averla più vista al lavoro, la andrà a cercare in casa. Vi sono poi alcuni discorsi tra avventori di un bar e un breve momento di complicità tra Carole e una sua collega che fanno forse velata allusione a pulsioni omosessuali latenti; vengono citate a più riprese fiabe della tradizione, come “Cenerentola”: alla fine, quando Carol in stato catatonico verrà condotta fuori dalla sua abitazione, sarà proprio il fidanzato della sorella a portarla in braccio, quasi in una parodia distorta della principessa addormentata e del suo principe azzurro. Alla fine di questo incubo, quando la sorella e il suo uomo tornano dal viaggio e si trovano dinanzi all’orribile spettacolo della casa devastata, dei cadaveri (che però non vengono mai mostrati del tutto) e del penoso stato in cui versa Carol, irrompono in casa i vicini, che durante tutto il film non si sono mai visti e che in pochi attimi invadono lo spazio dell’appartamento in una scena dalle venature grottesche: oltre a scontati rinvii ai successivi L’inquilino del terzo piano e Rosemary’s baby, questa sequenza ci porta a pensare che forse, a dispetto di quel che abbiamo visto sino a quel momento, anche gli omicidi, oltre agli stupri, sono solo il frutto della mente di Carole. Ma come sempre in Polanski l’ambiguità è privilegiata rispetto a intrecci suscettibili di soluzioni inequivocabili. Il regista Alan J. Pakula (Perchè un assassinio, Tutti gli uomini del presidente, La scelta di Sophie) diceva: “E’ terribilmente importante dare agli spettatori cose che non possono afferrare assieme ad altre che invece possono comprendere, così che alla fine il film si fondi sulla sua stessa tessitura complessiva, e non si risolva solo in una comunicazione semplicistica”. Polanski sembra un interprete esemplare di questo punto di vista. LEZIONE III – 11/10/2006 Cul de sac (1966) Terzo lungometraggio di Polanski e uno dei suoi film più sentiti, come da lui più volte dichiarato. Già il titolo la dice lunga: infatti il significato di cul de sac è vicolo cieco, strada senza uscita; in effetti proprio un vicolo cieco si rivelerà, per i personaggi della storia, il castello di Holy Island. Gli elementi-chiave sono fondamentalmente due: • L’isolamento, determinato dall’acqua che con l’alta marea trasforma la penisola su cui sorge il castello in un’isola virtuale. • Lo scontro tra i personaggi: una coppia dall’equilibrio precario proietta all’esterno le sue tensioni interne come risposta all’arrivo di un’altra coppia. 8 Le due coppie in questione sono due coniugi male assortiti e due gangster altrettanto goffi e clownistici, che capitano per caso sull’isola perché in fuga dopo una rapina fallita. L’elemento estraneo (dei due gangster solo uno sopravvive; l’altro muore ben presto delle ferite riportate nella rapina) trova inizialmente uno scudo, una solidarietà tra i coniugi, che lo esclude; ma in seguito con l’una e con l’altro si cominciano a creare intese – dalle quali chi resta fuori è escluso – sempre finalizzate a determinare la gestione del potere (come ne Il coltello nell’acqua, dove le implicazioni erano anche a sfondo sessuale, elemento che qui è del tutto assente); le alleanze che si creano viaggiano però sempre sui binari dell’irrazionalità, dell’emotività, senza seguire disegni preordinati. Il titolo del film doveva essere inizialmente Quando arriverà Katelbach (questo il nome del capo dei due malviventi che dovrebbe tirarli fuori dai guai ma che non arriverà mai): il riferimento a Beckett e al suo Aspettando Godot è più che esplicito, non solo per via del titolo ma anche per i personaggi dei due gangster che ci ricordano i beckettiani Vladimiro ed Estragone. Polanski ci trasporta in un “teatro dell’assurdo” che, tramite la messa in scena di situazioni e personaggi che sfuggono all’analisi e alle spiegazioni razionali, si rifiuta di trarre ispirazione dal naturalismo e usa le tecniche drammatiche per esprimere l’assurdità della condizione umana (parte dal concetto di assurdo elaborato da Camus nel ’42 con il “mito di Sìsifo”). Presente nel trattamento della vicenda è anche Harold Pinter con la “commedia della minaccia”(comedy of menace), un modello drammaturgico nato in Inghilterra sul finire degli anni ’50, che mette in scena e analizza le reazioni dei personaggi a minacce terrificanti e spesso oscure con gli stessi espedienti drammaturgici della commedia (e in questo caso, del grottesco) Ne Il Mito di Sisifo del 1942 (testo-chiave dell’esistenzialismo) Camus, tramite la figura mitologica del re di Corinto (condannato da Zeus a portare all’infinito sulla cima di una montagna una pesantissima pietra che poi inesorabilmente sarebbe rotolata di nuovo a valle, e di nuovo Sisifo avrebbe dovuto ricondurla in cima; e così via) parla dell’assurdo che caratterizza l’esperienza umana dell’insuperabile scissione tra la ragione e l’irrazionalità. Per Camus la non rassegnazione alla condizione umana trova due soluzioni: l’eroismo o il suicidio, quest’ultimo si limiterebbe ad interrompere il rapporto tra uomo e mondo, mentre il vero rapporto con l’assurdo è fatto di coscienza e rivolta. Si può quindi continuare senza cedere alla non-azione, malgrado la consapevolezza dei propri limiti e dell’assenza di senso. Sisifo è l’uomo che assume su di sé il destino dell’assurdo e allo stesso tempo non cede alla non-azione: nega gli dei e solleva i macigni. Così sono i personaggi di Cul de sac, che andranno avanti stoicamente sino alla fine, malgrado da un certo momento le loro azioni smarriscano totalmente ogni significato. La donna sarà l’unica a salvarsi con la fuga, dopo aver messo gli uomini l’uno contro l’altro. Nel potere invisibile di Katelbach, che sovrasta direttamente o indirettamente tutti i personaggi, qualche osservatore ha voluto leggere una allusione all’invasione nazista, al potere contro cui i personaggi continuano a muoversi malgrado il loro destino irrevocabile: si è parlato di “eroismo polacco”, di