Consulta l`intero numero - Osservatorio Mediamonitor Minori
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IN•FORMAZIONE STUDI E RICERCHE SU GIOVANI, MEDIA E FORMAZIONE Anno IX - numero 12 - 2014 Sommario 3 Abstracts Editoriale 9 La comunicazione sostenibile. Prolegomeni ad una comunicazione formativa Luca Toschi 31 Il progetto Inf@nzia DIGI.tales 3.6. Sviluppare nuove tecnologie dell’educazione per la scuole dell’infanzia e le scuole primarie italiane Orazio Miglino 36 Media Literacy: an exercise of democracy Marco Ricceri 49 Il contributo delle scienze neuronali alla comprensione della comunicazione. Un punto di vista medico Francesco Nucci 55 I media in età prescolare: una lettura esplorativa dei dati ISTAT Isabella Mingo 62 Bambini nell’arcipelago delle tv. La multidimensionalità delle esperienze televisive Mihaela Gavrila 71 Under eight. Il consumo mediato Ida Cortoni 80 Disegni di ricerca “a misura” di bambino. Etnografia dello stile mediale dei minori in età prescolare Veronica Lo Presti Articoli 88I net babies come target pubblicitario. La socializzazione al consumo dei bambini in età prescolare Paola Panarese 94 La fruizione dei beni culturali nelle smart cities: definizioni, problemi e metodi Claudia Matera, Andrea Ingrosso 101 [email protected] 3.6 programma Operativo Nazionale Ricerca e Competitività 2007-2013 Carlo Maria Medaglia, Giada Marinensi 106 Non è mai troppo presto? Considerazioni sull’utilizzo delle tecnologie nei bambini in età prescolare Simone Mulargia 116 L’età riflessa: pre-adolescenti, new media e “vite parallele” Donatella Cannizzo 123 Leggere prima di leggere. Una panoramica di indagini empiriche statunitensi sulla lettura della primissima e prima infanzia (0-3; 3-6 anni) dagli anni Ottanta a oggi Leyla Vahedi 129 Infantile a chi? L’influenza personale nei consumatori del domani Myriam Battelli Sommario 133 Tv for children: an ethical, regulatory and educational issue Ilana Eleá Scaffale: libri, video, programmi mediali e approfondimenti 139 Recensione del libro: Valentino R., Merletti R., Paladin L. (2012), Libro fammi grande, Idest, Campi Bisenzio (FI) Leyla Vahedi 141 Recensione del libro: Satta C. (2012), Bambini e adulti: la nuova sociologia dell’infanzia, Carocci Editore, Roma Monika Bukat 143 Book review: H. Jenkins and Kelley W. (2013), Reading in a Participatory Culture: Remixing Moby-Dick in the English Classroom. New York, USA: Teachers College, Columbia university Jelena Perovic IN-FORMAZIONE www.rivista-informazione.it ISSN 1970-6723 Direzione scientifica: Mario Morcellini, Teresa Grange Sergi Comitato redazionale Ida Cortoni, Sapienza Università di Roma (REFERENTE), Paola Panarese, Sapienza Università di Roma, Gammaitoni Milena, Università di Roma tre, Andrea Lombardinilo, Università di Chieti, Laura Iannelli, Università di Sassari, Giovanna Mascheroni, Università Cattolica di Milano, Michela Drusian, Università di Verona, Andrea Volterrani, Università di Tor Vergata Roma, Sergio Brancato, Università di Salerno, Sarah Siciliano, Università di Lecce, Lucia D’Ambrosi, Università di Macerata, Banzato Monica, Università Co Foscari di Venezia, Daniela Cinque, Sapienza Università di Roma, Maria Giovanna Onorati, Università della Val d’Aosta, Nicola Strizzolo, Università di Udine, Alessia Rosa, Università di Torino, Stefania Capogna, Università di Roma Tre, Giovanna Gianturco, Sapienza Università di Roma, Elena Valentini, Sapienza Università di Roma Comitato scientifico Antonelli Giselda, Università di Chieti Benadusi Luciano, Sapienza Università di Roma Besozzi Elena, Università Cattolica di Milano Bimbi Franca, Università degli studi di Padova Biondi Giovanni, MIUR Buzzi Carlo, Università di Trento Capecchi Saveria, Università di Bologna Cappello Gianna, Università di Palermo Ceccatelli Giovanna, Università di Firenze Censi Antonietta, Sapienza Università di Roma Corradi Consuelo, LUMSA Corradini Luciano, Università degli Studi di Roma Tre D’Amato Marina, Università degli Studi di Roma Tre Decharneux Baudouin, Université Libre de Bruxelles Farnè Roberto, Università di Rimini Federici Maria Caterina, Università degli Studi di Perugia Galliani Luciano, Università di Padova Gili Guido, Università del Molise Greco Giovannella, Università della Calabria Grimaldi Renato, Università di Torino Limone Pierpaolo, Università di Lecce Lorenz Walter, Università di Bolzano Luzzatto Giunio, Università di Genova Mantovani Giuseppe, Università di Padova Maragliano Roberto, Università degli studi di Roma Tre Margiotta Umberto, Università di Co’ Foscari di Venezia Merlini Fabio, Direttore regionale IUFFP-Lugano Milanaccio Alfredo, Università di Torino Minardi Everardo, Università di Teramo Mussi Maria Bollini, Capo Struttura RAI Nicola Paparella, Università di Lecce Perez Tornero José Manuel, Universitad Autonoma de Barcellona Persichella Vincenzo, Università di Bari Piromallo Gambardello Agata, Università di Salerno Rauty Raffaele, Università di Salerno Rivoltella Piercesare, Università Cattolica di Milano Sorlin Pierre, Université de Paris III Toschi Luca, Università di Firenze Segreteria di redazione: Claudia D’Antoni, Jelena Perovic Segreteria Amministrativa Maggioli Editore presso c.p.o Rimini via Coriano, 58 – 47924 Rimini Tel. 0541/6268111 - Fax 0541/622100 Maggioli Editore è un marchio Maggioli S.p.A. Stampa Maggioli spa – Santarcangelo di Romagna (RN) Progetto grafico Niki Caragiulo Giada Fioravanti IN•FORMAZIONE STUDI E RICERCHE SU GIOVANI, MEDIA E FORMAZIONE Anno IX - numero 12 - 2014 Questo numero della rivista è stata sottoposto a un sistema di doppio referaggio cieco e anonimo Abstracts Il progetto Inf@nzia DIGI.tales 3.6. Sviluppare nuove tecnologie dell’educazione per la scuole dell’infanzia e le scuole primarie italiane (O. Miglino) Nel corso del 2014 sarà avviato [email protected] 3.6 un ambizioso progetto di ricerca, finanziato dal programma PON-Smart Cities for Social Inclusion, che si pone l’obiettivo di ideare, sviluppare e valutare tecnologie didattiche per la fascia d’età tra i 5 e i 7 anni. L’articolo presenta la prospettiva multidisciplinare alla base dell’idea progettuale al fine di stimolare la partecipazione delle varie comunità (educatori, genitori, tecnologici, ricercatori, ecc.) a cui [email protected]. Tales 3.6 è potenzialmente rivolto. In particolare, si fornirà un sintetico quadro di riferimento delle prospettive psicopedagogiche, delle tecnologie e della metodologie di sviluppo che il progetto si è proposto di adottare. Parole chiave: [teoria della cognizione incarnata e situata, educazione alla tecnologia, tecnologie RFID/NFC, interfacce utente naturali, ambienti per l’insegnamento e l’apprendimento intelligente] The project Inf@nzia DIGI.tales 3.6. Develop new educational technologies for preschools and primary schools Italian During the 2014 will start “[email protected] 3.6”, an ambitious research project, funded by the program PON-Smart Cities for Social Inclusion that aims to ideate, develop and evaluate some learning/educational technologies for children between 5 and 7 years old. The paper aims to present at educators, parents and technologists the multidisciplinary vision of Infanzia.DiGITALES in order to introduce them to project perspectives. In particular, it shows a synthetic sketch of psycho-pedagogical framework, the new technologies to be developed during project activities. Key words: [embodied and situated cognition theory, technology-enhanced education, RFID/NFC technologies, natural user interfaces, environments for smart teaching and learning] La Media Literacy: un esercizio di democrazia (M. Ricceri) Quali sono gli elementi essenziali che definiscono la Media Literacy e la distinguono dalla Media Education? Quali nuovi scenari si aprono con la sua diffusione? A queste domande l’articolo risponde offrendo un contributo di chiarificazione, con riferimento alla novità della co-regolazione promossa dalla UE con la Coalizione delle più grandi imprese del settore a tutela dei minori; ed ai principi e indirizzi promossi da Commissione Europea, Consiglio d’Europa, UNESCO per la diffusione della educazione ai media nelle scuole, nelle famiglie, tra gli operatori, nonché per la formazione di nuove figure professionali. In questo quadro di iniziative, la sfida della Media Literacy riguarda le competenze dei cittadini, il loro spirito critico e partecipativo, condizioni base per la democratizzazione del mondo dei media. Parole chiave: [media literacy, nNuovi media, ceo-coalition, competenze, partecipazione ai media] Media Literacy: An Exercise of Democracy What are the essential elements that define Media Literacy and differentiate it from Media Education? What new scenarios open with its spread? The article answers these questions by providing a contribution of clarification, with reference to the novelty of co-regulation promoted by the EU with the Coalition of the largest media companies to protect minors, and the principles and guidelines promoted by the European Commission, the Council of ‘Europe, UNESCO for the dissemination of media education in schools, in families, between operators, as well as for the training of new professionals. In this framework of initiatives, the challenge of Media Literacy regards citizens’ skills, their critical thinking and participatory attitude, as basic conditions for the democratization of the media world. Key words: [media literacy, new media, ceo-coalition, skills, media participation] 3 IN•FORMAZIONE 12-2014 4 Il contributo delle scienze neuronali alla comprensione della comunicazione. Un punto di vista medico (F. Nucci) Le neuroscienze stanno delineando le strutture e le funzioni dei sistemi cerebrali nelle diverse aree del cervello. Le brain imaging, grazie alle quali è possibile evidenziare la maturazione del cervello nel corso dell’infanzia, ci forniscono continuamente nuove indicazioni sui complessi meccanismi delle influenze fra le esperienze ed i processi mentali. L’autore, pur riconoscendo che siamo in una fase iniziale di ricerca, con risultati a volte discutibili, sostiene che riconoscere almeno in parte l’importanza che le esperienze quotidiane hanno sulla mente ci aiuta a capire come il passato influenza il presente ed il futuro. Parole chiave: [sviluppo neuronale infantile, neuro immagini, neuroni specchio, emotività, apprendimento] The contribution of Neuroscience to the understanding of communication. A medical point of view Neurosciences are outlining the structures and the functions of the cerebral systems in the different areas of the brain. Through the brain imaging we can now show the brain growth during the childhood and it continuously offers us new data about the complex mechanisms of the mutual influence between experiences and mind processes. It is true that we are in the opening phase of this research and that we still have questionable results. But it is really important to also partially comprehend the relationship between mind and experiences because it can really help us to understand how the past can influence the present and the future. Key words: [infantile neuronal development, neuroimaging, mirror neuron, emotion, learning] I media in età prescolare: una lettura esplorativa dei dati ISTAT (I. Mingo) In questo contributo si esplorano le potenzialità dei dati Istat (Istituto Nazionale di Statistica) ai fini dell’analisi empirica della fruizione mediale dei bambini in età prescolare. Vengono utilizzati in particolare i microdati dell’indagine annuale “Aspetti della vita quotidiana”, che nel 2011 ha previsto un focus sui minori. I dati, che si riferiscono a un campione di 2971 soggetti da 0 a 6 anni, rappresentativo di circa quattro milioni di bambini, consentono di tracciare la loro fruizione mediale con particolare riferimento alle letture, alla tv, al computer, a Internet e ai videogiochi. Parole chiave: [microdati Istat; letture, TV, media digitali, bambini in età prescolare] Media and preschool children: an exploratory analysis of Istat data In this paper the author explores the potential of the Istat data, to investigate, via empirical analysis, the use of media by preschool children. To this end, the author uses some Istat microdata, detected by the annual survey “Aspects of daily life”, that in 2011, included a focus on children. This data are based on a sample of 2971 subjects aged 0-6, representing about four million children. An exploratory analysis allowed to outline their media usage, with particular attention to the readings, TV, computer, Internet and video games. Key words: [Istat microdata, readings, TV, digital media, preschool children] Bambini nell’arcipelago delle tv. La multidimensionalità delle esperienze televisive (M. Gavrila) A partire da alcune acquisizioni sull’universo infantile di carattere transdisciplinare (sociologia dell’educazione, psicologia dell’età evolutiva, psicologia dell’educazione, pedagogia, sociologia della comunicazione, ecc.), il contributo ricostruisce lo stato dell’arte della ricerca in ordine all’influenza della televisione sullo sviluppo dei bambini, focalizzando in particolare la sua attenzione sul target 4-7 anni. Parole chiave: [bambini, tv, multidimensionalità, informazione, socializzazione] Children in the archipelago of the TV. The multidimensionality of the television experience From acquisitions infant universe of transdisciplinary nature (sociology of education, developmental psychology, educational psychology, pedagogy, sociology of communication, etc.), The contribution reconstructs the state of the art research in order to the influence