Isole della memoria

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Isole della memoria
Isole della memoria
di Adriana Lorenzi
S
ono i libri che mi hanno offerto le avventure più ardite
prima da immaginare, poi da vivere e insegnandomi
qualcosa che non ha prezzo. Quando il contesto storico e
l’origine geografica, sociale e familiare non forniscono il terreno utile a far sbocciare possibilità, nelle pagine dei libri sono
depositati personaggi-amici e strategie comportamentali salvifiche: basta avere il coraggio, oltre che il tempo, di aprire un
volume e lasciarsi portare dalle sue righe d’inchiostro. Mi fido
dei libri perché le parole stampate fanno da tramite verso il
ricordo di quello che è stato e l’utopia di quello che potrebbe
essere ancora. Le opere d’arte resistono al tempo senza patirne
la corruzione.
È dalla lettura in terza elementare di Piccole donne di Louisa
May Alcott che so quanto una figura di carta riesca a incarnare
il fascino della discontinuità da ruoli preconfezionati e della
proiezione verso altri scenari: Jo non mi ha fatto solo compagnia, è stata piuttosto un vento scardinante come un progetto
politico. La verità appartiene a chi la crea scrivendo e a chi la
ricrea leggendola. Vale per le scritture romanzate, ma anche
per quelle autobiografiche. In fondo anche Jo March di Piccole
donne non è che la versione narrativa di Louisa May Alcott che
rifiutato il modello offerto alle donne dalla società della sua
epoca per realizzare il proprio sogno: scrivere e insegnare ad
altre ragazze a guadagnarsi da vivere con la scrittura.
Questa la questione cruciale: scoprire ciò che si vuole essere e
adoperarsi per arrivare fino in fondo all’idea di sé dentro il
proprio mondo, l’assunzione della responsabilità di fare bene il
proprio dovere, perché il mondo benedica la nostra esistenza.
Per noi della redazione di Alterego significa interpretare la
stagione che si vive in carcere, comprenderla e farla conoscere
all’esterno.
Io e Catia Ortolani abbiamo promosso la lettura del libro di
Umberto Ambrosoli e lo abbiamo poi invitato a parlarne con
noi, in redazione, perché le pagine di Qualunque cosa succeda,
avevano mosso discussioni accese attorno alla necessità o meno di fare bene per sé e anche per altri; di dire dei No per salvare il rispetto e la dignità personali. È il libro che ha ispirato
la nostra scrittura, i nostri ricordi sulla famiglia della nostra
infanzia. Sono state poi alcune parole dello stesso Umberto
Ambrosoli – alibi, sacrificio, abitudini - a stimolare la riflessione successiva.
È accaduto lo stesso con Junio Rinaldi che aveva accompagnato lo scrittore Hans Tuzzi e ci aveva regalato i suoi libri,
Uno strappo nel tempo e Disperanza. Anche per lui abbiamo
scritto partendo da alcune parole che ci erano piaciute: disperanza, ricordi, rimorsi. I libri, per dirla con Marisa Bulgheroni, sono isole della memoria dove chi approda incontra se stesso, la propria storia e non può più fare finta di niente.
Alcune detenute hanno deciso di intervistare il direttore del
carcere Antonino Porcino, la responsabile dell’Area Trattamentale Anna Maioli e l’Ispettore Giuseppe Randazzo. Un
modo per mettere in pratica le lezioni di giornalismo impartite
da Andrea Valesini (L’Eco di Bergamo), ma anche per offrire
al pubblico lettore del nostro giornale il punto di vista di chi
abita il carcere perché ci lavora e si deve confrontare quotidianamente con la popolazione ristretta in via Monte Gleno.
Alle voci della redazione si aggiungono ormai altre voci, quella
di una studentessa, Klaudia, che partecipa alle nostre iniziative
insieme alla sua classe di liceo; quella di Lillo che ha deciso di
scrivere per raccontarci il suo lavoro all’interno della M.O.F. e
quella di Giuseppe, impegnato nella squadra di calcio di Via
Monte Gleno in trasferta a Bollate per un torneo.
Ancora una volta frammenti di vite incuneati saldamente dentro il carcere che sta tra il passato e il futuro e forgia il presente
più duro che non può resistere senza legami e voci che vengono dall’esterno, senza progetti capaci di impegnare la mente e
il corpo.
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«
CATIA ORTOLANI
Il sorriso di mio padre dice che non è affatto scontato
che tutti abbiano un prezzo di scambio. Non bisogna
fare l'errore di pensarlo, perché c'è una parte del Paese, che
senza guerre sante, anche nella solitudine, sa essere libera,
consapevole, coerente, qualunque cosa succeda».
Non parla di sacrificio Umberto Ambrosoli quando pensa
all'omicidio del padre, lo sarebbe stato se avesse dovuto rinunciare alla sua integrità, al suo dovere, alla sua libertà di
scelta. Giorgio Ambrosoli invece non rinuncia a niente, fa
una scelta e la porta avanti fino in fondo, qualunque cosa
succeda. Giorgio Ambrosoli è un uomo libero che non si nasconde dietro agli alibi e il suo eroismo è nel significato della
sua scelta, la sua storia ci insegna che è possibile mantenere
la capacità di decidere liberamente anche quando cercano di
condizionarti, di comprarti o di minacciarti di morte.
Noi, ci spiega Umberto Ambrosoli, creiamo una distanza tra
noi e l'eroe, lo riteniamo irraggiungibile, ne marchiamo la
differenza, mentre l'atteggiamento giusto è quello di dire io
posso, perché queste storie ci dicono che appartiene alla
natura umana conservare la propria libertà.
Io e Adriana siamo state liete di condividere questo evento
con gli studenti del liceo “Federici” di Trescore e con il liceo
Amaldi di Alzano Lombardo e con gli studenti dell'Università. Naturalmente abbiamo invitato il magistrato di sorveglianza, Alessandro Zaniboni, e il presidente del Tribunale di Brescia, Monica Lazzaroni. Non si può non dare ragione a Rosario quando dice che Ambrosoli va contro corrente: in un periodo in cui si parla di svuotare il carcere, lui lo riempie.
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Le parole di Umberto Ambrosoli sono quelle che lasciano il
segno, forse le conoscevamo già, ma Ambrosoli ce le ricorda,
le riporta urgentemente all'attualità e quello che dice ci costringe a guardarci dentro e a fare i conti con le nostre scelte,
con i nostri comportamenti, con le nostre debolezze. Alla fine
non puoi non dargli ragione. Sì è vero, si può fare. La rassegnazione, il senso di impotenza, l'attribuire le responsabilità
agli altri, alla generazione passata, alla classe dirigente, è solo
uno dei tanti alibi dietro i quali continuiamo a nasconderci.
C'è sempre una scusa buona per non provarci, ci sarà sempre
un ottimo motivo per sottrarsi, ci sono mille giustificazioni a
cui possiamo attingere per spiegare ciò che facciamo o ciò
che non facciamo. Sono alibi.
L'alibi cancella la responsabilità, rende legale l'intero codice
penale. Dipende da noi, non dipende dagli altri. Fosse dipeso dagli altri, mio padre non avrebbe fatto niente, se la responsabilità non fosse stata sua, la sua possibilità di cambiare un pochino le cose, non avrebbe neanche iniziato, ma il
bello della responsabilità, di questa forza che abbiamo di
rispondere alle domande che ci arrivano da noi stessi e dagli
altri, è proprio quello di esercitarsi senza alibi, senza scuse,
senza farsi condizionare dalla rabbia che viene dallo sconforto.
Il tema della responsabilità torna costantemente nei suoi discorsi ed è inscindibile dal concetto di libertà ed è proprio in
questo connubio che risiede il potere di ognuno di noi: «Il
mondo, in una certa misura, va nella direzione in cui noi
vogliamo che vada. Ciascuno di noi è responsabile per qualche grado di questa direzione, secondo l'inclinazione che
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attraversa la nostra quotidianità e che possiamo cambiare
con le nostre scelte e con il nostro agire. Nelle piccole e nelle
grandi cose: nell'accettare di non fare o non pretendere una
fattura, di chiedere o non chiedere un permesso che una norma impone, di rispettare o meno i diritti del nostro prossimo,
o per esempio delegando ad altri le scelte che dovrebbero
impegnarci. Questo è il potere che ha ciascuno di noi».
Nel momento in cui siamo liberi di fare delle scelte diventiamo responsabili di quelle scelte, ecco perché la libertà è così
difficile da gestire, ecco perché diventa molto più facile cedere alla tentazione di delegare gli altri. Nell'esercitare il diritto
di scelta si afferma la libertà, una responsabilità personale
che diventa collettiva: noi diventiamo le scelte e i gesti che
facciamo. La libertà è anche la libertà di avere paura.
Ambrosoli mette l'accento sul senso della collettività che
deve prevalere sull'interesse personale. La nostra natura ci
porta ad anteporre l'io al Noi, al considerare la nostra necessità una priorità su tutto. La sua è una riflessione dal sapore
roussoniano: ciascuno di noi vede prima la strada del proprio interesse, immediato, diretto, non quell'interesse, più
difficile da raggiungere, che è quello collettivo attraverso il
quale si raggiunge l'interesse di ciascuno, vede il proprio in
antitesi a quello degli altri. L'esempio è importante per dimostrare che si può credere in una società basata sul rispetto
degli altri e che quel rispetto lo si pretende dagli altri solo
dopo averlo dato.
Stimolato dalle domande, Ambrosoli ci invita nella sua vita
privata e ci parla della madre che a solo 31 anni ha dovuto
fare i conti con un futuro da vedova. In quella circostanza
mia madre è stata capace, anche con il paragone dell'operaio che muore per mettere il depuratore, di trovare il significato positivo delle cose e di far crescere i miei fratelli e me
con questo esempio. Sarebbe stato legittimo, perfettamente
comprensibile e non giudicabile anteporre l'odio, ma non ha
voluto insegnarci questo, non ha voluto permettere a se stessa di scegliere l'odio, perché l'esempio di mio padre non le
ha insegnato questo. Mia madre ha avuto una vita difficile,
ma ogni volta lei è riuscita ad alzarsi e a trovare il senso
positivo delle cose. L'esempio positivo di mio padre sarebbe
impossibile senza il supporto anche tacito di mia madre.
Le ultime parole sono per i giovani in sala. L'invito è di allontanare il confine. Ricorda una lettera scritta da un giovane
partigiano condannato a morte, Giangiacomo Ulivi. Quando
la sua prospettiva di vita è di appena 48 ore, parla del futuro,
delle cose che bisogna fare, cambiare. È un invito a non rassegnarsi, un'urgenza immediata, ma è anche la necessità di
non limitare il nostro obiettivo a un confine troppo vicino.
Guardare a chi è libero dai confini che noi stessi ci siamo
dati, magari perché ha dei confini più lontani. È un invito a
osare e a non rassegnarsi.
Ci lascia con queste parole Umberto Ambrosoli e tutti noi
usciamo dal teatro portandoci a casa, o in cella, il peso di
quelle riflessioni che ci costringono a rivedere i nostri comportamenti. Sentir parlare Ambrosoli è veramente un antidoto
contro la rassegnazione, un balsamo per l'anima, una sveglia
che ridesta la coscienza addormentata. Un riattivare la memoria su quello che conta veramente e che troppo spesso trala-
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sciamo. Ascoltare Ambrosoli, rileggere la storia del padre è
come entrare in una beauty farm per la mente. Quando si
esce, ci si sente più belli.
Grazie Giorgio, grazie Umberto.
•••
G. B.
novembre ore 8,30. La sala teatro del carcere è gremita,
noi, una trentina tra redazione di Alterego e studenti, siamo in prima fila per vivere questo incontro con l'autore a cui
ci siamo preparati da più di un mese. In primo luogo leggendo
il suo libro Qualunque cosa succeda e poi documentandoci
sui fatti che hanno avuto come protagonista “involontario”
l'avvocato Giorgio Ambrosoli, padre di Umberto. Abbiamo
utilizzato libri come Un eroe borghese da cui è stato tratto
l'omonimo film e Il caffè di Sindona. L'incontro, guidato da
un'emozionata Catia, non si è sviluppato attorno al rapporto
padre-figlio, ma è stata una lezione sulla legalità. In una società dove il sistema mediatico non aiuta a coltivare il senso
della collettività, ciascuno di noi mette al primo posto il proprio interesse, il proprio vantaggio a scapito di quello altrui;
la cultura dell'individuo che supera quella della collettività
che crea il nucleo sociale che dovrebbe riconoscersi nello
Stato come regolatore della civile convivenza basata sul rispetto degli altri. Ambrosoli ci richiama alla responsabilità
delle scelte che siamo chiamati a fare giorno per giorno per
vincere questa cultura.
Ambrosoli ci richiama a non trovare l'alibi nel pensare di non
poter modificare la società, di essere soli, deboli e quindi di
non potere fare scelte diverse da quelle che ci omologano alla
cultura dominante. Ambrosoli ci dà testimonianza che siamo
liberi di decidere ed è nel significato delle scelte che facciamo
giorno per giorno che noi possiamo manifestare la nostra libertà di essere arbitri della nostra vita e poterci confrontare
con la nostra coscienza mentre ci guardiamo allo specchio. Ed
è una persona che con le sue parole ricche di ottimismo e di
fiducia ci dice di non avere paura e non nasconderci dietro gli
alibi, ma di aderire a quelle scelte che prima dell'interesse
personale tengono conto dell'Altro, senza rinunciare alle nostre aspirazioni purché non siano contro l'Altro. Tutto dipende
da noi, non dagli altri, a noi spetta la responsabilità di cambiare le cose un poco alla volta, con tutto l'impegno che potremo
metterci, anche sbagliando, ma cercando di fare del nostro
meglio. Non siamo chiamati a cambiamenti radicali, ma alla
creazione lenta ma costante di quella coscienza civile fatta per
legare responsabilmente l'individuo alla società.
La testimonianza di Umberto Ambrosoli deriva dai valori che
la sua famiglia gli ha trasmesso, dall'esempio di suo padre e
dal lascito di sua madre che gli hanno permesso di ritrovare il
senso positivo delle cose, di mettere al centro quello spirito di
servizio che significa responsabilità verso se stessi, ma anche
verso gli altri.
L'incontro con Ambrosoli ci fa uscire dal teatro con l'animo
pieno di speranza e con la certezza che anche noi, con la responsabilità delle nostre scelte siamo chiamati alla costruzione di quel cambiamento che ci permette di caricarci sulle nostre spalle “l'altro” e avviare un percorso di reciproco aiuto.