un eroismo fine a sé stesso tipico di quella nazione. Polanski parla di quest’opera come della più cinematografica che abbia girato, e una delle sue preferite; ma malgrado il successo di critica non sarà un successo di pubblico. Gli elementi polanskiani sono molti: • L’immobilità del tempo (il disco che si incanta e che fa da preludio alla fuga della donna) • La coppia implosa • La segregazione e la minaccia come catalizzatori dell’affioramento e della manifestazione di passioni e comportamenti altrimenti occulti • Il soccombere del maschio rispetto a lucidità e mancanza di scrupoli della donna I titoli di testa Si parte già da un’equivoco visivo: un puntino nero si avvicina verso di noi proveniente da una distesa luminosa, da una lunga strada lambita dall’acqua: sembra trattarsi di una macchina in movimento con qualcuno alla guida ma in realtà, quando l’immagine si fa più nitida, ci si accorge 9 che nell’auto c’è si un uomo, ma non è lui che guida, giacché l’auto è spinta da un altro uomo con un braccio ferito, nascosto al nostro sguardo dall’automobile stessa. Quando questi decide di lasciare il compare ferito in auto e di dirigersi verso il castello a piedi, per cercare un telefono e avvertire Katelbach della condizione in cui si trovano, incontrerà una varietà di animali che nel film hanno un ruolo particolarmente significativo: i granchi, che lo spaventano, potrebbero rinviare alla donna protagonista, in coincidenza con la cui prima apparizione essi “entrano in scena”; i polli, che sono i sovrani incontrastati del castello, e le cui uova richiamano la “testa d’uovo” del protagonista; un cane di pietra all’ingresso. Abbiamo già visto e più oltre torneremo a vedere dei gabbiani, che paiono riferibili al desiderio di volo, di librarsi da terra (in ogni senso) del protagonista maschile, che non per nulla ha l’hobby degli aquiloni. L’uso dei suoni è sempre associato alle azioni come suggerimento. Per due volte nel film lo spettatore si sostituisce allo specchio: Polanski invita a rifletterci nei protagonisti, una volta in quello maschile e poi in quello femminile. Tutti i personaggi maschili sono devirilizzati o goffi, quindi inadeguati; l’unica a suo agio in quell’ambiente difficile è la figura femminile. Si accumulano gli elementi che concorrono a creare una situazione assurda. Il telefono viene tagliato come in Repulsion, a perfezionare l’isolamento completo. Un nuovo riferimento a Buñuel lo si può individuare nel marito truccato e vestito da donna: come Viridiana che è un personaggio maschile con velo da sposa. Il surrealismo come letteralità di quella corrente di pensiero, però, c’entra poco: questo movimento è ormai finito, l’utopia surrealista che negli anni ’20 e ‘30 postulava e invocava l’affiorare dell’inconscio, delle pulsioni irrazionali individuali ha trovato imprevedibile e ben più drammatica attuazione nell’affiorare del peggiore inconscio di massa che ha dato origine alla seconda guerra mondiale. L’identificazione più immediata dei due personaggi maschili è con i polli: lei quindi, che è proprietaria e gestrice del pollaio del castello, governa anche allegoricamente i suoi “pennuti”. Altro animale, la civetta – il cui verso possiamo ascoltare a più riprese nell’episodio della sepoltura del gangster deceduto –, è associato a lei: il suo richiamo è sempre associato alla presenza in campo di lei, vista quindi come predatrice. Dal momento in cui il gangster sopravvissuto (Dick) scava la fossa per il suo amico morto, si avvia il valzer delle alleanze tra i protagonisti. Subito a seguire, Polanski realizza un piano sequenza di 8 minuti durante il quale, mentre la donna fa il bagno in mare, il marito rivela al gangster tutto il suo amore per lei e la disperazione della sua condizione. Mentre dorme Dick emette lo stesso verso del gallo, che è l’animale che lo identifica: non a caso nel tentativo di scacciarlo, tirandogli una pietra, l’uomo fa male a sé stesso. Come s’è detto, il personaggio del marito (George) è legato agli aquiloni, che materializzano la sua aspirazione a librarsi: ma il suo non può essere che il breve volo di un pollo, destinato a ricadere ben presto, e pesantemente a terra; un pennuto dotato di ali ma ancorato irrimediabilmente al suolo. Il mondo esterno irrompe in due modi: 1. l’aereo, cioè una salvezza che però è irraggiungibile 2. gli ospiti molesti Di fronte a tutto questo i tre personaggi si coalizzano a testuggine contro il mondo esterno, aspirando solo a rimanere soli, a essere gli unici occupanti di quel loro microcosmo che – s’è già detto – è anche palcoscenico di un teatro dell’assurdo. Alla fine, George, la vittima designata, si fa carnefice (come in Luna di fiele) uccidendo inutilmente e (quasi) involontariamente Dick. Teresa, la moglie, fugge con un uomo (uno degli ospiti molesti tornato indietro per recuperare il suo fucile) e George fugge dal microcosmo-prigione rannicchiandosi in posizione fetale su uno scoglio: qui scoppia a piangere invocando il nome della sua prima moglie, mentre il destino/realtà, sotto forma di aereo, sorvola l’uomo in preda alla disperazione, e si allontana definitivamente. Irraggiungibile una volta di più. La traiettoria esistenziale di ciascuno si è spostata in direzioni impreviste. 