of television on children’s development, focusing in particular its focus on the target 4-7 years. Key words: [kids, TV, multidimensionality, information, socialization] Abstracts 5 Under eight. Il consumo mediato (I. Cortoni) L’articolo propone una riflessione sulla socializzazione mediale in età prescolare partendo dall’analisi dei risultati di ricerca della Kaiser Family Foundation del 2011. L’analisi sociologica proposta si inserisce nell’indagine di sfondo svolta dal Dipartimento di Comunicazione e Ricerca Sociale della Sapienza Università di Roma nell’ambito del progetto di Ricerca Infanzia DIGI.tales e risulta utile per la strutturazione di un disegno della ricerca di orientamento multidisciplinare. Parole chiave: [socializzazione, comportamento culturale, media education, bambini, mediazione culturale, ricerca multidisciplinare] Under eight. Consumption mediated The paper speaks about the socialization with the media of children before of the frequentation of primary school. It starts from the analysis of the main research results of the Kaiser Family Foundation in 2011. The proposed sociological analysis is conducted by the Department of Communication and Social Research in Sapienza University of Rome and represents the first step of the research project Infanzia DIGI.tales. The results and the suggestions of this activity will be useful to structure the multidisciplinary research design about this topic. Key words: [socialization, cultural behaviour, media education, children, cultural mediation, multidisciplinary research] Disegni di ricerca “a misura” di bambino. Etnografia dello stile mediale dei minori in età prescolare (V. Lo Presti) L’obiettivo del saggio è quello di avviare una riflessione teorica sulle metodologie di analisi della relazione tra media e minori, al fine di sollecitare i ricercatori ad una concettualizzazione puntuale dei fattori e delle variabili che si intendono indagare in un percorso di ricerca e alla costruzione di strategie di indagine in grado di rispondere validamente agli interrogativi principali che si aprono intorno alla quaestio media-minori. Nel panorama degli approcci di indagine disponibili, l’etnografia può costituire un approccio particolarmente adeguato per indagare le modalità di influenza dei media digitali rispetto ai percorsi di socializzazione e di costruzione dell’identità personale e sociale dei minori fin dall’età prescolare; costruendo disegni di ricerca “a misura” di bambino. Parole chiave: [etnografia, cultura, stile mediale, identità personale, capitale sociale] Research design “tailored” to the child. Ethnography of the media style of the children The objective of this paper is to undertake a theoretical reflection on the methods of analysis of the relationship between media and children, in order to encourage researchers to a precise conceptualization of the factors and variables in a research and construction of survey strategies around the quaestio media-minor. In view of the investigation approaches, ethnography can be a particularly appropriate approach to investigate how to influence digital media regarding the paths of socialization and the construction of personal and social development of preschool children; building reserch designs “tailored” to the child. Key words: [etnography, culture, media style, personal identity, social capital] I net babies come target pubblicitario. La socializzazione al consumo dei bambini in età prescolare (P. Panarese) Chi intende conoscere le abitudini mediali e i consumi culturali dei bambini in età prescolare non può ignorare il marketing e la comunicazione pubblicitaria, ambiti naturalmente interessati a registrare le condotte di bambini sempre più piccoli, cui è indirizzata una quota crescente di messaggi e investimenti. Quelli tra 0 e 5 anni sono bersaglio di specifiche strategie di marketing e comunicazione e oggetto di un fiorente mercato di testi e convegni, soprattutto all’estero. Le poche ricerche italiane rivelano la loro naturale attrazione per la Tv e la pubblicità e l’importante ruolo dei media nel loro processo di crescita, accanto alla famiglia e prima della scuola. Parole chiave: [bambini in età prescolare, socializzazione, Tv, pubblicità, marketing, consumi culturali, diete mediali] The net babies targeted advertising. Consumer Socialization of preschoolers The point of view of marketing and advertising is useful to know the cultural and media consumption of preschool IN•FORMAZIONE 12-2014 6 children. These disciplines are very interested in identifying the consumption behavior of the youngest children, in order to send them effective advertisements. Children between 0 and 5 years are the target of specific marketing and communication strategies and the subject of a flourishing market of texts and conventions, especially abroad. The few Italian researches reveal the natural attraction of preschool children for the TV programs and the commercials and the important role of the media in their growing process, alongside the family and before the school. Key words: [preschool children, socialization, Tv, advertising, marketing, cultural consumptions, media consumptions] La fruizione dei beni culturali nelle smart cities: definizioni, problemi e metodi (C. Matera, A. Ingrosso) Le innovazioni tecnologiche trasformano le città in uno spazio urbano in cui le risorse web si integrano con i dispositivi mobili per realizzare nuovi strumenti e avanzati servizi. Il campo della formazione e dei beni culturali possono trarre significativi benefici, basti pensare alla possibilità di fruire i contenuti direttamente in loco. Anche il target dei bambini può trarre beneficio e il progetto Infanzia Digit@les 3.6 offre l’opportunità di rileggere le definizioni tradizionali; innescare una discussione critica sui metodi tradizionali; e, infine, di partecipare all’elaborazione di un metodo formativo per i beni culturali nell’ambito di una smart city. Parole chiave: [beni culturali, smart city, smart learning, serious game, playful learning] The use of cultural property in smart cities: definitions, problems and methods Our cities are progressing towards a dimension that increasingly integrates web and mobile infrastructures in the physical space, in order to provide citizens with new kind of services. The educational field and cultural heritage could take advantages, taking information directly on each point of interests is a first example. Also children can benefit from these new kinds of smart cities learning and Infanzia Digit@les 3.6 offers an opportunity to think about traditional definitions, to make a critical discuss about traditional methods and to participate to the elaboration of a smart learning learning method in cultural heritage field. Key words: [cultural heritage, smart city, smart learning, serious game, playful learning] [email protected] 3.6 programma Operativo Nazionale Ricerca e Competitività 2007-2013 (C.M.Medaglia, G. Marinensi) Il progetto Inf@nzia DIGI.tales 3.6, presentato nell’ambito del bando “Smart Cities and Communities and Social Innovation” promosso dal MIUR, si rivolge ai bambini dai tre ai sei anni e intende proporre un rinnovamento dei modelli educativi delle scuole dell’infanzia. Inf@nzia DIGI.tales 3.6, infatti, ha l’obiettivo di progettare e sperimentare una soluzione educativa che, integrando differenti tecnologie, favorisca il potenziamento delle capacità di esplorazione e manipolazione del bambino, stimolandolo al contempo l’interazione con l’insegnante, i pari e i genitori. Parole chiave: [smart education, interactive digital storytelling, adaptive tutoring, game based learning, learning environment context-aware] [email protected] 3.6 National Operational Programme for Research and Competitiveness 2007-2013 The project Inf@nzia DIGI.tales 3.6, presented as part of the call “Smart Cities and Communities and Social Innovation” organized by the Ministry of Education, is designed for children aged three to six years and plans to propose a new model of school education ‘childhood. Inf@nzia DIGI.tales 3.6, in fact, aims to design and test an educational solution that integrating different technologies, encourage capacity-building investigation and manipulation of the child, at the same time stimulating the interaction with the teacher, peers and parents. Key words: [smart education, interactive digital storytelling, adaptive tutoring, game based learning, learning environment context-aware] Abstracts 7 Non è mai troppo presto? Considerazioni sull’utilizzo delle tecnologie nei bambini in età prescolare (S. Mulargia) L’attuale sviluppo del panorama tecno-sociale appare caratterizzato dalla sempre più pervasiva presenza di dispositivi che fanno uso di tecnologia touch. Tali strumenti sono l’ultima manifestazione di una tendenza di lungo periodo verso la semplificazione dell’interfaccia. Sempre più spesso, come conseguenza del possesso di questi strumenti da parte dei genitori, quote crescenti di bambini in età prescolare sperimentano un precoce contatto con la tecnologia, utilizzata in alcuni casi come opzione per la loro distrazione o in alternativa ai giocattoli tradizionali. Proprio questi bambini sembrano essere il target privilegiato di numerose iniziative commerciali volte alla produzione e diffusione di applicazioni specifiche per quella fascia d’età, spesso declinate in ottica di apprendimento. Malgrado questo iniziale interesse del mercato, e una tradizione di studi sull’applicazione dei dispositivi tecnologici come ausilio per l’apprendimento, manca una consolidata riflessione scientifica sul tema. Le caratteristiche specifiche del contatto possono, per alcuni aspetti, acuire ulteriormente la crisi delle figure di mediazione, già sperimentata a ridosso dei fenomeni di laicizzazione delle procedure di trasmissione del sapere. Il pericolo è che i processi decisionali circa le opportune modalità di utilizzo delle tecnologie touch da parte dei bambini in età prescolare possano essere monopolizzati dai forti interessi di mercato, invece che da una riflessione scientifica indipendente che possa evidenziare potenzialità positive e eventuali rischi. Parole chiave: [device, touch technologies, literacy skills, smart toys, videogiochi] It’s never too soon? Considerations on the use of technology in pre-school children The current development of the techno-social landscape is characterized by the increasingly pervasive presence of devices that make use of touch technology. These tools are the latest manifestation of a long-term trend toward simplifying the interface. Increasingly, as a result of holding these instruments from their parents, increasing amounts of pre-school children experience a premature contact with the technology used in some cases as an option for their distraction or as an alternative to traditional toys. It is these children seem to be the main focus of many initiatives aimed at commercial production and dissemination of specific applications for that age group, often inflected with a view to learning. Despite this early interest in the market, and a tradition of studies on the application of technological devices as an aid to learning, there is no established scientific thinking on the subject. The specific characteristics of the contact may, in some respects, further exacerbate the crisis of mediating figures, already experienced close to the phenomena of secularization of procedures for the transmission of knowledge. The danger is that decision-making about the appropriate way to use the touch technologies by children in preschool can be monopolized by the strong market interest, rather than a reflection independent scientific organization that can highlight potential benefits and possible risks. Key words: [device, touch technologies, literacy skills, smart toys, videogames] L’età riflessa: pre-adolescenti, new media e “vite parallele” (D. Cannizzo) Le dinamiche della comunicazione tradizionale si intrecciano alle nuove forme di socializzazione digitale, riflesso di un’età che adotta le forme della realtà virtuale per sviluppare nuove competenze ed intraprendere nuove esperienze cognitive. L’infanzia è sostituita dalla pre-adolescenza caratterizzata, infatti, da una precoce attrazione verso smartphone, tablet e social network. Parole chiave: [comunicazione tradizionale, socializzazione digitale, realtà virtuale, scomparsa dell’infanzia] The age reflected: preteens, new media and “parallel lives” The dynamics of traditional communication are intertwined with new forms of socialization digital, reflection of an age that take the form of virtual reality to develop new skills and take on new cognitive experiences. Childhood is replaced by pre-adolescence characterized, in fact, from an early attraction to smartphones, tablets and social networks Key words: [traditional communication, digital socialization, virtual reality, disappearance of childhood] IN•FORMAZIONE 12-2014 8 Leggere prima di leggere. Una panoramica di indagini empiriche statunitensi sulla lettura della primissima e prima infanzia (0-3; 3-6 anni) dagli anni Ottanta a oggi. (L. Vahedy) L’articolo presenta una ricostruzione dell’interesse di ricerca verso la lettura infantile offrendo una rassegna di indagini e studi empirici condotti negli Stati Uniti che individuano nella lettura precoce un decisivo agente di diminuzione del rischio di marginalità sociale, oltre a indagini sulle relazioni specifiche instaurate dalla lettura di albi illustrati fino all’interazione con i supporti digitali. I risultati supportano l’importanza della lettura