Consulta l`intero numero - Osservatorio Mediamonitor Minori

Transcript

Consulta l`intero numero - Osservatorio Mediamonitor Minori
IN•FORMAZIONE
STUDI E RICERCHE SU GIOVANI, MEDIA E FORMAZIONE
Anno IX - numero 12 - 2014
Sommario
3
Abstracts
Editoriale
9
La comunicazione sostenibile. Prolegomeni ad una comunicazione formativa
Luca Toschi
31
Il progetto Inf@nzia DIGI.tales 3.6. Sviluppare nuove tecnologie dell’educazione per la scuole dell’infanzia e le scuole
primarie italiane
Orazio Miglino
36
Media Literacy: an exercise of democracy
Marco Ricceri
49
Il contributo delle scienze neuronali alla comprensione della comunicazione. Un punto di vista medico
Francesco Nucci
55
I media in età prescolare: una lettura esplorativa dei dati ISTAT
Isabella Mingo
62
Bambini nell’arcipelago delle tv. La multidimensionalità delle esperienze televisive
Mihaela Gavrila
71
Under eight. Il consumo mediato
Ida Cortoni
80
Disegni di ricerca “a misura” di bambino. Etnografia dello stile mediale dei minori in età prescolare
Veronica Lo Presti
Articoli
88I net babies come target pubblicitario. La socializzazione al consumo dei bambini in età prescolare
Paola Panarese
94
La fruizione dei beni culturali nelle smart cities: definizioni, problemi e metodi
Claudia Matera, Andrea Ingrosso
101
[email protected] 3.6 programma Operativo Nazionale Ricerca e Competitività 2007-2013
Carlo Maria Medaglia, Giada Marinensi
106
Non è mai troppo presto? Considerazioni sull’utilizzo delle tecnologie nei bambini in età prescolare
Simone Mulargia
116
L’età riflessa: pre-adolescenti, new media e “vite parallele”
Donatella Cannizzo
123
Leggere prima di leggere. Una panoramica di indagini empiriche statunitensi sulla lettura della primissima e prima
infanzia (0-3; 3-6 anni) dagli anni Ottanta a oggi
Leyla Vahedi
129
Infantile a chi? L’influenza personale nei consumatori del domani
Myriam Battelli
Sommario
133
Tv for children: an ethical, regulatory and educational issue
Ilana Eleá
Scaffale: libri, video, programmi mediali e approfondimenti
139
Recensione del libro: Valentino R., Merletti R., Paladin L. (2012), Libro fammi grande, Idest, Campi Bisenzio (FI)
Leyla Vahedi
141
Recensione del libro: Satta C. (2012), Bambini e adulti: la nuova sociologia dell’infanzia, Carocci Editore, Roma
Monika Bukat
143
Book review: H. Jenkins and Kelley W. (2013), Reading in a Participatory Culture: Remixing Moby-Dick in the English
Classroom. New York, USA: Teachers College, Columbia university
Jelena Perovic
IN-FORMAZIONE
www.rivista-informazione.it
ISSN 1970-6723
Direzione scientifica:
Mario Morcellini, Teresa Grange Sergi
Comitato redazionale
Ida Cortoni, Sapienza Università di Roma
(REFERENTE), Paola Panarese, Sapienza
Università di Roma, Gammaitoni Milena,
Università di Roma tre, Andrea Lombardinilo,
Università di Chieti, Laura Iannelli,
Università di Sassari, Giovanna Mascheroni,
Università Cattolica di Milano, Michela
Drusian, Università di Verona, Andrea
Volterrani, Università di Tor Vergata Roma,
Sergio Brancato, Università di Salerno,
Sarah Siciliano, Università di Lecce, Lucia
D’Ambrosi, Università di Macerata, Banzato
Monica, Università Co Foscari di Venezia,
Daniela Cinque, Sapienza Università di
Roma, Maria Giovanna Onorati, Università
della Val d’Aosta, Nicola Strizzolo, Università
di Udine, Alessia Rosa, Università di Torino,
Stefania Capogna, Università di Roma Tre,
Giovanna Gianturco, Sapienza Università di
Roma, Elena Valentini, Sapienza Università
di Roma
Comitato scientifico
Antonelli Giselda, Università di Chieti
Benadusi Luciano, Sapienza Università di Roma
Besozzi Elena, Università Cattolica di Milano
Bimbi Franca, Università degli studi di Padova
Biondi Giovanni, MIUR
Buzzi Carlo, Università di Trento
Capecchi Saveria, Università di Bologna
Cappello Gianna, Università di Palermo
Ceccatelli Giovanna, Università di Firenze
Censi Antonietta, Sapienza Università di Roma
Corradi Consuelo, LUMSA
Corradini Luciano, Università degli Studi di
Roma Tre
D’Amato Marina, Università degli Studi di
Roma Tre
Decharneux Baudouin, Université Libre de
Bruxelles
Farnè Roberto, Università di Rimini
Federici Maria Caterina, Università degli
Studi di Perugia
Galliani Luciano, Università di Padova
Gili Guido, Università del Molise
Greco Giovannella, Università della Calabria
Grimaldi Renato, Università di Torino
Limone Pierpaolo, Università di Lecce
Lorenz Walter, Università di Bolzano
Luzzatto Giunio, Università di Genova
Mantovani Giuseppe, Università di Padova
Maragliano Roberto, Università degli studi
di Roma Tre
Margiotta Umberto, Università di Co’ Foscari
di Venezia
Merlini Fabio, Direttore regionale IUFFP-Lugano
Milanaccio Alfredo, Università di Torino
Minardi Everardo, Università di Teramo
Mussi Maria Bollini, Capo Struttura RAI
Nicola Paparella, Università di Lecce
Perez Tornero José Manuel, Universitad
Autonoma de Barcellona
Persichella Vincenzo, Università di Bari
Piromallo Gambardello Agata, Università di
Salerno
Rauty Raffaele, Università di Salerno
Rivoltella Piercesare, Università Cattolica di
Milano
Sorlin Pierre, Université de Paris III
Toschi Luca, Università di Firenze
Segreteria di redazione:
Claudia D’Antoni, Jelena Perovic
Segreteria Amministrativa
Maggioli Editore
presso c.p.o Rimini
via Coriano, 58 – 47924 Rimini
Tel. 0541/6268111 - Fax 0541/622100
Maggioli Editore è un marchio Maggioli
S.p.A.
Stampa
Maggioli spa –
Santarcangelo di Romagna (RN)
Progetto grafico
Niki Caragiulo
Giada Fioravanti
IN•FORMAZIONE
STUDI E RICERCHE SU GIOVANI, MEDIA E FORMAZIONE
Anno IX - numero 12 - 2014
Questo numero della rivista è stata sottoposto a un sistema di doppio referaggio cieco
e anonimo
Abstracts
Il progetto Inf@nzia DIGI.tales 3.6. Sviluppare nuove tecnologie dell’educazione per la scuole dell’infanzia e
le scuole primarie italiane (O. Miglino)
Nel corso del 2014 sarà avviato [email protected] 3.6 un ambizioso progetto di ricerca, finanziato dal programma
PON-Smart Cities for Social Inclusion, che si pone l’obiettivo di ideare, sviluppare e valutare tecnologie didattiche per la
fascia d’età tra i 5 e i 7 anni. L’articolo presenta la prospettiva multidisciplinare alla base dell’idea progettuale al fine di
stimolare la partecipazione delle varie comunità (educatori, genitori, tecnologici, ricercatori, ecc.) a cui [email protected].
Tales 3.6 è potenzialmente rivolto. In particolare, si fornirà un sintetico quadro di riferimento delle prospettive psicopedagogiche, delle tecnologie e della metodologie di sviluppo che il progetto si è proposto di adottare.
Parole chiave: [teoria della cognizione incarnata e situata, educazione alla tecnologia, tecnologie RFID/NFC, interfacce
utente naturali, ambienti per l’insegnamento e l’apprendimento intelligente]
The project Inf@nzia DIGI.tales 3.6. Develop new educational technologies for preschools and primary schools Italian
During the 2014 will start “[email protected] 3.6”, an ambitious research project, funded by the program PON-Smart
Cities for Social Inclusion that aims to ideate, develop and evaluate some learning/educational technologies for children
between 5 and 7 years old. The paper aims to present at educators, parents and technologists the multidisciplinary vision
of Infanzia.DiGITALES in order to introduce them to project perspectives. In particular, it shows a synthetic sketch of
psycho-pedagogical framework, the new technologies to be developed during project activities.
Key words: [embodied and situated cognition theory, technology-enhanced education, RFID/NFC technologies, natural
user interfaces, environments for smart teaching and learning]
La Media Literacy: un esercizio di democrazia (M. Ricceri)
Quali sono gli elementi essenziali che definiscono la Media Literacy e la distinguono dalla Media Education? Quali nuovi
scenari si aprono con la sua diffusione? A queste domande l’articolo risponde offrendo un contributo di chiarificazione,
con riferimento alla novità della co-regolazione promossa dalla UE con la Coalizione delle più grandi imprese del settore
a tutela dei minori; ed ai principi e indirizzi promossi da Commissione Europea, Consiglio d’Europa, UNESCO per la diffusione della educazione ai media nelle scuole, nelle famiglie, tra gli operatori, nonché per la formazione di nuove figure
professionali. In questo quadro di iniziative, la sfida della Media Literacy riguarda le competenze dei cittadini, il loro
spirito critico e partecipativo, condizioni base per la democratizzazione del mondo dei media.
Parole chiave: [media literacy, nNuovi media, ceo-coalition, competenze, partecipazione ai media]
Media Literacy: An Exercise of Democracy
What are the essential elements that define Media Literacy and differentiate it from Media Education? What new scenarios
open with its spread? The article answers these questions by providing a contribution of clarification, with reference to the
novelty of co-regulation promoted by the EU with the Coalition of the largest media companies to protect minors, and the
principles and guidelines promoted by the European Commission, the Council of ‘Europe, UNESCO for the dissemination
of media education in schools, in families, between operators, as well as for the training of new professionals. In this
framework of initiatives, the challenge of Media Literacy regards citizens’ skills, their critical thinking and participatory
attitude, as basic conditions for the democratization of the media world.
Key words: [media literacy, new media, ceo-coalition, skills, media participation]
3
IN•FORMAZIONE
12-2014
4
Il contributo delle scienze neuronali alla comprensione della comunicazione. Un punto di vista medico (F.
Nucci)
Le neuroscienze stanno delineando le strutture e le funzioni dei sistemi cerebrali nelle diverse aree del cervello. Le brain
imaging, grazie alle quali è possibile evidenziare la maturazione del cervello nel corso dell’infanzia, ci forniscono continuamente nuove indicazioni sui complessi meccanismi delle influenze fra le esperienze ed i processi mentali. L’autore,
pur riconoscendo che siamo in una fase iniziale di ricerca, con risultati a volte discutibili, sostiene che riconoscere almeno in parte l’importanza che le esperienze quotidiane hanno sulla mente ci aiuta a capire come il passato influenza il
presente ed il futuro.
Parole chiave: [sviluppo neuronale infantile, neuro immagini, neuroni specchio, emotività, apprendimento]
The contribution of Neuroscience to the understanding of communication. A medical point of view
Neurosciences are outlining the structures and the functions of the cerebral systems in the different areas of the brain.
Through the brain imaging we can now show the brain growth during the childhood and it continuously offers us new
data about the complex mechanisms of the mutual influence between experiences and mind processes. It is true that we
are in the opening phase of this research and that we still have questionable results. But it is really important to also
partially comprehend the relationship between mind and experiences because it can really help us to understand how the
past can influence the present and the future.
Key words: [infantile neuronal development, neuroimaging, mirror neuron, emotion, learning]
I media in età prescolare: una lettura esplorativa dei dati ISTAT (I. Mingo)
In questo contributo si esplorano le potenzialità dei dati Istat (Istituto Nazionale di Statistica) ai fini dell’analisi empirica
della fruizione mediale dei bambini in età prescolare. Vengono utilizzati in particolare i microdati dell’indagine annuale
“Aspetti della vita quotidiana”, che nel 2011 ha previsto un focus sui minori. I dati, che si riferiscono a un campione di
2971 soggetti da 0 a 6 anni, rappresentativo di circa quattro milioni di bambini, consentono di tracciare la loro fruizione
mediale con particolare riferimento alle letture, alla tv, al computer, a Internet e ai videogiochi.
Parole chiave: [microdati Istat; letture, TV, media digitali, bambini in età prescolare]
Media and preschool children: an exploratory analysis of Istat data
In this paper the author explores the potential of the Istat data, to investigate, via empirical analysis, the use of media
by preschool children. To this end, the author uses some Istat microdata, detected by the annual survey “Aspects of daily
life”, that in 2011, included a focus on children. This data are based on a sample of 2971 subjects aged 0-6, representing
about four million children. An exploratory analysis allowed to outline their media usage, with particular attention to the
readings, TV, computer, Internet and video games.
Key words: [Istat microdata, readings, TV, digital media, preschool children]
Bambini nell’arcipelago delle tv. La multidimensionalità delle esperienze televisive (M. Gavrila)
A partire da alcune acquisizioni sull’universo infantile di carattere transdisciplinare (sociologia dell’educazione, psicologia dell’età evolutiva, psicologia dell’educazione, pedagogia, sociologia della comunicazione, ecc.), il contributo ricostruisce lo stato dell’arte della ricerca in ordine all’influenza della televisione sullo sviluppo dei bambini, focalizzando in
particolare la sua attenzione sul target 4-7 anni.
Parole chiave: [bambini, tv, multidimensionalità, informazione, socializzazione]
Children in the archipelago of the TV. The multidimensionality of the television experience
From acquisitions infant universe of transdisciplinary nature (sociology of education, developmental psychology, educational psychology, pedagogy, sociology of communication, etc.), The contribution reconstructs the state of the art research
in order to the influence of television on children’s development, focusing in particular its focus on the target 4-7 years.
Key words: [kids, TV, multidimensionality, information, socialization]
Abstracts
5
Under eight. Il consumo mediato (I. Cortoni)
L’articolo propone una riflessione sulla socializzazione mediale in età prescolare partendo dall’analisi dei risultati di ricerca della Kaiser Family Foundation del 2011. L’analisi sociologica proposta si inserisce nell’indagine di sfondo svolta dal
Dipartimento di Comunicazione e Ricerca Sociale della Sapienza Università di Roma nell’ambito del progetto di Ricerca
Infanzia DIGI.tales e risulta utile per la strutturazione di un disegno della ricerca di orientamento multidisciplinare.
Parole chiave: [socializzazione, comportamento culturale, media education, bambini, mediazione culturale, ricerca
multidisciplinare]
Under eight. Consumption mediated
The paper speaks about the socialization with the media of children before of the frequentation of primary school. It starts
from the analysis of the main research results of the Kaiser Family Foundation in 2011. The proposed sociological analysis
is conducted by the Department of Communication and Social Research in Sapienza University of Rome and represents
the first step of the research project Infanzia DIGI.tales. The results and the suggestions of this activity will be useful to
structure the multidisciplinary research design about this topic.
Key words: [socialization, cultural behaviour, media education, children, cultural mediation, multidisciplinary research]
Disegni di ricerca “a misura” di bambino. Etnografia dello stile mediale dei minori in età prescolare (V. Lo
Presti)
L’obiettivo del saggio è quello di avviare una riflessione teorica sulle metodologie di analisi della relazione tra media e
minori, al fine di sollecitare i ricercatori ad una concettualizzazione puntuale dei fattori e delle variabili che si intendono
indagare in un percorso di ricerca e alla costruzione di strategie di indagine in grado di rispondere validamente agli
interrogativi principali che si aprono intorno alla quaestio media-minori. Nel panorama degli approcci di indagine
disponibili, l’etnografia può costituire un approccio particolarmente adeguato per indagare le modalità di influenza dei
media digitali rispetto ai percorsi di socializzazione e di costruzione dell’identità personale e sociale dei minori fin dall’età
prescolare; costruendo disegni di ricerca “a misura” di bambino.
Parole chiave: [etnografia, cultura, stile mediale, identità personale, capitale sociale]
Research design “tailored” to the child. Ethnography of the media style of the children
The objective of this paper is to undertake a theoretical reflection on the methods of analysis of the relationship between
media and children, in order to encourage researchers to a precise conceptualization of the factors and variables in a
research and construction of survey strategies around the quaestio media-minor. In view of the investigation approaches,
ethnography can be a particularly appropriate approach to investigate how to influence digital media regarding the paths
of socialization and the construction of personal and social development of preschool children; building reserch designs
“tailored” to the child.
Key words: [etnography, culture, media style, personal identity, social capital]
I net babies come target pubblicitario. La socializzazione al consumo dei bambini in età prescolare (P. Panarese)
Chi intende conoscere le abitudini mediali e i consumi culturali dei bambini in età prescolare non può ignorare il marketing e la comunicazione pubblicitaria, ambiti naturalmente interessati a registrare le condotte di bambini sempre più
piccoli, cui è indirizzata una quota crescente di messaggi e investimenti. Quelli tra 0 e 5 anni sono bersaglio di specifiche
strategie di marketing e comunicazione e oggetto di un fiorente mercato di testi e convegni, soprattutto all’estero. Le poche ricerche italiane rivelano la loro naturale attrazione per la Tv e la pubblicità e l’importante ruolo dei media nel loro
processo di crescita, accanto alla famiglia e prima della scuola.
Parole chiave: [bambini in età prescolare, socializzazione, Tv, pubblicità, marketing, consumi culturali, diete mediali]
The net babies targeted advertising. Consumer Socialization of preschoolers
The point of view of marketing and advertising is useful to know the cultural and media consumption of preschool
IN•FORMAZIONE
12-2014
6
children. These disciplines are very interested in identifying the consumption behavior of the youngest children, in order
to send them effective advertisements. Children between 0 and 5 years are the target of specific marketing and communication strategies and the subject of a flourishing market of texts and conventions, especially abroad. The few Italian
researches reveal the natural attraction of preschool children for the TV programs and the commercials and the important
role of the media in their growing process, alongside the family and before the school.
Key words: [preschool children, socialization, Tv, advertising, marketing, cultural consumptions, media consumptions]
La fruizione dei beni culturali nelle smart cities: definizioni, problemi e metodi (C. Matera, A. Ingrosso)
Le innovazioni tecnologiche trasformano le città in uno spazio urbano in cui le risorse web si integrano con i dispositivi
mobili per realizzare nuovi strumenti e avanzati servizi.
Il campo della formazione e dei beni culturali possono trarre significativi benefici, basti pensare alla possibilità di fruire
i contenuti direttamente in loco.
Anche il target dei bambini può trarre beneficio e il progetto Infanzia Digit@les 3.6 offre l’opportunità di rileggere le
definizioni tradizionali; innescare una discussione critica sui metodi tradizionali; e, infine, di partecipare all’elaborazione
di un metodo formativo per i beni culturali nell’ambito di una smart city.
Parole chiave: [beni culturali, smart city, smart learning, serious game, playful learning]
The use of cultural property in smart cities: definitions, problems and methods
Our cities are progressing towards a dimension that increasingly integrates web and mobile infrastructures in the physical
space, in order to provide citizens with new kind of services.
The educational field and cultural heritage could take advantages, taking information directly on each point of interests
is a first example.
Also children can benefit from these new kinds of smart cities learning and Infanzia Digit@les 3.6 offers an opportunity
to think about traditional definitions, to make a critical discuss about traditional methods and to participate to the elaboration of a smart learning learning method in cultural heritage field.
Key words: [cultural heritage, smart city, smart learning, serious game, playful learning]
[email protected] 3.6 programma Operativo Nazionale Ricerca e Competitività 2007-2013 (C.M.Medaglia, G.
Marinensi)
Il progetto Inf@nzia DIGI.tales 3.6, presentato nell’ambito del bando “Smart Cities and Communities and Social Innovation” promosso dal MIUR, si rivolge ai bambini dai tre ai sei anni e intende proporre un rinnovamento dei modelli educativi delle scuole dell’infanzia. Inf@nzia DIGI.tales 3.6, infatti, ha l’obiettivo di progettare e sperimentare una soluzione
educativa che, integrando differenti tecnologie, favorisca il potenziamento delle capacità di esplorazione e manipolazione
del bambino, stimolandolo al contempo l’interazione con l’insegnante, i pari e i genitori.
Parole chiave: [smart education, interactive digital storytelling, adaptive tutoring, game based learning, learning
environment context-aware]
[email protected] 3.6 National Operational Programme for Research and Competitiveness 2007-2013
The project Inf@nzia DIGI.tales 3.6, presented as part of the call “Smart Cities and Communities and Social Innovation”
organized by the Ministry of Education, is designed for children aged three to six years and plans to propose a new model
of school education ‘childhood. Inf@nzia DIGI.tales 3.6, in fact, aims to design and test an educational solution that
integrating different technologies, encourage capacity-building investigation and manipulation of the child, at the same
time stimulating the interaction with the teacher, peers and parents.
Key words: [smart education, interactive digital storytelling, adaptive tutoring, game based learning, learning environment
context-aware]
Abstracts
7
Non è mai troppo presto? Considerazioni sull’utilizzo delle tecnologie nei bambini in età prescolare (S. Mulargia)
L’attuale sviluppo del panorama tecno-sociale appare caratterizzato dalla sempre più pervasiva presenza di dispositivi
che fanno uso di tecnologia touch. Tali strumenti sono l’ultima manifestazione di una tendenza di lungo periodo verso
la semplificazione dell’interfaccia.
Sempre più spesso, come conseguenza del possesso di questi strumenti da parte dei genitori, quote crescenti di bambini
in età prescolare sperimentano un precoce contatto con la tecnologia, utilizzata in alcuni casi come opzione per la loro
distrazione o in alternativa ai giocattoli tradizionali.
Proprio questi bambini sembrano essere il target privilegiato di numerose iniziative commerciali volte alla produzione e
diffusione di applicazioni specifiche per quella fascia d’età, spesso declinate in ottica di apprendimento. Malgrado questo
iniziale interesse del mercato, e una tradizione di studi sull’applicazione dei dispositivi tecnologici come ausilio per l’apprendimento, manca una consolidata riflessione scientifica sul tema.
Le caratteristiche specifiche del contatto possono, per alcuni aspetti, acuire ulteriormente la crisi delle figure di mediazione, già sperimentata a ridosso dei fenomeni di laicizzazione delle procedure di trasmissione del sapere. Il pericolo è che
i processi decisionali circa le opportune modalità di utilizzo delle tecnologie touch da parte dei bambini in età prescolare
possano essere monopolizzati dai forti interessi di mercato, invece che da una riflessione scientifica indipendente che
possa evidenziare potenzialità positive e eventuali rischi.
Parole chiave: [device, touch technologies, literacy skills, smart toys, videogiochi]
It’s never too soon? Considerations on the use of technology in pre-school children
The current development of the techno-social landscape is characterized by the increasingly pervasive presence of devices that
make use of touch technology. These tools are the latest manifestation of a long-term trend toward simplifying the interface.
Increasingly, as a result of holding these instruments from their parents, increasing amounts of pre-school children experience a premature contact with the technology used in some cases as an option for their distraction or as an alternative
to traditional toys.
It is these children seem to be the main focus of many initiatives aimed at commercial production and dissemination of
specific applications for that age group, often inflected with a view to learning. Despite this early interest in the market,
and a tradition of studies on the application of technological devices as an aid to learning, there is no established scientific
thinking on the subject.
The specific characteristics of the contact may, in some respects, further exacerbate the crisis of mediating figures, already
experienced close to the phenomena of secularization of procedures for the transmission of knowledge. The danger
is that decision-making about the appropriate way to use the touch technologies by children in preschool can be monopolized by the strong market interest, rather than a reflection independent scientific organization that can highlight
potential benefits and possible risks.
Key words: [device, touch technologies, literacy skills, smart toys, videogames]
L’età riflessa: pre-adolescenti, new media e “vite parallele” (D. Cannizzo)
Le dinamiche della comunicazione tradizionale si intrecciano alle nuove forme di socializzazione digitale, riflesso di
un’età che adotta le forme della realtà virtuale per sviluppare nuove competenze ed intraprendere nuove esperienze
cognitive. L’infanzia è sostituita dalla pre-adolescenza caratterizzata, infatti, da una precoce attrazione verso smartphone,
tablet e social network.
Parole chiave: [comunicazione tradizionale, socializzazione digitale, realtà virtuale, scomparsa dell’infanzia]
The age reflected: preteens, new media and “parallel lives”
The dynamics of traditional communication are intertwined with new forms of socialization digital, reflection of an age
that take the form of virtual reality to develop new skills and take on new cognitive experiences. Childhood is replaced by
pre-adolescence characterized, in fact, from an early attraction to smartphones, tablets and social networks
Key words: [traditional communication, digital socialization, virtual reality, disappearance of childhood]
IN•FORMAZIONE
12-2014
8
Leggere prima di leggere. Una panoramica di indagini empiriche statunitensi sulla lettura della primissima e
prima infanzia (0-3; 3-6 anni) dagli anni Ottanta a oggi. (L. Vahedy)
L’articolo presenta una ricostruzione dell’interesse di ricerca verso la lettura infantile offrendo una rassegna di indagini
e studi empirici condotti negli Stati Uniti che individuano nella lettura precoce un decisivo agente di diminuzione del
rischio di marginalità sociale, oltre a indagini sulle relazioni specifiche instaurate dalla lettura di albi illustrati fino all’interazione con i supporti digitali. I risultati supportano l’importanza della lettura non solo dal punto di vista cognitivo e di
linguaggio, ma affettivo, sociale, relazionale.
Parole chiave: [indagini empiriche, abitudini di lettura, abitudini mediali, albo illustrato, emergent literacy]
Reading before reading. A theoretical and empirical framework around toddlers and children’s reading in
United States from Eighties until now
The article aims at creating an empirical framework around the growing interest toward the topic of precocious reading.
We will review findings that have emerged from studies carried out in the Unites States such as the key role of emergent
literacy for preventing the risk of social marginality. We will focus on specific relations established by the reading of picture
books and the interactions with digital devices. These results highlight the benefits of precocious reading during infancy
for improving both cognitive and social development of children.
Key words: [empirical studies, reading habits, early childhood, picture book, emergent literacy]
Infantile a chi? L’influenza personale nei consumatori del domani (M. Battelli)
Bambini e pubblicità. Una relazione che inizia già in tenera età, sicuramente intensa, ma troppo spesso demonizzata
dall’opinione pubblica, che giudica nell’immediato il bambino, passivo ed indifeso, e la pubblicità, manipolatrice degli innocenti. L’approfondimento di tale dinamica fruitiva considera fondamentali i fattori sociali che entrano in gioco quando
si parla di piccoli consumatori, in primis l’influenza personale del gruppo dei pari, e la riflessione che ne nasce tende a
sottolineare l’eccezione positiva della parola infanzia, che in inglese è ben distinta dal termine childlike, per esprimere le
qualità che sono tipiche di un bambino come l’innocenza e lo stupore, rispetto al termine childish, usato comunemente
per indicare la mancanza di maturità nei confronti della realtà e della comunicazione pubblicitaria.
Parole chiave: [bambini, pubblicità, consumatori, gruppo dei pari, influenza personale]
Who’s childish? The personal influence among consumers of tomorrow
Children and advertising. A relationship that begins in early age, certainly intense, but too often demonized by the public
opinion, in the immediate who judges the children, passive and helpless, and advertising, manipulating the innocent.
The deepening of this trend fruition considers as key social factors that come into play when it comes to little consumers,
primarily the personal influence of the peer group, and the reflection that born of it tends to emphasize the positive exception of the word childhood, which in english is distinct from the term childlike, to express the qualities that are typical as
innocence and wonder, respect to the childish term, commonly used to indicate the lack of maturity towards reality and
advertising.
Key words: [children, advertising, consumers, peer group, personal influence]
Tv for children: an ethical, regulatory and educational issue (I. Elea)
Television still remains the most used mass medium for children worldwide. Ethics and quality TV for children are discussed in the present article under three regulatory frameworks: Public regulation, Self-regulation and Co-regulation. This
paper brings examples of what different countries face when dealing with the issues of protecting children against potentially harmful content, while encouraging quality content. Media and Information Literacy is seen as a fundamental skill
integrated in the process, since it represents a counterforce that empowers kids to wisely, creatively and democratically use,
analyse and create media content and information.
Key words: [ethics, tv regulation, children, quality TV, media and information literacy]
Editoriale
Luca Toschi
[email protected]
Dipartimento di Scienze Politiche e Sociali
Università degli Studi di Firenze
La comunicazione sostenibile.
Prolegomeni ad una comunicazione formativa
Un digitale molto storico
Il digitale informatico con cui ci misuriamo tutti i giorni, adulti e ragazzi, anziani e
bambini, nella vita pubblica e in quella privata, nel relazionarsi con gli altri (comunicazione esterna) nel rapportarsi con noi stessi (comunicazione interna), è una risposta strumentale ancora assai primitiva che l’uomo ha trovato per affrontare una complessità culturale,
sociale, economica, politica che ha cercato per
millenni, e che adesso si trova a dover governare. La dimensione digitale è un tentativo di dare una risposta ai nostri bisogni: l’abbiamo inventata per raggiungere degli obiettivi che perseguiamo da secoli e secoli.
Essa, quindi, riflette, nasce da un digitale tutto naturale e storico, dalla nostra aspirazione a
leggere la trama nascosta – macro e micro, sempre più nano – della realtà, fisica e simbolica, a
riscrivere la rete delle relazioni, dei collegamenti che la natura insieme alla Storia ci propone.
La comunicazione, insieme ai processi di
automazione cui si appoggia e si appoggerà
sempre più, è chiamata a svolgere un ruolo
fondamentale in questo processo, dal momento
che è la scienza e l’arte di collegare e scollegare
i soggetti (animati e inanimati) protagonisti di
questa svolta storica.
Per questo domandarsi se a scuola si debba
o non utilizzare strumentazioni basate sul digi-
tale informatico è irrilevante. Il problema è se
a scuola si è consapevoli della storia che l’umanità, tutti noi, dai più piccoli ai più grandi, stiamo scrivendo. Nostro malgrado.
Il digitale, quello naturale e storico, è intorno a noi. Siamo noi.
A noi il compito di renderlo sostenibile, il che
non vuol dire sopportabile, al contrario: riuscire
a capire che il nostro problema non è la limitatezza bensì l’abbondanza travolgente delle risorse di cui disponiamo e potremo disporre. Il difficile è riuscire a riconoscerle come tali. Basta vedere le difficoltà che s’incontrano nel capire se e
come utilizzare il digitale informatico.
La comunicazione sostenibile ci aiuta a farlo.
“Sostenibile”, in questa prospettiva, non è
gestione avveduta dell’esistente, ma indica capacità di costruire una comunicazione, una relazione fra progetto e realizzazione in cui la conoscenza, in controtendenza con ogni altra forma di energia naturale, quanto più è utilizzata
tanto più genera conoscenza.
Argomenti non originali ma originari
Quando mi chiedono collaborazione per migliorare la comunicazione, sia che la domanda provenga da aziende, da organizzazioni private o pubbliche, da istituzioni, sia da persone,
le quali anche individualmente cercano di affinare il loro personale rapporto con la comunicazione (condurre riunioni di lavoro o parlare
in pubblico, per esempio), mi capita sempre di
9
IN•FORMAZIONE
12-2014
10
imbattermi nello stesso problema: dover proporre – terminate le dovute ricerche e analisi sulle
modalità comunicative del ‘committente’ – argomenti che possono risultare ovvi, sorprendentemente risaputi. Di dare indicazioni strategiche,
cioè, che sembrano soluzioni dettate dal semplice buon senso, da quel sapere che giace da qualche parte in ognuno di noi ma che troppe volte ci
ostiniamo a voler ignorare, considerandolo superato, imbarazzante se confrontato con la magica scientificità di professionalità e tecniche ormai ritenute irrinunciabili.
Più in particolare, si tratta di indicazioni che
riguardano il rilancio dell’identità, della specificità dell’ente o della persona che comunica; della sua ragion d’essere nella società, nell’economia. Le mie, cioè, finiscono sempre, o quasi, col
diventare sollecitazioni fatte al ‘committente’
perché riparta, per ridare forza alla sua comunicazione, dal riscoprire il valore ‘originario’ della sua azione (pubblica e privata), la qualità dei
contenuti che pensa di poter comunicare.
La buona comunicazione nasce prima di
tutto dalla coerenza che si riesce a stabilire fra
la matrice originaria di un progetto sociale,
economico, culturale, politico, ma anche personale, e i comportamenti comunicativi concreti che si decide di seguire già in fase di progettazione e di sviluppo dei prodotti. Siano questi ultimi beni o servizi.
Viviamo tempi in cui la coerenza è ridotta
a parola noiosa. Certamente per i più priva di
qualsiasi riferimento alla realtà delle persone
e delle cose. Eppure proprio dalla mia attività
sul campo della comunicazione praticata quotidianamente emergono indicazioni contrarie
a questa opinione diffusa circa la sua inconsistenza. La coerenza si sta rivelando, infatti, prima di ogni altra considerazione, uno strumento molto concreto per orientare e rivitalizzare
la comunicazione nei suoi molteplici aspetti:
sia essa espressione di un ente o di una persona,
sia essa un prodotto fisico, mentale o psichico.
La coerenza come continuità fra l’identità
di un’organizzazione e la sua produzione è ancora in attesa di sviluppare tutta la sua ‘originalità’ e la sua forza effettivamente ‘innovativa’. Dove ‘produzione’ è da intendersi nel senso più ampio dell’agire umano, sia individuale
che collettivo, riferito, quindi, ad ogni attività
umana di tipo non solo fisico ma anche mentale, psichico etc.
Intanto, sarà forse perché la semplicità delle mie indicazioni e strategie è affiancata e sostenuta da strumenti tecnici di analisi e di progetto che permettono di avviare concretamente quel processo di innovazione per il quale era
stato richiesto un intervento, riuscendo a raggiungere, insieme ai vari enti, risultati di qualche interesse; sarà, probabilmente, perché hanno umiliato la Storia in tutti i modi, e in un’epoca di crisi come questa, ritornare alle origini identitarie di un’organizzazione, piccola o
grande che sia, le può dare la speranza di ritrovare quel filo che si è perso nel navigare a vista,
senza obiettivi di lungo termine, confondendo
così una società liquida con il lasciarsi travolgere dalla piena dell’improvvisazione. Sarà, infine, per tante ragioni che nemmeno a me risultano ancora chiare, ma quel che appare evidente è che ragionare sulla coerenza sta aiutando i ‘committenti’, anche in aree a forte vocazione economica, nel loro sforzo di potenziare la loro comunicazione.
C’è un gran bisogno di essenzialità (che è
tutt’altra cosa dalla dilagante banalizzazione),
e cioè di orientarsi nell’affollarsi quotidiano di
stimoli, d’informazioni, di suggestioni messe a
disposizione dalle nuove tecnologie della comunicazione; di ritrovare il filo conduttore di
un progetto, anche in previsione di doverlo radicalmente cambiare. Una necessità che risul-
Editoriale
11
ta particolarmente evidente nella difficile ricerca d’impostare un uso delle ICT che sia operativamente funzionale ad obiettivi definiti, che
non esaurisca la sua ragion d’essere nell’attivazione di meccanismi rispetto ai quali siamo
sempre più spettatori-consumatori, ma che ne
discuta il senso e l’economia: dalle imprese al
mondo dell’educazione.
Un’esigenza di interrogarsi circa l’identità
che comporta l’analisi e la valutazione dell’impianto strutturale e funzionale della comunicazione di enti e di persone nel tentativo di
trovare una coerenza fra i processi operativi e
i fondamentali identitari che essi dovrebbero
valorizzare e rafforzare e che, viceversa, troppe volte sacrificano ad un’idea e ad una prassi
della comunicazione mirata ad uniformare, ad
appiattire ogni diversità.
Insomma un ritorno alle origini fondative.
Visione e missione definiscono uno spazio
sociale molto operativo
Identità e comunicazione. Un binomio inscindibile.
Questo significa lavorare sulla vision e
quindi sulla mission (qui intese oltre il significato strettamente economico-aziendalistico),
sugli obiettivi ufficialmente formalizzati e comunicati dentro e fuori le organizzazioni, e
quindi sui valori che le ispirano – ma questo
vale anche per l’azione di una sola persona –,
sulle convinzioni, sugli ambiti d’intervento, sui
soggetti verso i quali, con i quali si vuole agire.
Una visione e una missione che non devono ridursi a dichiarazioni messe su un bel piedistallo per nascondere la mancata corrispondenza
fra enunciato e praticato.
Se visione e missione hanno davvero ragion
d’essere a livello di realtà, e non sono, quindi,
pezzi d’effetto più o meno allettanti per creare suggestione, per imporre idee e valutazioni
ai vari stakeholder, ma sono il prodotto primo
dell’organizzazione, che giunge dopo un percorso di conoscenza, di analisi e di scelte coraggiose, ponendosi così come le matrici profonde,
originarie, da cui tutto poi scaturisce e cui tutto ritorna per le necessarie valutazioni, sia la
visione che la missione saranno sempre e comunque la bussola cui fare riferimento; a livello di macro e di micro azioni.
Ad iniziare dai comportamenti di chi fa
parte di un’organizzazione.
Un rapporto questo fra visione e missione,
da una parte, e realizzazione, dall’altra, operativamente così stretto che, se viene meno, la
stessa sopravvivenza dell’ente risulta presto a
rischio, salvo ricorrere ad azioni incoerenti fino a risultare poco trasparenti.
Non c’è danno peggiore che predicare una
missione e praticarne un’altra. E non in nome
di uno sterile moralismo, ma per ragioni molto, ma molto pratiche. Anche produttive ed economiche; per quanto gli obiettivi di quest’ultima
natura siano, nel senso comune, lontanissimi
da problematiche identitarie, valoriali. In troppe imprese d’oggi; ma non sempre in quelle del
passato che hanno costruito l’Italia, l’Europa,
dopo la catastrofe della Seconda guerra mondiale. Uno scarto penalizzante per le pur tante imprese coraggiose e valide che abbiamo, su cui pesa un’idea di comunicazione che negli ultimi decenni è stata dominata da strategie che puntavano esplicitamente alla manipolazione, all’alterazione e alla sofisticazione della loro produzione.
Il racconto progettuale, infatti, inteso come il sentimento vivo di appartenenza che esso
dovrebbe trasmettere ad una comunità, come il
profondo senso del futuro che dovrebbe ispirare,
con i suoi valori, con il suo incessante divenire in
chiave di instancabile rafforzamento di identità,
IN•FORMAZIONE
12-2014
12
è il punto fondamentale di riferimento per il personale interno di un’organizzazione; ma anche
per chi vede in ciò che l’ente produce (beni o servizi) una garanzia in termini di fiducia: la base
fondamentale di un patto comunicativo.
Insomma, visione e missione identificano
e caratterizzano lo spazio sociale dell’azione di
un soggetto – o almeno lo potrebbero fare –
orientandone lo sviluppo.
In questa vitale relazione, che lega il progetto alla sua produzione e, quindi, al suo uso,
sta il senso più vero dell’organizzazione della comunicazione, da quella interna a quella
esterna; la comunicazione di qualsiasi soggetto, individuale o collettivo.
Da qui scaturisce la forza di ogni azione comunicativa mirata alla Ricerca e allo Sviluppo: collettiva e individuale. Da qui prende il via
il processo generativo del progetto, che è tanto
migliore quanto più cerca di evitare ogni possibile fuga dalla concretezza della realtà, cercando di attingere all’infinita energia di cui essa
è portatrice, valutando quotidianamente i suoi
risultati concreti, senza paura di inevitabili delusioni, disillusioni.
L’errore, che inevitabilmente – e per certi
versi anche auspicabilmente – emerge, già in
corso di realizzazione, dal confronto di un progetto con la sua produzione, fatta di persone e
di cose concrete, riportato alla sua origine progettuale per fare le opportune correzioni diventa così fonte inesauribile di conoscenza per migliorare qualsiasi processo produttivo.
Progetti senza realizzazioni.
Realizzazioni senza progetto
Perché l’attuale crisi che la comunicazione
sta attraversando in termini di qualità, di senso, dipende dalle difficoltà che essa sta incon-
trando, ormai da troppo tempo, nel porsi come
collegamento vitale, creativo fra le ideazioni, i
progetti e le loro realizzazioni, fra quanto immaginato e quanto realizzato, in una prospettiva di costruzione di comunità.
Purtroppo, anni di una cultura parassitaria, misera, circa il rapporto reciprocamente
generativo fra idee e cose, fra capacità di rappresentarsi, cioè, e capacità di rendere concreto quanto pensato, concepito, hanno alimentato una concezione della concretezza assai
povera.
Su due piani: apparentemente distinti, conflittuali ma al contrario complementari al punto
che l’uno ha bisogno dell’altro per sopravvivere.
Il primo è la tendenza a progettare compiacendosi dell’elaborazione delle idee, ma spesso
esaurendo nel pur bellissimo gioco della preparazione, tutte le risorse. Il secondo è la celebrazione della praticità, del primato del fare
sulla supposta sterilità del pensare in maniera astratta.
Idee versus cose e viceversa. Tempi lunghi
versus tempi brevi, spazi vicini versus spazi lontani. Due posizioni entrambe vere quanto false.
Come possibile?
Partiamo dalla prima posizione. Oggi se non
hai un progetto non sei niente; se non ti stai dando da fare in cerca di sostegni per mettere in piedi un progetto non hai uno status. Se sono più
di uno ancora meglio. Se poi hai i finanziamenti per realizzarlo è perfetto: la tua posizione è solida. Se poi lo realizzi... beh allora ogni interesse tende ad affievolirsi. Viviamo nella società della progettazione, per questo andare a vedere se e
come è stato realizzato, conta poco, quasi niente perché se perdi tempo a realizzarlo ti è sfuggito il fatto che nel frattempo è certamente emersa
la necessità di mettere in piedi altri progetti, più
adeguati, più nuovi. Semmai può contare moltissimo fare un progetto su come si possono veri-
Editoriale
13
ficare i risultati ottenuti dai progetti. Idee che generano idee: che sia il modo più coerente di interpretare il senso della nostra celebrata Società
della conoscenza?
Per quanto riguarda, invece, la seconda posizione, questa è occupata da coloro che
si dichiarano stanchi di chiacchiere, di parole vuote, inconcludenti e decidono che fare sia
senz’altro meglio che passare il tempo a discorrere senza concludere niente. Intanto facciamo
qualche cosa e poi vediamo, anche perché facendo possono venire delle idee nuove. Nella
sua versione più oscura questo atteggiamento
rischia di scivolare facilmente – e conferme in
questa direzione ce ne sono moltissime, come si
sa bene – verso una visione del fare che sa più
di affare se non di affarismo. Anche politico. O
forse altro non è che la versione di ultima generazione dello sperimentalismo?
Due posizioni antagoniste solo apparentemente perché entrambe convergono su un punto fondamentale: il rifiuto di vedere nella realtà,
in ciò che già c’è e che abbiamo impiegato secoli perché ci fosse, una trasformazione in corso di
portata epocale, dalle risorse infinite se ci liberiamo della definizione di risorse che ci portiamo
dentro. Una trasformazione che ha bisogno di essere capita, interpretata in un confronto stretto
con le cose, le persone concrete ma che ha, nondimeno, lo stesso bisogno di progetti, a lungo e a
breve termine, prefigurando un mondo che ancora non c’è e che non c’è mai stato.
Insomma entrambe le posizioni, quando esasperate, tendono a negare il valore della
Storia: si va dalla lettura del mondo, senza avere interesse a scriverne la Storia (progettatori),
alla scrittura del mondo, ma senza avere interesse a leggerne la Storia (realizzatori).
Sia la sterilità del progettare inconcludente
inteso come strumento per costruire l’innovazione, sia la provvisorietà di chi operando, sem-
pre e comunque, pensa di dare risposte concrete a necessità su cui manca un’analisi adeguata, portano le tracce pesanti di una cultura che
sta confondendo la necessità di rifondare radicalmente il nostro rapporto con la realtà, travolta da trasformazioni epocali mai sperimentate prima dal genere umano, con la rinuncia a
desideri, a programmi e a realizzazioni di grande respiro, adeguati all’onda lunga della Storia
che ci sta spingendo verso un futuro che non riusciamo vedere, a condividere.
Si avviliscono così le immense potenzialità del nostro tempo, sia progettuali che produttive, riducendo la nostra intelligenza e creatività ad una non-navigazione che ci ha portato alla terribile crisi che tutto il mondo sta
vivendo.
Ne consegue, per esempio, che mentre celebriamo un uso di beni personalizzato per tutti, comandino, nell’utilizzazione effettiva, pratiche d’uso rigorosamente standardizzate. Viviamo sempre più di storie che non indirizzano
né le organizzazioni né le singole persone verso l’esplorazione e la costruzione di un nuovo
mondo, ma spingono senza sosta a creare bolle di mondi artificiali tutte uguali, schermate
nei confronti della bella generosità che la realtà ci offrirebbe.
Si sono affermati lo strapotere della progettazione infinita e del fare comunque. Modalità operative opposte ma espressione di
uno stesso sistema culturale: il continuo rilancio progettuale rispetto al confronto-verifica con le cose finite, che temiamo risultare
deludenti rispetto alle aspettative, corrisponde pienamente alla paura, dal canto opposto, di non riuscire a comprendere o di comprendere cose che indebolirebbero la spinta
operativa che pressa a fare ‘praticamente’,
rinviando a tempi migliori qualsiasi analisi dell’esistente.
IN•FORMAZIONE
12-2014
14
Pochi contenuti, molta interazione
Paura, in entrambi gli atteggiamenti, di
non avere l’attrezzatura culturale e pratica necessaria per sostenere un confronto con la realtà; diffidenza ormai dilagante verso la generosità della realtà materiale se interrogata dovutamente (ma dobbiamo avere le domande giuste!), da realizzare o già realizzata che sia. Insomma, diffidenza verso il patrimonio culturale che possediamo, e che avvertiamo inadeguato ad affrontare il salto di sistema che stiamo
vivendo; sia, ripetiamolo, come elaborazioni
astratte sia di intervento produttivo sulla realtà che ci circonda.
Progettazioni o produzioni sempre più scisse dalla conoscenza del reale e dalla relativa sperimentazione su di esso, ad iniziare dalla nostra
corporeità, la quale è lo strumento principe perché le cose ci parlino e perché noi si possa parlare alle cose e alle persone. Come sanno molto bene i bambini, che tutto toccano, tutto assaggiano, tutto abbracciano e scacciano.
Da qualche parte sappiamo benissimo di
non sapere, di essere portatori di un’inadeguatezza che ci mina nel profondo e cui si risponde
con affermazioni dove l’arroganza, la superficialità sono spesso scambiate per forza di carattere, capacità d’impresa. E questo anche se passiamo quasi tutto il nostro tempo ad affermare il contrario. Sia a livello individuale, cercando di proporci per quello che, per lo più, o facciamo male o proprio non sappiamo fare; sia
a livello collettivo, dove l’aggregazione è spesso mossa da convergenze d’interessi del tutto
temporanee, dando vita a confronti fra gruppi intrinsecamente deboli, mossi da dinamiche
di aggregazione e disaggregazione che rispondono piuttosto a bisogni del momento e non da
progetti a lungo termine condivisi, di quelli che
impegnano più generazioni.
L’attuale guerra fra generazioni, cui tutti sono invitati a partecipare, ricorda così tanto i capponi di Renzo Tramaglino, all’inizio dei
Promessi sposi, che si beccavano fra loro mentre erano in viaggio per diventare carne sulla
tavola di un azzeccagarbugli.
In questo scenario non meraviglia che la
nostra azione consapevole si stia sempre più
orientando verso il fare incalzante, in nome di
una non meglio definita idea di concretezza,
privo di progetto – per non parlare della dimensione truffaldina di tanto fare concreto, conseguenza di tanto vuoto che ci avvolge, di cui sono artefici piccoli o grandi delinquenti –, oppure verso un progettare incapace di confrontarsi con la realizzazione di se stesso. Un progettare che chiede alla dimensione monetaria quelle risorse che dovrebbero scaturire dall’analisi
e dalla conoscenza dell’ambiente socio-economico e culturale su cui vorrebbe operare.
Ma quando si parla oggi di analisi, si tende a riferirsi ad un’analisi che copre una fase
dell’attività in cui domina il consumo delle risorse e non la loro accensione. Analisi e produzione e utilizzo sono ancora viste come fasi distinte. I costi sempre più insostenibili che
rendono le analisi ormai un ‘lusso’ ne sono
la naturale conseguenza. L’analisi, viceversa,
quando è davvero tale, smuove ciò che sta valutando e già lo attiva in una produzione comune facendo emergere e risvegliando risorse
rimaste fino ad allora silenti, inattive: e ancora più spesso – una delle cause più gravi della crisi attuale – sconosciute, nel senso di non
riconosciute come tali. L’analisi, in una prospettiva d’interazione totale con le fasi di tutta la produzione e dell’uso del prodotto, si autosostiene.
L’analisi, proprio nella difesa del suo specifico, è già il progetto, è già la sua produzione; è
già il suo uso.
Editoriale
15
Così come il progetto dovrebbe essere già la
sua realizzazione, e la realizzazione il suo uso;
e quest’ultimo dovrebbe essere ancora analisi,
progettazione, produzione, dando vita ad una
dinamica di sistema di tipo generativo, dove le
singole fasi sono sì distinte dalle altre, sulla base della predominanza dei successivi obiettivi
operativi, ma anche in continua trasformazione, sotto l’influenza delle altre, con il procedere
comune verso l’obiettivo che si sono date.
Il processo generativo, quindi, non segue
la linearità delle fasi di produzione come tendiamo a formalizzarle. Sviluppa un proprio sistema di influenze generative che, pur rispecchiando la gerarchia tendenziale del processo di produzione, presenta un reticolo di azioni che agiscono su ciò che già è stato fatto o
che anticipano quello che dovrebbe essere fatto in seguito.
Nel caso specifico, quindi, dell’analisi e della ricerca, esse sono parte, a tutti gli effetti, del
processo produttivo. Mentre quest’ultimo appare inconcepibile senza che svolga, a sua volta,
nel suo specifico, una funzione mirata a generare ulteriori dati di indagine che incrementano il processo generativo di conoscenza dell’intero processo.
Ne consegue che il vero prodotto è un’unità
inscindibile di bene realizzato, di servizio offerto e della conoscenza che la sua realizzazione e
uso ha sviluppato.
Pochi contenuti, molta interazione
Ma siamo figli di un errore immenso: quello di avere interrotto la circolazione vitale –
leggi la comunicazione, appunto – che univa
la capacità di pensare l’impossibile alla capacità di praticare il possibile nella prospettiva di
superarlo; abbiamo deciso di contrapporre l’a-
spirazione a creare il nuovo con la necessità di
agire sull’esistente, riducendo il significato di
risorse a ciò che crediamo di avere, che possiamo consumare, a giacimenti, più o meno disponibili, invece che considerarle un prodotto
dell’attività, della creatività umana.
In tutto questo è chiaro che il ruolo della persona è il punto attorno a cui tutto ruota.
E non per un rilancio accorato dell’uomo, ma
perché è la conoscenza il vero motore e al tempo stesso il vero prodotto di ogni processo produttivo, in tutte le sue fasi. La conoscenza che
si mette alla prova diventando progetto, sviluppo, realizzazione, uso di quanto si è prodotto.
La conoscenza è una risorsa molto particolare, perché come si applica, se è veramente tale, produce nuova conoscenza, perché l’uomo,
nell’arco comunque breve della sua vita, vive solo quando riesce a contaminare l’ambiente in cui
opera con la propria vitalità: altrimenti è risucchiato nelle dinamiche di quel progressivo raffreddamento che sembra caratterizzare il divenire
del nostro universo (l’entropia, o morte termica).
E questa risorsa si genera operando sull’architettura profonda della realtà fisica e simbolica, creando rapporti fra elementi della realtà divisi da sempre ma anche, viceversa, riuscendo a scindere aspetti della realtà ritenuti da sempre uniti indissolubilmente per collocarli in trame di rapporti inedite. Dall’economia alla formazione, dalla politica alla socialità. In ogni manifestazione della vita.
Oggi i processi produttivi (ricordo il significato ampio con cui propongo questo termine),
fisici e simbolici, sono così vincolati ad una catena di montaggio predeterminata, fortemente
parcellizzata, frammentata in tanti soggetti a
visione e missione settoriale e non di sistema,
che ha poco senso parlare di una comunicazione orientata alla condivisione della conoscenza. Anche all’interno dei vari settori.
IN•FORMAZIONE
12-2014
16
Basta pensare alla comunicazione organizzativa che struttura gli enti come le persone.
Una situazione di dissipazione delle risorse della conoscenza cui corrisponde, sul fronte
dell’uso di ciò che si è prodotto, e cioè degli utenti, dei cittadini, degli ‘altri’, una modalità d’utilizzo limitata a seguire sceneggiature d’impiego
dei prodotti stessi, qualunque sia la loro natura, massificati, privi di originalità. Una cultura
dell’uso terribilmente standardizzata.
È sotto gli occhi di tutti il fatto che in questi ultimi decenni, mentre si è assistito ad un’esplosione di offerte di prodotti sempre più diversificati, dall’altro canto si è favorita una
progressiva massificazione dei comportamenti
d’uso e alla riduzione d’intelligenza critica in
fase di utilizzo e, conseguente, in fase d’ideazione di prodotti nuovi, più avanzati.
Il che ha permesso di trasformare la grande, crescente varietà dell’offerta ad un’operazione di packaging, di confezione esterna estremamente sofisticata, invitando gli stessi consumatori a farsi il loro prodotto; ma negli aspetti
più superficiali, esteriori. Fatevi la cover che volete, al resto ci pensiamo noi. Intanto che il numero dei confezionamenti è esponenzialmente cresciuto, si andava rafforzando il regime di
oligopolio.
Questa strategia, mirata a uniformare i prodotti mentre diversificava l’offerta in termini di
marketing, fingeva la varietà della produzione
sul piano del linguaggio: un prodotto presentato in tante forme. Uno spostamento d’attenzione e di cura dal prodotto al linguaggio d’interazione, all’interfaccia. Una strategia diversiva,
per allontanare l’intelligenza dell’utenza dalla valutazione del prodotto, risultata vincente.
Ma, soprattutto, si è avviato un immenso processo di formazione, di educazione ad
un modello di comunicazione che si perde nel
ricco gioco delle possibilità combinatorie della
forma ma che non entra nel merito dei contenuti del sistema profondo, invisibile dei prodotti. Che non genera conoscenza.