10 LEZIONE IV - 16/10/2006 “Rosemary’s baby” (1968) Anche in quest’opera non è chiaro se quanto vediamo sia un incubo di Rosemary. Il film è in diretta relazione con Repulsion: anche Rosemary è una persona non risolta. Mentre in Repulsion si trattava di una sindrome da schizofrenia paranoide, qui si potrebbe trattare di una sindrome psicogena legata al parto: la storia potrebbe anche raccontare la soggettività di una donna allo stesso tempo affascinata e terrorizzata dall’idea di dare alla luce un figlio, e le cui paure vengono portate alle estreme conseguenze e poriettate all’esterno, su quanti la circondano. Anche in Rosemary, come in Carole sembra esserci un trauma legato al periodo infantile (il suo sogno con le suore; ancora una volta entra in gioco l’educazione cattolica: ma mentre in Repulsion era vista come oasi di salvezza – benchè solo in apparenza –, per Rosemary l’educazione confessionale, e quindi la religione, sono sinonimo di sopruso, di repressione). Come molti altri personaggi di Polanski, lei è una outsider, che arriva dalla provincia nella grande città. Il film esordisce come una commedia à la Doris Day, ma già dai primi accordi dissonanti della musica si intuisce qualcosa di sinistro; di lì a poche battute si avvia una ninna nanna (la prima colonna sonora cinematografica a collegare l’idea di una cantilena infantile a quella di un orrore rimosso) che nell’idea di Krisztof Komeda, compositore delle musiche, doveva rappresentare una sorta di versione demoniaca della celeberrima Que serà serà di D. Day. Altra idea di dissonanza e dualità ci viene dalle due linee melodiche gemelle che procedono in parallelo ma in tonalità differenti. Anche qui si ripropone un tema caro a Polanski: l’idea della doppiezza, della ambiguità. Ancora una volta le immagini del finale riprendono quanto già visto all’inizio, ma in questo caso non c’è immobilità del tempo: il tempo passa ma non sapremo mai se Rosemary abbia dato attuyazione, nella sua fantasia, alla nascita di un neonato che in realtà potrebbe anche essere morto prima di venire alla luce. Di qui la necessità di proiettare all’esterno i sensi di colpa di una gravidanza amata/odiata, e comunque non conclusa: la perdita del bimbo diviene, nella mente alterata di Rosemary, uno spossessamento del bambino, di cui i suoi bizzarri vicini di casa – e un marito troppo distratto dalla carriera – si sono resi responsabili. È una natività blasfema ma nulla ci dice che sia avvenuta veramente. Polanski cerca di fuorviarci con i titoli di testa che sono di colore rosa in netto contrasto con quel che poi vedremo nel film e in netto contrasto con l’andamento della m.d.p. che esegue una panoramica da destra a sinistra, spesso utilizzata dal regista per dare quel senso di tensione e mancanza di equilibrio di cui si è già parlato: il movimento da destra a sinistra infatti è visto come subliminalmente innaturale, quantomeno nella cultura occidentale (con chiaro riferimento alla direzione della scrittura... e il cinema è scrittura con la luce). La panoramica finisce sul finto gotico degli appartamenti Dakota (tristemente noti, oggi, anche per l’assassinio di John Lennon) che Polanski mette subito in frizione con quell’emblema di modernità che è la skyline di New York. Il luogo ha collezionato nel tempo una serie di fatti raccapriccianti (come l’Overlook Hotel del successivo Shining). L’unico amico che potrebbe offrire uno sguardo obiettivo, dall’esterno, muore ben presto; ma a ben riflettere anche lui non è del tutto attendibile, perché il lavoro che svolge (scrive racconti per ragazzi) lo predispone fatalmente a “fantasticare” sulla realtà. C’è una ragazza che si suicida (ci si lascia credere che la setta abbia tentato di fecondare lei, prima di Rosemary, e che la giovane abbia preferito la morte) e un attore che diviene cieco; e poi oggetti rubati che presumibilmente servono a compiere rituali malefici; ma in effetti potrebbe essere tutto 11 frutto delle paranoie di Rosemary: le ragazze si suicidano anche senza copule sataniche; gli individui possono restare ciechi poer cause naturali; gli oggetti si dimenticano o si “nascondono” nella quotidianità di ciascuno... Il film fa parte della “serie degli appartamenti”: come nel successivo L’inquilino del terzo piano i due coniugi protagonisti subentrano ad una precedente inquilina che è morta (ne L’inquilino è in coma). Alcuni indizi disseminati qua e là ci portano a credere che la precedente inquilina possa essere stata uccisa perché non più disposta ad aderire alla “setta satanica” (l’idea del complotto, delle alleanze tenute segrete, dei taciti accordi compiuti alle spalle degli altri, sono motivi che spesso tornano in Polanski). L’armadio – elemento di passaggio tra l’appartamento di Rosemary e quello dei due “diabolici” vicini di casa – è un altro elemento che troviamo spesso nella produzione del regista, che ad esso affida un valore di mistero, di contenitore di qualcosa di indefinibile e sinistro. L’amico scrittore esordisce quasi subito con racconti sugli eventi negativi che si sono avvicendati nell’edificio, e ovviamente Rosemary ne rimane colpita. Il termine “gessoso” utilizzato per descrivere il sapore del dolce è importante all’interno della storia e tornerà più volte. L’aspetto stesso di Rosemary verrà definito simile al gesso, quando le sue condizioni di salute cominceranno a deteriorarsi visibilmente. È dopo il concepimento che Rosemary comincia a collegare tutti gli elementi che fino a quel momento ha avuto sotto gli occhi ma ai quali non ha sin lì dato peso; lo stesso Polanski però con pochi tocchi destituisce di attendibilità tutti i personaggi, compresi quelli favorevoli alla donna: di ogni evento, come s’è accennato, egli fornisce la spiegazione “a tesi” sottoscritta da una sempre più impressionata Rosemary, ma contemporaneamente ci offre indizi che minano la veridicità di ciascuna spiegazione. C’è un lungo piano sequenza di lei nella cabina telefonica: ormai Rosemary travisa tutto ciò che vede, ogni cosa per lei assume un significato altro rispetto a quello più evidente; e con l’equivoco sull’identità della figura che aspetta fuori della cabina telefonica, Polanski corrobora in noi il sospetto di una serie di abbagli di Rosemary: sospetto che ci aveva già instillato con l’episodio, apparentemente insignificante, dell’appuntamento con Hutch; qui una Rosemary visibilmente alterata aveva scambiato un estraneo per il suo amico, dimostrando l’incapacità di discriminare tra realtà e fantasia, tra oggettività e proiezioni soggettive. Il significato di questo piccolo errore si può leggere come