non solo dal punto di vista cognitivo e di linguaggio, ma affettivo, sociale, relazionale. Parole chiave: [indagini empiriche, abitudini di lettura, abitudini mediali, albo illustrato, emergent literacy] Reading before reading. A theoretical and empirical framework around toddlers and children’s reading in United States from Eighties until now The article aims at creating an empirical framework around the growing interest toward the topic of precocious reading. We will review findings that have emerged from studies carried out in the Unites States such as the key role of emergent literacy for preventing the risk of social marginality. We will focus on specific relations established by the reading of picture books and the interactions with digital devices. These results highlight the benefits of precocious reading during infancy for improving both cognitive and social development of children. Key words: [empirical studies, reading habits, early childhood, picture book, emergent literacy] Infantile a chi? L’influenza personale nei consumatori del domani (M. Battelli) Bambini e pubblicità. Una relazione che inizia già in tenera età, sicuramente intensa, ma troppo spesso demonizzata dall’opinione pubblica, che giudica nell’immediato il bambino, passivo ed indifeso, e la pubblicità, manipolatrice degli innocenti. L’approfondimento di tale dinamica fruitiva considera fondamentali i fattori sociali che entrano in gioco quando si parla di piccoli consumatori, in primis l’influenza personale del gruppo dei pari, e la riflessione che ne nasce tende a sottolineare l’eccezione positiva della parola infanzia, che in inglese è ben distinta dal termine childlike, per esprimere le qualità che sono tipiche di un bambino come l’innocenza e lo stupore, rispetto al termine childish, usato comunemente per indicare la mancanza di maturità nei confronti della realtà e della comunicazione pubblicitaria. Parole chiave: [bambini, pubblicità, consumatori, gruppo dei pari, influenza personale] Who’s childish? The personal influence among consumers of tomorrow Children and advertising. A relationship that begins in early age, certainly intense, but too often demonized by the public opinion, in the immediate who judges the children, passive and helpless, and advertising, manipulating the innocent. The deepening of this trend fruition considers as key social factors that come into play when it comes to little consumers, primarily the personal influence of the peer group, and the reflection that born of it tends to emphasize the positive exception of the word childhood, which in english is distinct from the term childlike, to express the qualities that are typical as innocence and wonder, respect to the childish term, commonly used to indicate the lack of maturity towards reality and advertising. Key words: [children, advertising, consumers, peer group, personal influence] Tv for children: an ethical, regulatory and educational issue (I. Elea) Television still remains the most used mass medium for children worldwide. Ethics and quality TV for children are discussed in the present article under three regulatory frameworks: Public regulation, Self-regulation and Co-regulation. This paper brings examples of what different countries face when dealing with the issues of protecting children against potentially harmful content, while encouraging quality content. Media and Information Literacy is seen as a fundamental skill integrated in the process, since it represents a counterforce that empowers kids to wisely, creatively and democratically use, analyse and create media content and information. Key words: [ethics, tv regulation, children, quality TV, media and information literacy] Editoriale Luca Toschi [email protected] Dipartimento di Scienze Politiche e Sociali Università degli Studi di Firenze La comunicazione sostenibile. Prolegomeni ad una comunicazione formativa Un digitale molto storico Il digitale informatico con cui ci misuriamo tutti i giorni, adulti e ragazzi, anziani e bambini, nella vita pubblica e in quella privata, nel relazionarsi con gli altri (comunicazione esterna) nel rapportarsi con noi stessi (comunicazione interna), è una risposta strumentale ancora assai primitiva che l’uomo ha trovato per affrontare una complessità culturale, sociale, economica, politica che ha cercato per millenni, e che adesso si trova a dover governare. La dimensione digitale è un tentativo di dare una risposta ai nostri bisogni: l’abbiamo inventata per raggiungere degli obiettivi che perseguiamo da secoli e secoli. Essa, quindi, riflette, nasce da un digitale tutto naturale e storico, dalla nostra aspirazione a leggere la trama nascosta – macro e micro, sempre più nano – della realtà, fisica e simbolica, a riscrivere la rete delle relazioni, dei collegamenti che la natura insieme alla Storia ci propone. La comunicazione, insieme ai processi di automazione cui si appoggia e si appoggerà sempre più, è chiamata a svolgere un ruolo fondamentale in questo processo, dal momento che è la scienza e l’arte di collegare e scollegare i soggetti (animati e inanimati) protagonisti di questa svolta storica. Per questo domandarsi se a scuola si debba o non utilizzare strumentazioni basate sul digi- tale informatico è irrilevante. Il problema è se a scuola si è consapevoli della storia che l’umanità, tutti noi, dai più piccoli ai più grandi, stiamo scrivendo. Nostro malgrado. Il digitale, quello naturale e storico, è intorno a noi. Siamo noi. A noi il compito di renderlo sostenibile, il che non vuol dire sopportabile, al contrario: riuscire a capire che il nostro problema non è la limitatezza bensì l’abbondanza travolgente delle risorse di cui disponiamo e potremo disporre. Il difficile è riuscire a riconoscerle come tali. Basta vedere le difficoltà che s’incontrano nel capire se e come utilizzare il digitale informatico. La comunicazione sostenibile ci aiuta a farlo. “Sostenibile”, in questa prospettiva, non è gestione avveduta dell’esistente, ma indica capacità di costruire una comunicazione, una relazione fra progetto e realizzazione in cui la conoscenza, in controtendenza con ogni altra forma di energia naturale, quanto più è utilizzata tanto più genera conoscenza. Argomenti non originali ma originari Quando mi chiedono collaborazione per migliorare la comunicazione, sia che la domanda provenga da aziende, da organizzazioni private o pubbliche, da istituzioni, sia da persone, le quali anche individualmente cercano di affinare il loro personale rapporto con la comunicazione (condurre riunioni di lavoro o parlare in pubblico, per esempio), mi capita sempre di 9 IN•FORMAZIONE 12-2014 10 imbattermi nello stesso problema: dover proporre – terminate le dovute ricerche e analisi sulle modalità comunicative del ‘committente’ – argomenti che possono risultare ovvi, sorprendentemente risaputi. Di dare indicazioni strategiche, cioè, che sembrano soluzioni dettate dal semplice buon senso, da quel sapere che giace da qualche parte in ognuno di noi ma che troppe volte ci ostiniamo a voler ignorare, considerandolo superato, imbarazzante se confrontato con la magica scientificità di professionalità e tecniche ormai ritenute irrinunciabili. Più in particolare, si tratta di indicazioni che riguardano il rilancio dell’identità, della specificità dell’ente o della persona che comunica; della sua ragion d’essere nella società, nell’economia. Le mie, cioè, finiscono sempre, o quasi, col diventare sollecitazioni fatte al ‘committente’ perché riparta, per ridare forza alla sua comunicazione, dal riscoprire il valore ‘originario’ della sua azione (pubblica e privata), la qualità dei contenuti che pensa di poter comunicare. La buona comunicazione nasce prima di tutto dalla coerenza che si riesce a stabilire fra la matrice originaria di un progetto sociale, economico, culturale, politico, ma anche personale, e i comportamenti comunicativi concreti che si decide di seguire già in fase di progettazione e di sviluppo dei prodotti. Siano questi ultimi beni o servizi. Viviamo tempi in cui la coerenza è ridotta a parola noiosa. Certamente per i più priva di qualsiasi riferimento alla realtà delle persone e delle cose. Eppure proprio dalla mia attività sul campo della comunicazione praticata quotidianamente emergono indicazioni contrarie a questa opinione diffusa circa la sua inconsistenza. La coerenza si sta rivelando, infatti, prima di ogni altra considerazione, uno strumento molto concreto per orientare e rivitalizzare la comunicazione nei suoi molteplici aspetti: sia essa espressione di un ente o di una persona, sia essa un prodotto fisico, mentale o psichico. La coerenza come continuità fra l’identità di un’organizzazione e la sua produzione è ancora in attesa di sviluppare tutta la sua ‘originalità’ e la sua forza effettivamente ‘innovativa’. Dove ‘produzione’ è da intendersi nel senso più ampio dell’agire umano, sia individuale che collettivo, riferito, quindi, ad ogni attività umana di tipo non solo fisico ma anche mentale, psichico etc. Intanto, sarà forse perché la semplicità delle mie indicazioni e strategie è affiancata e sostenuta da strumenti tecnici di analisi e di progetto che permettono di avviare concretamente quel processo di innovazione per il quale era stato richiesto un intervento, riuscendo a raggiungere, insieme ai vari enti, risultati di qualche interesse; sarà, probabilmente, perché hanno umiliato la Storia in tutti i modi, e in un’epoca di crisi come questa, ritornare alle origini identitarie di un’organizzazione, piccola o grande che sia, le può dare la speranza di ritrovare quel filo che si è perso nel navigare a vista, senza obiettivi di lungo termine, confondendo così una società liquida con il lasciarsi travolgere dalla piena dell’improvvisazione. Sarà, infine, per tante ragioni che nemmeno a me risultano ancora chiare, ma quel che appare evidente è che ragionare sulla coerenza sta aiutando i ‘committenti’, anche in aree a forte vocazione economica, nel loro sforzo di potenziare la loro comunicazione. C’è un gran bisogno di essenzialità (che è tutt’altra cosa dalla dilagante banalizzazione), e cioè di orientarsi nell’affollarsi quotidiano di stimoli, d’informazioni, di suggestioni messe a disposizione dalle nuove tecnologie della comunicazione; di ritrovare il filo conduttore di un progetto, anche in previsione di doverlo radicalmente cambiare. Una necessità che risul- Editoriale 11 ta particolarmente evidente nella difficile ricerca d’impostare un uso delle ICT che sia operativamente funzionale ad obiettivi definiti, che non esaurisca la sua ragion d’essere nell’attivazione di meccanismi rispetto ai quali siamo sempre più spettatori-consumatori, ma che ne discuta il senso e l’economia: dalle imprese al mondo dell’educazione. Un’esigenza di interrogarsi circa l’identità che comporta l’analisi e la valutazione dell’impianto strutturale e funzionale della comunicazione di enti e di persone nel tentativo di trovare una coerenza fra i processi operativi e i fondamentali identitari che essi dovrebbero valorizzare e rafforzare e che, viceversa, troppe volte sacrificano ad un’idea e ad una prassi della comunicazione mirata ad uniformare, ad appiattire ogni diversità. Insomma un ritorno alle origini fondative. Visione e missione definiscono uno spazio sociale molto operativo Identità e comunicazione. Un binomio inscindibile. Questo significa lavorare sulla vision e quindi sulla mission (qui intese oltre il significato strettamente economico-aziendalistico), sugli obiettivi ufficialmente formalizzati e comunicati dentro e fuori le organizzazioni, e quindi sui valori che le ispirano – ma questo vale anche per l’azione di una sola persona –, sulle convinzioni, sugli ambiti d’intervento, sui soggetti verso i quali, con i quali si vuole agire. Una visione e una missione che non devono ridursi a dichiarazioni messe su un bel piedistallo per nascondere la mancata corrispondenza fra enunciato e praticato. Se visione e missione hanno davvero ragion d’essere a livello di realtà, e non sono, quindi, pezzi d’effetto più o meno allettanti per creare suggestione, per imporre idee e valutazioni ai vari stakeholder, ma sono il prodotto primo dell’organizzazione, che giunge dopo un percorso di conoscenza, di analisi e di scelte coraggiose, ponendosi così come le matrici profonde, originarie, da cui tutto poi scaturisce e cui tutto ritorna per le necessarie valutazioni, sia la visione che la missione saranno sempre e comunque la bussola cui fare riferimento; a livello di macro e di micro azioni. Ad iniziare dai comportamenti di chi fa parte di un’organizzazione. Un rapporto questo fra visione e missione, da una parte, e realizzazione, dall’altra, operativamente così stretto che, se viene meno, la stessa sopravvivenza dell’ente risulta presto a rischio, salvo ricorrere ad azioni incoerenti fino a risultare poco trasparenti. Non c’è danno peggiore che predicare una missione e praticarne un’altra. E non in nome di uno sterile moralismo, ma per ragioni molto, ma molto pratiche. Anche produttive ed economiche; per quanto gli obiettivi di quest’ultima natura siano, nel senso comune, lontanissimi da problematiche identitarie, valoriali. In troppe imprese d’oggi; ma non sempre in quelle del passato che hanno costruito l’Italia, l’Europa, dopo la catastrofe della Seconda guerra mondiale. Uno scarto penalizzante per le pur tante imprese coraggiose e valide che abbiamo, su cui pesa un’idea di comunicazione che negli ultimi decenni è stata dominata da strategie che puntavano esplicitamente alla manipolazione, all’alterazione e alla