Un incontro che ci aiuta a meditare sui nostri errori, ma che ci
dice “puoi cambiare, dipende da te, non crearti alibi per non
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ALTEREGO
assumerti la responsabilità di cambiare”. Un rimpianto: all'incontro eravamo poco più di una trentina di detenuti e il resto
studenti di altre scuole, ma occasioni così avrebbero giovato
a tutti i detenuti perché è la testimonianza che stimola al cambiamento di ciascuno.
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FEDERICO INVERNIZZI
aro dottor Ambrosoli,
devo dirle che è stato un vero piacere ascoltarla e la
ringrazio per i messaggi che ha portato all’interno di questo
Istituto e cercherò di farne tesoro. Sentiamo tutti i giorni di
essere vittime di uno Stato che ruba e chi ha il potere non
vede altro che il proprio interesse. Lei però mi ha dato molto
e un appunto che ho preso mi sembra particolarmente significativo: “Dare senso alla vita nel rispetto della comunità in cui
viviamo”. L’incontro ha stimolato una riflessione sulla responsabilità che noi abbiamo abbandonato quando eravamo
fuori e così ci siamo ritrovati in carcere. E allora dobbiamo
credere nel cambiamento quale punto di partenza. Bisogna
imparare ad assumere le nostre responsabilità e prima di dire
che gli altri hanno fatto qualcosa, bisogna guardare dentro di
noi perché tutto dipende da noi e non dagli altri.
C
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KLAUDIA, studentessa Liceo Scientifico E. Amaldi
ualunque cosa succeda è il titolo del libro scritto da un
figlio per il padre Giorgio che è stato ucciso. Nel momento stesso in cui l’ho visto, mi sono subito chiesta che
valenza potesse mai avere un titolo così, ma ora, dopo averlo
letto tutto si spiega. Nel titolo c’è la chiave per capire che
tipo di persona fosse Giorgio Ambrosoli. Mi ha stupito molto
il fatto di non aver mai sentito parlare di una vicenda così
tragica ed eroica allo stesso tempo. A quanti è mai capitato di
passeggiare per qualche città e trovare vie o piazze intitolate
all’“Avvocato Ambrosoli”? Penso che nessuno si sia mai
spinto a indagare che cosa questo personaggio sia arrivato a
fare, che cosa sia arrivato a sacrificare per quei principi che
tuttora, nella società odierna, sembrano essere sfacciatamente
calpestati da tanti senza alcuno scrupolo. Giorgio Ambrosoli
era un uomo borghese, marito e padre di tre figli, una persona
ordinaria che però ci teneva a fare le cose nel rispetto delle
regole, qualunque cosa succedesse. Messa così sembra qualcosa di semplice, continuare a condurre la propria vita rispettando la legge e le regole di convivenza civile, ma nel momento in cui ci si ritrova a dover sacrificare tutto ciò che si è
costruito e a dover rischiare la propria vita, quanti sarebbero
disposti a correre questo rischio pur di portare avanti i propri
principi? Giorgio Ambrosoli sicuramente è stato una di queste persone. Dalla nomina di commissario liquidatore unico
della Banca di Michele Sindona, si è prefissato di assolvere il
suo incarico nel miglior modo possibile, andando a indagare
tutte le verità nascoste. Ambrosoli va ricordato non per la sua
tragica morte, ma per quello che ha fatto in vita, per come si
è comportato insegnando a fare bene il proprio lavoro. E’
onore leggere la storia di Giorgio Ambrosoli narrata dal figlio: la storia di un legame speciale, di un amore che continua
a unire padre e figlio, qualunque cosa sia successa.
Q
A
l diavolo la Giustizia Italiana, al diavolo la politica italiana.
Al diavolo i potenti, i mendicanti, le religioni. Al diavolo tutti
i predicatori, quelli che vogliono un mondo migliore: al diavolo perché sono proprio quelli che lo rendono peggiore.
Al diavolo i magistrati, gli avvocati, i lavoratori, i disoccupati. Al diavolo le case farmaceutiche e chi usa farmaci. Al diavolo gli animalisti e gli animali. Al diavolo i produttori di
droga e chi usa droga. Al diavolo le televisioni, Berlusconi e i
seicento e più lazzaroni che ci han portato alle elezioni.
Al diavolo i carcerati, i carcerieri, al diavolo più di tutti i Carabinieri e gli assistenti sociali perché sono loro i veri criminali.
Al diavolo tutte le associazioni che ci prendono per idioti, al
diavolo gli operai e chi li sfrutta senza averne mai abbastanza.
Al diavolo chi muore di stenti, al diavolo chi mastica in continuazione di tutto con i propri denti. Al diavolo la casa, la
chiesa e tutte le cose inutili che non servono nella vita.
Al diavolo i fabbricanti d’armi e chi usa armi, al diavolo chi
ha la verità in tasca e a chi non ce l’ha nemmeno in tasca. Al
diavolo la ricchezza e la povertà.
Al diavolo chi vive e chi vorrebbe morire. Al diavolo tutto e
tutti perché abbiamo tutto e per tutti. Al diavolo anch’io che
non sono diverso da te.
Al diavolo i terroristi, tutti i santi e chi crede che siano importanti.
Al diavolo le ricchezze, il mondo con le sue bellezze, gli speranzosi e i rassegnati perché tutti al diavolo siamo mandati.
Al diavolo gli amici perché appena ti giri diventano nemici.
Al diavolo i religiosi perché comunque una volta morti non ci
rimane altro che venir sepolti.
Al diavolo chi dice di sapere e chi sta lì a sentire.
Al diavolo chi vende illusioni, basterebbe essere tutti uguali
per non avere problemi.
Al diavolo i problemi e le soluzioni, le manifestazioni e chi
crede nelle rivoluzioni.
Andiamo al diavolo tutti e riaccendiamo il fuoco con un rametto come è successo quando l’uomo è comparso, quando
l’egoismo, l’ignoranza, l’indifferenza, la fame, la sete, le
guerre, l’Aids, il petrolio, il denaro, la falsità, Internet non
esistevano, bastava una foglia di fico e tutto era perfetto.
Nessuno per questo si senta offeso, ho solo espresso quello
che penso, mando tutti al diavolo con l’illusione che si possa
ricominciare.
Con questo al diavolo mi sfogo: sono arrabbiato e questo è il
mio modo per sentirmi liberato. Penso che tutti debbano andarsene al diavolo per poi tornare e non avere più niente di
cui lamentarsi.
Dopo un bel al diavolo possiamo ricominciare.
Gianluigi
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STEFANIA COLOMBO
entire la risposta ‘No’, genera automaticamente una domanda da parte di chi l’ascolta. Perché No? È una domanda che sorge spontanea perché un No deve essere sempre
accompagnato da una motivazione valida per essere accettato
da parte di chi non vuole sentirselo dire.
Sin da bambini ci sentiamo ripetere questa parola sgradita
perché corrisponde sempre a un rifiuto e con l’innocenza di
bimbi chiediamo: “Perché No?”.
E se scaviamo nella nostra memoria ognuno di noi ricorderà
l’arrabattarsi dei genitori per trovare le parole giuste per darci
spiegazioni valide con parole comprensibili.
Personalmente non mi piace sentirmi dire di No, ma nell’ambiente nel quale mi trovo, purtroppo me lo sento dire spesso.
E la cosa peggiore è che i No non sono sempre seguiti da motivazioni valide e il risultato è che sono ancora meno accettabili.
In genere si dice che i No aiutano a crescere, nel contesto
carcerario, invece, creano solo confusione e così passi gran
parte del tempo libero che hai a cercare di dare una spiegazione logica che generalmente non trovi.
cherebbe prendere una posizione e mantenerla.
Per me il No non deve essere una negazione del nostro essere
qui e ora. Non si deve dire No così alla leggera o magari in
preda alla rabbia. Il No è una decisione che va portata avanti.
Mi viene spontaneo pensare a come tutti i giorni cerco di
lasciare andare le cose senza stare da una parte o dall’altra,
per evitare conseguenze negative, per il cosiddetto quieto
vivere e lascio correre.
Eppure la forza che comunque ci vuole per lasciar correre si
accumula e diventa poi impossibile fermare quell’esplosione
tanto a lungo trattenuta dentro pur di evitare di dire No. Ma
c’è il giorno in cui arriva l’inevitabile presa di posizione per
salvaguardare me stessa e anche gli altri, i rapporti che voglio
coltivare e che, se ben curati, mi daranno amore e mi insegneranno certo a non portarmi appresso quel bagaglio emotivo negativo relativo a quando avrei voluto dire No, ma non
l’ho detto. L’uomo è un animale sociale che deve però dire di
No quando si tratta di difendersi dai legami capaci di prevaricare, minacciare la sua esistenza.
Le forze che minacciano la nostra vita ci rendono più fragili e
allora dobbiamo dire di No, mentre ci apriamo a quelle presenze amiche che sanno aiutarci e raccoglierci anche quando
siamo a pezzi. Si impara a dire No: io almeno adesso sto cercando d’imparare.
•••
•••
MARTA
’è chi dice No, sì c’è chi lo dice.
Imparare a dire No è un esercizio di volontà. Esercizio
al quale tante volte per comodità si rinuncia perché signifi-
MONICA
mparare a dire No, penso che sia una delle cose più difficili da fare. Implica profonda autostima e fiducia in se stessi, consapevolezza di sé e di ciò che si vuole, delle proprie
>>> C’E’ CHI DICE NO <<<
S
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ALTEREGO
risorse e dei propri limiti. Limiti, fragilità su cui gli altri possono far leva per ottenere ciò che vogliono attraverso la prevaricazione.
Imparare a dire No è quello che cerco di fare da una vita,
passando attraverso tanta sofferenza perché non riesco a manifestare la mia volontà, il mio dissenso e ci sto male. Sento il
conflitto dentro di me tra quello che vorrei fare o dire e quella
forza che non mi permette di farlo o dirlo. Penso che la paura
sia essenzialmente ciò che mi frena: paura del conflitto, di
non essere capita, di essere fraintesa. Paura di essere lasciata
sola. So che sarebbe importante chiedermi da chi, poi, sarei
lasciata sola? Se coloro che ci amano incondizionatamente si
contano sulle dita di una mano: cosa temiamo profondamente? Esiste una sola persona nella mia vita di cui mi interessa il
pensiero e l’amore, cioè mia madre. La maggior parte delle
altre persone, se mi stanno accanto, lo fanno solo per un ritorno personale, mai per purezza d’animo, mai senza pretendere
qualcosa in cambio, mai per me. Imparare a dire No, so che
mi farà stare bene, mi farà crescere libera. So anche che non
può avvenire dall’oggi al domani: si tratta di un cambiamento
lento, ma se costantemente perseguito, pur sbagliando, darà
senso alla mia fatica, a ogni mia lacrima versata.
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LASSAAD T.
o ho detto No all’apatia, per non perdere mai la speranza
di diventare quello che voglio essere veramente, per non
mollare mai, come mi dice sempre mio figlio che ha 14 anni
e in una lettera mi ha scritto queste righe: «Cerca di usare
meglio il tempo per capire gli errori e non ripeterli mai più e
per riflettere su quanto è preziosa la libertà».
Io che ora ho 41 anni, ho cominciato adesso a capire cosa
significa la libertà e la speranza e posso dire che le cose che
ho imparato qui dentro mi rendono forte, sicuro e capace di
costruire un futuro migliore e affrontare la vita a testa alta.
Cerco di spendere questo tempo per migliorarmi e aiutare chi
ha bisogno, perché un giorno potrei essere io ad avere bisogno di aiuto.
Cerco di approfittare di tutte le attività che offre il carcere, di
capire i diversi punti di vista, cerco di rimanere in contatto
con il mondo esterno e con le persone che vengono dalla libertà, come gli assistenti volontari e gli insegnanti della scuola che io ringrazio per il tempo che ci dedicano.
Adesso è l'ora di pregare e lo devo fare perché è l’unica cosa
che mi dà forza e coraggio di andare avanti. Mi auguro un
futuro migliore fuori da qui, per me, per i miei concellini e
per tutti quelli che incontro tutti i giorni, io prego sempre il
nostro Dio.
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ELENA
o sinceramente non ho detto spesso di No nella mia vita,
anzi a dir la verità sono più le volte che non ci sono riuscita. Infatti questo mi ha procurato molti problemi. La volta a
cui tenevo di più è stata quando ho chiesto un favore a Dio.
Ho pregato veramente tanto, ho fatto una semplice domanda:
“Non far morire la mia mamma. Ho bisogno di lei”. Ma lui
non mi ha ascoltato. Ha detto No. Anche i Grandi dicono di
I
No. Così ho cominciato a credere che un Dio non esista, altrimenti non avrebbe potuto rispondermi così.
•••
FEDERICO INVERNIZZI
’è chi dice no è una famosissima canzone di Vasco
Rossi che ascoltavo nella mia adolescenza, ma se penso
a quell’adolescenza di No ne ho ricevuti ben pochi, quindi
vorrei passare a un’altra tipologia di No che ho detto io nelle
situazioni difficili della mia vita come il collegio prima e poi
il carcere. Ci sono entrato con paura ma poi mi sono trovato a
riflettere e a dirmi: “E adesso che sono in carcere cosa faccio?
Devo reagire”. E a quel punto ho trovato tutto ciò che m’impegna come lo studio, la lettura, lo sport. Ecco qui il mio No.
Non mi piego alle situazioni difficili, ma le affronto nel migliore dei modi e do un consiglio a tutte quelle persone che si
sentono vittime di una situazione restrittiva. Reagite perché
questo è solo un periodo della vostra vita, fatene tesoro e credete nel cambiamento. Insieme credere è più semplice.
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GIUSY
ul titolo della canzone C’è chi dice no c’è da scrivere sia
in maniera autobiografica sia generale. Cosa non facilissima, personalmente – e qui si entra nell’autobiografico – io
generalmente dico di No a persone che sento non sincere, uomini il più delle volte che hanno uno scopo, posso sbagliare,
ma in genere è palese la loro richiesta. Non dico No ad esempio a un bimbo vestito di stracci con occhi che dicono tutto e
ti tende la sua piccola mano. Posso dire No, anzi vorrei dire
No a cattive amicizie, però non è sempre facile. Ora, per non
aver detto questo fatidico No, mi ritrovo qui e occasioni certo
ne avrei avute per dire il mio No!
S
•••
MERIEM
o tante difficoltà a dire No. Ogni tanto mi vergogno a
rispondere No, se qualcuno mi chiede qualcosa, ma
dopo me ne pento.
Ma in carcere si imparano tante cose e quello che ho imparato
è stato dire No ogni tanto e mi fa stare bene e in pace con me
stessa, così evito tante cose fastidiose e tanti casini.