una inattendibilità di Rosemary ormai in via di consolidamento: presa dal panico, la ragazza è portata a vedere solo quel che crede di vedere, quale che sia la realtà. Non ci sono ottiche deformanti che indichino una visione in soggettiva, né soluzioni di linguaggio o di tipo sonoro che ci lascino interpretare in maniera univoca gli eventi. Gli ultimi 15 minuti della pellicola sono puro grottesco: forse la vera fine della storia è quando a Rosemary viene riferito che il bambino è morto; tutto il resto – che segue alla somministrazione di un farmaco per iniezione: non dimentichiamolo – è la proiezione di una madre ferita che non vuole accettare la realtà, e dell’evento luttuoso rifiuta i sensi di colpa, preferendo attribuire a un complotto esterno il tragico destino di suo figlio. LEZIONE V – 18/10/2006 Chinatown (1974) Stavolta Polanski accetta di lavorare sulla sceneggiatura di un altro autore. Il film si colloca in un filone che si può identificare come quello “dei detectives sconfitti” (ad esempio l’Harrry Caul de La 12 conversazione di F.F.Coppola; il giornalista-detective di Perchè un assassinio di A.J. Pakula; o il protagonista di Bersaglio di notte di A. Penn). In Chinatown il protagonista farà luce sul caso senza avere alcuna possibilità di cambiare le cose, di modificare il destino: è anzi il fatalismo, l’inerzia forse, a essere invocata come sola possibile soluzione: “Lascia perdere Jake... è Chinatown” recita l’ultima battuta del film. Il modo di analizzare i fatti di Jake Gittes è apparentato a quello di Rosemary: il processo che li porta alla conoscenza è di tipo additivo, ma la capacità di analisi di entrambi i protagonisti si muove lungo i binari del pregiudizio; lei proietta i suoi apriorismi su quel che vede, laddove lui sbaglia sempre l’interpretazione dei fatti perché il pregiudizio – appunto – ne inquina la lettura. L’ultima parte della sua indagine si colloca non più nella sfera pubblica ma in quella privata (l’incesto che può essere ricondotto alla violenza sessuale sulla Carole di Repulsion) e torna – benchè estremizzato dall’aggravante dell’incesto stesso – l’elemento del rapporto tra un uomo e una donna con grande differenza di età (come in Cul de sac). Polanski ha sempre voluto mettere in scena le proiezioni dell’orrore interiore dell’individuo verso l’esterno: in questo caso, invece, l’orrore è tutto esterno, del mondo, e avvolge i personaggi: il detective protagonista non può che assistere impotente alla rovina prodotta da quella corruzione che va faticosamente mettendo in luce. E qualunque suo intervento salvifico, nient’affatto risolutivo, finisce invece per rientrare fatalmente nel disegno rovinoso predisposto dal destino e, piuù concretamente, dai poteri forti come il patriarca Noah Cross. Non a caso Polanski mette in scena un finale in cui il capitale, nelle sembianze di Noah Cross – apparentemente in scacco, sino a poco prima –, si rivela vincitore assoluto, e proietta la sua ombra sinistra anche sulla giovane nipote (che è anche la figlia frutto dell’incesto), sulla felicità del cui destino sarebbe impossibile scommettere. L’eroe non è in realtà una persona con particolari doti investigative, “non ha buon naso”, tanto che gli viene anche simbolicamente affettato il naso durante uno scontro con i gorilla di Cross (è lo stesso regista che recita la parte del “mutilatore” di Gittes). Altro significato metaforico di quella ferita è quello della castrazione: una battuta volgare di Gittes su un certo uso “improprio” del naso stesso, sembra corroborare questa interpretazione. Nella sua precedente carriera in polizia, Gittes aveva causato la morte di una donna: la storia si ripeterà, decretando per lui una sconfitta non solo professionale ma anche esistenziale. Vuole andare troppo a fondo nelle cose (contravvenendo alle raccomandazioni apprese durante il suo periodo in polizia che consigliavano di fare il meno possibile a Chinatown, tanto le cose sarebbero andate comunque male) e tutto finisce in tragedia. È un film sul “guardare che non è sufficiente per capire”: il vedere può essere misinterpretato, le apparenze ingannano. Come sempre Polanski dissemina sapientemente elementi iconografici che ci riportano alla forma circolare dell’occhio e all’atto del vedere, così come alla menomazione della vista: gli occhiali rotti, gli orologi da taschino infranti, le luci di posizione dell’auto – il “gruppo ottico”, secondo una denoiminazione corretta – spaccate a bella posta; etc). L’episodio chiave: quando Gittes rientra in ufficio una donna lo aspetta ma lui non se ne accorge e racconta una barzelletta spinta appena ascoltata dal barbiere; gli amici fanno ogni genere di gesto per fargli capire della presenza femminile ma lui non raccoglie…è poco intuitivo per essere un detective, non sa interpretare correttamente i segnali che vede davanti ai suoi occhi. Già qui Polanski sembra volerci mettere in guardia sulle capacità di lettura che Gittes (non) possiede. Sappiamo che il regista è intervenuto a più riprese per modificare la sceneggiatura originale. L’idea del sesso e della femminilità è all’inizio legata alla perdita già subìta da Gittes, ma anche all’episodio del cliente che scopre il tradimento della moglie attraverso le foto fornite dal detective; questa associazione femminilità/perdita si ripropone tragicfamente alla fine, quando la donna muore. Le relazioni sono: uomo – donna – perdita – emozioni violente; intorno a tutto questo gira la storia e naturalmente intorno all’elemento dell’ACQUA=l’acqua è vita, è fertilità per la città di Los Angeles 13 e l’uomo vuole convogliarla da un’altra parte per compiere una speculazione edilizia, affermando di volersi “comprare il futuro”. Noah Cross è pura malvagità che proietta la sua ombra sul passato, sul presente e sul futuro: violenta l’acqua, la natura e la città stessa così come ha fatto con la figlia. Questo è un tema tipico in Polanski che considera