sofisticazione della loro produzione. Il racconto progettuale, infatti, inteso come il sentimento vivo di appartenenza che esso dovrebbe trasmettere ad una comunità, come il profondo senso del futuro che dovrebbe ispirare, con i suoi valori, con il suo incessante divenire in chiave di instancabile rafforzamento di identità, IN•FORMAZIONE 12-2014 12 è il punto fondamentale di riferimento per il personale interno di un’organizzazione; ma anche per chi vede in ciò che l’ente produce (beni o servizi) una garanzia in termini di fiducia: la base fondamentale di un patto comunicativo. Insomma, visione e missione identificano e caratterizzano lo spazio sociale dell’azione di un soggetto – o almeno lo potrebbero fare – orientandone lo sviluppo. In questa vitale relazione, che lega il progetto alla sua produzione e, quindi, al suo uso, sta il senso più vero dell’organizzazione della comunicazione, da quella interna a quella esterna; la comunicazione di qualsiasi soggetto, individuale o collettivo. Da qui scaturisce la forza di ogni azione comunicativa mirata alla Ricerca e allo Sviluppo: collettiva e individuale. Da qui prende il via il processo generativo del progetto, che è tanto migliore quanto più cerca di evitare ogni possibile fuga dalla concretezza della realtà, cercando di attingere all’infinita energia di cui essa è portatrice, valutando quotidianamente i suoi risultati concreti, senza paura di inevitabili delusioni, disillusioni. L’errore, che inevitabilmente – e per certi versi anche auspicabilmente – emerge, già in corso di realizzazione, dal confronto di un progetto con la sua produzione, fatta di persone e di cose concrete, riportato alla sua origine progettuale per fare le opportune correzioni diventa così fonte inesauribile di conoscenza per migliorare qualsiasi processo produttivo. Progetti senza realizzazioni. Realizzazioni senza progetto Perché l’attuale crisi che la comunicazione sta attraversando in termini di qualità, di senso, dipende dalle difficoltà che essa sta incon- trando, ormai da troppo tempo, nel porsi come collegamento vitale, creativo fra le ideazioni, i progetti e le loro realizzazioni, fra quanto immaginato e quanto realizzato, in una prospettiva di costruzione di comunità. Purtroppo, anni di una cultura parassitaria, misera, circa il rapporto reciprocamente generativo fra idee e cose, fra capacità di rappresentarsi, cioè, e capacità di rendere concreto quanto pensato, concepito, hanno alimentato una concezione della concretezza assai povera. Su due piani: apparentemente distinti, conflittuali ma al contrario complementari al punto che l’uno ha bisogno dell’altro per sopravvivere. Il primo è la tendenza a progettare compiacendosi dell’elaborazione delle idee, ma spesso esaurendo nel pur bellissimo gioco della preparazione, tutte le risorse. Il secondo è la celebrazione della praticità, del primato del fare sulla supposta sterilità del pensare in maniera astratta. Idee versus cose e viceversa. Tempi lunghi versus tempi brevi, spazi vicini versus spazi lontani. Due posizioni entrambe vere quanto false. Come possibile? Partiamo dalla prima posizione. Oggi se non hai un progetto non sei niente; se non ti stai dando da fare in cerca di sostegni per mettere in piedi un progetto non hai uno status. Se sono più di uno ancora meglio. Se poi hai i finanziamenti per realizzarlo è perfetto: la tua posizione è solida. Se poi lo realizzi... beh allora ogni interesse tende ad affievolirsi. Viviamo nella società della progettazione, per questo andare a vedere se e come è stato realizzato, conta poco, quasi niente perché se perdi tempo a realizzarlo ti è sfuggito il fatto che nel frattempo è certamente emersa la necessità di mettere in piedi altri progetti, più adeguati, più nuovi. Semmai può contare moltissimo fare un progetto su come si possono veri- Editoriale 13 ficare i risultati ottenuti dai progetti. Idee che generano idee: che sia il modo più coerente di interpretare il senso della nostra celebrata Società della conoscenza? Per quanto riguarda, invece, la seconda posizione, questa è occupata da coloro che si dichiarano stanchi di chiacchiere, di parole vuote, inconcludenti e decidono che fare sia senz’altro meglio che passare il tempo a discorrere senza concludere niente. Intanto facciamo qualche cosa e poi vediamo, anche perché facendo possono venire delle idee nuove. Nella sua versione più oscura questo atteggiamento rischia di scivolare facilmente – e conferme in questa direzione ce ne sono moltissime, come si sa bene – verso una visione del fare che sa più di affare se non di affarismo. Anche politico. O forse altro non è che la versione di ultima generazione dello sperimentalismo? Due posizioni antagoniste solo apparentemente perché entrambe convergono su un punto fondamentale: il rifiuto di vedere nella realtà, in ciò che già c’è e che abbiamo impiegato secoli perché ci fosse, una trasformazione in corso di portata epocale, dalle risorse infinite se ci liberiamo della definizione di risorse che ci portiamo dentro. Una trasformazione che ha bisogno di essere capita, interpretata in un confronto stretto con le cose, le persone concrete ma che ha, nondimeno, lo stesso bisogno di progetti, a lungo e a breve termine, prefigurando un mondo che ancora non c’è e che non c’è mai stato. Insomma entrambe le posizioni, quando esasperate, tendono a negare il valore della Storia: si va dalla lettura del mondo, senza avere interesse a scriverne la Storia (progettatori), alla scrittura del mondo, ma senza avere interesse a leggerne la Storia (realizzatori). Sia la sterilità del progettare inconcludente inteso come strumento per costruire l’innovazione, sia la provvisorietà di chi operando, sem- pre e comunque, pensa di dare risposte concrete a necessità su cui manca un’analisi adeguata, portano le tracce pesanti di una cultura che sta confondendo la necessità di rifondare radicalmente il nostro rapporto con la realtà, travolta da trasformazioni epocali mai sperimentate prima dal genere umano, con la rinuncia a desideri, a programmi e a realizzazioni di grande respiro, adeguati all’onda lunga della Storia che ci sta spingendo verso un futuro che non riusciamo vedere, a condividere. Si avviliscono così le immense potenzialità del nostro tempo, sia progettuali che produttive, riducendo la nostra intelligenza e creatività ad una non-navigazione che ci ha portato alla terribile crisi che tutto il mondo sta vivendo. Ne consegue, per esempio, che mentre celebriamo un uso di beni personalizzato per tutti, comandino, nell’utilizzazione effettiva, pratiche d’uso rigorosamente standardizzate. Viviamo sempre più di storie che non indirizzano né le organizzazioni né le singole persone verso l’esplorazione e la costruzione di un nuovo mondo, ma spingono senza sosta a creare bolle di mondi artificiali tutte uguali, schermate nei confronti della bella generosità che la realtà ci offrirebbe. Si sono affermati lo strapotere della progettazione infinita e del fare comunque. Modalità operative opposte ma espressione di uno stesso sistema culturale: il continuo rilancio progettuale rispetto al confronto-verifica con le cose finite, che temiamo risultare deludenti rispetto alle aspettative, corrisponde pienamente alla paura, dal canto opposto, di non riuscire a comprendere o di comprendere cose che indebolirebbero la spinta operativa che pressa a fare ‘praticamente’, rinviando a tempi migliori qualsiasi analisi dell’esistente. IN•FORMAZIONE 12-2014 14 Pochi contenuti, molta interazione Paura, in entrambi gli atteggiamenti, di non avere l’attrezzatura culturale e pratica necessaria per sostenere un confronto con la realtà; diffidenza ormai dilagante verso la generosità della realtà materiale se interrogata dovutamente (ma dobbiamo avere le domande giuste!), da realizzare o già realizzata che sia. Insomma, diffidenza verso il patrimonio culturale che possediamo, e che avvertiamo inadeguato ad affrontare il salto di sistema che stiamo vivendo; sia, ripetiamolo, come elaborazioni astratte sia di intervento produttivo sulla realtà che ci circonda. Progettazioni o produzioni sempre più scisse dalla conoscenza del reale e dalla relativa sperimentazione su di esso, ad iniziare dalla nostra corporeità, la quale è lo strumento principe perché le cose ci parlino e perché noi si possa parlare alle cose e alle persone. Come sanno molto bene i bambini, che tutto toccano, tutto assaggiano, tutto abbracciano e scacciano. Da qualche parte sappiamo benissimo di non sapere, di essere portatori di un’inadeguatezza che ci mina nel profondo e cui si risponde con affermazioni dove l’arroganza, la superficialità sono spesso scambiate per forza di carattere, capacità d’impresa. E questo anche se passiamo quasi tutto il nostro tempo ad affermare il contrario. Sia a livello individuale, cercando di proporci per quello che, per lo più, o facciamo male o proprio non sappiamo fare; sia a livello collettivo, dove l’aggregazione è spesso mossa da convergenze d’interessi del tutto temporanee, dando vita a confronti fra gruppi intrinsecamente deboli, mossi da dinamiche di aggregazione e disaggregazione che rispondono piuttosto a bisogni del momento e non da progetti a lungo termine condivisi, di quelli che impegnano più generazioni. L’attuale guerra fra generazioni, cui tutti sono invitati a partecipare, ricorda così tanto i capponi di Renzo Tramaglino, all’inizio dei Promessi sposi, che si beccavano fra loro mentre erano in viaggio per diventare carne sulla tavola di un azzeccagarbugli. In questo scenario non meraviglia che la nostra azione consapevole si stia sempre più orientando verso il fare incalzante, in nome di una non meglio definita idea di concretezza, privo di progetto – per non parlare della dimensione truffaldina di tanto fare concreto, conseguenza di tanto vuoto che ci avvolge, di cui sono artefici piccoli o grandi delinquenti –, oppure verso un progettare incapace di confrontarsi con la realizzazione di se stesso. Un progettare che chiede alla dimensione monetaria quelle risorse che dovrebbero scaturire dall’analisi e dalla conoscenza dell’ambiente socio-economico e culturale su cui vorrebbe operare. Ma quando si parla oggi di analisi, si tende a riferirsi ad un’analisi che copre una fase dell’attività in cui domina il consumo delle risorse e non la loro accensione. Analisi e produzione e utilizzo sono ancora viste come fasi distinte. I costi sempre più insostenibili che rendono le analisi ormai un ‘lusso’ ne sono la naturale conseguenza. L’analisi, viceversa, quando è davvero tale, smuove ciò che sta valutando e già lo attiva in una produzione comune facendo emergere e risvegliando risorse rimaste fino ad allora silenti, inattive: e ancora più spesso – una delle cause più gravi della crisi attuale – sconosciute, nel senso di non riconosciute come tali. L’analisi, in una prospettiva d’interazione totale con le fasi di tutta la produzione e dell’uso del prodotto, si autosostiene. L’analisi, proprio nella difesa del suo specifico, è già il progetto, è già la sua produzione; è già il suo uso. Editoriale 15 Così come il progetto dovrebbe essere già la sua realizzazione, e la realizzazione il suo uso; e quest’ultimo dovrebbe essere ancora analisi, progettazione, produzione, dando vita ad una dinamica di sistema di tipo generativo, dove le singole fasi sono sì distinte dalle altre, sulla base della predominanza dei successivi obiettivi operativi, ma anche in continua trasformazione, sotto l’influenza delle altre, con il procedere comune verso l’obiettivo che si sono date. Il processo generativo, quindi, non segue la linearità delle fasi di produzione come tendiamo a formalizzarle. Sviluppa un proprio sistema di influenze generative che, pur rispecchiando la gerarchia tendenziale del processo di produzione, presenta un reticolo di azioni che agiscono su ciò che già è stato fatto o che anticipano quello che dovrebbe essere fatto in seguito. Nel caso specifico, quindi, dell’analisi e della ricerca, esse sono parte, a tutti gli effetti, del processo produttivo. Mentre quest’ultimo appare inconcepibile senza che svolga, a sua volta, nel suo specifico, una funzione mirata a generare ulteriori dati di indagine che incrementano il processo generativo di conoscenza dell’intero processo. Ne consegue che il vero prodotto è un’unità inscindibile di bene realizzato, di servizio offerto e della conoscenza che la sua realizzazione e uso ha sviluppato. Pochi contenuti, molta interazione Ma siamo figli di un errore immenso: quello di avere interrotto la circolazione vitale – leggi la comunicazione, appunto – che univa la capacità di pensare l’impossibile alla capacità di praticare il possibile nella prospettiva di superarlo; abbiamo deciso di contrapporre l’a- spirazione a creare il nuovo con la necessità di agire sull’esistente, riducendo il significato di risorse a ciò che crediamo di avere, che possiamo consumare, a giacimenti, più o meno disponibili, invece che considerarle un prodotto dell’attività, della creatività umana. In tutto questo è chiaro che il ruolo della persona è il punto attorno a cui tutto ruota. E non per un rilancio accorato dell’uomo, ma perché è la conoscenza il vero motore e al tempo stesso il vero prodotto di ogni processo produttivo, in tutte le sue fasi. La conoscenza che si mette alla prova diventando progetto, sviluppo, realizzazione, uso di quanto si è prodotto. La conoscenza è una risorsa molto particolare, perché come si applica, se è veramente tale, produce nuova conoscenza, perché l’uomo, nell’arco comunque breve della sua vita, vive solo quando riesce a contaminare