La comunicazione come strumento per
frammentare e indurre a divagare, e non per
conoscere, e quindi giudicare, il valore effettivo d’uso di un prodotto. Una scelta che sta funzionando molto bene, poiché gioca sull’illusione dell’infinita personalizzazione del prodotto,
dell’adattamento ai bisogni dei singoli. Un narcisismo, un’illusione, che oggi trova molto ascolto:
dai centri commerciali in tutte le loro forme della Grande Distribuzione Organizzata all’offerta
formativa della scuola e dell’università. L’importante è tenere i cittadini lontani dalle grammatiche culturali, sociali, economiche, politiche profonde della realtà, le quali restano così al sicuro
in mano dei pochi. Cambia l’interazione ma non
il senso sociale della macchina.
Un sistema unico con grande varietà
di combinazioni
Insomma da una parte un’illusoria proposta di prodotti personalizzati, sostenuta da
un’offerta del mercato progressivamente livellata, in nome di una globalizzazione identificata con l’inevitabile scomparsa delle diversità; dall’altra parte, per quanto riguarda l’utilizzo dei prodotti, una crescente incapacità di valutazione della loro natura sostanziale, del loro valore intrinseco, profondo, per conoscere il
quale si richiede capacità di divergenza rispetto alle assordanti “avvertenze per l’uso” (dalla
carta al passaparola mediatico, ai vari social),
una solida cultura della sperimentazione, una
disposizione critica, ad iniziare dall’analisi della natura reale dei nostri bisogni.
La costante – ormai un tormentone – è la
dichiarazione da parte dei produttori (da quelli
Editoriale
17
del ragù preconfezionato a quelli dei libri di testo – digitali e non –: l’accostamento pare, forse, troppo superficiale?) di essere mossi dal desiderio di evitare all’utenza qualsiasi sforzo, di
volersi caricare di ogni fastidio per favorire al
massimo il piacere, il gioco, all’insegna di una
leggerezza che elimina il superfluo, l’inutilità,
rendendo tutto più amichevole.
L’offerta che ci libera da fatiche superflue
è, naturalmente, benvenuta: dalla burocrazia
all’uso di tecnologie di ultima generazione.
Ma accanto a fatiche che sfiancano ogni libertà e piacere, che ci fanno perdere la fiducia
nella relazione con gli altri, da cui vorremmo
fuggire come da una terribile trappola, ci sono impegni anche più pesanti che, seppure segnati da scoramenti e angosce non meno devastanti delle precedenti, continuiamo a sostenere, vogliamo affrontare. Perché mossi dalla fiducia, dalla convinzione che già mentre li stiamo sostenendo siamo liberi, perché continuiamo a sceglierli in ogni momento, anche quando diciamo “questa basta...”.
Rappresentano la fatica di essere liberi: la
materia prima che fin da quando siamo piccoli
abbiamo il diritto di apprendere.
Sono fatiche nostre, fisiche e intellettuali sì,
ma nostre; sono cose che non vanno bene così
come sono, vanno migliorate e anche trasformate radicalmente, ma sono nostre, e solo nostre, perché nostra è la convinzione che se le
affrontiamo potremo migliorarle per noi e per
gli altri. Sono le battaglie che decidiamo di fare
con noi stessi, con gli altri, con il sistema che ci
rappresenta. Sono le sofferenze – perché tali sono – che hanno una Storia, un futuro: quello di
dare la dignità che trova colui che liberamente
decide di non fuggire dal sistema che le esprime ma di immergervisi per conoscerne la natura, le dinamiche, i soggetti, la cultura e così poterlo cambiare.
Non si è mai soli in queste fatiche, qualunque sia la loro natura: dalla ricerca di un senso
da dare ad un acquisto – piccolo o grande che
sia – fino ad affrontare le ragioni di un lungo
curricolo scolastico. Fino a pretendere di capire, senza provare vergogna nel fare domande e
nel manifestare le nostre difficoltà.
Vogliamo essere noi a decidere cosa è inutile, dannoso e cosa non lo è. Solo avendo la libertà di poterlo fare possiamo appassionarci.
Nella vita lavorativa così come nei nostri
percorsi formativi, nell’esercitare in generale la
nostra cittadinanza, nelle sue forme pubbliche
e private, gran parte della nostra libertà consiste nel poter scegliere cosa merita fatica, sofferenza a volte, certo impegno anche duro; significa voler correre il rischio di sbagliare, con gli
inevitabili danni che possono seguire, per comprendere. Ogni delega in questo senso, se non
ben valutata, può compromettere la nostra dignità di persone e minare i fondamenti della
democrazia: il soddisfacimento di un bisogno
non indotto, ci insegna la Storia, arriva alla fine, dopo molta fatica. Anche quella di arrivare
alla conclusione che tutto è sbagliato e che va
rifatto radicalmente.
Solo così sapremo come dovrà essere il nostro futuro: avendo attraversato per libera scelta il nostro presente con tutti i sensi ben aperti.
Costi quello che costi.
Una cultura dell’uso povera rispecchia una
cultura altrettanto povera dell’ideazione, della
progettazione, della produzione.
La varietà che ci assedia con i suoi affollamenti dedalici, la foresta inestricabile di segnali che ci obbliga, se si vuole sopravvivere, a seguire percorsi ben precostituiti e imbarazzanti
per l’assenza di qualsiasi distintività sostanziale, in evidente contraddizione con quanto questo sistema predica in termini di valore della
diversità, tutta questa apparente abbondanza
IN•FORMAZIONE
12-2014
18
non fa altro che nascondere la crescente banalizzazione dell’offerta e della domanda.
La società delle reti, quindi, stando alla cultura che la dirige e che ne orienta l’architettura, appare piuttosto concepita per sostenere
una rete di solitudini, dove lo sforzo di favorire il dilagante narcisismo della nostra società è
funzionale a nascondere la miseria qualitativa
e quantitativa del sistema stesso e, specialmente, a indebolire al massimo le potenziali condizioni di eccezionale progresso sociale che il Novecento, pur pagando prezzi disumani, era riuscito a creare.
Strategicamente questo è potuto accadere
valorizzando una comunicazione non generativa di conoscenza, ma gerarchica, trasmissiva
ed emulativa tendente a indebolire le potenzialità partecipative dei soggetti coinvolti. Tutti. A
tutti i livelli e in tutti gli ambiti: sociali, economici, politici.
Per questo la scuola è scuola di comunicazione, poiché la comunicazione formativa che
è adottata educa, prima di tutto, ad un modello comunicativo, contribuendo a tramandarlo
e a rafforzarlo.
Il fenomeno contro natura dell’energia
della conoscenza
In un tempo in cui si denuncia da più parti l’insostenibilità dell’attuale modalità di sviluppo ambientale, economico e sociale, appare emblematico che si continui a sottovalutare il semplice ma fondamentale fatto – appena
ricordato – che la conoscenza, e la sua relativa economia, è un’energia che ha l’incredibile
capacità di creare nuova energia, nel senso che
con l’uso non si consuma ma si incrementa: un
paradosso che ancora sta aspettando un’analisi adeguatamente approfondita.
Il fenomeno, come tanti altri che periodicamente sono riscoperti, non è così nuovo, viene
da molto lontano. Già Erodoto, V sec. A.C., sottolineava la forza di quei popoli – vedi gli Egizi – che si preoccupavano di quello che oggi si
potrebbe definire una sorta di knowledge management, la gestione delle loro conoscenze, a
cominciare dalla memoria.
Attualmente, però, il progresso tecnico e
tecnologico ha regalato all’uomo la capacità di
trasformare la realtà nelle sue componenti più
nano e più macro, disaggregando e riaggregando la materia fisica e quella simbolica come ritiene meglio, utilizzando processi di automazione della comunicazione e dell’informazione sempre più capillari e incisivi (fino all’invasività, con tutti i rischi che questo comporta),
capaci di gestire quantità di informazioni che
nessuna mente e psiche umana ha mai potuto controllare prima; né potrebbe fare oggi altrimenti.
Questo scenario ha dato luogo a processi
generativi così potenti che è evidente come il
vero problema oggi non sia quello delle risorse, ma quale progetto sociale, culturale, politico, economico si intende realizzare.
La deriva che stiamo vivendo, più esplicitamente, non è dovuta a mancanza di risorse, ma
all’assenza di un progetto – e quindi di una comunicazione adeguata, e cioè generativa di conoscenza – che organizzi queste risorse in una
visione e in una missione condivisa e partecipata, e non sempre più elitaria, che a mano a
mano che si va definendo avrà modo di trovare le risorse necessarie creandone delle nuove.
Sia a livello di piccoli che di grandi, grandissimi gruppi. Sia a livello di esperienza interiore
dei vari soggetti.
La buona comunicazione è sempre e comunque sostenibile, perché crea risorse: non le
consuma.
Editoriale
19
Migliaia di anni di storia hanno creato le
condizioni perché tutto ciò accadesse. Eppure
sembra che ci si sia dimenticati di questo, e ci
accaniamo, in guerre per bande, gli uni contro
gli altri armati, cercando di consumare gelosamente, in maniera esclusiva, il nostro capitale
di saperi, di competenze, di abilità con la stessa
logica di rapina con cui consumiamo le risorse naturali. Nell’attuale processo di mondializzazione, cioè, accanto alla cultura di massa che
lo esprime come fenomeno globalmente condiviso, persiste – e la crisi la sta rafforzando ulteriormente – un’organizzazione della conoscenza molto tribale.
La conoscenza, anche quando è consolidata, è sempre il risultato e il motore di un processo generativo di ulteriore conoscenza; se è conoscenza e non una protesi umana delle catene
di montaggio, di vecchia o nuova generazione.
A tutte le età. Il buon educatore mostra ai propri allievi di riappropriarsi sempre di ciò che
sta insegnando loro, prima di tutto legittimando le domande che gli sono poste, e mostrandosi soddisfatto se nascono questioni cui non
sa dare immediata risposta. Lo studio, come gli
esami, non finisce mai, se è vero studio; poiché
il sapere e la sua applicazione sono tutt’uno. La
conoscenza, come si sa, in una classe non la fa
il solo docente ma tutta la comunità, nella fondamentale distinzione dei rispettivi ruoli.
La ricordata dimensione schizofrenica della nostra cultura che contrappone le cose alle
idee, il sapere al fare, il teorico al pratico, l’applicazione al modello, il nostro mondo interiore a quello esteriore, la mano alla mente che
la muove, riflette una visione della conoscenza legata ad una logica di casta sociale, economica, culturale che sta bloccando, irretendo
l’immenso quanto inedito potenziale che può
esprimere una conoscenza finalmente non solo
condivisa ma generata collettivamente, secon-
do una visione cooperativa e collaborativa. Ad
iniziare dalla scuola.
A tutti i livelli: considerando la scuola
dell’infanzia la palestra fondativa per apprendere questa visione e missione della vita (prima che metodologia), proprio perché viene
prima dell’inevitabile specializzazione disciplinare che alle medie è definitivamente consolidata.
Ma perché questo possa accadere, è necessario lavorare sulla cultura delle relazioni, dei
collegamenti, che intrecciano inscindibilmente
le idee con le cose, il pensiero col fare, sostenendo una modalità d’insegnamento e di apprendimento che si basa sulla conoscenza di contenuti che di volta in volta devono essere ricollocati e ridefiniti rispetto ai bisogni per i quali sono stati evocati: il bisogno di conoscenza,
cioè, comporta sempre una ricerca, e una riscrittura dei contenuti in riferimento alle esigenze che di volta in volta emergono, generandone così di nuovi.
Il succedersi delle generazioni attraverso i
millenni corrisponde ad un succedersi ininterrotto di ‘ri-generazioni’ di conoscenza consolidata e di ‘generazioni’ di nuove conoscenze che
finiscono con il fondersi in quella che noi chiamiamo conoscenza.
L’identità valoriale come strumento
operativo
Ogni sforzo per accumulare la conoscenza,
in una logica di immagazzinamento e di salvaguardia da ciò che ancora non si conosce, sortisce l’effetto di indebolirla, sviluppando modelli culturali, sociali, economici e politici che finiscono presto con inibire ogni comunicazione che sostenga processi di comprensione e di
ricerca.
IN•FORMAZIONE
12-2014
20
La conoscenza, non essendo messa in condizione di rigenerarsi, perdendo cioè il contatto diretto con il divenire della realtà che la mette alla prova rivitalizzandola, tende a regredire,
a spengersi con le conseguenze che storie antiche e recenti ci hanno dimostrato anche in
maniera drammatica. È bastato, basterà poco
per azzerare saperi la cui solidità parrebbe ormai acquisita, insopprimibile. È successo con le
atrocità del Nazismo e del Fascismo e dei paesi cosiddetti del Socialismo reale, delle dittature
dell’America Latina, dell’Asia, dell’Africa. Questa crisi, seppure in maniera molto sommessa,
ribadendo incessantemente il carattere d’eccezionalità dell’attuale emergenza economica
che ‘oggettivamente’ sta sollecitando adeguate
misure d’emergenza, ripropone dinamiche che
pongono le scelte valoriali (prima fra tutte il
primato della conoscenza) in una condizione
di stand by, in attesa di momenti migliori.
Eppure è proprio quando la situazione sta
precipitando che dovremmo ripartire dalla difesa dei valori fondativi della comunità – se ancora li condividiamo –, perché è in quella direzione che dovremmo andare a cercare le risorse che si dice manchino: ad iniziare dalla scuola. Forse non sono le risorse che mancano, ma
la condivisione di un progetto socio-culturale.
I valori non sono un blasone che abbellisce un fare libero di andare nelle direzioni più
diverse, di usare gli strumenti che al momento sembrano quelli di maggiore efficacia pur di
mantenere una posizione di forza ottenuta. I
valori segnano la strada concreta, operativa, da
percorrere, indicano – purché ci si creda – gli
strumenti più idonei da utilizzare sia nei momenti di forza sia – anzi, ancor di più – nei momenti di difficoltà. Sono i valori che armano le
idee, le cose e le persone per rispondere ad una
grave crisi. È l’identità che ci guida nel pensare e nel fare, ad iniziare dal rapporto che si sta-
bilisce fra queste due dimensioni del nostro essere. E se non riesce a farlo bene, significa che
l’abbiamo trattata male quando eravamo forti,
assecondando atteggiamenti che hanno finito
con l’indebolirla.
E non stupisce che, contemporaneamente
alla crisi economica si sia rafforzata una pratica della comunicazione che vuole indebolire
la conoscenza: da qui sono nati i soliti sciacalli, che ingrassano nei momenti di crisi. La conoscenza è come la memoria: è sempre al futuro, anche se esso è talmente vicino da sembrare immediato, presente. E come la memoria vive di relazioni, di collegamenti che la attivano
e la rianimano trasformandola.
Ecco perché la scoperta e messa a sistema
comune di saperi di soggetti diversi, che prima
ignoravano che collaborando, cooperando sul
piano delle loro conoscenze potevano rafforzarsi l’un l’altro ben oltre la consueta logica cumulativa, additiva, fa sì che la comunicazione
metta in moto potenti processi virali di conoscenza che portano i soggetti coinvolti a compiere rilevanti salti di qualità. Che a loro volta creano le condizioni, l’ambiente per riavviare nuovi processi conoscitivi per nuovi soggetti. La conoscenza non genera solo conoscenza,
ma incide anche sulle identità dei soggetti che
mette in relazione migliorandoli.
Perché questo processo di partecipazione
generativa di saperi si possa attivare è indispensabile che esista una forte condivisione della visione e della missione fra i soggetti coinvolti.
Altrimenti ne consegue una perdita progressiva di creatività, di passione conoscitiva, e cioè
di umanità. Come attestano gli infiniti casi di
disaffezione, di noia, di disinteresse: dalle ore,
che diventano interminabili, passate a scuola
fino alle ore di lavoro dove Intenet – quando è
possibile – è sempre più un modo per uscire da
riunioni inconcludenti, da routine prive di sen-
Editoriale
21
so, per nasconderci l’evidenza della mancanza
di un senso.
Un’ulteriore conseguenza dell’errata concezione della conoscenza intesa come repository, come capitale ‘bancario’ di saperi e di pratiche, messo al sicuro in qualche paradiso fiscale e posseduto da una ristretta élite e dalla
relativa cerchia di cortigiani, è l’indebolimento del legame vitale fra ricerca e vita comune,
dove quest’ultima nel migliore dei casi è ridotta
ad area da monitorare, da controllare.
L’esito è che da decenni i saperi popolari,
diffusi, stanno perdendo un ruolo sociale attivo, creativo, critico: la forza di porsi come cultura ‘altra’ rispetto alla cultura ‘alta’. Un processo di omologazione e d’inglobamento topdown i cui danni sono sotto gli occhi di tutti.
Basti vedere quanto sta accadendo nel settore agricolo, là dove la necessaria pianificazione e regolamentazione del territorio non tiene nel dovuto conto secoli di culture contadine
con le conseguenze che sappiamo (ad iniziare dalla crisi idrogeologica per finire alla perdita di personalità e di carattere dei paesaggi).
Oppure cosa sta avvenendo nella scuola,
dove gli studenti se rifiutano di trasformarsi in
ripetitori di quanto ricevono dai docenti – reali
o virtuali che siano – si perdono nei rivoli della dispersione scolastica. Educati da subito alla
tolleranza alla noia che li aspetta là fuori; gestita dai ‘bravi’ con il desiderio di primeggiare
in una gara di aggressivo conformismo, dagli
studenti in difficoltà con la sfida quotidiana di
dimostrare che studiare non serve perché nella
vita contano altre cose: il denaro, le conoscenze
e altre forme di pre-potenza.
Il che vale anche per gli insegnanti: se hanno deciso di aver già studiato e che non c’è più
niente da sapere ma solo da ripetere, testimoniando con il proprio comportamento cosa si
aspettano dai loro studenti.
La comunicazione non è mai un fermo immagine, ma una storia in continuo divenire
prodotta da un reticolo di connessioni e sconnessioni che danno vita a realtà in costante
trasformazione. Un’energia immensa quanto
inarrestabile che può travolgere o può sostenere. Sta a noi decidere se farne uno strumento di
ricerca, di conoscenza, una risorsa per orientare e rinforzare il nostro percorso individuale e
collettivo, oppure lasciarsi trascinare da questa
inenarrabile forza che l’uomo crea con la sua
semplice esistenza in un crescendo che non ha
precedenti nella storia dell’umanità.
Già perché l’uomo, con i suoi processi automatici che, sempre più forti, trattano
e creano contenuti, che rafforzano, a livello
sia fisico che simbolico, la nostra capacità di
comunicare e di s-comunicare tutto e tutti, è
ormai così potentemente generativo nei confronti delle persone e delle cose che pensare
di potere star fuori da questo flusso creativo
– irrefrenabile e troppo spesso fuori controllo, da qui la deriva comunicativa che ci trascina – non è solo inopportuno ma impraticabile.
In questo senso la frase – che la scuola di
Palo Alto ha contribuito a far sì che entrasse nel
senso comune – “è impossibile non comunicare”, indica una verità indiscutibile.
Il punto è cosa si comunica, se si è consapevoli di stare comunicando, e con chi o con cosa
(i dispositivi e i sistemi automatici influenzano
e dirigono i nostri comportamenti comunicativi in maniera ormai fondamentale).
Se è vero che non ci sono contenuti senza relazioni, è altrettanto vero che la trama delle relazioni che collegano i vari contenuti fra loro si pone sempre più come un contenuto a tutti gli effetti. Essere consapevoli di questa trama è essenziale
per governare la propria comunicazione. Il che significa la propria identità comunicativa.
IN•FORMAZIONE
12-2014
22
Questo processo, espansivo, incrementale, d’irrefrenabile costruzione di realtà generata dalla comunicazione, per l’accelerazione
epocale che l’uomo sta dando ai processi d’automazione, ci sta portando in una dimensione
della condizione umana mai sperimentata prima. Indietro non si torna. O si elabora questa
trasformazione antropologica, o non c’è futuro
per la nostra umanità.
Insomma, o la comunicazione è usata come strumento di conoscenza o questa immensa
energia andrà fuori controllo.
I fondamenti e la buona comunicazione
Una buona comunicazione favorisce, quindi, l’espressività e la creatività, responsabilizzando i vari soggetti che coinvolge in un processo che abbia intenti conoscitivi. Gli inevitabili errori, se ben monitorati e condivisi, diventano così degli strumenti di scoperta eccezionali: al contrario, appunto, di quanto avviene
con le macchine che, se sbagliano, causano solo conseguenze tanto più gravi quanto più le
abbiamo delegate a gestirci.
Ma perché l’individuo possa uscire da automatismi – fisici o mentali – subiti passivamente, senza spirito critico, e se ne faccia architetto e stratega, è necessario che abbia introiettato un comportamento organizzativo dove la divergenza dei singoli si configura come una risorsa per l’ente di appartenenza, e non come
pericolosa fonte di disgregazione. E quindi, ancor prima, è necessario che l’architettura della
comunicazione abbia fatto scelte in tale direzione, affidandosi, nell’impresa comune, a valori che esaltano la responsabilità e l’inventiva
dei singoli, purché sviluppate in direzione degli
obiettivi definiti nella missione.
Il che significa costruire un’organizzazione
della comunicazione – qualunque sia l’ambito
socio-economico in cui si esprime – in grado di
far divergere e poi convergere i soggetti coinvolti nella vita di un ente, secondo un movimento
pulsante che va dal centro alla periferia (politica
d’indirizzo) e poi dalla periferia al centro (partecipazione), rafforzando la centralità della mission, dell’identità e della visione di quella comunità, e favorendo la generazione di conoscenza.
Affermare che la comunicazione è tanto più
efficace quanto più rispecchia, nelle sue strategie e nelle sue pratiche, la visione e la missione di un’organizzazione, la sua personalità sociale, contribuendo così a rafforzarla è il punto
da cui bisogna ripartire se si vuole rimettere in
moto la capacità di progetto e di sviluppo della
nostra società, ricostruendo la trama vitale che
deve legare i progetti a breve con quelli a lungo, lunghissimo termine.
In una realtà sociale, economica, politica che necessita anche di forti spinte centrifughe, robuste specializzazioni e settorializzazioni, coraggiose sperimentazioni di nicchia e di
sistema, la condivisione dei fondamenti – valori e obiettivi che sono alla base di un progetto comune – rappresenta l’unica possibilità per
indirizzare e coordinare un’attività variegata e
specializzata, bisognosa di forti radicamenti locali eppure partecipe attiva di dinamiche che
sono e devono essere di portata mondiale.
Per questo la comunicazione, che è sostanziale per l’identità di enti e persone, non può affidarsi a tecniche astrattamente efficienti, funzionanti, espressione di know how comunicativi, più o meno “mercenari” avrebbe detto Machiavelli, parlando di eserciti assoldati da Principi i quali li preferivano ad “arme proprie”.
I fondamenti scaturiscono dalla visione e
dalla missione di un ente, le quali soltanto possono indirizzare le sue varie attività e comandare sulle consulenze specialistiche degli esper-
Editoriale
23
ti di comunicazione ai quali va richiesta una
competenza tecnica che tenga conto della coerenza fra fondamenti identitari e strumenti. E
la stessa cosa vale per l’organizzazione o per la
formazione.
Il che rimanda ai valori – la “virtù” sempre
di machiavelliana memoria – che, ispirando
ogni singola azione della comunicazione, possono ostacolare l’avversa “fortuna”.
Non esiste, quindi, una comunicazione ‘tecnicamente‘ buona, valida in assoluto; né tanto meno tecnologie della comunicazione innovative da adottare a prescindere dall’identità di
chi vuole comunicare. Negli enti così come nelle persone.
In questa prospettiva, l’architettura dei processi di relazione (simbolici e fisici) che danno vita alla comunicazione non può che scaturire dall’interno delle organizzazioni (e delle
persone). Essa, infatti, nasce nel cuore profondo dell’ente; ed è la matrice originaria, seppure incessantemente rivisitata, di tutto il processo produttivo (sempre nell’uso largo che stiamo facendo del termine). È l’energia che, investendo idee e cose in uno scambio continuo,
attraversa e vitalizza tutti e tutto. Solo facendo
così può rigenerare e rafforzare se stessa.
Non c’è soluzione di continuità, quindi, fra
comunicazione interna e comunicazione esterna. Ogni fase della comunicazione di un ente, ogni testo comunicativo che esso produce, è
sempre bivalente: genera sia processi comunicativi interni che processi comunicativi esterni.
È solo sulla base di un suo maggiore o minore effetto all’interno o all’esterno dell’ente che
si tende a definirlo afferente alla comunicazione interna o esterna. Una dinamica che vale
ugualmente per gli individui.
Una buona organizzazione valorizza questa pervasività, questa ubiquità della comunicazione, questa sua polivalenza al fine di po-
tenziare il maggior numero possibile di processi generativi di conoscenza interni ed esterni,
favorendo al massimo una trama di connessioni fra i primi e i secondi. Una trama che poi altro non sarebbe che la sostanza dell’habitat, e
quindi dell’ecosistema comunicativo di riferimento in cui organizzazioni e persone operano,
un connubio fra ambiente ed esperienze che, in
un ininterrotto intreccio di influenze reciproche, danno la cifra della stessa comunicazione. Quanto, cioè, si comunichi per comprendere (proponendo un progetto e rischiandone la
verifica nel confronto con il mondo esterno) e
quanto per evitare questa sperimentazione dei
propri saperi, o supposti tali.
C’è un tertium?...
Insomma: la comunicazione di un soggetto
(sia esso un ente, un suo settore, una sola persona oppure un gruppo di individui etc.) è produzione di realtà come risulta da azioni provenienti da TRE ambiti distinti quanto fortemente correlati e ciascuno imprescindibile dagli altri due:
UNO. Quello dove l’azione comunicativa è
caratterizzata da una netta predominanza di
azioni interne (IN). Unicamente “predominanza”, perché non ha senso parlare – come già rilevato – di comunicazione soltanto interna, o
interiore;
DUE. Quello dove l’azione comunicativa si
svolge essenzialmente verso l’esterno dell’organizzazione (OUT).
Il fatto che nelle azioni di un ente o di un
individuo ci sia, a seconda del momento, una
prevalenza, e non una presenza esclusiva, di relazioni o verso l’interno del processo produttivo o verso il mondo esterno, ad iniziare da coloro per i quali questi beni e servizi sono stati re-
IN•FORMAZIONE
12-2014
24
alizzati per finire con stakeholder di vario tipo,
è cosa che sottolinea come sia impossibile dividere in segmenti autonomi un flusso costante
di pensieri e di azioni che portano dal pensiero (l’ideazione) alla trasformazione della realtà (uso) in fasi distinte e del tutto autonome rispetto alle altre.
Ogni processo produttivo – lo si è rilevato precedentemente, al paragrafo 4, a proposito dell’analisi, ma può essere utile ricordarlo –
è un incessante andare avanti e indietro, procedere per riprendere quanto già realizzato e correggerlo, con movimenti che non hanno niente di lineare se non il fatto di collocarsi lungo
l’asse del tempo.
I tentativi di formalizzare questo processo
di sviluppo di un intero sistema in momenti distinti (ideazione, progettazione, realizzazione,
uso etc.) non deve confondere circa la natura di
quanto accade nella realtà che si presenta come una rete di relazioni che legano l’ideazione all’uso del prodotto secondo una trama di
collegamenti che si attivano e disattivano (fisicamente o simbolicamente) a seconda del momento in un divenire storico.
Questa cosa, ribadita da esperti e studiosi,
resta però sullo sfondo, ancora ridotta a scenario teorico, faticando, nella stragrande maggioranza dei casi, a trasformarsi in modus vivendi e in modus operandi quotidiani capaci di
agire secondo un modello di comunicazione
concretamente diverso dal passato.
E questo accade perché è ancora fortissima la necessità di pensare e di agire in termini
di fasi in rigida successione. L’azione quotidiana, viceversa, ci suggerisce uno scenario ben diverso: il succedersi delle azioni, infatti, pur mostrando un indubbio verso dominante, per cui,
per esempio, l’ideazione precede la progettazione, e questa la realizzazione che a sua volta precede l’uso, lascia tracciati tutt’altro che lineari,
rivelando un continuo andare avanti e indietro
rispetto ad una successione formalmente definita: la progettazione andando avanti non può
non retroagire sull’ideazione, mentre la realizzazione continuamente retroagisce sulla progettazione o sull’ideazione stessa.
Per non affrontare la questione centrale del
rapporto che c’è o ci dovrebbe essere fra l’uso effettivo di un prodotto e la sua ideazione. A questo proposito, negli ultimi anni, con l’affermarsi
delle tecnologie della comunicazione a forte ispirazione interattiva, si è assistito ad una crescente quanto importante attenzione verso gli aspetti organizzativi della comunicazione in una prospettiva di sostanziale superamento delle rigide distinzioni fra comunicazione interna e comunicazione esterna, proprio nel tentativo di ricollocare la conoscenza che emergeva dal valore dell’uso effettivo del prodotto all’interno della
catena di ideazione-produzione.
La comunicazione organizzativa – pur nella varietà delle sue interpretazioni – è stata
proposta come un ambito assai concreto dove,
nella indiscutibile distinzione dei ruoli e dei bisogni, interagiscono fra loro i soggetti che sono portatori di interessi e di obiettivi comuni.
... tertium datur
L’idea che la caratterizza la comunicazione organizzativa è quella di un’apertura degli
enti tutti (dalle aziende alle istituzioni, alle organizzazioni non profit) verso dinamiche comunicative di forte coinvolgimento e partecipazione.
Questa ridefinizione del rapporto fra organizzazione e comunicazione è fondamentale tanto che il terzo ambito comunicativo, qui
di seguito proposto, vuole indicare la necessità
di un radicale ripensamento, in ogni organiz-
Editoriale
25
zazione, delle grammatiche che regolano queste connessioni fra le azioni rivolte all’interno
e quelle orientate principalmente verso l’esterno; siano esse fisiche o simboliche. La necessità,
quindi, di recuperare una strategia identitaria,
facendo piazza pulita di una specie di metafisica delle architetture dell’informazione e della
comunicazione che tende a presentare un’architettura, se valida in un determinato contesto culturale, sociale, economico, politico, valida per tutti i soggetti.
Se, come si sta ripetendo, il tessuto connettivo della comunicazione deve essere fortemente identitario, una buona comunicazione
sarà possibile solo facendo forza sulla originaria specificità staminale del soggetto che vuole comunicare, in modo da favorire il generarsi di un tessuto comunicativo adeguato e quindi efficace, così da tessere una trama di relazioni fra tutte le componenti interessate, interne ed esterne.
Ai due ambiti, perciò, individuati nel paragrafo precedente se ne aggiunge un altro:
TRE. L’ambito comunicativo in cui si analizza, si progetta, si sviluppa e si realizza l’intreccio delle relazioni che devono orientare e
sostenere le reciprocità fra tutte le azioni di un
soggetto comunicante, ad iniziare dai collegamenti che uniscono quelle prevalentemente a
cifra interna e quelle a prevalenza esterna.
Questo terzo ambito ha i suoi testi, che sono espressione di grammatiche precise quanto anche diversissime fra loro. Imparare a riconoscerle, leggerle, progettarle è fondamentale.
Davanti a questo territorio costituito da
terre di mezzo immense, che tutto avvolgono, che collegano-scollegano tutto si può legittimamente affermare che: tertium datur,
ed è l’ambiente costituito dall’infinita rete di
collegamenti diretti e indiretti che mettono
in comunicazione fra loro le attività di quel
soggetto. Un tessuto in continua trasformazione.
È una dimensione poco riconoscibile a livello macrostrutturale, eppure ad essa fanno riferimento tutte le relazioni sensibili di tutte le
componenti di una realtà comunicante. Queste ultime danno vita alla sua esistenza, ma la
caratteristica di questo tertium influisce a sua
volta in maniera determinante sulle relazioni
delle parti del sistema che lo generano.
Il tessuto delle relazioni è sempre stato un
soggetto sociale fortissimo che gli uomini tessevano e che tesseva la stoffa delle comunità e
degli individui. L’avvento e il successivo proliferare, fino all’attuale assuefazione da parte nostra che ormai li consideriamo parte della nostra vita, dei dispositivi meccanici a funzionamento automatico ha soltanto reso più percepibile l’infinito mondo delle relazioni, progettate
o accidentali che siano, e delle loro complesse
meccaniche: programmate e non, dagli effetti
prevedibili e non, ma indispensabili in aspetti
della nostra vita importantissimi.
Una venuta in primo piano della testualità delle relazioni e della loro grammatica che,
mentre si imponeva come soggetto sociale a tutti
gli effetti, ha sollevato il problema della loro autonomia rispetto alla nostra soggettività: da qui
la storia degli automi, dagli studi e gli artefatti di
Erone di Alessandria fino alla robotica di oggi,
ai sistemi informatici, all’intelligenza artificiale,
alla discussa cibernetica che sta cercando tutti i
punti di contatto possibili fra dimensione artificiale, simbolica, e quella fisica; fra esseri viventi
e macchine. Fino al fenomeno del transumanesimo e alle sue molte ombre.
Un settore della ricerca questo sull’avvicinamento in corso fra elaborazione simbolica
e manipolazione fisica che non a caso vede il
convergere di discipline tradizionalmente tenute distinte come la fisica, l’economia, l’ingegne-
IN•FORMAZIONE
12-2014
26
ria, l’antropologia, la biologia, la sociologia, la
biologia, la psicologia, la matematica, la filosofia, la glottologia.
Un fenomeno di rilevanza immensa e d’indiscutibile forza innovativa, sotto ogni aspetto,
che però, per esprimere tutte le sue potenzialità
dovrebbe piuttosto concentrarsi su come liberare le immense risorse di cui è portatore l’essere umano così come è, lavorando sull’ambiente in cui opera, prima di immaginare strumentazioni meravigliose che vogliono trasformarlo.
L’energia umana, prima che potenziata, va
riconosciuta e messa nella condizione di esprimersi, va liberata, per avviare finalmente un
salto in un futuro che nemmeno possiamo immaginare.
Potente meraviglia dei processi,
ma debole analisi dei risultati
Nello specifico della comunicazione di enti
o persone, la trama delle relazioni, quindi, più
o meno tecnologicamente mediata, non si pone
come una zona intermedia, prossimale secondo
una successione spazio-temporale che vedrebbe, per esempio, per un’impresa, a livello macro strutturale, la comunicazione interna trasformarsi progressivamente in quella esterna;
e, ovviamente, viceversa. Una specie di zona aurorale o vespertina che segna la fine dell’una e
l’inizio dell’altra. Non è neppure una zona ristretta di confine, che indica la fine di un territorio e l’inizio di un altro. La sua natura non è
ascrivibile a logiche sequenziali o seriali di vecchia o nuova generazione.
Si tratta, viceversa, di una dimensione dei
processi comunicativi che cominciamo solo
adesso a indagare, anche se la usiamo da sempre, costituita da un’infinità di relazioni che collegano ogni componente interna ad altre com-
ponenti interne e quella esterna ad altre componenti esterne, ma soprattutto che dirige interazioni fra unità o sottosistemi interni e unità o
sottosistemi esterni. Cambiando il sistema di relazioni cambiano anche le componenti interne
od esterne che vi sono più direttamente collegate.
La natura di questa terza dimensione della
comunicazione è non meno fondamentale delle altre due, dal momento che indica la scelta
strategica adottata per tutto il sistema comunicativo.
È un sistema che opera su infinite variabili, endogene ed esogene, emergenti da incommensurabili sottosistemi di relazioni, attivando e disattivando un’incalcolabile quantità di
collegamenti fra elementi simbolici ed elementi fisici; una dimensione della realtà che ormai
gli uomini riescono a progettare e ad amministrare solo facendo ricorso a dispositivi che gestiscono processi automatici capaci di incidere
sulle persone e sulle cose.
Questa dimensione operativa sta attraversando, con il crescente affermarsi dei calcolatori nella vita quotidiana delle persone, una fase
molto delicata e, per molti aspetti, inquietante.
Perché, quanto più riusciamo a creare meccanismi che processano il simbolico e il fisico in maniera automatica, mettendoci nella condizione
di progettare e di creare realtà sociali, economiche, politiche irrealizzabili solo qualche decennio fa, tanto più sembra indebolirsi la nostra capacità di progettazione, di controllo, di governo
di questi processi automatizzati di connessione/
sconnessione: insomma di relazione.
Stiamo diventando sempre più spettatori e
meno attori, il che di per sé non sarebbe grave se non fosse che siamo al centro di un processo d’innovazione mai sperimentato prima
dall’uomo, che richiederebbe accanto allo stupore un’assunzione di responsabilità nel governarne il processo.
Editoriale
27
L’innovazione tecnologica, ma non solo quella, è per definizione sorprendente. Non
a caso fa parte di una filiera che va dalla scoperta scientifica, all’invenzione fino alla diffusione. Nasce da bisogni e aspettative reali ma
quando è veramente tale sconcerta, confonde
anche chi ne è artefice. Simile alle opere d’arte finisce con lo sbigottire i suoi stessi creatori
che sono i primi a rendersi conto che presenta aspetti anche fondamentali da loro non previsti, non progettati, da esplorare e da capire.
Che una volta creata, l’opera è tanto più artistica quanto più appartiene al mondo e in questo disseminarsi si ricrea e si rigenera oltre ogni
possibile programmazione.
Entusiasma, quindi, ma anche intimorisce,
fino ad impaurire. L’innovazione – quando è
tale – non è mai un prodotto soltanto; è anche
e sempre un processo che nasce e che, pur trovando nella storia che lo ha preceduto un terreno fertile, la sua stessa ragion d’essere, genera
qualche cosa che prima non c’era. Rappresenta un salto di sistema, culturale e sociale, oltre
che economico e politico.
E l’accelerazione che stiamo vivendo con
le possibilità tecnologiche degli ultimi decenni, legate al progressivo avvicinarsi del simbolico (tramite il numerico) al fisico tramite la miniaturizzazione dei componenti dei calcolatori,
contribuisce a dare al momento che viviamo –
l’Internet delle cose ne è solo un pallido inizio
– un’aura di eccezionalità, portandoci a pensare che siamo giunti davanti ad una svolta antropologica.
Mentre sono state esigenze e scelte di ordine etico, culturale, sociale e politico a spingere
l’uomo – specie dopo la seconda Guerra Mondiale che aveva destrutturato l’intero pianeta –
a creare strumenti che riuscissero a riprogettare la realtà, dai suoi aspetti nano a quelli macro. E via via che l’uomo riusciva a penetrare
dentro i meccanismi più nascosti della realtà, a
conoscerne le architetture e a modificarle, quegli stessi strumenti hanno assunto un valore in
assoluto. È accaduto così che il loro funzionamento sia stato sempre più ammirato in termini di funzionamento astratto, prescindendo
dalla valutazione funzionale, giudicando quindi i risultati che quei processi invisibili ci proponevano.
La fascinazione dei processi automatici,
il fatto che poche azioni e sempre più semplici compiute dall’uomo possano dare luogo a
processi nascosti e misteriosi anche per chi è
in grado di scriverne i relativi algoritmi, sorprendendo con risultati inaspettati quanto altrimenti impossibili, ha sempre più scardinato l’analisi critica degli effetti che quegli strumenti creano e la nostra capacità progettuale.
Confondere, come si tende sempre più a fare, la meraviglia per ciò che i processi automatici riescono a realizzare, superando e sbalordendo i limiti dei nostri sensi, con la nostra facoltà d’immaginazione, con la capacità di aspirare all’impossibile, di andare oltre il prevedibile e il programmabile, è il problema che l’uomo ha oggi davanti a sé nel relazionarsi con i
potentissimi meccanismi automatici di cui dispone.
Perché, è cosa ottima esercitare la nostra
immaginazione per cercare di capire come usare le macchine che creiamo, esplorarne le possibilità misteriose che ci offrono: l’innovazione è qualcosa che riusciamo a fare anche nostro malgrado, e quando si verifica è bellissimo
gettarvisi dentro per capirne le potenzialità, il
valore che essa rappresenta per andare in direzione di un mondo inedito, tutto da costruire. E
le nuove tecnologie non c’è dubbio che rappresentino questa occasione.
Ma è cosa ancora migliore ritrovare la passione, la voglia di immaginare un mondo che
IN•FORMAZIONE
12-2014
28
ancora non c’è, recuperando il valore della visione e della missione del nostro pensare e agire, e forti di un progetto dettato dall’ambizione
di far progredire la condizione spirituale e materiale di tutti gli uomini, inventare macchine
che ci aiutino a realizzarlo.
La nostra umanità è ancora così povera di
umanità. La crisi presente la sta ulteriormente impoverendo, riproponendo ingiustizie e diseguaglianze che solo qualche decennio fa
avremmo immaginato improbabili nei termini attuali.
I rapporti internazionali – sia che a parlare sia la Banca Mondiale o il Fondo Monetario
Internazionale o l’OCSE o Forbes o il prestigioso Credit Suisse o qualche Ong – ribadiscono lo
stesso punto: la ricchezza è in mano a un numero sempre più piccolo di persone. Il numero
di persone che vivono in paesi dove la diseguaglianza negli ultimi decenni è aumentata rappresenta ormai oltre il 70%, mentre è difficile
dimenticare le parole di Amartya Sen secondo
cui una persona che non sa leggere e scrivere né conosce le nozioni fondamentali di calcolo (al di là dell’uso che è stato fatto dai paesi
dominanti dell’alfabetizzazione, proposta come
abilità piuttosto che come prassi sociale) è una
persona cui è successo qualche cosa di terribile.
Come non chiedersi, davanti a questo scenario, come sia possibile che tanta forza meccanica capace di creare tanta realtà stia producendo effetti di questo genere? O se non li produce direttamente, certo si sta rivelando incapace di affrontarli e di risolverli.
Ma questi meccanismi relazionali automatizzati sono stati realizzati per costruire una comunicazione fra uomini e realtà che vada nella direzione di sconfiggere le attuali ingiustizie
sociali, culturali, economiche o per rafforzarle?
Quando si esplora l’innovazione dobbiamo
chiederci non cosa stiamo cercando ma a cosa
deve servire quello che stiamo cercando; quale
è il progetto sociale, l’idea stessa di società che
indirizza la nostra sperimentazione e ricerca.
Digitale naturale, digitale informatico
Certamente l’uomo non ha un buon rapporto con quell’immensa forza.
Ne è al tempo stesso affascinato e intimorito. Si sta perdendo o in amletiche alternative (usare le ICT è bene o male?) o in tifoserie
appassionate (le nuove tecnologie sono l’Innovazione o sono il Male camuffato da package translucido?) o in alternative ultimative (il
mondo social cancella la socialità vera o costruisce la nuova socialità, sconfiggendo i vecchi limiti e le radicate logiche di potere?). E si
potrebbe continuare.
In questo scenario si sta affermando l’idea
che incidere, trasformare, riscrivere la realtà sia
sempre meno un progetto culturale, sociale, politico, economico, bensì tecnologico. Sempre più
una strategia di applicazione, di personalizzazione, di localizzazione degli strumenti che di per sé
risultano validi in tutti i contesti, indipendentemente da vision e mission; dall’identità, dai valori che muovono chi li usa. L’autopoiesi dei sistemi a forte matrice automatica sta emergendo
cioè sempre più come il progetto vero e proprio.
Prima s’inventa e poi ci si chiede come
poter usare quello che si è inventato, finendo
così, troppe volte, con il creare nuovi bisogni
per soddisfare i quali serve, guarda caso, quanto prodotto.
La domanda cui oggi dobbiamo urgentemente dare una risposta non è se dobbiamo
affidarci ad elaboratori elettronici – negarne
l’opportunità sarebbe come cancellare la nostra storia –, ma quali sono le grammatiche valoriali, sociali, culturali che sostengono le loro
Editoriale
29
architetture sempre più in prima linea nella gestione della nostra vita, individuale e collettiva.
Le banche dati, cioè, hanno un’anima: quella
di coloro che le hanno progettate e realizzate. I
valori che hanno ispirato la scrittura della loro testualità – di cui non si parla mai, se non in
termini di correttezza formale, funzionale –, a
quale visione sociale ed economica facevano riferimento? E quindi verso quale modello sociale e culturale il loro uso ci sta spingendo?
I dati sono espressione e generatori di testualità sempre molto orientate in termini valoriali. Le loro strutture e i relativi processi relazionali privilegiano sempre una visione delle
relazioni umane rispetto ad altre: lo sappiamo?
Ce ne ricordiamo quando chiediamo a questi
sistemi di fare ciò che a noi mai riuscirebbe?
Quale rapporto abbiamo con i tecnici della comunicazione e dell’informazione?
Il problema, cioè, che abbiamo davanti –
al di fuori di ogni marketing ideologico – è un
problema di conoscenza, perché è ancora tutta da studiare la storia di questi meravigliosi ambienti dove le relazioni dei nostri saperi
e delle nostre competenze attraversano trattamenti automatici a volte salvifici (si pensi alla
chirurgia in realtà aumentata o alla semplice
possibilità di viaggiare in un cielo affollato oltre l’inverosimile da aerei che si spostano a velocità altissime), a volte devastanti (si veda le
forme di addiction che stanno scatenando: ormai non sono più rare le richieste di consulenza sulla comunicazione mirate e disintossicare le organizzazioni da un uso improprio delle nuove tecnologie nella comunicazione interna ed esterna).
Così come è tutta da capire la Storia delle politiche delle ICT, delle loro economie, dei
loro linguaggi e soprattutto dei loro contenuti. Leggere, organizzare la realtà perché un sistema automatico la possa processare automa-
ticamente; i dati di conoscenza che quindi ne
emergono e su cui noi basiamo le nostre azioni individuali o collettive, è oggi come non mai
un mondo da conoscere.
Sono tempi questi dove, corrispettivamente alla crescita esponenziale delle possibilità
dell’uomo di agire sul suo mondo interiore ed
esteriore, si sono ingigantite le responsabilità di
scelte che, in forza dei processi di automazione,
informatici e non, hanno – non possono non
avere – effetti a livello planetario.
Il processo di mondializzazione, fatto di
continue trasformazioni di relazioni e collegamenti, di dissoluzione di ambienti esistenti e
di creazione di nuovi, prodotto dall’ibridazione
incessante di persone, cose, idee, simboli, ha subito un’accelerazione tale, negli ultimi due secoli, e una trasformazione così marcata, ad iniziare dalla seconda metà del Novecento fino ad
oggi, da indurre a parlare di un salto di sistema epocale nella storia del rapporto fra uomo e
ambiente, sia fisico che simbolico; salto che pare essere ben più radicale dell’avvicendarsi di
fasi paradigmatiche.
Ma il cuore pulsante di questo salto di sistema è stato e sempre più sarà l’imprescindibilità di interfacciarsi costantemente e inconsapevolmente con sistemi automatici di trattamento dei dati, sempre più invisibili perché sempre
più invasivi, più big.
Davanti ad un’Internet che ormai non collega e scollega fra di loro solo i simboli delle cose, inventandone dei nuovi, ma opera direttamente sugli atomi delle cose stesse e delle persone, è facile comprendere che stiamo entrando in una dimensione della comunicazione totalmente inedita.
La ricerca dell’uomo di agire con il pensiero sulle cose, si sa, viene da molto lontano: basti ricordare quanto Galilei scriveva nel XVII a
proposito di “questo grandissimo libro che con-
IN•FORMAZIONE
12-2014
30
tinuamente ci sta aperto innanzi a gli occhi
(io dico l’universo)”, spiegando che aveva una
sua lingua, la “matematica”, e che era necessario imparare a leggerla se si voleva scrivere in
quella lingua: e cioè se si voleva passare da lettori a scrittori del mondo.
Eppure, mai, prima di oggi, era accaduto
nella Storia che la dimensione simbolica della
attività umana arrivasse così vicino ad interagire direttamente con quella fisica, con la conseguente diminuzione della mediazione umana, costretta a delegare tanta forza, non soltanto più rappresentativa, virtuale, della realtà ma
concretamente fattiva sulla realtà, a processi
meccanici automatizzati.
Il tempo, appunto, della sperimentazione sulla realtà attraverso la rappresentazione,
il virtuale, sta rapidamente cedendo il passo al
tempo in cui quanto si immagina potrà sempre
più sperimentare le proprie visioni agendo direttamente sulle cose, dando vita ad una cultura della sperimentazione paradigmaticamente
diversa dal passato. Stiamo ormai scrivendo direttamente con le cose.
La mediazione simbolica prossima alla testualità mentale dell’uomo sta rapidamente cedendo il passo alla mediazione delle cose reali,
mentre il terreno che divide pensiero e realtà si
sta rapidamente accorciando e sta andando in
una direzione dove pensare sarà sempre più fare: qualcosa di cui le stampanti 3D, che si ora
stanno diffondendo, indica solo l’inizio.
Ecco allora emergere prepotentemente la
questione del primato del pensiero sugli strumenti, dei valori identitari che hanno prodotto
le soluzioni tecniche. Specialmente della visione, della missione su cui costruire quel tessuto
di relazioni che portano ad agire sulla realtà.
Il primato cioè di un’ideazione, di una
progettazione che devono governare le cose,
avendo fiducia che le cose non deludono mai,
anche quando avessimo sbagliato tutto, purché restino parte del progetto stesso e continuino a comunicare con noi, a generare conoscenza con noi.
Ci aspetta, cioè, il compito di insegnare ai
nostri prodotti cosa sia la conoscenza. Un impegno arduo se noi siamo i primi ad usare la
comunicazione con altri obiettivi. Eppure, dobbiamo, per ragioni di sopravvivenza, tornare,
iniziare a “seguir virtute e canoscenza”, per riprendere la grande verità detta così semplicemente da Dante: è l’unico modo per essere sempre meno “bruti”.
Il potere di pensare le nostre idee direttamente attraverso le cose ci porterà a sfuggire
dalla realtà o ci spingerà a cercarla come mai
fino ad oggi ci era riuscito di fare? Ci solleciterà
a chiuderci nella scatola nera delle illusioni o
ci appassionerà a pensare che si può leggere e
ri-scrivere il mondo?
Senza esagerazioni, siamo prossimi alla
manipolazione del DNA del mondo che noi abbiamo conosciuto, sotto tutti i profili, culturali, sociali, economici, politici. Il che, ricordando le parole di Leopardi, sarà solo un bene se si
riuscirà, seppure gradualmente, a riequilibrare nella Natura il rapporto fra il ruolo che essa
mostra di avere di madre (“di parto”) e quello
che rivela poi di “matrigna” (“di voler”).
Del resto cosa è la storia del genere umano se non questo continuo tentativo di abbracciare la madre e di allontanare l’ombra terribile della matrigna?
Di che stupirsi quindi se l’uomo ha cercato
alleati in potenti manipolatori riprogrammabili che lo aiutassero in questo compito. Digitale,
prima dell’informatica, è la realtà.
Articoli
Orazio Miglino
[email protected]
Laboratorio per lo studio dei sistemi cognitivi naturali e artificiali
Università degli Studi di Napoli “Federico II”
Il progetto Inf@nzia DIGI.tales 3.6.
Sviluppare nuove tecnologie dell’educazione
per la scuole dell’infanzia e le scuole primarie
italiane
Introduzione
Buona parte dei processi di apprendimento/insegnamento che vedono come protagonisti
gli esseri umani si basano sull’utilizzo di qualche forma di tecnologia. Per esempio il libro, la
penna a sfera, la lavagna anche se ci appaiono
come un prolungamento della nostra mente e
del nostro corpo sono a tutti gli effetti delle tecnologie inventate in tempi relativamente recenti. D’altronde è facile rilevare come anche l’evoluzione (e l’aggiornamento) dei metodi didattici va di pari passo con l’evoluzione tecnologica. L’attuale accelerazione dello sviluppo tecnologico sta fornendo possibili nuove opportunità per il sostegno dei processi di apprendimento
anche nuove fasce di età, come l’infanzia.
Le prospettive psico-pedagogiche
di riferimento
I bambini fin dai loro primi giorni di vita conoscono il mondo attraverso l’uso del loro corpo. Anche quando non hanno ancora affinato le loro funzioni motorie (deambulazione) e cognitive (logiche e linguistiche) lo spo-
stare, il toccare, l’indicare accompagnano e sostengono i loro processi di apprendimento. Con
il passare degli anni, gli atti manipolativi “concreti” vengono gradualmente “simulati” nella
mente umana e diventano atti simbolici e cognitivi. Recentemente, la “Embodied and Situated Cognition Theory (ESCT)” ha proposto
una spiegazione relativa a come le nostre interazioni senso-motorie con l’ambiente determinano l’organizzazione delle nostre strutture neuro-cognitive. L’approccio ESCT sottolinea un aspetto fondamentale dal punto di vista
di Inf@nzia DIGI.tales 3.6: le interazioni avvengono sempre all’interno di un contesto sociale e culturale che mette a disposizione oggetti, tecnologie e substrati culturali concreti o
astratti. All’interno di questa prospettiva, assumono nuova rilevanza i tradizionali contributi sulla genesi dello sviluppo cognitivo. Si veda ad esempio Piaget (1926), che aveva sottolineato l’importanza delle interazioni con l’ambiente fin dalle prime fasi della vita; Vygotsky
(1978) secondo cui la direzione dell’apprendimento nel passaggio tra le forme naturali in
forme culturali superiori procede dall’esterno
verso l’interno; Papert (1993) che ritiene il processo di apprendimento una costruzione di rap-
31
IN•FORMAZIONE
12-2014
32
presentazioni più o meno corrette e funzionali
del mondo con cui si interagisce, introducendo
il fondamentale concetto di artefatti cognitivi.
Anche Bruner (1990), sottolinea la fondamentale caratteristica del processo di apprendimento attivo. Lo sviluppo cognitivo si realizza in un
contesto nel quale sono decisivi i fattori sociali
e motivazionali e nel quale si assiste ad un passaggio sempre più efficace ed efficiente nell’elaborazione delle informazioni la cui spinta motrice viene dall’attività del soggetto apprendente. Questo climax ascendente avviene attraverso
tre forme di rappresentazione: azione, immagine e linguaggio.
Le tecnologie su cui si concentra Inf@nzia.