la pervasività del male come totale, irrimediabile. I giochi verbali nel film sono molto importanti per comprendere il vero significato degli eventi e la vera natura dei personaggi,: già il nome Noah Cross la dice lunga, essendo ovviamente legato alla tradizione religiosa cristiano-giudaica (Noè, quindi acqua; Croce) che si associa più col capitalismo che con l’ideologia progressista; in questo caso il nome è legato anche all’idea che lui sia il detentore del destino. In una circostanza chiave la parola “grass” (erba) viene trasformata in “glass” (vetro ma anche occhiali, che saranno uno degli elementi chiave della storia). In questo film il protagonista è sempre presente, la storia è tutta in soggettiva intellettuale, psicoemotiva, anche se non strettamente oculare: nel senso che la narrazione non coincide necessariamente col punto di vista ottico. Le fotografie che si vedono sono un altro elemento chiave di cui lui, come noi, non è in grado di leggere correttamente il significato, se non quando è troppo tardi. Il primo profetico accenno alla malvagità e iniquità dell potere economico (vero motivo portante del film, che si avvia invece su ben altri binari) viene dato durante la seduta dal barbiere, parlando di mutui bancari. Gittes (J. Nicholson) è convinto che Evelyn (Faye Dunaway), la figlia di Noah Cross, sia la colpevole ma continua a prendere cantonate, quando scopre la verità è troppo tardi e malgrado cerchi di modificare il destino fino alla fine le cose seguiranno il loro corso: il vecchio Noah Cross ha in mano il futuro (rappresentato dalla figlia/nipote concepita con lo stupro di Evelyn). Anche il destino di Evelyn è già segnato, gli indizi circa la sua fine sono molteplici durante lo svolgersi della storia: la macchia nell’occhio, lo sfiorarsi la palpebra dell’occhio che le esploderà nel finale; il suo occhio è inutile, perché non sa vedere così come quello di Gittes; colui che detiene il potere, invece, ha sempre un altro occhio a disposizione, a seconda delle circostanze (gli occhiali, come già detto, stanno per l’atto del vedere: Cross ne ha sempre un paio di ricambio, sostitutivi di quelli che ha perso, e che dovrebbero inchiodarlo alla sua responsabilità). LEZIONE VI – 23/10/2006 L’inquilino del terzo piano (1976) È lo stesso Polanski ad interpretare il protagonista di questo film, il timido impiegato polacco Trelkowsky. La sceneggiatura si basa su un libro di Roland Topor: Le locataire chimérique. Polanski mette in scena la tragedia individuale di un uomo costantemente prevaricato dagli altri, una personalità debole che assorbe ciò che lo circonda; il film gira attorno al quesito su cosa sia l’identità (il protagonista stesso se lo chiede quando fa il discorso su “io e il mio braccio, io e la mia testa… etc”); la struttura riprende quella di Rosemary’s baby compresa la scena finale, iperbolicamente grottesca per essere reale, oggettiva. Oltre al tema dell’identità c’è quello del razzismo, dai toni autobiografici, che tornerà di lì a qualche anno ne Il pianista ma non più nel registro grottesco, e non più in chiave di tragedia individuale, quanto piuttosto in quella planetaria della guerra e dello sterminio nazista. Un altro parallelo con il pianista Szpilman lo troviamo nella persecuzione subita da entrambi gli individui, autoreclusi in appartamenti, costretti al silenzio dal terrore dei propri vicini (conosciuti e sconosciuti): la loro vita o morte dipende dalla fiducia che accordano ad altri, e da chi sia la persona cui la accordano (addirittura a Szpilman verrà suggerito di gettarsi dalla finestra in caso di irruzione da parte dei nazisti nel suo appartamento: quasi un’eco del destino di Trelkowsky). 14 Torna anche il tema del triangolo: Trelkowsky – Simone – Stella (la sua amica che T. incontra in ospedale e con la quale avrà una breve e tormentata relazione). Trelkowsky è anch’egli un outsider, uno straniero: non solo per la sua nazionalità ma perché esterno al condominio. Il desiderio di essere accettato sarà tale che, in concorso con la sua vulnerabilità emotiva, lo porterà ad assorbire e far propria la personalità di Simone Choule (la precedente inquilina morta suicida) così come gli viene trasmessa da quell’appartamento che ne ha trattenuto una sorta di impronta (ancora una volta, un po’ come l’Overlook Hotel in Shining di S. Kubrick). Il regista ammanta però tutto di ambiguità: non si capirà mai se il fragile equilibrio del protagonista venga scosso dalla vicenda della suicida e dalla “particolarità” degli inquilini dello stabile, fino a portarlo alla paranoia e alla follia conclusiva, oppure se l’idea del complotto sia realtà. Di questa ambiguità si lamenterà l’autore del libro, Topor, che invece propende verso l’ipotesi della congiura da parte degli inquilini del palazzo. E’ singolare come, replicando quanto era già accaduto per il libro di Ira Levine da cui era stato tratto Rosemary’s baby, Polanski preferisca sempre le letture molteplici, polivalenti, piuttosto che una corrispondenza biunivoca tra azioni e loro significato. Dunque Polanski fornisce indizi, ma non impone soluzioni. I titoli di testa Sono piuttosto inquietanti e ci introducono nel clima di dualità che permea tutto il film. La m.d.p. montata sulla Louma inquadra una finestra, poi indietreggia: c’è Trelkowsky dietro il vetro; poi viene inquadrato il vetro del cortile sfondato dalla caduta di Simone, quindi il bagno con una sagoma di un uomo (è certamente Trelkowsky) e poi una figura di donna che al momento non riusciamo ad identificare (è Simone Choule): ha un’espressione ambigua ed è in abito scuro (identico a quello di Simone – appunto – che Trelkowsky indosserà nel finale). Quindi la cinepresa si sposta di 180° su una finestra sottile (è quella del bagno: ma lo sapremo solo in seguito) dietro la quale appare una giovane donna (sembra Isabelle Adjani, che interpreta Stella) e poi, in una sorta di dissolvenza incrociata, al