l’ambiente in cui opera con la propria vitalità: altrimenti è risucchiato nelle dinamiche di quel progressivo raffreddamento che sembra caratterizzare il divenire del nostro universo (l’entropia, o morte termica). E questa risorsa si genera operando sull’architettura profonda della realtà fisica e simbolica, creando rapporti fra elementi della realtà divisi da sempre ma anche, viceversa, riuscendo a scindere aspetti della realtà ritenuti da sempre uniti indissolubilmente per collocarli in trame di rapporti inedite. Dall’economia alla formazione, dalla politica alla socialità. In ogni manifestazione della vita. Oggi i processi produttivi (ricordo il significato ampio con cui propongo questo termine), fisici e simbolici, sono così vincolati ad una catena di montaggio predeterminata, fortemente parcellizzata, frammentata in tanti soggetti a visione e missione settoriale e non di sistema, che ha poco senso parlare di una comunicazione orientata alla condivisione della conoscenza. Anche all’interno dei vari settori. IN•FORMAZIONE 12-2014 16 Basta pensare alla comunicazione organizzativa che struttura gli enti come le persone. Una situazione di dissipazione delle risorse della conoscenza cui corrisponde, sul fronte dell’uso di ciò che si è prodotto, e cioè degli utenti, dei cittadini, degli ‘altri’, una modalità d’utilizzo limitata a seguire sceneggiature d’impiego dei prodotti stessi, qualunque sia la loro natura, massificati, privi di originalità. Una cultura dell’uso terribilmente standardizzata. È sotto gli occhi di tutti il fatto che in questi ultimi decenni, mentre si è assistito ad un’esplosione di offerte di prodotti sempre più diversificati, dall’altro canto si è favorita una progressiva massificazione dei comportamenti d’uso e alla riduzione d’intelligenza critica in fase di utilizzo e, conseguente, in fase d’ideazione di prodotti nuovi, più avanzati. Il che ha permesso di trasformare la grande, crescente varietà dell’offerta ad un’operazione di packaging, di confezione esterna estremamente sofisticata, invitando gli stessi consumatori a farsi il loro prodotto; ma negli aspetti più superficiali, esteriori. Fatevi la cover che volete, al resto ci pensiamo noi. Intanto che il numero dei confezionamenti è esponenzialmente cresciuto, si andava rafforzando il regime di oligopolio. Questa strategia, mirata a uniformare i prodotti mentre diversificava l’offerta in termini di marketing, fingeva la varietà della produzione sul piano del linguaggio: un prodotto presentato in tante forme. Uno spostamento d’attenzione e di cura dal prodotto al linguaggio d’interazione, all’interfaccia. Una strategia diversiva, per allontanare l’intelligenza dell’utenza dalla valutazione del prodotto, risultata vincente. Ma, soprattutto, si è avviato un immenso processo di formazione, di educazione ad un modello di comunicazione che si perde nel ricco gioco delle possibilità combinatorie della forma ma che non entra nel merito dei contenuti del sistema profondo, invisibile dei prodotti. Che non genera conoscenza. La comunicazione come strumento per frammentare e indurre a divagare, e non per conoscere, e quindi giudicare, il valore effettivo d’uso di un prodotto. Una scelta che sta funzionando molto bene, poiché gioca sull’illusione dell’infinita personalizzazione del prodotto, dell’adattamento ai bisogni dei singoli. Un narcisismo, un’illusione, che oggi trova molto ascolto: dai centri commerciali in tutte le loro forme della Grande Distribuzione Organizzata all’offerta formativa della scuola e dell’università. L’importante è tenere i cittadini lontani dalle grammatiche culturali, sociali, economiche, politiche profonde della realtà, le quali restano così al sicuro in mano dei pochi. Cambia l’interazione ma non il senso sociale della macchina. Un sistema unico con grande varietà di combinazioni Insomma da una parte un’illusoria proposta di prodotti personalizzati, sostenuta da un’offerta del mercato progressivamente livellata, in nome di una globalizzazione identificata con l’inevitabile scomparsa delle diversità; dall’altra parte, per quanto riguarda l’utilizzo dei prodotti, una crescente incapacità di valutazione della loro natura sostanziale, del loro valore intrinseco, profondo, per conoscere il quale si richiede capacità di divergenza rispetto alle assordanti “avvertenze per l’uso” (dalla carta al passaparola mediatico, ai vari social), una solida cultura della sperimentazione, una disposizione critica, ad iniziare dall’analisi della natura reale dei nostri bisogni. La costante – ormai un tormentone – è la dichiarazione da parte dei produttori (da quelli Editoriale 17 del ragù preconfezionato a quelli dei libri di testo – digitali e non –: l’accostamento pare, forse, troppo superficiale?) di essere mossi dal desiderio di evitare all’utenza qualsiasi sforzo, di volersi caricare di ogni fastidio per favorire al massimo il piacere, il gioco, all’insegna di una leggerezza che elimina il superfluo, l’inutilità, rendendo tutto più amichevole. L’offerta che ci libera da fatiche superflue è, naturalmente, benvenuta: dalla burocrazia all’uso di tecnologie di ultima generazione. Ma accanto a fatiche che sfiancano ogni libertà e piacere, che ci fanno perdere la fiducia nella relazione con gli altri, da cui vorremmo fuggire come da una terribile trappola, ci sono impegni anche più pesanti che, seppure segnati da scoramenti e angosce non meno devastanti delle precedenti, continuiamo a sostenere, vogliamo affrontare. Perché mossi dalla fiducia, dalla convinzione che già mentre li stiamo sostenendo siamo liberi, perché continuiamo a sceglierli in ogni momento, anche quando diciamo “questa basta...”. Rappresentano la fatica di essere liberi: la materia prima che fin da quando siamo piccoli abbiamo il diritto di apprendere. Sono fatiche nostre, fisiche e intellettuali sì, ma nostre; sono cose che non vanno bene così come sono, vanno migliorate e anche trasformate radicalmente, ma sono nostre, e solo nostre, perché nostra è la convinzione che se le affrontiamo potremo migliorarle per noi e per gli altri. Sono le battaglie che decidiamo di fare con noi stessi, con gli altri, con il sistema che ci rappresenta. Sono le sofferenze – perché tali sono – che hanno una Storia, un futuro: quello di dare la dignità che trova colui che liberamente decide di non fuggire dal sistema che le esprime ma di immergervisi per conoscerne la natura, le dinamiche, i soggetti, la cultura e così poterlo cambiare. Non si è mai soli in queste fatiche, qualunque sia la loro natura: dalla ricerca di un senso da dare ad un acquisto – piccolo o grande che sia – fino ad affrontare le ragioni di un lungo curricolo scolastico. Fino a pretendere di capire, senza provare vergogna nel fare domande e nel manifestare le nostre difficoltà. Vogliamo essere noi a decidere cosa è inutile, dannoso e cosa non lo è. Solo avendo la libertà di poterlo fare possiamo appassionarci. Nella vita lavorativa così come nei nostri percorsi formativi, nell’esercitare in generale la nostra cittadinanza, nelle sue forme pubbliche e private, gran parte della nostra libertà consiste nel poter scegliere cosa merita fatica, sofferenza a volte, certo impegno anche duro; significa voler correre il rischio di sbagliare, con gli inevitabili danni che possono seguire, per comprendere. Ogni delega in questo senso, se non ben valutata, può compromettere la nostra dignità di persone e minare i fondamenti della democrazia: il soddisfacimento di un bisogno non indotto, ci insegna la Storia, arriva alla fine, dopo molta fatica. Anche quella di arrivare alla conclusione che tutto è sbagliato e che va rifatto radicalmente. Solo così sapremo come dovrà essere il nostro futuro: avendo attraversato per libera scelta il nostro presente con tutti i sensi ben aperti. Costi quello che costi. Una cultura dell’uso povera rispecchia una cultura altrettanto povera dell’ideazione, della progettazione, della produzione. La varietà che ci assedia con i suoi affollamenti dedalici, la foresta inestricabile di segnali che ci obbliga, se si vuole sopravvivere, a seguire percorsi ben precostituiti e imbarazzanti per l’assenza di qualsiasi distintività sostanziale, in evidente contraddizione con quanto questo sistema predica in termini di valore della diversità, tutta questa apparente abbondanza IN•FORMAZIONE 12-2014 18 non fa altro che nascondere la crescente banalizzazione dell’offerta e della domanda. La società delle reti, quindi, stando alla cultura che la dirige e che ne orienta l’architettura, appare piuttosto concepita per sostenere una rete di solitudini, dove lo sforzo di favorire il dilagante narcisismo della nostra società è funzionale a nascondere la miseria qualitativa e quantitativa del sistema stesso e, specialmente, a indebolire al massimo le potenziali condizioni di eccezionale progresso sociale che il Novecento, pur pagando prezzi disumani, era riuscito a creare. Strategicamente questo è potuto accadere valorizzando una comunicazione non generativa di conoscenza, ma gerarchica, trasmissiva ed emulativa tendente a indebolire le potenzialità partecipative dei soggetti coinvolti. Tutti. A tutti i livelli e in tutti gli ambiti: sociali, economici, politici. Per questo la scuola è scuola di comunicazione, poiché la comunicazione formativa che è adottata educa, prima di tutto, ad un modello comunicativo, contribuendo a tramandarlo e a rafforzarlo. Il fenomeno contro natura dell’energia della conoscenza In un tempo in cui si denuncia da più parti l’insostenibilità dell’attuale modalità di sviluppo ambientale, economico e sociale, appare emblematico che si continui a sottovalutare il semplice ma fondamentale fatto – appena ricordato – che la conoscenza, e la sua relativa economia, è un’energia che ha l’incredibile capacità di creare nuova energia, nel senso che con l’uso non si consuma ma si incrementa: un paradosso che ancora sta aspettando un’analisi adeguatamente approfondita. Il fenomeno, come tanti altri che periodicamente sono riscoperti, non è così nuovo, viene da molto lontano. Già Erodoto, V sec. A.C., sottolineava la forza di quei popoli – vedi gli Egizi – che si preoccupavano di quello che oggi si potrebbe definire una sorta di knowledge management, la gestione delle loro conoscenze, a cominciare dalla memoria. Attualmente, però, il progresso tecnico e tecnologico ha regalato all’uomo la capacità di trasformare la realtà nelle sue componenti più nano e più macro, disaggregando e riaggregando la materia fisica e quella simbolica come ritiene meglio, utilizzando processi di automazione della comunicazione e dell’informazione sempre più capillari e incisivi (fino all’invasività, con tutti i rischi che questo comporta), capaci di gestire quantità di informazioni che nessuna mente e psiche umana ha mai potuto controllare prima; né potrebbe fare oggi altrimenti. Questo scenario ha dato luogo a processi generativi così potenti che è evidente come il vero problema oggi non sia quello delle risorse, ma quale progetto sociale, culturale, politico, economico si intende realizzare. La deriva che stiamo vivendo, più esplicitamente, non è dovuta a mancanza di risorse, ma all’assenza di un progetto – e quindi di una comunicazione adeguata, e cioè generativa di conoscenza – che organizzi queste risorse in una visione e in una missione condivisa e partecipata, e non sempre più elitaria, che a mano a mano che si va definendo avrà modo di trovare le risorse necessarie creandone delle nuove. Sia a livello di piccoli che di grandi, grandissimi gruppi. Sia a livello di esperienza interiore dei vari soggetti. La buona comunicazione è sempre e comunque sostenibile, perché crea risorse: non le consuma. Editoriale 19 Migliaia di anni di storia hanno creato le condizioni perché tutto ciò accadesse. Eppure sembra che ci si sia dimenticati di questo, e ci accaniamo, in guerre per bande, gli uni contro gli altri armati, cercando di consumare gelosamente, in maniera esclusiva, il nostro capitale di saperi, di competenze, di abilità con la stessa logica di rapina con cui consumiamo le risorse naturali. Nell’attuale processo di mondializzazione, cioè, accanto alla cultura di massa che lo esprime come fenomeno globalmente condiviso, persiste – e la crisi la sta rafforzando ulteriormente – un’organizzazione della conoscenza molto tribale. La conoscenza, anche quando è consolidata, è sempre il risultato e il motore di un processo generativo di ulteriore conoscenza; se è conoscenza e non una protesi umana delle catene di montaggio, di vecchia o nuova generazione. A tutte le età. Il buon educatore mostra ai propri allievi di riappropriarsi sempre di ciò che sta insegnando loro, prima di tutto legittimando le domande che gli sono poste, e mostrandosi soddisfatto se nascono questioni cui non sa dare immediata risposta. Lo studio, come gli esami, non finisce mai, se è vero studio; poiché il sapere e la sua applicazione sono tutt’uno. La conoscenza, come si sa, in una classe non la fa il solo docente ma tutta la comunità, nella fondamentale distinzione dei rispettivi ruoli. La ricordata dimensione schizofrenica della nostra cultura che contrappone le cose alle idee, il sapere al fare, il teorico al pratico, l’applicazione al modello, il nostro mondo interiore a quello esteriore, la mano alla mente che la muove, riflette una visione della conoscenza legata ad una logica di casta sociale, economica, culturale che sta bloccando, irretendo l’immenso quanto inedito potenziale che può esprimere una conoscenza finalmente non solo condivisa ma generata collettivamente, secon- do una visione cooperativa