DIGI.Tales 3.6 danno ampio spazio all’espressione di tutte e tre le rappresentazioni che si
esprimono all’interno di un contesto sociale per
cui la conoscenza umana viene informata dalla
cultura attraverso simboli e convenzioni condivise nella stessa misura in cui viene guidata da
fattori individuali. L’apprendimento è inserito
in una serie di pratiche socialmente e culturalmente determinate come leggere, scrivere, eseguire operazioni aritmetiche e chi apprende lo
fa in un contesto culturale e sociale in maniera attiva e creativa. In quest’ottica, negli ultimi
decenni si fa strada un’idea di intelligenza articolata in diversi tipi di rappresentazioni mentali, idee, immagini, linguaggi. Da esempio sono le otto forme separate di intelligenza di Gardner (1985), rappresentate in aree diverse a livello encefalico. La differente combinazione in
ognuno definisce la specificità dei singoli individui. Esistendo una “impronta intelligente” in
virtù della quale si percepisce e si risponde in
modo specifico a vari stimoli, le tecnologie per
l’educazione dovrebbero offrire la costruzione
di un proprio personalissimo percorso per ogni
discente. Risulta perciò di primaria importanza differenziare e personalizzare i percorsi edu-
cativi per facilitare l’apprendimento e gli strumenti proposti nel progetto possono essere un
asso nella manica in questa partita.
In quest’ottica, già Rousseau (1762) descriveva come l’educazione deve basarsi dall’inizio
della vita, sullo sviluppo degli aspetti senso-motori, ma non vanno dimenticati Frobel (1895)
che sottolinea l’importanza dell’espressione del
bambino attraverso l’attività ludica, e la pietra
miliare costituita dal lavoro della Montessori
(1995, 2004), il cui metodo si basa sul rispetto per il naturale sviluppo psicologico del bambino che viene favorito attraverso la possibilità
di scegliere autonomamente, all’interno di una
serie di opzioni prestabilite, l’attività da svolgere, abbracciando così il modello costruttivista
per cui si apprende attraverso il contatto diretto e il lavoro con gli oggetti, piuttosto che con
istruzione diretta e con l’utilizzo di materiale didattico specializzato. Tutti i materiali proposti dalla Montessori, possono essere tutti resi “augmented” attraverso la metodologia che
proponiamo in [email protected] 3.6.
Da questa breve disanima appare evidente
l’azione “gronde”, “situated” ed “embolie”, che
spiega le cause del successo di massa di alcuni
device tecnologici come il “mouse” e i “touch
screen”. Questi device vengono immediatamente assimilati dall’apparato senso-motorio che,
in accordo con il punto di vista dell’ESCT, diventano delle naturali protesi perché compatibili e isomorfi con il nostro modo di acquisire e
organizzare le conoscenze.
Le tecnologie
I sistemi di interazione uomo-computer
di nuova generazione
Nella progettazione nuove di tecnologie
didattiche un ruolo di particolare importan-
Articoli
33
za è rivestito dalle interfacce utente. Negli ultimi anni si è avuta un’evoluzione delle interfacce che ha portato ad una “naturalizzazione”
dell’interazione uomo-macchina (NUI, Natural
User Interfaces). Nelle interfacce naturali l’utente interagisce con la macchina utilizzando
modalità comunicative tipiche dell’interazione
tra esseri umani: la voce, i gesti, i movimenti
del corpo, la scrittura, ecc.
Una tecnologia emergente in questo ambito, permette il tracciamento delle azioni degli utenti ed è basata sull’utilizzo di dispositivi RFID (Radio Frequency Identification Device) e NFC (Near Field Communication). Questo tipo di tecnologia permette l’identificazione
di oggetti “taggati” ai quali viene assegnato un
codice leggibile con un lettore. I tag RFID sono
elementi passivi costituiti da antenne che tipicamente vengono commercializzate sotto forma di piccoli adesivi quadrati delle dimensioni di pochi centimetri che possono essere attaccati ovunque. Un oggetto così taggato può essere identificato attraverso un apposito dispositivo di lettura. Le potenzialità di questo tipo di
tecnologie derivano molto più dal modo in cui
sono utilizzate piuttosto che dalla loro sofisticatezza tecnica. Queste tecnologie sono adatte
all’impiego in applicazioni come giochi da tavolo in cui è necessario registrare le scelte di un
utente o sequenze di azioni mantenendo un livello di interazione del tutto naturale.
I sistemi di Intelligenza
Artificiale a supporto dei processi
di apprendimento/insegnamento
(Adaptive Tutoring System)
Nell’ambito della technology-enhanced
education, gli sviluppatori propongono sistemi
software di supporto a learner e teacher/tutor
che vengono detti “adattivi” e/o “intelligenti”.
Un AES (Adaptive Educational System) adatta,
in funzione di esigenze specifiche o preferenze del learner, alcuni aspetti dell’ambiente educativo in tal modo, opera differentemente per i
singoli learner, invece, gli ITS (Intelligent Tutoring System) sono ambienti educativi computer
based che, hanno l’obiettivo di fornire supporto adattivo e personalizzato (per il singolo learner) alla risoluzione di problemi emulando
il comportamento di un tutor “umano”. Queste definizioni “storiche” sono state superate da
altre più recenti che fanno riferimento a nuove forme di intelligent computer-based tutoring
che supportano esperienze di collaborative learning, emotionally intelligent tutors che prendono in considerazione anche gli aspetti relativi alle emozioni, all’umore e all’attenzione. Di
grande interesse è l’AICLS (Adaptive Intelligent
Collaborative Learning Support) a rappresentare l’ampia area di ricerca che mira a definire sistemi adattivi e/o intelligenti per supportare le attività educative collaborative.
Conclusioni: le linee di sviluppo
di Inf@nzia DIGI.Tales 3.6
Il progetto Inf@nzia DIGI.Tales 3.6 ha come punti di partenza le esperienze maturate dai
partner del consorzio di ricerca. In particolare,
per quanto riguarda le attività curriculari della scuola primaria l’avvio delle attività è rappresentato dai risultati prodotti nell’ambito del
progetto europeo Block-Magic (BM). Il progetto ha sviluppato un primo dimostratore sulla
base dei principi brevemente schematizzati delle prospettive teoriche sopra delineate e l’utilizzo di alcune tecnologie appena descritte, arricchendo i tradizionali Blocchi Logici con tecnologia RFID La figura 1 riporta i componenti es-
IN•FORMAZIONE
12-2014
34
senziali del dimostratore: 1) blocchi dotati di
tag RFID; 2) una tavoletta con un apparato di
ricezione RFID, collegata wireless con un computer/tablet. La tavoletta rappresenta il tavolo
da “gioco” in cui uno o più bambini possono
giocare mettendo i vari blocchi e ricevendo un
feedback da un Tutor Artificiale “residente” sul
PC. L’insegnante (o il genitore) può monitorare le sessioni di “gioco” e intervenire quando lo
ritiene necessario. In tal modo è possibile coinvolgere i discenti senza vincoli (si può giocare
anche a casa o in qualsiasi ambiente al di fuori della scuola). È da sottolineare che il consorzio ha realizzato in collaborazione con la Lega
del Filo d’Oro una versione per bambini affetti
da ritardo mentale.
Inf@nzia DIGI.Tales 3.6 si propone di ideare, progettare e realizzare dimostratori di metodologie e tecnologie di apprendimento/insegnamento innovativi a cui ci riferisce con l’acronimo di ESTeL (Enviroments for Smart Teaching and Learning). Alcuni dimostratori saranno un’estensione del prototipo descritto e
avranno l’obiettivo di supportare le attività curricolari della scuola dell’infanzia e del primo
Figura 1 – Una versione arricchita
con sensori RFID del gioco didattico
dei Blocchi Logici
anno della scuola primaria per facilitare e stimolare i bambini nell’acquisizione di competenze (soft skills) e conoscenze (hard skills) indispensabili per affrontare il successivo percorso scolastico. Inoltre, sarà prestata particolare
attenzione allo sviluppo di metodologie e tecnologie che promuovano l’inclusione scolastica e sociale di bambini con bisogni speciali. I
dimostratori dovranno necessariamente nascere dalla convergenza tra la dimensione psico-pedagogica e quella puramente tecnologica
coinvolgendo insegnanti, psicologi, pedagogisti
e tecnologi secondo il modello dell’Interaction
Design.
La figura 2 descrive le varie fasi del processo di produzione dei cosiddetti ESTeL che si trovano nel punto di convergenza tra la dimensione psico-pedagogica (asse orizzontale) e la dimensione tecnologica (asse verticale).
Come detto gli obiettivi del progetto da una
parte sono particolarmente ambiziosi dall’altra devono essere co-costruiti, accettati e valutati dalla società e dalla comunità degli educatori. Questo aspetto è un passaggio cruciale
dell’intera “avventura” su cui si fonderanno le
speranze di successo delle attività progettuali.
Per tale motivo, il Dipartimento di Comunicazione e Ricerca Sociale dell’Università Sapienza
di Roma, stimolerà e supervisionerà i rapporti
con tutti gli attori coinvolti (enti sociali, scuole,
educatori, genitori, ecc.) lungo tutto il percorso
di Inf@nzia DIGI.Tales 3.6.
Ora non resta che iniziare!
Ringraziamenti
Molte informazioni e riflessioni di questo
scritto sono il frutto di suggerimenti e colloqui
con le persone che hanno collaborato alla stesura della proposta progettuale Inf@nzia DI-
Articoli
35
Figura 2 – Le fasi per la realizzazione di nuove tecnologie didattiche per la scuola dell’infanzia
GI.Tales 3.6. Mi corre dunque l’obbligo di ringraziare A. Di Ferdinando, R. Di Fuccio, J. Mangione, F. Orciuoli, M. Ponticorvo, M. Schembri
e L. Sica. Infine, sono debitore a Mario Morcellini che ha sollecitato la realizzazione di questo contributo.
Bibliografia
• Atzori L., Iera A., Morabito G. (2010).
The Internet of Things: A survey. Computer Networks. doi /10.1016/j.comnet.2010.05.010
• Bruner J.S. (1990). Acts of meaning.
Cambridge, MA: Harvard University Press,
1990.
• Isotani S., Mizoguchi R. (2008). Theory-Driv-
•
•
•
•
•
en Group Formation through Ontologies.
Intelligent Tutoring Systems. 646-655.
Dienes Z.P. (1971). Le sei tappe del processo
di apprendimento in matematica, Firenze: Giunti-O.S., 1971.
Froebel F. (1895). Pedagogics of the Kindergarten, translated by J. Jarvis (New York: D.
Appleton Co., 1906).
Jung H.H., RFID-based digital board game
platforms, Computing and Informatics,
Vol. 29, 2010, 1141-1158.
http://issuu.com/neascience/docs/issue_
nov_13/1?e=0/7173872
Miglino O., Di Fuccio R., Rega A. (2013) editors. Technolgy to Enhance Hands-On
Psychopedagogical Practices. HYPERLINK
http://issuu.com/neascience/docs/issue_
nov_13/1?e=0/7173872
Articoli
36
Marco Ricceri
[email protected]
Eurispes
Media Literacy: an exercise of democracy
The real voyage of discovery
consists not in seeking new landscapes,
but in the ability to look at things
with new eyes
Marcel Proust
Protection of minors: the original
experience of the EU-Companies
co-regulation
“Children need quality content on-line,
and skills and tools for using the Internet safely. Parents need support. And we are all better
off if companies play a leading role in this effort. So we need to join forces for a greater impact. We all agree that making a better Internet for children is important, and that it needs
to be tackled, synergies between us should be
found, in education, in partnerships, and
elsewhere. Together we should become the ambassadors of child online safety”.
With these words, the vice president of the
European Commission, Neelie Kroes, introduced June 3, 2013 the meeting with the Coalition of operators in the media sector (CEO
Coalition), the permanent co-ordination body
formed in 2011 that brings together CEOs and
senior members of the boards of Directors of
the largest industries in the digital world, media, technology products. To be precise, the Coalition is made up
​​ of 31 members represent-
ing the following multinational companies: Apple, BSkyB, BT, Dailymotion, Deutsche Telekom,
Facebook, France Telecom-Orange, Google,
Hyves, KPN, Liberty Global, LG Electronics, Mediaset, Microsoft, Netlog, Nintendo, Nokia, Opera Software, Research In Motion, RTL Group,
Samsung, Skyrock, Stardoll, Sulake, Telefonica,
TeliaSonera, Telecom Italia, Telenor Group, Tuenti, Vivendi and Vodafone.
During the meeting, Coalition submitted to
the European authorities the Report on the initiatives undertaken so far to make Internet a
tool for growth increasingly valid and safe for
children who start surfing in a more and more
younger age. According to the analysts, this age
is, on average, around seven or eight years: an
average, so often even before. It is enough, for
instance, to visit the websites dedicated to the
provision of digital games for children aged between two and six years to get an idea of the variety and quantity of stimuli and appeals truly
remarkable that so many products exercise in
favor of their involvement in the digital world.
There is an offer of every type of game connected to the most diverse purposes: games to
stimulate action or fantasy, games to acquire
skills, to educate, to inform (the brain training in junior version). Games that get a child
to learn words and numbers, visit a zoo or
take off for a virtual flying tour, listen to stories, to color cartons, to learn along with Batman to surf Internet (from videogames to minicomputers). All this is located on tablet, ipad
Articoli
37
and smart phones, ADSL and mobile Internet,
touchscreen and apps, as well as on the normal desktop computers, namely on instrumentation that more and more often parents have
no hesitation to give even to their younger children (with the help of a parent already at 18
months a child learns easily to use a tablet). In
this social reality of the media-sphere, the today’s digital children (the so-called third digital
generation) move at ease with a great precocity, forming their knowledge and cultural system and acquiring practical skills that exceed
those of their parents, with an heavy impact on
their educational action, and anticipate that of
the school children will attend in future.
Compared to this scenario and keeping in
mind the indications of the Community programs on the issue, the Coalition of the largest companies (the Top Tech & Media Companies) has confirmed its commitment to operate in the following main directions: i) the development of simple and effective tools for users of all ages for helping them to solve the
problems they may meet while browsing on
Internet; ii) the production of age-appropriate privacy settings, for a real, effective protection at every age; iii) a wider use and dissemination of content classifications as well
as of early warning tools useful to advise both
children and parents on what they may find
when start to stay online; iv) the production of
tools as well as the development of techniques
to support parents in their control action; and
v) the development of contrast systems for a
more effective takedown of child sexual abuse
material.
The fundamental principle inspiring these
actions, stressed by the CEOs of the sector companies during the meeting, is very simple: when
dealing with the issues concerning children,
what matters is cooperation, not competition.
Accordingly to this principle, some specific areas have been identified in which companies intend to promote new forms of cooperation. In
summary they are:
• Provide access to educational materials in
their possession on a common on-line platform so that what is produced by a company could be re-used free-of-charge and
without special constraints by any other organization operating on the territory of the
European Union;
• Develop a common brand or logo for the
initiatives promoted in Europe, in order to
make progressively more effective the efforts in spreading awareness about this type of
problems;
• Involve the hundreds of thousands of people, employees and not, working for the Coalition’s companies in the education and
protection of children, which implies, for
example, promoting initiatives to encourage employees to go and speak in the schools
of their children on the best ways to protect
children who are starting to surf Internet;
• Promoting joint actions between companies to raise awareness and knowledge of
the parents;
• Extend best practices outside of the Coalition, joining forces for a comprehensive
and co-ordinated action on the entire Internet system.
Among the most important results achieved
during 2012, the Coalition reported, for example: the production of some robust tools to support the parent’s control activity as well as to
enhance the direct children’s protection; the
set-up of an European data collection system to
facilitate the activities of parents and educators
committed to protect the children’s privacy; the
development of effective tools to draw the atten-
IN•FORMAZIONE
12-2014
38
tion of the children themselves about the dangers they may encounter while surfing Internet;
the set-up of systems for measuring, assessing,
monitoring the various types of risk while surfing Internet; finally, the set-up of a common
technical task force to increase the operational co-operation among companies.
It is interesting to note that each of the 31
major companies attending the Coalition, on
the occasion of that meeting, presented specific reports on the initiatives undertaken within
its operating field, with the explanation both of
the guiding principles and working methods
adopted and the practical actions implemented. What emerges is a very rich set of information that shows the great variety of approaches and interventions made ​​by the companies in
converging towards the common goal shared
with the European Union.
It is also important to stress that these actions, taken with reference to the European
Digital Agenda (a key part of the wider development strategy Europe 2020) as well as to
specific Community programs such as Safer
Internet, INSAFE, Better Internet for Children,
Safer Social Networking Principles, reflect a
process based on the spontaneous and voluntary adhesion by companies and their availability to adopt forms of self-regulation; however a process which, afterwards, just because
the launch in 2011 of the Coalition’s initiative,
has led to the original European experience of
co-regulation.
This approach to problem solving, as the
European Union explains by illustrating the
specific action of Agenda in favor of the digital natives, has created a positive situation
that would produce widespread benefits for all:
“with the proposed measures in place, children
will benefit from better digital skills and media
literacy and more creative and educational on-
line contents. Parents and children will benefit from better ways of on-line safety, such as,
simple and effective tools for the abuse report,
privacy settings appropriate for different age
groups, content classification schemes suitable
to facilitate the parental control action. Society in general will benefit from the best practices
for identification, notification and blockage of
child pornography found on-line”.
The commitment to intensify efforts
for the media literacy dissemination
What has been said so far shows clearly that
the orientations, programs and actions undertaken by the authorities as well as by the business community converge towards am unifying goal and focus their attention on the media
literacy process, as a central element to which
connect any subsequent measure of control and
protection. It deals, therefore, with an approach
which is not only defensive, but active, with actions which are not restricted to an ex post intervention, but ex ante, which aim to create a
cultural environment and to spread a general
feeling to allow first the digital natives to act
under the best conditions in the media-sphere
and seize the great opportunities offered by
contemporary society. In short, even this new,
original experience of co-regulation between
the EU and companies promoted within the EU,
is an incentive to increase the efforts for spreading the media literacy; undoubtedly one of the
most important policy areas on which the European Commission is currently committed, together with other international bodies such as
the Council of Europe and the United Nations,
with UNESCO and the Alliance of Civilizations.
But to fully understand the value of these
initiatives it is important to have a clear also
Articoli
39
theoretical and conceptual framework of reference, because often, in practice, the expressions
referring to the literacy processes are used in an
interchangeably way even if such processes are
dealing with different contents and meanings.
Thus, for example, the term media literacy is
often indifferently used in place of media education, and vice versa; media education in turn
is used to replace and/or overlap digital literacy, computer literacy, information literacy, audio-visual literacy.
It is clear that in the new digital era, the
literacy process calls the need for every citizen
to acquire the cognitive elements (knowledge,
skills, technical practices) that enable him to
understand the world is living, to learn assessing the positive and negative aspects, to participate actively and responsibly to its dynamics. The different expressions that combine the
term literacy, mentioned above, in fact relate to
the many specific aspects of this complex process. Thus, for example, media education concerns the learning methodologies followed in
schools (formal education), in the organized
bodies of the community to which a citizen belongs, as family, private associations and other
organizations (non-formal education), or acquired by a citizen directly from its own personal experience (informal education). Likewise, digital literacy is about learning the characteristics and use of digital technologies, audio-visual literacy the use of specific tools, and
so on, up to the knowledge and use of the computer, reading newspaper, etc.
As regard these special issues and needs in
the relationship between citizens and media
world, media literacy calls to a more general
and comprehensive concept; and project. These
are related to the development in the citizens of
advanced capabilities of critical thinking, such
as to enable them to decipher the messages
conveyed by the media, make use of their information and become, themselves, media interlocutors as well as producers of media content.
Media literacy surely includes the education of
citizens to the media world, in the terms specified above, but its real goal is to open up the
media to the active participation by the citizens
and to contribute thereby to the improvement
of social life and to strengthening the practices
of democracy. Its true scope of action is, therefore, the democratization of the society.
The international initiatives for the dissemination of media literacy were launched
just starting by this reflection about the serious
risks for the democratic systems due to the ignorance and passivity the citizens have against
the media world. It deals with a situation in
which the modern communication systems are,
objectively, in the condition to spread with a lot
of freedom of action even the most negative effects of their work, such as the manipulation
of consciences, the deformation of the identity, the dissemination of particular cultures and
lifestyles; in essence, to convey cultures and
messages that may lead people to reduce their
original, conscious and responsible contribution to the social, cultural and political life.
The removal from the institutions, the weakening of the community spirit and that of solidarity, the closure in situations of strong individualism: these are just some of the most significant negative consequences that may be caused
by a self-referential media world, committed in
the promotion of its own exclusive interests; not
open – this is the essential point – even to an
active citizens participation. (For this reason,
the start of the co-regulation experience between EU and companies, described above, provides an early sign of great positivity, although
at the moment it is mainly limited to eliminate
the major risks of Internet use).
IN•FORMAZIONE
12-2014
40
The promotion of media literacy carried
out by the European institutions is specifically
intended to reverse this situation fraught with
risks for democracy and aims to build a different kind of relationship between citizens and
media, based on greater accountability, openness, collaboration between producers and consumers-users of communication, between public and private actors, between the economic players and the many subjects that animate
civil society, starting by private associations.
Definition and main components
of media literacy
The European Union officially defines media literacy as “the ability to access the media, to understand and to critically evaluate different aspects of the media and media contents and to create communications
in a variety of contexts. Media literacy relates
to all media, including television and film,
radio and recorded music, print media, the
Internet and other new digital technologies
used in communication” (Communication
833/2007). This definition refers to a broader
concept of literacy than the traditional and includes the set of knowledge and skills that make
a citizen a “cultured” person, that is to say, as
already mentioned, able to understand the surrounding world.
Media literacy – which considers all media,
old and new, for their interaction and objective
convergence – according to the scholars Paolo
Celot and José Manuel Pérez Tornero (2009),
presents three essential components, which are
usually represented by 3 C, where the C letter
of the alphabet is for Critical (critical thinking), Creative (creative production), Citizenship (active citizenship).
i) The first component is dealing with the
development in the citizens of the ability to
know, understand and evaluate in a thoughtful and critically way the media world and its
complexity (critical thinking), to analyze and
think independently about the logic, nature
and content of the messages, to know how to
interpret the symbols, codes, and cultural conventions used by the media. The development of
this cognitive and critical approach calls to the
observance of a precondition, namely the guarantee of a real possibility for the citizens to access the media.
ii) A second component deals with the development of the citizens ability to write with
the media and for the media; then, to produce
contents as well as to use the media as a platform from which to interact with other users.
iii) A third component concerns the contribution that media literacy can give to the
strengthening of participatory moment. In this
respect it is almost obvious to remind that the
whole media system is the main source of information on the basis of which the citizens get
their idea of the world and of the processes that
govern it; and if it is true that there is no democracy without participation, it is equally true that
this participation can hardly be experienced by
those who do not have a sufficient level of education and critical awareness. If media have also to
serve the democratic life and be functional to its
strengthening, then, of course, they will have to
be open to the citizens participation.
Other scholars, according to the models of
interpretation taken as reference, add two more
components to these three components, above
mentioned. These added components are: Culture (cultural awareness) and Comprehension
(understanding), with reference to the autonomy acknowledged to the process of understanding the media world.
Articoli
41
Media literacy: Documents and initiatives
by the European Union
The process developed to clarify the role of
media literacy in building a positive relationship between citizens and media, according to
the need of strengthening the democracy practices, was for the European Union neither easy
and nor short.
After having approved in 1989 the Directive
“Television without Frontiers”, on the coordination of certain broadcasting activities undertaken by the member states (Directive 89/552/
EEC), the EU adopted in December 2007 the Directive on “Audiovisual Media Services” (Directive 2007/65/CE ) in which, among other things, there is an explicit reference to media literacy. “Media education – states the document – refers to skills, knowledge and understanding that allow consumers to use media effectively and safely... therefore, it should necessary to promote the development of media literacy in all sections of the society and carefully monitor his progress”. It should be noted that
previously, in the same year 2007, the Commission sent another Communication to the other
Community institutions, “I-2010. Annual Information Society Report 2007”, with a very
precise description on the state of information
society, the development trends of digital and
the main open problems, especially in the field
of pluralism protection in the media world and
media literacy dissemination.
This line of commitment has been developed also in other documents elaborated by the
European Commission in the same period. For
instance, the Communication of December 20
2007 entitled “A European approach to media education in the digital environment”
(COMM/2207/833), the first official document
that has the merit of treating the subject in a
systematic way and to highlight the importance
of a European approach to media literacy. The
Communication focuses in particular on three
specific areas –advertising, audiovisual and Internet – and draws the attention to the importance both of developing a critical attitude towards these media especially among the young
people, and to set-up mechanisms of self and
co-regulation, as well as to adopt effective codes
of conduct. Member states should commit their
national regulatory authorities to work in this
direction.
The year 2008 is important for the advancement of the initiatives aimed to support media literacy because, after the previous Communications by the Commission, these initiatives tackle a new stage of assessment, very different from the past: the political assessment.
On July 28 2007 the European Parliament submitted a draft resolution on “Media skills in
the computerized world”, approved in December of the same year (2008/2129/INI). The document of the European Parliament calls the
Commission for the development of indicators
to measure and assess the diffusion of media
literacy in Europe and confirms the importance
of strengthening the critical spirit among citizens towards the media. Among other things,
it also calls for the commitment of the Commission and the member states to promote educational programs, especially in schools, for
teachers and students. This resolution, which is
no longer a study document but a real political act, opens up the possibility of incorporating media literacy into the curricula of schools
and universities; it is the starting point of a process which, in 2014, is currently implemented
in all European countries, albeit with different
stages of progress.
On October 8 2008 it was the turn of another Community institution, the Committee
IN•FORMAZIONE
12-2014
42
of the Regions, which acts in the same direction by adopting a positive opinion on the Commission’s documents. In particular the opinion
urges states and regional and local authorities
to adopt programs for the promotion of media literacy to be developed with the participation of civil society organizations and the widest possible involvement of citizens, bearing in
mind that the media play a decisive role for the
preservation, or less, of regional and local identity, intercultural dialogue, democracy. On this
specific issue, the contribution that media literacy gives to strengthening democracy, the European Commission is back again in 2009 with
a specific Recommendation (2009/625/CE ) to
promote supporting actions with a twofold purpose: a more competitive audiovisual industry
and an inclusive knowledge society: “democracy – the document states – depends on the active participation of citizens in the community and media literacy would provide the skills
they need to make sense of the daily information flow disseminated through new communication technologies”.
Media literacy: documents and initiatives
by UNESCO
Important references to contextualize the
concept of media literacy, and, within its framework, media education, can be found in the
UNESCO initiatives relating to the promotion
of human rights and the development of socalled “knowledge society”. The guarantee to
access to quality content in communication as
well as to participate in media planning are for
UNESCO among the essential elements of freedom of expression. The first definition on the
subject dates back to 1982 and to the Gruenwald Declaration, a document approved in a
conference promoted by Germany and attended by educators, experts and researchers from
19 countries. Since 1982, UNESCO has continued the work of deepening the issue and promoting media literacy, as evidenced by a series
of periodic conferences, among which are: Toulouse (1990), Vienna (1998), Seville (2000),
Paris (2005 and 2007), Riyadh (2008), Rabat
(2010), Fez (2011).
Even UNESCO has adopted a definition of
media literacy on the same line of the European Union. “Developing the growth of individuals through the Information Literacy and
Media Literacy – says the official website – is
an important prerequisite for promoting fair
access to information and knowledge and
build an inclusive knowledge society. The Information Literacy and Media Literacy puts
people as users of information and media, in
conditions of interpreting and making judgments informed, so as to become competent
creators and producers of information and
media, according to their right”.
Continuous are the invitations by UNESCO
to the states in particular to close the gap of
education systems, formal and informal, with
respect to the speed of technological change
in the sector as well as to expand the educational responsibility from teachers to parents,
media professionals, decision-makers of public affairs. In particular, UNESCO, after having defined in 2008, the standards of the digital competencies for media literacy teachers,
was successful in 2011 by developing a model of a specific media literacy curriculum, with
a proper definition of the objectives, contents,
sequences related to the activities and practices of learning and teaching, such as, finally, the criteria for the evaluation of the cognitive and experiential acquisitions made ​​by the
teacher. In October 2013, at the Youth Forum
Articoli
43
held in Paris, UNESCO has opened a great debate on-line inviting young people worldwide
to express their opinions on the best ways in
which to combine and promote freedom of expression, providing information arranged in a
specific tool: the Toolkit for a discussion at international level.
Media literacy: documents and initiatives
by the Council of Europe
Noteworthy are also the initiatives of the
Council of Europe, which on several occasions
has addressed the issue of media literacy on the
basis of the fundamental criteria which drive
its overall action, such as the promotion and
safeguard of the democratic principles, human rights, freedom of expression. Among the
main documents we remind: the “Recommendation 1466 on media education” (2000),
which calls on the governments of member
states to promote both practices, and tools related to media education; the “Council Recommendation on empowering children in the
new information and communication society” (2006) which calls on member states to develop a widespread computer literacy (information literacy) in parallel with an in-depth education of children and their teachers so that
they use in the best possible way the information and communication services and technologies; then the document “Educational policies relating to the media” (2007), which contains a series of organic and complete proposals
related to the whole range of educational activities on the matter.
On September 21 2011 the Committee of
Ministers of the Council of Europe adopted an
important document (CM/Rec-2011-7) containing a Recommendation to member states
for actions to promote in order to “A new notion of media”. The document – result of an
in depth analysis and evaluation of the nature
and evolution of media world – offers to the institutional and political decision-makers precise tools to take appropriate action in favor of
the citizens’ personal growth as well as the progress of their communities. The Recommendation – a real guide for the policies in the field –
contains, in particular, the updated definitions
of what are called the new media-ecosystems,
the guidelines to be followed in their regulation
and promotion, the best strategies to be implemented by the public services, the gradual and
differentiated approach to be followed in the interventions. Each specific aspect of the Recommendation is accompanied by a series of very
accurate and precise guiding criteria and indicators to select and orient actions and to evaluate their concrete outcomes.
For example, the section of the document
dealing with the media responsibilities, identified with reference to well defined parameters
and intervention areas, in paragraphs no. 93
and 94 provides the specific indicators to evaluate this responsibility towards children, which
are the following:
“93. Particular attention should be paid
to preserving the dignity, security and privacy of children. Content concerning them can
be a source of present and future prejudice.
Consequently, – in the media – there should
be no lasting or permanently accessible record of the content about or created by children, which challenges their dignity, security or privacy, or otherwise renders them vulnerable now or at a later stage in their lives”.
“94. Risk of harm may arise from a wide
range of content and behavior. Content intended only for adults should be clearly iden-
IN•FORMAZIONE
12-2014
44
tifiable to facilitate rendering it inaccessible
to children. Protection of children should not
impinge on their freedom of expression and
right to seek and receive information. Media can contribute to the development of safe
spaces (walled gardens), as well as other tools
facilitating access to websites and content appropriate for children, to the development
and voluntary use of labels and trustmarks,
to the development of skills among children,
parents and educators to understand better
and deal with content and behavior that carries a risk of harm”.
Well: no any trace of dangerous content
for children must be found in the media, in
the present and for the future. That is a very
precise commitment, taken by the Committee
of Ministers, together with the commitments
to safeguard the right to freedom of expression of children as well as to promote active
policies to develop their skills in this matter,
along with those of their parents and teachers.
These indications of political value were reinforced in a subsequent document approved
at the Conference of Ministers of the Council
of Europe held in Belgrade in September 2013
on the theme “Media and information society”, a document which, in full accord with
the guidelines of the European Union, offers
a precise definition of media education and a
clear indication of the basic criterion to which
connect policies and initiatives. This criterion
is the growth of the active participation of citizens, particularly young people, to the life of
their communities.
“Media community – the text states –
must commit to train people, particularly the
communities and individuals who are often
not represented by the media and empower
them to become active media producers and
multipliers within their communities and beyond. Media Literacy is a basic competence
on how to become active citizens and participate fully in society and democratic life. One
of his goals is to build a critical awareness
and a proper understanding of the problems
of personal and social life related to media
communication. Social media is primarily a
platform for re-distribution and are not tied
to any specific training function”.
The European project EMEDUS for the
evaluation of projects and effective
cooperation
“The Europe of this century needs European
citizens to acquire new skills. It is no longer an advantage to be media literate, but a debilitating disadvantage not to be. Citizens must be equipped
with the skills to utilize, and benefit from, media.
To do this, Europeans need to acquire new competences beyond that of traditional literacy... In recognition of this need – it is necessary to develop –
national education policies, to fit into a supportive
European legal framework, aimed at promoting
lifelong learning media education”. These words
introduce a specific study on the subject, “EMEDUS-European Media Literacy Education Study”,
which a qualified European consortium, set-up
in 2011, conducted in 2012-2013 with the support of the European Commission (DG Education
and Culture-Lifelong Learning Programme) and
EACEA, the Agency specialized on education and
audiovisual culture.
The starting point of the study are the results of the most recent European research in
the field on which to build additional advances, along with specific recommendations to the
Community authorities and the member states
as a contribution to solve the main outstand-
Articoli
45
ing problems. The consortium is coordinated
by Prof. José Manuel Tornero, a leading expert in the field at the international level, of
the Department of Communication, Autonomous University of Barcelona, and composed
by: EURISPES (Italy), EAVI-European Association for Viewers’ Interests (Belgium), Institute OFI (Hungary), The School of Communication and Media-SCM SKAMBA (Slovakia), the
Department of Communication at the University of Minho (Portugal), the University of Warsaw (Poland). The United Nations and UNESCO supported the study as associated partners.
The principal issues refer, on the one hand,
to a general convergence on clear and shared
concepts of media literacy and media education in order to promote throughout Europe
a homogeneous, consistent, useful planning;
and, on the other hand, to the relationship between school and society and thus, more precisely, to the definition of the relations and mutual influences between formal education (that
received in schools by a person, young or old),
the non-formal education (that received, for
example, by attending the activities of associations and other institutions), and the informal
education (the self-education organized by a
person individually, or received, for instance, in
the context of its family, group of friends, etc.).
Each of these different educational approach,
of course, affects the other in a web of continuous interchange. Clarifying the nature, scope
and modalities of this system of mutual influences is very important for the promotion of
proper education policy to the media by the EU
member states as well as to provide a significant contribution to schools that across Europe
are more and more engaged on this front.
More specific objectives of the EMEDUS
study, which integrate the reconstruction of
the general framework of media education in
Europe and of the main issues which are still
open (for example, those relating to the definition and harmonization both of the national curricula of teachers, and the competences on the matter), are concerning the organization of two instruments which may be very
useful to the achievement of the general goals,
above mentioned.
The first of these tools consists in the set-up
of an “Assessment Table” that allows to organize in a systemic way the information related to
the features of the many public and private projects on media education that are taking place
throughout Europe, to classify their purposes
and initiatives, assess their scope, measure their
real effects and the concrete results achieved.
This “Assessment Table”, the processing of
which see the contribution, for Italy, by EURISPES Institute and CORIS, Department of
Communication and Social Research at Sapienza University of Rome, is set up as a working tool primarily for measuring the consistency of individual projects with the guidelines of
the European Commission, in order to support
a general convergence on them; and then to develop a proper analysis of the actual value of
many European projects in the field, to allow a
realistic representation of the progress of media
education in the individual European countries
as well as the acquisition of media skills by the
citizens and particular social groups (teachers,
young people, etc.).
A second tool, set-up by the EMEDUS project, deals with the organization of a permanent “European Observatory on Media Literacy” that will allow scholars and operators to
have a source of updated information on the
subject, useful for their research and decisions
about. It is a real platform that will also encourage the widest possible cooperation between operators across Europe which are com-
IN•FORMAZIONE
12-2014
46
mitted in promoting teaching lifelong media
education of the people.
A final thought: media literacy
and new humanism
In a book published in 2010 by Perez
Tornero and Tapio Varis on behalf of the Institute for Information Technologies in Education-IITE at UNESCO, just from the title the
two scientists link media literacy with the birth
of a new humanism. At first glance, this approach may seem too forced, but the reasons
explained in the presentation make it plausible. In a world increasingly dominated by information technology, in which media have occupied the epicenter of our lives, it becomes essential to defend the autonomy of the individual,
which is based on critical thinking, free-examination, the right to information; and all this,
in turn, will be possible only by ensuring to all
people an equal opportunity to access media
world and as much an equal opportunity to acquire skills and abilities allowing people to react to the negative processes, when they generate passivity and depersonalization.
This setting given to media literacy, according both scholars, contains an echo of the principles on which in the 15th and 16th centuries
humanism and Renaissance have been developed in Europe, as well as an echo of the sense
of freedom, independence, critical individual
mind whose value was proclaimed by the Enlightenment thinkers. This idea is supported by
the Director General of UNESCO, Irina Bokova,
who, in the presentation of the book, explains
that “the idea of a new humanism has become the new credo for UNESCO. Applied to
education, it suggests the creation of a more
inclusive society in which all human beings
must have access to knowledge and quality
education, and every voice must be heard in
the universal dialogue”. Media literacy is the
tool for the construction of this new situation,
it is the answer to the negative effects of a technological civilization and a media culture that
discourage, rather than to enhance, the creative ability, the imagination and active life of
individuals, that reduce the originality of free
thinking, drop the respect for cultural diversity, weaken democratic systems. These concepts
are important points of reference for those who
have to take decisions concerning the dissemination of media literacy between individuals of
every age and condition.
References
• Bazalgette C., Bévort E., Josiane S. (eds.) (1992).
L’éducation aux médias dans le monde:
nouvelles orientations, Paris, Unesco.
• Buckingham D. (2004). Né con la tv né senza
la tv. Bambini, media e cittadinanza nel
XXI secolo, Milano, Franco Angeli.
• Buckingham D. (2006). Media education. Alfabetizzazione, apprendimento e cultura contemporanea, (Traduzione it. di B.D.:
“Media Education: Literacy, Learning, and
Contemporary Culture” Polity Press, Cambridge, UK., 2003), Trento, Centro Studi Erickson.
• Calvani A., Rotta M. (1999). Comunicazione e apprendimento in internet. Didattica costruttivista in rete, Trento, Erickson.
• Carlsson U. (2010). Children and Youth in
the Digital Media, Culture. Gothenburg,
Nordicom, University of Gothenburg.
• Caronia L. (2002). La socializzazione ai
media. Contesti, interazioni e pratiche
educative, Milano, Guerini e Associati.
Articoli
47
• Celot P., Pérez Tornero J. M. (Coords.). (2009).
Study on Assessment Criteria for Media Literacy Levels. A comprehensive view of the
concept of media literacy and the understanding of how media literacy level in Europe, EC., Sito web: http://ec.europa.eu/culture/media/literacy/studies/index_
• Celot P., Pérez Tornero J.M. (2010). Media literacy in Europa. Leggere, scrivere
e partecipare nell’era mediatica, Roma,
Eurilink.
• Ceo Coalition (2011). Statement, Internet
for Kids, Brussels, 1 dicembre.
• Ceo Coalition (2013). Better Internet for
Kids, To Improve the Internet for Kids, (IP/
II/1495), 3 giugno.
• Ceretti F., Felini D., Giannatelli R. (eds.)
(2006). Primi passi nella media education. Curricolum di educazione ai media per la scuola primaria, Trento, Centro Studi Erickson.
• Committee of the regions. (2008). The Programme Safe Internet 2009-2013, Opinion, December 19 2008, Brussels.
• Committee of the regions. (2010). Regional
development perspectives for Media Literacy and Media Education in the framework of the EU educational policy, Opinion, May 29 2010, Brussels.
• Committee of the regions. (2010). Fighting
functional illiteracy. An ambitious European strategy for preventing exclusion
and promoting personal growth, Opinion,
July 1 2010, Brussels.
• Committee of the regions. (2011). European
Digital Agenda, Opinion, January 18 2011,
Brussels.
• Eavi – Association for the viewer’s interests,
European Commission (DG Education and Culture). (2004). Advancing European Viewers Interests, Uno Studio, Brussels.
• European Commission. (1996). Living and
Working in the Information Society: People First, Green Paper, COM(96) 389, Brussels.
• European Commission. (2007). Audiovisual
Media Service Directive, Direttiva 2007/65/
EC, Brussels, December 11.
• European Commission. (2007). A European
Approach to Media Literacy in a Digital
Environment, Communication to E.P., the
Council, the European Economic and Social Committee, the Committee of the Regions, COM/2007/0833 final, Brussels.
• European Commission. (2009). Media Literacy
in the digital environment, Recommendation, August 20 2009, Brussels.
• European Commission. (2010). A Digital Agenda for Europe, Communication to E.P., the
Council, the European Economic and Social Committee, the Committee of the Regions, COM/2010/0245, Brussels.
• European Commission. (2011). A Creative Europe: a new framework programme for
the cultural and creative sectors 20142020, Communication to E.P., the Council, the European Economic and Social
Committee, the Committee of the Regions,
COM/2011/0786 final, Brussels.
• European Commission. (2012). The European strategy: a safer Internet for children, Communication to E.P., the Council, the European Economic and Social
Committee, the Committee of the Regions,
COM/2012/0196 final, Brussels.
• European Commission. (2008). Media Literacy in
digital world, Resolution, (2008/2129(INI)),
December 16 2008, Brussels.
• European Commission. (2010). Better schools:
an agenda for the cooperation in Europe, Resolution, (2008/2329(INI)), May
27 2010, Brussels.
IN•FORMAZIONE
12-2014
48
• Feilitzen Von C., Bucht C. (2001). Outlooks
on Children and Media, in “The International Clearinghouse on Children Youth
and Media”, Götheborg, Nordicom, Götheborg University.
• Feilitzen Von C., Carlsson U. (Eds.). (2003).
Promote or Protect? Perspectives on MediaLiteracy and Media Regulations, in:
“The International Clearinghouse of Children, Youth and Media”, Göteborg, Göteborg University.
• Frau-Meigs D., Torrent. J., (Eds.). (2009).
Mapping Media Education Policies in the
World: Visions, Programmes and Challenges, References 131, New York, United
Nations-Alliance of Civilizations.
• Jenkins H., Ferri P., Marinelli A. (eds.) (2010.
Culture partecipative e competenze digitali. Media education per il XXI secolo, Milano, Guerini e Associati.
• Mansfield G. (2006). Changing channels.
Media language in (inter)action, Milano,
LED Edizioni Universitarie.
• Martinsson J. (2009). The Role of Media Literacy in the Governance Reform Agenda.
World Bank, CommGAP discussion papers.
• Masterman L. (1990). Teaching the media,
(ed. orig. 1985), London, Routledge.
• Morcellini M. (ed.). (2004). La scuola della
modernità. Per un manifesto della «media education», Milano, Franco Angeli.
• Pérez Tornero J.M., Celot P., Varis T. (2007)
Current Trends and Approaches to Media
Literacy in Europe, European Commission,
Brussels, Sito web: http://ec.europa.eu/culture/media/literacy/docs/studies/study.pdf
• Pérez Tornero J.M., Varis T. (2010) Media
Literacy and new Humanism, UNESCO,
Moscow, Institute for Information Technologies in Education.
• Rivoltella P.C. (ed.). (2005). Educare per
i media. Strumenti e metodi per la formazione del media educator, Milano, EDUCatt Università Cattolica.
• Rivoltella P.C. (2005). Media education.
Fondamenti didattici e prospettive di
ricerca, Brescia, La Scuola.
• Unesco. International Symposium on Media Education at Grünwald, Federal Republic of Germany. Sito web: www.unesco.org/education/nfsunesco/pdf/MEDIA_S.PDF
• Unesco. (2005). Towards Knowledge Societies. UNESCO World Report.
• Unesco. E.C., Grupo Comunicar. (2000). La
Televisión como Industria, Fuenzalida,V.
Articoli
Francesco Nucci
[email protected]
Dipartimento di Neuroscienze
Sapienza Università di Roma
Il contributo delle scienze neuronali
alla comprensione della comunicazione.
Un punto di vista medico
Fino agli anni Ottanta poco interesse era stato rivolto al ruolo dell’esperienza nello sviluppo delle strutture cerebrali e, di conseguenza, al
ruolo attivo del bambino nello sviluppo cerebrale mediante l’interazione con l’ambiente.
Il cervello dei bambini e degli adolescenti non è una miniatura di quello degli adulti,
rappresenta invece una tappa complessa di uno
sviluppo che si protrae durante tutta la durata della vita.
Il cervello si struttura in decenni di crescita, e il modo in cui le diverse parti che lo compongono maturano spiega lo svilupparsi graduale delle sue diverse competenze. Oggi, grazie all’utilizzo delle brain imaging, è possibile
osservare la maturazione del cervello nel corso dell’infanzia.
È nelle prime due settimane di vita, quando l’embrione è lungo solo qualche millimetro,
che ha inizio il primo stadio dello sviluppo del
sistema nervoso: da una placca di neuroni primitivi si forma un piccolo tubo, detto tubo neurale. Da quest’ultimo si formano sia il cervello
che il midollo spinale poi, successivamente, la
parte superiore del tubo si espande formando
una bolla che diverrà il telencefalo. Da qui un
nucleo di cellule staminali formerà nuovi neuroni che lentamente migreranno verso la peri-
feria dove andranno a formare la corteccia cerebrale. Dalla decima alla ventesima settimana inizierà poi la divisione cellulare, processo
estremamente delicato, che si completerà con
lo sviluppo della massa cerebrale.Tutte queste
tappe seguono una traccia spaziale e temporale sotto una guida genetica: un meraviglioso e
complesso piano strutturato in milioni di anni.
È durante questa fase delicata che possono intervenire mutazioni, disturbi, ostacoli che porteranno ad alterazioni nella qualità dello sviluppo cerebrale.
Alla nascita i bambini possiedono l’intero
patrimonio neuronale necessario in vita. Nel
cervello ci sono cento miliardi di neuroni ciascuno dei quali ha in media dalle 20.000 alle
50.000 connessioni con altri neuroni per un totale di 500-600 trilioni di sinapsi. I collegamenti tra neuroni si modificano continuamente nel
corso della nostra vita, trasformandosi e trasformandoci sulla base delle nostre esperienze.
Il volume cerebrale totale è già a sei anni il 90%
del volume di un adulto.
Questa fase di sviluppo del cervello richiede grandi quantità di energia, in media il 40%
dell’energia del corpo pur rappresentando solo
il 2% del peso corporeo. Da adulto questa quantità scenderà al 20%.
49
IN•FORMAZIONE
12-2014
50
Le misurazioni dello spessore della corteccia cerebrale e la sua modificazione nel tempo sono ormai gli strumenti più importanti per
capire lo sviluppo cerebrale durante l’infanzia.
Il volume della corteccia cerebrale è formato in
gran parte dai collegamenti fra neuroni, prolungamenti che aumenteranno in gran quantità nelle fasi iniziali ma che subiranno nelle fasi
successive intensi processi di potatura.
Le linee guida (congenite) di tutto lo sviluppo e della configurazione funzionale del
cervello sono due: la sopravvivenza e la riproduzione.
Seguendo questi due principi, controllati
dai geni negli anni successivi e per tutta la durata della nostra vita, il cervello sarà in continua evoluzione, anche se le trasformazioni non
saranno mai di un’entità e drammaticità paragonabile a quelle che avvengono subito dopo la nascita. Le prime aree del cervello a raggiungere un completo sviluppo sono il tronco
cerebrale ed il mesencefalo, esse regolano le
funzioni corporee essenziali alla sopravvivenza
(respirazione, digestione, escrezione, termoregolazione): le cosiddette funzioni autonome. Le
aree che invece si sviluppano secondariamente sono il sistema limbico (in cui ha luogo la
regolazione emozionale), l’ippocampo (fondamentale per l’elaborazione delle memorie) e
la corteccia cerebrale (che permette il pensiero astratto). L’ultima a maturare è la corteccia prefrontale.
Man mano che il cervello si sviluppa, aumenta di volume e di plasticità. Negli ultimi anni una delle scoperte più importanti è stata la
durata dello sviluppo del cervello; oggi si ritiene
che questo completi il suo sviluppo a venticinque anni. La crescita di ogni regione del cervello dipende in larga parte dalla stimolazione che
riceve e, quindi, dalla possibilità di creare nuove sinapsi, cioè nuove connessioni tra i neuroni
Il numero e il tipo di queste connessioni sinaptiche dipendono unicamente dall’esperienza. All’età di tre anni, nel cervello del bambino
si sono formate ormai circa 1.000 trilioni di sinapsi, che sono molto di più di quelle che serviranno nella sua vita. Alcune di esse si rafforzeranno e rimarranno intatte altre andranno
perse. Una volta giunto all’adolescenza il bambino avrà perso la metà di queste sinapsi.
In presenza di livelli adeguati di cibo, di
sonno e di stimolazioni il cervello è geneticamente predisposto per svilupparsi in modo armonico: negli anni tutte le esperienze che facciamo (le persone che amiamo, il tipo di disciplina che riceviamo, le emozioni che proviamo,
la musica che ascoltiamo, i libri che leggiamo,
i film che vediamo) influiranno profondamente sull’architettura cerebrale.Tale architettura è regolata in parte dai geni e, in larga maggioranza, dalle stimolazioni che il bambino riceve dal mondo esterno: saranno queste a guidare la prima fase di grande esubero delle interconnessioni neuronali e la successiva fase di
sfoltimento.
Quali siano i periodi più sensibili per lo sviluppo delle diverse funzioni è una domanda
chiave nella psicologia dell’età evolutiva. Si è
potuto appurare che esistono delle finestre temporali di possibilità che facilitano la formazione completa di alcune funzioni; superata tale
finestra il processo non è completamente inibito ma sicuramente alterato. L’intervento dei genitori, o in generale delle figure di attaccamento significative, può quindi agevolare grandemente l’integrazione. Tant’è che se il bambino
non viene esposto a esperienze essenziali come,
ad esempio, la voce della madre, rischia di non
riuscire a rispondere in modo adeguato agli stimoli.Tutto ciò avviene in modo inconsapevole,
grazie alla plasticità del cervello e alla sua incredibile capacità di mutare continuamente in
Articoli
51
base alle esperienze che la persona fa durante
tutta la vita.
Alcune ricerche (Giedd, 1999) hanno individuato come il processo di crescita cerebrale
avvenga in maniera continuativa in numerose
aree cruciali della corteccia cerebrale, fra cui: i
lobi parietali, (regioni associate con il ragionamento logico e spaziale), i lobi temporali (collegati al linguaggio), i lobi frontali (quelli che
consentono agli adolescenti di agire in modo
corretto). Queste aree, molto probabilmente, risultano sviluppate e rifinite solo dopo il 25 anno di età, infatti, dopo aver raggiunto dimensioni decisamente superiori a quelle riscontrabili negli adulti, la sostanza grigia comincia a
regredire rapidamente.
Parallelamente allo sviluppo degli organi sensoriali il bambino ha necessità di iniziare a sviluppare i circuiti mnemonici, sia a
breve che a lungo termine. Nasciamo con una
gran quantità di memorie congenite che hanno creato circuiti funzionali e indispensabili alla sopravvivenza; quest’ultime, funzionanti con
connessioni ad altissima velocità, sono assolutamente inconsce e non aggredibili o modificabili se non in ridottissima parte.
Tutto ciò che i nostri sensi raccolgono, che
rappresenta solo una piccolissima parte di ciò
che ci circonda, viene decodificata e scomposta in moltissime parti, trasmessa con circuiti capaci di funzionare anche in parallelo e infine distribuita a numerosi moduli di raccolta dati. Una volta tradotta, l’informazione viene trasmessa ad altre zone intimamente interconnesse e ricodificata.Tutto questo è un processo inconscio che sfrutta memorie congenite, antiche, attuali e dà una lettura personale
della realtà. Per poter effettuare questi percorsi abbiamo bisogno di una memoria lavorativa,
particolare forma di memoria a breve termine che ha la possibilità di trattenere informa-
zioni per brevissimo tempo, sufficiente però ad
una elaborazione in grado di ricordare e ordinare le sue parti. Quando osserviamo una scena non vediamo un’immagine completa, ne focalizziamo solo alcuni dettagli, il resto è creato
dalla nostra memoria, dalle conoscenze generali e dall’immaginazione, molto marcata nei
bambini. L’area dove vengono trasferite le elaborazioni che devono essere trasformate in memorie a lungo termine, è l’ippocampo; il suo
sviluppo tardivo (completo dopo i 2 anni) spiega il perché un neonato non ha la possibilità di
creare ricordi duraturi.
Siegel osserva che la memoria non è come
uno schedario da cui recuperare un fascicolo
ogni volta che si rievoca un ricordo, né come
una fotocopiatrice, che sforna riproduzioni fedeli e accurate degli eventi trascorsi. In realtà i
ricordi del passato influenzano il nostro modo
di vedere e interpretare il presente, modificando continuamente la struttura del cervello attraverso connessioni neuronali. L’atto stesso di
ricordare induce modificazioni nel ricordo, distorcendo gli avvenimenti in base ai nostri stati emotivi.
Accanto alla capacità di ricordare consapevolmente le esperienze passate, la memoria
esplicita, vi è anche una memoria inconsapevole, la cosiddetta memoria implicita, che porta a formarci una serie di aspettative sul modo
in cui va il mondo. La memoria implicita può
essere responsabile di alcune reazioni apparentemente irragionevoli: in questi casi è probabile che un ricordo implicito abbia creato un
modello mentale che influenza il nostro comportamento senza che ce ne rendiamo conto.
La parte del cervello deputata all’integrazione
tra i ricordi impliciti ed espliciti è l’ippocampo,
una piccola regione del lobo temporale.
La memoria diventa più efficiente se la teniamo in allenamento: per questa ragione è
IN•FORMAZIONE
12-2014
52
importante incoraggiare i bambini a raccontare le loro esperienze nei momenti importanti
della loro vita, ma anche nelle ordinarie attività della vita di tutti i giorni.
Molti ricercatori si chiedono se gli adolescenti nel momento di prendere decisioni hanno modo di valutare rischi e ricompense. Il processo decisionale dipende dal sistema di ricompensa e dalla corteccia prefrontale che valuta i segnali, pianifica e prende decisioni. Avendo un sistema di ricompensa (nucleo accumbens) abbastanza sviluppato, ma un lobo frontale relativamente immaturo, un adolescente si
comporta diversamente da un bambino che ha
i due sistemi immaturi e l’adulto che ha i sistemi maturi. Il comportamento sarà guidato da
una incoscienza non controllata dal lobo prefrontale.
È noto a tutti che le esperienze vissute durante l’infanzia possono condizionare la funzione cognitiva. Lo stress, ad esempio, è in grado di produrre effetti in modo rapido, alterando le nostre capacità da un giorno all’altro e
persino da un minuto all’altro. Tutto questo influisce sullo sviluppo cerebrale di bambini anche molto piccoli, probabilmente perfino prima della nascita. Gli ormoni dello stress possono infatti modificare i circuiti cerebrali in via
di sviluppo, influenzando le connessioni neurali nella corteccia prefrontale, che presiede alle funzioni esecutive. Se dosi moderate di ormoni dello stress come cortisolo e noradrenalina,
possono incrementare l’attività nelle aree prefrontali, sede delle funzioni esecutive, ad alti livelli possono invece ingolfare questo motore di
autoregolazione.