La volta che più mi ha fatto male nel sentirmi dire No: quando
mi è arrivato il rigetto per uscire. In quel momento mi sono
davvero resa conto che la mia vita è in mano a qualcun altro
che decide se e quando posso cambiare e rifarmi una vita. In
quel preciso momento ho compreso che c’è chi mi ha detto
No.
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GIANLUIGI
on mi sento la persona adatta a dire di No. Per esempio,
ieri, ho sentito mio figlio disperato perché aveva preso
un cinque in matematica. Io so benissimo perché era disperato, perché temeva la reazione della madre. Perché mio figlio
al telefono mi ha raccontato la sua disperazione? Lo dico su-
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bito, perché gli ho detto di sì: «Va bene, chi se ne frega – gli
ho detto – la prossima volta prendi sette, lo sommi al cinque,
dividi per due e ti resta un bel sei e il gioco è fatto».
Con questo non voglio insegnare a mio figlio a essere uno
che se fa una cosa sbagliata, non importa anzi: se fa cose sbagliate, poi deve rimediare in qualsiasi modo, anche scorretto,
per esempio copiando, naturalmente senza farsi beccare, questo è scontato.
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SIMONE
o ho sempre detto di sì anche quando era no, è una cosa
più forte di me, forse è un bene forse è un male, ma io
sono fatto così. Mi sono accorto di una semplice cosa che il sì
ti fa avvicinare quelli che pensi che siano tuoi amici che invece ti usano come loro burattino, ma quando una volta ho detto
No, sono rimasto solo. Una volta ho detto un No deciso ed
ecco dove sono finito, dietro alle sbarre, ma io mi chiedo:
«Perché la vita di una persona deve essere fatta sempre di sì?
Non deve invece dire qualche volta anche dei No?». A questa
domanda non sono ancora riuscito a dare una risposta.
I
Ecco la consapevolezza del mio errore sta nel non aver cercato il bene comune all’interno delle regole
•••
STEFANIA COLOMBO
econdo me un alibi è la scusa per nascondersi.
Si trovano degli alibi per giustificare un’azione che non si
è compiuta perché non avevamo voglia di fare una data cosa,
giustificando questa mancanza con delle falsità.
Usare un alibi significa non assumersi le proprie responsabilità cercando di scaricare addosso agli altri le nostre colpe.
Ognuno di noi usa continuamente degli alibi per giustificare le
proprie mancanze. Quando ero a casa e volevo dedicarmi solo
a me stessa, se mi chiamava un’amica che mi proponeva di
vederci, io usavo l’alibi di essere in un luogo che non potevo
abbandonare per un po’. Non avevo il coraggio di dire che
volevo stare da sola, anche per non ferire i sentimenti della
mia amica e non dare troppe spiegazioni. L’alibi ci serve per
convincerci che siamo nel giusto anche quando sappiamo benissimo che non è così.
S
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>>> SACRIFICIO <<<
>>> ALIBI <<<
G. B.
N
ella ristrettezza del carcere penso alla vita vissuta, alle
scelte che mi hanno portato a vivere questa esperienza.
Nel ripensare alle motivazioni che hanno determinato le mie
scelte, mi accorgo sempre più che il mio egoismo nel voler
vivere una posizione di prestigio, di benessere ha avuto l’alibi, la giustificazione della famiglia. Le scelte consapevolmente fuori dalle leggi che andavo a prendere erano falsamente motivate dal pensare al bene della famiglia, dal voler
provvedere ai bisogni economici, garantire lo studio alle figlie, consentire loro quelle opportunità che la vita poteva
riservare. A questo pensiero si aggiungeva quello relativo al
mantenimento dei miei privilegi e al mantenimento del posto
di lavoro e dello stipendio di altre 200 persone: altro alibi per
giustificare il mio essere fuori dalla legge.
No, non fai male a nessuno, anzi! Ma essere fuori dalla legge
non ha portato a risultati positivi: sì, certo, la famiglia è sistemata, le figlie hanno raggiunto quanto volevano, ma quanto è
stato tolto con la mia mancanza, con la mia reclusione. Non
vi erano altre strade nella legge che potevano essere percorse
e cercate da me senza che gli alibi mi convincessero della
scelta più comoda.
Di una cosa sono convinto comunque: di essere in pace con
la mia coscienza e di potermi guardare allo specchio con il
perdono della mia famiglia, sapendo di avere consapevolmente scelto di sbagliare e di avere responsabilmente assunto
le conseguenze dell’errore. Un errore fatto a fin di bene ma
forse anche questo è un alibi. Mi domando: la legge dovrebbe
garantire il bene della società, fuori dalla legge non puoi ricercare questo bene?
MERIEM
er me il sacrificio significa rinunciare a virtù infinite.
Sentivo spesso mia madre ripetermi: “Ho sacrificato
tutto per te e il risultato è quello di trovarti in carcere”. Per
me, sia io sia lei abbiamo fatto una scelta di vita consapevoli
di tutte le conseguenze. Lei ha avuto tanti problemi con mio
padre e non ha mai chiesto il divorzio per andarsene via da
casa. Dice che l’ha fatto per me, all’epoca ero ancora figlia
unica, ma credo che quella era la sua scelta. Perché ognuno di
noi è libero di fare ciò che vuole.
Io considero il sacrificio come il risparmio, la rinuncia a comprare qualcosa oggi per acquistare domani qualcosa di più
importante.
P
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ENEA
fogliando la Bibbia nell’Antico Testamento si trova spesso la parola sacrificio riferita a quando si offrivano a Dio
animali, oggetti preziosi, frutti e cibi vari e in casi estremi
S
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ALTEREGO
perfino una vita umana. Una pazzia, non c’è dubbio. Ma molti secoli dopo sembra che le cose, seppur sotto altre forme,
non siano cambiate.
Mi capita spesso di pensare a quanto diversa sarebbe stata la
mia vita se avessi accettato di mettere la firma nell’Esercito
al termine di quel movimentato e rocambolesco anno passato
nelle truppe alpine. Col senno di poi, a volte rimpiango quel
mio rifiuto, anche se, pensandoci più profondamente, mi rendo conto che non è detto che la mia sarebbe stata una sorte
migliore. Potrei già essere morto in una di quelle guerre camuffate da missioni umanitarie oppure operazioni di pace
all’estero dove cadono migliaia di giovani vite in nome di
interessi religiosi, economici che vanno dallo sfruttamento
delle risorse di un territorio al mercato degli armamenti.
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STEFANIA COLOMBO
acrificio ha due diversi usi e significati: c’è chi si sacrifica per raggiungere un preciso obiettivo, quindi è una
scelta, quella di rinunciare a qualcosa per ottenere qualcos’altro. C’è invece chi usa il sacrificio per nascondere una sua
scelta, oppure la sua mancanza di volontà o le sue paure. Non
condivido questo tipo di sacrificio perché è uno scudo usato
per far sentire in colpa qualcun altro, per sentirsi più tranquilli con la propria coscienza. Un sacrificio è vero quando coinvolge solo la propria persona, ma è nocivo se le conseguenze
di una scelta ricadono sugli altri.
Un genitore può dire al proprio figlio “Mi sto sacrificando
per te per crescerti nel migliore dei modi”. Questo non è un
sacrificio ma il dovere da parte di chi ti ha messo al mondo.
Un genitore si sacrifica e continua un matrimonio ormai finito per il bene dei figli: non è vero e nemmeno giusto nascondersi dietro quella scusa. Credo che si tratti di paura di ricominciare e di mancanza di volontà di voltare pagina. Il risultato poi è che sono gli altri a sentirsi in colpa.
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VINCENZA LEONE
rima di entrare in carcere vivevo da otto anni da sola
con mia figlia Filomena e di rinunce e sacrifici per crescerla ne ho fatti veramente tanti. A mio parere il più grande
sacrificio è stata la decisione di entrare in carcere per pagare
il mio debito con la giustizia. Avendo una condanna alta da
espiare, tante persone mi consigliavano di trasferirmi all'estero, di rifarmi una vita altrove. Ciò significava diventare latitante. Il pensiero di entrare in carcere mi angosciava, ero disperata. Se ci fosse stato in gioco solo la mia vita, avrei fatto
subito le valige e sarei sparita, ma avevo una figlia, allora
tredicenne, e portarla con me significava esporla a chissà
quali pericoli, mentre se fossi andata via da sola, non mi sarebbe più stato possibile rivederla. Amavo la mia libertà, ma
in quella libertà era compresa anche mia figlia che amavo più
della mia stessa libertà. Senza di lei non avrebbe avuto senso.
Così ho deciso di sacrificarmi e pagare il mio debito con la
giustizia. La carcerazione non mi ha permesso di starle accanto giorno dopo giorno, in compenso le nostre strade non si
sono divise: mia figlia è sempre venuta a trovarmi. In quelle
poche ore l’abbraccio forte, la colmo di baci, mi racconta
P
della sua vita seppure difficile senza il mio appoggio. Tempo
fa ho conosciuto anche il suo ragazzo. Il mio sacrificio non è
stato vano. So con certezza di non aver perso mia figlia. Adesso spero solo di poter tornare presto a casa da lei.
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>>> RICORDI DI FAMIGLIA <<<
STEFANIA COLOMBO
ensando al mio passato di bambina, mi ricordo due tradizioni particolari che vivevo in famiglia e quando le rivivo con la mente, sorrido con felicità a quegli episodi così
semplici ma che mi riempivano di gioia e di serenità.
Uno di questi ricordi è legato al bagnetto che mi faceva mia
mamma. Prima mi riempiva la vasca e mi ci faceva sguazzare
un po’ giocando e, dopo avermi lavata, se mio papà era a casa,
mi avvolgeva in un ampio asciugamano e mi portava da lui
che era seduto in poltrona a guardare la Tv e io me ne stavo
accoccolata tra le sue braccia fino a quando mia mamma, riordinato il bagno, veniva a riprendermi per vestirmi.
La seconda tradizione invece era legata alla promozione alla
fine di ogni anno scolastico. Ed è iniziata sin dalla prima elementare.
Il primo sabato successivo al ritiro della pagella, si usciva a
cena. Alcune mie amiche ricevevano veri e propri regali per la
promozione e forse anche io qualche volta ho desiderato un
regalo anziché la cena, ma oggi con il senno di poi, sono contenta di quella tradizione. Quel regalo che mi facevano è rimasto ben impresso nella mia mente per tutti questi anni; se invece mi fosse stato dato un oggetto qualsiasi anche se tanto desiderato in quegli anni, oggi di sicuro non me lo ricorderei.
Quindi preferisco avere questi valori che riempiono il bagaglio dei miei ricordi perché anche se semplici restano indelebili nel tempo.
P
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VINCENZA LEONE
i ricordo che da piccola ogni anno e precisamente il
giorno dell’Immacolata mio padre faceva l’albero di
Natale e un piccolo presepe. Una volta gli chiedevo perché
proprio l’8 dicembre piuttosto che un altro giorno, che cosa
cambiava? Lui mi rispondeva che quella era la tradizione ma
non l’unica.
La sera del 24 dicembre nessun componente della famiglia
poteva mancare per il cenone della Vigilia. Al termine gli
uomini si riunivano in una stanza a giocare a carte e le donne
in un’altra per la tombola a volte fino all’alba.
Allora mi chiedevo a che cosa servisse questa tradizione, quest’obbligo di stare insieme. Adesso che vivo da tanti anni lontana dalla mia famiglia, devo dire che questa tradizione mi
manca molto. Ho capito che era un’occasione per sentire il
calore e l’affetto delle persone care.
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NUMERO 16
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SIMONE
io padre lo ricordo quotidianamente, con piccole azioni, quelle che faccio ogni volta che mi offro di aiutare
il prossimo. Mio padre ed io avevamo (lui mi ha lasciato dopo una malattia incurabile) lo stesso carattere: indole buona,
forse troppo, disposti ad aiutare il prossimo in qualsiasi cosa,
dal lavoro a un consiglio, la disponibilità a risolvere i problemi.
Ricordo quando mi diceva di essere sincero e rispettoso verso
gli altri e sarei stato stimato, di non aver paura di fare qualsiasi cosa purché fosse una mia scelta e non un obbligo, di
essere disponibile sempre e avrei trovato disponibilità nel
prossimo. Porterò per sempre nel mio cuore il ricordo di mio
padre per la sua semplicità e il suo carattere di persona disponibile con tutti, grandi o piccoli che fossero, spero di diventare sempre più simile a lui per poterlo ricordare ogni giorno.
M
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conto di come io sia cambiata, maturata e di come ora sia possibile affrontare qualsiasi tipo di discussione senza necessariamente finire a litigare. Non pensiate che però sia tutto e rose e
fiori, non è affatto così perché a momenti di condivisione e
tranquillità si contrappongono parecchi momenti di discussione anche piuttosto animati. Quando dico di vedermi rispecchiata in lui è proprio per quegli aspetti più duri e rigidi del
suo carattere. Testardaggine, rigidità, grandi aspettative, zero
margine di errore: immaginate come possa essere vederci discutere! Eppure lui rimane il mio papà e io rimango la sua
bambina. Sembra quasi ossimorico quello che ho appena scritto, me ne rendo conto, ma in un rapporto così complesso che
vede protagonisti una figlia e un padre è impossibile vedere
tutto nero o tutto bianco, qualsiasi cosa è costituita da tante
sfumature e così siamo io e lui. Due sfumature a volte opposte
e a volte simili, indistinguibili l’una dall’altra: un padre e una
figlia.
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KLAUDIA, Studentessa del Liceo Scientifico E. Amaldi
La mia bambina”
“Mamma o papà? A chi vuoi più bene?” Ho sempre visto rispondere i miei fratelli minori che il genitore “preferito”
era, ed è, la mamma. Io in realtà non ho mai risposto, sarà
che temevo di fare un torto all’uno o all’altro quindi me ne
stavo zitta a cercare di darmi una risposta che in realtà non
arrivava mai. A partire dalla domanda direi che in realtà la
chiave non sta nel dire un nome piuttosto che un altro, bensì
pensare a che tipo di rapporto si ha con ciascuno dei due genitori. La mamma solitamente è sempre la persona più vicina,
sia dal punto di vista affettivo che confidenziale, con la mamma è sempre un po’ più facile parlare, di qualsiasi cosa.