e collaborativa. Ad iniziare dalla scuola. A tutti i livelli: considerando la scuola dell’infanzia la palestra fondativa per apprendere questa visione e missione della vita (prima che metodologia), proprio perché viene prima dell’inevitabile specializzazione disciplinare che alle medie è definitivamente consolidata. Ma perché questo possa accadere, è necessario lavorare sulla cultura delle relazioni, dei collegamenti, che intrecciano inscindibilmente le idee con le cose, il pensiero col fare, sostenendo una modalità d’insegnamento e di apprendimento che si basa sulla conoscenza di contenuti che di volta in volta devono essere ricollocati e ridefiniti rispetto ai bisogni per i quali sono stati evocati: il bisogno di conoscenza, cioè, comporta sempre una ricerca, e una riscrittura dei contenuti in riferimento alle esigenze che di volta in volta emergono, generandone così di nuovi. Il succedersi delle generazioni attraverso i millenni corrisponde ad un succedersi ininterrotto di ‘ri-generazioni’ di conoscenza consolidata e di ‘generazioni’ di nuove conoscenze che finiscono con il fondersi in quella che noi chiamiamo conoscenza. L’identità valoriale come strumento operativo Ogni sforzo per accumulare la conoscenza, in una logica di immagazzinamento e di salvaguardia da ciò che ancora non si conosce, sortisce l’effetto di indebolirla, sviluppando modelli culturali, sociali, economici e politici che finiscono presto con inibire ogni comunicazione che sostenga processi di comprensione e di ricerca. IN•FORMAZIONE 12-2014 20 La conoscenza, non essendo messa in condizione di rigenerarsi, perdendo cioè il contatto diretto con il divenire della realtà che la mette alla prova rivitalizzandola, tende a regredire, a spengersi con le conseguenze che storie antiche e recenti ci hanno dimostrato anche in maniera drammatica. È bastato, basterà poco per azzerare saperi la cui solidità parrebbe ormai acquisita, insopprimibile. È successo con le atrocità del Nazismo e del Fascismo e dei paesi cosiddetti del Socialismo reale, delle dittature dell’America Latina, dell’Asia, dell’Africa. Questa crisi, seppure in maniera molto sommessa, ribadendo incessantemente il carattere d’eccezionalità dell’attuale emergenza economica che ‘oggettivamente’ sta sollecitando adeguate misure d’emergenza, ripropone dinamiche che pongono le scelte valoriali (prima fra tutte il primato della conoscenza) in una condizione di stand by, in attesa di momenti migliori. Eppure è proprio quando la situazione sta precipitando che dovremmo ripartire dalla difesa dei valori fondativi della comunità – se ancora li condividiamo –, perché è in quella direzione che dovremmo andare a cercare le risorse che si dice manchino: ad iniziare dalla scuola. Forse non sono le risorse che mancano, ma la condivisione di un progetto socio-culturale. I valori non sono un blasone che abbellisce un fare libero di andare nelle direzioni più diverse, di usare gli strumenti che al momento sembrano quelli di maggiore efficacia pur di mantenere una posizione di forza ottenuta. I valori segnano la strada concreta, operativa, da percorrere, indicano – purché ci si creda – gli strumenti più idonei da utilizzare sia nei momenti di forza sia – anzi, ancor di più – nei momenti di difficoltà. Sono i valori che armano le idee, le cose e le persone per rispondere ad una grave crisi. È l’identità che ci guida nel pensare e nel fare, ad iniziare dal rapporto che si sta- bilisce fra queste due dimensioni del nostro essere. E se non riesce a farlo bene, significa che l’abbiamo trattata male quando eravamo forti, assecondando atteggiamenti che hanno finito con l’indebolirla. E non stupisce che, contemporaneamente alla crisi economica si sia rafforzata una pratica della comunicazione che vuole indebolire la conoscenza: da qui sono nati i soliti sciacalli, che ingrassano nei momenti di crisi. La conoscenza è come la memoria: è sempre al futuro, anche se esso è talmente vicino da sembrare immediato, presente. E come la memoria vive di relazioni, di collegamenti che la attivano e la rianimano trasformandola. Ecco perché la scoperta e messa a sistema comune di saperi di soggetti diversi, che prima ignoravano che collaborando, cooperando sul piano delle loro conoscenze potevano rafforzarsi l’un l’altro ben oltre la consueta logica cumulativa, additiva, fa sì che la comunicazione metta in moto potenti processi virali di conoscenza che portano i soggetti coinvolti a compiere rilevanti salti di qualità. Che a loro volta creano le condizioni, l’ambiente per riavviare nuovi processi conoscitivi per nuovi soggetti. La conoscenza non genera solo conoscenza, ma incide anche sulle identità dei soggetti che mette in relazione migliorandoli. Perché questo processo di partecipazione generativa di saperi si possa attivare è indispensabile che esista una forte condivisione della visione e della missione fra i soggetti coinvolti. Altrimenti ne consegue una perdita progressiva di creatività, di passione conoscitiva, e cioè di umanità. Come attestano gli infiniti casi di disaffezione, di noia, di disinteresse: dalle ore, che diventano interminabili, passate a scuola fino alle ore di lavoro dove Intenet – quando è possibile – è sempre più un modo per uscire da riunioni inconcludenti, da routine prive di sen- Editoriale 21 so, per nasconderci l’evidenza della mancanza di un senso. Un’ulteriore conseguenza dell’errata concezione della conoscenza intesa come repository, come capitale ‘bancario’ di saperi e di pratiche, messo al sicuro in qualche paradiso fiscale e posseduto da una ristretta élite e dalla relativa cerchia di cortigiani, è l’indebolimento del legame vitale fra ricerca e vita comune, dove quest’ultima nel migliore dei casi è ridotta ad area da monitorare, da controllare. L’esito è che da decenni i saperi popolari, diffusi, stanno perdendo un ruolo sociale attivo, creativo, critico: la forza di porsi come cultura ‘altra’ rispetto alla cultura ‘alta’. Un processo di omologazione e d’inglobamento topdown i cui danni sono sotto gli occhi di tutti. Basti vedere quanto sta accadendo nel settore agricolo, là dove la necessaria pianificazione e regolamentazione del territorio non tiene nel dovuto conto secoli di culture contadine con le conseguenze che sappiamo (ad iniziare dalla crisi idrogeologica per finire alla perdita di personalità e di carattere dei paesaggi). Oppure cosa sta avvenendo nella scuola, dove gli studenti se rifiutano di trasformarsi in ripetitori di quanto ricevono dai docenti – reali o virtuali che siano – si perdono nei rivoli della dispersione scolastica. Educati da subito alla tolleranza alla noia che li aspetta là fuori; gestita dai ‘bravi’ con il desiderio di primeggiare in una gara di aggressivo conformismo, dagli studenti in difficoltà con la sfida quotidiana di dimostrare che studiare non serve perché nella vita contano altre cose: il denaro, le conoscenze e altre forme di pre-potenza. Il che vale anche per gli insegnanti: se hanno deciso di aver già studiato e che non c’è più niente da sapere ma solo da ripetere, testimoniando con il proprio comportamento cosa si aspettano dai loro studenti. La comunicazione non è mai un fermo immagine, ma una storia in continuo divenire prodotta da un reticolo di connessioni e sconnessioni che danno vita a realtà in costante trasformazione. Un’energia immensa quanto inarrestabile che può travolgere o può sostenere. Sta a noi decidere se farne uno strumento di ricerca, di conoscenza, una risorsa per orientare e rinforzare il nostro percorso individuale e collettivo, oppure lasciarsi trascinare da questa inenarrabile forza che l’uomo crea con la sua semplice esistenza in un crescendo che non ha precedenti nella storia dell’umanità. Già perché l’uomo, con i suoi processi automatici che, sempre più forti, trattano e creano contenuti, che rafforzano, a livello sia fisico che simbolico, la nostra capacità di comunicare e di s-comunicare tutto e tutti, è ormai così potentemente generativo nei confronti delle persone e delle cose che pensare di potere star fuori da questo flusso creativo – irrefrenabile e troppo spesso fuori controllo, da qui la deriva comunicativa che ci trascina – non è solo inopportuno ma impraticabile. In questo senso la frase – che la scuola di Palo Alto ha contribuito a far sì che entrasse nel senso comune – “è impossibile non comunicare”, indica una verità indiscutibile. Il punto è cosa si comunica, se si è consapevoli di stare comunicando, e con chi o con cosa (i dispositivi e i sistemi automatici influenzano e dirigono i nostri comportamenti comunicativi in maniera ormai fondamentale). Se è vero che non ci sono contenuti senza relazioni, è altrettanto vero che la trama delle relazioni che collegano i vari contenuti fra loro si pone sempre più come un contenuto a tutti gli effetti. Essere consapevoli di questa trama è essenziale per governare la propria comunicazione. Il che significa la propria identità comunicativa. IN•FORMAZIONE 12-2014 22 Questo processo, espansivo, incrementale, d’irrefrenabile costruzione di realtà generata dalla comunicazione, per l’accelerazione epocale che l’uomo sta dando ai processi d’automazione, ci sta portando in una dimensione della condizione umana mai sperimentata prima. Indietro non si torna. O si elabora questa trasformazione antropologica, o non c’è futuro per la nostra umanità. Insomma, o la comunicazione è usata come strumento di conoscenza o questa immensa energia andrà fuori controllo. I fondamenti e la buona comunicazione Una buona comunicazione favorisce, quindi, l’espressività e la creatività, responsabilizzando i vari soggetti che coinvolge in un processo che abbia intenti conoscitivi. Gli inevitabili errori, se ben monitorati e condivisi, diventano così degli strumenti di scoperta eccezionali: al contrario, appunto, di quanto avviene con le macchine che, se sbagliano, causano solo conseguenze tanto più gravi quanto più le abbiamo delegate a gestirci. Ma perché l’individuo possa uscire da automatismi – fisici o mentali – subiti passivamente, senza spirito critico, e se ne faccia architetto e stratega, è necessario che abbia introiettato un comportamento organizzativo dove la divergenza dei singoli si configura come una risorsa per l’ente di appartenenza, e non come pericolosa fonte di disgregazione. E quindi, ancor prima, è necessario che l’architettura della comunicazione abbia fatto scelte in tale direzione, affidandosi, nell’impresa comune, a valori che esaltano la responsabilità e l’inventiva dei singoli, purché sviluppate in direzione degli obiettivi definiti nella missione. Il che significa costruire un’organizzazione della comunicazione – qualunque sia l’ambito socio-economico in cui si esprime – in grado di far divergere e poi convergere i soggetti coinvolti nella vita di un ente, secondo un movimento pulsante che va dal centro alla periferia (politica d’indirizzo) e poi dalla periferia al centro (partecipazione), rafforzando la centralità della mission, dell’identità e della visione di quella comunità, e favorendo la generazione di conoscenza. Affermare che la comunicazione è tanto più efficace quanto più rispecchia, nelle sue strategie e nelle sue pratiche, la visione e la missione di un’organizzazione, la sua personalità sociale, contribuendo così a rafforzarla è il punto da cui bisogna ripartire se si vuole rimettere in moto la capacità di progetto e di sviluppo della nostra società, ricostruendo la trama vitale che deve legare i progetti a breve con quelli a lungo, lunghissimo termine. In una realtà sociale, economica, politica che necessita anche di forti spinte centrifughe, robuste specializzazioni e settorializzazioni, coraggiose sperimentazioni di nicchia e di sistema, la condivisione dei fondamenti – valori e obiettivi che sono alla base di un progetto comune – rappresenta l’unica possibilità per indirizzare e coordinare un’attività variegata e specializzata, bisognosa di forti radicamenti locali eppure partecipe attiva di dinamiche che sono e devono essere di portata mondiale. Per questo la comunicazione, che è sostanziale per l’identità di enti e persone, non può affidarsi a tecniche astrattamente efficienti, funzionanti, espressione di know how comunicativi, più o meno “mercenari” avrebbe detto Machiavelli, parlando di eserciti assoldati da Principi i quali li preferivano ad “arme proprie”. I fondamenti scaturiscono dalla visione e dalla missione di un ente, le quali soltanto possono indirizzare le sue varie attività e comandare sulle consulenze specialistiche degli esper- Editoriale 23 ti di comunicazione ai quali va richiesta una competenza tecnica che tenga conto della coerenza fra fondamenti identitari e strumenti. E la stessa cosa vale per l’organizzazione o per la formazione. Il che rimanda ai valori – la “virtù” sempre di machiavelliana memoria – che, ispirando ogni singola azione della comunicazione, possono ostacolare l’avversa “fortuna”. Non esiste, quindi, una comunicazione ‘tecnicamente‘ buona, valida in assoluto; né tanto meno tecnologie della comunicazione innovative da adottare a prescindere dall’identità di chi vuole comunicare. Negli enti così come nelle persone. In questa prospettiva, l’architettura dei processi di relazione (simbolici e fisici) che danno vita alla comunicazione non può che scaturire dall’interno delle organizzazioni (e delle persone). Essa, infatti, nasce nel cuore profondo dell’ente; ed è la matrice originaria, seppure incessantemente rivisitata, di tutto il processo produttivo (sempre nell’uso largo che stiamo facendo del termine). È l’energia che, investendo idee e cose in