Il cervello è diviso in due emisferi, ognuno
dei quali funziona in modo diverso. L’emisfero sinistro è logico-matematico, linguistico, lineare e si esprime con il linguaggio esplicito.
L’emisfero destro è, invece, olistico, emoziona-
le, non verbale, esperienziale ed autobiografico,
più che i dettagli recepisce il quadro di insieme
delle esperienze in modo intuitivo ed emotivo.
I due emisferi sono collegati tra loro da un fascio di fibre, il corpo calloso, che li mette in relazione e favorisce un funzionamento armonico e integrato del cervello.
Nei primi tre anni di vita è dominante l’emisfero destro: i bambini non hanno ancora
acquisito la capacità di usare la logica e le parole per esprimere le proprie emozioni. Siegel
paragona lo stato di integrazione, e quindi del
benessere mentale, a una navigazione al centro di un placido fiume (il fiume del benessere), equidistante sia dalla riva del caos (totale
mancanza di controllo) che da quella delle rigidità (controllo eccessivo con scarsa capacità
di adattamento). Quando la pura emotività destra non si unisce alla logica, il bambino naviga troppo vicino alla sponda del caos; viceversa, quando i bambini negano le proprie emozioni e si rifugiano a sinistra, rischiano di arenarsi sulla riva della rigidità. Questa integrazione orizzontale consente ai bambini di diventare persone equilibrate capaci di comprendere
il mondo sia attraverso la logica che attraverso le emozioni.
Oltre all’integrazione orizzontale tra i due
emisferi cerebrali è auspicabile anche il raggiungimento di un buon livello di integrazione verticale tra le aree del cervello che si trovano più in alto e che consentono di riflettere sulle proprie azioni e quelle più in basso collegate
all’istinto alle reazioni viscerali e alla sopravvivenza. L’integrazione consiste nel costruire un collegamento fra il piano di sotto, abitato dall’amigdala responsabile delle emozioni
di rabbia e paura, con il piano di sopra dove si
trova la corteccia prefrontale e dove avvengono
i processi di pensiero legati all’immaginazione
e alla pianificazione.
Articoli
53
È al piano di sopra che prendono forma
molte delle caratteristiche che ci auguriamo si
sviluppino nei nostri figli: la capacità di decidere e progettare con giudizio, l’empatia, la moralità, il controllo delle emozioni e la comprensione del sé.
Durante l’infanzia e l’adolescenza si hanno dei problemi quando l’amigdala, in risposta
a stimoli di rabbia o paura, prende il sopravvento, interrompendo del tutto la comunicazione tra i due livelli. Uno dei cambiamenti più significativi avviene nella corteccia prefrontale;
è in questa zona che si regola il controllo degli
impulsi, delle emozioni, la consapevolezza della conseguenza delle proprie azioni ed i processi decisionali, logici e razionali.
Come evidenziato dagli studi di Yurgelun-Todd (2006), gli adolescenti usano soprattutto l’amigdala per il riconoscimento delle
emozioni anziché la corteccia frontale come i
giovani adulti. Ciò suggerisce che gli adolescenti sono predisposti a fornire risposte comportamentali istintive. Llinas (2000), inoltre, sottolinea come il cervello adolescente non fa altro che monitorare continuamente il suo stato interno: non è vero che il cervello guarda il
mondo esterno, il cervello guarda i contenuti
emozionali che si sono creati e che si continuano a creare al suo interno. La capacità di mentalizzare, cioè di avere una teoria della mente, comporta la capacità di riconoscere che l’altro ha una mente differente dalla nostra (Dennett, 1978; Fonagy & Target, 2001). Condizione
dell’adolescente è quella di mettere alla prova
la capacità di riconoscere una situazione importante e di passare all’azione, un movimento
intenzionale del soggetto verso l’oggetto.
Il movimento intenzionale dell’adolescente
verso l’oggetto implica di per sé la capacità di
riconoscere e comprendere i movimenti dell’altro. Usa a tal fine i neuroni specchio. Il fenome-
no del rispecchiamento consiste essenzialmente nel fatto che la semplice osservazione delle
azioni di un’altra persona provoca un’attivazione della corteccia motoria che è somatotopica rispetto alla parte del corpo che è osservata. I neuroni specchio hanno la caratteristica di
rispondere sia quando il soggetto fa qualcosa di
specifico sia quando quel qualcosa di specifico viene visto fare da un altro. Recenti ricerche
(Meltzoff, 2002) hanno dimostrato che neonati
già a poche ore dalla nascita sono capaci di riprodurre i movimenti della bocca e del volto degli adulti che li guardano. Il corpo del bambino simula quindi correttamente quello dell’adulto non come arco riflesso dato, ma attraverso informazioni visive che vengono trasformate
in informazioni motorie.
L’ampliamento delle conoscenze psicologiche sullo sviluppo infantile permette di riconoscere il ruolo cruciale giocato dall’empatia dalla responsività dagli scambi visivi, dalla sintonizzazione affettiva dalla contingenza della risposta ambientale. Questi diversi e complessi processi relazionali muovono dalle originarie esperienze emotive del rispecchiamento. Tali esperienze
rilanciano lo scambio intersoggettivo, favoriscono la progressiva consapevolezza dell’importanza dell’altro e contribuiscono alla costruzione di
rappresentazioni stabili di tale consapevolezza.
Giungere al sicuro convincimento di disporre di
una propria mente di un mondo soggettivo interno, equivale a riconoscere che gli altri hanno
mondi interni differenti dal nostro.
Bibliografia
• Chugani H.T. et al. (1987). Positron emission tomography study of human brain
functional development. Annals of neurology, 22: 487-497.
IN•FORMAZIONE
12-2014
54
• Dennett D. (1978). Beliefs about beliefs, Behavioral and Brain Sciences, 1, 568-570.
• Fogany P., Target M. (2011). Attaccamento e
funzione riflessiva. Milano: Cortina, 2001.
• Giedd, J.N. et al. (1999). Brain development during childhood and adolescence:
a longitudinal MRI study, Nature Neuroscience, 2, 861-863.
• Kandel E.R., Schwartz J.H., Jessel T.M. (1994).
Principi di neuroscienze. Milano: Ambrosiana, 1994.
• Klingberg T. (2006). Development of a superior frontal-intraparietal network for
visuo-spatial working memory, Neuropsychologia, 2006.
• Klingberg T. (2010). Training and plasticità memory, Trends in Cognitive Science, 14, 317-324.
• Llinas R. (2000). I of the Vortex. Cambridge:
MIT Press, 2000.
• Meltzoff A.N. (2002). Imitation as mechanism of social cognition: Origins of empathy, theory of mind, and the representation
of action. Handbook of Childhood Cognitive
Development, Oxford: Blackwell, 2002.
• Rizzolati G., Sinigaglia C. (2006). So quel che
fai. Il cervello che agisce e i neuroni specchio. Milano: Cortina, 2006.
• Roozendaal B. et al. (2009). Stress memory
and amygdala, Nature Reviews Neuroscience, 10, 423-433.
• Siegel D.J. (2001). La mente relazionale.
Neurobiologia dell’esperienza interpersonale. Milano: Raffaello Cortina Editore,
2001.
• Yurgelun Todd D. (2006). Fear related activity in the prefrontal cortex increases with
age during adolescence. A preliminary
fMRI study, Neuroscience Letters, 406, 194199.
Articoli
Isabella Mingo
[email protected]
Dipartimento di Comunicazione e Ricerca Sociale
Sapienza Università di Roma
I media in età prescolare: una lettura
esplorativa dei dati ISTAT
Introduzione
La fruizione mediale dei bambini in età
prescolare costituisce un argomento scarsamente coperto da ricerche empiriche ad hoc
su campioni ampi e rappresentativi. Questa
carenza di studi sistematici può in parte essere colmata facendo ricorso ad alcune indagini conoscitive condotte periodicamente da
Istat (2010). Pur se non incentrate specificamente su questa fascia di età, i dati che
ne derivano costituiscono un imprescindibile punto di riferimento per tracciare scenari
empiricamente fondati su questo tema. L’obiettivo di questo contributo è di esplorarne
le potenzialità.
A tal fine sono state considerate le maggiori indagini Istat sulle famiglie di fatto e i loro
componenti, da cui è possibile trarre informazioni pertinenti ed in particolare:
1. Cittadini e tempo libero, focalizzata sulla percezione del tempo libero e sulle attività mediali, espressive e ricreative svolte nel
suo ambito. La periodicità dell’indagine è
quasi quinquennale: la prima rilevazione
risale al 1995, l’ultima è del 2006. I quesiti sono prevalentemente rivolti agli individui da 14 anni in su, tuttavia alcune attività vengono rilevate sui bambini di 3 anni in
su (sport, Tv), altri su quelli da 6 anni in su
(uso di Internet)1.
2. Uso del tempo, finalizzata a rilevare i differenti modi in cui la quantità di tempo a disposizione dei soggetti viene ripartita tra usi
differenti, allo scopo di fornire chiavi interpretative di diversi stili di vita. Nell’indagine viene utilizzato anche un diario giornaliero, rilevato a partire dai bambini di 3 anni, in cui l’intervistato descrive le varie attività svolte nelle 24 ore suddivise in intervalli di 10 minuti. L’indagine è stata effettuata
per la prima volta nel 1988 e reiterata nel
2002 e nel 20082.
3. Aspetti della vita quotidiana (AVQ), indagine annuale, condotta a partire dal 1993,
in cui si indaga su diverse tematiche sociali e culturali. L’indagine fornisce un’ampia
panoramica, annualmente aggiornata, di
questi temi tra cui è inclusa, da circa un decennio, la fruizione delle ICT da parte degli individui. L’ultima rilevazione risale al
2012, ma è nel 2011 che l’indagine ha previsto un focus sui minori, integrando la rilevazione con un questionario ad hoc sugli
individui da 0 a 17 anni3.
1. http://www.istat.it/it/archivio/5584
2. http://www.istat.it/it/archivio/5723
3. http://www.istat.it/it/archivio/4630
55
IN•FORMAZIONE
12-2014
56
Delle suddette indagini, l’Istat rilascia in forma gratuita, oltre i macrodati diffusi in pubblicazioni e database on line, anche i microdati, in
cui l’unità di analisi corrisponde al singolo individuo. Le potenzialità offerte da questi tipi di dati sono indubbiamente più estese, consentendo, in
sede di analisi secondaria, di decidere autonomamente le modalità di aggregazione dei soggetti (ad
esempio le classi di età) e di selezione delle variabili, sulla base dei propri obiettivi conoscitivi. Tra
le indagini citate, per la specificità delle informazioni e per il particolare segmento di popolazione su cui sono in parte rilevate, quella che riveste
particolare importanza ai fini del nostro contributo è “Aspetti della vita quotidiana” (AVQ), edizione
2011. Pertanto è sui microdati che da essa derivano che sarà incentrata l’analisi seguente.
Le basi di dati: i bambini e le informazioni
Dai microdati dell’indagine AVQ 2011 si sono
estratti soltanto i bambini di età compresa tra 0 e
6 anni, un campione di 2971 soggetti rappresentativo di circa quattro milioni di bambini di questa fascia di età4, di cui il 13% risulta frequentare
la scuola elementare e il 47% quella dell’infanzia.
Su questi bambini vengono rilevati, insieme
ad altre numerose informazioni individuali e familiari, alcune variabili riguardanti l’uso delle
nuove tecnologie e la fruizione mediale con quesiti differenziati in base all’età dei rispondenti:
• per i bambini da 0 a 1 anno: non ci sono
dati sulla fruizione mediale;
• per i bambini da 2 a 5 anni viene rilevato se,
al di fuori dell’orario scolastico, leggono, sfogliano, colorano libri o albi illustrati;
4. I microdati rilasciati da Istat consentono di ottenere stime relative alla popolazione oggetto d’indagine,
mediante l’uso dei coefficienti di riporto all’universo.
• per i bambini da 3 anni in su vengono rilevati: la fruizione della radio, della Tv, di
canali tematici, delle videocassette/DvD, dei
videogiochi, dei giochi preferiti, del Pc, alcune informazioni sulle skills riguardanti
il Pc, sulla partecipazione fuori dall’orario
scolastico a corsi di diverso tipo (tra cui il
laboratorio Informatico);
• per i bambini di 6 anni vengono rilevati
inoltre: l’uso del telefono cellulare (uso e tipo di attività svolte), l’uso di Internet (a casa, sul luogo di studio), tipi di attività svolte
con Internet, le letture, la fruizione del cinema, del teatro e di spettacoli vari.
Presenteremo sinteticamente alcuni dati
emersi da una prima analisi esplorativa e descrittiva delle informazioni riguardanti la fruizione mediale dei bambini da 2 a 6 anni, circa
2200 intervistati rappresentativi di circa tre milioni di bambini residenti in Italia.
Piccoli lettori crescono
I bambini da 2 a 5 anni sembrano avere un
ottimo rapporto con i libri: fuori dall’orario scolastico, le fiabe e le favole, lette presumibilmente dagli adulti che li accudiscono, alimentano
la fantasia di una quota molto rilevante (oltre
il 70%) dei piccoli, seguiti dalle storie con tante immagini che possono sfogliare anche da soli (59%), dei libri sulla natura e sugli animali (52%), ma anche da libri didattici, per imparare numeri, parole, o comportamenti (40%)
(fig. 1)5. Queste prime informazioni sulle “letture in erba”, potrebbero essere oggetto di approfondimento (che esula da questo primo contributo) considerando anche la frequenza d’uso e
5. Tutte le figure si riferiscono a nostre elaborazione
dei microdati AVQ 2011.
Articoli
57
Figura – 1 Le letture dei bambini
da 2 a 5 anni
Figura 2 – Quesito sulle modalità
di fruizione
Fonte: AVQ 2011 - questionario C
la modalità di fruizione solitaria o socializzante,
come si evince dalla domanda tratta dal questionario utilizzato per rilevarle (fig. 2)
A differenza dei più piccoli, tra i bambini di
6 anni, pari a 456 intervistati, rappresentativi di
circa 600 mila bambini, la lettura di libri per motivi non scolastici, non sembra essere molto diffusa: interessa solo 3 bambini su 10, che leggono in media 5 libri durante l’anno. Presumibilmente l’ingresso nella scuola elementare e l’impegno richiesto per lo studio dei libri scolastici
sottrae loro tempo e interesse per libri di altro tipo. Si può inoltre ipotizzare che proprio a partire
da questa età l’uso di altri media cominci a prevalere sui libri nella dieta mediale dei bambini
Figura 3 – I bambini e la Tv
Figura 4 – I bambini e i canali tematici
Piccoli televisivi crescono
In linea con il dato riguardante tutta la
popolazione, il 94% dei bambini da 3 a 6 anni guarda la televisione nei giorni non festivi.
I “non televisivi” sono circa il 6%, ma il 90%
guarda la Tv per più di 1 ora al giorno con punte di 10 ore che interessano ben 12 mila bambini (fig. 3).
IN•FORMAZIONE
12-2014
58
Figura 5 – I bambini e il Personal Computer Figura 6 – Il Pc nelle diverse età
La visione di canali tematici interessa circa 1 milione e 500 mila bambini da 3-6 anni:
quasi 7 bambini su 10 che vedono la Tv si intrattengono dunque con canali ad essi dedicati,
con una frequenza molto elevata (sempre/spesso) per 4 bambini su 10 (fig. 4).
Oltre alla fruizione televisiva, per i bambini di 6 anni l’indagine fornisce inoltre ulteriori informazioni, che in questa sede non vengono prese in considerazione, utili a delineare la
loro dieta “culturale” che potrebbe arricchirsi
dell’ascolto della radio, della lettura di riviste,
di periodici, di quotidiani ma anche del cinema, del teatro e di spettacoli vari.
Nativi digitali crescono
Il 22% dei bambini da 3 a 6 anni, pari a
500 mila soggetti, ha utilizzato il Pc negli ultimi 3 mesi prima dell’intervista: circa 300 mila ne fanno un uso abituale (qualche volta a
settimana) (fig. 5). La propensione ad usare il
computer è molto diversificata nelle diverse età
e aumenta rapidamente da un anno all’altro:
se tra i bambini di 3 anni solo 6 su 100 usano
il Pc, tra quelli di 6 lo utilizzano ben 36 bambini su 100.
Nel tempo, la diffusione del Pc tra i piccoli non sembra aver subito cambiamenti di rilievo: rispetto ai dati del 2005 si osserva tuttavia un incremento nell’uso del computer tra i
bambini di 4 e 5 anni e una diminuzione tra
quelli di 6 probabilmente attratti dall’uso di altri media (fig. 6).
Analogamente al Pc, anche videogiochi
catturano l’interesse dei bambini, occupandone in parte il tempo di vita, accanto agli
altri giochi tradizionali preferiti: le costruzioni, i giochi di movimento, le automobiline, le bambole, il pallone, i pupazzi. Più che
i giochi di ruolo o di quelli da tavolo, i videogiochi sono preferiti da circa 26 bambini su
100 (fig. 7). Questa preferenza, analogamente a quella del Personal computer, muta rapidamente con l’età: solo 9 bambini su 100 di
3 anni amano i videogames ma tra quelli di
6 anni circa 42 bambini su 100 indica questi
giochi tra quelli preferiti (fig. 8).
Anche la Rete è, per un numero rilevante di bambini di 6 anni, un ambiente abituale: nel 2011, circa 115 mila bambini di 6 anni
Articoli
59
Figura 7 – I giochi preferiti
Figura 8 – Videogiochi e computer
Figura 9 – Piccoli Internauti crescono
Figura 10 – Competenze digitali
(19%) hanno usato la Rete nei tre mesi prima
dell’intervista e circa 62 mila piccoli internauti lo hanno fatto abitualmente, tutti i giorni o
almeno qualche volta a settimana. Questo dato segnala la crescente familiarità dei più piccoli con il cyberspazio, se confrontato con quello di un quinquennio fa: nel 2005 i piccoli internauti erano circa 19 mila e rappresentavano
il 3,5% dei bambini di 6 anni, in un quinquennio si è registrato pertanto un aumento di circa
16 punti percentuali.
Se si analizzano le competenze digitali di
questi piccoli internauti, si evidenzia che, accanto alla prevalente dimensione operazionale, in cui rientrano le competenze cognitive necessarie per la ricerca e la selezione delle informazioni, che ne caratterizza il 60%, si
registrano anche skills riconducibili alla dimensione relazionale (Mingo, 2011, p. 233),
ossia a quelle abilità necessarie per sfruttare
appieno le potenzialità relazionali e interattive offerte dal web 2.0: caricare testi, filmati, eccetera, telefonare via internet, chattare, e
così via (fig.10).
All’uso di questi media digitali si accompagna poi anche quello del cellulare, utilizzato dal 15% dei bambini di 6 anni, pari a 92
mila bambini, alcuni dei quali, circa 32 mila, dispone di un proprio telefonino (fig.11),
utilizzato non solo per comunicare (telefonare 98% e inviare/ricevere messaggi 33%),
ma anche per svolgere altre attività: giocare
(62%), fotografare (30%), ascoltare la musica (21%).
IN•FORMAZIONE
12-2014
60
Figura 11 – I bambini e il mobile
Luci e ombre dell’analisi secondaria
Lo senario della fruizione mediale dei più
piccoli, ricostruito nei precedenti paragrafi,
evidenzia le potenzialità dei microdati Istat e le
opportunità offerte dall’analisi secondaria. In
particolare:
1 – La possibilità di compiere analisi specifiche su ciascuna età, evitando le consuete aggregazioni proposte dai macrodati Istat in cui i
bambini da 3 a 5 anni e quelli da 6 a 10 anni
vengono analizzati rispettivamente come due
insiemi unici. L’analisi disaggregata per ciascun anno di età permette invece di seguire l’evoluzione della fruizione mediale che, come
emerso dai dati, registra proprio nei primi anni
rapidi cambiamenti.
2 – Il tipo e l’ampiezza del campione utilizzato dall’Istat, nonché il coefficiente di riporto
all’universo, consente di riferirsi non solo agli
individui del campione, ma anche alla popolazione di riferimento da cui è stato estratto.
3 – La periodicità delle indagini consente di effettuare comparazioni temporali, anche se non per coorti e non per tutte le variabili rilevate. Il campione impiegato non è infatti di tipo panel, pertanto la periodicità an-
Figura 12 – Tra comunicazione e altre attività
nuale dell’indagine consente, di confrontare
ad esempio la fruizione mediale dei bambini
di 6 anni di 5 anni fa con quella dei bambini di 6 anni di oggi, ma non consente di tracciare i cambiamenti degli stessi individui nel
tempo. Inoltre da una edizione all’altra cambiano alcuni quesiti o vengono introdotti questionari ad hoc in aggiunta a quelli consueti,
per i quali non è possibile compiere confronti temporali.
4 – La molteplicità delle variabili disponibili nelle matrici di dati elementari, sia a
livello individuale che familiare, consente
di effettuare approfondimenti, teoricamente
orientati, in relazione al genere del bambino, al contesto territoriale, alla tipologia e
al background familiare, economico e culturale, alle risorse materiali disponibili, al capitale umano e sociale, e così via. Si possono in tal modo individuare fattori di influenza sui diversi tipi di fruizione mediale, ma
anche, seguendo un approccio multivariato,
diete mediali o stili di fruizione che diversificano i più piccoli.
A fronte di queste opportunità offerte
dall’analisi dei microdati Istat, è però opportuno segnalare il limite comune a tutte le anali-
Articoli
61
si secondarie: poiché i dati vengono rilevati per
obiettivi conoscitivi diversi da quelli del ricercatore che poi li analizza in altri contesti di ricerca, i microdati possono presentare lacune informative non colmabili se non con analisi primarie condotte ad hoc.
Nel caso specifico ad esempio, oltre a variabili utili a specificare i contenuti della fruizione
mediale (tipi di programmi Tv, tipi di libri letti,
ecc.) mancano informazioni sui bambini da 0
a 1 anno, per i quali l’indagine di tipo estensiva e con strumenti di rilevazione standardizzati non sono adatti a rilevare adeguatamente informazioni pertinenti.
Infine non può essere sottaciuto che per i
bambini fino a 6 anni sono i genitori a rispondere al questionario6, dunque è loro il punto di
vista sulla fruizione mediale dei figli che i dati
consentono di ricostruire.
Bibliografia
• Istat (2010). Navigando tra le fonti demografiche e sociali. Roma: Istat.
• Mingo I. (2009). Concetti e quantità. Percorsi di statistica sociale. Acireale-Roma:
Bonanno editore.
6. Nell’indagine AVQ i componenti fino a 13 anni
compresi non devono essere intervistati direttamente ma
in proxy, termine tecnico che indica che dovrà essere un
adulto, a rispondere per loro. Fanno eccezione alcune domande sull’utilizzo del pc e di Internet e sull’abitudine al
fumo e il consumo di bevande, alle quali possono rispondere direttamente i bambini da 11 a 13 anni. (Cfr Istat:
Aspetti della vita quotidiana. Anno 2011 – Guida per l’intervistatore, documento interno).
Articoli
62
Mihaela Gavrila
[email protected]
Dipartimento di Comunicazione e Ricerca Sociale
Sapienza Università di Roma
Bambini nell’arcipelago delle tv.
La multidimensionalità delle esperienze televisive
Tutti i grandi sono stati bambini
una volta. (Ma pochi di essi
se ne ricordano)
(A. De Saint – Exupèry, Il Piccolo Principe)
L’infanzia non è affatto conosciuta:
con le idee sbagliate che si hanno
in proposito, più si va innanzi,
più cresce la confusione
( J. J. Rousseau, Emilio e dell’Educazione)
“Sophie, 2 anni, guarda la tv 1 ora al giorno. Questo duplica le sue chance di avere disturbi di attenzione quando sarà grande.
Lubin, 3 anni, guarda la tv 2 ore al giorno,
triplicando così le sue possibilità di diventare in
sovrappeso.
Kevin, 4 anni, guarda programmi per ragazzi violenti come Dragon Ball Z. Questo quadruplica le sue possibilità di avere dei disturbi di comportamento quando inizierà la scuola
elementare” (Desmurget, 2012, nostra trad.).
È questa la quarta di copertina di uno studio dedicato all’influenza nociva della televisione sulla mente del bambino e sul forte condizionamento dell’intera vita di una persona
esposta alla fruizione tv durante l’infanzia. Tale punto di vista estremo trova conferma, sia
negli studi neurologici e pediatrici, interessati
soprattutto al medium, a prescindere dal contenuto, sia in una certa letteratura mediologica, improntata sull’incidenza della tv nella diffusione dei fenomeni come la violenza, le paure, le insicurezze a vari livelli (vedi, tra gli altri,
Brown, 1979, Eron, 1986, Barry, 1993, D’Amato, 1996, Rule, Ferguson, 1999). Il dibattito, iniziato già negli Anni Cinquanta, rimane tuttora
aperto e ancora pieno di contraddizioni, almeno nel campo degli studi di sociologia e psicologia della comunicazione.
Evidentemente, la contestualizzazione dell’argomento entro le caratteristiche psico-fisiche e socio-attitudinali delle prime fasi dell’infanzia pone
un nuovo ordine di problemi, che necessiterebbe
di una riflessione multidimensionale, sia a livello quantitativo, in modo da rilevare le dimensioni
del fenomeno, sia in termini qualitativi, permettendo di analizzare la qualità dell’esperienza televisiva del bambino e le sue conseguenze positive o negative su comportamento, linguaggio, relazioni, fiducia, disponibilità e capacità di apprendimento. Tuttavia, i dati e la letteratura scientifica
disponibile inducono una diversa scelta, spostata
soprattutto sull’analisi del “peso” quantitativo che
la fruizione televisiva ha nella vita dei bambini in
età prescolare.
L’universo dell’infanzia, proprio per la sua
incidenza a medio-lungo termine su quello che
sarà l’orizzonte valoriale, culturale e di stabi-
Articoli
63
lità di una società, è da sempre stato particolarmente affascinante per gli studi di sociologia dei processi culturali e comunicativi (tra gli
altri, Porro, Livolsi, 1990, Manna, 1982, Morcellini, 1997 e 1999). Tuttavia, mentre alle età
della formazione “istituzionalizzata”, quindi
al periodo di rigoroso inquadramento scolastico dei bambini, sono stati dedicati nel tempo
vari studi, dal profilo inter e trans disciplinare
(sociologia dell’educazione, psicologia dell’età
evolutiva, psicologia dell’educazione, pedagogia, sociologia della comunicazione, ecc.) una
certa area d’ombra, seguita dall’abbandono
nella sfera prettamente psicologica o pediatrica, ondeggia sull’età delle prime esperienze socio-culturali e comunicative: 0-6 anni.
Certo, nella storia degli studi sull’infanzia,
contributi vari arrivano dal territorio della riflessione filosofica, con un punto culturale culminante nella filosofia illuminista di Jean Jacques Rousseau, che dedica all’età della prima infanzia (0-5 anni) una parte rilevante del
suo Émile ou sur l’éducation (1762). Si tratta di un attento studio dell’evoluzione della vita umana entro la sua sinergia con gli elementi
della natura, con le regole sociali e con sé stessi, che troverà poi riscontri nella maggior parte degli studi psico-pedagogici degli ultimi due
secoli, a partire dalla moltitudine di contributi di Jean Piaget, per continuare con la vision
sperimentale di Maria Montessori e con tanti
altri apporti provenienti sostanzialmente dalla psicologia dell’età evolutiva (ad es. Vygotskij, 1934). Tutte testimonianze sull’importanza strategica di questa fase della vita di un individuo per un’armoniosa crescita.
Tuttavia, “i classici” delle teorie sullo sviluppo e sulla “buona educazione” non potevano prevedere quanto sarebbe accaduto in poco
più di mezzo secolo di storia dell’umanità, con
la nascita e la fortuna di una delle più coinvol-
genti forme di comunicazione umana: la televisione.
Per contestualizzare la portata del fenomeno, riportiamo solo un ulteriore riferimento, questa volta riconducibile a una ricerca statunitense, che documenta che i bambini tra i
0 e i 4 anni trascorrono in media davanti alla tv circa 3-4 ore al giorno, spendendo così il
30-40% del totale tempo di veglia (immaginando che stiano attivi per 10-12 ore giornaliere).
Lo studio, pubblicato da Acta Paediatrica, e realizzato da Dimitri Christakis, medico presso il
Seattle Children’s Research Institute e docente
dell’Università di Washington, arriva alla conclusione che, almeno fino ai 2 anni, un bambino non dovrebbe essere esposto assolutamente
alla tv. Nei primi due anni di esistenza, il cervello triplica la sua dimensione, da una media
di 333 grammi a 1 kg. L’aumento delle dimensioni è direttamente correlato alla stimolazione
esterna e alle prime esperienze di vita. Le immagini luminose in rapida successione stancano il cervello dei figli, agitandoli e generando
disagi, conclude Christakis.
Tra i risultati dello studio, che ricostruisce
i dati pubblicati in 78 altre ricerche di settore
condotti tra il 1983 e il 2008:
1. I programmi televisivi, persino quelli cosiddetti educativi generano problemi di sviluppo e ritardo nell’apprendimento del linguaggio.
Il telespettatore-bambino guarda, ascolta, ma
non interagisce con altri oratori, non parla, inibendo o ritardando le proprie capacità espressive1.
2. I bambini in età scolare che hanno guardato spesso programmi televisivi nei primi due
1. L’autore dimostra che un gruppo di bambini di
età compresa tra 7 e i 16 mesi sottoposto alla visione di
DVD speciali per bambini conosceva meno parole rispetto
ai bambini che non avevano visto tali programmi.
IN•FORMAZIONE
12-2014
64
o tre anni di vita hanno performance più deboli nei test di memoria e lettura, dimostrando anche una più scarsa attenzione e capacità
di concentrazione. La lettura richiede uno sforzo maggiore, un impegno di immaginazione,
implica una concentrazione superiore rispetto alla semplice visione di immagini. Pertanto, conclude Cristakis, un bambino di 14 mesi può imitare quello che vede in un film, ma
imparerebbe molto di più da una vera e propria esperienza2.
Eccoci, dunque, sul territorio apocalittico
delle ricerche sull’influenza della televisione
sullo sviluppo psico-fisico dei bambini. Un territorio particolarmente controverso, che riversa sulla tv le responsabilità di generazioni con
problemi di sviluppo intellettuale, risultati scolastici insoddisfacenti, problemi di linguaggio,
di attenzione, di immaginazione, di creatività.
Tabagismo, violenza, alcolismo, disturbi sessuali, comportamenti alimentari sbagliati, obesità e persino aspettativa di vita sono, dal punto di vista di questi studi, da mettere sul conto
di una scorretta dieta televisiva, somministrata in età precoce (Pool, et al, 2000, p. 293-326).
Tuttavia, questo filone di studi, piuttosto
compatto, con una precisa collocazione in ambito medico, privilegia aspetti specifici di natura fisiologica e neurologica, senza un legame
diretto con i contenuti dei media e della televisione in particolare.
Per il caso italiano, a queste considerazioni
si aggiunge la funzione sociale svolta dalla tv,
non a caso considerata parte importante della famiglia e persino “mamma” (vedi “Mam2. Ad esempio, i bambini che hanno imparato il cinese
mandarino da un madrelingua, hanno acquisito le competenze linguistiche meglio rispetto al gruppo di controllo di
bambini che hanno appena visto filmati con lezioni tenute
dalla stessa speaker (Cristakis, 2009, pp. 8-16).
ma Rai”), quindi quella che dà vita e mantiene
solidi i legami intergenerazionali. La televisione, infatti ha fatto da indiscutibile catalizzatore dell’attenzione di un pubblico multigenerazionale (nonni, genitori, figli), svolgendo indiscriminatamente un ruolo di agenzia di informazione e di socializzazione, che passa attraverso i linguaggi e gli stili espressivi dell’informazione e dell’intrattenimento. In contesti di
povertà di stimoli culturali e integrata con altri
consumi culturali e mediali e con le istituzioni tradizionali, la tv in Italia si è proposta, soprattutto nelle sue prime fasi di sviluppo, quale vero e proprio vettore valoriale (Morcellini,
2004) e strumento di scansione della quotidianità. Persino la pubblicità, in quella fase di sviluppo, non ha lasciato troppo spazio alle popolari definizioni apocalittiche come cattiva maestra, serva infedele, ladra di tempo (Popper,
1994 e Condry, 1993). Anzi, in piena etica del
lavoro e del risparmio, a mandare a letto i figli
era sempre l’accomodante baby sitter televisione, con un efficace “Bambini, dopo il Carosello,
tutti a dormire!”.
E a proposito di remoti, e senza in nulla mancare di rispetto a fronte della specifica autorità di Popper, sarà consentito dire qui
che la fortuna del pamphlet intitolato alla cattiva maestra Tv costituisce un indicatore chiaro della decadenza della ricerca e insieme della gratuità e ininfluenza delle posizioni antitelevisive. Il successo di questo testo è indicativo
della difficoltà dei ricercatori di far passare un
messaggio più sobrio e corretto, rigorosamente
ispirato ai dati, anche perché ha alimentato un
genere editoriale di successo non meno kitsch
delle atmosfere culturali che voleva combattere
e flagellare (Morcellini, 1999, p. 9).
Certo, i tempi sono cambiati e lo spazio
di questo contributo non ci permette di addentrarci adeguatamente nell’ampia e plu-
Articoli
65
ridimensionale letteratura scientifica nazionale e internazionale su televisione e minori. Proviamo, tuttavia, a esplorare, seppur sinteticamente, il territorio della programmazione per bambini, così come si presenta nell’Italia del terzo millennio. Nonostante l’andamento positivo dei programmi dedicati a tutta
la famiglia, inclusi i bambini piccolissimi, come Chi ha incastrato Peter Pan3, oppure come i vari talent con protagonisti giovanissimi di varie età, i prodotti per bambini e ragazzi nei palinsesti tradizionali sono sempre di
meno, contribuendo progressivamente all’invecchiamento delle platee tv. Negli ultimi anni la programmazione della televisione tradizionale ha ridotto sempre di più gli spazi dedicati ai minori. Solo una media di 3,6% della
programmazione delle reti tradizionali veniva
dedicata, nel 2006, ai cartoni e a trasmissioni
ad hoc per ragazzi, mentre risultano particolarmente scarse le trasmissioni educative pensate per il giovane pubblico4. Da un’elaborazione dei dati Auditel (febbraio 2009), a cura di Starcom Italia5, si evince come, a partire dal 2003, anno della nascita di Sky Italia,
avviene un processo di transizione dei fruito3. Chi ha incastrato Peter Pan?, prodotto Mediaset con un format Endemol, adattato per l’Italia a partire
dal programma statunitense Kids Say, con la conduzione
di Paolo Bonolis (nel 2009), riesce a garantirsi una media d’ascolto delle otto puntate di 7.055.234 telespettatori,
con uno share del 27,8%. Il programma è andato in onda
in tre edizioni condotte da Paolo Bonolis e Luca Laurenti
(1999, 2000 e 2009) e una da Gerry Scotti e Michelle Hunziker (2005), con l’adattamento del titolo in Chi ha incastrato Zio Gerry?.
4. Cfr. Rapporto IEM 2007. Una panoramica sul disinvestimento da parte delle reti tradizionali nella programmazione per minori è stata pubblicata da questa rivista nel numero 6 del 2010 (cfr. Gavrila, 2010, pp. 39-42).
5. Starcom Italia, Il futuro della tv dei bambini è
nel digitale, www.primaonline.it, 2009.
ri bambini e ragazzi dalle reti tradizionali verso la più stimolante e ricca offerta satellitare.
Il fenomeno di disaffezione riguarda in particolare le reti pubbliche, con una RaiDue che
ha accusato un vero e proprio crollo di share,
soprattutto relativo al target 4-7 anni, mentre
Italia1, comunque colpita da un decremento
delle audience, riesce a mantenere una certa
affinità con il target di bambini tra 8 e 14 anni. La7, invece, che nel 2003 contemplava una
programmazione rivolta ai minori, ha eliminato del tutto la programmazione destinata a
questo target. Questo trend, leggibile già tra i
dati del 2009, si amplifica nell’ultimo periodo, nonostante il sostanziale arricchimento
dell’offerta tematica digitale terrestre.
Rispetto alla staticità del mercato televisivo prolungatasi per più di un ventennio, lo
scenario attuale vede un sostanziale spostamento delle platee dagli attori del duopolio televisivo, Rai e Mediaset, verso l’offerta maggiormente targettizzata di Sky. I dati diventano ancora più interessanti guardando la fascia di età più vicina al nostro target: 4-7 anni, dove si osserva una sostanziale perdita di
pubblico, nonostante l’investimento in reti dedicate ai piccolissimi, sia da parte della Rai
(Rai Yoyo) sia per Mediaset (prima con Italia1, attualmente con la più targettizzata Cartoonito). A fronte di una perdita di 11,23%
della Rai e di 21,35% delle reti Mediaset, in
un solo anno, Sky guadagna il 27,67% sulla
stessa fascia di età. A fare da guida nella scelta della programmazione Sky è stata forse la
più decisa strategia di differenziazione dell’offerta per bambini e ragazzi, ben definita tra i
numeri dei canali 600, permettendo così a genitori e figli di orientarsi facilmente. A questa caratteristica si aggiunge la scelta di alcuni editori di evitare la pubblicità nei palinsesti
per i più piccoli.
IN•FORMAZIONE
12-2014
66
Tabella 1 – Bambini in fuga dal mainstream. Le audience Rai, Mediaset, La7 e Sky a
confronto (2011 vs. 2012)
2011
Bambini
4-7 anni
Bambini
8-14 anni
Teens
(15-19 anni)
Adulti
15-24 anni
Adulti
25-34
Adulti
35-44 anni
Adulti
45-54 anni
Adulti
55-64 anni
Adulti 65
anni e oltre
Totale Rai
2012 Var.%
Totale mediaset
2011
2012 Var.%
2011
La7
2012
Var.%
2011
SkY
2012
Var.%
38.385
34.075
-11,23
-21,35
2.793
2.707
-3,8
30.873
39.417
27,67
76.631
67.714
-11,64 142.403 119.866 -15,83
5.237
5.013
-4,28
78.907
88.434
12,7
64.951
56.063
-13,68 133.267 114.768 -13,88
4.135
4.101
-0,75
55.707
65.617
17,79
-6,99
11.255
10.385
-7,73
110.478 122.481 10,86
-8,89
28.387
25.121
-11,51 162.355 176.828
8,91
369.302 326.207 -11,67 505.556 448.214 -11,34
39.503
35.459
-10,24 271.741 294.361
8,32
9,71
129.021 120.005
61.913
48.696
261.280 234.571 -10,22
229.028 203.985 -10,93 343.504 313.046
511.727 480.504
-6,10
524.426 505.655
-3,58
56.113
50.593
-9,84
266.802 292.716
682.170 665.799
-2,40
510.518 480.062
-5,97
85.186
77.521
-9,00
183.497 206.014 12,27
1.573.110 1.582.004
0,57
886.687 804.410
-9,28
159.863 149.667
-6,38
154.544 185.814 20,23
Fonte: nostra elaborazione su dati Auditel 2011 e 2012
Con la diffusione della Tv satellitare in
Italia si apre davanti all’universo giovanile un nuovo panorama televisivo. Si è passati
da una limitata programmazione ad hoc dedicata ai minori, attraverso i soli tre canali
mainstream (RaiDue, RaiTre e Italia1) e incastrata entro le logiche a volte troppo rigide del palinsesto, a un fiorire di programmi
e, soprattutto, di canali espressamente pensati per questo target. Un’offerta che apre la stagione dell’abbondanza, attraverso una pluralità di canali digitali tematici, spesso distinti per fasce di età6, che ha provocato un gra6. Sono 23 i canali per bambini attualmente disponibili sulle varie piattaforme digitali in Italia. Il bouquet
del digitale terrestre offre 9 canali per bambini, di cui 5 a
pagamento, l’offerta satellitare prevede la presenza di 20
canali in italiano (oltre all’offerta per bambini in altre
lingue, su Sky), di cui 18 pay. Nel palinsesto trovano spazio cartoni animati di produzione italiana e europea, fiction e programmi come videogiochi, community.
duale trasferimento di contatti dalla Tv generalista a quella satellitare, e negli ultimi tempi, sulla spinta del recente switch off dell’analogico, anche di quella digitale terrestre. Il
successo della programmazione per bambini
e ragazzi si evince in modo sorprendente dalla graduatoria dei canali più visti proprio sulle piattaforme digitali, satellitare e terrestre,
attestando ancor una volta la scarsa lungimiranza dei principali broadcaster, consapevoli solo in parte dell’importanza in termini sociali, culturali e commerciali di un target come quello dei bambini. Sorprendentemente,
già nel 2010, sul terzo e rispettivamente quarto posto nei canali digitali satellitari preferiti si trovavano RaiSat Yoyo (attualmente Rai
Yoyo) e Playhouse Disney, entrambi canali dedicati ai piccolissimi7. Oltre a garantire una
7. Elaborazioni Starcom Italia su dati Auditel AGB
Gennaio 2010 ‐ Fascia 02.00‐02.00; Var % vs omologo 2009.
Articoli
67
Grafico 1 – Genitori e figli. La tv che (ancora) unisce
Fonte: Auditel aprile 2013
programmazione “protetta”, adatta alle caratteristiche psicofisiche di una fascia di età che
ha bisogno di “accompagnamento” cognitivo
e attitudinale, soprattutto attraverso proposte
di programmazione basate sulla musica, su
Grafico 2 – Genitori e figli. Il caso Rai Yoyo
Fonte: Auditel aprile 2013
un linguaggio più pacato e sul gioco, questi
canali diventano anche un vero e proprio business per gli editori, riuscendo a convogliare nei propri palinsesti sia i piccoli fruitori sia
i loro genitori o nonni. I dati disponibili ren-
IN•FORMAZIONE
12-2014
68
Grafico 3 – Genitori e figli. Il caso Cartoonito (Mediaset)
Fonte: Auditel aprile 2013
dono difficile una precisa ricognizione della
fruizione televisiva da parte dell’intera platea
che interessa la nostra ricerca. Auditel, infatti,
considera nelle proprie rilevazioni solo la popolazione a partire dai 4 anni. Basta, tuttavia,
osservare l’andamento delle curve di ascolto
relative sia alla platea televisiva complessiva,
sia a canali come Rai Yoyo e Cartoonito, per
comprendere quanto l’esposizione alla tv interessi anche le fasce d’età precedenti. Sarebbe
sorprendente, altrimenti, la presenza davanti a tale programmazione di adulti con figli
tra 0 e 3 anni e la particolare coerenza tra le
curve che rappresentano i vari casi analizzati
(cfr. grafici 1, 2, 3).
Si tratta di stili di consumo televisivo già
documentati dalla ricerca sociale, confermando così il tendenziale utilizzo della tv per fini
di socializzazione, soprattutto in alcuni momenti della giornata. La programmazione per
bambini, dunque, diventa strategica non solo ai fini di intrattenimento ed educazione
delle nuove generazioni, ma anche in quan-
to familiare, e dunque, particolarmente efficace come mediatore nelle relazioni tra le generazioni.
Già negli anni Novanta, Mario Morcellini, usando un’elaborazione su dati Istat del
1995, dimostrava il carattere socializzante
della tv (Morcellini, 1999, cit. p. 80) e quest’abitudine viene riconfermata dalle varie fonti
più recenti analizzate. Oltre ai dati Auditel già
esposti, anche l’indagine Censis 2011, ripresa nel “Libro Bianco Media e Minori” dell’Agcom (2013), conferma che il 68,9% dei bambini di 4-5 anni guarda la tv prevalentemente in compagnia dei genitori e il 20,1% con i
nonni. Solo il 4,7% dei bambini, dimostra la
ricerca, viene lasciato solo d’avanti allo schermo (Censis, 2011). Si conferma, dunque, che
la cosiddetta “fruizione congiunta” non è
un’infondata astrazione degli studiosi dei media, ma una realtà che testimonia la funzione relazionale che la tv continua a mantenere almeno rispetto alle fasce di età più piccole. Ovviamente, tale orientamento non sfugge
Articoli
69
ai pubblicitari, ben consapevoli dell’incidenza
dei figli piccoli nella scelta e nell’acquisto di
prodotti audiovisivi e multimediali8.
Per concludere, riprendiamo nuovamente la voce “degli altri”, in fattispecie di una ricerca realizzata dall’Accademia delle scienze
francese nel 2013 (Bach, J-F., Houdé, O., Tisseron S., Léna, P., 2013). Frutto delle riflessioni
di psicologi specialisti per l’infanzia, psichiatri,
neuroscienziati, il rapporto cerca di far luce su
una serie di convinzioni, alcune vere, altre false, e sui cosiddetti neuro-miti, costruiti intorno all’esposizione massiccia di bambini e adolescenti davanti agli schermi di qualsiasi tipo. E
mentre tablet, computer e altri schermi vengono presentati come “facilitatori” dello sviluppo
psico-fisico e persino sociale dei bambini, l’unica incolpata è l’eccessiva televisione senza
“accompagnamento” dei genitori. Sommando
i dati, tuttavia, e pensando alle alte percentuali di fruizione in compagnia restituite dai dati Censis, si potrebbe persino sostenere, parafrasando un testo già citato in questo contributo che, tutto sommato, la tv non fa male ai
bambini.
Bibliografia
• AA. VV. (2013), Libro bianco “Media e Minori”. Autorità per le Garanzie nelle Comunicazioni, Roma.
• Bach J-F., Houdé O., Léna P., Tisseron S.,
(2007). “Rapports sur l’usage excessif des
éscrans”. Emotional and Behavioral Ef8. Frequentemente, gli spot vengono infantilizzati,
per raggiungere i più piccoli. Infatti, il 41,3% dei genitori intervistati dal Censis dichiara che il figlio di 4-5 anni
ha molta o abbastanza influenza nella scelta e nell’acquisto di contenuti audiovisivi e multimediali (Censis 2011).
•
•
•
•
•
•
•
•
•
•
•
fects of Video Game and Internet Overuse – AMA Council on Science and Public
Health Report.
Bach J-F., Houdé O., Tisseron S., Léna P.
(2013). L’enfant et les écrans. Un avis de
l’Académie des sciences. Paris: Le Pommier.
Barry G. L. (1993). Children and Television: images in a changing sociocultural
world. Sage Publication: Thousands Oaks.
Brisset C., (2002). Les enfants face aux
images et aux messages violents diffusés
par les différents supports de communication: rapport par la Défenseure des enfants.
Brown R. (1979). Children and Television.
Londra: Macmillan.
Charren P., Gelber A., Arnold M. (1994).
“Media, children and violence: a public
policy perspective”. Pediatrics, 50(5), pp.
631-637.
Christakis D. (2009). “The effects of infant
media usage: what do we know and what
should we learn?”. Acta Paediatrica, 2009,
98, pp. 8-16.
Condry J. (1993). “Thief of Time. Unftaithful Servant: Television and the American
Child”, Daedalus, Vol. 122, n. 1.
D’Amato M. (1996). Bambini e tv: un manuale per capire, un saggio per riflettere.
Milano: Il Saggiatore.
Desmurget M. (2012). Tv Lobotomie. La
vérité scientifique sur les effets de la
tèlévision. Paris: Max Milo Édition.
Eron L.D. (1986). “Interventions To mitigate the psychological effects of media violence on aggressive behavior”. Journal of Social Issues, n. 3, pp. 155-170.
Gavrila M. (2010). “La televisione della crisi. La programmazione per bambini e ragazzi come killer application per il futuro”.
In-formazione n. 6, pp. 39-42.
IN•FORMAZIONE
12-2014
70
• Huesmann L.R., Taylor L.D. (2006). “The role
of meda violence in violent behavior”. Annu Rev Public Health, n. 27, pp. 393-415.
• Manna E. (1982). Televisione ed età evolutiva. Torino: Rai-Eri.
• Morcellini, M. (1997). Passaggio al futuro.
Formazione e socializzazione tra vecchi e
nuovi media. Milano: Franco Angeli.
• Morcellini M. (1999). La TV fa bene ai
bambini. Roma: Meltemi.
• Morcellini M. (a cura di), (2004). La scuola
della modernità. Per un manifesto della
media education. Milano: FrancoAngeli.
• Piaget J. (1955). Il linguaggio e il pensiero
del fanciullo. Firenze: Editrice Universitaria.
• Piaget J. (1955). La rappresentazione del
mondo nel fanciullo. Torino: Edizioni
scientifiche Einaudi.
• Piaget J. (1958). Giudizio e ragionamento nel bambino. Firenze: La Nuova Italia.
• Piaget J. (1967). Lo sviluppo mentale del
bambino e altri studi di psicologia. Torino: Einaudi.
• Piaget J. (1969). Dal bambino all’adolescente. La costruzione del pensiero. Firenze: La Nuova Italia.
• Pool M. et al. (2000). “Background Television as an inhibitor of performance
in easy and difficult homework assignments”. Comunication Research, 27, pp.
293-326.
• Popper K. (1994, trad it. 2006). Cattiva maestra televisione. Venezia: Marsilio.
• Porro R., Livolsi M. (1990). Infanzia e mass
media. Milano: FrancoAngeli.
• Rousseau J.J. (1762, trad it. 2007). Emilio
e dell’Educazione. Milano, trad. it. Oscar
Mondadori.
• Rule, B. G., Ferguson T. J. (1999). “The effects
of of media violence on attitudes, emotion
and cognition”. Journal of Social Issues, n.
2, pp. 29-51.
• Van Eyra J. (2004). Television and Child Development, London: Routledge.
• Vygotskij L.S. (1934, trad. it. 2006). Pensiero
e linguaggio. Roma-Bari: Laterza.
Articoli
Ida Cortoni
Dipartimento di Comunicazione e Ricerca Sociale
Sapienza Università di Roma
[email protected]
Under eight. Il consumo mediato
Partendo dal titolo, l’espressione consumo mediato sintetizza il comportamento mediale nell’età della prima socializzazione filtrato da agenti culturali, quali ad esempio i genitori. Under eight circoscrive il focus di attenzione della nostra riflessione, partendo dalla ricerca condotta dalla Kaiser Family Foundation
nel 2011 sull’esperienza mediale dei bambini
da zero a otto anni.
La riflessione relativa all’incidenza dei linguaggi tecnologici sui processi di socializzazione appartiene a una recente tradizione sociologica inaugurata, fra gli altri, dai ricercatori della Scuola di Toronto. A partire da Marshall
McLuhan, una serie di studi e ricerche ha focalizzato l’attenzione sul rapporto fra linguaggio,
cultura e sviluppo di strutture mentali tenendo
conto della inevitabile ritorsione sui processi di
costruzione della cultura e dell’esperienza sociale (Ong, 1982, De Kerkhove, 2008). La rapida
evoluzione dei mezzi di comunicazione richiede
un continuo aggiornamento teorico ed empirico, tenendo conto delle metamorfosi dei linguaggi digitali e degli stili di fruizione degli utilizzatori. Così studi recenti (Meyrowitz, 1995, Turkle, 2011, Simone, 2012, Ferri, 2010, Rivoltella,
2012), ripercorrendo le teorie classiche di orientamento psicopedagogico, da Piaget a Vigotsky,
da Bruner a Gardner, sottolineano in un’ottica
interdisciplinare come le tecnologie digitali contribuiscano alla formazione di un nuovo tipo di
intelligenza, definita in alcuni casi simultanea
(Simone, 2012), frutto della percezione visuale
multimediale e di un’organizzazione reticolare
e immediata delle informazioni. Una riflessione
di tale portata non può prescindere da un approfondimento del background pedagogico, psicologico e neuroscientifico, funzionale per un’analisi complessa di questo fenomeno.
Il rapporto fra processi cognitivi, alterazioni cerebrali e usi sociali della tecnologia è
stato da sempre un tema sensibile nel dibattito pubblico per comprendere non solo gli effetti dei media sul comportamento individuale, ma anche le cause delle conseguenti connessioni cognitive ed emotive. Se i media stabiliscono un rapporto di influenza con le dinamiche di ragionamento del bambino, orientano
anche quelle percettive, rappresentative e interpretative della realtà, nonché gli atteggiamenti e i comportamenti sociali in età più adulta.
Ma quale è la natura di questa influenza? Quali sono le tecnologie più incisive sui processi di
apprendimento dei bambini? A che età i media
sono fruiti per la prima volta? Qual è la loro
intensità di utilizzo? Che tipo di contesto famigliare accompagna tale fruizione?
Nella ricerca sociologica, l’osservazione e
l’analisi dei comportamenti culturali, partendo
da dati statistici secondari, è certamente un’azione preliminare a qualsiasi disegno della ricerca che voglia svolgere una ricognizione di
sfondo e strutturare un percorso di verifica delle ipotesi teoriche, o voglia semplicemente rico-
71
IN•FORMAZIONE
72
12-2014
Articoli
73
L’indagine della Kaiser Family Foundation
del 2011 è circoscritta al contesto americano
(USA) e ha coinvolto 1.384 bambini di età inferiore agli otto anni, grazie alla mediazione
dei genitori intervistati. Sebbene non sia stata verificata la rigorosità della metodologia
adottata e della strutturazione dello strumento di rilevazione rispetto agli obiettivi dell’indagine, i risultati rappresentano un interessante input di riflessione sociologica. Il focus della ricerca si è concentrato sul tipo e sul
grado di penetrazione dei media nelle abitudini culturali dei bambini, analizzando le variabili contestuali che diversificano la relazione. Nello specifico, i media considerati nella
ricerca sono stati raggruppati in quattro tipologie: dispositivi mobili (smartphone o cellulari, ipad, tablet), piattaforme televisive, personal computer e videogames.
Per ogni tipologia sono state indagate tre
dimensioni: 1. L’accesso; 2. Il tipo di utilizzo; 3.
Il tempo di fruizione. Ciascuna è stata descritta partendo dalle variabili sociodemografiche
precedentemente presentate, rispetto alle quali saranno illustrati i principali risultati della
ricerca.
Gap di accesso
La dimensione strutturale relativa all’accesso tecnologico indaga la dotazione mediale delle famiglie coinvolte nella ricerca, enfatizzando come la componente relativa al reddito, nel contesto americano, rappresenti una
variabile discriminante per l’accesso tecnologico e per il suo continuo aggiornamento tecnico. Questo aspetto inevitabilmente condiziona lo sviluppo di opportunità culturali e conoscitive per le nuove generazioni (Nussbaum,
2001), in quanto da essa dipende la scelta del-
la fonte informativa e culturale delle famiglie (capabilities esterne) e la numerosità delle stimolazioni emotive e cognitive per il bambino (capabilities interne); in tal modo si contribuisce da subito alla radicazione dei presupposti di un gap culturale intra-generazionale quasi fisiologico, che in futuro non può
far altro che aumentare.