“
Il padre invece, riferendoci a quello che è il topos che rappresenta, viene sempre visto come la figura più autoritaria e se
vogliamo anche più distaccata. Per quanto mi riguarda devo
dire che mi ci è voluto del tempo per cercare di capire, o anche solo delineare, quello che la figura di mio padre rappresentava per me. Fin dall’infanzia ho avuto sempre un po’ di
soggezione nei suoi confronti, quando dovevo dire di un brutto voto a scuola o chiedere di uscire sembrava quasi un ostacolo insormontabile, anche solo il dover affrontare un qualsivoglia discorso riguardo anche alla cosa più futile. Col tempo
invece sono cambiata io e soprattutto è cambiato anche lui: io
sono maturata e lui ha cominciato a capire quelle che erano e
sono le mie esigenze. Fondamentalmente è cominciato il dialogo tra noi e mi meraviglia ancora. Penso che sia tutto cominciato tre o quattro anni fa. Una volta è capitato che ci
trovassimo in riva al mare a parlare, eravamo usciti insieme
all’alba a fare due passi lasciando il resto della famiglia a
dormire, e come se fosse una cosa quotidiana, a cui eravamo
abituati, continuavamo a discutere e confrontarci sui nostri
rispettivi punti di vista.
Da quell’episodio per me è cambiato tutto ed è per questo che
porto il ricordo così vivido ancora nel cuore. È sparita la soggezione che mi aveva messo tanto in difficoltà nei suoi confronti in precedenza e, soprattutto, mi son resa conto che anche lui aveva cambiato atteggiamento nei miei. Difatti, benché lui ribadisca spesso (molto spesso) che resterò sempre
“La sua bambina”, credo che nel corso degli anni si sia reso
RESPONSABILE PROGETTO
Mimma Pelleriti (Cisl Bergamo)
DIRETTRICE EDITORIALE
Adriana Lorenzi
REDAZIONE
Giovanni Bossi, Elina Carrara, Stefania Colombo,
Angela Ghidotti, Ingrid, Federico Invernizzi,
Lino Martemucci, Catia Ortolani,
Antonio Peluso, Vincenzo Santisi
GRAFICA E IMPAGINAZIONE
Bruno Silini (Ufficio Conunicazione Cisl Bg)
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Intervista al Direttore del carcere
dott. Antonino Porcino
di VINCENZA LEONE
V.L.: Perché ha scelto questo mestiere?
A.P.: Una bella domanda. I mestieri non si scelgono, s’incontrano lungo la vita. Sperimenti tante cose e poi fai le tue scelte. Quando si decide di iscriversi alla Facoltà di Giurisprudenza, non si ha l’idea di fare un mestiere come quello di
Direttore del carcere, ci si vuole piuttosto interessare ad alcuni problemi di tipo sociale, mettendosi dal punto di vista del
più debole. La figura del Principe del Foro, dell’avvocato che
nelle aule difende gli interessi dei più deboli è quello che
affascina. Poi ti rendi conto che così non è e intanto incontri
il concorso per Direttore di carceri, lo fai e lo vinci. Dopo un
primo periodo nel quale ti interroghi e ti dici “Ma chi me l’ha
fatto fare!?”, ti trovi a risponderti “Si può fare!”. Esistono
delle coincidenze che ti guidano: ho fatto l’Università con il
figlio del direttore di un carcere, lui era innamorato di questo
mestiere e io non ne volevo sapere, c’era stato il blocco
dell’assunzione da parte dello Stato, avevo fatto un altro concorso, nel frattempo era morto mio padre. Sono i casi della
vita che poi ti spingono a fare questo mestiere. A venticinque
anni ero già direttore a Novara.
È un mestiere come tanti altri. Ti appassioni ad alcuni aspetti
piuttosto che ad altri e lo interpreti in un certo modo che non
è detto che sia quello che vale anche per altri.
ALTEREGO
È un mestiere che dà spazio all’organizzare la vita degli altri,
una struttura, una serie di progetti che vanno oltre il carcere.
Gli fai prendere corpo attraverso gli altri, i collaboratori.
Il direttore non ha un unico mestiere: non sa fare l’insegnante,
non ha una laurea scientifica, neppure in Medicina, né in
Scienze dell’educazione, ma deve avere la capacità di mettere
in relazione le varie professioni affinché lavorino al meglio.
Se non si ha questa capacità si fallisce nel mestiere di direttore.
V.L: Il direttore fa il carcere?
A.P.: No. Non lo fa. Da solo il direttore non fa nulla. Può agevolare, essere da stimolo. Può fare da motore di propulsione
che serve al carcere per andare avanti. Il carcere è fatto di
tanti segmenti: i detenuti sono il segmento più importante
perché sono loro che decidono di vivere con responsabilità il
momento della carcerazione e noi come operatori penitenziari
dobbiamo e possiamo proporre e accompagnarli nella carcerazione, agevolare il loro reinserimento sociale.
Può guidare una nave il direttore, ma all’interno di una cabina
di comando abitata da altri. Forse, se avesse funzionato la
cabina di comando di Schettino le cose sarebbero andate diversamente.
V.L.: Crede di svolgere sempre il suo lavoro in modo giusto?
Si è trovato a prendere decisioni delle quali si è poi pentito?
A.P.: Accade spesso anche nella vita di prendere delle decisioni che poi vanno in una direzione che non avresti mai pensato. La decisione che prendiamo noi è nell’immediato,
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nell’imprevisto perché tutto ciò che è prevedibile è già organizzato, deciso. Nell’immediato di fronte al bisogno concreto,
quello che fa la differenza nell’andare a valutare anche ciò
che agli occhi degli altri può essere considerato ingiusto. È
l’eccezione che conferma la regola. Le regole sono fatte perché riguardano la maggior parte delle persone e poi c’è l’eccezione che come tale va trattata. È importante che resti
un’eccezione e che non diventi l’ordinarietà.
Ho coniato una massima: in carcere la prima volta la novità
la fai perché è indispensabile, per necessità: non hai altra
scelta. Poi se si presenta un caso similare e tu, per similitudine di situazione, estendi la ‘novità’, questa diventa depravazione. È una massima che tengo ben presente e tante volte
non faccio eccezioni proprio per evitare eventuali degenerazioni: così è stato fatto ieri, allora possiamo fare oggi e faremo anche domani. La gente non capisce la differenza tra regole ed eccezioni, non capisce perché ciascuno è preso dal
suo bisogno, interesse. Capisco che non posso chiedere a uno
di capire i problemi di un altro – e non voglio neppure - perché ha già i suoi. Mettere in concorrenza i bisogni delle persone significa in qualche modo danneggiarli. Siamo noi che
non dobbiamo essere concorrenziali nel valutare oggettivamente le situazioni, nel considerare i maggiori bisogni. Posso
mettere in concorrenza l’interesse di una a farsi una carcerazione tranquilla con quello di un’altra detenuta, una povera
disgraziata che non c’è mai con la testa? Sono io che vi obbligo a convivere, è giusto che sia io a prendere questa decisione piuttosto che lasciarla a voi.
V.L.: Il sovraffollamento è giusto risolverlo con il trasferimento dei detenuti da un carcere all’altro? Come risolverebbe lei il problema del sovraffollamento?
A.P.: Non si risolve il sovraffollamento trasferendo i detenuti
in un altro carcere. Il sovraffollamento ha sempre caratterizzato la realtà carceraria e non si risolve certo con i provvedimenti di tipo amministrativo. È chiaro che i posti sono quelli
che sono. Io non credo che trasferendo i detenuti da una struttura all’altra si stia adottando una soluzione, piuttosto se i
posti non ci sono, stiamo soltanto trasferendo un problema. Io
credo che si debba lavorare sul sovraffollamento attraverso le
misure alternative, all’interno di una gestione più aperta nel
senso di ampliamento degli spazi per dare una dignità al vivere quotidiano.
Questa amministrazione ha preso la decisione di ampliare gli
spazi e lo può fare a fronte di una popolazione di media sicurezza, con progetti e programmi seri senza gravare eccessivamente sul personale di Polizia. Stiamo parlando di alcune
attività dinamiche dove tutti gli operatori – educatori e insegnanti – prestano un’opera di custodia e trattamentale. Senza
fare gli agenti, realizziamo un’apertura maggiore e una maggiore disponibilità e fruibilità degli spazi a disposizione. Questa intervista viene fatta a mezzogiorno in un’aula della sezione femminile, ciascuno di noi ha scelto di essere presente,
di sfruttare il tempo in modo proficuo e nessuno di noi pesa
sul pranzo degli agenti e degli altri detenuti che a quest’ora
stanno mangiando.
V.L.: Il carcere di Bollate è considerato un modello. Quanto
si avvicina la nostra Casa Circondariale a quel modello?
A.P.: Bisognerebbe conoscere Bollate. Modello di che? Mi
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chiedo. Di trattamento? Modello di reinserimento? Personalmente io ho paura di prendere a modello qualcosa o qualcuno. Ognuno può essere modello di se stesso.
Se mandassi lei a Bollate domani e arrivando là, non avesse
nessuna attività da fare, lavorativa o di altro genere, Bollate
non sarebbe un modello. Sentirebbe di essere stata danneggiata perché era partita da una realtà nella quale, bene o male,
aveva trovato una sua dimensione, aveva organizzato il tempo-galera in modo che fosse utile a sé e anche alla famiglia,
coltivando quel minimo di interesse che si può coltivare in
carcere.
Delle scelte bisogna farne. Bollate: su 1200 detenuti 450 impegnati, fate voi la differenza. Può essere modello per via
degli spazi aperti. Ma non credo che possa costituire un punto
di arrivo, è un punto di partenza per un futuro. Sempre un
carcere è con le dinamiche tipiche del carcere. Cose che si
possono fare e altre che non si possono fare.
V.L.: Non ha mai pensato di fare il penale anche per il femminile.
A.P.: E come si fa a farlo più penale di quello è!? Che significa penale? Cosa vi rappresentate con il termine penale? I
luoghi comuni vanno sfatati.
Il numero delle detenute non giustificherebbe una separazione tra giudicabili e definitive. Non sempre poi è opportuno
fare questa distinzione per posizioni giuridiche. Perché andare a ghettizzare quando il numero è basso? È basso in tutta
Italia il numero delle donne che delinquono. Sono l’8, il 10%.
Anche qui che abbiamo una sezione penale per il maschile
con 80, 90 detenuti, abbiamo necessità di aprire certe attività
del penale anche al circondariale: vale per l’attività teatrale
per esempio ma anche per una partita al pallone.
Più alti sono i numeri, più alte le potenzialità. I detenuti sono
delle risorse che devono essere riconosciute come tali per poi
accompagnarle. L’appiattimento non giova a nessuno, non
riuscire a fare differenze tra chi ha qualcosa da dare, esprimere e chi non vuole farlo. Anche dal laboratorio di ceramica
sono usciti dei pezzi che possono avere un valore artistico
maggiore rispetto ad altri, ma per tutte le detenute il laboratorio di ceramica è stato un modo per tirarsi fuori dai problemi
del quotidiano.
V.L.: Come mai ci sono per le donne minori possibilità di
lavoro all’esterno?
A.P.: In termini di percentuale non ci sono meno opportunità
di lavoro per le donne che per gli uomini. È vero però che chi
sul territorio si avvicina alla realtà carceraria, pensa a un carcere maschile e ad attività lavorative per soddisfare gli uomi-
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ni. Noi raccogliamo le offerte e non possiamo imporre le nostre esigenze alla Cooperativa che vuole braccia per zappare
la terra. Abbiamo inviato donne per la raccolta differenziata,
per esempio. Impieghiamo le donne per i lavori all’interno
del carcere, per la pulizia degli uffici, la lavanderia. Impieghiamo la metà delle detenute presenti in sezione all’interno
di un turn-over alto perché le detenute restano in sezione per
una media di sette, otto mesi, tranne chi ha deciso di fare qui
la detenzione.
V. L.: Secondo lei serve il carcere?
A. P.: Credo che serva come momento di riflessione soprattutto per chi vuole reimpostare una vita diversa. Serve perché
ti obbliga a fermarti e riflettere su quella che è stata la tua
vita passata. Ogni riflessione non porta poi a non commettere
gli stessi errori, puoi tornare ancora a fare quello che facevi
prima di entrare in carcere. È chiaro che è un percorso che fai
da solo. Puoi essere accompagnato, ma non puoi essere obbligato a fare questa riflessione. Sei obbligato nel senso che la
galera ti obbliga a fermarti e a riscoprire alcuni valori che
pensavi di non avere in te, di non essere in grado di realizzarli. Qualcuno fa cose che non avrebbe mai pensato di fare da
persona libera – teatro, scrittura, scuola. Qualcuno si avvicina
al teatro e fuori non avrebbe mai pensato di avvicinarsi al
teatro neppure come spettatore. È un’occasione per misurarsi
con le proprie capacità e tentando di recuperare il tempo perduto, quel tempo non dedicato a cose importanti. Da liberi si
dedica il proprio tempo a cose futili, mentre qui il tempo è
dedicato a cose importanti. Obbliga a essere impegnato: obbligo morale nei confronti della propria concellina, anche
soltanto per lasciarla un po’ da sola in cella, altrimenti si vive
malamente il carcere e si diventa un arredo del carcere e allora diventa poco utile.
Utile nel momento in cui il detenuto usa il tempo in modo
sensato. Imporsi la mattina di alzarsi, accettare la scansione
del tempo data dagli impegni. Organizzarsi la giornata e la
settimana e operare le scelte di questo tipo ti serve anche fuori, dove si tratta sempre e comunque di fare delle scelte. Se
sono impegnata con il lavoro, posso anche rimandare un colloquio. Anche fuori devi fare delle scelte e organizzarti in tal
senso.
Vivere responsabilmente significa anche questo: organizzare
le scelte quotidiane, onorare le scelte e gli impegni presi.
Mi colpisce che non emergano dai detenuti delle richieste di
attività che rispondano a degli interessi. Il risultato è che abbiamo provato a fare dei corsi per le detenute che sono stati
disertati: un corso di cucito, quello di estetista.
ALTEREGO
V.L.: Non pensa che sarebbe possibile fare e vendere dei prodotti in carcere?
A.P.: Il problema non è la produzione, neppure la lavorazione
in carcere ma il problema è la commercializzare. Non si riesce
a penetrare in un mercato già organizzato con prezzi per noi
non concorrenziali soprattutto quelli della grande produzione.
Anche per la produzione interna abbiamo visto che ci costa
troppo rispetto alla grande distribuzione, per esempio il pane
ci costa più prepararlo che acquistarlo. Lo stesso è accaduto
per i biscotti per i quali avevo anche coniato il nome: Bocca
büna della galera. Il problema è entrare in competizione con
il mercato della grande distribuzione.
•••
Intervista alla dott.ssa Anna Maioli,
Responsabile Area Trattamentale
di STEFANIA COLOMBO
S.C.: È possibile chiederle una lista delle cose che fa per la
rieducazione dei detenuti?