suo posto appare Trelkowsky. La m.d.p. continua a muoversi aerea sfiorando i muri del palazzo fino ai tetti. Quello che ci è stato mostrato è l’ambiguità, l’intercambiabilità tra le personalità, tra i sessi, tra i luoghi; tre personaggi di cui, neanche a dirlo, non abbiamo assoluta certezza delle rispettive identità; e poi di nuovo una storia circolare perché Trelkowsky è già lì, c’è sempre stato, è sempre stato l’inquilino del terzo piano (altra affinità con Shining). Gli indizi Possiamo credere tutto e il contrario di tutto: il film potrebbe essere la storia di un complotto ordito da malefici inquilini contro una ragazza omosessuale (ripetutamente ci vengono forniti indizi sul lesbismo di Simone: sia dalla sua amica che da altri elementi) che, sentendosi additata per la sua diversità, è stata spinta al suicidio. Un complotto che si ripete con l’altrimenti “diverso” (perché straniero e quindi vittima anch’egli di pregiudizi) Trelkowsky, che arriverà alla stessa insostenibile angoscia della ragazza che lo ha preceduto. Oppure possiamo dare la lettura dell’assunzione della personalità di Simone da parte di Trelkowsky come portato della sua assoluta debolezza e mancanza di personalità: egli quindi si lascia suggestionare da questa presenza di cui è ancora impregnato l’appartamento e dagli eventi che sono accaduti entro quelle mura; a ciò si aggiuunga la particolarità dei vicini di casa, e forse sensi di colpa latenti per essersi augurato che la ragazza agonizzante in ospedale morisse così da poter subentrare al suo posto nell’appartamento; ma c’è anche l’ipotesi che Simone potrebbe essere in effetti un fantasma che si vuole vendicare, che vuole riprendere la sua vita, dalla quale si è allontanata ma non separata: come lascerebbero intendere gli strani oggetti che ha lasciato nella sua casa, spesso riferiti all’Egitto, alla regina Nefertiti (e questo già di per sè può dare quel tocco di mistero e inquietudine), all’idea dell’imbalsamazione (Simone, in ospedale, è bendata alla maniera di una mummia) come stadio intermedio tra la vita e la morte; per di piùà Trelkowsky ritrova un dente di Simone, in una cavità del muro, che lo porta a riflettere (il discorso sull’integrità 15 dell’individuo “io e le mie braccia, io e la mia testa...”: quindi l’elemento organico, la parte del corpo, che ci rappresenta e in qualche misura ci sostituisce) e che innesca in lui, forse, il sospetto di strani rituali, e sicuramente una reazione forte che avvia fatti inquietanti destinati a portarlo verso il suo tragico epilogo. Senza dimenticare – come s’è accennato – il corpo senza forma avvolto dalle bende di Simone nel letto di ospedale, ovvero il parallelo con la mummia (Il romanzo della mummia di Gautier è tra gli oggetti di Simone che sono rimasti nella casa) sia come stadio di transito tra vita e morte, sia come allegoria di una personalità non risolta, quasi una crisalide che non è ancora farfalla (forse di nuovo in riferimento all’omosessualità di Simone): in ogni caso una visione terrificante, sconvolgente, che rimane impressa nella mente del protagonista così come nella nostra di spettatori, e che probabilmente contribuisce a pilotare l’interpretazione degli indizi che seguono. Lo spazio chiuso L’appartamento, l’armadio, il bagno sono luoghi chiusi ma anche di passaggio, di transizione da una dimensione all’altra. Dell’appartamento come luogo impregnato della personalità di Simone, e quindi luogo della trasformazione di Trelkowsky abbiamo già detto; l’armadio è qualcosa che nasconde e che rivela, imprimendo alla storia un cambio di rotta ogni volta che viene spostato e mostra ciò che prima era invisibile: il ritrovamento del dente ad esempio. Contiene i vestiti della ragazza che incuriosiscono il protagonista, tanto che ad un certo punto comincerà a indossarli. Il bagno è il luogo di transito per eccellenza (anche in Kubrick assume questa funzione), è il luogo dell’altro dove le persone si fermano immobili di fronte ad un muro sul quale Trelkowsky scoprirà in seguito dei geroglifici egiziani con ogni probabilità tracciati in passato dalla defunta appassionata di egittologia. In questo film i confini (tra realtà e fantasia; tra soggettivo e oggettivo; etc) sono sempre molto labili: compreso quello che separa la tragedia dalla commedia. LEZIONE VII – 25/10/2006 La morte e la fanciulla (1994) È la storia di un triangolo dall’inizio alla fine: Paulina – Miranda – Geraldo. Si può anche pensare ad un quartetto (come il quartetto d’archi n°14 in re minore di Schubert che dà il titolo al film), Polanski gioca sul quarto personaggio (il Dubbio appunto, che aleggia sin dall’inizio e gioca, come al solito, a consegnarci una duplice chiave di lettura). C’è un’ossessione soggettiva sugli eventi che hanno segnato il passato della donna: lei li proietta sul presente, condizionandolo. I suoi incubi trasudano all’esterno, riversandovisi e inquinandolo. Ancora una volta il pregiudizio, quindi. Il testo di partenza non prevede la confessione finale del medico, ma Polanski stesso, che pure l’ha voluta, in un’intervista getta dubbi su di essa (“in quelle condizioni, sotto quelle pressioni, un uomo è pronto a dire in modo convincente qualunque cosa”). La vicenda verte sulla intercambiabilità di ruoli tra carnefice e vittima, uno altro dei temi prediletti da Polanski (Repulsion, Luna di fiele, Cul de sac), sulla forza e la vulnerabilità combinate tra loro, sui confini che legano e separano sesso, violenza e sentimento, sul luogo isolato, sull’acqua identificata con la femminilità (in questo caso il mare in tempesta che rispecchia la femminilità furente e letale di Paulina). Le simmetrie: 16 1. come sempre identità a specchio tra inizio e fine (la sala da concerto in cui i protagonisti ascoltano il famoso brano di Schubert); 2. tra le confessioni-monologo di Paulina e del dottor. Miranda, entrambi risolti con la soluzione del lungo piano sequenza, che nel caso