Dall’analisi dei dati della Kaiser Family
Foundation, la TV è certamente il medium
maggiormente diffuso nelle famiglie americane, sebbene non sia mai isolato, ma corredato da altri devices tecnologici (vedi tab. 1). La
dotazione mediale si diversifica in base al reddito secondo un rapporto direttamente proporzionale fra dotazione tecnologica ed economica. I media, rispetto ai quali il gap di accesso risulta particolarmente significativo, sono Internet (con 50 punti percentuali di scarto), il computer (43 punti di scarto), lo smartphone (30 punti di scarto) e la tv via cavo
(27 punti di scarto). Questa considerazione è
facilmente intuibile e rilevabile, in quanto la
maggiore disponibilità economica famigliare consente l’acquisto e la dotazione di quei
media di nuova generazione più costosi, ma
che richiedono allo stesso tempo un impegno
cognitivo più attivo da parte dell’utente. Così
se queste tecnologie più interattive espongono
maggiormente l’utente al rischio fruitivo, ne
consentono anche una maggiore stimolazione per l’apprendimento, con rilevanti implicazioni a livello di sviluppo mentale ed affettivo, rispetto a chi non ha opportunità di accesso.
Gap fruitivo
La dotazione infrastrutturale non è l’unico fattore interveniente nella stimolazione co-
IN•FORMAZIONE
12-2014
74
Grafico 1 – Accesso mediale per reddito (%)
Tabella 1
Accesso
%
TV
98
DVD player
80
computer
72
TV via cavo
68
Internet
68
smarthhone
Videogiochi console
67
computer
smartphone
41
DVD player
Video ipod
21
TV via cavo
E-book reader
9
TV set
Internet
tablet
2
eReader
3
video ipod
tablet
8
Fonte: Kaiser Family Foundation, 2011
gnitiva ed emotiva del bambino. Una famiglia
può disporre di una buona base tecnologica,
ma non regolarne o orientarne l’utilizzo per i
propri figli. L’abuso fruitivo del medium oppure
la non regolazione, o accompagnamento informativo e culturale, comportano una maggiore
difficoltà per i genitori di limitarne le potenziali conseguenze, spesso imprevedibili, connesse alla fruizione. Tali conseguenze potrebbero sfociare nel medio e lungo periodo in comportamenti sociali indesiderabili, spesso emotivamente sbilanciati e privi di autoregolazione
(Galimberti, 2009). In tal senso, l’uso mediale in età prescolare rischia di assumere connotazioni negative sul versante educativo e della
socializzazione. Per questo motivo, è auspicabile che la dotazione mediale sia accompagnata da un background culturale che favorisca
ed orienti il processo di integrazione dei media
nelle abitudini sociali dei bambini.
Partendo dai dati proposti dalla Kaiser Family Foundation, la lettura (intesa come farsi leggere) è certamente il consumo più diffuso
92
42
17
15
10
34
57
27
91
48
72
53
>75.000 $
80
99
98
<30.000 $
nella prima infanzia che rimane costante e in
leggera crescita fino agli 8 anni. I media audiovisivi si inseriscono subito dopo la lettura nella dieta culturale dei bambini seguiti, sebbene
con uno scarto percentuale rilevante, dal PC,
dai videogames e dai dispositivi digitali interattivi (tablet, smarthphone, ecc.). Osservando
la tabella 2, è possibile notare come al secondo anno di età si generi una improvvisa intensificazione di utilizzo mediale di tutti i dispositivi tecnologici, generando una fruizione multitasking e multi schermo, il cui primato è detenuto dalla televisione, fruita in quantità maggiore anche rispetto alla stessa lettura. Questo
primo dato diventa interessante nell’analisi sociologica in quanto, se approfondito e verificato, fornisce input di riflessione sul rapporto fra
linguaggio audiovisivo e stimolazione cognitiva, cerebrale, linguistica ed emotiva fin dal primo anno di età.
A partire dai due anni si assiste a un rapido
processo di mediatizzazione della socializzazione, con potenziali ripercussioni dal punto di vi-
Articoli
75
Tabella 2 – Uso generico dei media
Guardano la tv
Leggono/si fanno leggere
Guardano DVD
Usano il PC
Giocano con la
console/videogames
Usano game player, cell.,
ipod, ipad x giochi app
tot
89%
90%
85%
59%
0-1 anni
66%
76%
52%
4%
2-4 anni
96%
91%
92%
53%
5-8 anni Età media del I utilizzo
96%
9 mesi
96%
5 mesi
97%
11 mesi
90%
3,5 anni
51%
3%
44%
81%
3 anni, 11 mesi
44%
10%
43%
60%
3 anni, 9 mesi
Fonte: Kaiser Family Foundation, 2011
sta emotivo, cognitivo e comportamentale, oggetto di studio e di analisi del progetto di ricerca Inf@nzia DIGI.tales.
Partendo da queste informazioni generiche, la Kaiser Family Foundation ricostruisce l’età media del primo utilizzo tecnologico
dei bambini secondo la seguente cronologia: i
bambini si avvicinano alla lettura dal quinto
mese di età, fruiscono la tv a 9 mesi e i DVD a 11
mesi. I media audiovisivi agiscono sulla stimolazione cognitiva contemporaneamente all’ascolto del racconto di libri o fiabe da parte dei
genitori. I devices più interattivi, che richiedono un coinvolgimento e un’attenzione più significativa da parte del bambino fruitore, sopraggiungono invece nella dieta mediale dopo
i tre anni secondo il seguente ordine: uso generico del pc, dei dispositivi mobili e dei videogames. L’inserimento del tatto attraverso i dispositivi mobili come senso aggiuntivo alla vista e all’udito, quali strumenti conoscitivi della realtà, rappresenta un ulteriore aspetto interessante da considerare nei processi di esplorazione e familiarizzazione del mondo circostante, nonché di rappresentazione della realtà rileggendo le stesse teorie piagetiane (1970). A riguardo, The American Accademy of Pediatrics (2011) attraverso le proprie ricerche presen-
ta un atteggiamento allarmista e dunque prudente rispetto alla fruizione di dispositivi mediali in età precoce. L’Associazione suggerisce
di limitare, se non addirittura vietare, l’uso della TV da parte del minore al di sotto dei due anni, per lasciare spazio a una prima forma conoscitiva di contatto con la realtà sociale e con
i genitori. Tale relazione è infatti considerata
fondamentale per sviluppare competenze trasversali quali il problem solving e la creatività.
Per quanto riguarda i videogames, altrettante
suggestioni derivano dall’American Psychiatric Association (2011) secondo cui il videogioco sviluppa il senso del controllo, ma comporta anche una perdita della cognizione dello spazio e del tempo e rischia di diventare disfunzionale se rafforza la perdita del senso della realtà. Tale condizione in ogni caso è sempre
associabile ad altre variabili socioculturali della famiglia, o psicologiche pregresse dei singoli
soggetti, che meriterebbero un approfondimento qualitativo.
Rispetto al gap fruitivo, la variabile del reddito famigliare rappresenta un fattore incidente di diversificazione della socializzazione immediata (Morcellini, 1993). Se ad esempio i
programmi televisivi sono di libero accesso a
tutti, compresi quelli di orientamento educati-
IN•FORMAZIONE
12-2014
76
Tabella 3 – Uso di piattaforme educative
%
Guardano programmi
educativi in TV
23%
Usano giochi
educativi/software pc
8%
Giocano con games educativi
con cell., ipod, ipad
7%
Grafico 2 – Uso di piattaforme educative per
reddito (%)
Fonte: Kaiser Family Foundation, 2011
vo, l’utilizzo di giochi al pc o attraverso i dispositivi mobili, sempre di natura educativa, diventano una prerogativa di quei nuclei famigliari che vantano una disponibilità infrastrutturale ed economica. In tal senso la dimensione del reddito incide sulle opportunità di accesso e di fruizione dei diversi dispositivi tecnologici, rafforzando gap intra generazionali di natura cognitiva e meta-cognitiva: le disponibilità di accesso e di fruizione tecnologica offrono
molte opportunità di stimolazione della struttura cerebrale e del tessuto mentale dei bambini, stimolandoli a sviluppare diverse forme di
osservazione e diagnosi, analisi e interpretazione della realtà rispetto a chi non ha l’opportunità di sollecitare le proprie meta-competenze
(cfr. tab. 3 e graf. 2).
Rispetto a quest’ultimo dato, la Kaiser Family Foundation introduce un nuovo fenomeno culturale emergente e dilagante, ovvero la
nascita di una nuova forma di gap relativo alle app scaricate sui dispositivi mobili orientati ai bambini. Secondo questi dati, il 29% dei
genitori scarica applicazioni educative sul cellulare per i propri figli, mentre il 38% non sa
nemmeno che cosa sia un’app. Nella prima
categoria rientrano soprattutto quei genitori
con un reddito alto (superiore ai 75.000 dollari), mentre nella seconda rientrano famiglie
con un reddito basso (inferiore ai 30.000 dollari) – cfr. graf. 3 –.
Quest’ultimo dato sposta il focus di attenzione su un ulteriore fattore incidente sulla mediatizzazione in età prescolare: la rilevanza della mediazione degli adulti durante la fruizione
in termini di background culturale, educativo
e socio-relazionale. La disponibilità genitoriale a fornire strumenti di stimolazione sociale e
cognitiva al bambino, anche attraverso le app
del mobile, e il livello di aggiornamento genitoriale ai cambiamenti socioculturali, soprattutto per quello che concerne le tecnologie comunicative, interviene nella edificazione di un
diverso atteggiamento mentale e di una altrettanta diversa predisposizione comportamentale dei bambini alla fruizione mediale.
Gap educativo
Il terzo livello di gap rispetto al quale strutturare un percorso di ricerca di orientamento
Articoli
77
Grafico 3 – Genitori che scaricano app vs genitori che non sanno cosa sia un’app (%)
Fonte: Kaiser Family Foundation, 2011
sociologico sulla socializzazione in età prescolare è quello educativo. In questo caso, i modelli trasmissivi generalmente utilizzati all’interno del nucleo famigliare, ibridati con la dotazione tecnologica disponibile a casa e con lo stile fruitivo mediale degli adulti, possono condizionare il processo di apprendimento del bambino e la conseguente costruzione delle competenze e meta-competenze, nonché dei processi cognitivi e delle reazioni emotive. A riguardo
un interessante spunto di riflessione in questo
ambito per un’indagine più approfondita, deriva dalla mappa teorica sui modelli educativi proposta in Millennial kids. Growing up in
a boundless world, secondo cui dalla combi-
nazione del modello educativo proposto in un
contesto famigliare e lo stile di consumo tecnologico abituale derivano diversi profili di atteggiamenti dei bambini sia rispetto ai contenuti
mediali, sia rispetto ad altri fenomeni socioculturali (cfr. schema 1).
Secondo tale mappa, l’atteggiamento diffidente del bambino nei confronti della realtà
sociale e mediale deriva da un modello educativo orientato prevalentemente al controllo, spesso autoritario e poco orientato all’autoespressione dell’autonomia interpretativa del bambino, alla creatività e originalità
di pensiero. “Diffidente” è l’aggettivo utilizzato per descrivere il comportamento cultu-
Schema 1
Famiglie
tv-centriche
diffidenti
coinvolti
Orientamento
al controllo
accomodanti
fiduciosi
Famiglie
multi-piattaforme
Fonte: Kaiser Family Foundation, 2011
Orientamento
alla
condivisione
IN•FORMAZIONE
12-2014
78
rale del bambino e rimanda al tipo di forma
mentis che viene a strutturarsi nel bambino e
che condizionerà il suo grado di apertura e di
esplorazione conoscitiva rispetto all’alterità e
alla diversità anche relazionale. Questo tipo di
atteggiamento è fortificato dalla scarsa dotazione tecnologica famigliare e da un consumo
culturale prevalentemente monomediale, che
limita al bambino, dal punto di vista strutturale, qualsiasi canale di accesso all’informazione e alla conoscenza. Se la dotazione strutturale famigliare fosse multipiattaforma, i genitori si troverebbero continuamente nella situazione di contrattare e regolare il consumo
rispetto alla dotazione tecnologica, che consente un accesso facile e autonomo al bambino anche senza la loro approvazione. Il clima
famigliare sarebbe caratterizzato dalla incessante contrattazione o dallo scontro fra orientamenti etico educativi restrittivi e l’accesso
multimediale allineato al bisogno e al desiderio conoscitivo dei bambini.
Un modello educativo improntato sulla
condivisione e lo scambio certamente incentiva lo sviluppo di un atteggiamento mentale
più propositivo e attivo da parte del bambino.
Il grado di esplorazione e di apertura in questo caso sarebbe determinato sempre dalla dotazione tecnologia e dalla tipologia di consumo mediale condiviso in famiglia. Così quando la dotazione e il consumo culturale è monomediale e centrato prevalentemente sulla tv, l’atteggiamento sviluppato dal minore è
“coinvolto” nei confronti della realtà, in virtù
del forte condizionamento del modello educativo. Detto in altri termini, in questa situazione
il nucleo famigliare dispone di capabilities interne (per utilizzare la terminologia della Nussbaum) ma non possiede quelle esterne per garantire il benessere conoscitivo e dunque mentale del bambino. Nel caso invece di dotazioni
multipiattaforma, l’atteggiamento sarebbe prevalentemente “fiducioso” in quanto continuamente sollecitato da una molteplicità di stimoli
conoscitivi fortificati, condivisi e discussi all’interno della famiglia.
Conclusione
Questa prima riflessione sociologica, costruita partendo da alcuni dati di ricerca
della Kaiser Family Foundation rappresenta
uno dei molteplici input da cui partire per
inquadrare e strutturare un percorso di ricerca esplorativa sull’universo infantile in
termini di fruizione dei dispositivi mediali.
Molte di queste riflessioni vanno certamente riadattate al contesto di indagine Italiano,
necessitano altresì di un’integrazione multidisciplinare teorica, in grado di far dialogare il comportamento mediale con la sollecitazione mentale, la contemporanea stimolazione relazionale e mediazione culturale, il
conseguente sviluppo cognitivo e affettivo e
le eventuali implicazione dal punto di vista
psicologico e medico.
Bibliografia
• American Academy Pedriatrics (2011). Media
use by children yuonger than 2 years.
Council on Communication and media, Pediatrics official Journal of the American
Academy of Pediatrics, volume 128, Number 5, pp. 1040-1045
• Bruner J., (1993). La mente a più dimensioni. Roma-Bari: Laterza.
• Cortoni I. (2011). Young Digizen? New
challenges in media education. Milano:
Franco Angeli.
Articoli
79
• De Kerckhove D. (2008). Dall’alfabeto a Internet. L’Homme “littere”: alfabetizzazione, cultura, tecnologia. Milano-Udine: Mimesis Edizioni.
• De Kerckhove D. (1999). L’intelligenza connettiva. Roma: Aurelio de Laurentis Multimedia.
• Douglas A. Gentile, Hyekyung Choo, Albert Liau, Timothy Sim, Dongdong Li, Daniel Fung and
Angeline Khoo (2011). Pathological Video
Game Use Among Youths: A Two-Year Longitudinal Study. Pediatrics official Journal of the American Academy of Pediatrics, volume 127, Number 2, pp. 319-327.
• Galimberti U. (2007). L’ospite inquietante. Il nichilismo e i giovani. Milano: Feltrinelli.
• Gardner H., (1987). Formae mentis. Saggio sulla pluralità dell’intelligenza. Milano: Feltrinelli. • Goleman D. (1996). Intelligenza emotiva.
Milano: Rizzoli.
• Jenkins H. (2010). Culture partecipative e
competenze digitali. Media Education per
il XXI secolo (a cura di Ferri P. e Marinelli
A.). Milano: Guerini e Associati.
• McLuhan M. (1990). Gli strumenti del comunicare, Milano: Il Saggiatore (ed. or.
Understanding media, 1964).
• Meyrowitz J. (1995). Oltre il senso del luogo, come i media elettronici influenza-
•
•
•
•
•
•
•
•
•
•
no il comportamento sociale, Bologna:
Baskerville.
Morcellini M. (1993). Passaggio al futuro.
Milano: Franco Angeli.
Nussbaum M. (2013). Giustizia sociale e dignità umana. Da individui a persone.
Bologna: Il Mulino.
Nussbaum M. (2001). Diventare persone.
Donne e universalità dei diritti. Bologna:
Il Mulino.
Ong W. (1986). Oralità e scrittura, le tecnologie della parola. Bologna: Il Mulino.
Piaget J., Inhelder B. (1970). La psicologia del bambino.Torino: Piccola biblioteca Einaudi, (tit. or. La psychologie de l’enfant, presses Universitaires de France, Paris, 1966).
Rivoltella P. (2012). Neurodidattica. Insegnare al cervello che apprende. Milano:
Cortina.
Shirky C. (2010). Surplus cognitivo. Creatività e generosità nell’era digitale. Torino:
Codice edizioni.
Simone R. (2012). Presi nella rete, la mente ai tempi del web. Milano: Garzanti Libri.
Turkle S. (2011). Alone Together: Why We
Expect More from Technology and Less
from Each Other. Basic Books.
Vygotskij L. (2007), Pensiero e linguaggio.
Ricerche psicologiche. 10ª ed., Roma-Bari:
Laterza.
Articoli
80
Veronica Lo Presti
[email protected]
Dipartimento di Comunicazione e Ricerca Sociale
Sapienza Università di Roma
Disegni di ricerca “a misura” di bambino.
Etnografia dello stile mediale dei minori
in età prescolare
Approcci di indagine per l’analisi
della relazione tra media e minori
Media e minori costituiscono due termini chiave di un campo di riflessione e di analisi complesso e articolato, all’interno del quale è
possibile individuare una molteplicità di oggetti di studio e di questioni problematiche che un
ricercatore sociale può scegliere di esaminare e
approfondire attraverso l’utilizzo di quadri interpretativi differenti che fanno capo ad approcci di
indagine e prospettive di analisi specifiche.
La scelta di utilizzare un approccio di analisi piuttosto che un altro dipende, plausibilmente, da come si concettualizza la relazione
tra media e minori e da quali aspetti di questa relazione si pongono al centro della riflessione e si scelgono come elementi privilegiati di
esame specifico, aprendo la strada a molteplici
possibili direttive di ricerca che è possibile sintetizzare brevemente nella seguente suddivisione (Airoldi, 2012):
1. l’analisi dell’offerta di prodotti comunicativi destinati al pubblico dei minori nel più
ampio panorama dell’industria culturale
(tipi e caratteristiche dei materiali prodotti
e distribuiti per i minori);
2. l’analisi del consumo di prodotti comunicativi sviluppato direttamente dai minori,
anche al di fuori dei prodotti che gli sono
appositamente destinati (a quali materiali, prodotti i minori finiscono per rivolgere
la loro attenzione concretamente leggendo,
osservando, ascoltando, digitando ecc.);
3. l’analisi del pubblico dei bambini – sul piano delle motivazioni, dinamiche e modalità di fruizione, come degli usi specifici dei
testi mediali – come parte anagraficamente determinata del più ampio pubblico dei
media; il focus è sullo studio delle specificità delle modalità di consumo delle fasce
più giovani del pubblico dei media (0-6 anni) e sulle differenze determinate dalla variabile età nell’analisi delle caratteristiche
del pubblico;
4. lo studio degli effetti dei media con una
particolare attenzione ai media digitali che
sono sempre più presenti nei contesti familiari e di socializzazione primaria dei minori; la sempre crescente digitalizzazione della dieta mediale è oggetto di studio in relazione alla condizione di particolare vulnerabilità legata ai processi, in corso, di costruzione dell’identità personale e di sviluppo della competenze adeguate per l’inseri-
Articoli
81
mento futuro del bambino nel tessuto socio-culturale di riferimento, prestando particolare attenzione al rischio del mancato
sviluppo di una strumentazione critica adeguata;
5. lo studio dei modelli e degli stereotipi sui
bambini costruiti e proposti dai testi mediali, nei termini dei tipi di rappresentazione
dell’infanzia e/o dell’ adolescenza veicolata dai programmi Tv, dai film, dai fumetti,
dalla pubblicità, da internet. dai social media ecc.);
6. l’analisi delle leggi e dei codici formali e deontologici ideati per regolamentare e controllare l’esposizione dei minori ai messaggi dei media (istituzione di fasce orarie
protette, codici di autodisciplina, censura)
nonché il trattamento, soprattutto da parte
dell’informazione, delle vicende che li vedono protagonisti spesso “al centro” di programmi di attualità e di informazione al
grande pubblico.
Attualmente esistono tradizioni di studio e
di ricerca empirica su ciascuno degli oggetti di
analisi citati nella mappatura appena illustrata che sono stati messi a fuoco, di volta in volta,
in modi e con accenti differenti dalla riflessione
sull’industria culturale in termini di domanda
e di offerta; dalle ricerche di mercato interessate alla composizione del pubblico dei vecchi e
nuovi media; dalla ricerca valutativa sugli effetti deboli o forti, a breve o a lungo termine;
dalla content analysis dei testi e dei contenuti dei prodotti mediali con una sempre crescente attenzione a quelli digitali; dall’etica della
comunicazione e dalla deontologia professionale fino all’analisi culturale e, quindi, all’etnografia dei reali comportamenti di fruizione
dei bambini in contesti spazio-territoriali e socio-culturali specifici.
Gli analisti dei media che si sono interessati del rapporto complesso e multi sfaccettato tra
media e minori hanno sviluppato un’expertise
di approcci metodologici specifici, una “cassetta degli attrezzi” articolata da utilizzare e personalizzare in base ai contesti e agli interrogativi di indagine nell’ambito di prospettive di inquadramento disciplinare di tipo sociologico,
ora pedagogico, ora psicologico, ora più latamente comunicativo.
Nel panorama complesso degli approcci di
indagine ideati e sperimentati per l’analisi del
rapporto media/minori sembra opportuno avviare una riflessione metodologica di stampo
critico sull’opportunità d’uso di tipi specifici di
approcci e metodologie di analisi in relazione
agli obiettivi cognitivi e alle ipotesi di ricerca, di
volta in volta sviluppate, all’interno di disegni
di ricerca centrati su media e minori.
L’obiettivo più ampio di questa riflessione è
quello di stimolare il dibattito sulle metodologie di analisi della relazione tra media e minori, al fine di sollecitare i ricercatori ad una concettualizzazione puntuale dei fattori e delle variabili che si intendono indagare in un percorso di ricerca e alla costruzione di strategie di
indagine “adeguate al problema” (Dewey,…)
e, quindi, in grado di rispondere validamente
agli interrogativi principali che si aprono intorno alla quaestio media-minori e ideando disegni di ricerca “a misura” di bambino.
In particolare, in questo saggio, si focalizzerà
l’attenzione su una sottodimensione importante del rapporto tra media e minori, ovvero quella relativa agli effetti della dimensione familiare e socio-culturale dei bambini in età prescolare rispetto alle possibilità di sviluppo di una dieta mediale, in grado di condizionare lo sviluppo delle competenze (di base e trasversali) e, di
conseguenza, il processo di costruzione e radicamento dell’identità personale dei bambini.
IN•FORMAZIONE
12-2014
82
Su questo problema di ricerca, l’approccio
etnografico e l’analisi culturale sembrano aver
sperimentato delle possibilità di analisi e di approfondimento interessanti, in grado di esaminare le modalità di costruzione degli stili mediali dei bambini all’interno dei contesti familiari e sociali quotidiani, in cui si apprendono
e si mettono in pratica specifici comportamenti di fruizione dei media e si sviluppano le competenze indispensabili per la costruzione dell’identità personale e l’inserimento nella realtà
sociale.
Stili mediali, capitale sociale familiare
e formazione dell’identità personale
dei bambini
Prima di illustrare nello specifico le caratteristiche dell’approccio etnografico come prospettiva di analisi particolarmente adeguata allo studio dei comportamenti di fruizione mediale dei bambini all’interno dei contesti principali di socializzazione familiare e sociale,
sembra opportuno tenere presenti due scenari di fondo, indispensabili premesse della riflessione metodologica successiva.
La prima considerazione si riferisce alla
concettualizzazione che si condivide in questa sede dell’idea di “stile mediale” dei minori (cfr. Cannizzo, 1995; Faggiano, 2007), inteso come un concetto complesso e multidimensionale che può essere ricondotto all’insieme
delle modalità di fruizione personalizzata dei
media – digitali e non – strutturato da ciascun soggetto fin dall’età prescolare sulla base dell’influenza del comportamento mediale
della famiglia di origine nonché delle dinamiche di interazione e comportamentali come delle tradizione educative dei genitori; variabili che inevitabilmente si mixano e orien-
tano le scelte di fruizione e di consumo mediale dei bambini, inducendo all’acquisizione
di uno stile mediale personale che andrà, in
ipotesi, a produrre effetti rilevanti anche sullo sviluppo di competenze (di base e meta) del
bambino e, di conseguenza, sulla costruzione
della sua identità personale e sociale.
In quest’ottica, si inserisce la seconda considerazione di sfondo al saggio in questione, riferita allo studio delle variabili sociali che possono influenzare la costruzione degli stili mediali dei bambini e, in seconda battuta, incidere sul processo di formazione delle competenze
e dell’identità dei futuri giovani.
Il rapporto articolato e complesso tra stile
mediale del bambino, competenze sviluppabili e formazione dell’identità costituisce un terreno di ricerca particolarmente importante, ma
al contempo difficile e spinoso, proprio a causa
della necessità di mettere a punto e sperimentare sul campo modelli teorici e quadri interpretativi complessi (Rogers, 2008) in grado di
esaminare i molteplici potenziali fattori di influenza che, nel contesto familiare e sociale
quotidiano di socializzazione e di vita dei bambini, possono avere degli effetti di breve e/o lungo termine fino ad orientare il processo di sviluppo dell’identità personale e a condizionare
le capacità dei minori di interpretare la realtà e di agire quotidianamente nei contesti sociali di vita.
Lo sfondo descritto offre una chiave di lettura e di analisi critica che consente di collocare i media tradizionali e digitali in una prospettiva corretta rispetto alle posizioni contrapposte, e spesso richiamate in termini eccessivamente dicotomici, degli apocalittici e degli integrati. Non sembra utile propendere per l’uno
o l’altro dei due fronti, piuttosto sembra urgente chiedersi fino a che punto e in che modi specifici i mezzi di comunicazione di massa riesco-
Articoli
83
no a condizionare processi di sviluppo e di crescita che vedono come protagonisti i minori in
relazione con gli adulti/educatori.
Più precisamente, ciò significa considerare i media contemporaneamente sotto diversi aspetti e quindi come agenti di socializzazione, ora complementari ora concorrenziali con
quelli tradizionali, a partire dalla famiglia e
dalla scuola; come parte fondamentale del contesto in cui si sviluppa la formazione dell’identità del bambino, con tutto quanto ne consegue
in termini culturali, sia per l’adulto che per il
minore, e come risorsa socioculturale comune
legata inevitabilmente alla disponibilità di altre risorse: economiche-di accesso, socio-comportamentali, affettive ed educative. Aspetti che
possono essere ricondotti al concetto di capitale
sociale familiare, che si ritiene in ipotesi un fattore chiave per la messa a punto di modelli di
analisi dello stile mediale dei bambini, in grado di analizzarne anche l’influenza in termini
di formazione dell’identità personale e sociale.
Il riferimento al concetto di capitale sociale, come variabile fondamentale per l’analisi
della formazione dello stile mediale del bambino e della sua influenza sul processo di sviluppo delle competenze indispensabili per inserirsi “con successo” nel tessuto socio-culturale
di vita, si connette alla natura di risorsa offerta
dai new media al gruppo familiare. Si tratta di
una risorsa che può essere utilizzata per avviare nuovi terreni di socializzazione, nuovi ambiti di incontro intergenerazionale, nuovi percorsi di reciproca valorizzazione. I new media difatti costituiscono, un vero e proprio ambiente, uno spazio sociale virtuale, una porzione
simbolica del nostro mondo in cui si compiono
esperienze che coinvolgono l’identità personale
e di gruppo, i valori, le regole della convivenza.
È ormai condivisa, nel dibattito su media e
minori, l’idea che i media digitali pongano al-
la famiglia un nuovo impegno educativo (oltre
che autoeducativo), ovvero quello di insegnare
ai più piccoli come muoversi dentro il mondo
dei new media, giudicando tutto quello che incontrano e trattenendo solo ‘ciò che vale’.
L’approccio etnografico come strategia
di analisi per contestualizzare
la formazione dello stile mediale
dei bambini da 0 a 6 anni
L’analisi della relazione tra capitale sociale familiare, stile mediale e sviluppo di competenze e identità dei bambini risulta un obiettivo di ampio respiro che esce dai confini di questa trattazione, ma che è opportuno esplicitare
come intento più ampio che fa da sfondo al ragionamento sviluppato.
In questa sede ci si concentra sull’adeguatezza dell’approccio etnografico come strategia
di analisi utile per la rilevazione e comprensione del processo di formazione dello stile mediale del bambino da 0 a 6 anni, fascia di età che,
come è noto, si riferisce a soggetti in piena socializzazione e formazione identitaria, e quindi con una strumentazione critica e di ragionamento non ancora giunta a maturazione.
Si aggiunga a questo, il fatto che i bambini sotto i tre anni non possiedono ancora una
capacità di espressione tramite il linguaggio
in grado di consentirgli di essere “interrogati”
sulle pratiche quotidiane di consumo mediale e
culturale, e che anche dai 3 ai 6 anni la padronanza della lingua non è comunque giunta ad
un livello tale da consentire ai bambini di formulare risposte chiare rispetto alle domande di
un questionario.
In generale, l’approccio della survey research e la tecnica dell’intervista con questionario non sembrano costituire i metodi più ade-
IN•FORMAZIONE
12-2014
84
guati alle indagini focalizzate sulle scelte e le
preferenze in termini di dieta mediale dei bambini, che costituiscono un target specifico, che
occorre osservare all’interno dei propri contesti
“naturali” di vita (come la famiglia o la scuola), in una prospettiva che ha le sue origini nella tradizione di ricerca della “Scuola ecologica” di Chicago1. L’individuazione di un approccio di ricerca in grado di studiare efficacemente le modalità di formazione e di acquisizione
dello stile mediale del bambino, è operazione
preliminare imprescindibile per procedere, in
un secondo momento, all’analisi dell’influenza del capitale sociale familiare sullo sviluppo
di competenze e sulla costruzione dell’identità
dei bambini.
Gli studi della communication research
hanno condotto ad un’acquisizione metodologica importante che qui sembra opportuno richiamare: la relativizzazione di ogni ricerca al
suo contesto.
Si tratta di un’acquisizione che è stata fatta propria dalla più attuale ricerca microsociologica e qualitativa e che ha spinto alla sperimentazione sempre più diffusa dell’approccio
etnografico e degli studi culturali per l’analisi
del consumo mediale dei bambini. Infatti, di recente, molti ricercatori hanno scelto di abbandonare finalità ‘universali’ e campioni statisticamente rappresentativi secondo la tradizione
(per quanto autorevole) della survey research
e dell’analisi quantitativa, a favore di campio1. L’approccio etnografico viene utilizzato per la prima volta in Sociologia nel primo ventennio del ’900, per
opera di alcuni docenti e ricercatori che lavoravano presso il Dipartimento di sociologia istituito dal 1892 nell’università di Chicago. I ricercatori della scuola di Chicago
diedero vita ad un ricco programma di ricerche che si proponeva, principalmente, di analizzare “in diretta” i fenomeni urbani, osservandoli nei luoghi dove nascevano e si
svolgevano (Park, 1916).
ni meno estesi o di studi di caso (Hin,…), su
cui effettuare ricerche mirate, che più che alla
generalizzazione dei risultati tendono alla ricchezza qualitativa del dato, e che sono in grado di individuare delle tendenze, degli orientamenti, da verificare poi in altre situazioni e
contesti similari.
Proprio all’interno di questa prospettiva si
colloca l’approccio etnografico, di matrice anglosassone, che anche in Italia ha portato i primi contributi nell’ottica di una osservazione
del consumo mediale ancorato allo specifico
contesto in cui avviene, dando luogo a un filone di studi ad hoc noto come “etnografia del
consumo mediale”.
È acquisito che la scelta della strategia di ricerca più adeguata allo studio di ciascuno degli aspetti della relazione tra media e minori è
strettamente legata alla definizione delle ipotesi di indagine, agli obiettivi generali e specifici
e al contesto della ricerca.
Occorre, quindi, riflettere sulle caratteristiche specifiche sul piano tecnico-metodologico dell’etnografia per valutare l’opportunità di
utilizzarla ai fini dell’analisi della formazione
e acquisizione degli stili mediali dei bambini in
età prescolare.
Etnografia del consumo mediale
dei bambini
Gli studi condotti in base all’approccio etnografico si fondano sull’utilizzo della metafora della “cultura”, in base alla quale, i contesti sociali relazionali sono analizzati come entità culturali e simboliche e la ricchezza della vita organizzativa può essere colta attraverso modelli di ricerca interpretativi e interattivi
(Gagliardi, 1995). Negli ultimi due decenni, il
metodo etnografico è divenuto, tra le opzioni di
Articoli
85
matrice qualitativa, quello più frequentemente
adoperato e accreditato per l’analisi della cultura mediale dei bambini contestualizzata negli ambienti quotidiani di vita.
Recentemente Marzano (2006) afferma
che, attualmente, l’etnografia può essere definita come un metodo di ricerca sociale caratterizzato dall’utilizzo dell’osservazione partecipante, ovvero dal fatto che il ricercatore sceglie
di studiare la realtà sociale attraverso la presenza fisica e l’osservazione diretta sul campo
di indagine delle attività ordinarie di un gruppo sociale. In questo lavoro, in generale l’etnografia è definita come un approccio d’indagine utile ad analizzare contesti sociali di diverso tipo (come relazioni, professioni, organizzazioni, mondi ecc.) in base ad una prospettiva
“non scontata”, ad “un certo sguardo” direbbero Dal Lago e De Biasi (2002) con l’ausilio di
un vasto bagaglio di tecniche di ricerca, tra cui
anche, ma non solo, l’osservazione partecipante. Inoltre, recentemente, la ricerca etnografica
nel campo degli studi su media e minori è stata combinata con strumenti interpretativi eterogenei come l’analisi conversazionale (Boden,
1994), la semiotica (Barley, 1983) e lo studio
funzionalista delle culture organizzative (McDonald, 1988).
La diffusione dell’approccio si accompagna a dibattiti piuttosto accesi sull’utilità effettiva dell’etnografia nel rapporto media e minori, sulla sua capacità di dare ordine e coerenza agli studi qualitativi in questo campo e di
costituire un’alternativa convincente all’analisi quantitativa.
Come afferma Van Maanen (1979), l’approccio etnografico consente a chi lavora sul
campo di utilizzare la cultura dell’ambiente in
osservazione (nei termini del patrimonio di conoscenze socialmente acquisite e condivise dai
partecipanti dell’ambiente) per spiegare le re-
golarità osservate in certe attività umane. La ricerca etnografica è caratterizzata da “un lungo periodo di residenza e di studio ravvicinato
in una comunità ben definita, in cui si utilizza un’ampia gamma di tecniche di osservazione, quali un prolungato contatto faccia a faccia
con i membri di gruppi locali, la partecipazione diretta ad alcune attività di gruppo, nonché
un’enfasi più pronunciata sul lavoro intensivo
a contatto con informatori che non sull’impiego di dati di carattere documentario o ricavati da inchieste”.
Comune a tutti coloro che scelgono la ricerca etnografica è l’interesse per l’osservazione dell’azione sociale, l’attenzione a “ciò che
le persone concretamente fanno” nella loro vita quotidiana in specifici contesti, l’importanza delle pratiche di interazione sociale e dei significati, dei “sensi” da esse prodotti (Marzano,
2006). Ciò sembra estremamente importante ai
fini di un’analisi orientata ad esplorare fattori
in ipotesi rilevanti rispetto alla costruzione dello stile mediale del bambino come le tradizioni e le abitudini educative dei genitori, le dinamiche relazionali, lo stile di vita familiare, che
possono essere indagate adeguatamente solo se
“situate” negli specifici contesti in cui si praticano e si attuano concretamente. In altre parole, si tratta di fattori su cui sembra meno indicato “porre domande” ma sia necessaria l’osservazione nei contesti naturali di messa in atto
delle relative pratiche. Le pratiche di vita quotidiana possono essere rilevate efficacemente
se situate nei contesti in cui sono naturalmente e concretamente messe in atto. E ciò è tanto
più vero se l’obiettivo è quello di capire come
queste pratiche familiari possono influenzare e
contribuire a strutturare le pratiche dei bambini, anche con riferimento specifico alle scelte di consumo culturale e alla formazione dello stile mediale.
IN•FORMAZIONE
12-2014
86
D’altra parte, le caratteristiche dell’approccio etnografico ben si adattano a questo obiettivo cognitivo e possono essere sintetizzate nei
seguenti punti:
•l’esserci, lo stare fisicamente sul campo che
comporta uno studio longitudinale, esteso
lungo un periodo prolungato di tempo, fondamentale per ricostruire la storia familiare e di crescita del bambino e portarne alla
luce le specificità rispetto al contesto di socializzazione primaria;
• oltre ad esserci, è opportuno, in uno studio etnografico, raccogliere tutte le informazioni possibili sul contesto di vita e relazionale, analizzandone anche i documenti,
i manufatti, gli oggetti, in quanto parte delle espressioni visibili della dimensione culturale e di significato dei bambini;
• l’accesso al campo e l’instaurazione di relazioni fiduciarie con gli “informatori” costituisce un elemento di grande rilevanza per
l’analisi del contesto di formazione dell’identità personale e sociale del bambino;
• il ricercatore etnografo deve costantemente
cercare un equilibrio tra il distacco totale e
il coinvolgimento pieno rispetto alla realtà
osservata;
• la raccolta minuziosa di tutto ciò che si osserva in quaderni di appunti è la base per la successiva elaborazione di un resoconto finale.
Per le caratteristiche illustrate, è possibile
considerare l’ “etnografia” come un approccio
di ricerca adeguato a descrivere e a comprendere il funzionamento dei contesti quotidiani, relazionali e sociali di vita dei bambini attraverso
l’osservazione delle pratiche effettive della vita
ordinaria di un gruppo sociale. Si tratta di un
approccio, ovvero di un modo generale di guardare una realtà, fatta di micro-cosmi continuamente modificati dalle interazioni e interpretazioni dei membri che li compongono, orienta-
to da quel “certo sguardo”, di cui parlano Dal
Lago e De Biasi (2002), che consente di inquadrare gli eventi ordinari in una prospettiva non
scontata e di problematizzarli.
L’osservazione partecipante costituisce la
tecnica privilegiata di analisi dei micro-contesti della vita sociale, ma non l’unica. La raccolta di documenti formali e informali, le storie di
vita, le interviste focalizzate, il focus group come l’analisi secondaria di dati statistici possono risultare tecniche utili nell’economia di un
percorso di ricerca, quale quello etnografico,
contraddistinto da una costante “imprevedibilità” (Marzano, 2006).
L’etnografia può rappresentare un approccio adeguato allo studio dei contesti di formazione e radicamento delle scelte mediali dei
bambini in quanto si fonda su una concezione
di cultura organizzativa associabile a quel “sistema di senso, pattern di significati solo apparentemente invisibili” (Piccardo, 1995, p. 84),
che si esprimono non solo attraverso le forme
del linguaggio assunte dallo scambio intersoggettivo, ma anche attraverso le forme simboliche e gli artefatti del processo di vita della famiglia (i prodotti in sé, il disegno degli spazi di
vita e delle case, l’arredamento, il modo di vestirsi, i riti e le cerimonie ecc.). È proprio attraverso questo campo simbolico che si realizza il processo di costruzione culturale; le forme
espressive della vita delle micro-organizzazioni
familiari sono contemporaneamente i “luoghi”
dove la cultura si cristallizza ed è rintracciabile,
e i mezzi attraverso i quali è tramandata, perpetuata e fatta evolvere. In questa prospettiva,
come afferma Van Maanen (1979), sarebbe irrealistico pensare esclusivamente di interrogare i bambini o i loro familiari quanto sarebbe
difficile “chiedere ai pesci di descrivere l’acqua
nella quale quotidianamente nuotano”, dato
che probabilmente i pesci non hanno mai fat-
Articoli
87
to caso al tipo di acqua, né si sono mai chiesti
di cosa sia composta. Allo stesso modo, chi vive
in un contesto intimo come il nucleo familiare
di un bambino, probabilmente, non è cosciente
della cultura che ha costruito, che sta facendo
propria e che orienta ogni suo gesto e azione; il
sistema culturale di riferimento degli attori sociali, incarnato nel gergo proprio del nucleo in
cui vivono e degli artefatti, nei prodotti di chi vi
opera non può emergere da semplici risposte a
domande contenute in un questionario preconfezionato e standardizzato, né da risposte razionalizzate a domande aperte.
Gli studiosi della cultura organizzativa
in accordo con tale posizione, hanno criticato aspramente i ricercatori che hanno cercato di “misurare” le culture familiari attraverso
questionari psicometrici precostituiti, senza un
preliminare investimento etnografico sul campo.2 Al fine di cogliere il significato delle microculture familiari è necessario studiare il contesto in cui esse si generano collocandosi tra gli
attori e nella posizione dell’attore leggendo la
realtà “dal suo punto di vista”.
Le più recenti riflessioni degli studiosi afferenti all’approccio etnografico nelle organizzazioni si fondano sulla necessità di lavorare “sul
campo”, di ricostruire gli “ongoing processes”3
(Weich, 1979) in una logica di ricerca storica
2. Rousseau (1991) ha realizzato un inventario di
questi strumenti tra cui è possibile ricordare: il cultural
gap survey di Kilman e Saxton del 1983, l’organizational
culture inventory di Cooke e Lafferting del 1989, che misura le norme comportamentali categorizzate in dodici scale, e l’organizational culture profile di O’Reilly, Chatman
e Caldwell del 1988, che misura cinque categorie di valori.
3. Secondo Weick è interessante la comprensione
delle azioni e del loro significato così come si manifestano
non solo nel loro contesto sociale, ma anche nel loro divenire attraverso la ricostruzione degli “ongoing processes” (1969, p. 35).
che Pettigrew (1979) ha definito processuale,
longitudinale e genetica.
Bibliografia
• Airoldi P. (2012). EU Parents Online. L’importanza del contesto familiare. I ragazzi e la rete. La ricerca EU Kids Online e il
caso Italia. Brescia: La Scuola.
• Barley S.R. (1986). “Semiotics and the
study of occupational and organizational culture”. Administrative Science Quarterly, n. 31: 393-413.
• Boden D. (1994). The business of talk. Organization in Action. Cambridge: Polity Press.
• Cannizzo D. (1995). Realtà giovanile, mass
media e consumi culturali. Roma: Bonanno.
• Dal Lago A., De Biasi R. (2002) a cura di. Un
certo sguardo. Introduzione all’etnografia sociale. Roma-Bari: Laterza.
• Faggiano M. (2007). Stile di vita e partecipazione sociale giovanile. Milano: Franco Angeli.
• Gagliardi P. (1995, a cura di. Le imprese come culture: nuove prospettive di analisi
organizzativa. Milano: Isedi.
• Marzano M. (2006). Etnografia e ricerca sociale. Roma-Bari: Laterza.
• Pettigrew A. (1979). “On studying organizational cultures”. Administrative Science Quarterly, n. 1.
• Rogers P. (2008). “Using Programme Theory to Evaluate Complicated and Complex Aspects of Interventions”. Evaluation,
Vol. 14 (1): 29-48, London: Sage.
• Van Maanen J. (1979). “Reclaiming qualitative methods for organizational reserch: a
preface”. Administrative Science Quarterly, n. 24: 520-526.
• Weick K. (1969). The Social Psychology of
organizing. Addison Weasly: Reading MA.
Articoli
88
Paola Panarese
[email protected]
Dipartimento di Comunicazione e Ricerca Sociale
Sapienza Università di Roma
I net babies come target pubblicitario.
La socializzazione al consumo dei bambini
in età prescolare
Il mercato dei bambini
Marketing e pubblicità li definiscono
pre-school (Eurisko 2010) o net babies (Lombardi 2010). Sono quei bambini tra 0 e 5 anni
«nati sotto il segno dell’interattività»1, che «la
marca d’oggi non può sottovalutare» (Lombardi 2000, p. 310). A loro è dedicata una quota
crescente d’attenzione e investimenti, sia per il
ruolo di acquirenti di domani, sia per l’influenza sorprendente che hanno sulle spese familiari
(McNeal 1999 e 2007; Gunter, Furnham 1998;
Linn 2005; Schor 2005; Mayo, Nairn 2010).
Quelli in età prescolare sono considerati soprattutto consumatori dipendenti e in
divenire, appartenenti, a seconda dei casi, a
mercati primari, secondari, d’influenza o
futuri (Ironico 2010). Se sono rare le circostanze in cui i bambini al di sotto dei cinque
anni costituiscono un mercato primario (perché difficilmente possono farsi carico per intero di un processo d’acquisto o comprender1. Come quella di nativi digitali, net babies è un’espressione che ha l’ambizione di definire un gruppo di individui in relazione all’epoca mediale in cui sono nati, a
prescindere da altre differenze certamente più importanti e significative. È, dunque, un epiteto parziale e in buona misura discutibile.
ne le fasi e le norme di funzionamento2), nella maggior parte dei casi essi sono considerati un mercato secondario, quello in cui le
scelte vengono effettuate da altri soggetti, generalmente i genitori. Ciò è particolarmente evidente nella primissima infanzia, quando i destinatari dei beni, pur essendo portatori di specifiche esigenze di consumo, non hanno le abilità motorie e cognitive (come la manipolazione fine, la locomozione e il linguaggio) per poterle soddisfare autonomamente. Si
tratta soprattutto del periodo che va dalla nascita ai dodici mesi circa d’età, ma anche del
successivo, quello in cui i bambini continuano a essere destinatari di beni quali capi d’abbigliamento, giocattoli, prodotti per l’igiene,
cibo o viaggi, per i quali non vengono coinvolti nei processi d’acquisto.
2. Ciò non accade quasi mai prima dei 7 anni, perché è necessario acquisire alcune conoscenze e abilità per
poter effettuare una transazione economica, come saper
usare il denaro, riconoscerne il valore, avere nozioni elementari su marche e prodotti, comprendere il ruolo del
personale di vendita, ecc. Queste competenze si acquisiscono più in là con l’età e quando i genitori mandano i
propri figli nei negozi del vicinato a comprare beni di prima necessità come il pane o il latte o prodotti di basso valore economico, quali gelati, patatine, caramelle o piccoli
gadget (Ironico 2010).
Articoli
89
In ogni caso, sono poche le scelte familiari che non prevedono alcuna influenza da parte dei più piccoli. Pur non partecipando direttamente alle decisioni dei genitori, i bambini
possono orientare gli acquisti, manifestando le
proprie preferenze – verbalmente dopo un anno di vita, tramite pianti, espressioni di piacere
o di disgusto nei primi mesi – o condizionandole indirettamente con la loro semplice presenza. Con l’arrivo di un figlio, infatti, una parte della spesa familiare un tempo destinata ad
altro è dirottata verso i prodotti per l’infanzia,
cambiano il tipo di attività svolte nel tempo libero, la destinazione per le vacanze e i consumi culturali e i cibi consumati (Ironico 2010).
Non stupisce quindi che molte risorse del marketing e della comunicazione pubblicitaria siano investite per quei bambini considerati consumatori di domani, ma anche influenzatori
importanti, che è bene coltivare sin da piccoli (Linn 2005).
Il marketing per l’infanzia
Per raggiungere e conquistare i più piccoli
sono state elaborate specifiche strategie di marketing e comunicazione. Tra queste, è piuttosto
diffusa la prassi che tende ad associare l’ambito ludico ai prodotti più vari. È il caso del gift in
pack, ossia l’inserimento di un gioco omaggio
in una confezione, come per gli ovetti Kinder, la
patatine Salati Preziosi, le merendine del Mulino Bianco o l’Happy Meal di Mc Donald (Ironico 2010). Ma è anche ciò che si verifica nel
trans toying, ossia la trasformazione di prodotti d’uso comune in giochi, come accade per biscotti, caramelle o patatine a forma di lettere
o animali, per spazzolini da denti, shampoo o
bagnoschiuma trasformati in giochi, o per stivali, ombrelli o mantelle cui sono applicati oc-
chi e bocca, come se fossero personaggi di fantasia (Linn 2005).
Anche la miniaturizzazione dei beni per
adulti, sia nel formato che nel nome, è funzionale a raggiungere e conquistare l’attenzione
dei bambini. È ciò che avviene per scarpe e capi d’abbigliamento di dimensioni ridotte o per
prodotti alimentari quali i Piccolini, i Tegolini, le Crostatine, i Saccottini di Mulino Bianco
e Barilla o i Sofficini di Findus (Ironico 2010).
Altra strategia è quella della age compression, che risponde al desiderio dei più piccoli di
sentirsi e sembrare grandi e consiste nel destinare ai bambini prodotti indirizzati a preadolescenti o ragazzi, come i cosmetici, le scarpe con
i tacchi o, in generale, capi di abbigliamento
con lo stesso stile e il medesimo taglio di quelli
delle collezioni per adulti (Linn 2005).
Inoltre, sono piuttosto diffuse (e discusse) quelle strategie comunicative che invitano
i bambini non solo a desiderare alcuni prodotti, ma anche a chiederli insistentemente, come
nel caso del nag factor o pester power. Si tratta di una prassi rintracciabile in quelle pubblicità che chiedono ai figli di reclamare ossessivamente un prodotto, finché non lo otterranno
(Zanacchi 2004).
Infine, è abbastanza consolidata la pratica di adattare i messaggi a mamme e bambini,
cercando di persuadere entrambi con promesse
differenti e diversamente attraenti: di qui campagne basate sul cosiddetto dual messaging,
che promuovono uno stesso prodotto alimentare, per esempio, dicendo alle mamme che è
ricco di vitamine e ai bambini che è buonissimo (Schor 2005).
Le strategie elaborate e utilizzate sono varie, articolate e piuttosto raffinate, a dimostrazione di un investimento solido e importante
nella comunicazione rivolta a un target percepito come interessante e redditizio.
IN•FORMAZIONE
12-2014
90
Bambini e pubblicità
I bambini in età prescolare hanno caratteristiche peculiari, che li rendono particolarmente sensibili alle strategie descritte e alle modalità comunicative della pubblicità in generale.
Solo dopo i 6 anni, infatti, colgono la distinzione tra uno spot e il resto della programmazione
e dopo gli 8, quando si completa il loro sviluppo
cognitivo, sanno riconoscere l’intento persuasivo della pubblicità (Zanacchi 2004). Pur diventando via via più cinici e consapevoli, però, non
sono necessariamente meno influenzabili. Basti pensare a una ricerca di qualche anno fa di
un osservatorio dell’agenzia McCann Erickson,
secondo la quale 19 bambini su 100 di età compresa tra i 7 e i 12 anni ritenevano che il “bastoncino” fosse un tipo di pesce a cui seguivano,
nella classifica delle specie conosciute, il delfino, lo squalo, gli “anellini fritti” e il “merluzzo
surgelato”. E se 25 bambini su 100 definivano il
Paradiso come il posto in cui vive Dio, 22 pensavano che fosse un luogo dove si beve il caffè,
come in una nota serie di spot (Panarese 2009).
Così, se uno dei principali scogli che oggi
un messaggio pubblicitario deve affrontare è
l’insofferenza o il rifiuto del destinatario, quando questo è un bambino le cose vanno diversamente: i più piccoli, infatti, sono entusiasti
fruitori della pubblicità, tanto che una ricerca
americana del 1996 dal titolo Kid Screen, svolta su bambini dai 4 ai 12 anni, dimostrava che
più dell’85% affermava di non cambiare canale quando andavano in onda gli spot, ma anzi di guardarli con interesse (Lombardi 2010).
Poiché però, soprattutto per i bambini in
età prescolare, le capacità cognitive non sono
ancora pienamente sviluppate, la corretta elaborazione di un annuncio è un processo difficile. Di qui la tendenza dei pubblicitari e ricorrere a escamotage come la ridondanza, la preva-
lenza delle immagini sulle parole, la centralità
della musica, l’uso di animazioni o la presenza di personaggi fantastici e scenari fiabeschi,
funzionali a rendere il messaggio più attraente
per i più piccoli (Ibid.).
Sulle strade da seguire per attrarre e persuadere i bambini all’acquisto, comunque, esiste un letteratura piuttosto ricca e certamente
più solida di quella volta a indagare gli effetti di
tali investimenti nella precoce socializzazione
al consumo che precede il tempo della scuola.
Un pubblico “in crescita”
Con l’intenzione di comunicare al meglio
e nei giusti canali ai bambini tra 0 e 5 anni,
aziende e agenzie di comunicazione ne registrano da tempo le abitudini mediali e i consumi culturali. Così, sono piuttosto diffusi, soprattutto negli Stati Uniti, convegni come gli
annuali “Advertising and promoting to KIDS” o
“Forza dei bambini”3, dove il termine forza ha
un connotato economico, o pubblicazioni come
“Il mercato statunitense dei prodotti per bambini dai sei agli otto mesi, dai nove ai trentasei,
e per bambini in età prescolare. Vol. 1-3”, che
nella sua seconda edizione costava 6000 dollari (Ironico 2010).
Anche in Italia, tra le ricerche sistematiche
su tale fascia d’età e la sua dieta mediale si rintracciano quasi esclusivamente quelle di istituti di indagini di mercato come Eurisko, che ai
bambini tra 2 e 5 anni dedica una parte del report annuale Kids, Teens and Post-Teens (224 anni). Quella di Eurisko (2010) è un’ana3. Il convegno, organizzato dall’azienda Kid Power
Exchange, prevede diverse sezioni come “Forza dei bambini cibo e bevande”, “Forza dei tweens”, “Forza dei teenagers”.
Articoli
91
Figura 1
Fonte: Eurisko 2010
lisi che punta alla misurazione dei mercati di
riferimento, dei comportamenti di consumo e
dell’esposizione ai mezzi di bambini e ragazzi.