A.M.: A me non piace il termine rieducazione. Educazione
vuole dire tirar fuori e ci può stare, forse, se pensiamo di poter aiutare una persona a tirar fuori delle potenzialità che non
pensava di possedere. Educazione però è riferita a persone
giovani, agli adolescenti. Noi, invece, abbiamo a che fare con
gli adulti, ossia con persone già strutturate che devono, piuttosto, essere aiutate a recuperare certi aspetti della loro vita, a
incanalarli diversamente. Risocializzare è un termine che ritengo più pertinente: quello è l’aspetto preponderante sul quale possiamo andare a lavorare. Si tratta di aiutare le persone a
reinserirsi nel momento in cui la pena finisce, perché la pena
finisce per tutti. Più è lunga la pena, più il lavoro diventa fondamentale e va accompagnato per tutto il percorso di avvicinamento del detenuto all’uscita. La legge del ’75 – che forse è
già un po’ datata, ma ancora valida – prevede un percorso a
tappe lungo il quale la persona deve essere accompagnata.
Non è facile per chi è in carcere, ritrovarsi fuori, può avere
delle difficoltà: ritrovarsi in spazi aperti significa per alcuni
dopo anni di detenzione non riuscire a muoversi, a camminare
perché disorientata fisicamente e a relazionarsi con l’euro.
Qualcuno non l’ha ancora utilizzato. Ritornare in famiglia, nel
posto di lavoro. Il tempo passa sia per chi è dentro il carcere
sia per chi sta fuori. Si tratta quindi di accompagnare il detenuto a ritrovare una posizione dentro la sua condizione familiare, dentro la società.
L’area educativa si occupa della quotidianità del detenuto,
ossia come passare la giornata: attività scolastica, sportiva,
ludica, incontri con figure dell’esterno, con i bambini a sostegno della genitorialità. È un impegno di non poco conto se
non si vuole riempire di niente la giornata, ma stimolare il
detenuto, comprendere i suoi bisogni e adattarli alle offerte
che ci sono. Da una parte ci sono le richieste dei detenuti e
dall’altra le offerte che vengono dal territorio. La comunità
all’esterno va sollecitata in modo che risponda alle richieste
dei detenuti. Bergamo è l’unico Istituto penitenziario in Italia
con un Centro Eda interno. È stata una bella parabola. Quando
NUMERO 16
sono arrivata qui a Bergamo c’erano 180 detenuti (e non gli
odierni 540) e c’era il maestro elementare che compilava le
istante per i detenuti, sto parlando del 1983. C’erano le prime
misure alternative e il maestro aiutava a scrivere le lettere che
i detenuti volevano mandare all’esterno. I 180 detenuti erano
bergamaschi e parlavano il dialetto che io, piemontese, non
capivo. La popolazione è cambiata. Il maestro elementare è
andato in pensione e ci siamo accorti che le esigenze scolastiche si erano modificate. I detenuti cominciavano a essere
tossicodipendenti con un abbandono scolastico altissimo.
Allora abbiamo contattato il Provveditore agli studi e pensato
con lui di organizzare i corsi delle 150 ore così come venivano fatti la sera per chi, all’esterno, voleva conseguire il diploma di terza media.
La normativa poi è cambiata e i corsi delle 150 sono stati
inglobati nei Corsi di Educazione agli Adulti - Centri EDA e poiché noi, nel frattempo, eravamo lievitati a 500 detenuti,
l’allora Provveditore agli studi durante una visita in carcere ci
ha detto che 500 era il numero minimo di fruitori di un Centro Eda esterno per di più con le caratteristiche che noi avevamo: presenza di stranieri e di soggetti che volevano affrontare
anche le scuole superiori. Così quindici anni fa abbiamo organizzato il Centro Eda all’interno del carcere con la presenza di tre alfabetizzatori, di un corso di scuola media e di
scuola superiore - Istituto Tecnico Commerciale. Da ultimo è
arrivata anche l’Università con la quale abbiamo fatto una
convezione.
Questo ci consente di avere qui i docenti a tempo pieno, di
non far sostenere agli studenti/detenuti al termine dell’anno
scolastico gli esami di ammissione all’anno successivo, perché vengono soltanto scrutinati. Posso dire che siamo così
riusciti a costruire un’offerta formativa scolastica completa.
Per i corsi di formazione professionale abbiamo cercato di
tenere presente le esigenze lavorative del territorio e dei detenuti. Pensiamo sempre a dei corsi che diano una formazione
spendibile ovunque: il panettiere fa il pane ovunque, il falegname, il muratore fanno lo stesso mestiere ovunque.
Le attività vengono proposte a tutti, non mettiamo alcun limite alla partecipazione: ci sono gli avvisi e sta poi al singolo
aderire o meno alla proposta. Può anche iscriversi e poi lasciare accorgendosi che non è tagliato per quel mestiere. Non
mettiamo alcun limite alla partecipazione, anche i giudicabili
– avuto il nullaosta del giudice – possono fare tutto.
La seconda cosa della quale ci occupiamo è l’osservazione
che comincia dal momento in cui una persona mette il piede
in carcere e finisce quando questa mette il piede fuori, a fine
pena.
L’osservazione viene fatta in équipe, come da regolamento,
infatti si chiama Osservazione di equipe e trattamento e vale
per le persone già definite colpevoli e costrette all’espiazione
di una condanna. L’osservazione viene accettata o meno dalla
persona detenuta. Noi gli chiediamo se vuole essere sottoposto a osservazione e può accettare oppure rifiutare. Se non
accetta, però, noi possiamo fare una relazione comportamentale e quando va a chiedere i benefici, il Magistrato ne tiene
sicuramente conto. Nell’osservazione sono coinvolti più operatori: l’assistente sociale dell’Uepe, lo psicologo, il criminologo e redigiamo la relazione di sintesi che è lo strumento
che va al Magistrato di Sorveglianza o al Tribunale di Sorve-
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glianza e diventa un elemento fondamentale della persona. Il
Magistrato non può avere una conoscenza approfondita della
persona – cosa faceva prima, come ha vissuto la detenzione,
quali prospettive per il futuro – che invece fanno parte della
relazione di sintesi che diventa uno strumento importante per
la conoscenza della persona.
Questa è la seconda parte di nostra competenza: conoscere
una persona, il suo trascorso, quello che fa durante la carcerazione e la cura delle prospettive future.
Non mi è mai capitato che un detenuto non accettasse l’osservazione perché indica una collaborazione alle attività definite
per l’osservazione. È il nostro tempo-lavoro ma sono i detenuti che ci devono mettere nelle condizioni di poterlo svolgere. Se qualcuno non vuole collaborare, è inutile che io perda
il mio tempo. I definitivi sono comunque 250 da seguire.
S.C.: I corsi, la scuola, le ore d’aria, il lavoro, spesso si accavallano come orari: è giusto che i detenuti si trovino nelle
condizioni di dover scegliere una proposta piuttosto che
un’altra?
A.M.: Le sovrapposizioni sono determinate dai tempi previsti
dal regolamento d’esecuzione. Però io mi chiedo: noi fuori
dobbiamo sempre fare tutto? Anche noi qui dentro ci mettiamo le mani nei capelli perché dobbiamo fare più cose nello
stesso tempo: lavoro, scuola, colloqui. Là dove possiamo,
abbiamo fatto anche l’apertura dalle 16,15 alle 18,00 tra la
conta e il carrello della cena. Al Femminile la biblioteca è
aperta a quell’ora e anche la palestra. Al Penale alcune attività sono a quell’ora perché c’è una condizione tale che ci permette questa organizzazione dei tempi. Non è vietato fare
attività in altre fasce orarie compatibilmente con le esigenze
di servizio.
Per fare tutte le attività c’è un discorso di personale. Il nostro
orario di servizio è sulla carta di sette ore e mezzo al giorno.
Di più non possiamo fare.
Lo stesso vale per il personale di Polizia penitenziaria che
nella fascia 8.00 – 14.00 è tre volte quello che fa le altre due
fasce dalle 16.00 alle 24.00 e dalle 24.00 alle 8.00 per poter
garantire la massa di attività che si fanno. Nel Circondariale
non c’è una situazione ottimale come al Penale e al Femminile dove le sezioni sono aperte e se andassimo ad aprire in
quella fascia oraria ci sarebbe necessità di personale che non
abbiamo.
Fuori comunque io stessa mi trovo a dover decidere cosa fare
e cosa no: non riesco a fare tutto. Credo che la dimensione
della scelta sia fondamentale all’interno del percorso che ogni
detenuto deve compiere: organizzare il tempo, le attività, gli
impegni che prende e che deve portare a termine. In carcere
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c’è la tendenza a delegare agli altri quello che uno dovrebbe
fare. “Non posso perché si soprappone come orario” e così
non fai niente. Di fatto si deresponsabilizza.
S.C.: In carcere non esistono obblighi particolari per i detenuti, su cosa si basa quindi la rieducazione? Io vedo persone
che stanno in cella e non fanno nulla, non partecipano a nulla. Non c’è un obbligo di lavoro e alcune detenute lo rifiutano. Non c’è obbligo di fare alcune attività e vedo donne che
rimangono stese a letto dalla mattina alla sera.
A.M.: Posto che hanno compiuto i diciotto anni, sono persone adulte… posso dare a mio figlio di sei anni uno scappellotto e costringerlo a fare una cosa che reputo giusta, in quanto educatore devo dargli delle regole. Il discorso è diverso
quando ho di fronte delle persone adulte alle quali posso offrire una possibilità. È un po’ come i programmi di recupero
del Sert per le persone che hanno problemi di dipendenza. Io
ti offro il programma, se vuoi affrancarti dalla tua dipendenza
devi fare questo, questo e quest’altro, scegli se farlo oppure
no. Se non vuoi fare niente, questa è una tua scelta. Anche la
non scelta è oggetto di valutazione. Mi dimostri che la tua
maturazione deve ancora venire.
Non posso certo prendere per le orecchie le persone adulte e
imporre alcune cose. Io ti offro la possibilità di agire in un
certo modo, sei tu che devi assumerti la responsabilità di perseguire un percorso di cambiamento oppure no. Quando mi
dicono: “Non mi danno il permesso”, a volte vorrei rispondere “Si guardi allo specchio e si dia la risposta”. Se non mi
dimostri di avere raggiunto quel minimo per accedere a quei
benefici che sono stabiliti per legge per tutti, e quindi anche
per te, non puoi andare in permesso. Per poterci andare, devi
dimostrami di avere fatto una parte di percorso. Se il tuo percorso è fatto solo di ‘letto’ fin dall’inizio, come posso ipotizzare una fine diversa per te?
Noi cerchiamo di stimolare anche queste persone con colloqui più mirati per non lasciarli nella loro cella. Queste persone così inattive sono spesso portatrici di patologie particolari
e quindi c’è bisogno dell’intervento di specialisti. Periodicamente noi facciamo l’equipe di sezione: più o meno una volta
al mese, o mese e mezzo, tutti gli operatori delle diverse area
- sanitaria, educativa, psicologica, - prendono in esame tutti i
detenuti che sono in quella sezione. E si fa uno stato dell’arte
delle situazioni dei diversi detenuti presenti. Si va a vedere la
situazione di ogni detenuto per valutare a che punto è. Vogliamo vedere per esempio a che punto è chi è uscito dall’accoglienza, come vanno quelli che sono in osservazione, se ci
sono novità, ci chiediamo come mai qualcuno stia sempre
rintanato e vediamo chi si prende la responsabilità di andare a
vedere cosa succede. Noi abbiamo a che fare con delle perso-
ALTEREGO
ne che vanno un po’ stimolate, oppure calmate se sono troppo
esuberanti. Nei confronti di chi sembra non voler partecipare
a nulla, cerchiamo di smuoverlo un po’, magari di affiancargli
un volontario però ci sono dei casi di fronte ai quali dobbiamo
arrenderci. Ci sono persone che sono portatrici di patologie
psichiatriche di fronte alle quali non sappiamo cosa sia giusto
o sbagliato fare. Sono quei casi nei quali la parte medica è
preponderante perché sono persone malate e forse sono in
carcere per via di questa loro malattia per quale non è stata
trovata una cura adeguata. Sono quelle che sopravvivono in
carcere ma anche fuori dal carcere e per le quali si tratta spesso di trovare qualche occupazione che dia sollievo anche alla
famiglia.
S.C.: Il tempo della detenzione è determinante per la rieducazione?
A.M.: Mi rendo conto che laddove dovremmo fare di più,
riusciamo a fare di meno.
I giovani di 18, 19, 20 anni entrano per stupidate, il tempo che
si fermano in carcere è di qualche mese e lì si potrebbe fare
molto e invece noi non ci arriviamo. In quel periodo ci sarebbe più bisogno del nostro intervento educativo e preventivo,
potremmo sfruttare quel tempo per dare inizio a quella rete di
aiuto anche esterna, però noi non ci arriviamo. Riusciamo solo
a risolvere quelle piccole necessità, l’organizzazione della
giornata e basta. Ma una presa in carico con l’osservazione e
la relazione d’aiuto può avvenire solo con la condanna definitiva e quindi con pene così brevi non arriviamo in tempo.
Prendono dieci, dodici mesi, a volte escono che sono appellanti e decorrenti. Lì rimane un po’ di amaro in bocca perché
quando il giovane torna, tu ti dici proprio “Accidenti se fossi
riuscita a fare qualcosa prima, forse non sarebbe ritornato una
seconda volta!”. Però purtroppo è così e non riusciamo ad
arrivare in tempo. Invece dove ci sono pene medio-lunghe
solitamente riusciamo a fare un percorso abbastanza buono
per arrivare a sfruttare i benefici di legge che sono sicuramente importantissimi: si comincia con i permessi premio, poi
permessi un po’ più lunghi, semilibertà, affidamento. Così si
realizza il percorso che serve sia per la persona detenuta che
per i familiari in attesa fuori.
S.C.: Come vi sentite quando una persona torna in carcere
per un altro reato o per lo stesso reato?
A.M.: Si arriva a quello che si chiama il burn-out, quell’incendiarsi dell’operatore che si dispera: “Ma no, di nuovo
qui?!”. Ci sono proprio quegli elementi di criticità per ogni
operatore che pensa di aver lavorato bene con la persona che,
invece, torna e si deve ricominciare tutto da capo. Non si
smette di provare a fare qualcosa. Certo mi gratifica di più
NUMERO 16
quando ritrovo al supermercato le persone con le quali ho
lavorato e mi fermano a chiacchierare. E per fortuna non sono poche.
Devo ammettere che va anche un po’ a categorie: il tossicodipendente è quasi fisiologico rivederlo due o tre, vero L.? È un
dato di realtà. Ci sono categorie che sono più a rischio recidiva e questo lo dobbiamo mettere in conto. Mentre per altre
categorie comprendiamo subito che usciti dal percorso per
quella persona non ci sarà un ritorno. È strutturata in un certo
modo, si è trattato di uno sbaglio che, per quanto possa essere
brutto, non si ripeterà. Noi siamo aperti 365 giorni all’anno, il
biglietto “Tutto esaurito” non lo possiamo mettere. Siamo
qui, a disposizione e ci sono anche detenuti che erano qui
trent’anni fa e stiamo invecchiando insieme.