della donna viene spezzato brevemente da un controcampo del marito; ma la durata concessa alle due confessioni, e la musica sottesa ad entrambe, sono le medesime; 3. l’opposizione tra due personaggi e un estraneo, possibile aguzzino: motivo presente in altri film. 4. la prevaricazione del potere: il precedente è in Chinatown in cui Noah Cross dice di voler recuperare la sua unica figlia, non sente la colpa di averla concepita con lo stupro – per di più della sua prima figlia – e dice che alcune persone sono capaci di qualunque cose in determinati momenti; formula ripresa anche dal dottor Miranda nella sua confessione; la stessa Paulina pur avendo subito da lui torture e violenze, non sa trattenersi in quel momento dal farsi sua carnefice. Il ruolo del carnefice potrebbe essere, quindi, solo una questione di circostanze. Polanski esplora i lati bui che ci sono in ciascuno di noi: chiunque potrebbe essere capace di indicibili orrori se la situazione li favorisse (c’è un riferimento anche alla tragedia del nazismo, così come a tutte le nefandezze che i travet dell’orrore, i burocrati della tortura e dello sterminio, hanno compiuto nel Novecento... pensiamo alle pulizie etniche, ai genocidi mossi dal capitale e dai poteri economici; e via dicendo). 5. la circolarità: il dottore inciampa per due volte nella ruota di scorta seppur in situazioni totalmente diverse; un’allusione alla circolarità della storia che torna al punto di partenza. 6. le simmetrie nei passati di Gerardo e Paulina: ci sono dei rapporti sessuali consumati all’insaputa dell’altro, anche se nel caso della donna sono stati subiti passivamente, come violenza. La vera trasgressione, malgrado possa sembrare appannaggio di Paulina, è in realtà compiuta dal dottore: egli ha realizzato quello che sostiene essere un gesto che qualsiasi uomo cova dentro di sé, e cioè quella violenza al riparo dell’impunità che lui ha inflitto alla stessa donna per ben 14 volte. Eppure egli si considera un bravo medico, che applica le sue conoscenze per prolungare la vita delle vittime: esegue con diligenza il suo lavoro, senza però considerare che prolungando la loro vita in alcuni casi aumenta solo la durata delle loro sofferenze. Polanski utilizza la storia per parlare del lato oscuro dell’uomo, del male che si annida in ognuno di noi e che aspetta solo il momento opportuno per affiorare. Ciascuno dei personaggi rappresenta un archetipo: la donna è il furore vendicativo; il medico è il possibile innocente/possibile colpevole che deve comunque discolparsi, negare le sue responsabilità, vere o immaginarie che siano; il marito è il buon senso, l’unico forse in cui gli spettatori possano identificarsi, è l’indomani di tutte le guerre, colui che ha vissuto la violenza e ora la rifiuta; ma nella situazione in cui i tre si trovano, cioè nel completo isolamento, senza corrente elettrica e senza telefono, riemergono le belve in ciascuno di loro, l’uomo biologico prende il sopravvento su quello storico e culturale. L’atto di prevaricazione di Paulina su Miranda è una violenza psico-emotiva: lei lo violenta psicologicamente cercando un risarcimeto per la violenza subita in passato, ma non esiste risarcimento per quel male subito… Un elemento ci ricollega ancora al cinema di Kubrick: la musica sublime che può accompagnare la violenza ma non può trattenerla (Arancia meccanica) Nel pre-finale c’è un momento chiave in cui Paulina guarda l’abisso e poi c’è un movimento di macchina in avanti a simulare un salto nel vuoto (come ne L’inquilino del terzo piano): in quel frangente lei e Miranda sembrano due amanti, aleggia tra loro una sorta di complicità malata; la morte si consuma dunque in quel movimento di macchina che forse non è una soggettiva; la morte era necessaria ma inutile, e il richiamo dell’abisso non risolverebbe nulla nella storia: ciascuno di noi è schiavo di un ruolo. 17 Si torna quindi nella sala da concerto, si confermano i ruoli: il dott. Miranda sarà sempre tra i due coniugi, perché il rapporto tra carnefice e vittima rimane, e non può esserci espiazione per – nè vera liberazione dal – male subìto. In questo momento le parole di Paulina pronunciate durante la sua confessione al marito circa le violenze subìte in prigionia acquisiscono un senso: “non ti ho mai detto di essere stata violentata perché altrimenti l’ombra di quell’uomo sarebbe stata sempre tra noi”. LEZIONE VIII – 30/10/2006 Il pianista (2002) Rilancia la figura di Polanski dopo La nona porta che era stato accolto tiepidamente. Il pianista vince numerosi premi (tra cui la Palma d’oro). L’approccio all’olocausto da parte del cinema è stato spesso permeato di valori spettacolari, fittizi, e di emotività aggiunta, tali da rendere impraticabile una lettura autentica della tragedia “dopo la quale non sarà più lecito scrivere poesia”. Polanski cerca di adottare uno sguardo distaccato, quasi scientifico, simile all’approccio di Primo Levi. I fatti non sono filtrati attraverso la mìmesis ma osservati con spirito cronistico, impersonale: anche il peggior orrore è rappresentato con toni freddi e analitici, per permetterci di guardare alla vicenda con razionalità; senza quindi alcun sovraccarico emotivo. Non sembra difficile riconoscere qui un’eco del teatro brechtiano, soprattutto in termini di verfremdungseffekt, ovvero quell’“effetto di straniamento” con cui – come è noto – si intende la presa di distanze, il distacco sentimentale dello spettatore dall’azione scenica, in netta contrapposizione col suo diretto coinvolgimento emotivo in essa. Costringendolo a distanziarsi, in termini affettivi, da quel che gli viene mostrato, l’autore obbliga lo spettatore ad una presa di posizione intellettuale, fondata sulla ragione – e dunque non emotiva, né mediata solo da impulsi “passionali” – nei confronti dell’orrore che documenta. Agli occhi di Polanski, il giusto atteggiamento per giudicare l’abiezione dello sterminio nazista non sembra