Un’utile fonte di informazione sulle diete mediali e i consumi culturali di un cluster quasi del tutto ignorato dalle scienze sociali e della
comunicazione. La fascia d’età tra i 2 e 5 i anni è indagata tramite un forum online, cinque
colloqui in profondità e quattrocento interviste
faccia a faccia con le mamme. Tra i risultati più
interessanti, si rileva la centralità della Tv nelle esistenze dei pre-school e la sua forte capacità attrattiva: nel 2010, per esempio, la guarda quotidianamente il 64% di chi ha tra i 2 e i 5
anni (ma anche l’86% di chi ha tra i 6 e i 10 anni e l’84% dei ragazzi tra gli 11 e i 13)4, e lo fa in
diversi momenti della giornata, come la mattina mentre ci si prepara per andare a scuola, nel
tardo pomeriggio e durante i pasti (cfr. fig. 1).
Nelle intenzioni della famiglia, la Tv dovrebbe essere poca e selezionata, con una fruizione centrata nel pomeriggio per i più piccoli
4. Più contenuta è l’esposizione ad altri mezzi come la radio e il Web. E se l’uso della Rete non è registrato
da Eurisko per i pre-school, si rileva comunque che la dotazione di pc e connessione a internet nelle famiglie con
bambini di diverse fasce d’età cresce radicalmente negli
ultimi dieci anni.
IN•FORMAZIONE
12-2014
92
Figura 2
Fonte: Eurisko 2010
e nell’orario pre-serale per i più grandi. Non a
caso, i genitori dichiarano di esercitare un controllo sull’esposizione dei figli al mezzo televisivo, sia limitando i tempi di fruizione, sia scegliendo i programmi della fascia serale e della Tv generalista. Tuttavia, nel pomeriggio e sui
canali tematici per l’infanzia il controllo sembra blando o assente.
Per quanto riguarda la pubblicità, sebbene
apparentemente i bambini si dichiarino infastiditi dall’interruzione dei loro programmi, Eurisko rileva che ne rimangono spesso affascinati: tutti ricordano e sanno descrivere diversi annunci e qualcuno afferma con orgoglio di
avere avuto l’occasione di partecipare ad alcuni spot. Sette bambini su dieci apprezzano la
pubblicità televisiva (più di quella su altri mezzi) e gli spot in cui i protagonisti sono coetanei,
soprattutto se rappresentati in situazioni “normali” in cui rispecchiarsi, come quando “giocano” (16%), “fanno i birichini” (12%) o sono “insieme alla famiglia” (10%). In generale,
i più piccoli considerano la pubblicità una forma di intrattenimento, tanto che preferiscono
quella “buffa, che fa ridere” (73%) (Cfr. fig. 2).
Sono questi dati che fanno riflettere. Non solo perché dimostrano l’attenzione per i bambini
in età prescolare di marketing e pubblicità, pri-
Articoli
93
ma ancora che delle istituzioni pubbliche o politiche, ma anche perché svelano la naturale attrazione dei più piccoli per un mezzo e una forma di comunicazione che hanno un ruolo importante nel loro processo di crescita e formazione, al fianco (e talvolta al posto) di altre agenzie di socializzazione. D’altronde, la stessa ricerca di Eurisko citata rivela che nella fruizione della Tv, la funzione di orientamento e filtro della
famiglia è blanda o limitata ad alcuni momenti:
i bambini vedono spesso da soli i programmi pomeridiani e raramente ne parlano con i genitori.
Dunque, le situazioni e i personaggi della televisione e della pubblicità restano oggetto di un’elaborazione prevalentemente solitaria.
È evidente, quindi, che l’addestramento al
consumo (e non solo) comincia già dalla prima infanzia, per opera di quei media che sembrano avere un importante funzione anticipatoria e supplente dei processi di socializzazione, accanto alla famiglia e prima della scuola.
Bibliografia
• Berti A.E., Bombi A.S. (1988). The Child’s
Construction f Economics. New York:
Cambridge University Press.
• Bauman Z. (2008). Consumo, dunque sono.
Roma-Bari: Laterza.
• Eurisko (2010). Kids, Teens and Post-Teens
(2-24 anni), su www.gfk.com/it
• Gunter B., Furnham A. (1998). Children as
Consumers: A Psychological Analysis of the
Young People’s Market. London: Routledge.
• Ironico S. (2019). Come i bambini diventano consumatori. Roma-Bari: Laterza.
• Linn S. (2005). Il marketing all’assalto
dell’infanzia. Come media, pubblicità e
consumi stanno trasformando per sempre
il mondo dei bambini. Milano: Orme editori.
• Lombardi M. (2000). Il dolce tuono. Marca
e pubblicità nel terzo millennio. Milano:
Franco Angeli.
• Mayo E., Nairn A. (2010). Baby consumatori. Come il mercato compra i nostri figli.
Modena: Nuovi mondi.
• McNeal J.V. (1999). The Kids Market: Myths
and Realities. New York, Paramount: Market Publishing, Ithaca.
• McNeal J.V. (2007). On Becoming a Consumer: Development of Consumer Patterns in Childhood. Oxford: Elsevier.
• Metastasio R. (2007). Bambini e pubblicità. Roma: Carocci.
• Morcellini M., Panarese P. (2008). “Generazioni anche online: tra empowerment e
rischi”, 9° Rapporto Nazionale sulla condizione dell’infanzia e dell’adolescenza,
Roma, Eurispes – Telefono azzurro.
• Moschis G. P. (1987). Consumer Socialization: a Life-Cycle Perspective. Lexington
(MA): Lexington Book.
• Panarese P. (2009). “La pubblicità sui banchi di scuola. Proposte per un percorso
laboratoriale di analisi tecnica e critica
della comunicazione pubblicitaria”, in I.
Cortoni (a cura di), Una scuola che comunica. Vol. 1, Gardolo (TN), Ericksonn.
• Piaget J. (1923). The Language and
Thought of the Child. London, Kegan Paul.
• Schor J. B. (2005). Nati per comprare. Salviamo i nostri figli, Ostaggi della pubblicità. Milano: Apogeo.
• Statera G., Bentivegna S., Morcellini M.
(1990). Crescere con lo spot. Pubblicità televisiva e socializzazione infantile.Torino: Nuova Eri.
• Zanacchi A. (2004). Pubblicità: effetti collaterali. Riflessioni sulle conseguenze “involontarie” della pubblicità. Roma: Editori Riuniti.
Articoli
94
Claudia Matera
[email protected]
Dipartimento di Storia dell’Arte
Sapienza Università di Roma
Andrea Ingrosso
[email protected]
Dipartimento di Comunicazione e Ricerca Sociale
Sapienza Università di Roma
La fruizione dei beni culturali nelle smart cities:
definizioni, problemi e metodi
Smart City: definizione e significato
Il termine “Smart City” è legato a un numero imprecisato di attività e di progetti direttamente correlati al territorio urbano, erroneamente considerati il mezzo per assegnare a una
città o a un territorio ben definito l’etichetta di
“smart”.
Il concetto di Smart City non ha un significato e una definizione univoca, possiamo trovare le sue origini dal concetto altrettanto difficile da definire “ubiquitous computing”. L’espressione fu utilizzata da Mark Weiser nel
1988 per definire l’imminente era tecnologica, un’era in cui in cui i dispositivi tecnologici e le interazioni dell’utente con essi diventano trasparenti e si fondono con le nostre vite:
«next comes ubiquitous computing, or the age
of calm technology, when technology recedes
into the background of our lives.»
L’era dell’ubiquitous computing è supportata da un ecosistema tecnologico in cui le città
possono crescere e svilupparsi ma in cui la tecnologia non è sufficiente per definire il concetto stesso di Smart City.
La definizione di città intelligente trova
all’interno della comunità scientifica un dibattito sempre vivo e acceso, coinvolgendo numerosi ricercatori con risultati diversi o contrastanti, direttamente influenzati dal background
scientifico/accademico. Contribuisce poi l’uso
inflazionato del termine da parte dei media e
della comunità politica internazionale.
Un approccio interessante alla definizione
di Smart City è fornito da Komninos (2002) che
mostra quattro possibili significati. Il primo si
riferisce alla disponibilità di un gran numero di
apparati elettronici e applicazioni digitali per
la comunità e la città, che dovrebbe servire per
con-fondere il termine smart con le idee circa
il ciberspazio, il digitale, l’informazione e la conoscenza della città. Il secondo significato è l’utilizzo delle tecnologie per una reale trasformazione della vita e del lavoro all’interno del territorio in cui operano, con una ricaduta diretta
della tecnologia sull’utente e sulle attività quotidiane prendendo in esame le necessità reali e
non le definizioni “politiche”. Il terzo significato di città intelligente risiede nel modo con
cui l’informazione integrata e le tecnologie del-
Articoli
95
la comunicazione, nelle città, uniscano insieme le tecnologie dell’informazione e le persone per favorire l’innovazione, l’apprendimento, la conoscenza e la risoluzione dei problemi.
Nel quarto una Smart City è un territorio dove
le tecnologie e le persone si muovono insieme
per migliorare i processi di innovazione, di formazione e di conoscenza.
«Smart cities (are) territories with high capacity for learning and innovation, which is
built-in the creativity of their population, their
institutions of knowledge creation, and their
digital infra-structure for communication and
knowledge management.»
Smart cities learning
La definizione di Smart City fa riflettere
sull’opportunità di creare un percorso formativo di condivisione dell’esperienza fisica e di
contenuto e stimola la riflessione sui metodi e
le tipologie formative da adottare.
Ad esempio i “location-based serious games”, un’esperienza interattiva che ha caratteristiche di un gioco con finalità educative.
Secondo Daniela Nicklas (2001) i location-based games sono divisi in 3 categorie:
- Mobile games, in cui i giocatori si conoscono in occasione del gioco;
- Location aware games, che sfruttano la localizzazione dell’utente;
- Spatially aware games, realtà virtuali in cui
i giocatori interagiscono con riproduzioni
di opere.
Un esempio di location-based serious game
è O’Munaciedd, un location aware game ambientato a Matera. Il gioco coinvolge bambini
tra i 9 e i 13 anni in una caccia al tesoro sulla
cultura della Basilicata, tra gli edifici e le chiese
di Matera. I bambini usano gli smartphone per
consultare la mappa della città, leggere indovinelli e trovare gli indizi utili a proseguire il gioco. Un’interessante funzione del gioco si attiva
quando il giocatore si trova vicino a un punto di interesse: sullo schermo dello smartphone
appare un indovinello che crea l’attenzione su
quel sito e invita ad ammirarlo.
Approfondiamo ora l’approccio del playful
learning.
Playful learning: un approccio
per coinvolgere i bambini nei percorsi
formativi
Nell’asilo è attraverso il gioco che i bambini
sviluppano la propria immaginazione, curiosità e creatività ed esplorano il mondo che li circonda. Anche i musei per bambini e dedicati alle scienze adottano il gioco e, recentemente, anche i musei di arte hanno introdotto il gioco nei
cosiddetti laboratori didattici.
Il gioco qui ha una funzione molto chiara:
è l’espediente per raggiungere lo scopo formativo perché è in grado di mantenere l’attenzione di gruppi di bambini per la durata del laboratorio didattico generando entusiasmo e coinvolgimento.
Per esempio, per la mostra “Ah, che Rebus!”1 si sono organizzati due laboratori didattici per due gruppi distinti di bambini: dai 4 ai 6
anni e dai 7 agli 11.
Gli scopi formativi sono: leggere un rebus;
comprendere un’opera d’arte; creare dei propri
rebus. I bambini sono dunque stimolati a os1. La mostra si è tenuta presso l’Istituto Nazionale
per la Grafica di Roma dal 16 dicembre 2010 all’8 marzo
2011 e ha come tema i rebus presenti nelle opere d’arte
del Rinascimento italiano, dai disegni di Leonardo da
Vinci, fino al 2010, con opere di video arte e street art.
IN•FORMAZIONE
12-2014
96
servare le immagini nell’insieme e in dettaglio,
a fare connessioni tra immagini e parole e viceversa, per riuscire a risolvere i rebus e crearli.
Il mediatore (punto di riferimento simile a un
insegnante), stimola la riflessione sulle parole
(ad esempio nella parola tesoro, per esempio, si
trova la parola oro, due immagini distinte ma
anche concettualmente legate).
Per comporre i propri rebus, infine, i bambini hanno a disposizione: carta e matite, plastilina, oggetti come animali di pezza e ritagli
di giornale. Al termine del laboratorio i bambini interpretano tutti insieme un rebus davanti ai genitori, invitati a risolverlo, utilizzando
il proprio corpo, quindi i suoni, la mimica e il
movimento.
L’ultima attività di tipo collaborativo è molto importante perché contribuisce a raggiungere il secondo scopo formativo: fissare la conoscenza acquisita e avere a disposizione un’attività replicabile in futuro.
Opportunità offerte dalle nuove
tecnologie
L’adozione delle applicazioni per smartphone e la realtà aumentata da parte dei musei era indicata nel NMC Horizon Report: 2012
Museum Edition come immediata diffusione,
contestuale ai servizi localizzati. Lo stesso report nell’edizione del 2013 prevede in un paio
di anni l’uso della tecnologia nei laboratori didattici per i bambini.
A oggi, comunque, vi sono molteplici esempi
di attività svolte dai dipartimenti di educazione
dei musei che adottano le nuove tecnologie. Lo
Smithsonian Institute, per esempio, ha pubblicato un gioco per smartphone e tablet dal titolo
“goSmithsonian Trek” per visitare un museo alla volta partecipando a un unico gioco.
Degno di nota è il gioco “Find the Future” ambientato nella New York Public Library
il 20 maggio 2011. I giocatori hanno passato
una notte intera nella biblioteca a consultare
le centinaia di opere conservate nella biblioteca
per scrivere, all’alba, una storia basata sull’esperienza condotta.
Introduciamo ora un altro elemento: la
narrazione.
Il valore della narrazione per aumentare
la sensazione di immersione nei bambini
La narrazione costituisce un fondamentale strumento di comunicazione e formazione. Come sostiene Crawford (2005) «storytelling isn’t an idle leisure activity that humans developed to while away the hours: it
evolved for serious purposes, as a necessary
component in the development of human
culture. Without storytelling, humans could
never have communicated complex information. Storytelling isn’t merely characteristic
or even definitive of the human condition,
it’s absolutely necessary to the existence of
human culture».
Risulta quasi banale ricordare l’utilizzo
dello storytelling come strumento pedagogico
per parlare di fatti, eventi, concetti e agevolare la persistenza di informazioni di generazioni in generazioni.
Diversi studiosi hanno individuato i molteplici benefici legati alla narrazione nel campo della formazione tra cui la capacità di mantenere l’attenzione del pubblico e lo stimolo a
creare connessioni con la parte emozionale del
discente. Il coinvolgimento emotivo, inoltre,
consente di mantenere un alto livello di motivazione a continuare il percorso formativo e
potenzia l’efficacia formativa.
Articoli
97
Con lo sviluppo dei media digitali, la narrazione è rimasta una componente significativa per le esperienze interattive, compresi i giochi. Un esempio di utilizzo della narrazione
in un gioco nel campo dell’arte è “Ghosts of a
Chance”, un alternate reality game creato dallo Smithsonian American Art Museum e ospitato nel museo Luce Foundation Center for American Art. Il gioco ha coinvolto circa 3,300 oggetti della collezione ed è incentrato sulla storia
di due giovani curatori perseguitati da due spiriti. I giocatori devono quindi scoprire la storia
degli spiriti e aiutare i due curatori.
Approfondiamo ora alcuni aspetti strettamente legati ai beni culturali.
Molteplici opere d’arte, molteplici punti di
vista: molteplici approcci ai Beni Culturali
L’espressione “opera d’arte” indica molteplici tipologie di opere: dipinti, sculture, edifici, monumenti, fotografie, video, performance
e attività di tipo collaborativo.
Anche le Olimpiadi possono essere un’opera
d’arte, come “The Flux Olympiad” immaginate
nel 1960 dall’artista del movimento Fluxus George Maciunas e ‘giocate’ dal pubblico della Tate Modern di Londra nel Giugno del 2008. “The
Flux Olympiad” è una performance che coinvolge il pubblico nel processo artistico, anche se
l’artista non è presente in quel momento, ed è
in grado di far comprendere l’approccio artistico
del movimento Fluxus. I curatori della Tate Modern, infatti, hanno preferito coinvolgere il pubblico in un’esperienza Fluxus piuttosto che spiegare l’approccio Fluxus. Una scelta concettualmente molto vicino al metodo di Bruno Munari.
L’artista italiano Bruno Munari ha iniziato a occuparsi di laboratori didattici sin dagli
anni Settanta. Il suo metodo “Giocare con l’ar-
te” coinvolge i bambini in prima persona, chiedendo loro di vedere l’opera e di pensare a come l’artista abbia potuto realizzarla. Nel corso
dell’attività il mediatore è la figura che fornisce
le informazioni e i dettagli utili ai bambini per
cimentarsi nella realizzazione di una riproduzione dell’opera.
Alla base del metodo di Munari vi è un antico detto cinese per cui “se ascolto dimentico, se
vedo ricordo, se faccio capisco” e, ovviamente,
il pensiero dei teorici John Dewey, Jean Piaget e
Maria Montessori.
Nel panorama italiano Munari è un modello di riferimento per l’organizzazione di laboratori didattici e di percorsi di visita per bambini. Anche gli insegnanti si sono avvicinati a
Munari modificando il proprio approccio passando dalle tradizionali spiegazioni a un coinvolgimento più diretto degli studenti.
Vediamo ora più da vicino il metodo in 4 fasi adottato dal MoMA, Museum Of Modern Art,
di New York nelle proprie attività educative con
gli studenti.
1. Osservazione dell’opera d’arte. L’insegnante lascia che gli studenti guardino il generale e i particolari dei soggetti, materia, colori e forme usate.
2. Domande aperte. Si da la possibilità di
porre domande, ad esempio, “come descrivereste questo colore?” oppure “perché secondo voi
ci sono dei giocattoli nella foresta?” incoraggiando gli studenti a pensare in base a ciò che
vedono. In questa fase si inizia a generare la conoscenza e a condividerla con la classe stimolando il pensiero critico.
3. Informazioni. Alcune risposte, alle domande aperte, sono giuste e altre sbagliate, in
questa fase si riprendono le informazioni errate per fornire quelle corrette.
4. Scrittura e attività sensoriali. A seconda
dell’età della classe, in questa fase gli studen-
IN•FORMAZIONE
12-2014
98
ti sono coinvolti in attività di gruppo, ad esempio scrivere una lista di aggettivi utili a inventare una storia o un disegno, oppure descrivere l’opera con un testo o il linguaggio del corpo.
La figura del mediatore, quindi, è cruciale nel campo dell’educazione nei musei perché
costituisce il collegamento tra l’opera e gli studenti.
Il Museo d’Arte come luogo, inoltre, è cambiato nel corso degli ultimi decenni per diventare un museo dell’esperienza, simile ai musei
delle scienze. Contestualmente è cambiata la
definizione di Museo: un luogo dove tutti hanno l’aspettativa di imparare, ammirare da vicino degli oggetti che sono in grado di far provare emozioni profonde e stimolare il pensiero,
anche quando ci si chiede “ma questa è un’opera d’arte?”. Proprio per questo motivo il Museo è uno spazio della mediazione culturale che
si colloca a metà strada tra le opere che conserva e il pubblico.
Concentriamoci ora brevemente sul pubblico.
Il pubblico può essere suddiviso in due categorie: i gruppi (adulti, turisti o classi) e famiglie. I gruppi sono normalmente ben definiti, i partecipanti hanno la stessa età e titoli di
studio. Le famiglie invece sono composte di due
adulti e uno o più bambini di età variabile. Se
per i gruppi le attività educative possono essere organizzate per un target specifico, per le famiglie si parla di Family Learning. Per i gruppi il mediatore è un operatore del museo, nella
famiglia, invece, è uno dei genitori. Alcuni musei, quindi, mettono a disposizione un kit di visita con materiale esplicativo per aiutare i genitori, giochi per i bambini e istruzioni per attività collaborative di gruppo.
Un altro elemento che ha cambiato le attività educative nei musei è stato l’adozione delle nuove tecnologie.
Un esempio è il laboratorio “Prova a dipingere con i Pixel!” organizzato dalla Fondazione MAXXI di Roma in collaborazione con Nintendo, dal Marzo 2011. Bambini dai 7 ai 12 anni, accompagnati dai genitori, sono coinvolti in
una caccia alle opere d’arte esposte alla ricerca di dettagli e per riprodurre l’opera con il gioco Art Academy della Nintendo DS (fornito dal
museo).
Al di là delle modalità di fruizione di un’opera, l’importante è che sia un’esperienza di
mediazione culturale. L’esperienza di fruizione di un’opera varia a seconda dell’allestimento, della disposizione delle opere, dello spazio,
del percorso di visita, del materiale informativo a disposizione, ecc. La scelta di questi aspetti dipende dal tipo di opera e dal punto di vista
del curatore che si trova al vertice dell’organizzazione di un’esposizione.
Negli ultimi anni i curatori sono maggiormente interessati agli aspetti educativi così tanto da prendere in considerazione il processo
educativo come oggetto curatoriale e parte integrante delle attività curatoriali. Paul O’Neill
e Mick Wilson, infatti, parlano di “curatorialisation of education”. Da un altro punto di vista
potremmo anche affermare che i curatori hanno compreso il potenziale dell’educare all’arte
come modalità di mediazione per la generazione di una conoscenza collettiva e di una pratica politica.
I molti problemi e metodi delineati finora si
collocano nel museo, concludiamo con un’ultima considerazione legata al contesto urbano.
Dagli anni Settanta l’interesse degli artisti al di fuori degli edifici museali ha stimolato la museologia a interrogarsi sulle modalità di dialogo tra opere collocate dentro il museo con quelle nel tessuto urbano per garantire
una continuità della mediazione culturale. Tra
i molteplici punti di vista ed esperienze realiz-
Articoli
99
zate, ve ne sono alcune anche con l’integrazione delle nuove tecnologie e l’uso dell’approccio del gioco.
“Street museum” è un esempio di Alternate
Reality Game in cui i giocatori sono dei curatori 2.0. Per vincere, infatti, i giocatori prendono
parte al primo museo digitale di opere di street
art, postando foto delle opere sul sito del gioco e
fornendo maggiori dettagli possibili sull’opera.
Conclusioni
Il progetto Infanzia Digit@les 3.6 nasce da
una serie di premesse concettuali di cui abbiamo qui brevemente accennato. Abbiamo, infatti,
parlato della complessa definizione di Smart City, le peculiarità della nascente tecnologia e infrastruttura che consente di intravedere molteplici scenari nel campo della formazione; il gioco come approccio utile a garantire un percorso
formativo per i bambini; la componente narrativa fondamentale tassello per consentire un continuum casa-scuola-città-museo; la moltitudine
di problemi e metodi con cui ci si confronta nel
momento in cui si parla di opere d’arte.
L’occasione del progetto Infanzia Digit@
les 3.6 offre, dunque, l’opportunità di riflettere sulle molteplici definizioni e i diversi metodi
necessari per condurre accuratamente la sperimentazione.
Bibliografia
• Aldrich C. (2009). The complete guide
to simulations and serious games. San
Francisco: Pfeiffer & Company.
• Bo V., Harari, G. Studio Azzurro (2008). Fabrizio De Andre’ la mostra. Cinisello Balsamo, Milano: Silvana Editoriale.
• Botte B., Matera C., Sponsiello M. (2009).
“S Serious Games between simulation and
game. A proposal of taxonomy”. Journal
of e-Learning and Knowledge Society, v.
5, n. 2 (http://je-lks.maieutiche.economia.
unitn.it/index.php/Je-LKS_EN/article/viewFile/315/297).
• Cataldo L., Paraventi M. (2007). Il Museo Oggi. Linee guida per una museologia contemporanea. Milano: Hoepli.
• Caton J. (2009). Going up in the world:
guidelines for good practice on international opportunities for museums. London: Henrietta Hopkins editors.
• Francucci C., Vassalli P. (2005). Educare
all’arte. Milano: Electa.
• Delli Quadri L.M.R., Valentino A. (2004). Cultura in gioco: le nuove frontiere di musei, didattica e industria culturale nell’era dell’interattività. Firenze: Giunti.
• Falk J., Dierking L. (2000). Learning from
museums: visitor experiences and the
making of meaning. New York and London: Altamira Press, Walnut Greek, Lanham.
• Frimer D. (2010). Pedagogical Paradigms:
Documenta’s Reinvention, Art&Education
Papers, http://www.artandeducation.net/
paper/pedagogical-paradigms-documenta%E2%80%99s-reinvention/.
• Hein G. (1998). Learning in the museum.
London: Routledge.
• Hollands R.G. (2008). Will the real smart city
please stand up? City, 12 (3), pp. 303-320.
• Hooper-Greenhill E. (2007). Museums and
Education: Purpose, Pedagogy and Performance. London and New York: Routledge.
• International Data Corporation (IDC),
Worldwide Quarterly Mobile Phone Tracker http://www.idc.com/.
IN•FORMAZIONE
12-2014
100
• Komninos, N. (2002). The Architecture of Intelligent Cities, in proceedings of 2nd International Conference on Intelligent Environments, Institution of Engineering and
technology, pp. 13-20.
• La Guardia D., Arrigo M., Di Giuseppe O.
(2012). A Location-Based Serious Game to
Learn About the Culture, Proceedings of
2nd International Conference The future
of Education http://www.pixel-online.org/
edu_future2012/common/download/Paper_pdf/579-LG10-FP-Guardia-FOE2012.
pdf.
• McGonigal J. (2011). Reality is Broken: Why
Games Make Us Better and How They Can
Change the World. London: Random House.
• Nicklas D. et al. (2001). Towards Location-based Games. In Proceedings of the
International Conference on Applications
and Development of Computer Games in
the 21st Century: ADCOG 21. Hongkong
Special Administrative Region, China, pp.
61-67.
• O’Neill P., Wilson M. Eds (2010). Curating
and the Educational Turn. London: Open
Editions/de Appel.
• Prensky M. (2001). Digital Game-Based
Learning. New York: McGraw-Hill.
• Resnick M. Edutainment? No Thanks. I
Prefer Playful Learning, www.media.mit.
edu/~mres/papers/edutainment.pdf
• Roberts C. (2007). From Knowledge to
Narrative: Educators and the Changing
Museum. Washington: Smithsonian Institution Press.
• Rodari P. (2005). Learning in a Museum:
Building Knowledge as a Social Activity.
Journal of Science Communication 4 (3).
• Schmidt L. (2004). Classroom Confidential:
The 12 Secrets of Great Teachers. Portsmouth: Heinemann.
• Shuh J.H. (2001). Teaching Yourself to Teach
With Objects in The Educational Role of the
Museum: Second Edition, New York: Routledge, pp. 80-91 https://d396qusza40orc.
cloudfront.net/artinquir y%2Fartinquiry-Hennigar%20Shuh%2C%20John_
Teaching%20Yourself%20to%20Teach%20
With%20Objects%20copy.pdf .
• Weiser M. (1991). The computer for the
21st century. Scientific American, vol. 265,
no 3, pp. 94-104.
• Xanthoudaki M., Tickle L., Sekules V. (2003).
Researching Visual Arts Education in Museums and Galleries. Munchen: Springer
Verlag GmbH.
Articoli
Carlo Maria Medaglia
[email protected]
Dipartimento di Ingegneria informatica, automatica e gestionale,
Sapienza Università di Roma
Giada Marinensi
[email protected]
Dipartimento di Comunicazione e Ricerca Sociale
Sapienza Università di Roma
[email protected] 3.6 programma Operativo
Nazionale Ricerca e Competitività 2007-2013
Introduzione
Il progetto Inf@nzia DIGI.tales 3.6 nasce
dalla collaborazione tra quattro delle maggiori Università italiane: Università degli Studi di
Napoli “Federico II”, Sapienza Università di Roma, Università degli Studi di Salerno, Università degli Studi di Trento, e quattro delle principali aziende italiane attive nel settore delle comunicazioni e delle nuove tecnologie: Engineering Ingegneria Informatica, Fastweb, Interactive Media e Consorzio iCampus.
L’ambito primario d’intervento del progetto è quello della scuola dell’infanzia; Inf@nzia
DIGI.tales 3.6 infatti, ha come obiettivo principale quello di avviare un processo di innovazione dei modelli di insegnamento e apprendimento in questo segmento d’istruzione.
L’attenzione al rinnovamento del percorso educativo del bambino, però, si coniuga con
un ulteriore obiettivo: la valorizzazione del patrimonio culturale e ambientale del territorio
e l’ideazione di nuovi percorsi di fruizione dei
beni culturali materiali o immateriali in esso
presenti, a partire dalla singola risorsa musea-
le per arrivare fino ai parchi tematici e all’intera città. Uno degli ambiti secondari d’intervento del progetto è infatti proprio quello del Cultural Heritage.
L’altro ambito secondario di riferimento di
Inf@nzia DIGI.tales 3.6 è quello delle Cloud
computing technologies per smart government.
Il progetto, infatti, intende anche sviluppare applicazioni, basate prevalentemente sul paradigma Cloud, per migliorare la qualità e l’accessibilità dei servizi scolastici, facilitare le attività del personale docente, e semplificare la relazione e la comunicazione scuola-famiglia e fra i genitori.
A seguire saranno analizzati con maggiore dettaglio gli obiettivi realizzativi e la struttura del progetto, prima però descriveremo brevemente le principali problematiche di ricerca e sviluppo affrontate dal progetto e lo stato
dell’arte da cui esso prende le mosse.
Principali problematiche di R&S
Nell’intervallo di età compreso tra i tre e i
sei anni, i bambini di oggi sono spesso esposti
101
IN•FORMAZIONE
12-2014
102
a un sovraccarico di comunicazione e tecnologie. Numerose fonti documentano come la presenza della tecnologia sia sempre più pervasiva nell’ambiente domestico: secondo l’indagine “Aspetti della vita quotidiana 2011” condotta dall’Istat, il 90% dei bambini tra i tre e i sei
anni guarda la Tv per più di un’ora al giorno,
il 22% ha usato il computer nei tre mesi precedenti l’intervista e il 19% ha navigato in internet (Istat, 2011).
Sempre l’Istat, inoltre, nel rapporto “I cittadini e le nuove tecnologie” (Istat, 2012) evidenzia come le famiglie con almeno un minorenne siano le più tecnologiche: l’83,9% possiede un personal computer, il 79% ha accesso a
Internet e il 70,8% utilizza per questo una connessione a banda larga. Superiore rispetto alla
media nazionale è anche il possesso di consolle per videogiochi (46,5% contro il 20,3% della
media nazionale).
Inoltre, stime dell’International Data Corporation (IDC) aggiornate a maggio 2013, indicano che la diffusione dei tablet è in deciso aumento; nel corso di quest’anno, infatti, il
mercato mondiale di questo tipo di dispositivi
raggiungerà i 229,3 milioni di unità, rispetto
ai 144,5 milioni di unità dell’anno precedente (IDC, 2013).
Questa sovraesposizione a stimoli tecnologici e mediali rischia di avere conseguenze negative se non è guidata da un’attenta riflessione
e da attività di ricerca che sappiano valorizzare
il potenziale delle nuove tecnologie elaborando
modelli didattici e soluzioni formative adeguate alle reali esigenze dei bambini, soprattutto in
una fascia d’età delicata per il loro sviluppo come quella compresa tra i tre e i sei anni.
Tra le principali problematiche affrontate nell’ambito del progetto rientrano quindi
aspetti legati all’analisi degli stimoli tecnologici e dei messaggi culturali ai quali il bambino
è esposto già in età precoce. Partendo dal recente lavoro di ricerca condotto da Alessia Rosa
(2012) questa linea di ricerca investigherà anche l’universo mediale di riferimento dei bambini tra i tre e i sei anni, al fine di individuare un ventaglio di contenuti che, già presenti
nell’immaginario dei bambini, possano essere proficuamente intessuti negli strumenti del
progetto Inf@nzia DIGI.tales 3.6.
Per quello che riguarda le metodologie didattiche, Inf@nzia DIGI.tales 3.6 si fonda sul
presupposto che i bambini fin dai loro primi
anni di vita conoscono il mondo attraverso l’uso del loro corpo e raccoglie una eredità metodologica molto ricca e articolata che trova una
pietra miliare nel lavoro di Maria Montessori
e di Bruno Munari. Per valorizzare questi approcci il progetto darà ampio spazio alla sperimentazione di attività didattiche basate sull’interactive storytelling e sul game-based learning.
Tra i numerosi benefici dell’utilizzo della narrazione nei processi di apprendimento si
possono annoverare la capacità di mantenere
alto il livello di attenzione dei discenti, di creare un forte coinvolgimento emotivo e di massimizzare l’efficacia e la persistenza dell’apprendimento (Mott et al., 1999). Anche il legame tra
gioco e apprendimento è molto stretto, specialmente per i più piccoli per i quali il gioco rappresenta la prima forma di apprendimento. A
questo proposito Jane McGonigal, game designer e figura chiave dell’Insitute for the Future
di Palo Alto, ha dichiarato che “la scuola ideale non utilizza i giochi come strumenti per l’apprendimento. La scuola ideale è un gioco” ( Jane McGonigal, 2011).
L’unione sinergica di narrazione e gioco,
grazie anche alle possibilità offerte dalle nuove tecnologie, ha già trovato molteplici applicazioni anche in relazione all’obiettivo di valo-
Articoli
103
rizzare il patrimonio artistico e culturale, che
come abbiamo visto costituisce uno degli ambiti secondari del progetto Inf@nzia DIGI.tales 3.6. Narrazione e interazione ludica e creativa, infatti, possono essere utilizzati come un
ideale fil rouge in grado di collegare momenti
educativi che, grazie alle nuove tecnologie ubique e pervasive, possono snodarsi lungo veri e
propri percorsi, sia all’interno di spazi delimitati (musei, esibizioni, aree archeologiche) sia
nel più ampio contesto urbano. Un interessante
esempio di come narrazione, gioco e arte possano essere connessi in un’esperienza formativa è dato dal gioco “Ghosts of a Chance”, organizzato nel 2008 dallo Smithsonian American
Art Museum. I giocatori che hanno preso parte
a “Ghosts of a Chance” hanno esplorato la ricca esposizione del museo raccogliendo indizi e
risolvendo indovinelli per spiegare la misteriosa storia di due fantasmi rimasti intrappolati
all’interno del museo. “Ghosts of a Chance” ha
in questo modo trasformato la visita all’interno
del museo in un’esperienza nuova, interattiva,
creativa, sociale e soprattutto divertente e coinvolgente per i partecipanti.
Stato dell’arte delle tecnologie didattiche
Cruciale per il successo di Inf@nzia DIGI.
tales 3.6 è anche l’individuazione delle tecnologie più appropriate sia in relazione ai bisogni del target di riferimento sia in relazione alle
specificità dei modelli didattici adottati. Tenendo inoltre presente che le soluzioni educative
che saranno oggetto della sperimentazione saranno destinate ad essere fruite sia nella scuola d’infanzia sia lungo il continuum scuola-casa-città, e quindi dovranno essere funzionali alla creazione di ambienti educativi diffusi e
context-aware, sarà dato ampio spazio alle tec-
nologie mobili (mobile device, realtà aumentata, sistemi di geolocalizzazione e tagging, ecc.).
Tra i device che si prevede di impiegare
all’interno del progetto rientrano i tablet, per
i quali saranno sviluppate apposite applicazioni basate su interfacce naturali (NUI, Natural
User Interfaces). Le interfacce naturali, infatti,
consentono all’utente di interagire con la macchina utilizzando modalità comunicative tipiche dell’interazione tra esseri umani: la voce,
i gesti, i movimenti del corpo, la scrittura. Per
questo sono particolarmente indicate per incoraggiare l’interazione spontanea da parte dei
bambini, come testimoniano anche le numerose applicazioni presentate alla conferenza annuale Interaction Design and Children, che si è
tenuta recentemente a New York, e che rappresenta uno dei principali appuntamenti per chi
opera nel settore delle tecnologie per l’infanzia
(http://idc2013.org/about/).
Saranno inoltre progettati e realizzati degli smart object, ossia degli oggetti utilizzabili per l’esecuzione di giochi didattici, come ad
esempio i tradizionali blocchi logici, arricchiti però da tag RFID (Radio Frequency Identification Device) o NFC (Near Field Communication) leggibili da appositi lettori e in grado
di consentire il tracciamento delle azioni degli utenti (Miglino et al., 2013). Questi smart
object potranno alimentare, con informazioni
relative alle azioni compiute dal bambino, dei
sistemi di tutoring “adattivi” e/o “intelligenti”
(Conati, 2009). Nell’ambito del progetto Inf@
nzia DIGI.tales 3.6 tali sistemi di tutoring saranno pensati per fornire feedback personalizzati ai bambini stessi (ad esempio dando loro
suggerimenti in caso di difficoltà nell’esecuzione di un compito didattico) e agli insegnanti (per aiutarli a comprendere difficoltà specifiche dei singoli bambini) e avranno quindi il
ruolo di “mediatori” che non sostituiscono l’in-
IN•FORMAZIONE
12-2014
104
segnante ma lo supportano nel monitoraggio
e nell’analisi del comportamento del bambino.
Struttura del progetto e obiettivi
realizzativi
Inf@nzia DIGI.tales 3.6 intende valorizzare e mettere in relazione lo stato dell’arte delle
ICT appena delineato al fine di ideare, progettare e realizzare “Smart Learning &Teaching
Enviroments” che possano costituire spazi di
espressione e di esperienza plurisensoriale che
abilitino nuovi modelli di digital interactive
storytelling e di game-based learning (Mangione et al., 2011).
Poiché l’apprendimento non è solo un processo individuale, inoltre, il progetto guarda
anche alla collaborazione del bambino con
l’insegnante e alla socializzazione con i compagni durante il tempo scolastico; all’interazione coi pari, i genitori, e le agenzie formative
nell’extrascuola; e alle dinamiche di relazione,
mediate dall’adulto, con gli stimoli culturali
che possono derivare dalla dimensione locale.
Per raggiungere questi obiettivi il progetto
è stato articolato in un percorso composto da
nove Obiettivi Realizzativi (OR), ciascuno dei
quali è associato a specifiche attività e deliverable.
Il primo passo di questo percorso, corrispondente all’OR1, è costituito dalle attività di
analisi preliminare del fabbisogno, di definizione di idonee linee guida metodologiche, di screening delle soluzioni tecnologiche, che costituiscono un riferimento imprescindibile per tutte
le successive attività di ricerca.
Su quanto emergerà da questa fase di analisi preliminare si fonderanno le attività di ricerca finalizzate alla definizione di metodologie e tecnologie a supporto delle attività curri-
colari nella scuola dell’infanzia e del primo anno della scuola primaria (OR2).
Saranno inoltre definite specifiche strategie
per rendere tali esperienze condivisibili fra docenti, portabili fuori dalle classi, partecipate coi
genitori e permeate degli stimoli culturali che
possono derivare dal contesto socio-culturale
e territoriale. Gli obiettivi realizzativi correlati
(OR3, OR4) prevedono, infatti, la realizzazione
di prototipi funzionali alla generazione di esperienze di apprendimento narrative estese al territorio e ai suoi beni culturali.
Sul “cuore pedagogico” del progetto, che
ha nel bambino il proprio protagonista, si innestano una serie di obiettivi-corollario (OR5,
OR6, OR7) finalizzati a far leva sulle più ampie opportunità che l’ICT mette a disposizione
per rendere più efficace la fruibilità dei percorsi formativi, facilitare i docenti nel monitorare
in maniera non invasiva i progressi dei discenti
e costruire nuovi scenari educativi.
Tutte le attività di ricerca relative ai tre ambiti (scuola, cultural heritage, cloud computing technologies per smart government), inoltre, saranno oggetto di sperimentazione, validazione e valutazione dei rispettivi risultati
(OR8) oltre che di exploitation e dissemination
(OR9), al fine di garantire la replicabilità del
progetto e il riuso dei suoi risultati.
Conclusioni
I bambini di oggi sperimentano uno scarto
tecnologico rilevante tra la scuola, che risulta
generalmente piuttosto arretrata dal punto di
vista tecnologico, e l’ambiente domestico, dove
invece le tecnologie risultano sempre più pervasive, avanzate e diversificate e comprendono
consolle per videogiochi, smartphone, computer e tablet.
Articoli
105
Ciò significa che la maggior parte degli strumenti educativi utilizzati nella scuola non è basata sulle ICT, pur avendo il vantaggio di assicurare che gli apprendimenti avvengano sotto la
vigile supervisione dell’insegnante. Al contrario
a casa i bambini utilizzano spesso le nuove tecnologie in solitudine e senza l’intervento e la supervisione di un adulto competente.
Inf@nzia Digitales 3.6 intende intervenire proprio per collegare e integrare questi differenti scenari al fine di individuare soluzioni efficaci a promuovere lo sviluppo del bambino,
mettendo a frutto le ampie opportunità offerte
dalle nuove tecnologie.
•
•
Bibliografia
•
• Conati C. (2009). Intelligent Tutoring Systems: New Challenges and Directions. IJCAI’09 Proceedings of the20th International Joint Conference on Artificial Intelligence.
Morgan Kaufmann. San Francisco, 2-7
• IDC (2013).Worldwide Quarterly Tablet
Tracker. Press Release.
• Istat (2012). Indagine Aspetti della vita
quotidiana 2011.
• Istat (2013). Rapporto I cittadini e le nuove tecnologie.
• Mangione G.R., Orciuoli F., Pierri A., Ritrovato
•
•
•
P., Rosciano M. (2011). A new model for storytelling complex learning objects – Proceedings – 3rd IEEE International Conference on Intelligent Networking and Collaborative Systems, INCoS 2011, art. no.
6132918, pp. 836-841
McGonigal J. (2011). Reality is Broken: Why
Games Make Us Better and How They Can
Change the World. London: Random House.
Miglino O., Di Fuccio R., Barajas M., Belafi M.,
Patrizia C., Dimitrakopoulou D., Ricci R., Trifonova A., Zoakou A. (2013). Enhancing Manipulative Learning with Smart Objects.
Proceedings of International Conference
on Learning Innovations and Quality –
LINQ2013.
Montessori M. (1952). La mente del bambino. Mente assorbente. Milano: Garzanti.
Mott B., Callaway C., Zettlemoyer L., Lee S., Lester J. (1999). Towards Narrative-Centered
Learning Environments, AAAI Technical
Report.
Munari B., a cura di, (1985). I laboratori
tattili, collana “Giocare con l’Arte”. Bologna: Zanichelli.
Rosa A. (2012). Cartoon in tasca. Una ricerca azione sulla media education nella scuola dell’infanzia. Provincia autonoma di Trento: Collana Itinerari, strumenti e
riflessioni pedagogiche.
Articoli
106
Simone Mulargia
[email protected]
Dipartimento di Comunicazione e Ricerca Sociale
Sapienza Università di Roma
Non è mai troppo presto? Considerazioni
sull’utilizzo delle tecnologie nei bambini
in età prescolare
Segnali di cambiamento tecnologico:
nuovi device, nuovi stili d’uso
Malgrado l’assenza di dati convalidati dai
tradizionali istituti di ricerca1, è comunque possibile ricavare un’immagine della diffusione di
nuovi dispositivi che utilizzano, a differenti livelli, una forma di interfaccia touch eliminando, o
riducendo enormemente, il ruolo dei tradizionali strumenti di input (prima fra tutti la tastiera).
Secondo quanto riportato da Audiweb2, in concomitanza con la presentazione del nuovo report
che, proprio a partire dal 20133 rileverà il traffico
web anche in riferimento ai nuovi smart device:
Cresce del 35% dallo scorso anno il numero di italiani con smartphone connessi a in1. Appare significativa la scelta di ISTAT che ha recentemente aumentato il peso relativo della spesa per
l’acquisto di tablet e smartphone all’interno del tradizionale paniere di prodotti utilizzato per il calcolo dell’inflazione (ISTAT 2013).
2. Come è noto si tratta, per usare le parole presenti sul sito audiweb.it, di un organismo “super partes” che
rileva i dati di audience di internet in Italia, offrendo al
mercato dati obiettivi, di carattere quantitativo e qualitativo, sulla fruizione del mezzo.
3. Alla data di scrittura del presente contributo, il
dettaglio della rilevazione non è ancora disponibile.
ternet (21 milioni di italiani 11-74 anni) e del
160% da tablet (6 milioni). Dai primi dati della rilevazione delle audience mensili risultano
9,2 milioni gli utenti online da smartphone nel
mese di agosto e 4 milioni da Tablet (18-74 anni – sistemi iOS e Android) (Audiweb, 2013).
Una diffusione percentualmente rilevante che, per alcuni aspetti, è spiegabile in termini di effetto sostituzione rispetto alla precedente generazione di dispositivi digitali quali pc
desktop, netbook e telefoni cellulari. Gli smartphone e i tablet, infatti, vengono per lo più utilizzati come porta di ingresso alla rete immediata e sempre a disposizione, sfruttando la
connettività mobile. Se il numero davvero rilevante degli smartphone è spiegabile per la natura sostanzialmente personale dello strumento (secondo la formula uno smartphone per
una persona), il tablet è più pensato per un
uso famigliare, anche se la prevedibile discesa
dei prezzi al consumo può far presagire un ulteriore aumento della penetrazione di questa
tecnologia e un’adozione come strumento di
proprietà del singolo.
Il sistema di interfacciamento touch rappresenta l’ultima manifestazione di una tendenza di lungo periodo verso la semplificazio-
Articoli
107
ne del rapporto uomo-macchina, alla ricerca
di metafore di manipolazione dell’informazione più naturali e in grado di recuperare un repertorio di gestualità da sempre a disposizione
dei soggetti4. Afferrare fisicamente un oggetto
riprodotto all’interno dello spazio virtuale dello schermo, infatti, sembra la naturale conseguenza di una strategia di rappresentazione
grafica del rapporto semantico delle informazioni, già presente nelle intuizioni dei pionieri
dell’utilizzo dei computer come macchine per
comunicare e portata al grande pubblico sotto
forma di interfaccia grafica nei modelli di computer machintosh della metà degli anni Ottanta (Mulargia 2013). Il gesto della mano, formalizzato e semplificato attraverso la mobilità del
mouse, sembra oggi liberarsi da qualsiasi riferimento alle necessità di schematizzazione della macchina e diventa emblema (o più probabilmente promessa) di un rapporto diretto e
immediato con il contenuto della rappresentazione digitale.
Non deve stupire, d’altronde, che questa volontà di semplificazione dei meccanismi di interfacciamento (che oggi osserviamo come
punta di diamante dello sviluppo tecnologico)
fosse una delle motivazioni alla base dei primi
utilizzi delle touch technologies, inizialmente
adottate come ausilio per l’utilizzo dei computer da parte delle persone con disabilità (Consolo, 2013).
Il clamore che accompagna la fase attuale
deve essere storicamente ricondotto ai modelli
4. Sin da quando, recuperando le intuizioni di Leroi-Gourhan (1964), il raggiungimento della stazione
eretta liberò la mano degli esseri umani dalle funzioni di
deambulazione e aprì un nuovo ventaglio di possibilità
di azione all’organo propriamente deputato alla gestione
delle interazioni con il mondo esterno. Per uno sviluppo
di questo ragionamento in termini di ricadute tecnologico-comunicative, cfr. Borrelli, 2003.
più generali di adozione di una tecnologia. Come ben evidenziato dalla cosiddetta regola dei
trent’anni (Saffo, 1992), un artefatto tecnologico attraversa una lunga fase di sviluppo lontano dai riflettori prima di arrivare al grande
pubblico. È altresì vero che l’adozione massiva
di una tecnologia rompe una soglia di regolarità nei comportamenti sociali e si pone all’intersezione di differenti forze che contribuiscono a
spiegare le impressionanti percentuali positive
di adozione di uno strumento: gli investimenti industriali che, attraverso le classiche economie di scala, riescono a proporre ai consumatori prezzi più ragionevoli; l’interesse suscitato
negli early adopters (Rogers, 1962) che si trasmette a cascata a quote crescenti di utenti; la
comunicazione pubblicitaria che illustra sempre nuovi scenari di utilizzo delle nuove caratteristiche tecniche, contribuendo a modellare il
senso sociale di una tecnologia e, è bene ricordarlo, un effettivo gradiente di utilità dei nuovi
strumenti, anche solo in termini di utilità percepita dai soggetti.
La presenza di questi device nel contesto famigliare rende sempre più probabile il loro utilizzo da parte dei bambini, anche in virtù di
una certa capacità dei più piccoli di entrare in
facile intimità con le tecnologie5. Se questa affi-
5. Facilità che non deve essere confusa con automatismo. In questo senso, se è vero che le giovani generazioni risultano interpreti privilegiate del cambiamento comunicativo, non convince fino in fondo l’idea che la giovane età sia il presupposto in grado di determinare un utilizzo virtuoso delle tecnologie digitali (Morcellini e Mulargia, 2012). Da questo punto di vista, non sempre la riflessione sui cosiddetti nativi digitali (Prensky, 2001) riesce a proporre modelli di analisi completi, che recuperino,
ad esempio, il peso delle variabili socio-culturali e dei differenti livelli di literacy nel modellare l’effettivo valore aggiunto che i media digitali possono dare ai giovani (Warschauer, 2003; Livingstone, 2003).
IN•FORMAZIONE
12-2014
108
nità elettiva tra giovani e nuovi dispositivi rientra in un più ampio ambito di indagine del rapporto media minori, le particolari caratteristiche delle touch technologies sembrano abbassare ancora di più l’età del primo contatto con
i dispositivi digitali. L’utilizzo del touch screen,
infatti, mette in secondo piano la tastiera e con
essa un seppur minimo riferimento alle competenze alfabetiche necessarie ad impostare i
comandi per l’accesso ai contenuti. I nuovi sistemi operativi presenti negli smartphone e nei
tablet (basati sull’utilizzo delle app), rendono
ancora più immediato l’utilizzo degli strumenti, a tutto vantaggio di un atteggiamento cognitivo che può by-passare comandi fatti di lettere
e numeri e concentrarsi sulle icone delle applicazioni, semplici pulsati da premere per attivare il programma desiderato.
La questione dei dati
La relativa novità del tema, rende ancora
più difficile avere a disposizione dati aggiornati
e qualificati su questo fenomeno. Allo stato attuale, dunque, risulta davvero difficile poter inquadrare quantitativamente il fenomeno che,
proprio in virtù della giovane età dei potenziali utilizzatori, meriterebbe maggiore attenzione da parte della comunità scientifica. Ma è il
rapporto tra i bambini in età prescolare e i media digitali a non essere ancora al centro dell’agenda degli studiosi, come viene messo in luce
in un recente intervento (Holloway et al., 2013)
che prova a riassumere il pur traballante stato
dell’arte della ricerca.
Attraverso il riferimento allo studio condotto da Ólafsson et al. (2013) è possibile analizzare l’andamento dell’interesse dei ricercatori sul tema minori e tecnologie digitali. Se
nel 2000 vengono individuate 20 ricerche in
Europa sul tema, il dato è destinato a crescere anno dopo anno sino ad arrivare alle 172
ricerche del 2010; solo nel 2011, con 152 ricerche censite, si assiste a una lieve inversione di tendenza rispetto al trend evidenziato
(pag. 14). Una significativa distorsione appare per quanto riguarda l’età degli utenti presi
in considerazione nel loro rapporto con i media digitali. Solo il 6% degli studi esaminati,
infatti, analizza il comportamento dei bambini fino a 5 anni d’età, contro un 70% delle ricerche che si focalizza sui teenagers (1517 anni) (Ólafsson et al., 2013; pag. 20). Alcuni evidenti limiti organizzativi concorrono
a spiegare tale disomogeneità: i bambini più
piccoli, infatti, proprio perché non in possesso delle competenze alfabetiche di base, non
possono essere raggiunti da indagini condotte con i classici strumenti della survey online
e richiedono anzi un diretto coinvolgimento
dei genitori. La preoccupazione generale per
i potenziali utilizzi negativi della rete da parte dei teenagers (spesso ricondotti agli episodi
di bullismo o a un contatto precoce con contenuti sessuali) è senza dubbio fondata su presupposti condivisibili, ma proprio nel momento in cui i nuovi dispositivi rendono l’accesso
ai contenuti digitalizzati (spesso online) facile ed immediato, appare quanto mai opportuno focalizzare l’attenzione proprio sui più piccoli, anche in considerazione di uno sviluppo
cognitivo non ancora completato.
Coerentemente con il quadro analizzato, le principali ricerche raccolte e codificate nell’ambito delle attività dell’EU Kids Online network si focalizzano su alcuni temi: accesso e utilizzo delle tecnologie e della rete (72%);
attività svolte online (73%); potenziali rischi
e danni inferti agli utenti (57%); opportunità e benefici derivanti dall’uso della tecnologia
(40%); il tema della mediazione (33%) (Ólafss-
Articoli
109
on et al., 2013; pag. 22)6. Per quanto riguarda i soggetti che hanno materialmente condotto le ricerche censite, il 43% delle indagini è stato condotto da istituzioni pubbliche; il 15% da
soggetti in possesso del Phd o di un master; il
15% da istituzioni private; il 9% da gruppi di ricerca collegati ad iniziative dell’Unione europea; il 6% finanziate da organismi caritatevoli e un 4% da soggetti non identificati (pag. 23).
Per quanto riguarda la metodologia adottata: il
62% utilizza un approccio quantitativo, il 22%
qualitativo e il restante 16% un mix tra i due
approcci (Ólafsson op. cit; pag. 23).
Benché la maggior parte delle ricerche citate abbia come oggetto l’utilizzo della rete, in
alcuni casi è possibile recuperare dati circa la
piattaforma utilizzata per la connessione. Tale
indicazione è interessante per capire quale uso
i bambini in età prescolare fanno delle tecnologie touch e rappresenta, a un livello più generale, una preziosa indicazione per comprendere l’effettivo setting ambientale che ospita l’interazione dei soggetti con i contenuti digitali. Risulta evidente, infatti, che l’utilizzo di un
computer desktop da casa o di uno smartphone (che può essere attivato per la navigazione
indipendentemente dal luogo in cui ci si trova) modifica l’esperienza di navigazione anche
senza entrare nel merito dell’utilizzo del sistema di interfacciamento touch.
Secondo uno studio del 2012 condotto
dall’Ofcon, un terzo dei bambini (3-4 anni)
del Regno Unito va online utilizzando un pc
da scrivania, un laptop o un netbook. Il 6% dei
bambini che va online utilizza un tablet mentre il 3% dei bambini che va online utilizza uno
smartphone. Se aumentiamo di poco l’età dei
bambini considerati (5-7 anni) ben l’87% uti6. Alcune ricerche indagano più ambiti: per questo
la somma dei valori percentuali supera il 100%.
lizza internet, con tassi crescenti di penetrazione della rete (nel 2007 la percentuale si assestava al 68%).