S.C.: Per chi ha avuto sempre una vita regolare – lavoro,
casa, famiglia – e ha compiuto un gesto imperdonabile quale
è il progetto rieducativo che serve?
A.M.: I progetti educativi sono sempre soggettivi. Una persona non è mai uguale a un’altra. Ogni progetto è tagliato sulla
persona, non possiamo andare per categorie né per similitudini. Ogni persona è a sé e ogni progetto rieducativo, risocializzante può essere utile solo per quella persona. Nei percorsi di
recupero per i tossicodipendenti, ciascuno ha il suo perché
ognuno è portatore di determinate necessità non uguali agli
altri. Ogni persona è a sé e quindi con un progetto individualizzato di reinserimento. Non c’è mai un programma uguale a
un altro e ciascuno ha la sua storia.
S.C.: Noi viviamo un forte disagio con la famiglia – telefonate brevi e una sola volta per settimana, spesso caotici per la
presenza di tante persone contemporaneamente con gli occhi
degli agenti puntati addosso. Possiamo vivere la famiglia con
il contagocce? I familiari non hanno commesso alcun reato
perché devono pagare il prezzo della nostra detenzione?
A.M.: Mi vengono in mente tante cose: quelle mamme o fidanzate che, quando salutano il figlio o il marito, approfittano
del bacio per passare la dose. Noi dobbiamo fare i conti con
queste cose qui. Non sempre chi viene da fuori si comporta
correttamente. Quando vengono i cani, trovano sempre qualcosa al ‘rilascio colloqui’. Noi dobbiamo tutelare anche questo. Le telefonate potrebbero sicuramente essere di più. In
America ci sono i telefoni a scheda, la telefonata è a carico
del detenuto e il telefono è all’interno delle sezioni. Noi non
abbiamo questa situazione. Noi abbiamo anche problemi di
organizzazione: tutti devono telefonare. Con bambini inferiori a dieci anni garantiamo una/due presenze settimanali in
casa via telefono. Laddove fuori i papà lavorano distanti le
situazioni sono uguali. Sei ore di colloquio al mese, ti puoi
‘bruciare’ le sei ore nei primi quindici giorni, a meno che il
familiare non venga dal Marocco e quindi per forza unisce le
ore a disposizione, altrimenti è bene che si razionalizzi il
tempo, lo si distribuisca nelle settimane tra colloqui e telefonate per mantenere il filo con la famiglia e non interromperlo.
Anche fuori per scelte lavorative la famiglia vive condizioni
di ‘sparpagliamento’. Noi cerchiamo con la socializzazione di
organizzare momenti con la famiglia in aggiunta al tempo del
colloquio.
•••
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Intervista all’Ispettore
Giuseppe Randazzo
di LAURA P.
L. P.: Come ha scelto di diventare agente di Polizia Penitenziaria?
G.R.: Ero disoccupato, non c’era lavoro in Sicilia e avevo
alcuni amici che erano diventati agenti di custodia, allora si
chiamavano così e feci anch’io la domanda e mi arruolai.
L.P.: Ci spiega i ruoli, i gradi, le mansioni di un agente di
polizia?
G.R.: Ci sono Agenti, Assistenti, Sovrintendenti, Ispettori e
Commissari (Comandanti di reparto e nuclei di traduzione),
Ispettori che a loro volta sono suddivisi in viceispettore,
ispettore, ispettore capo, ispettore superiore, sostituto commissario.
Io sono Ispettore capo e la mia mansione è di concetto, svolgo mansioni di coordinamento delle unità operative, impartisco disposizioni agli agenti, sono responsabile del turno di
servizio e rispondo direttamente al comandante.
L.P.: Come si diventa Ispettore?
G.R.: C’è un concorso interno e uno esterno con età minima
riservati a chi ha compiuto i 28 anni. Il concorso interno è
riservato al personale dell’Amministrazione penitenziaria che
deve avere un titolo di studio di scuola media superiore.
L.P.: Come pensa che sia possibile insegnare a rispettare le
regole?
G. R.: Si inizia in famiglia – e poi anche a scuola - a insegnare ai propri figli a rispettare le regole: essere puntuali per
l’inizio delle lezioni scolastiche, al momento di sedersi a tavola quale momento di importante comunione e condivisione.
L.P.: Chi è l’agente di Polizia penitenziaria?
G.R.: L’agente svolge un ruolo difficile. Noi facciamo sempre parte di un Corpo di Polizia e quindi oltre a essere poliziotti, dobbiamo accompagnare le esigenze delle persone a
noi affidate, ascoltando il loro vissuto. I detenuti sono persone e il carcere è un luogo di sofferenza e noi spesso ci portiamo a casa il dolore di queste persone.
Il nostro è un compito difficile, necessita di un lavoro di
squadra e gli agenti fanno parte dell’equipe trattamentale che
accompagna la persona per tutto il periodo della sua detenzione.
L.P.: Fino a che punto è coinvolto umanamente?
G.R.: Sono coinvolto abbastanza. Da 1 a 10: 8. Si cerca sempre di dare una speranza al detenuto. Il carcere è un passaggio
che può far riflettere il detenuto. Il carcere per alcune persone
diventa casa: qui sanno come muoversi e diventa la loro vita
ed è brutto che sia così, ma forse dipende dal fatto che fuori
non hanno nulla. Fortunatamente la cosa non vale per tutti.
L.P.: Voi dovreste occuparvi di sicurezza e rieducazione del
detenuto: come è possibile unire questi due obiettivi?
G.R.: Entrambe devono camminare di pari passo: sicurezza,
Pagina 16
ALTEREGO
rispetto delle regole, trattamento e rieducazione.
Non siamo tutti uguali. C’è chi recepisce il messaggio in un
modo e chi in un altro e ciascuno di noi agenti ha una sensibilità diversa. Segnaliamo il problema del detenuto. Siamo esseri umani e bisogna essere elastici e capire la situazione. Lo
dico sempre: non si può avere tutto e subito, mi devo adeguare al sistema. La società è così. Non siamo tutti fatti allo stesso modo, anche a me piacerebbe risolvere tutti i problemi, ma
non posso farlo. Ognuno ha un suo modo di approcciare le
situazioni e i problemi. Ci sono detenuti con problemi sanitari, psicologici ecc. Io quando mi segnalano un problema,
chiamo il detenuto. Quando siamo in chiesa a me capita di
dare la mano al detenuto, anche a chi ha fatto l’opposto di
quello che avrebbe dovuto fare davanti a Dio: in quel momento non c’è distinzione tra guardia e ladro.
L.P.: Il carcere permette di riparare l’errore commesso?
Quanto serve il carcere al detenuto?
G.R.: Dipende dal tipo di reato. Il carcere serve, è giusto che
ci sia anche per la sicurezza sociale. Il codice penale lo prevede. La mia idea è che “recuperano” di più le forme alternative al carcere.
L.P.: Chi è il detenuto?
G.R.: Una persona. Ci sono piccolezze che dentro diventano
tanto. Se uno dice che sta bene in galera c’è qualcosa che non
va. Il carcere è aperto per vedere come lavora, come sta il
detenuto. Si deve sapere, si deve comunicare. Purtroppo da
fuori non arrivano le informazioni. Gli affetti, i colloqui, una
carezza sono importanti.
L.P.: Se le capitasse di trovarsi di fronte in carcere un figlio,
una figlia come si comporterebbe? Come si sentirebbe?
G.R.: Mi chiederei cosa e dove ho sbagliato. Se mio figlio o
mia figlia si trovasse qui, sarebbe un trauma. Mi farei tremila
domande e gli starei vicino.
L.P.: Cosa pensa rispetto alla pena di morte che continua a
esistere in alcuni stati?
G.R.: Sono contrario alla pena di morte. La vita è un diritto e
un dono.
L.P.: Cosa farebbe per migliorare la struttura carceraria?
G.R.: Per quanto riguarda la struttura ci vogliono ristrutturazioni e migliorie all’aspetto delle celle, alle docce in cella. Il
sovraffollamento si combatte con le pene alternative, l’amministrazione penitenziaria è sensibile in tal senso anche nel
cercare confort in più come per esempio per il momento dei
colloqui con spazi adeguati ai minori.
L.P.: Quando finisce il suo turno e si lascia alle spalle il cancello del carcere, cosa si porta a casa?
G.R.: Uscendo mi rimane sempre qualcosa addosso. Lavoro
con le persone e non con le macchine. Anche quando siamo
fuori servizio e ci incontriamo fra colleghi parliamo di alcune
situazioni, quelle più delicate. Io, per esempio, quando sono
di turno, giro sempre con un’agendina dove annoto le cose
che ritengo siano importanti e ogni giorno me le rileggo per
cercare di risolvere qualche richiesta che mi viene fatta dai
detenuti.
I baghèt di Casnigo da anni allietano la vigilia di
Natale dei detenuti della Casa Circondariale di
Bergamo con le loro antiche cornamuse bergamasche.
NUMERO 16
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di Lillo
C
osa significa lavorare alla M.O.F.? Una domanda apparentemente semplice, ma pensandoci bene non lo è
affatto. Iniziamo col dare un significato a questo acronimo: M.O.F vuol dire Manutenzione Ordinaria dei Fabbricati. Una volta svelato questo mistero, possiamo proseguire.
Per me, e credo per tutti i miei compagni, lavorare è una delle
cose fondamentali durante la permanenza in carcere.
Lavorare significa avere un obiettivo e uno scopo giornaliero
da conseguire e portare a termine. Lavorare significa essere
indipendente sul piano economico e conquistare un po’ di
dignità nel non pesare sui familiari e sulla società. Lavorare
significa occupare parte della giornata creando e vedendo un
risultato alla fine del lavoro, rimanendo soddisfatti del risultato raggiunto grazie all’impegno speso. Lavorare significa
essere “liberi” di muoversi girando per l’Istituto e sentirsi di
nuovo, in quelle ore, persone “normali” e autonome, senza
bisogno che nessuno ci accompagni pensando che ci possiamo perdere. Si potrebbe andare avanti per ore a descrivere
sensazioni, ma non sarebbe più un articolo per un giornale
ma un best-seller.
Credo di essere uno dei pochi, se non l’unico, che lavora alla
M.O.F. da così tempo per via, purtroppo, della lunga condanna da scontare e in sei anni ne ho visti tanti di cambiamenti.
La crisi in questi ultimi anni, oltre ad aver fatto danni nella
società esterna, ha intaccato anche gli Istituti di pena. Però,
che cosa si può fare? Niente. Ci si adatta al tempo in cui viviamo e abbassando la testa si va avanti proseguendo il cammino.
Io sono in questo Istituto da un tempo relativamente lungo,
quasi 12 anni e non ricordo un tempo senza un qualche cantiere aperto dentro le mura circondariali: una volta per automatizzare i cancelli, un’altra per rifare le docce, un’altra ancora per portare l’acqua calda e le docce all’intero delle celle.. Paragono questo carcere a un piccolo paesino che si modifica e si evolve con il passare dei giorni e le esigenze
dell’epoca.
Essendo qua da così tanto tempo, mi sento un po’ “a casa” –
so bene che non lo è – ma credo che sia inevitabile e, sentendo il posto come mio, ci tengo che tutto funzioni. Anche questa è un’utopia però credo che ognuno di noi dovrebbe prendersi cura di quello spazio dove, chi per tanto chi per poco
tempo, vi risiede, ci vive. Così facendo, dovremmo renderlo
più pulito e vivibile per noi e per gli altri. Ecco cosa significa
per me lavorare alla M.O.F.
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ALTEREGO
>>> Ricordi <<<
G.B.
N
uovo anno scolastico e noi di Alterego riprendiamo da
dove ci eravamo lasciati alla fine di giugno per incontrare un nuovo autore in redazione. Junio Rinaldi - autore di
Uno strappo nel tempo e Disperanza – era già venuto a trovarci insieme a Hans Tuzzi e a lui tocca il compito di presentarcelo. Abbiamo letto con facilità i due libri che hanno una
scrittura lineare e diretta. Uno strappo nel tempo ha una dimensione quasi autobiografica, dove l’autore esprime la difficoltà di trasmettere un sentimento se non ne ha fatto prima
esperienza. Disperanza acquista una dimensione più narrativa
dove un padre cerca di superare il senso di colpa per l’improvvisa e volontaria sparizione della figlia esplorando quelle
zone dell’anima dove i sentimenti più reconditi si piegano e a
fatica vengono riportati alla coscienza vincendo le reticenze e
i silenzi che cercano di assolvere dall’errore.
L’autore si addentra anche nella rappresentazione di quella
parte di società abitata dai deboli, umiliati, emarginati, offesi
alla quale si presta sempre meno attenzione. Rinaldi ha condiviso con noi aneddoti della sua vita privata e le esperienze
che lo hanno portato alla stesura dei suoi volumi. Noi che
siamo parte di quei deboli che la società emargina siamo grati
della disponibilità dimostrata nell’aiutarci, come dice Hans
Tuzzi a ritagliare quel “pezzetto di cielo” utile al nostro riscatto interiore, umano prima che sociale.
G. B.
U
n oggetto, una cosa, una parola, un’emozione generano
un ricordo che spesso riapre attimi di vita vissuta, a cui
si legano stati d’animo di felicità e serenità che la vita mi ha
dato: l’innamoramento, la nascita delle figlie, lo svago con
gli amici. Ma spesso i ricordi sono momenti di dolore per la
perdita del padre, le persone care, gli amici che quando avevo
– e avevamo – vent’anni mi hanno lasciato chi per un incidente, chi per una malattia (leucemia): in un attimo si sono
spezzate le loro vite. Ma altri ricordi si affacciano spesso alla
memoria riportati da un incontro, una parola e sono rimpianti,
o meglio negazioni di quelle scelte fatte che dovevano essere
diverse e mi ritrovo a pensare a come sarebbe cambiata la
mia vita. Ma poi il rimpianto svanisce nella concretezza che
ora devo vivere il presente e fare tesoro degli errori per non
perseverare negli stessi.
•••
ENEA
i ricordi? È la domanda breve ma densa di significato e
importanza che risuona spesso nei dialoghi familiari e
nelle conversazioni tra amici e conoscenti.
Personalmente mi sono rimasti più impressi tutti quegli episodi della mia vita che mi hanno maggiormente emozionato,
sia in senso positivo che negativo. Positive sono le soddisfazioni, le gioie individuali e le risate; negativi i lutti, le sconfitte e i dolori.