uno scambio continuo, attraversa e vitalizza tutti e tutto. Solo facendo così può rigenerare e rafforzare se stessa. Non c’è soluzione di continuità, quindi, fra comunicazione interna e comunicazione esterna. Ogni fase della comunicazione di un ente, ogni testo comunicativo che esso produce, è sempre bivalente: genera sia processi comunicativi interni che processi comunicativi esterni. È solo sulla base di un suo maggiore o minore effetto all’interno o all’esterno dell’ente che si tende a definirlo afferente alla comunicazione interna o esterna. Una dinamica che vale ugualmente per gli individui. Una buona organizzazione valorizza questa pervasività, questa ubiquità della comunicazione, questa sua polivalenza al fine di po- tenziare il maggior numero possibile di processi generativi di conoscenza interni ed esterni, favorendo al massimo una trama di connessioni fra i primi e i secondi. Una trama che poi altro non sarebbe che la sostanza dell’habitat, e quindi dell’ecosistema comunicativo di riferimento in cui organizzazioni e persone operano, un connubio fra ambiente ed esperienze che, in un ininterrotto intreccio di influenze reciproche, danno la cifra della stessa comunicazione. Quanto, cioè, si comunichi per comprendere (proponendo un progetto e rischiandone la verifica nel confronto con il mondo esterno) e quanto per evitare questa sperimentazione dei propri saperi, o supposti tali. C’è un tertium?... Insomma: la comunicazione di un soggetto (sia esso un ente, un suo settore, una sola persona oppure un gruppo di individui etc.) è produzione di realtà come risulta da azioni provenienti da TRE ambiti distinti quanto fortemente correlati e ciascuno imprescindibile dagli altri due: UNO. Quello dove l’azione comunicativa è caratterizzata da una netta predominanza di azioni interne (IN). Unicamente “predominanza”, perché non ha senso parlare – come già rilevato – di comunicazione soltanto interna, o interiore; DUE. Quello dove l’azione comunicativa si svolge essenzialmente verso l’esterno dell’organizzazione (OUT). Il fatto che nelle azioni di un ente o di un individuo ci sia, a seconda del momento, una prevalenza, e non una presenza esclusiva, di relazioni o verso l’interno del processo produttivo o verso il mondo esterno, ad iniziare da coloro per i quali questi beni e servizi sono stati re- IN•FORMAZIONE 12-2014 24 alizzati per finire con stakeholder di vario tipo, è cosa che sottolinea come sia impossibile dividere in segmenti autonomi un flusso costante di pensieri e di azioni che portano dal pensiero (l’ideazione) alla trasformazione della realtà (uso) in fasi distinte e del tutto autonome rispetto alle altre. Ogni processo produttivo – lo si è rilevato precedentemente, al paragrafo 4, a proposito dell’analisi, ma può essere utile ricordarlo – è un incessante andare avanti e indietro, procedere per riprendere quanto già realizzato e correggerlo, con movimenti che non hanno niente di lineare se non il fatto di collocarsi lungo l’asse del tempo. I tentativi di formalizzare questo processo di sviluppo di un intero sistema in momenti distinti (ideazione, progettazione, realizzazione, uso etc.) non deve confondere circa la natura di quanto accade nella realtà che si presenta come una rete di relazioni che legano l’ideazione all’uso del prodotto secondo una trama di collegamenti che si attivano e disattivano (fisicamente o simbolicamente) a seconda del momento in un divenire storico. Questa cosa, ribadita da esperti e studiosi, resta però sullo sfondo, ancora ridotta a scenario teorico, faticando, nella stragrande maggioranza dei casi, a trasformarsi in modus vivendi e in modus operandi quotidiani capaci di agire secondo un modello di comunicazione concretamente diverso dal passato. E questo accade perché è ancora fortissima la necessità di pensare e di agire in termini di fasi in rigida successione. L’azione quotidiana, viceversa, ci suggerisce uno scenario ben diverso: il succedersi delle azioni, infatti, pur mostrando un indubbio verso dominante, per cui, per esempio, l’ideazione precede la progettazione, e questa la realizzazione che a sua volta precede l’uso, lascia tracciati tutt’altro che lineari, rivelando un continuo andare avanti e indietro rispetto ad una successione formalmente definita: la progettazione andando avanti non può non retroagire sull’ideazione, mentre la realizzazione continuamente retroagisce sulla progettazione o sull’ideazione stessa. Per non affrontare la questione centrale del rapporto che c’è o ci dovrebbe essere fra l’uso effettivo di un prodotto e la sua ideazione. A questo proposito, negli ultimi anni, con l’affermarsi delle tecnologie della comunicazione a forte ispirazione interattiva, si è assistito ad una crescente quanto importante attenzione verso gli aspetti organizzativi della comunicazione in una prospettiva di sostanziale superamento delle rigide distinzioni fra comunicazione interna e comunicazione esterna, proprio nel tentativo di ricollocare la conoscenza che emergeva dal valore dell’uso effettivo del prodotto all’interno della catena di ideazione-produzione. La comunicazione organizzativa – pur nella varietà delle sue interpretazioni – è stata proposta come un ambito assai concreto dove, nella indiscutibile distinzione dei ruoli e dei bisogni, interagiscono fra loro i soggetti che sono portatori di interessi e di obiettivi comuni. ... tertium datur L’idea che la caratterizza la comunicazione organizzativa è quella di un’apertura degli enti tutti (dalle aziende alle istituzioni, alle organizzazioni non profit) verso dinamiche comunicative di forte coinvolgimento e partecipazione. Questa ridefinizione del rapporto fra organizzazione e comunicazione è fondamentale tanto che il terzo ambito comunicativo, qui di seguito proposto, vuole indicare la necessità di un radicale ripensamento, in ogni organiz- Editoriale 25 zazione, delle grammatiche che regolano queste connessioni fra le azioni rivolte all’interno e quelle orientate principalmente verso l’esterno; siano esse fisiche o simboliche. La necessità, quindi, di recuperare una strategia identitaria, facendo piazza pulita di una specie di metafisica delle architetture dell’informazione e della comunicazione che tende a presentare un’architettura, se valida in un determinato contesto culturale, sociale, economico, politico, valida per tutti i soggetti. Se, come si sta ripetendo, il tessuto connettivo della comunicazione deve essere fortemente identitario, una buona comunicazione sarà possibile solo facendo forza sulla originaria specificità staminale del soggetto che vuole comunicare, in modo da favorire il generarsi di un tessuto comunicativo adeguato e quindi efficace, così da tessere una trama di relazioni fra tutte le componenti interessate, interne ed esterne. Ai due ambiti, perciò, individuati nel paragrafo precedente se ne aggiunge un altro: TRE. L’ambito comunicativo in cui si analizza, si progetta, si sviluppa e si realizza l’intreccio delle relazioni che devono orientare e sostenere le reciprocità fra tutte le azioni di un soggetto comunicante, ad iniziare dai collegamenti che uniscono quelle prevalentemente a cifra interna e quelle a prevalenza esterna. Questo terzo ambito ha i suoi testi, che sono espressione di grammatiche precise quanto anche diversissime fra loro. Imparare a riconoscerle, leggerle, progettarle è fondamentale. Davanti a questo territorio costituito da terre di mezzo immense, che tutto avvolgono, che collegano-scollegano tutto si può legittimamente affermare che: tertium datur, ed è l’ambiente costituito dall’infinita rete di collegamenti diretti e indiretti che mettono in comunicazione fra loro le attività di quel soggetto. Un tessuto in continua trasformazione. È una dimensione poco riconoscibile a livello macrostrutturale, eppure ad essa fanno riferimento tutte le relazioni sensibili di tutte le componenti di una realtà comunicante. Queste ultime danno vita alla sua esistenza, ma la caratteristica di questo tertium influisce a sua volta in maniera determinante sulle relazioni delle parti del sistema che lo generano. Il tessuto delle relazioni è sempre stato un soggetto sociale fortissimo che gli uomini tessevano e che tesseva la stoffa delle comunità e degli individui. L’avvento e il successivo proliferare, fino all’attuale assuefazione da parte nostra che ormai li consideriamo parte della nostra vita, dei dispositivi meccanici a funzionamento automatico ha soltanto reso più percepibile l’infinito mondo delle relazioni, progettate o accidentali che siano, e delle loro complesse meccaniche: programmate e non, dagli effetti prevedibili e non, ma indispensabili in aspetti della nostra vita importantissimi. Una venuta in primo piano della testualità delle relazioni e della loro grammatica che, mentre si imponeva come soggetto sociale a tutti gli effetti, ha sollevato il problema della loro autonomia rispetto alla nostra soggettività: da qui la storia degli automi, dagli studi e gli artefatti di Erone di Alessandria fino alla robotica di oggi, ai sistemi informatici, all’intelligenza artificiale, alla discussa cibernetica che sta cercando tutti i punti di contatto possibili fra dimensione artificiale, simbolica, e quella fisica; fra esseri viventi e macchine. Fino al fenomeno del transumanesimo e alle sue molte ombre. Un settore della ricerca questo sull’avvicinamento in corso fra elaborazione simbolica e manipolazione fisica che non a caso vede il convergere di discipline tradizionalmente tenute distinte come la fisica, l’economia, l’ingegne- IN•FORMAZIONE 12-2014 26 ria, l’antropologia, la biologia, la sociologia, la biologia, la psicologia, la matematica, la filosofia, la glottologia. Un fenomeno di rilevanza immensa e d’indiscutibile forza innovativa, sotto ogni aspetto, che però, per esprimere tutte le sue potenzialità dovrebbe piuttosto concentrarsi su come liberare le immense risorse di cui è portatore l’essere umano così come è, lavorando sull’ambiente in cui opera, prima di immaginare strumentazioni meravigliose che vogliono trasformarlo. L’energia umana, prima che potenziata, va riconosciuta e messa nella condizione di esprimersi, va liberata, per avviare finalmente un salto in un futuro che nemmeno possiamo immaginare. Potente meraviglia dei processi, ma debole analisi dei risultati Nello specifico della comunicazione di enti o persone, la trama delle relazioni, quindi, più o meno tecnologicamente mediata, non si pone come una zona intermedia, prossimale secondo una successione spazio-temporale che vedrebbe, per esempio, per un’impresa, a livello macro strutturale, la comunicazione interna trasformarsi progressivamente in quella esterna; e, ovviamente, viceversa. Una specie di zona aurorale o vespertina che segna la fine dell’una e l’inizio dell’altra. Non è neppure una zona ristretta di confine, che indica la fine di un territorio e l’inizio di un altro. La sua natura non è ascrivibile a logiche sequenziali o seriali di vecchia o nuova generazione. Si tratta, viceversa, di una dimensione dei processi comunicativi che cominciamo solo adesso a indagare, anche se la usiamo da sempre, costituita da un’infinità di relazioni che collegano ogni componente interna ad altre com- ponenti interne e quella esterna ad altre componenti esterne, ma soprattutto che dirige interazioni fra unità o sottosistemi interni e unità o sottosistemi esterni. Cambiando il sistema di relazioni cambiano anche le componenti interne od esterne che vi sono più direttamente collegate. La natura di questa terza dimensione della comunicazione è non meno fondamentale delle altre due, dal momento che indica la scelta strategica adottata per tutto il sistema comunicativo. È un sistema che opera su infinite variabili, endogene ed esogene, emergenti da incommensurabili sottosistemi di relazioni, attivando e disattivando un’incalcolabile quantità di collegamenti fra elementi simbolici ed elementi fisici; una dimensione della realtà che ormai gli uomini riescono a progettare e ad amministrare solo facendo ricorso a dispositivi che gestiscono processi automatici capaci di incidere sulle persone e sulle cose. Questa dimensione operativa sta attraversando, con il crescente affermarsi dei calcolatori nella vita quotidiana delle persone, una fase molto delicata e, per molti aspetti, inquietante. Perché, quanto più riusciamo a creare meccanismi che processano il simbolico e il fisico in maniera automatica, mettendoci nella condizione di progettare e di creare realtà sociali, economiche, politiche irrealizzabili solo qualche decennio fa, tanto più sembra indebolirsi la nostra capacità di progettazione, di controllo, di governo di questi processi automatizzati di connessione/ sconnessione: insomma di relazione. Stiamo diventando sempre più spettatori e meno attori, il che di per sé non sarebbe grave se non fosse che siamo al centro di un processo d’innovazione mai sperimentato prima dall’uomo, che richiederebbe accanto allo stupore un’assunzione di responsabilità nel governarne il processo. Editoriale 27 L’innovazione tecnologica, ma non solo quella, è per definizione sorprendente. Non a caso fa parte di una filiera che va dalla scoperta scientifica, all’invenzione fino alla diffusione. Nasce da bisogni e aspettative reali ma quando è veramente tale sconcerta, confonde anche chi ne è artefice. Simile alle opere d’arte finisce con lo sbigottire i suoi stessi creatori che sono i primi a rendersi conto che presenta aspetti anche fondamentali da loro non previsti, non progettati, da esplorare e da capire. Che una volta creata, l’opera è tanto più artistica quanto più