Se i dati del Regno Unito testimoniano una
presenza online dei bambini meno che episodica, il numero di baby utenti si ridimensiona leggermente in Germania, anche se le ricerche considerate utilizzano differenti fasce d’età
e non consentono una comparazione puntuale e statisticamente significativa. Secondo una
ricerca condotta dal network di ricerca tedesco
specializzato in pedagogia dei media il 21% dei
bambini tedeschi (6-7 anni) risponde di utilizzare internet almeno “raramente” e la percentuale arriva al 48% se consideriamo bambini di
due anni più grandi (8-9).
Considerata la natura del fenomeno e il rapido sviluppo del contatto precoce con i media
digitali, non stupisce che, anche in riferimento a un contesto socio-culturale affine a quello tedesco quale è quello austriaco, uno studio del 2013 ( Jungwirth, 2013) presenti percentuali più alte: in Austria circa la metà dei
bambini (3-6 anni) usa internet su base regolare. I paesi del nord europa confermano, anche in riferimento al comportamento dei bambini, un utilizzo estensivo della rete: il 70% dei
bambini (3-4 anni) in Svezia va online almeno
qualche volta (Findahl, 2013). I trend di utilizzo della rete da parte dei giovanissimi mappati
in riferimento al contesto europeo trovano alcuni elementi di proiezione futura se volgiamo
lo sguardo al contesto nord americano. In relazione a uno studio condotto nel 2011 (Gutnick et al. 2011) emerge che il 25% dei bambini (3 anni) va online quotidianamente; la percentuale sale al 50% per i bambini di 5 anni e
al 70% per quelli di 8 anni. Tale configurazione dell’utilizzo di internet da parte dei bambini è evidentemente destinata a crescere in relazione alla variabile temporale e al successi-
IN•FORMAZIONE
12-2014
110
vo aumento della penetrazione di smartphone
e tablet, strumenti in grado di rendere più pervasiva la presenza di porte di ingresso alla rete.
La presenza di un numero crescente di dispositivi dotati di tecnologia touch screen, insieme ai dati di utilizzo della rete consentono,
in via per lo più ipotetica considerata la mancanza di dati, di immaginare una graduale iniziazione dei bambini alla fruizione di contenuti digitali organizzati secondo le modalità tipiche dell’interfaccia touch.
In riferimento ad alcuni studi recenti è possibile iniziare ad avere prove concrete di questo precoce contatto, anche se le ricerche fanno
riferimento a studi specifici e geograficamente localizzati e non consentono un confronto a
livello europeo; a ciò si aggiunge che, allo stato attuale, non è possibile neanche una differenziazione macro tra Europa del nord e paesi mediterranei, mancando per questi ultimi
dati aggiornati e specifici. Tornando ai dati disponibili, il 25% dei bambini (3-4 anni) in Svezia utilizza lo smartphone e il 50% dei bambini (3-4 anni) il tablet (Findahl, 2013). In Norvegia, il 23% dei bambini (0-6 anni) ha accesso a un touch screen a casa; di questi, il 32% lo
ha usato per la prima volta prima dei 3 anni
(Guðmundsdóttir e Hardersen, 2011). In Germania, possiede un tablet il 17% delle famiglie con bambini (3-7 anni) e il 18% delle famiglie con bambini (6-11 anni) (Medienpagagogischer Forschungsverbund Sudwest, 2012).
Per quanto riguarda il Regno Unito, l’utilizzo
dei tablet viene stimato per il 2012 all’11% dei
bambini tra i 5 e i 7 anni (nel 2011 il dato si
fermava al 2%); mentre sale, sempre nel 2012,
al 13% dei bambini 8-11 anni (6% nel 2011)
(Ofcom, 2012).
Il contesto famigliare, da intendersi sia a livello di disposizione materiale delle risorse tecnologiche, sia per quanto riguarda gli stili edu-
cativi dei genitori e il loro ruolo di mediatori
della relazione con le tecnologie, risulta centrale per la comprensione delle modalità effettive
attraverso le quali i bambini entrano in contatto con i nuovi dispositivi, fermo restando una
più ampia influenza del paese di riferimento,
in termini di propensione al possesso della tecnologia.
Da questo punto di vista, un rapporto per
nulla casuale sembrerebbe instaurarsi tra presenza di bambini nel nucleo famigliare e atteggiamento nei confronti delle tecnologie e
dei contenuti digitali. In riferimento al contesto nord americano, tra i possessori di tablet, il
75% ha scaricato app per il suo dispositivo; tra
i genitori possessori di tablet, la percentuale di
chi ha scaricato app sale all’84% mentre scende addirittura al 69% tra i possessori di tablet
che non hanno figli. Un comportamento analogo è riscontrabile tra i possessori di smartphone: il 38% ha scaricato una app per il telefono; ma la percentuale oscilla significativamente tra il 48% dei possessori di smartphone che
hanno figli e il 33% di quelli che non li hanno
(Lenhart, 2012).
L’interesse per le app mostrato dai genitori analizzati dal Pew Internet & American Life Project sembra essere diretta conseguenza
dell’attenzione che i produttori di app stanno
mettendo in campo nei confronti degli utenti
più giovani. Rispetto a chi ha scaricato app per
il proprio device, il 34% degli intervistati ha dichiarato di aver scaricato app per bambini (o
comunque app che potessero essere usate anche da un bambino). La presenza di figli rende più probabile il download di contenuti per
bambini: il 16% degli adulti senza figli ha scaricato app per bambini, contro il 57% degli adulti genitori (Lenhart, 2012). Una parziale conferma di questo orientamento deriva dal dato
relativo al tipo di app per bambini scaricate: il
Articoli
111
47% degli utenti ha scaricato app di intrattenimento, il 31% applicazioni relative ad apprendimento e formazione, mentre il restante 22%
ha scaricato entrambi i tipi di contenuto.
Una porzione significativa delle attività
svolte attraverso l’utilizzo di tablet e smartphone ha a che fare con il videogame. È per questo
motivo che anche gli adulti che non hanno figli dichiarano di scaricare contenuti per bambini (che sarebbero più in generale videogiochi che interessano gli adulti, ma possono essere utilizzati anche da bambini). È proprio questo orientamento ludico a rendere queste piattaforme così affascinanti per i più piccoli. È facile immaginare che già a un livello base, la sola osservazione passiva di un adulto che gioca
con uno smartphone o un tablet, invogli i bambini ad avvicinarsi allo strumento e, con il passare del tempo, spinga i più giovani ad avanzare richieste esplicite ai genitori al fine di entrare in possesso di nuovi contenuti ludici. Alcuni numeri, però, segnalano un percorso inverso di utilizzo degli strumenti. Citando dati della Harris Interactive, Felix Richter (2013) fotografa l’uso degli strumenti tecnologici per tenere occupati i bambini. Il dato fa riferimento
ai genitori nord americani di bambini e ragazzi fino a diciotto anni e non consente di avere il
dettaglio dell’età dei giovani utenti, ma offre un
interessante punto i vista su un atteggiamento
dei genitori particolarmente diffuso. Il 61% dei
genitori intervistati ha dichiarato di aver usato
smartphone o tablet per tenere occupati i loro
figli; la percentuale scende al 47% per chi ha dichiarato di aver usato lo smartphone e al 44%
per il tablet; solo il 20% degli adulti ha dichiarato di non aver utilizzato alcun device in funzione di bambinaia.
Il fenomeno non è nuovo: già il mezzo televisivo è stato ampiamente utilizzato per tenere
occupati i minori e consentire ai genitori una
gestione più semplice del tempo. L’idea di tenere occupati i bambini, però, supera l’utilizzo congiunto degli strumenti e fa venire meno
la presenza del genitore nel momento dell’interazione tra il giovane utente e lo strumento, venendo fisicamente meno alla funzione di mediazione adulta del contatto con la tecnologia.
Tale utilizzo non felice della strumentazione
tecnologica appare ancora più inappropriato in
riferimento all’assenza di una riflessione scientifica sul tema che abbia prodotto indicazioni
specifiche sul corretto utilizzo dei digital device.
Toccare un contenuto nuovo.
Stili di utilizzo della tecnologia touch,
modelli di interazione e potenzialità
per l’apprendimento
I dati appena richiamati sono da intendersi come prime manifestazioni di un nuovo panorama tecnologico che, negli anni a venire,
promette di imporsi come standard a disposizione delle giovani generazioni. Da un versante
opposto, diversi ricercatori sono già impegnati
ad analizzare alcune concrete applicazioni delle tecnologie touch, soprattutto per quanto riguarda il loro potenziale educativo. Attraverso
il confronto con alcune significative esperienze in atto, è possibile costruire una mappa degli elementi in gioco nel rapporto minori e touch technologies.
In un recente studio sulle applicazioni tecnologiche per l’apprendimento collaborativo della matematica, Mercier e Higgins (2013)
analizzano la capacità di implementare scioltezza e flessibilità di calcolo attraverso un’applicazione di apprendimento collaborativo dotata di tecnologia multi-touch. I risultati, pur
se limitati a una singola sperimentazione e difficilmente applicabili a un contesto più ampio,
IN•FORMAZIONE
12-2014
112
mostrano una certa prudenza nell’attribuzione di un ruolo specifico della tecnologia multi-touch. L’aspetto che più è riuscito ad aumentare la flessibilità dei ragazzi è infatti il modello
collaborativo nell’affrontare il compito, unito a
una tecnologia che facilità forme di confronto
tra i partecipanti all’interazione.
Una delle chiavi di un potenziale utilizzo
positivo delle tecnologie risiede nella possibilità di utilizzarle per aumentare il gioco intergenerazionale. Della vasta gamma di applicazioni per il gioco già disponibili per i touch device,
molte sono a carattere ludico e sembrano incontrare l’interesse dei giovani utenti. Si tratta, a questo punto, di produrre applicazioni che
mescolino insieme l’attrattiva del gioco con un
impianto per l’apprendimento che possa essere
usato per far dialogare, attraverso la mediazione tecnologica, il mondo degli adulti e quello
dei ragazzi. In uno studio condotto presso il Dipartimento di Sistemi Informativi dell’Università di Melbourne (Davis et al., 2011) si indagano proprio le caratteristiche del gioco tra nonni e nipoti alla presenza di giochi tecnologici. I
ricercatori mettono in evidenza alcune caratteristiche del gioco intergenerazionale con particolare attenzione ai ruoli7 svolti dai nonni e dai
nipoti e alla natura dell’interazione tra i due.
Vengono dunque riassunte alcune caratteristiche principali delle interazioni ludiche avvenute. Si scopre, così, che l’attività più svolta dai nonni è quella di osservare i bambini mentre giocano, rispetto a una reale interazione con loro. L’interazione intergenerazionale è, infatti, breve ed
7. Nel dettaglio, alcuni ruoli svolti dai bambini: l’apprendista, l’imitatore, l’iniziatore, l’egocentrico (che cerca
attenzione), il rassicuratore, lo spettatore, il co-player, il seguace, l’insicuro (che cerca rassicurazione); e alcuni ruolo
svolti dai nonni: l’osservatore, il compagno di giochi, l’intrattenitore, l’organizzatore, il giocattolo surrogato.
episodica, spesso lasciata a metà quando l’attenzione del bambino si sposta verso un nuovo focus. Benché non manchino episodi di interazione
tra i diversi soggetti coinvolti, i ricercatori sottolineano che essa avvenga più sotto forma di scambio soddisfacente che in relazione al gioco formale. Il portato culturale dei partecipanti (soprattutto per quanto riguarda i nonni) è un fattore determinante per l’organizzazione dei giochi: gli adulti
applicano all’attività ludica alcuni schemi culturali e una certa preorganizzazione dei ruoli.
Le indicazioni emerse dallo studio sgombrano il campo da un equivoco: né la natura
del gioco in quanto attività spontanea e, secondo alcuni, quasi magicamente capace di rompere le barriere tra i partecipanti; né il fascino della mediazione tecnologica sono in grado di generare automaticamente un ambiente
adatto allo scambio intergenerazionale. Affinché una piena interazione avvenga, è necessario un preciso orientamento in termini di progettazione dell’esperienza ludica. E ciò risulta
ancora più necessario se quell’interazione deve
avere risvolti positivi legati all’apprendimento.
Le tecnologie intergenerazionali devono
quindi supportare gli adulti nei loro differenti
ruoli, senza uno schema rigido, ma anzi aprendosi alla flessibilità osservata nei comportamenti
dei soggetti analizzati. Lo stesso vale per i bambini, anche rispetto a comportamenti (l’iniziatore
del gioco, il resistente al cambiamento) che parrebbero appartenere al mondo degli adulti. Attenzione deve essere anche posta alle differenze tra bambini e adulti, in termini fisici, intellettuali e sociali. Malgrado si osservi una certa
tendenza al mescolamento dei ruoli, infatti, una
tecnologia che non sappia riconoscere le differenze non sarebbe un omaggio alla democrazia,
ma andrebbe semplicemente a creare confusione. Un appropriato design dell’interazione ludica mediato dalla tecnologia potrebbe, però, pro-
Articoli
113
muovere attivamente una sorta di meta riflessione sui ruoli, favorendo episodi di mescolamento
là dove alcune rigidità culturali potrebbero imbrigliare eccessivamente la posizione dei partecipanti. Il rispetto per i giovani utenti passa anche
attraverso la comprensione del tempo del gioco:
molto spesso intermittente e agito attraverso sequenze interpretative brevi. La possibilità di lasciare da parte momentaneamente l’attività per
riprenderla in un secondo momento pare una
buona strategia per venire incontro alle esigenze dei bambini. Malgrado lo studio in questione
mescolasse giochi tradizionali e digital toys, i ricercatori sintetizzano alcune indicazioni emerse in termini di suggerimenti per la progettazione, mettendo in evidenza le potenzialità nell’utilizzo di tecnologie touch. Gli utenti utilizzano
una macchina fotografica (incorporata in uno
smartphone o tablet) per fotografare oggetti; le
immagini, archiviate su un server che mette in
comunicazione device distanti tra loro, vengono poi manipolate da bambini e adulti per comporre storie e creare occasioni di interazione significativa tra i partecipanti. Come sottolineato
dai ricercatori, il ricorso a immagini e touch technologies rende il gioco proposto adatto anche
a bambini non ancora in possesso delle literacy
skills.
La possibilità di modificare i giocattoli tradizionali con l’inserimento di sensori sembra
dunque essere un promettente ambito di sviluppo per le applicazioni orientate ai bambini.
Ne danno un’interessante testimonianza Tracy
et al. (2012), applicando questi giocattoli aumentati allo studio delle interazioni tra bambini e oggetti al fine di mappare alcuni pattern
caratteristici di gioco, anche in funzione di monitoraggio degli sviluppi cognitivi dei giovani
utenti. Nello studio in oggetto, i bambini interagiscono liberamente con gli smart toys e vengono ripresi da alcune telecamere allo scopo di
confrontare le interazioni più significative con
i dati raccolti dai sensori, inviati in remoto a
un computer per ulteriori analisi alla ricerca di
schemi ricorrenti di comportamento. I ricercatori hanno applicato anche un modello a priori relativo ad alcuni comportamenti ludici definendo: il gioco esplorativo (azioni su un singolo oggetto al fine di testarne le caratteristiche);
il gioco relazionale (quando due o più oggetti sono utilizzati insieme); il gioco funzionale
(uso convenzionale di un oggetto influenzato
da regole culturali); il gioco simbolico (che fa
riferimento a oggetti, situazioni, attributi non
immediatamente presenti).
Malgrado le promesse insite in questo filone
di studi, le difficoltà non mancano. Le particolari caratteristiche del gioco dei bambini, rendono davvero difficile una sua formalizzazione
e ancora di più la possibilità che alcuni comportamenti (magari indicativi di un disagio o
di una specifica patologia collegata allo sviluppo cognitivo) possano essere automaticamente riconosciuti dalla macchina. I sensori, per rimanere a un esempio immediato, registrano il
movimento degli oggetti anche quando essi sono casualmente colpiti da un bambino senza
alcuna intenzione di utilizzarli per il gioco. La
presenza di più bambini all’interno dello stesso
playground e un numero crescente di giocattoli
da monitorare rendono ancora più complessa
l’individuazione di pattern significativi.
Una nuova agenda di ricerca
I dati analizzati, sia in termini diretti sia
per via induttiva, segnalano l’urgenza di un
decisivo aggiornamento dell’agenda di ricerca
in direzione di un’analisi sistematica del rapporto tra bambini in età prescolare e tecnologie touch. Due almeno le direzioni che dovran-
IN•FORMAZIONE
12-2014
114
no prendere le indagini: a un livello micro, costruire e validare ipotesi circa il rapporto tra
l’utilizzo delle touch technologies e le conseguenze per i bambini, con particolare attenzione alle prime fasi di vita (0-3 anni) in considerazione di uno sviluppo cognitivo non del tutto completo; a un livello macro cercando di fotografare i trend di adozione di tali dispositivi, inserendo nei modelli di analisi le variabili socio-culturali relative al contesto famigliare, spesso determinanti nella predisposizione di
un uso corretto e potenzialmente virtuoso delle
tecnologie. Non si tratta di riproporre uno schema dualistico uso vs non uso delle tecnologie
touch, dunque, ma di costruire mappe ragionate dei contenuti che possono essere adatti a un
così particolare tipo di utenti.
La questione che rischia di rimanere al di
fuori dello schema brevemente proposto è quella delle conseguenze culturali di più ampia
portata, da monitorare su un lungo periodo che
mal si concilia con l’impostazione sperimentale e di laboratorio di molte esperienze di analisi attualmente in corso.
Le caratteristiche specifiche del contatto possono, per alcuni aspetti, acuire ulteriormente la crisi delle figure di mediazione (Morcellini 1992). Il pericolo è che i processi decisionali circa le opportune modalità di utilizzo delle tecnologie touch da parte dei bambini in età
prescolare possano essere monopolizzati dai
forti interessi di mercato, invece che da una riflessione scientifica indipendente che possa evidenziare potenzialità positive e eventuali rischi
(Morcellini 2013b).
Bibliografia
• Audiweb (2013). Pc, smartphone e tablet:
Audiweb misura la total digital audien-
•
•
•
•
•
•
•
•
ce, Comunicato stampa, disponibile in rete presso: http://www.audiweb.it/cms/attach/audiweb_cs_total_digital_audience171013.pdf.
Borrelli D. (2003). Mano, in Abruzzese A. e
Giordano V. (a cura di) (2003), Lessico della
comunicazione. Roma: Meltemi.
Consolo R. (2013). TechAbilità come via
di pro-attività, Tech economy, disponibile in rete presso: http://www.techeconomy.it/2013/12/04/techabilita-come-via-di-pro-attivita/
Davis H., Vetere F., Gibbs M. e Francis P.
(2011). Come play with me: designing
technologies for intergenerational play.
Springer-Verlag.
Findahl O. (2013). Swedes and the Internet
2013. Stockholm: The Internet Infrastructure Foundation.
Guðmundsdóttir G. B., & Hardersen B. (2011).
Toddlers’ Digital Universe: 0-6-yearolds access to and use of digital devices in your spare time, disponibile in tete
presso:
https://iktsenteret.no/ressurser/
smabarns-digitale-univers
Gutnick A. L., Bernstein L., & Levine M.H.
(2011). Always connected: The new digital media habits of young children, Joan
Ganz Cooney Center at Sesame Workshop.
Disponibile in rete presso: http://www.
joanganzcooneycenter.org/publication/always-connected-the-new-digital-mediahabits-of-young-children/
Holloway D., Green L. and Livingstone S.
(2013). Zero to eight. Young children and
their internet use. LSE, London: EU Kids
Online
ISTAT (2013), Gli indici dei prezzi al consumo. Aggiornamenti del paniere, della
struttura di ponderazione e dell’indagine, Nota informativa. Disponibile in rete
Articoli
115
•
•
•
•
•
•
•
•
•
presso: http://www.istat.it/it/files/2011/03/
Paniere-dei-prezzi-al-consumo-05_
feb_2013-Testo-integrale.pdf
Jungwirth B. (2013). Safer Internet Day
2013: EU-Initiative Saferinternet.at unterstützt Eltern und Pädagogen bei der Interneterziehung. Wein: Österreichische Institut für angewandte Telekommunikation
(ÖIAT). Disponibile in rete presso: www.
oiat.at/fileadmin/downloads/Praesentation_PK_Safer_Internet_Day_2013.pd
Lenhart A., Downloading Apps for Children, Maggio 2012. Pew Research Center’s Internet & American Life Project.
Disponibile in rete presso http://pewinternet.org/Commentary/2012/May/Downloading-apps-for-children.aspx
Leroi Gourhan A., (1964). Il gesto e la parola. Torino: Giulio Einaudi editore.
Livingstone S. (2003). The Changing Nature
and Uses of Media Literacy, «Media@lse
Electronic Working Papers», n. 4
Medienpädagogischer Forschungsverbund
Südwest (2012a). FIM 2011: Familie, Interaktion & Medien: Untersuchung zur
Kommunikation und Mediennutzung in
Familien. Retrieved from http://www.mpfs.
de/fileadmin/FIM/FIM2011.pdf.
Mercier E. M., Higgins S. E. (2013). Collaborative learning with multi-touch technology: Developing adaptive expertise. Learning and Instruction Anno 2013, Num. 25,
pp. 13-23
Morcellini M. (1992), Passaggio al futuro.
La socializzazione nell’età dei mass media. Milano: Franco Angeli.
Morcellini M. (2013) Comunicazione e
media. Milano: Egea.
Morcellini M. (2013), Pensate ai bambini!. Technology Review Italia, n. 4 luglio
– agosto 2013.
• Morcellini M. e Mulargia S. (2012), Giovani, tecnologia e formazione. Processi di
autosocializzazione e segregazione del
senso. In-Formazione. Studi e ricerche su
giovani, media e formazione, Anno V, numero 9. Reggio Calabria: Falzea Editore.
• Mulargia S. (2013), Tecnologia, comunicazione e società, in Morcellini M. (2013) Comunicazione e media. Milano: Egea.
• Ofcom. (2012). Children and Parents: Media Use and Attitudes Report. London. Disponibile in rete presso: http://stakeholders.
ofcom.org.uk/binaries/research/media-literacy/oct2012/main.pdf
• Ólafsson K., Livingstone S., & Haddon L.
(2013). Children’s Use of Online Technologies in Europe. A review of the European
evidence base. LSE, London: EU Kids Online.
• Prensky M. (2001). Digital nativer, digital
immigrants. Part 1, in On th Horizon, 9(5),
pagg. 1-6 Publicaffairs.
• Richter F. (2013). Mobile Devices – The
21st Century Nanny, disponibile in tete
press: http://www.statista.com/chart/1499/
mobile-device-use-of-american-parents/
• Rogers E. M. (1962). Diffusion of Innovations, The Free Press, Quinta edizione, 2003.
• Saffo P. (1992). Paul Saffo and the 30 Year
Rule, Design World, no. 24 1992, disponibile
in rete presso: http://www.saffo.com/aboutps/
interviews/Pauldesignworld1992.PDF
• Tracy L. W., Abowd G. D., Starner T. E., Johnson
J. M., Presti P. W., Weaver K. A. (2012). Monitoring children’s developmental progress
using augmented toys and activity recognition. Pers Ubiquit Comput, Num. 16, pp.
169-191. London: Springer-Verlag.
• Warschauer M. (2003). Technology and social inclusion: Rethinking the digital divide. Cambridge, MA: MIT Press.
Articoli
116
Donatella Cannizzo
[email protected]
Dipartimento di Comunicazione e Ricerca Sociale
Sapienza Università di Roma
L’età riflessa: pre-adolescenti,
new media e “vite parallele”
Il presente contributo al tema della socializzazione digitale pre-scolastica prende in considerazione un ambito analitico entro cui ipotizzare facilmente il futuro che sarà: le scelte
di consumo della cosiddetta “età riflessa”, generazione compresa fra gli 8 ed i 15 anni che
vive come mai in questi ultimi anni un rinnovamento nelle modalità di approccio agli strumenti del comunicare e che funge da traino alle generazioni immediatamente precedenti sia
negli stili di fruizione che nelle strategie operative connesse al mercato dei nuovi media.
L’analisi prende spunto dai risultati di una
recente ricerca che aveva come obiettivo di indagare il rapporto di bambini e ragazzi compresi tra gli 8 e i 15 anni con gli strumenti della comunicazione tradizionale e i media digitali. Il mio peculiare contributo era focalizzato
sulle scelte di consumo dei pre-adolescenti (812) e degli adolescenti (13-15) nel tempo libero
sia per comprovare la pervicacia della tv e degli altri media tradizionali (radio, libri, fumetti) che per constatare la diffusione delle tecnologie mediali nelle vesti di collaudati catalizzatori dell’esperienza giovanile più recente (Cannizzo, 2013).
L’altra ipotesi verte sulla constatazione che
l’infanzia – come categoria anagrafica – sia
stata sostituita dalla pre-adolescenza, contrassegnata da una rilevante perdita di centralità
dei luoghi forti e tradizionali della formazione (famiglia e scuola) in favore di media e new
media e da una precoce attrazione verso forme ed esperienze più adulte, tipiche comunque
dell’adolescenza vera e propria (smartphone,
tablet, social network).
All’interno del campione, la parte più consistente dei minori proviene dalle provincie
di Roma (27,5%), Cosenza (25,7%) e Matera
(23%) ed è relativo ai ragazzi che frequentano
la 2 media (37,3%).
In primo luogo, verrà presentata l’esposizione del campione alle diverse opportunità –
mediali e non – fruite nel tempo libero cui seguirà il commento ai dati più salienti e una riflessione in appendice relativa all’ipotesi della
diffusione dei new media nelle dinamiche evolutive della fascia d’età 3-6 anni.
Consumi culturali e tempo libero1
La tv si conferma il medium più seguito dal
nostro campione di ragazzi dagli 8 ai 15 anni, il
consumo culturale maggiormente fruito nel tempo libero (82,6% ). La tv è guardata tutti i giorni a
tutte le età e con uno scarto fra maschi e femmi1. Le tabelle relative ai dati qui analizzati sono contenute in appendice.
Articoli
117
ne davvero esiguo: addirittura a 8 anni il 100% del
bambini dichiara di guardarla tutti i giorni. Il livello di esposizione al medium decresce di poco al
crescere dell’età anche se a 13 anni si attesta ancora al 90,2% . A 15 anni la tv si guarda comunque ancora con frequenza quotidiana ma con un
lieve calo percentuale (66,7%). quasi a scandire le
tappe cruciali della transizione da uno status di
pre-adolescenti all’adolescenza vera e propria.
La frequenza con cui le altre attività vengono svolte registra, dopo la TV, l’utilizzo di tecniche comunicative più innovative come il telefono cellulare (62,4%) e la navigazione in Internet (44,6%). Al quarto posto nelle attività del
tempo libero troviamo quella relativa alle attività ricreative con gli amici (41,1%).
Se la tv si attesta al primo posto nella classifica di gradimento, la radio rimane un medium non adatto ai più piccoli: i bambini di 8
anni dichiarano di non averla mai seguita e,
comunque, meno di una volta a settimana. L’esposizione al medium radiofonico aumenta
con il crescere dell’età del campione: a 15 anni la metà dei ragazzi intervistati sostiene di seguirla tutti i giorni. Le ragazze sembrano essere le ascoltatrici più assidue (18,4% le femmine che la seguono tutti i giorni contro il 12,5
dei maschi). La pratica dello sport sembra registrare buoni risultati: tra i 9 e gli 11 anni la
frequenza più registrata è di 1-2 volte a settimana (36% a 11 anni) mentre sale tra i 12 ed i
14 (più di 2 volte a settimana) anche se appannaggio più dei maschi che dalle femmine.
L’uso dei videogiochi si rivela una pratica di
consumo più di pertinenza maschile e concentrato fra i 9 (33,3%) ed i 13 anni (28,3%) dove
l’esposizione è quotidiana.
Il valore relativo alla lettura di libri extrascolastici è abbastanza sconfortante: a parte il
caso fortunato di un 47,6% di pre-adolescenti di
9 anni che leggono tutti i giorni e sicuramen-
te più delle altre fasce d’età, col crescere dell’età
diminuisce il consumo di libri giornaliero fino
ad arrivare al dato più desolante: quasi il 70%
dei ragazzi di 15 anni non legge libri al di fuori di quelli scolastici; sommando tutte le età la
percentuale numerica prevalente è quella del
consumo 1-2 volte a settimana. Le ragazze si distinguono dai loro coetanei per una maggiore
assiduità nella lettura: il 20% legge tutti i giorni contro il 10,3% dei maschi.
La lettura dei fumetti è poco assidua e appannaggio dei pre-adolescenti dai 9 (28,6%)
agli 11 anni (15,4%) in prevalenza maschi.
Il valore più consistente legato al gioco con gli
amici è registrato tra i bambini di 9 anni ed è sicuramente connesso al gruppo scolastico o a quello frequentato nei luoghi di aggregazione sportiva
e/o religiosa. Decisamente più soli gli adolescenti,
specie a 15 anni, sia maschi che femmine: a 9 anni il 66,7% del campione incontra gli amici tutti i
giorni contro il 33.3% dei quindicenni.
Il fenomeno Internet costituisce una realtà presente in maniera omogenea nei due sessi.
Gli anni della scuola elementare sono contrassegnati da una navigazione in rete quasi giornaliera che riguarda, in particolare, i bambini
di 9 anni che presumibilmente fanno ricerche
scolastiche on line e/o navigano nei siti protetti dei programmi Disney o in quelli dedicati ai
giochi. Il picco di frequentazione giornaliera si
registra peraltro dai 13 ai 15: a 14 (65%) e a 15
anni (67%) il campione dichiara di utilizzare
la rete tutti i giorni.
Evidentemente la navigazione assidua degli adolescenti si esplica soprattutto sui social
network: i ragazzi di 13 (32%) e 14 (42,1%) utilizzano i social anche tutti i giorni: il dato più
interessante è che dagli 11 ai 14 anni si registra un’ascesa più o meno costante nell’utilizzo di Facebook senza differenze sostanziali legate al genere.
IN•FORMAZIONE
12-2014
118
Lo stesso interesse menzionato nei confronti della rete si riscontra per ciò che riguarda il
fenomeno chat, dove anche i preadolescenti di
9 anni (14,3%) incontrano i propri amici virtuali 1-2 volte a settimana; a 11 anni già il 15,4
% del campione (maschi e femmine) comunica in tempo reale con amici e conoscenti tutti i
giorni per arrivare al dato più rilevante e quotidiano registrato a 13 (28%) e 14 anni (29,3%).
L’utilizzo del telefono cellulare è quotidiano e legato al crescere dell’età (dal 19,% nei 9
anni fino all’80,5 % nei 14) raggiungendo la
diffusione massima a 15 anni (83,3%), senza
particolari differenze di consumo fra maschi e
femmine.
Livello di possesso dei new media
I valori quantitativi rilevati sul possesso dei nuovi strumenti per comunicare (cellulare, tablet, smartphone, computer e console) non lasciano adito a dubbio alcuno: i nuovi
media sono entrati di diritto nell’uso quotidiano dei ragazzi, anche dei più giovani esponenti della “touch generation”. Il computer e il cellulare sono tra i new media più diffusi. Il cellulare – diffuso nell’87% del campione – passa
dal “non possesso” degli 8 anni alla sua massima diffusione tra i quindicenni e comunque in
costante ascesa dai 9 ai 14. Essendo il cellulare diverso dallo smartphone si presume peraltro che il suo utilizzo prevalente sia quello per
telefonare e messaggiare. Ma, ancora una volta, il dato su cui riflettere è che “tutti i bambini di 8 anni del campione abbiano dichiarato di usare almeno una volta a settimana il telefono cellulare” mentre solo il 3% del nostro
campione ha dichiarato di non averlo mai utilizzato. In ogni caso il cellulare risulta lo strumento tecnologico che, più di ogni altro, cele-
bra il rito del passaggio dall’infanzia all’età più
giovanile; dalla scuola elementare, dove solo il
27% dei bambini lo utilizza quotidianamente,
alle scuole medie dove la percentuale sfiora addirittura il 74.1%.
L’elemento più significativo riguarda tuttavia la diffusione dello smartphone – vero e proprio medium tecnologico multitasking – posseduto dal 31% del nostro campione – più le ragazze – specie tra i 13 e i 14 anni (40% circa)
ma ampiamente diffuso tra i bambini di 9 anni
(20%). Ma è sulle modalità di utilizzo dello strumento che si concentrano i nostri sforzi analitici
in quanto i dati a nostra disposizione registrano
che l’80,7 % del campione lo utilizza per inviare
messaggi e il 34,4% per navigare in internet con
percentuali che riguardano la fascia 8-12 davvero interessanti: il 33,3 % del campione dei bambini di 9 anni dichiara di navigare in internet
con il proprio smartphone (Malatesta, 2013).
La grande copertura del computer sull’uditorio analizzato (95% del campione) è sicuramente legata alla sua fruizione nel contesto familiare, utilizzato costantemente dagli 8
(il 100% del campione) ai 15: evidentemente i
bambini di 8 anni entrano on line per giocare mentre quelli di 15 chattano con gli amici
e frequentano i social networks. Molto diffusa
anche la “console” per videogiochi tra i maschi
di 11 anni (ben l’88,5% ) il cui uso diminuisce
al decrescere dell’età per arrivare ad interessare il 67% dei quindicenni.
Il sintomo più eclatante di una vera e propria rivoluzione di costume – “la scomparsa
dell’infanzia” di cui parleremo più avanti – riguarda il tablet che, secondo i nostri dati, è largamente diffuso proprio tra i più giovani: ben
il 32% dei bambini di 10 anni dichiara di possederne uno (o, forse, confonde un utilizzo frequente del tablet dei genitori con il possesso effettivo dello stesso…).
Articoli
119
Il consumo di tv e new media è legato al luogo di provenienza? Non sembra anche se effettivamente il possesso di smartphone e tablet è più
alto a Roma che nelle altre provincie esaminate.
L’ultima considerazione in merito alla larga diffusione delle strumentazioni tecnologiche tra i più piccoli riguarda il fatto che, grazie
proprio a smartphone e tablet, i bambini non
sono più costretti ad aspettare l’appuntamento
canonico con la serie televisiva preferita su un
determinato canale ma possono farlo quando
vogliono e dove vogliono.
Commento ai dati
Le osservazioni conclusive si fondano sui
seguenti temi riscontrati ad un’analisi accurata dei dati della ricerca
• la tenuta della TV: la TV non è più analogica e accanto al digitale terrestre che offre
canali specifici per i più piccoli c’è un’offerta talmente ampia da accontentare ogni
segmento più stratificato di pubblico giovanile attraverso un’operazione sinergica
di “marketing cross mediale” che punta al
consolidamento del marchio e alla nascita
di nuovi prodotti: dalle bambole alle figurine all’abbigliamento fino agli articoli di
cancelleria (Cannizzo, 2003). Inoltre, sempre più spesso i ragazzi trascorrono molto
tempo da soli, nelle loro camere dotate di
televisore. Film, telefilm e cartoni animati
risultano essere i generi più visti e, a proposito di questi ultimi, il collegamento tra
le nuove aspettative del target giovanile e le
strategie narrative del prodotto appare palese e riguarda sia il contenuto che il mezzo
attraverso cui i cartoni sono erogati. I titoli
più gettonati (“Dora l’esploratrice”, “Manny Tuttofare”, “Little Einsteins”) manife-
stano infatti la tendenza a volersi proporre come ausili didattici alternativi e sicuramente più appetibili nella loro modalità
quasi interattiva di impartire nozioni basilari di storia, geografia e matematica attraverso un approccio ludico mai nozionistico. Di contro, la sequenza di cartoni animati che si rivolge alla fascia adolescenziale è intrisa di violenza e richiami sessuali più o meno espliciti (“I Griffin”, “American Dad!”, “South Park”) a sottolineare anche qui la netta separazione di competenze
e tattiche comunicative tra l’infanzia e l’adolescenza vera e propria (Raffo, 2013).
• la “scomparsa dell’infanzia” e la sua sostituzione: la fascia più appetibile dal punto
di vista pubblicitario e di investimenti televisivi è quella compresa tra gli 8 e i 12
anni che la letteratura classica denominava “età dell’infanzia” caratterizzata soprattutto da un radicamento dei luoghi e delle
figure cardine dell’educazione: la famiglia
e la scuola2. La formazione dei più giovani è delegata oggi al contributo informale
dei media e dei nuovi strumenti tecnologici e la costruzione della soggettività giovanile avviene grazie ad un interscambio continuo e ininterrotto con la realtà mediatizzata più che tramite il contatto con le tradizionali agenzie della socializzazione (Cannizzo, 2004). L’infanzia come categoria sociale rischia di scomparire ed essere sostituita dalla pre-adolescenza proprio in virtù
2. Sul concetto di “scomparsa dell’infanzia” e sul
ruolo determinante dei media nella modificazione dell’ambiente esterno e dei livelli di interazione cfr. Postman N., The
Disappearance oj Childhood, Delacorte Press, New York,
1982 (tr.it. Ecologia dei media. La scuola come contropotere, Armando editore, Roma, 1981); J. Meyrowitz J., Oltre il
senso del luogo. Come i media elettronici influenzano il
comportamento sociale, Baskerville, Bologna, 1995, p. 408.
IN•FORMAZIONE
12-2014
120
della presenza massiccia di internet, tablet
e smartphone che ha modificato già in maniera integrale le fasi salienti dell’età evolutiva anche nei settori dell’abbigliamento, del linguaggio e degli approcci interpersonali. Essere sempre connessi, in contatto
con il proprio mondo di riferimento, rappresenta una normale attitudine, una forma abituale di comunicazione tra pari oltreché una contestuale tensione verso l’autonomia e l’individualizzazione di ciascun
nuovo adepto alla socializzazione 2.0.
• L’ascesa dei new media e la generazione “I
like it: il motivo principale dell’attrazione fatale? Nell’ambito dei nuovi media, il giovanissimo fruitore assume un ruolo privilegiato in quanto diventa componente dinamica del processo di comunicazione ponendosi al centro delle proprie pratiche di apprendimento e di consumo che gli permettono di
costruire e forgiare a proprio piacimento l’identità in rete. Se riflettiamo infatti sul ruolo svolto da social network come Facebook –
di più larga diffusione tra i giovanissimi –
non è difficile riconoscere come la realtà, la
conoscenza e l’informazione si costruiscano proprio attraverso l’interazione reciproca e partecipativa di tutti i membri di questa
comunità virtuale. I media digitali offrono
risorse inedite alle capacità creative del soggetto che da semplice destinatario delle informazioni mediate diventa emittente di veri
e propri flussi comunicativi. Inoltre, i nuovi
strumenti della comunicazione digitale propongono visioni del mondo, occasioni di conoscenza e modelli cognitivi che prendono
corpo dai media precedenti modificandone
il ruolo, gli effetti e i significati: dalla tv alla web tv; dal quotidiano ai giornali on line;
dalla radio al podcast; dal telefono all’i-phone. «[…] Il processo che ne deriva è forte-
mente incentrato non più sul risultato che
si vuole ottenere […] ma sull’elaborazione
stessa della socializzazione che viene affidata
in maniera sempre più esclusiva al soggetto»
(Cannizzo, 2005).
• Il rischio è quello di una interazione virtuale più forte di quella reale? Stando ai dati relativi alla nostra indagine pare proprio di sì
specie nel constatare come la relazione reale con gli amici sia solo al quarto posto tra
le attività più “fruite” nel contesto quotidiano. Ma è proprio negli universi paralleli di
Facebook e Whatsapp che lo scambio virtuale tra coetanei si fa reale attraverso un’interazione metaforica e ridondante che, grazie
all’abbattimento dei confini spazio-linguistici-temporali, acquisisce simultaneità e velocità ma può provocare forme di isolamento
passivo, perdita di autonomia ed eterodirezione dei contenuti, cyberbullismo qualora
non avvenga un confronto anche con le altre fonti informative. La socializzazione digitale non è impartita o mediata da altre figure istituzionali in grado di esercitare una forma di controllo in quanto poggia su di un’unica componente comunicativa – il soggetto
– la cui prerogativa è quella di mettere on line la propria identità per ricomporla entro
la community di appartenenza grazie anche
alle funzioni di registrazione dei messaggi
vocali e di video chat presenti sui network e
sulla chat di più larga diffusione (Viber, Tango, Facebook e Whatsapp).
Appendice: ipotesi e proiezione di una
possibile applicazione alla fascia
prescolare
Il fenomeno della socializzazione precoce alle nuove tecniche dell’apprendimento di-
Articoli
121
gitale di cui abbiamo finora dibattuto – realtà immanente della pre-adolescenza – è destinato ad una costante e massiccia diffusione anche in ambito pre-scolare tra i bambini d’età
compresa tra i 3 ed i 6 anni. Ne deriva un presumibile conseguente incremento nel mercato
di tablet, smartphone, applicazioni in cui ogni
forma tecnologica possa diventare tangibile e
verosimile per far leva proprio sulle caratteristiche innate dell’apprendimento infantile rivolto alla soddisfazione quasi immediata dei
bisogni di conoscere, interagire e divertirsi.
La “scomparsa dell’infanzia” precedentemente accennata può essere qui riletta come
una sorta di “declino delle aspettative sull’infanzia” in quanto appare inconfutabile la presenza
di una vera e propria rivoluzione cognitiva contrassegnata dall’incalzare delle tecnologie digitali, dalla “crossmedialità” (Paccagnella, 2010)
e da un ambiente familiare fortemente mediatizzato e/o digitalizzato in cui è facile muovere i primi passi. Se è dunque facile riconoscere
al pre-adolescente e al fratellino più piccolo doti e caratteristiche innate da vero e proprio “nativo digitale”, il punto dolente risiede piuttosto nel
difficile ruolo educativo delle agenzie istituzionali della socializzazione: scuola e famiglia troveranno tempo e modo di adeguarsi ad un cambiamento epocale dei paradigmi basilari dell’apprendimento e della formazione?
Il sistema scolastico dovrà fare ricorso a un
investimento sempre più cospicuo di tecnologie
ausiliarie all’insegnamento tradizionale per favorire l’adeguamento tra l’utilizzo scolastico e
quello extrascolastico degli strumenti digitali
sfruttando proprio le caratteristiche ludico-percettive del tablet utilizzato a casa con o senza la
presenza dei genitori (Bruni, 2013). La vera rivoluzione è infatti quella che spinge a concedere un’opportunità formativa ai nuovi media
al di là delle vetuste contrapposizioni tra le te-
si critiche e quelle più accondiscendenti sul loro utilizzo in età pre scolare: i piccoli “digi-alfabetizzati” sono fatalmente attratti dalla modalità touch screen del tablet proprio perché –
con il solo ausilio tattile – riescono ad esperire
attivamente percorsi di fruizione mai testati, ad
esempio, davanti alla tv assimilando un’esperienza forse più superficiale ma spontanea e tagliata su misura nel rispetto dei propri interessi e dei propri tempi (Ferri, Mantovani, 2012).
Possiamo a questo punto prendere in considerazione, seppure ricollocandola in un contesto
assai più recente e complesso, la “tesi del ritardo culturale” di Ogburn (1922) per cui, oltre
alla scuola, anche la famiglia –luogo cardine
della “cultura adattiva” – fa fatica a stare al
passo con un ambiente sociale e materiale fortemente propenso al mutamento: sono spesso i
membri più piccoli del nucleo familiare i protagonisti di questa contraddizione incolmabile tra la forte accelerazione della tecnologia e
il più lento fluire dei valori e degli stili di vita.
Una ri-educazione all’utilizzo dei media nei
diversi ambiti di pertinenza infantile e giovanile e una rinnovata visione del policentrismo
educativo grazie all’ausilio della Media Education, possono costituire la soluzione ai problemi sollevati dal fenomeno, ribadendo quanto
sia sterile l’ipotesi di tenere i bambini lontani
da Internet ma sottolineando l’importanza di
un reale coinvolgimento degli adulti – genitori e insegnanti – nell’atto della decodifica dei
contenuti digitali e soprattutto nella capacità di
mediazione tra mondo virtuale e mondo reale
(Rivoltella, 2008).
La generazione dei “digital kids” è più vicina, adesso, a quella dei “pre-adolescenti”
quanto a competenze e tecniche di apprendimento digitale ma entrambe sono inscrivibili
in un più complesso meccanismo di comunicazione trasversale che ha innescato, negli ul-
IN•FORMAZIONE
12-2014
122
timi anni, un modello di realtà riflessa e speculare i cui contenuti appaiono fortemente contrassegnati dalla trasgressione e dalla “creazione di pseudo-fenomeni esclusivamente mediatici”. È la nuova strategia di MTV e dei protagonisti giovani, belli, e talentuosi di “Jersey Shore”, “Ginnaste: vite parallele”, “Calciatori: giovani speranze”, che si muovono, come il loro
pubblico, entro uno spazio sociale fortemente
digitalizzato, precocemente adulto e parallelo
al vissuto quotidiano.
Bibliografia
• Bruni A. (2013). I media nell’apprendimento: due paesi a confronto, tesi di laurea magistrale in Scienze sociali applicate, Facoltà di Sociologia (relatore prof.ssa
Cannizzo D.) AA 2012-2013.
• Cannizzo D. (2003). Saranno famosi. La
produzione mediale delle aspettative giovanili. Roma: Eucos.
• Cannizzo D. (2004). Educazione, formazione e media. Roma: Eucos.
• Cannizzo D. (2013). Generazione touch screen in (a.c. di Nazio P., Cannizzo D., De Rosa G.,
Raffo G., Malatesta S.) “Digital Kids. bambini, television e new media”. Roma: Upter.
• Cannizzo D., Del Terra L., I media nella di-
•
•
•
•
•
•
•
•
dattica e nella comunicazione, progetto
IRRE-MIUR, marzo 2005, p. 9.
Ferri P., Mantovani S., (2012). Digital kids.
Come i bambini usano il computer e come potrebbero usarlo genitori e insegnanti. Milano: Rizzoli Etas.
J. Meyrowitz J. (1995). Oltre il senso del luogo. Come i media elettronici influenzano il comportamento sociale. Bologna:
Baskerville, 1995, p. 408.
Malatesta S. (2013). Telefoni, smartphone e
dintorni in “Digital Kids. bambini, television e new media”. Roma: Upter, pp. 22-24.
Ogburn W. (1922). Social change with respect to culture and original nature, B.W
Huebsch.
Paccagnella L. (2010). Sociologia della comunicazione. Bologna: Il Mulino.
Postman N. (1982). The Disappearance oj
Childhood, Delacorte Press, New York, 1982
(tr.it. Ecologia dei media. La scuola come
contropotere. Roma: Armando editore, 1981).
Raffo G. (2013). Kids parade! Cosa guardano i bambini in tv? in “Digital Kids.
bambini, television e new media”. Roma:
Upter, pp.19-21.
Rivoltella P.C., (2008). “Educazione e nuovi media. Diritti e responsabilità verso
una cittadinanza globale”. Milano: Mondadori Educations.
Articoli
Leyla Vahedi
[email protected]
Dipartimento di Comunicazione e Ricerca Sociale
Sapienza, Università di Roma
Leggere prima di leggere.
Una panoramica di indagini empiriche
statunitensi sulla lettura della primissima
e prima infanzia (0-3; 3-6 anni) dagli anni
Ottanta a oggi
Il presente articolo offre una ricognizione
su alcune indagini e sulla crescente sensibilità
verso la lettura precoce, prealfabetica e prescolastica, con particolare riferimento al contesto
statunitense. Sin dagli anni Ottanta, infatti, un
profondo interesse verso le modalità di lettura
dei piccolissimi è sorto nel campo della psicologia dello sviluppo, estendendosi poi verso diverse prospettive disciplinari (antropologiche, cognitive, sociali, mediali).
Nei paesi anglofoni in genere, l’albo illustrato è al centro delle abitudini di lettura di
gran parte dei bambini, grazie a una ricca tradizione editoriale e culturale oltre che a specifiche politiche di promozione1.
Il libro non è il solo strumento di trasmissione culturale ma nella primissima infanzia
costituisce senza dubbio la palestra in cui met-
tere alla prova capacità di literacy di base, abilità di decifrazione visuale, mediatica, narrativa. L’albo illustrato è un particolare strumento di introduzione alle strutture narrative e alla forma libro e alla cultura lineare e alfabetica
costitutiva delle società occidentali.
Nel 1984 furono pubblicati i risultati del
convegno “Awakening to Literacy”2 in cui, forse per la prima volta, si illuminava lo scarto tra
chi accedeva al percorso scolastico ready to learn e chi senza adeguate capacità decifrative e
cognitive di base. Il divario non si assottigliava
col progredire degli anni e le conseguenze influivano sul successo scolastico successivo: una
nuova importanza andavano a assumere quindi, prima delle istituzioni scolastiche3, il contesto familiare e soggetti mediatori come pediatri, bibliotecari, ludotecari, operatori di nido.
1. Si vedano programmi come “Reach out and Read” (http://www.reachoutandread.org), il californiano
“Early Start” (http://www.dds.ca.gov/earlystart/), o “Born
to read” dell’American Library Association (http://www.
ala.org/alsc/issuesadv/borntoread) negli Stati Uniti e “Bookstart” in Inghilterra (http://www.bookstar.org.uk), indirizzi consultati a aprile 2014.
2. Cfr. Teale (1984, pp. 110-122).
3. Si veda per esempio lo studio (Walker 1994) condotto negli anni Novanta su 32 bambini, seguiti dalla scuola dell’infanzia fino alla terza classe della scuola primaria,
che ha mostrato quanto il vocabolario acquisito in età prescolare sia responsabile delle successive differenze nella lettura in terza elementare e nel riconoscimento fonetico.
123
IN•FORMAZIONE
12-2014
124
Nel corso di un ventennio, un gran numero
di indagini4 continuano a dimostrare il legame
tra emergent literacy e mantenimento dell’abitudine alla lettura e alla scrittura nel corso
della vita. È soprattutto drammatica l’altra porzione: i bambini poco o per nulla sollecitati nei
primi tre anni di vita, vera e propria “finestra
di opportunità” dal punto di vista cognitivo, saranno meno portati a restare lettori, e in generale poco capaci di leggere e decifrare la realtà circostante.
L’albo illustrato è in primo luogo uno strumento comunicativo e relazionale del bambino
col mondo (Vygotsky 1978), oltre che con l’adulto mediatore; è un’esplorazione, una palestra, il primo contatto con i nessi della rappresentazione e del pensiero. Parallelamente agli
studi sugli effetti sociali e comunicativi della
lettura precoce, si sono indagati infatti i meccanismi dei collegamenti visuali, e si è visto che
sin da piccolissimo il bambino riconosce i volti (per primo quello della madre) e le espressioni del viso e che questo riconoscimento suscita piacere e immagazzinamento progressivo di informazioni in direzione della decifrazione della realtà. Sin dai 15-18 mesi, i piccoli
lettori sono in grado di collegare ciò che è rappresentato nei libri agli oggetti e alle situazioni della realtà, soprattutto quando l’immagine
è fotografica o realistica5. In particolare, alcu4. Adams (1990); Baydar, Brooks-Gunn & Furstenberg (1993, pp. 815-829); Blair (2001, pp. 37-50); De Jong
& Leseman (2001a, pp. 389-414); Duncan et al.(2007,
pp. 1428-1446); Leseman & De Jong (1998, pp. 294-318);
Payne, Whitehurst & Angell (1994, pp. 427-440); Scarborough & Dobrich (1994, pp. 245-302); Scarborough, Dobrich & Hager (1991, pp. 508-511); Walker et al. (1994,
pp. 606-621).
5. Ganea, Pickard & Deloache (2008, pp. 46-66), e
in generale: Barrera & Maurer (1981, pp. 714-716); Callaghan et al. (2004, pp. 1733–1744); Ganea et al. (2009,
ni studi6 hanno evidenziato il legame tra pratiche di labeling objects, commenti testuali, invito all’interattività da parte dei genitori e risultati cognitivi: la maggioranza dei bambini
osservati dopo una singola lettura ha appreso
nuove parole, ha messo in atto generalizzazioni e collegamenti tra fatti o oggetti rappresentati e realtà esperita.
Da queste ricerche emerge che, rispetto a altre attività di gioco condivise tra adulto e bambino, la lettura di albi crea uno spazio favorevole all’interazione sociale e all’apprendimento
con l’introduzione dell’idea di ordine, organizzazione, sequenza (del testo pronunciato, delle
illustrazioni, dello svolgimento narrativo). Poiché la voce e l’attenzione dell’adulto che legge
rassicurano il bambino, la lettura condivisa ha
effetti positivi sul loro legame affettivo. Anche
a distanza di tempo i buoni risultati sembrano dipendere in parte rilevante dalla capacità
del genitore di avere un atteggiamento di lettura caldo, protettivo, sensibile agli stimoli e agli
interessi del bambino7.
Osservando da vicino le modalità di lettura
attivate, si è visto che il “motherese”, le chiacchiere extratestuali, l’intonazione della voce,
la disponibilità a cadenzare la voce e rendere
espressiva e performativa la lettura, a cercare
pp. 283-295); Preissler & Bloom (2007, pp. 1-2); Robinson, Nye & Thomas (1994, pp. 165-191); Uttal et al. (2008,
pp. 156-170).
6. Cfr. Gelman et al. (1998, pp. 1-148); Haden, Reese & Fivush (1996, 21, pp.135-169); Leseman & De Jong
(1998, pp. 294-318); Leseman & De Jong (2001b, pp. 7193); Ninio & Bruner (1978, pp. 1-15).
7. Sul legame tra affettività e apprendimento, non
solo da parte dei bambini, ma anche da parte degli adulti che “scoprono” le competenze stupefacenti dei neonati
e nuove modalità di contatto, cfr. Bingham (2007, pp. 2349); Fletcher & Reese (2005); Leseman & De Jong (1998,
pp. 294-318); Leseman & De Jong (2001b, pp. 71-93).
Articoli
125
un contatto fisico col bambino, a indicare, stimolano nel bambino coinvolgimento, divertimento, imitazione8.
Tanto sulla quantità, ovvero sulla frequenza di lettura (quanto spesso e quanto a lungo)9, che sulla qualità si è soffermata una letteratura vasta, che ha raccolto i dati con indagini quantitative e qualitative. Un’attività trentennale di ricerca che è riuscita a entrare nelle case e nelle biblioteche, a riprodurre ambienti naturali di lettura, facendo tesoro delle tecniche dell’osservazione partecipante o dell’osservazione a distanza (della relazione di lettura adulto-libro-bambino o di gruppi di pari).
Sono stati redatti verbali dei dialoghi osservati,
oltre alla registrazione di modi, posture, movimenti e contatti.