Un ricordo particolare che mi perseguita da quando ero bambino rappresenta marcatamente la contrapposizione tra due
stati d'animo.
T
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Avevo sei o sette anni, la mia casa era lontana dal centro del
paese, circondata da prati che si estendevano fino al fiume da
una parte e dall’altra della strada provinciale in una zona di
campagna che oggi, con la costruzione di numerosi capannoni, è diventata zona industriale. Poco distante dalla casa c'era
la stalla dei miei nonni, con mucche, maiali, galline e conigli,
con sopra il fienile e accanto un grande orto dove si trovava
ogni varietà di verdure.
Un giorno fui testimone di un avvenimento che mi turbò profondamente e, al tempo stesso, mi ha lasciato un duro e fervido insegnamento esistenziale: la “metafora” della gioia e del
dolore e, in estrema sintesi, della vita e della morte. Quel
giorno una mucca stava per partorire e io, il mio fratellino e i
miei cuginetti eravamo molto felici e ansiosi di vedere e poi
di poter giocare con il nuovo nato. Purtroppo però, c'era qualcosa che non andava nel verso giusto e lo intuii dall'umore
del nonno, dei miei genitori e degli zii e dalla presenza inconsueta del veterinario. Infatti, mio papà mi disse subito che il
vitellino era nato morto.
Un dispiacere atroce, piansi a dirotto quando lo vidi e i miei
cugini con mio fratello piansero ancora di più, perché loro
erano più piccoli e gli fu impedito di guardare quell'esserino
senza vita.
•••
>>> Disperanza <<<
NICOLO’ DEL VESCOVO, Insegnante
ivo continuamente una sorta di dicotomia esistenziale.
Disperazione e speranza, Bergamo e Bari, valli e mare.
Un’oscillazione di pensieri, stati d’animo, emozioni. Sbalzi di
un umore che s’inerpica sulla speranza, famiglia, affetti,
amore, radici ma resta ancorato alla disperazione, la lontananza, la logica, il lavoro, il futuro. Mi torna in mente la tanto
odiata parola “precario”, alla quale forse mi sono talmente
abituato da non poterne più fare a meno. È nell’indecisione
che cerco la stabilità, in un incessante moto “disperanzoso”.
V
•••
VINCENZA LEONE
peranza e disperazione sono gli stati d’animo che più si
alternano in me.
Ad accentuare la mia disperazione sono i ricordi, spesso mi
rifiuto di pensare alle persone care e a tutto quello che è stata
la ma vita. Faccio finta di essere sola al mondo e questo mi fa
sentire in colpa. Ma è il mio rifugio per non sentire troppo il
peso della disperazione. Per fortuna ogni tanto si fa avanti
l’altro stato d’animo, la speranza e allora mi torna di nuovo la
gioia di vivere, di continuare una nuova possibilità, tornare di
nuovo ad amare, di essere di nuovo mamma. E, soprattutto,
libera.
S
LINO MARTEMUCCI
l ricordo è un'arma a doppio taglio, ma senza non saresti
nessuno. Ciò vuol dire che hai vissuto il tuo passato. Il
ricordo è sinonimo di maturazione, quello che non fa il nostro
Paese. È importante ricordare la storia per non commettere
gli stessi errori. Questo è quello che sto cercando di fare
adesso: ricordo chi ero e sto lavorando per chi voglio essere
al termine della mia detenzione. Un uomo che si alza al mattino presto e coltiva la terra di una cooperativa agricola.
LINO MARTEMUCCI
isperare é un verbo che non mi appartiene. Non dispero
mai. Ogni giorno la vita mi può regalare emozioni diverse, o situazioni diverse. Una politica che ho sempre intrapreso è quella di guardare il bicchiere mezzo pieno. Chi si
perde d'animo si dispera. E io l’animo non lo perdo.
•••
•••
GIUSY
miei ricordi sono davvero tanti. La nascita di mio figlio
Ale, un ricordo dolcissimo vissuto con il mio compagno.
Un piccolo fagottino che ci ha allietato la vita. Accanto alla
nascita però c’è anche la morte e questo evento mi ha colpito
come un uragano: mi ha lasciato per sempre il mio compagno, padre di Ale.
Non so ancora come sono riuscita a sopravvivere a tutto questo. Tutto si è capovolto anche la mia vita fino al dolore del
carcere. Lui era eccezionale, intelligente, ironico, generoso,
ma il tumore al pancreas l’ha stroncato. Lo rivedo magro,
pallido. Aveva capito tutto, non voleva soffrire e anche in
quell’occasione pensava a me e ad Ale. Non riusciva a pronunciare bene le parole ma io lo capivo lo stesso. A volte lo
sogno in Paradiso che mi accarezza la fronte con la sua mano
calda e con un bacio lieve mi sfiora la guancia. Proteggimi,
spero davvero di incontrarti, chissà? Ma quello sarà il giorno
più bello
>>> Abitudini <<<
I
I
•••
•••
D
CATIA ORTOLANI
ivo con un cane da dodici anni, pertanto ho subito un
lento e inesorabile processo di “caninizzazione” e siccome i cani sono animali abitudinari, anch'io ho preso l'abitudine di abituarmi alle abitudini. Piccole abitudini quotidiane
che scandiscono la mia giornata e alle quali ho finito per affezionarmi. Quando, per qualche ragione, la quotidianità s’interrompe provvisoriamente, per un viaggio o una vacanza,
pur non sentendo nostalgia dell'abitudine, mi piace pensare
che presto ritornerà.
Più che di abitudini si tratta di rituali, a volte assurdi: ho per
esempio l'abitudine di non leggere l'ultimo articolo del giornale, per lasciarmelo la mattina successiva e leggerlo mentre
bevo il primo caffè della giornata.
Tutti i venerdì pulisco casa per godermela in ordine durante il
fine settimana, quando non vado a lavorare.
A ogni inizio stagione cambio il quadro di gommapiuma fatto
da me che ho appeso alla porta di ingresso e che rappresenta
appunto la stagione in corso.
V
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ALTEREGO
L'ultima sigaretta della giornata la fumo sul terrazzo contemplando il cielo stellato o nuvoloso che sia.
Ci sono anche delle abitudini che odio: i venti minuti di tapis
roulant rigorosamente dalle 6.15 alle 6.35, i venti minuti più
lunghi della mia vita.
L'abitudine più piacevole, invece, è la pennichella pomeridiana che purtroppo, a causa del lavoro, faccio raramente. Trovo
ingiusto che il lavoro, che pure mi piace, sia causa di tanta
infelicità.
Tante sono le abitudini che condivido con la mia abitudinaria
cagnolina: le passeggiate giornaliere, le coccole. Le passeggiate giornaliere seguono un percorso preciso che prevede
poche varianti, guai a cambiare itinerario, la Julius si impunta
e il suo peso specifico diventa misteriosamente mille volte
più alto.
Tutto sommato posso definirmi un’abitudinaria fallita, perché
raramente rispetto i programmi che mi prefiggo, anche se
ragionati nei minimi dettagli.
•••
LINO MARTEMUCCI
bitudini: ebbene sì, forse è proprio per causa loro che mi
trovo in questo “deposito di vite umane”. Per colpa di
quelle maledette abitudini, mi sono addentrato nel vortice
delle non-abitudini: alzarsi quando ne avevo voglia; partire,
anche per una breve vacanza, senza programmare, semplicemente mettendomi in macchina e avviando il motore.
Abitudini: c'è gente che ci passa una vita. Sono scelte. Però
oggigiorno mi ritrovo a convivere con le abitudini. Ho fatto,
detto, disfatto, ma loro mi sono venute a trovare. Adesso:
abitualmente, mi sveglio alle 6,20, bevo il mio caffè, prendo
la bicicletta e percorro la strada per recarmi al lavoro. Per
strada incontro tante abitudini quotidiane: il pullman che passa alla stessa ora alla rotonda per Gorle, come un orologio
svizzero; una ragazza che incontro tutte le mattine sul marciapiede opposto alla pista ciclabile che percorro. Il mio capo
che abitualmente quando arrivo mi presenta il programma
della mattinata, senza neanche darmi il tempo di scendere
dalla bicicletta.
Ah, ah! Adesso è arrivato il momento di convivere con certe
abitudini e con la routine giornaliera. Con la consapevolezza
che alcune abitudini me le porterò per tutta la vita.
A
•••
VINCENZO SANTISI
gni mattina mi sveglio alle cinque, mi faccio la barba,
la doccia, mi vesto, mi profumo e come al solito, aspetto il click del cancello. Saluto educatamente l'agente e mi
avvio alla fermata del pullman. La mia abitudine è forzata,
perché le circostanze m’impongono di fare sempre le stesse
cose. Recarmi al lavoro. A mezzogiorno pranzo con tutti i
compagni della cooperativa e dopo mi reco all'altra sede lavorativa.
Per me è desolante continuare queste abitudini, forse l’Istituzione penitenziaria potrebbe fare meglio, trattando diversamente ogni singola persona. Il mio cervello frulla e vorrebbe
cambiare queste abitudini forzate. A me piace stare con la
gente semplice che s’incontra al mattino al bar, scambiare
due chiacchiere, salutare la tua donna e ritrovarla la sera a
O
casa. Come sarebbe bello poter andare liberamente dove si
vuole.
Le abitudini della mia vita portano a semplificare il mio percorso. Vorrei tanto poter cambiare certe abitudini, per sentirmi più libero. Ma so che devo avere pazienza.
•••
VINCENZA LEONE
o dovuto modificare tante mie abitudini per adattarmi al
posto in cui mi trovo. Una di queste abitudini che mi
manca tantissimo è quella di ascoltare la musica ad alto volume. Quando ero ‘libera’, il primo gesto che facevo quando
salivo in macchina era quello di accendere la radio, così pure
quando ero a casa. E non mi accontentavo di ascoltare la musica ad alto volume, ma cantavo pure, anche se la mia intonazione non era delle migliori per la gioia dei miei vicini. Ecco
questo non lo posso più fare qui, ma sono sicura che appena
tornerò a casa, tornerà a essere una mia abitudine.
Un buon caffè appena alzata è l’abitudine che invece mi è
rimasta anche qui, altrimenti non riesco a ingranare la marcia
e per continuare la giornata ho bisogno di una tazza di latte
con i cereali. Questa è un’abitudine che mi porto dietro da
bambina e non riesco proprio a farne a meno tanto che spesso
la mattina mi prendo delle sgridate dagli Assistenti perché non
sono mai pronta per andare a lavorare e la mia risposta al loro
richiamo è sempre lo stesso: “Sto facendo colazione”.
H
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MARTA
i sveglio al mattino, apro gli occhi e spalanco la finestra. Il rumore della battitura dei ferri sulle sbarre che
all’inizio della mia carcerazione mi sembrava tanto strano
ormai è diventato un suono abitudinario. Il primo caffè e a
seguire la sigaretta è un’abitudine che può essere buona o
cattiva.
La giornata è scandita dagli annunci al microfono per il vitto,
la conta, l’ora d’aria, la chiusura delle celle, mi sembrano
ormai quasi scontate.
E il brutto è che sta diventando un’abitudine. Come quella di
leggere un libro e bere il caffè d’orzo per prendere sonno.
Aspetto con ansia il momento in cui chiamano il mio nome
verso le 16.00 perché potrebbe essere, come è generalmente,
una lettera del padre di mio figlio.
Un’abitudine che avevo abbandonato è quella di vedere quelle
piccole cose che mi fanno comprendere che anche in questo
piccolo angolo di mondo non sono abbandonata. E che esiste
qualcosa, deve esistere. Le piccole cose diventano piccole
gioie che qui sono dei miracoli operati da qualcuno più grande
di noi.
Allora prego guardando il cielo, pensando che l’universo è
immenso e che Dio è grande. Può definirsi un’abitudine questa? Non so. So solo che ho bisogno di credere in un destino
migliore dove l’abitudine a sopravvivere verrà cambiata in
quella di vivere.
Perché la vita è comunque troppo breve perché ci si possa
concedere il lusso di viverla malamente.
M
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NUMERO 16
Pagina 21
STEFANIA COLOMBO
a nostra mente è capace di adattarsi a qualsiasi cambiamento e lo si nota quando si cambia il proprio modo di
vivere. Quando ero libera avevo tantissime abitudini per
esempio andare a bere il caffè del bar tutte le mattine perché
detestavo quello della moka. Così come l’abitudine di fare la
spesa il venerdì, il parrucchiere il sabato, uscire a cena tre
volte la settimana e molte altre ancora.
L
In carcere ho dovuto abbandonare queste abitudini. Per esempio la mattina devo bere il caffè della moka e se prima lo
detestavo, adesso lo bramo appena sveglia. La spesa è programmata in determinati giorni e non posso uscire certo a
cena e nemmeno a pranzo, se è per questo! Non esiste neppure il parrucchiere. Tutte le cose alle quali ero abituata non
fanno più parte del mio nuovo modo di vivere, ma ho acquisito nuove abitudini che sono come dei rituali quotidiani che
mi aiutano a scandire il lento trascorrere delle ore.
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MERIEM
ono abituata a mettere il rossetto prima di andare a letto
perché mi fa sentire viva e dico che anche se sono in
carcere, va bene. E ogni tanto anche il profumo, ma non sempre come il rossetto perché costa! Svegliarmi di notte e mangiare qualcosa di dolce, tipo crostatine, torta, merendine. Sento dire in giro che le persone si svegliano di notte, pensando
ai loro problemi, alle loro disgrazie: io no. Io mangio e penso
ai miei cari familiari che da anni non vedo e al mio fidanzato
e intanto mangio con gli occhi chiusi e ho l’abitudine di prendere in giro le suore, soprattutto suor Simona dicendo le cose
un po’ fuori del normale perché sono maliziosa e questo mi
fa divertire.
S
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>>> Rimorso <<<
MARTA
o imparato tante cose nella vita, eppure penso che non
si finisca mai di imparare.
La vita mi ha insegnato che è meglio un rimorso che un rimpianto. Se non avessi agito come ho fatto in passato, certo non
avrei avuto la conseguenza della carcerazione.
Vivere per me è anche commettere degli errori perché talora
senza commetterli, non avrei mai avuto la consapevolezza del
giusto e dello sbagliato che tuttora si alternano in una sottile
linea immaginaria. Nonostante questo penso che se tra il 25 e
i 30 anni non avessi fatto le tante cose che ho fatto, avrei avuto molti rimpianti.
Ho quindi imparato che se nella mia esistenza non avessi preso certe decisioni, non avrei mai incontrato quei momenti di
felicità. Penso che bisognerebbe vivere sempre ogni giorno
come se fosse l’ultimo e il primo della nostra esistenza. E
pensare alla nostra vita come se non avesse mai fine.