dunque coincidere con una voluttuosa, liberatoria e catartica commiserazione – ed autocommiserazione – da parte dello spettatore: questi sentimenti, infatti, sono effimeri, sin troppo facili da metabolizzare e superare: con il risultato di un’efficacia didattica passeggera, di troppo breve respiro. Al contrario, lo sdegno deve vestirsi di ragione, oltre che di emozione e impulsi, così da radicarsi durevolemente nella memoria, nel giudizio, nella riflessione dell’osservatore. Alla luce di questo atteggiamento emotivamente sottrattivo, Il pianista differisce totalmente da Schlindler’s list di Spielberg. Polanski non fa suddivisioni di tipo morale tra buoni da una parte e cattivi dall’altra, ma mostra gli aspetti peggiori e migliori su entrambi i versanti: come sempre il suo sottotesto è quello di dimostrare come, in determinate circostanze, l’individuo sia capace di qualunque cosa. Ne L’inquilino del terzo piano ci sono già i germi di quella che sarà la figura del pianista polacco Wladislaw Szpilman: l’outsider svuotato di ogni dignità e portato alla morte senza una ragione; si perdono le coordinate logiche all’interno della storia; il non-senso e l’assurdo prendono il sopravvento, solo che in questo caso l’aggressività verso il diverso non è più solo una soggettivizzazione trasferita sul piano della realtà dalla vittima di turno, ma si oggetivizza e universalizza in quanto non tragedia esclusiva di Szpilman: i tedeschi trasformano in outsiders un’intera etnia e procedono con metodico zelo al suo sterminio. Il regista inserisce nella storia di Szpilman elementi autobiografici della sua vita all’interno del ghetto di Cracovia; anche il suo punto di vista sulle guerre, e le lotte politiche in genere, si fa sentire: le reputa solo un lasciapassare per legittimare la barbarie di cui ogni uomo è capace (le parole di Noah Cross ritornano, così come quelle di Miranda). 18 Gli episodi brutali ci sono, ma proposti senza compiacimento: con il protagonista siamo presenti in veste di testimoni silenziosi dell’orrore; lui registra quel che vede, ma si sottrae emotivamente e fisicamente: la macchina da presa segue la stessa linea. Tutto viene rappresentato senza l’iperbole espressiva che ha caratterizzato il cinema di Polanski sino a quel momento. Le inquadrature sono quasi tutte in luoghi chiusi o rigidamente delimitati, non c’è mai il respiro dello spazio; l’unico momento in cui lo sguardo si allarga è quando verso la fine Szpilman oltrepassa il muro e vede la città ridotta ad un cumulo di macerie. Lo sguardo spazia, si, ma sull’orrore cosmico, sulla distruzione e il nulla sistematizzati. Il motivo polanskiano del fatalismo e dell’arbitrarietà della sorte prevale anche qui, malgrado Szpilman riceva un trattamento di favore per la sua fama di pianista apprezzato della radio di Varsavia. Non viene mai messo in scena un rapporto di causa effetto tra malvagità e punizione, o tra generosità, bontà, e premio. Il destino ha un andamento aleatorio, non c’è ricompensa dovuta per il bene nè per il male che ciascuno pratica. Il film procede per rarefazione: all’inizio è affollato di persone e voci; poi si sposta nella individualità circoscritta di un individuo che sceglie l’isolamento per sopravvivere: dovrà lottare per mantenere la lucidità tenendo a bada l’orrore che richia di sopraffarlo in ogni momento; in questo senso Szpilman differisce dagli altri personaggi polanskiani che soccombono alla follia. L’unica cosa a disposizione di Szpilman è il tempo, ed è paradossalmente il suo peggior nemico perché può minare la sua lucidità ed obiettività: diversamnete dallo spettatore, non sa come finiranno le cose, come andrà la guerra, quanto durerà, quale sarà il suo destino; si limita ad osservare ciò che gli accade intorno. Polanski ci fa vedere solo immagini frammentarie e rubate della battaglia, che sono necessarie al protagonista per capire qualcosa di quel che sta accadendo all’esterno del suo microcosmo cieco. La musica, ovviamente è importante: Szpilman suona sempre Chopin, dapprima il “Notturno in do diesis minore”, postumo; poi la “Grande polacca brillante op.22” (Allegro molto), infine la “Ballata n.1 in sol minore op.23”. La musica suonata dall’ufficiale nazista ovviamente è di Beethoven (polacco suona polacco; tedesco suona tedesco) e si tratta della “Sonata op.27, n.2- Al chiaro di luna”. Quando incontra l’ufficiale nazista pian piano la situazione si ribalta, poichè riesce a creare con l’ufficiale una comunicazione estetica che gradualmente si fa etica: il tedesco lo aiuta, ma non per questo ne riceverà un premio; s’è già detto che la forza di Polanski è nell’essere fuori da questi clichè. Sempre durante il momento dell’incontro tra il pianista e l’ufficiale ci troviamo dinanzi a una sequenza di simbologie: sul piano sono appoggiate la latta di cetrioli che Szpilman custodisce gelosamente e l’uniforme con cappello dell’ufficiale nazista. Szpilman è l’uomo biologico, abbrutito, ridotto a occuparsi – vitalisticamente, disperatamente – dei suoi bisogni elementari (ecco dunque il cibo, e quindi quei preziosi cetrioli), ma capace di risorgere, di ripristinare i suoi valori; l’ufficiale è l’uomo culturale, arrivato al capolinea della storia (è questo il senso di quell’uniforme, che dell’abisso della storia è emblema riconosciuto), chino dopo aver capitolato sotto il peso di una degenerazione della civiltà che altro non è se non pura barbarie. I due estremi sembrano incontrarsi a mezza via. Mentre la musica di Chopin pervade la stanza, un raggio di sole unisce idealmente i due personaggi che, pur avviati su itinerari antagonisti, custodiscono dentro di sé la grazia e la bellezza: è questo che ancora rende possibile un punto d’incontro, malgrado il male del mondo e malgrado le condizioni di Szpilman ne facciano poco più che una larva. Eppure c’è ancora spazio per la bellezza (ne La morte e la fanciulla veniva espresso lo stesso concetto). 19