Oggi alcune ricerche empiriche cercano di
capire quanto e come i bambini apprendono
dalle immagini degli albi illustrati e dall’interazione digitale con i libri app: non soltanto i
benefici generali, ma proprio che cosa gli occhi e le orecchie dei piccolissimi colgono e ricordano attraverso la lettura, in cui tra supporto, immagini e parole c’è un nesso intrinseco e
caratterizzante10.
L’istituto Joan Ganz Cooney Center di New
York ha recentemente pubblicato un rapporto
sui media utilizzati in famiglia per scopi educativi (Wii, smartphone, televisione satellitare
8. Sull’imitazione nella primissima infanzia, cfr. Barr,
Dowden & Hayne (1996, pp. 159-170); Barr & Hayne (1999,
pp. 1067-1081); Hayne, Herbert & Simcock (2003, pp. 254261); McCall, Parke & Kavanaugh (1977); Meltzoff (1985
pp. 62-72, 1988a pp. 1221-1229, 1988b pp. 470-476).
9. Bus & Van Ijzendoorn (1995, pp. 998-1015); Bus,
Van Ijzendoorn & Pellegrini (1995, pp. 1-21); Ninio (1993,
pp. 445-451); Raikes & Whitmer (2006); Zill & Resnick
(2006, pp. 347-371).
10. Fletcher & Reese (2005). Cfr. inoltre Simcock &
Dooley (2007, pp. 1568-1578).
o videogiochi): Learning at Home. Families’
Educational Media Use in America (Rideout
2014)11. Una buona parte dello studio si focalizza sulle nuove abitudini di lettura (condivisa o autonoma, cartacea e digitale)12. Il rapporto tiene presente che l’esperienza di lettura è da
sempre, ma in maniera particolarmente intensa per i bambini di oggi13, eminentemente multimediale e multimodale, svolgendosi sui supporti più diversi, dai cartelloni pubblicitari agli
albi e alle app.
Le convinzioni, opinioni e perplessità espresse delle famiglie sui media digitali ci
sembrano utili per decifrare tendenze in atto.
La maggior parte dei genitori i cui bambini utilizzano abitualmente media educativi si dicono
convinti che i figli abbiano effettivamente imparato grazie all’interazione con tali dispositivi e che ne vengano influenzati attivamente. Il
38% dei genitori racconta che i bambini parlano e raccontano la propria esperienza mediale, il 34% che ne prendono spunto per giochi
da mettere in scena, il 18% che chiedono attività specifiche ispirate dall’interazione mediale.
Il gioco, la rappresentazione, la teatralizzazione delle esperienze mediali, oltre a essere un rilevatore di interesse da parte del bambino, possono essere considerate parte stessa dell’esperienza di fruizione.
11. (verificato ad aprile 2014): http://www.joanganzcooneycenter.org/wp-content/uploads/2014/01/jgcc_learningathome.pdf
12. Risulta che in media dai 2 ai 10 anni si legge 40
minuti al giorno, i genitori leggono in media 44 minuti al
giorno alla fascia 2-4 anni, 24 minuti in quella superiore,
con una propensione verso la lettura condivisa nelle famiglie a basso reddito.
13. Scrive M. Mackey (1994, pp.9-19): “To talk about
children’s literature, in the normal restricted sense of children’s novels, poems and picture books, is to ignore the
multi-media expertise of our children”.
IN•FORMAZIONE
12-2014
126
Presentando dati su diversi media educativi,
questa e altre indagini restituiscono una mappatura di usi, tempi e abitudini di lettura su diversi supporti, offrendo cenni decisivi anche in direzione di una literacy transmediale, quella facilità di passare con dimestichezza da un sistema
mediatico a un altro, e afferrarne il senso complessivo anche attraverso canali plurimi.
Bibliografia
• Adams M.J. (1990). Beginning to Read:
Thinking and Learning about Print.
Cambridge (MA): MIT Press.
• Barr R., Dowden A. & Hayne H. (1996). Developmental Changes in Deferred Imitation by
6- to 24-Month-Old Infants. Infant Behavior & Development, 19: 159-170.
• Barr R. & Hayne H. (1999). Developmental Changes in Imitation from Television
during Infancy. Child Development, 70:
1067-1081.
• Bus A.G. & Van Ijzendoorn M.H. (1995). Mothers Reading to Their 3-Year-Olds: The Role
of Mother-Child Attachment Security in Becoming Literate. Reading Research Quarterly, 30: 998-1015.
• Bus A.G., Van Ijzendoorn M.H, & Pellegrini A.D.
(1995). Joint Book Reading Makes for Success in Learning to Read: A Meta-Analysis on
Intergenerational Transmission of Literacy.
Review of Educational Research, 65: 1-21.
• Baydar N., Brooks-Gunn J., & Furstenberg F.F.
(1993). Early Warning Signs of Functional
Illiteracy: Predictors in Childhood and Adolescence. Child Development, 64: 815-829.
• Barrera M.E. & Maurer D. (1981). Recognition of Mother’s Photographed Face by the
Three-Month-Old Infant. Child Development, 52: 714-716.
• Bingham G.E. (2007). Maternal Literacy Beliefs and the Quality of Mother-Child
Bookreading Interactions: Associations
with Children’s Early Literacy Development.
Early Education and Development, 18:
23-49.
• Blair C. (2001). The Early Identification of
Risk for Grade Retention Among African
American Children at Risk for School Difficulty. Applied Developmental Science, 5:
37-50.
• Callaghan T.C., Rochat P., MacGillivray T. & MacLellan C. (2004). Modeling Referential Actions in 6- to 18-Month-Old Infants: A Precursor to Symbolic Understanding. Child
Development, 75: 1733-1744.
• De Jong P.F. & Leseman P.P.M. (2001). Lasting Effects of Home Literacy on Reading
Achievement in School. Journal of School
Psychology, 38: 389-414.
• Duncan G.J., Dowsett C.J., Claessens A., Magnuson K., Huston A.C., Kelbanov P. & Japel
C. (2007). School Readiness and Later
Achievement. Developmental Psychology,
43: 1428-1446.
• Ganea A., Preisser M.A., Butler L., Carey S. &
Deloache J.S. (2009). Toddler’s Referential
Understanding of Pictures. Journal of Experimental Child Psychology, 104/3: 283295.
• Gelman S.A., Coley J.D., Rosengren K.S., Hartman E. & Pappas A. (1998). Beyond Labeling.
The Role of Maternal Input in the Acquisition of Richly Structured Categories. Monographs of the Society for Research in Child
Development, 63/1: 1-148.
• Haden C.A., Reese E. & Fivush R. (1996).
Mothers’ Extratextual Comments During
Story-Book Reading: Stylistic Differences
Over Time and Across Texts. Discourse Processes, 21: 135-169.
Articoli
127
• Hayne H., Herbert J. & Simcock G. (2003).
Imitation from Television by 24- and
30-Month-Olds. Developmental Science. 6:
254-261.
• Leseman P.P.M. & De Jong P.F. (1998). Home
Literacy: Opportunity, Instruction, Cooperation and Social-Emotional Quality Predicting Early Reading Achievement. Reading Research Quarterly, 33: 294-318.
• Leseman P.P.M. & De Jong P.F. (2001). How Important is Home Literacy for Acquiring Literacy in School? Verhoeven L. & Snow C.E. (Eds.).
Literacy and Motivation: Reading Engagement in Individuals and Groups, 71-93.
Mahwah (NJ): Lawrence Erlbaum Associates.
• Mackey M. (1994). The New Basics: Learning
to Read in a Multimedia World. Children’s
Literature, in Education, 28/1: 9-19.
• McCall R.B., Parke R.D. & Kavanaugh R.D.
(1977). Imitation of live and televised models by children one to three years of age.
Monographs of the Society for Research in
Child Development, 42/5: 1-94.
• Meltzoff A. (1985). Immediate and Deferred
Imitation in 14- and 24-Month-Old Infants.
Child Development, 56: 62-72.
• Meltzoff A. (1988). Imitation of Televised
Models by Infants. Child Development, 59:
1221-1229.
• Meltzoff A. (1988). Infant Imitation after a
1-Week delay: Long-term Memory for Novel Acts and Multiple Stimuli. Developmental Psychology, 24: 470-476.
• Ninio A. & Bruner J. (1978). The Achievement and Antecedents of Labeling. Journal
of Child Language, 5: 1-15.
• Ninio A. (1993). Joint book reading as a
Multiple Vocabulary Acquisition Device. Developmental Psychology, 19: 445-451.
• Payne A.C., Whitehurst G.J. & Angell, A.L.
(1994). The Role of Home Literacy Environ-
•
•
•
•
•
•
•
•
•
ment in the Development of Language Ability in Preschool Children from Low-Income
Families. Early Childhood Research Quarterly, 9: 427-440.
Preissler M.A. & Bloom P. (2007). Two Year
Olds Understand the Duality of Pictures.
Psychological Science, 18/1: 1-2.
Raikes H. & Whitmer J.M. (2006). Beautiful
Beginnings: A Developmental Curriculum for Infants and Toddlers. Baltimore:
Paul H. Brookes.
Robinson E.J., Nye R. & Thomas G.V. (1994).
Children’s Conceptions of the Relationship
Between Pictures and their Referents. Cognitive Development, 9: 165-191.
Scarborough H.S. & Dobrich W. (1994). On
the Efficacy of Reading to Preschoolers. Developmental Review, 14: 245-302.
Scarborough H.S., Dobrich W. & Hager M.
(1991). Preschool Literacy Experience and
Later Reading Achievement. Journal of Learning Disabilities, 24/8: 508-511.
Simcock G. & Dooley M. (2007). Generalization of Learning from Picture Books to Novel Test onditions by 18- and 24-Month-Old
Children. Developmental Psychology, 43:
1568-1578.
Teale W.H. (1984). Reading to Young Children: Its Significance for Literacy Development. Goelan H., Oberg A.A. & Smith F. (Eds.).
Awakening to Literacy: The University of
Victoria Symposium on Children’s Response to a Literate Environment: Literacy Before Schooling, 110-122. Exeter
(NH): Heinemann Educational Books.
Uttal D.H., Gentner D., Liu L.L. & Lewis A.
(2008). Developmental Changes in Children’s Understanding of the Similarity
Between Photographs and their Referents.
Developmental Science, 11/1: 156-170.
Walker D., Greenwood C., Hart B. & Carta J.
IN•FORMAZIONE
12-2014
128
(1994). Prediction of School Outcomes Based on Early Language Production and Socioeconomic Factors. Child Development,
65: 606-621.
• Zill N. & Resnick G. (2006). Emergent Literacy of Low-Income Children in Head Start:
Relationships With Child and Family Characteristics, Program Factors, and Classroom Quality. Dickinson D.K. & Neuman S.B.
(Eds.). Handbook on early literacy research, 2: 347-371. New York: The Guilford
Press.
Articoli
Myriam Battelli
[email protected]
Dottoressa in Comunicazione Visiva e Multimediale
Infantile a chi? L’influenza personale
nei consumatori del domani
Sei mai stato deluso dopo aver acquistato
un prodotto visto in pubblicità? Sì. Perché?
Perché quando vedi un prodotto
in pubblicità senti che non puoi farne
a meno, ma quando lo compri
capisci che puoi farne a meno.
(Intervista strutturata
ad un bambino di quarta elementare)
È argomento quasi scontato che la famiglia
e le istituzioni scolastiche con le loro difficoltà di
modernizzazione cedano quote e funzioni di trasmissione culturale ai mezzi di comunicazione
di massa, considerati sempre più invadenti nel
vissuto e nell’immaginario dei più piccoli (Statera & Bentivegna & Morcellini, 1990).
In questo scenario, la pubblicità appare
uno dei più dibattuti segmenti, in parte per la
sua efficacia (più o meno verificata o verificabile) nell’indirizzare il consumo, e in parte per
la proposta di modelli comportamentali non
sempre adatti ad un pubblico infantile (Brancati, 2005; Puggelli, 2002).
Ciò che emerge con chiarezza è che la comunicazione pubblicitaria ha un forte potere
educativo sull’infanzia, potere che serve a realizzare quello che è l’obiettivo più scontato della pubblicità, ovvero la vendita di un prodotto o
servizio, oppure, che la sua pervasività rappresenta uno degli aspetti più caratterizzanti della società contemporanea e la sua centralità
nell’immaginario infantile non sembra destinata a diminuire nemmeno in futuro, soprattutto con la progressiva affermazione dei nuovi media (Metastasio, 2007; Morcellini, 2006).
Diversamente, ciò che stupisce è che i più
recenti paradigmi di comunicazione non siano adottati per spiegare il rapporto tra comunicazione pubblicitaria e bambini, spesso più
demonizzato piuttosto che analizzato oggettivamente.
Certamente, la tutela delle nuove generazioni nei confronti dell’overload pubblicitario è necessaria, ma bisogna riconoscere la grande potenzialità che tale forma di comunicazione contiene nelle sue strutture semantiche: basta ricordare l’impronta indelebile lasciata nell’immaginario collettivo delle passate generazioni, cresciute “a pane e Carosello” (Calabrese, 1975).
Come afferma Zanacchi (1999), la pubblicità subisce, sia pure con alterni gradi di intensità, l’accusa di essere il principale strumento
di uno sviluppo per molti versi criticabile, in
quanto spinta contraria all’affermazione di valori autenticamente umani e stimolo di un’esasperata crescita dei consumi.
Tutto ciò non fa altro che alimentare il persistente mito negativo dei persuasori occulti –
mai sfatato nel pensiero collettivo – che annebbia la lettura critica di molte ricerche, invece di
indurre a una riflessione sul cambiamento sociale, che rende possibile l’osservazione sui pic-
129
IN•FORMAZIONE
12-2014
130
coli consumatori con occhi differenti, senza limitarsi ad una lettura apocalittica (Packard,
1958).
Mentre sembrano assolutamente centrali le
ridondanti ricerche accademiche sul ruolo della pubblicità televisiva come fonte di influenza
primaria sul comportamento di consumo dei
più piccoli, meno chiaro, invece, è il ruolo che
gli altri agenti d’influenza giocano nelle preferenze di determinati prodotti e nella suscettibilità delle decisioni di acquisto dei bambini.
In particolare, si può notare una sorprendente mancanza di ricerca sul tema dell’influenza dei pari sul comportamento dei piccoli consumatori o come questa agisce in parallelo all’influenza pubblicitaria, rafforzandola o
inibendola.
Un vuoto argomentativo che non si riscontra in altri contesti di ricerca come, ad esempio,
quello rivolto ad analizzare il comportamento
di acquisto degli adulti, sempre più incentrato
a rilevarne l’influenza delle relazioni interpersonali, face to face o mediate attraverso i social media. Aver circoscritto lo studio sui piccoli consumatori all’influenza pubblicitaria ha
prodotto delle evidenze parziali che hanno fortemente condizionato l’opinione pubblica, impedendo una reale comprensione delle scelte di
consumo in età evolutiva1.
Adottare un nuovo approccio alla problematica significa spostare di poco la prospettiva di analisi per comprendere con insolita trasparenza le possibili sfaccettature del consumo,
1. Evidenze già sopracitate, come il forte potere educativo o la centralità nell’immaginario infantile, che risultano parziali in quanto non tengono in considerazione
l’importanza del contesto sociale e dell’influenza personale all’interno dei peer group in cui l’individuo si inserisce ed è costantemente in relazione (Fabris G., «La teoria
dei gruppi di riferimento», in Studi di Sociologia, 1962).
dato che la pubblicità non è l’unica fonte di influenza. In realtà, non si può procedere ad una reale comprensione dei processi di acquisto se non
si mettono in discussione gli studi che hanno
ipersemplificato e banalizzato in primis l’agire
di consumo dei più piccoli,
dopo averli considerati automi in balia di
pubblicitari senza scrupoli (Schor, 2005; Linn,
2005).
L’immaturità del pubblico, in relazione al
rapporto con la pubblicità, è da sempre valutata come condizione di inferiorità per i piccoli consumatori, in quanto giudicati totalmente incapaci di proteggersi da un pericolo troppo
grande come quello pubblicitario, nonché trattati in termini di sostanziale estraneità rispetto al contesto sociale in cui si inseriscono; allo
stesso modo, anche la pubblicità è stata decontestualizzata. Tutto ciò ha inibito l’osservazione
delle capacità sempre più selettive e critiche del
bambino-consumatore, sia mediale che di prodotti di mercato (Morcellini, 2006).
Muoversi oltre le aree problematiche della
pubblicità, indagare in modo più approfondito
il complesso rapporto tra comunicazione pubblicitaria e bambini non vuol dire aderire acriticamente all’ideologia della pubblicità, ignorare i suoi effetti sociali o assolverla pregiudizialmente da ogni eventuale responsabilità, ma
significa contestualizzarla e anteporre gli ambiti che sono ugualmente in rilievo quando si
parla di piccoli consumatori.
Appare opportuno concludere questa riflessione osservando ancora come la pubblicità,
inserita nel contesto sociale e considerata alla luce dell’influenza personale, sembra perdere molto dei tratti coercitivi con cui tradizionalmente si tende a caratterizzarla, per assumere
una dimensione più umana e attendibile.
Una demistificazione dei suoi poteri occulti,
Articoli
131
della sua incontrastata abilità persuasiva e una
contrapposizione con la realtà sociale basata su
codici, norme di gruppo e sistemi di valori, che
filtra le comunicazioni pubblicitarie che le sono dirette, decidendo liberamente se accettarle o rifiutarle, può rendere infondati molti preconcetti diffusi nell’immaginario collettivo.
In primis, si può rivalutare la capacità cognitiva e selettiva dei più piccoli, concepiti per
troppo tempo come bersagli passivi di una forza a cui non possono opporsi e che li condizionerebbe verso obiettivi prestabiliti: in realtà, come succede agli adulti, anche i bambini sono
destinatari di una comunicazione che possono
promuovere o interrompere con molta discrezionalità; in secundis si può rigettare la concezione meccanicistica tipica del modello ipodermico della comunicazione che ha fortemente caratterizzato tale rapporto, nonché limitato
la reale comprensione del fenomeno pubblicità (Fabris, 1986).
Eppure, dalla pubblicazione di uno dei classici della Sociologia della comunicazione Personal Influence (Kats & Lazarsfeld, 1968) in
cui si documenta anche empiricamente l’esistenza e l’intensità dell’influenza personale in
tutta una serie di aree – compresa quella dei
consumi – l’importanza delle relazioni personali non poteva più essere elusa o addirittura
omessa, anche per ciò che riguarda il rapporto
tra bambini e pubblicità.
Eludere tale variabile significa non prendere in considerazione tutta una serie di conseguenze derivate da altre fonti di influenza,
che però vengono automaticamente attribuite alla comunicazione pubblicitaria, rendendola ancora una volta capace di un potere di
influenza straordinario, ma irreale. Da un lato, infatti, come descrive Ferrarotti nell’introduzione all’edizione italiana della ricerca di
Decatur, la prospettiva delle ricerche tradizio-
nali nelle comunicazioni di massa va dunque
capovolta: non si parte dai mezzi e dalla capacità persuasoria dei loro messaggi, ma dalle persone, che possono assimilarli o respingerli; non si procede estraniando i mass media dal loro contesto sociale, ma osservandoli in rapporto a tutto il resto, comprese le relazioni interpersonali (Fabris, 2002). C’è da
chiedersi, a fronte della riconosciuta e probabilmente crescente influenza della mediazione interpersonale negli acquisti, come mai
si sia dedicata così poca attenzione a quest’area. Ancor più disarmante appare invece il
gap argomentativo sull’attenzione alle relazioni sociali nei confronti dei piccoli consumatori: in questo caso la letteratura scientifica e le ricerche empiriche sono praticamente
inesistenti. Il disinteresse dei ricercatori verso
questa importante fonte di influenza non sarebbe altro che un’ostinata presa di posizione dell’attribuzione aprioristica all’onnipotenza della comunicazione pubblicitaria per
ciò che riguarda l’orientamento al consumo
e la scelta d’acquisto di determinati prodotti
da parte dei bambini, dimenticando l’incisività dell’influenza personale, che da sola può
promuovere l’acquisto di un prodotto o rappresentare – diffondendo stereotipi negativi – una fonte di dissuasione, capace di ostacolare seriamente il successo del prodotto sul
mercato (Cova & Giordano & Pallera, 2007).
Tali effetti sono da considerarsi comunque al
di fuori della forza manipolatrice pregiudizialmente attribuita alla pubblicità, mentre
è doveroso chiedersi quali possono essere le
eventuali ragioni della sottovalutazione nella prassi, al di là dei riconoscimenti teorici,
dell’influenza personale.
In questa trattazione si cerca di delineare
due motivazioni che più di altre giustificano un
disinteresse altrimenti incomprensibile.
IN•FORMAZIONE
12-2014
132
La prima verte sulla ormai consolidata demonizzazione della comunicazione pubblicitaria nei confronti dei più piccoli, che non
fa altro che alimentare l’interesse verso ricerche rivolte a dare l’ennesima conferma sulla
sua presunta e incontrastata efficacia, considerata come unica fonte di influenza in grado di orientare la richiesta d’acquisto verso i prodotti reclamizzati da parte dei bambini, ma soprattutto descrivere questi ultimi sostanzialmente isolati e indifesi nei confronti
dei messaggi pubblicitari. Ciò dimostra quanto non si sia ancora superata una concezione meccanicistica nel rapporto bambini-pubblicità, quasi facendo eco alle teorie psicologiche un po’ retrò del behaviorismo di Watson e
della riflessologia di Pavlov, che per anni hanno ridotto il modello di comunicazione all’equazione elementare dello stimolo-risposta,
ossia dell’acquisto incondizionato del prodotto reclamizzato (Fabris, 1970). La seconda probabile motivazione dello scarso interesse per l’influenza personale nel campo d’indagine dei piccoli consumatori è meno pragmatica, ma non per questo meno importante:
prendere atto che esistono delle influenze sui
comportamenti di consumo, al di là di quelle promosse dalla comunicazione pubblicitaria, chiama in causa ancora una volta il ruolo
svolto da educatori e genitori e la loro responsabilità di influire essi stessi, con i loro comportamenti e in modo più o meno consapevole, sull’orientamento dei consumi dei bambini
(Puggelli, 2002). I consumi mediali come gli
stili di acquisto nell’ambito familiare costituiscono una fonte di influenza che può seriamente controbilanciare l’efficacia della pubblicità.
Bibliografia
• Calabrese O. (1975). Carosello o dell’educazione serale. Firenze: Cooperativa Libraria.
• Cova B., Giordano A., Pallera M. (2007). Marketing non convenzionale. Milano: Il Sole
24 Ore.
• Fabris G. (1970). Il comportamento del
consumatore. Milano: Franco Angeli.
• Fabris G. (1986). La comunicazione pubblicitaria. Milano: Franco Angeli.
• Fabris G. (2002). La pubblicità. Teorie e
prassi. Milano: Franco Angeli.
• Linn S. (2005). Il marketing all’assalto
dell’infanzia. Come media, pubblicità e
consumi stanno trasformando per sempre il mondo dei bambini. Roma: Orme.
• Katz E., Lazarsfeld P. (1968). L’influenza
personale nelle comunicazioni di massa.
Torino: Nuova ERI.
• Metastasio R. (2007), Bambini e pubblicità. Roma: Carocci Editore.
• Morcellini M. (2006). La TV fa bene ai
bambini. Roma: Meltemi.
• Packard V. (1958). I persuasori occulti. Torino: Einaudi.
• Puggelli F.R. (2002). Spot generation. I
bambini e la pubblicità. Milano: Franco
Angeli.
• Schor J. B. (2005). Nati per comprare. Salviamo i nostri figli, ostaggi della pubblicità. Milano: Apogeo.
• Statera G., Bentivegna S., Morcellini M.
(1990). Crescere con lo spot: pubblicità televisiva e socializzazione infantile. Torino: Nuova ERI.
• Zanacchi A. (1999). Convivere con la pubblicità. Torino: Elledici.
Articoli
Ilana Eleá
[email protected]
Nordicom /The International Clearinghouse on Children, Youth and Media
University of Gothenburg
Tv for children:
an ethical, regulatory and educational issue
Television still remains the most widely used mass medium for children worldwide.
Watching TV is part of the everyday life of children and has many implications for their behavior, worldview, cognitive and emotional worlds, for their cultural, social and educational development. (Lemish, 2013). However, media contents seldom have a direct or
sole influence on our actions. Children can
get conceptions and feelings from the TV,
but they are mixed with all the other conceptions, norms, values, feelings and experiences
they have already acquired and are acquiring
from their own practice and from their family,
school, peers groups, community. (Feilitzen,
2010). To think ethically about content/when
creating content is fundamental. We understand that children are a special audience and
deserve, for being so, to be protected for potentially harmful contents. Children can learn so
much from audiovisual programmes, and it is
important to encourage the production and
airing of high quality content for them, respecting pluralism, cultural diversity and inclusion. Children’s voices should be heard and
viewed on TV from their contexts, countries,
accents, abilities, disabilities, and dreams as
well as from other cultural contexts than their
own. (Kolucki & Lemish, 2011). The TV should
be a place for all.
Freedom of expression vs. media
regulation?
Some say that speaking about regulation
of television compromises freedom of expression. It is important to clarify that this is not
the case. Freedom of expression is fundamental
but cannot fail to ensure freedom of information, plurality and diversity. Otherwise, who has
the freedom of expression? The “owners” of the
media? The political or commercial forces? The
global media conglomerates?
Today, the 7 largest media conglomerates –
AOL Time Warner, Viacom, News Corp, Bertelsmann, Vivendi, Universal, Sony, and Walt Disney– control a substantial portion of the global
audiovisual segment (Media Database, 2013).
The topics of media regulation and ownership
have emerged as a major issue in regional and
global trade negotiations. How to balance the
protection of children while respecting the fundamental right to freedom of expression and
freedom of information? TV regulation is seen,
from this perspective, as a way to promote balance between the voices, images and messages that are spread. The international reference
in matters of the protection of children is the
Convention on the Rights of the Children, approved by the United Nations in 1989, nowadays
signed by most countries of the world. Article 13
133
IN•FORMAZIONE
12-2014
134
states that every child “shall have the right to
freedom of expression, this right shall include
freedom to seek, receive and impart information (…)”Article 17 calls upon “to ensure that
the child has access to information and material from a diversity of national and international sources, especially those aimed at the promotion of his or her social, spiritual and moral well-being, and physical and mental health.”
It also states that the “creation of appropriate
guidelines to protect children from information
and material that is injurious to their well-being” is needed.
Potential harmful content for children
As an example of potential harmful content on television, we can highlight the correlation between television viewing and violence
(von Feilitzen, 2009; von Feilitzen, 2010), or television viewing and obesity as a growing concern (Ekström & Tufte, 2007; Bond et.al, 2013).
There is an unprecedented childhood obesity crisis in which 20% of children living either in the
United States or in Europe are obese. Most televised food advertising targeted at children fall
into one of 5 categories: sugar cereals, candy
& sweets, salty snacks, soft drinks and fast food
restaurants (World Health Organization, 2013).
There are no direct and immediate effects, that
means, the fact of being exposed to unhealthy
advertising will not make children necessarily
obese, since obesity is associated to other factors
in children’s lives. (American Academy of Pediatrics, 2011; Lemish, 2006). However, accumulated
evidence about the food advertising is quite convincing about its high risk factor (Ofcom, 2004).
Is it ethical to target children on TV advertising,
especially when the goal is to sell products that
compromise children’s health?
Quality content for children
To think about ethics is also related to offering high quality content for children. Countries
can invest, especially through their public broadcasting services, in domestically produced programmes and international programmes, content
for all ages and offer a range of genres, as information, drama, fiction, documentaries, fairytales,
news, science, sports, music, education, entertainment – not only cartoons produced by global conglomerates (Enli, 2013; Enli & Staksrud, 2013;
Petterson, 2013; Rydin & Sjöberg, 2010).
Ragna Wallmark, former producer of children programmes and as Head of children departments at SVT (Swedish Television) as well
as UR, (Swedish Educational Broadcasting
Company), defends the National television with
domestic content. She says:
• If you never see anyone you can really identify with, you might want to be someone else.
• To be seen is one of the most fundamental
needs – and to be seen on television is to be
seen in the world today.
• When you read a script or watch a program
ask yourself: Is the child in focus?
• Is it about or with children?
• Can I identify the aspects mentioned above?
The UNICEF publication “Communicating with children” (Kolucki & Lemish, 2011)
brings a rich theoretical and practical framework about how to produce quality and inclusive tv for children, including international examples and case studies.
Tv regulation
Regarding TV regulation, there are mainly 3 regulatory frameworks (Palzer & Scheuer,
2003): Public regulation, as a traditional reg-
Articoli
135
ulatory system. The public authority is the regulator. Self regulation, when tv producers draw
up their own regulations and take full responsibility for monitoring them through codes of
conduct and guidelines. Co-regulation, when
the public authority, the broadcasters and the
civil society cooperate. Compulsory age classification and content description are used. TV
regulation, in the context of protection of children, means laws, watersheds, warnings, ratings, the ombudsmen, technological filtering
(Aroldi, 2003; Frau-Meigs, 2003). But TV regulation also includes efforts to offer contents
of high quality and diversity to children, especially locally produced programmes (homegrown content), by means of broadcasting quotas, codes of media conducts (Blumenau, 2011;
Enli, 2008; Lustvik, 2013).
Public Regulation
To mention some examples, Sweden, Norway, Finland and Canada have prohibited
commercial sponsorship of children’s television programmes; Ireland has banned the use
of cartoon characters to promote foods; and
France has passed legislation requiring healthy
messages to accompany advertisements for
foods and beverages high in sugar, salt or artificial color. (Bond et all, 2013). British regulatory framework bans advertising for foods high
in sugar, fat and salt around children’s programmes (Steemers, 2012). The ban is based
on the primary argument that children do not
have cognitive abilities to distinguish between
persuasive and entertainment messages.
In Sweden (Radio and Television Act, 2010),
commercial advertising in television broadcasts
may not be designed to attract the attention of
children under the age of 12; may not appear
immediately before or after a programmes directed to children; individuals or characters
who play a prominent role in programmes that
are primarily aimed at children may not appear in commercial advertising.
Self-regulation
Self-regulation is voluntary. In this model, the media industry defines its own rules and
compromises regarding the communication
with children. Advertising is often self-regulated. An actual polemical debate regarding the effectiveness of self-regulatory initiatives is related to advertising of (unhealthy) food for children. Self-regulatory programmes aimed at
reducing unhealthy food advertising to children through self-regulation do not seem to be
working well (Matthews, 2008). Research about
initiatives in Australia (Revee, 2013), Canada
(Asquith, 2009), Spain (Fernández-Martínez & López-de-Ayala-López, 2011) and USA
(Kunkel et al, 2009) comment that despite industry claims that food marketing to children
would be limited to healthier food or that licensed characters (especially from children’s
cartoons) would be used carefully, advertising
of non-core foods (high in salt, sugar and fat)
continues, including at times when many children watch television. As Palzer and Scheuer
(2003) attest, since the state is not involved in
this form of regulation, public authority sanctions cannot be imposed.
Co-regulation
The system of co-regulation means that it is
the industry itself and the government together that are responsible for measures to protect
IN•FORMAZIONE
12-2014
136
young people against harmful influences from
the media. Kijkwijzer, the name of the Dutch
rating system in use since early 2001, can be
used as a successful example of cooperation
between public authorities, the media industry and the civil society (Ofcom, 2008: 8). The
rating of media products is done by coders employed by media producers or distributors. The
Netherlands Institute for the Classification of
Audiovisual Media (NICAM) is responsible for
the classification of audiovisual products. Kijkwijzer provides information about the potential harmful effects of movies, videos, DVDs and
television programmes including music videos.
The rating system consists of 2 elements: age
classification and content descriptors. The content descriptors, presented as icons, refer to violence, sex, fear, drug and alcohol abuse, discrimination and coarse language. Advertising
is not classified (Palzer & Scheur, 2003; Aroldi, 2003). Other positive examples of co-regulation within the European Union and Australia
are presented by Schulz & Held (2006).
Media and Information Literacy
Ethics and TV regulation are important, but
with media content travelling across national
borders and with regard to the use of other kinds
of media content (internet, advergames), it is
recommended that those actions be combined
with Media and Information Literacy. Children
and youth can learn how to assess information
and evaluate TV programmes, examining and
understanding how media content is produced,
exploring issues of representation, diversity and
plurality of media and information. A combination between protection (through TV and media
regulation) and empowerment (through Media
and Information Literacy) is needed.
The term Media and Information Literacy
(MIL) was coined by UNESCO in 2011, and it
refers to the competence to access media and
information; analyse media and information
from a critical approach towards media content and create information and communication in a variety of contexts.
The UNESCO curriculum (Wilson & al.,
2011; Comunicar, 2012; Carlsson, U. & Culver, S.H., 2013) offers guidelines for teachers
and teacher trainers about how to work with
key competences in different grades at school
in order to achieve these goals – and it can be
adapted for the work in daycare and with really young kids as well. Media, information, freedom of expression, library, news, computer, internet, digital, cinema, games, television and
advertising are seen as topics to be included in
educational approaches at school in order to
empower children since early ages, to act as informed citizens and creative communicators.
To summarize, the MIL ultimate goal is to
develop both critical understanding and active
participation; enable young people to interpret
and make informed judgments as consumers of
media and information and to encourage them
as producers of media and information to become more powerful participants in society.
References
• American Academy of Pediatrics (2011). Policy
statement – children adolescents, obesity,
and the media. Pediatrics, 128 (1), 201-8.
• Aroldi P. (2003). Television and protection of
minors in some european countries: a comparative study. In Feilitzen, C. & Carlsson, U.
Promote or protect: perspectives on media
literacy and media regulations (pp. 179195). Nordicom: Göteborg University.
Articoli
137
• Asquith K. (2009). A critical analysis of the
childrens food and beverage advertising
self-regulatory initiatives. Democratic comuniqué, 23 (2), 41-58.
• Blumenau J. (2011). Children´s media regulations: a report into state provisions for
the protection and promotion of homegrown children´s media. Save Kids TV.
http://www.savekidstv.org.uk/wp-content/
uploads/2011/05/SKTV-competitor-territory-research-post-final-updated-24.4.11.pdf
• Bond B.J., Richards M.N., Calvert S.L. (2013)
Media and obesity. In Lemish D. (Ed.)The
Routledge International Handbook of
Children, Adolescents and Media. (pp.
232-239). USA and Canada: Routledge.
• Carlsson U. & Culver S.H. (Eds.) (2013). Media and Information Literacy and intercultural dialogue. MILID Yearbook 2013.
Nordicom: University of Gothenburg.
• Comunicar (2012). Teachers training in Media Literacy: the UNESCO curriculum. Comunicar, 39, vol. X. http://issuu.com/revistacomunicar/docs/comunicar39-en
• D’Arma A., Sara G. & Steemers J. (2010). Serving Children in Public Service Media. In
Lowe, Gregory Ferrell, (ed.) The public in
public service media, (pp. 227-242). Gothenburg University: Nordicom.
• Enli G.S. (2008). Serving the Children in
Public Service Broadcasting: Exploring
the TV-channel NRK SUPER. Presented at
RIPE@2008, Mainz, October 9-11.
• Enli S.E. & Staksrud E. (2013). PSB serving children: past, present and future (pp.
117-130). In Carlsson U. (Ed.) Public service media from a nordic horizon. Gothenburg University: Nordicom.
• Enli G.S. (2013). Defending Nordic Children
Against Disney: PBS Children’s Channels
in the Age of Globalization. Nordicom Re-
view, 34 (1), pp. 77-90.
• Enli S.E. & Staksrud E. (2013). PSB serving children: past, present and future (pp.
117-130). In Carlsson U. (Ed.) Public service media from a nordic horizon. Gothenburg University: Nordicom.
• European Broadcasting Union (EBU)(2013).
Media freedom and pluralism. http://
www3.ebu.ch/files/live/sites/ebu/files/
Knowledge/Publication%20Librar y/
EBU-Viewpoint-MediaFreedom_EN.pdf
• Feilitzen C.V. (2009). Influences of mediated violence: a brief research summary.
Nordicom: University of Gothenburg.
• Feilitzen C.V & Carlsson U. (2003). Promote
or protect: perspectives on Media Literacy
and media regulations. Nordicom: Göteborg University.
• Fernández-Martínez A. & López-de-Ayala-López M.
C., (2011). “Television and Children: five years
after the Self-regulation Code”. Revista Latina de Comunicación Social, 66, 31-62.
• Frau-Meigs D. (2003). Media regulation,
self-regulation and Education: debunking
some myths and retooling some working
paradigms. In Feilitzen C. & Carlsson U. Promote or protect: perspectives on media literacy and media regulations (pp.23-39).
Nordicom: Göteborg University.
• Kunkel D., McKinley C., Wright P. (2009). The
Impact of Industry Self-Regulation on
the Nutritional Quality of Foods Advertised on Television to Children. University of Arizona: Children Now. http://www.
childrennow.org/uploads/documents/adstudy_2009.pdf
• Kolucki B., Lemish D. (2011). Communicating with children: principles and practices to nurture, inspire, excite, educate and
heal. UNICEF. http://www.unicef.org/cwc/
files/CwC_Final_Nov-2011.pdf
IN•FORMAZIONE
12-2014
138
• Lemish, D. (2007). Children and television:
a global perspective. USA, UK, Australia:
Blackwell Publishing.
• Lustyik K. (2013) Media regulation: the protection and promotion of home-grown children-s television. In Lemish D. (Ed.) (2013)
The Routledge International Handbook of
Children, Adolescents and Media. (pp.378385). USA and Canada: Routledge.
• Matthews A.E. (2008). Children and obesity: a pan-European project examining the
role of food marketing. European Journal
of Public Health, 18 (1), 7-11.
• (Media Database, 2013). International Media Corporations 2013. http://www.mediadb.eu/en.html
• Ofcom (2004). Child obesity – food advertising in context. http://stakeholders.ofcom.
org.uk/market-data-research/other/tv-research/food_ads/
• Ofcom (2008). Identifying appropriate regulatory solutions: principles for analysing
self- and co-regulation. http://stakeholders.
ofcom.org.uk/binaries/consultations/coregulation/statement/statement.pdf
• Palzer C. & Scheuer. A. (2003). Self-regulation, co-regulation & public regulation. In
Feilitzen C. & Carlsson U. Promote or protect: perspectives on media literacy and
media regulations (pp. 165-178). Nordicom: Göteborg University.
• Pettersson, Å. (2013) Tv for children:
how swedish public service television
imagines a child audience. Linköping
University: The Department of Thematic Studies.
• Radio and Television Act (2010). Ministery
of Culture, Sweden. http://www.radioochtv.
•
•
•
•
•
•
se/Documents/Styrdokument/Radio%20
and%20Television%20Act.pdf
Rydin I. & Sjöberg U. (2010). From TV viewing to participatory cultures: reflections
on childhood in transiction. In: Carlsson
U. (Ed.). Children and youth in the digital media culture from a nordic horizon.
(pp. 87-101). Nordicom: University of Gothenburg.
Reeve B. (2013). Private Governance, Public
Purpose? Assessing Transparency and Accountability in Self-Regulation of Food Advertising to Children. Bioethical Inquiry,
10, pp. 149-163.
Schulz W. & Held T. (2006). Together they are
strong? Co-Regulatory Approaches for the
Protection of Minors within the European
Union. In Carlsson, Ulla and von Feilitzen, Cecilia. (eds) (2006). In the Service of Young
People? Studies and Reflections on Media
in the Digital Age.Yearbook 2005/2006.
The International Clearinghouse on Children, Youth and Media, Nordicom, Göteborg University 2006.
Steemers J. & D’Arma A. (2012) Evaluating
and regulating the role of public broadcasters in the children’s media ecology: the case
of home-grown television content. International Journal of Media & Cultural Politics, 8 (1), 65-85.
Wilson C., Grizzle A. & al. (2011). Media
and Information Curriculum for Teachers. Paris: UNESCO.
World Health Organization (WHO). (2013).
Marketing of foods high in fat, salt and sugar to children: update 2012–2013. http://
www.euro.who.int/__data/assets/pdf_
file/0019/191125/e96859.pdf
Scaffale: libri, video,
programmi mediali e approfondimenti
Recensione del libro: Valentino R., Merletti R.,
Paladin L. (2012), Libro fammi grande, Idest,
Campi Bisenzio (FI), Leyla Vahedi
Un saggio sulla lettura nella fascia da 0 a
5 anni, periodo per eccellenza fertile per lo sviluppo del linguaggio e più in genere della mente ma tuttavia poco approfondito in letteratura. Il saggio trova collocazione nel campo della letteratura per l’infanzia, tuttavia non può
fare a meno della psicologia dell’età evolutiva,
della psicologia fisiologica, della biblioteconomia, di un’analisi della produzione editoriale,
a testimonianza del dinamismo di questo settore di indagine. Gli autori si dichiarano due
semplici amanti dei libri, sappiamo però che
sono tra i più attenti operatori attivi nel mondo
della scuola, dell’editoria, delle biblioteche: Rita Valentino Merletti è un’eminente studiosa e
formatrice che si è soffermata sull’importanza
della lettura a alta voce, Luigi Paladin è un appassionato bibliotecario, ispiratore, tra le altre
cose, del progetto Nati per Leggere.
Il libro propone un approccio precoce alla
lettura e supporta alcune buone pratiche che
in Italia e all’estero avvicinano genitori e adulti ai bambini e ai loro libri. Dalle conquiste teoriche degli ultimi anni intorno al bambino e
dalle scoperte in ambito neuronale che a partire dagli anni ‘80 hanno svelato che il neonato
è “competente” e precocemente capace di comprensione sociale, questo libro aiuta ad ampliare l’idea di una literacy a tutto tondo, competenza che il bambino attiva ben prima di cominciare a leggere e scrivere.
Nati per Leggere è il progetto nato nel 1999
che ha visto pediatri e bibliotecari impegnati
nella promozione della lettura sin dalla più te-
nera età attraverso iniziative sui territori e la
selezione di una bibliografia di libri di qualità. Uno degli obiettivi del progetto è la riduzione delle differenze sociali tra bambini che sembra vengano delineate proprio nel marchio dei
primi anni di vita.
Ciò che si scopre è che la lettura precoce è
benefica non solo e non prevalentemente nel
campo delle competenze linguistiche ma anche in direzione di un’alfabetizzazione visuale
e simbolica ancora più pregnante: oltre alle capacità di decifrare e riflettere, i risultati più sorprendenti si registrano nell’ambito delle abilità relazionali, affettive, comunicative, espositive, sociali.
I benefici della lettura ad alta voce, il piacere suscitato dalla voce della mamma nei neonati, la soddisfazione del riconoscimento di
un volto o la sorpresa di una forma nascosta,
la creazione di un rito affettivo intorno al libro
che si tramuterà in una solida abitudine alla
lettura sono alcuni dei nodi illuminanti di questo saggio, che non manca di offrire una gran
quantità di riferimenti alle più recenti proposte
editoriali di qualità.
Il testo è infatti un indispensabile strumento per il lavoro sul campo in quanto indica dei
consigli per scegliere libri per piccolissimi. Oltre a fornire una bibliografia di “libri del cuore” alla fine del volume, propone un tentativo di classificazione utile tanto per gli addetti
al settore della letteratura d’infanzia che a chi
muove i primi passi alla scoperta dei libri per
piccolissimi, corredata da indicazioni per leg-
139
IN•FORMAZIONE
12-2014
140
gere i piccolissimi e sulla capacità progressiva
del bambino mese dopo mese.
Tre grandi categorie vengono delineate:
le prime storie, i Picture Book, le fiabe. Spesso cartonati, dai bordi arrotondati, a volte fustellati e dalle immagini dai contorni definiti e i fondi uniformi, i libri con le prime storie (suddivisi in libri di parole, libri di concetti
e protostorie) presentano oggetti, situazioni o
piccole storie familiari ai piccoli lettori e svolgono la funzione di ponte tra la realtà conosciuta, la rappresentazione e la denominazione, attivata dalla lettura a alta voce. La fiaba qui si invita a leggerla senza timore, perché
narra un universo psicologico che seppur crudo e doloroso è vicino all’esperienza dell’infanzia. Dei Picture Book si delineano alcune
strutture in base al rapporto narrativo tra testo e immagini, e ci si sofferma sui silent book, gli albi senza parole, in quanto particolarmente funzionali alla costruzione di una visual literacy indispensabile nella società delle immagini.
Uno strumento per operatori e genitori
dunque, ma soprattutto un saggio specialistico
che fa tesoro delle esperienze di promozione e
sistematizza saperi troppo spesso confinati nel
campo degli addetti ai lavori.
Leyla Vahedi
Scaffale: libri, video, programmi mediali e approfondimenti
141
Recensione del libro: Satta C. (2012), Bambini e
adulti: la nuova sociologia dell’infanzia, Carocci
Editore, Collana Bussole, Roma, Monica Bukat
Il libro di Caterina Satta, ricercatrice e sociologa dell’infanzia e dei processi culturali
dell’Università di Padova propone una riflessione critica sulla relazione tra adulti e bambini e
la loro reciprocità di esperienze.
Sulla scia dell’approccio dei new social studies of childhood, viene introdotto l’articolato
dibattito sviluppatosi a livello internazionale presentato attraverso una ampia e variegata
letteratura di riferimento. Il nuovo paradigma
segna una svolta rispetto alle versioni classiche
del pensiero sociologico. Riconoscendo i limiti della letteratura tradizionale dello sviluppo
del bambino, letto esclusivamente nella cornice di un processo di adattamento e interiorizzazione dei valori e delle norme di una determinata società, propone una nuova prospettiva
dalla quale riconsiderare il concetto dell’infanzia per spiegare e comprendere la differente visione e rappresentazione del mondo del bambino. L’innovazione proposta da questo filone di
studi sposta il baricentro dell’osservazione non
più focalizzato solo sui processi di natura organicistica e funzionalista della società ma anche
e soprattutto sui soggetti che la abitano. Così
con i new social studies of childhood nasce e
cresce un nuovo paradigma d’indagine con l’obiettivo di studiare il bambino nel suo presente,
per quello che esperisce e percepisce nella costruzione del proprio mondo. L’attenzione viene posta sulle reali condizioni di esistenza del
bambino nel contesto culturale in cui vive. Da
questo punto di vista quindi i bambini vengono
considerati come attori sociali in grado di dare
un significato a ciò che accade nel mondo che
li circonda.
I bambini possono influenzare gli adulti?
Sono in grado di contribuire al cambiamento
sociale?
Diversi sono gli aspetti che entrano in
gioco.
Oggi la categoria sociale dell’infanzia appare di grande importanza per la società e riveste un enorme e rinnovato interesse sia nella ricerca scientifica che nel settore politico, socio-culturale nonché in quello dei mass media.
Storicamente la categoria dell’infanzia si definisce su archetipi e miti costruiti dagli adulti
mentre la nuova sociologia dell’infanzia indirizza il nostro sguardo verso la centralità del
bambino andando a decostruire quanto fino
ad ora siamo stati soliti credere e pensare sui
bambini. Per comprendere l’agire dei bambini
la moltitudine di studi e ricerche, prevalentemente di stampo psicologico – pedagogico ma
anche sociologico, ha da sempre adottato una
visione adultocentrica – ossia “dall’alto verso
il basso” (Alanen 1998). Ma troppo spesso lo
sguardo dell’adulto risulta distante, dall’alto,
oggettivante che ci informa su come gli adulti
vedono i bambini e su come quest’ultimi vanno
controllati e guidati nella loro trasformazione
verso l’età adulta. È uno sguardo che in termini di sviluppo lineare di acquisizione delle conoscenze e delle competenze, focalizza la propria attenzione su quello che i bambini “non
sono ancora”, ragionando in termini di “mancanza” e “carenza” piuttosto che su quello che
IN•FORMAZIONE
12-2014
142
essi “sono qui e ora”. A voler considerare i bambini primariamente o unicamente nella visione evoluzionistica verso una prossima età adulta, per quello che saranno un domani e puntare meramente al loro futuro, si corre il rischio
di ignorare e sottovalutare l’importanza del loro presente.
Nel libro l’autrice ripercorre l’evoluzione
della sociologia dell’infanzia che pone le proprie radici nella teoria socio culturale dello sviluppo di Lev Vygotskij ripartendo dal suo concetto fondamentale dell’infanzia come un insieme di routine e pratiche collettive che il
bambino concretizza interagendo sia con gli
adulti sia con i propri pari in contesti culturali dinamici. In quest’ottica si inserisce l’approccio teorico della riproduzione interpretativa di William Corsaro sviluppato agli inizi degli anni Novanta che attribuisce un ruolo attivo
al bambino visto come un soggetto autonomo
che cerca di impossessarsi delle informazioni
del mondo degli adulti, di interpretare creativamente quanto appreso e quindi di rimodellare
gli elementi della realtà sociale che lo circonda a modo proprio. La riproduzione interpretativa viene quindi definita come “un processo
produttivo-riproduttivo di crescente densità e
riorganizzazione delle conoscenze che cambia
con lo sviluppo delle abilità cognitive e del linguaggio dei bambini e con i cambiamenti dei
loro mondi sociali” (Corsaro, 1992, p.162) Con
questa affermazione si sostiene che i bambini
non si limitano a emulare e interiorizzare norme e valori appartenenti al mondo degli adulti
ma piuttosto che essi agiscono autonomamente
essendo perfettamente in grado di reinterpretare in modo innovativo la realtà circostante attraverso la riproduzione e la partecipazione alla cultura specifica del gruppo dei pari median-
te un appropriato uso del linguaggio. I bambini
nella loro quotidianità si inventano l’infanzia
sulla base dei propri bisogni, desideri e priorità.
Il concetto generazionale appare centrale
nell’analisi sulla condizione dei bambini nella società.
La dicotomia bambini-adulti non va letta in chiave oppositiva e comparativa bensì in
quella relazionale connessa alle specifiche posizioni sociali che entrambi occupano nell’ordine generazionale rappresentato mediante diversi modelli generazionali (non universali)
chiamati a regolare i loro rapporti. Le pratiche
dei bambini e quelle degli adulti costituiscono
un complesso processo relazionale di costruzione e ricostruzione sociale in continua definizione e trasformazione. Così tra la “cultura
degli adulti”, intesa come quell’insieme di valori educativi e pratiche di accudimento, e la
“cultura dei bambini”, data dalla propria specificità infantile, esiste un processo reciproco di
interdipendenza tale per cui l’una non può essere compresa senza considerare l’altra. I desideri di bambini e le responsabilità degli adulti sono continuamente sottoposti ad un processo negoziale della loro relazione in quotidiano
divenire.
Dalla lettura del testo emerge quindi che
osservare i bambini, cosi come è accaduto storicamente, esclusivamente come il fenomeno di
socializzazione significa distogliere lo sguardo
dalle dinamiche contemporanee che propongono una rappresentazione del bambino come soggetto singolo dotato di agency, un attore sociale capace e socialmente competente in
grado di partecipare all’interazione sociale e di
contribuire al cambiamento della società stessa. Insomma un soggetto in essere e non solo
in divenire.
Monika Bukat
Scaffale: libri, video, programmi mediali e approfondimenti
143
Jenkins H. and Kelley W. (2013) Reading in a
Participatory Culture: Remixing Moby-Dick in
the English Classroom. New York, USA: Teachers
College, Columbia university, Jelena Perovic
“NML’s message for educators is simple: Appropriate and remix these practices for your
students, apply them to any book you wish or
are required to teach, create your own community of readers, and embrace those elements of
participatory culture that you think may empower learners.” (loc 495 of 4643)
Reading in a Participatory Culture presents
a new media literacies project implemented by a
team of researchers, designers and educators with
the aim of developing a new curriculum for high
school English language arts classroom that is
based on the practices of participatory culture.
Principle
Participatory culture is defined as one that
has low barriers to artistic expression and civic activism; that supports creating and sharing with others; that has some form of informal
mentorship so that the more experienced members share the knowledge with the new ones;
that has members who believe that their contributions matter and who care about what other
members think of their creations.
“A well-designed curriculum will help students to develop both the literary mind, as traditionally conceived, and new competences required to more meaningfully engage with the
Description
access to technology is necessary, but not sufficient; all lear1. Address the participation gap
ners must be supported to learn how to contribute
2. Bring new expertise and perspectives into there are many forms of literary scholarship, and "literary
the English Language Arts Domain
analysis" is not a monolithic set of practices and skills
3. Begin with core literary practices/concep- traditional literary practices take on new meaning when exts and expand
tended into participatory cultures
comparative perspectives encourage an exploration of the
4. Media studies approach
intersection between literature and other media, often deepening an appreciation of the cultural impact of classic texts
popular culture offers a culturally contested and therefore
5. Stance on popular culture
valuable and necessary avenue for developing new media literacies skills
there are multiple avenues to participatory culture, and
many barriers that limit students’ access to these cultures.
6. Stance on technology
Our hope is to offer a range of activities, both high and low
tech, to support as many different kinds of classroom communities as possible.
IN•FORMAZIONE
12-2014
144
new participatory culture.” (loc 563 of 4643)
The six core principles that the new participatory curriculum is based on are summarized
in the table below. (loc 629 -738 of 4643)
The authors introduce a participatory understanding of reading and literacy that recognizes that there are many ways of making
meaning out of a text and that they are all
equally valid forms of reading. As a result, the
classroom becomes a “community of readers”,
where students share what and how they read,
as well as appropriate and remix what they
read. Hence, the participatory model of reading
uses the text as a starting point for readers to
respond to it by crating new works based on it.
“... developing literacy is about learning
how to read, think, critique, and create together.” (loc 1174 of 4643) The word “together” has
an important meaning as the authors underline that literacy is no longer a set of personal
skills, but a set of social and cultural competencies closely linked to our public lives online and
the social networks through which we operate.
The authors argue for new media literacies as a paradigm shift in education and not as
a subject that is separated from the rest of the
curriculum. “... the new media literacies should
represent a paradigm shift that affects how we
teach all aspects of the school curriculum, just
as media change has affected every aspect of
our society.” (loc 1749 of 4643)
In order for this change to happen, it is necessary to adapt the assessment and testing of
students, so that they are supported in participatory learning. The authors identify three participatory assessment design principles:
1. use contexts to give meaning to concepts
and skills
2. assess reflections rather than artifacts
3. downplay assessments and isolate tests.
“Education may be the great equalizer, ensuring widespread access to the skills and tools
needed for democratic citizenship. Yet, there is
a danger that education, working as a wing of
the state, may devalue these emerging forms
of participation, dismissing activities that are
meaningful to students outside school, convincing them that they have little of significance to contribute to these larger conversations.” (loc 3758 of 4643)
Jelena Perovic