H
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STEFANIA COLOMBO
e esperienze della vita mi hanno fatto conoscere il significato del rimorso soprattutto verso le persone a me care
che non ci sono più, per esempio mia mamma e mio marito.
Rimorso di non aver detto loro quanto erano importanti per
me, di aver confessato i sentimenti profondi che provavo per
loro. Rimorso di non aver detto loro ‘Grazie’ quando facevano qualcosa per me, oppure ‘Mi dispiace’ quando commettevo
degli errori.
Oggi ho tanti rimorsi accumulati nel passato, ma appunto perché non voglio che questa quantità aumenti ho imparato a
esternare tutto ciò che penso e provo per le persone che amo.
È bello poter dire a mia sorella ‘Ti voglio bene’, così come
dire ‘Ti amo’ a mia nipote, dire loro ‘Grazie’ ogni volta che
fanno qualcosa per me, anche il loro venirmi a trovare a colloquio e quanto mi mancano e che sono per me tanto importanti.
Non voglio più vivere una vita di rimorsi e finalmente ho capito come fare.
L
VITTORIO T.
nche oggi, alla fine del colloquio con i miei cari mi rimane, come sempre, quel duplice sentimento che ormai
da tempo accompagna questa mia carcerazione. Un sentimento di gratitudine per l'affetto e la vicinanza che mi dimostrano
a ogni incontro e telefonata, ma anche un sentimento di rimorso suscitato dal ricordo di tutto quel tempo che la mia
vita lavorativa insieme al mio impegno politico hanno sottratto ai miei cari.
A
In particolare non ho potuto condividere i momenti di crescita di mia figlia, le gioie e i problemi dell'adolescenza, i suoi
successi nello studio, il suo inserirsi nella vita. No, non sono
fuori dalla sua vita, ma sono consapevole di tutto quel tempo
che avrei potuto dedicare e che invece non potrò più recuperare. Il rimorso per ciò che ormai è passato e che ho perso,
per quelle gioie che non potrò mai più condividere, il rimorso
per quei ricordi mancati.
I precedenti numeri di Alterego sono
linkati e scaricabili in pdf
sul sito internet della Cisl di Bergamo
nella sezione “edicola”
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www.bergamo.cisl.it
Pagina 22
ALTEREGO
di Giuseppe R.
A
vevo sempre sentito parlare dell'Istituto penitenziario
di Bollate, ma non c'ero mai stato e quindi quando mi
hanno proposto di andarci per disputare un torneo di
calcio, ho accettato immediatamente perché mi piace molto
giocare a calcio, ma soprattutto perché è un'esperienza più
unica che rara: normalmente, non è così semplice arrivare a
Bollate, servono alcuni requisiti di non poco conto.
Ringrazio la direzione di aver concesso a me e ai miei compagni di sventura questa bella esperienza, insieme alla professoressa Damiana che ha fatto da tramite, e già che ci sono
voglio sottolineare il comportamento di grande professionalità di tutti gli agenti che ci hanno accompagnato. Detto ciò, mi
accingo a descrivere l'emozionante viaggio verso Bollate.
Pronti per la partenza eravamo in quindici, dieci ragazzi del
Circondariale e cinque della Sezione Penale sul pullman della
Penitenziaria. Già dall'autostrada intravedevamo questi palazzoni immensi, sembrava una città, un grande quartiere di Milano. Una volta arrivati, ci siamo incamminati verso i reparti
che c'erano stati assegnati dalla direzione di Bollate.
Davanti a noi si presentava un corridoio lunghissimo, che
sembrava non finire mai, ma la cosa che ci ha colpiti di più, è
stato vedere tutta quella gente che camminava, come se fosse
il corso di un qualche paese o città all'ora dell'aperitivo. Vengo condotto nel mio alloggio e dopo le presentazioni con gli
altri abitanti, mi portano a visitare la sezione. A metà del lato
si trovano i cosiddetti cellini, che vivono in una cella singola
per via delle loro lunghe condanne.
Nel frattempo ho incontrato alcuni ragazzi che già conoscevo
che a loro volta avevano avvisato altri amici e così ci siamo
rivisti dopo tanti anni ed è stato veramente bello: la solidarietà tra noi detenuti è veramente indescrivibile. Ho provato una
sensazione di libertà in quelle poche ore, senza perdere la
consapevolezza di trovarmi in un istituto penitenziario.
Ma arriviamo a quello che è stato lo scopo di questa esperienza: 2 ottobre 2013 partita di calcio.
La giornata è stata organizzata dal Coni, dal Comitato regio-
nale della Lombardia che ha esposto uno striscione con la
seguente frase: “lo sport contro la violenza” riportata anche
sulle magliette che abbiamo indossato facendo la nostra entrata nel campo sportivo di Bollate.
Quattro gli istituti protagonisti: Bollate, i padroni di casa;
Como, Opera e ultimo, ma non meno importante, Bergamo.
Modestamente eravamo meno organizzati, ma più forti, calcisticamente parlando, mentre la squadra di Bollate milita in
terza categoria.
La prima partita ci vedeva proprio contro Bollate. Faccio
presente che il nostro gruppo non aveva mai giocato insieme,
ma nonostante questo ne siamo usciti vincitori. Una bella
soddisfazione battere non solo i padroni di casa, ma la squadra più organizzata di tutto il torneo.
La finale dovevamo disputarla contro Opera che era uscita
vincente contro il Como.
Durante la pausa siamo andati a pranzare tutti insieme nel
teatro allestito a mensa per l'occasione.
Prima della partita abbiamo fatto una foto di gruppo insieme
al dottor Porcino.
La partita però non è andata bene, perché abbiamo perso 1 a
0 e stiamo ancora reclamando due goal del sottoscritto che
sono stati dichiarati fuorigioco, anche se per tutti, compreso il
direttore di Bollate, dottor Parisi, erano regolari. Abbiamo
perso il primo posto, per usare una metafora, posso dire che
ci hanno fatto “una rapina a volto scoperto”, ma alla fine
quello che conta di più è stata la bella esperienza, tenendo
presente che in questi luoghi di bello c'è ben poco e pertanto
quel che di buono arriva bisogna accettarlo e farne tesoro.
Comunque siamo tornati “a casa” con una coppa.
NUMERO 16
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Poi, ecco il miracolo del “bene”; al di là di tante tastiere sonanti, ecco finalmente ci siamo annusati il Provveditorato ed
io e poi ci siamo riconosciuti; perché al di sopra delle tastiere,
dei monitor, delle scrivanie e delle tante e tante carte c’era
ancora e solo l’Uomo c’era ancora e solo il cuore. E così, dopo questo anno e mezzo da pendolare in cui, comunque, ogni
giorno sentivo il cuore pungere forte e sempre più forte il richiamo del carcere e dei suoi “abitanti” tutti, al di qua ed al di
là delle sbarre, preparo ancora una volta le valige e il bagaglio
è più grande ed è fatto di altri visi, di altre parole, di altre vite,
di altri insegnamenti e lo porto e lo tengo stretto a me, come
la calda coperta di Linus. Ancora una volta rispondo alla chiamata.
Mi hanno commosso i miei più stretti collaboratori del Provveditorato con i loro tributi di stima e di affetto che mi hanno
rivelato per l’ennesima volta, e se mai ce ne fosse stato bisogno, che sopra le spalle possiamo anche avere “gradi da generali di corpo d’armata”, ma se non mandiamo avanti il cuore
saremo sempre e solo involucri vuoti, tronchi cavi destinati a
suonare esclusivamente per noi stessi.
E
ccoci! Finalmente è arrivata la convocazione per il
corso di formazione previsto in seguito alla vincita
del concorso per vice ispettore. Sono attesa l’11 Novembre alla Scuola di Formazione e Aggiornamento per il
Corpo di Polizia Penitenziaria. Attendo, sin da allora, proprio
questo giorno. Ma se è vero quanto è vero che “tutto ciò che
vale merita di essere atteso”, allora va bene così. E sono felice, tanto, e lo dico, forse per la prima volta nella mia vita,
molto orgogliosa di me stessa e di quanto fatto sino a oggi.
Ero partita circa un anno e mezzo fa dal mio amato “Via Gleno”, portando con me un bagaglio fatto di quindici anni di
esperienze più o meno belle all’interno delle mura dell’istituto penitenziario, intrisa di rumori di chiavistelli, di vocii, di
giornate scandite da attività frenetiche e millimetrate al secondo e spesso, invece, piene di dolore e silenzio, per andare
a prestare la mia attività professionale a Milano presso il
Provveditorato Regionale dell’Amministrazione Penitenziaria
della Lombardia. Tutta un’altra realtà, mi viene da dire: il
carcere non attraverso le sbarre, ma attraverso le carte.
E un mondo fatto esclusivamente di carte è quello che, infatti,
mi è apparso nei primi momenti a Milano e così per tanti
mesi all’interno del Provveditorato. Eravamo due sconosciuti: io fatta assolutamente di cuore e abituata a lavorare con le
persone, il Provveditorato “freddo” fatto di monitor, tastiere e
una montagna di carte che, paradossalmente, producevano e
producono tuttora altrettante carte. Parole scritte finalizzate a
ricucire gli stessi strappi del mondo penitenziario così complesso e poliedrico e a cercare, faticosamente ogni giorno, di
migliorarlo.
Per tanti mesi mi sono sentita un’estranea, un pesce fuor
d’acqua (e solo il vicino carcere di San Vittore mi faceva
sentire ancora a casa) un’alunna che svolgeva il suo compitino e a cui spesso dicevano brava, ma mi mancava il cuore,
non sentivo più i battiti, non “portavo a casa la giornata”,
tanto che più di una volta, tra mille sofferenze interiori e stanchezza, mi sono chiesta se avessi fatto la scelta giusta.
Mi hanno regalato parole scritte, sguardi, abbracci e calde
strette di mano dense di “arrivederci Simona” che mi hanno
fatto sentire unica e speciale e mi hanno ancora una volta dimostrato che, solo l’amore può, solo il bene e solo l’unione
fanno nascere qualcosa di buono e trasformano semplici vite
in capolavori. Soltanto insieme si può fare mentre da soli non
siamo niente, anche se spesso molti di noi lo dimenticano e
pensano di essere Superuomini o Dei in terra.
Vado e non so dove porterà la mia strada, non conosco il progetto di Dio su di me, ma di una cosa sono ancora certa: il
richiamo dell’Istituto penitenziario è sempre forte in me, spinta propulsiva a scegliere, come quindici anni fa, di fare parte
di questo mondo così difficile, ma forse proprio per questo
così affascinante.
E così, ancora una volta, raccolgo la sfida e a quarantadue
anni suonati, mi rimbocco nuovamente le maniche e vado e
scelgo di affinarmi ancora e, attraverso nuove competenze,
desidero impegnarmi al massimo per contribuire a migliorare
il mondo penitenziario e studiare, insieme ad altri, nuove strategie affinché davvero la pena possa essere rieducativa e risocializzante e il carcere sia, come da sempre sostengo, un laboratorio dove gli uomini tutti si sentano di nuovo tali e si impegnino per lasciare vecchie spoglie per indossarne di nuove. È
proprio tempo di andare e in me c’è forte e chiaro, forse come
mai prima d’ora, un Arrivederci.
SIMONA PILICHI
(Sovrintendente di Polizia Penitenziaria)
Pagina 24
Davide Cerullo, Parole evase,
Edizioni Gruppo Aeper,
Torre de’ Roveri, 2013
STEFANIA COLOMBO
arole evase, una raccolta di voci maschili e femminili,
di etnie diverse che si uniscono in una sola voce che
esprime dolore, paura, sofferenza. Un’unica voce che, da
diversi carceri, grida aiuto rivolgendosi a chi si trova all’esterno perché non si dimentichi di quel mondo che racchiude
tante anime tristi e che la maggioranza definisce
‘sotterraneo’. Chi ascolta è però troppo lontano, o troppo
sordo e allora la voce chiede aiuto a Davide Cerullo che ha
vissuto l’esperienza del carcere e sa esattamente che cosa
significa la disperazione.
P
I detenuti si rivolgono a lui non solo per essere ascoltati e
capiti nei loro sfoghi, ma perché lui si faccia portavoce della
loro condizione e tenda un filo di collegamento tra il carcere
e l’esterno che preferisce dimenticarsi dell’esistenza del carcere. I detenuti vengono giudicati da una giustizia che punisce le loro colpe, ma che cessa di esistere oltre le porte del
carcere e non si pone dalla parte di chi ha sbagliato perché
viva con dignità la sua detenzione.
Lo dimostra il degrado in cui sono obbligati a vivere i detenuti, le umiliazioni che devono subire giorno dopo giorno, la
perdita della dignità, l’essere considerati solo dei numeri di
matricola, delle pedine senza emozioni e sentimenti, in balia
di decisioni altrui. Accade così quando vengono trasferiti per
disposizioni ministeriali che non tengono conto della volontà
di ciascuno, dei suoi legami familiari e della precarietà del
suo equilibrio faticosamente raggiunto nell’ambiente che lo
circonda. Il trasferimento da un carcere all’altro fa sentire il
detenuto un pacco postale senza valore.
Ogni volta deve ricominciare tutto daccapo, imparando nuove
regole e nuove abitudini, adattandosi a nuovi compagni di
ALTEREGO
cella nel più breve tempo possibile per evitare guai. In queste
pagine si aggiunge la voce dei familiari che patiscono il trasferimento dei loro cari detenuti non riuscendo a garantire
l’impegno del colloquio settimanale facendo perdere loro sostegno e conforto.
Le famiglie patiscono in misura sproporzionata la detenzione
dei loro congiunti: oltre al dispiacere per la loro detenzione, si
aggiunge il timore di non ritrovarli al colloquio successivo
appunto perché trasferiti altrove senza alcun preavviso. Nessuno si prende la briga di informare la famiglia che viene a
sapere del trasferimento solo quando è davanti allo sportello
per l’ammissione al colloquio. Senza contare le umiliazioni
che i familiari subiscono per via delle perquisizioni e delle
lunghe attese in fila sotto il sole cocente o sotto la pioggia
battente prima di vedere i loro cari. Familiari che pagano per
colpe che non hanno commesso e tra questi ci sono bambini di
ogni età in trepida attesa della loro mamma o papà.
Le voci che parlano in queste pagine non negano di voler pagare per gli errori commessi, chiedono però condizioni dignitose di detenzione. Cerullo traghetta queste voci verso l’esterno perché la gente le ascolti e capisca che i detenuti sono prima di tutte persone che hanno qualcosa di importante da raccontare. Le parole riescono a evadere dal carcere perché qualcuno le raccolga e non le dimentichi.