appartiene al mondo e in questo disseminarsi si ricrea e si rigenera oltre ogni possibile programmazione. Entusiasma, quindi, ma anche intimorisce, fino ad impaurire. L’innovazione – quando è tale – non è mai un prodotto soltanto; è anche e sempre un processo che nasce e che, pur trovando nella storia che lo ha preceduto un terreno fertile, la sua stessa ragion d’essere, genera qualche cosa che prima non c’era. Rappresenta un salto di sistema, culturale e sociale, oltre che economico e politico. E l’accelerazione che stiamo vivendo con le possibilità tecnologiche degli ultimi decenni, legate al progressivo avvicinarsi del simbolico (tramite il numerico) al fisico tramite la miniaturizzazione dei componenti dei calcolatori, contribuisce a dare al momento che viviamo – l’Internet delle cose ne è solo un pallido inizio – un’aura di eccezionalità, portandoci a pensare che siamo giunti davanti ad una svolta antropologica. Mentre sono state esigenze e scelte di ordine etico, culturale, sociale e politico a spingere l’uomo – specie dopo la seconda Guerra Mondiale che aveva destrutturato l’intero pianeta – a creare strumenti che riuscissero a riprogettare la realtà, dai suoi aspetti nano a quelli macro. E via via che l’uomo riusciva a penetrare dentro i meccanismi più nascosti della realtà, a conoscerne le architetture e a modificarle, quegli stessi strumenti hanno assunto un valore in assoluto. È accaduto così che il loro funzionamento sia stato sempre più ammirato in termini di funzionamento astratto, prescindendo dalla valutazione funzionale, giudicando quindi i risultati che quei processi invisibili ci proponevano. La fascinazione dei processi automatici, il fatto che poche azioni e sempre più semplici compiute dall’uomo possano dare luogo a processi nascosti e misteriosi anche per chi è in grado di scriverne i relativi algoritmi, sorprendendo con risultati inaspettati quanto altrimenti impossibili, ha sempre più scardinato l’analisi critica degli effetti che quegli strumenti creano e la nostra capacità progettuale. Confondere, come si tende sempre più a fare, la meraviglia per ciò che i processi automatici riescono a realizzare, superando e sbalordendo i limiti dei nostri sensi, con la nostra facoltà d’immaginazione, con la capacità di aspirare all’impossibile, di andare oltre il prevedibile e il programmabile, è il problema che l’uomo ha oggi davanti a sé nel relazionarsi con i potentissimi meccanismi automatici di cui dispone. Perché, è cosa ottima esercitare la nostra immaginazione per cercare di capire come usare le macchine che creiamo, esplorarne le possibilità misteriose che ci offrono: l’innovazione è qualcosa che riusciamo a fare anche nostro malgrado, e quando si verifica è bellissimo gettarvisi dentro per capirne le potenzialità, il valore che essa rappresenta per andare in direzione di un mondo inedito, tutto da costruire. E le nuove tecnologie non c’è dubbio che rappresentino questa occasione. Ma è cosa ancora migliore ritrovare la passione, la voglia di immaginare un mondo che IN•FORMAZIONE 12-2014 28 ancora non c’è, recuperando il valore della visione e della missione del nostro pensare e agire, e forti di un progetto dettato dall’ambizione di far progredire la condizione spirituale e materiale di tutti gli uomini, inventare macchine che ci aiutino a realizzarlo. La nostra umanità è ancora così povera di umanità. La crisi presente la sta ulteriormente impoverendo, riproponendo ingiustizie e diseguaglianze che solo qualche decennio fa avremmo immaginato improbabili nei termini attuali. I rapporti internazionali – sia che a parlare sia la Banca Mondiale o il Fondo Monetario Internazionale o l’OCSE o Forbes o il prestigioso Credit Suisse o qualche Ong – ribadiscono lo stesso punto: la ricchezza è in mano a un numero sempre più piccolo di persone. Il numero di persone che vivono in paesi dove la diseguaglianza negli ultimi decenni è aumentata rappresenta ormai oltre il 70%, mentre è difficile dimenticare le parole di Amartya Sen secondo cui una persona che non sa leggere e scrivere né conosce le nozioni fondamentali di calcolo (al di là dell’uso che è stato fatto dai paesi dominanti dell’alfabetizzazione, proposta come abilità piuttosto che come prassi sociale) è una persona cui è successo qualche cosa di terribile. Come non chiedersi, davanti a questo scenario, come sia possibile che tanta forza meccanica capace di creare tanta realtà stia producendo effetti di questo genere? O se non li produce direttamente, certo si sta rivelando incapace di affrontarli e di risolverli. Ma questi meccanismi relazionali automatizzati sono stati realizzati per costruire una comunicazione fra uomini e realtà che vada nella direzione di sconfiggere le attuali ingiustizie sociali, culturali, economiche o per rafforzarle? Quando si esplora l’innovazione dobbiamo chiederci non cosa stiamo cercando ma a cosa deve servire quello che stiamo cercando; quale è il progetto sociale, l’idea stessa di società che indirizza la nostra sperimentazione e ricerca. Digitale naturale, digitale informatico Certamente l’uomo non ha un buon rapporto con quell’immensa forza. Ne è al tempo stesso affascinato e intimorito. Si sta perdendo o in amletiche alternative (usare le ICT è bene o male?) o in tifoserie appassionate (le nuove tecnologie sono l’Innovazione o sono il Male camuffato da package translucido?) o in alternative ultimative (il mondo social cancella la socialità vera o costruisce la nuova socialità, sconfiggendo i vecchi limiti e le radicate logiche di potere?). E si potrebbe continuare. In questo scenario si sta affermando l’idea che incidere, trasformare, riscrivere la realtà sia sempre meno un progetto culturale, sociale, politico, economico, bensì tecnologico. Sempre più una strategia di applicazione, di personalizzazione, di localizzazione degli strumenti che di per sé risultano validi in tutti i contesti, indipendentemente da vision e mission; dall’identità, dai valori che muovono chi li usa. L’autopoiesi dei sistemi a forte matrice automatica sta emergendo cioè sempre più come il progetto vero e proprio. Prima s’inventa e poi ci si chiede come poter usare quello che si è inventato, finendo così, troppe volte, con il creare nuovi bisogni per soddisfare i quali serve, guarda caso, quanto prodotto. La domanda cui oggi dobbiamo urgentemente dare una risposta non è se dobbiamo affidarci ad elaboratori elettronici – negarne l’opportunità sarebbe come cancellare la nostra storia –, ma quali sono le grammatiche valoriali, sociali, culturali che sostengono le loro Editoriale 29 architetture sempre più in prima linea nella gestione della nostra vita, individuale e collettiva. Le banche dati, cioè, hanno un’anima: quella di coloro che le hanno progettate e realizzate. I valori che hanno ispirato la scrittura della loro testualità – di cui non si parla mai, se non in termini di correttezza formale, funzionale –, a quale visione sociale ed economica facevano riferimento? E quindi verso quale modello sociale e culturale il loro uso ci sta spingendo? I dati sono espressione e generatori di testualità sempre molto orientate in termini valoriali. Le loro strutture e i relativi processi relazionali privilegiano sempre una visione delle relazioni umane rispetto ad altre: lo sappiamo? Ce ne ricordiamo quando chiediamo a questi sistemi di fare ciò che a noi mai riuscirebbe? Quale rapporto abbiamo con i tecnici della comunicazione e dell’informazione? Il problema, cioè, che abbiamo davanti – al di fuori di ogni marketing ideologico – è un problema di conoscenza, perché è ancora tutta da studiare la storia di questi meravigliosi ambienti dove le relazioni dei nostri saperi e delle nostre competenze attraversano trattamenti automatici a volte salvifici (si pensi alla chirurgia in realtà aumentata o alla semplice possibilità di viaggiare in un cielo affollato oltre l’inverosimile da aerei che si spostano a velocità altissime), a volte devastanti (si veda le forme di addiction che stanno scatenando: ormai non sono più rare le richieste di consulenza sulla comunicazione mirate e disintossicare le organizzazioni da un uso improprio delle nuove tecnologie nella comunicazione interna ed esterna). Così come è tutta da capire la Storia delle politiche delle ICT, delle loro economie, dei loro linguaggi e soprattutto dei loro contenuti. Leggere, organizzare la realtà perché un sistema automatico la possa processare automa- ticamente; i dati di conoscenza che quindi ne emergono e su cui noi basiamo le nostre azioni individuali o collettive, è oggi come non mai un mondo da conoscere. Sono tempi questi dove, corrispettivamente alla crescita esponenziale delle possibilità dell’uomo di agire sul suo mondo interiore ed esteriore, si sono ingigantite le responsabilità di scelte che, in forza dei processi di automazione, informatici e non, hanno – non possono non avere – effetti a livello planetario. Il processo di mondializzazione, fatto di continue trasformazioni di relazioni e collegamenti, di dissoluzione di ambienti esistenti e di creazione di nuovi, prodotto dall’ibridazione incessante di persone, cose, idee, simboli, ha subito un’accelerazione tale, negli ultimi due secoli, e una trasformazione così marcata, ad iniziare dalla seconda metà del Novecento fino ad oggi, da indurre a parlare di un salto di sistema epocale nella storia del rapporto fra uomo e ambiente, sia fisico che simbolico; salto che pare essere ben più radicale dell’avvicendarsi di fasi paradigmatiche. Ma il cuore pulsante di questo salto di sistema è stato e sempre più sarà l’imprescindibilità di interfacciarsi costantemente e inconsapevolmente con sistemi automatici di trattamento dei dati, sempre più invisibili perché sempre più invasivi, più big. Davanti ad un’Internet che ormai non collega e scollega fra di loro solo i simboli delle cose, inventandone dei nuovi, ma opera direttamente sugli atomi delle cose stesse e delle persone, è facile comprendere che stiamo entrando in una dimensione della comunicazione totalmente inedita. La ricerca dell’uomo di agire con il pensiero sulle cose, si sa, viene da molto lontano: basti ricordare quanto Galilei scriveva nel XVII a proposito di “questo grandissimo libro che con- IN•FORMAZIONE 12-2014 30 tinuamente ci sta aperto innanzi a gli occhi (io dico l’universo)”, spiegando che aveva una sua lingua, la “matematica”, e che era necessario imparare a leggerla se si voleva scrivere in quella lingua: e cioè se si voleva passare da lettori a scrittori del mondo. Eppure, mai, prima di oggi, era accaduto nella Storia che la dimensione simbolica della attività umana arrivasse così vicino ad interagire direttamente con quella fisica, con la conseguente diminuzione della mediazione umana, costretta a delegare tanta forza, non soltanto più rappresentativa, virtuale, della realtà ma concretamente fattiva sulla realtà, a processi meccanici automatizzati. Il tempo, appunto, della sperimentazione sulla realtà attraverso la rappresentazione, il virtuale, sta rapidamente cedendo il passo al tempo in cui quanto si immagina potrà sempre più sperimentare le proprie visioni agendo direttamente sulle cose, dando vita ad una cultura della sperimentazione paradigmaticamente diversa dal passato. Stiamo ormai scrivendo direttamente con le cose. La mediazione simbolica prossima alla testualità mentale dell’uomo sta rapidamente cedendo il passo alla mediazione delle cose reali, mentre il terreno che divide pensiero e realtà si sta rapidamente accorciando e sta andando in una direzione dove pensare sarà sempre più fare: qualcosa di cui le stampanti 3D, che si ora stanno diffondendo, indica solo l’inizio. Ecco allora emergere prepotentemente la questione del primato del pensiero sugli strumenti, dei valori identitari che hanno prodotto le soluzioni tecniche. Specialmente della visione, della missione su cui costruire quel tessuto di relazioni che portano ad agire sulla realtà. Il primato cioè di un’ideazione, di una progettazione che devono governare le cose, avendo fiducia che le cose non deludono mai, anche quando avessimo sbagliato tutto, purché restino parte del progetto stesso e continuino a comunicare con noi, a generare conoscenza con noi. Ci aspetta, cioè, il compito di insegnare ai nostri prodotti cosa sia la conoscenza. Un impegno arduo se noi siamo i primi ad usare la comunicazione con altri obiettivi. Eppure, dobbiamo, per ragioni di sopravvivenza, tornare, iniziare a “seguir virtute e canoscenza”, per riprendere la grande verità detta così semplicemente da Dante: è l’unico modo per essere sempre meno “bruti”. Il potere di pensare le nostre idee direttamente attraverso le cose ci porterà a sfuggire dalla realtà o ci spingerà a cercarla come mai fino ad oggi ci era riuscito di fare? Ci solleciterà a chiuderci nella scatola nera delle illusioni o ci appassionerà a pensare che si può leggere e ri-scrivere il mondo? Senza esagerazioni, siamo prossimi alla manipolazione del DNA del mondo che noi abbiamo conosciuto, sotto tutti i profili, culturali, sociali, economici, politici. Il che, ricordando le parole di Leopardi, sarà solo un bene se si riuscirà, seppure gradualmente, a riequilibrare nella Natura il rapporto fra il ruolo che essa mostra di avere di madre (“di parto”) e quello che rivela poi di “matrigna” (“di voler”). Del resto cosa è la storia del genere umano se non questo continuo tentativo di abbracciare la madre e di allontanare l’ombra terribile della matrigna? Di che stupirsi quindi se l’uomo ha cercato alleati in potenti manipolatori riprogrammabili che lo aiutassero in questo compito. Digitale, prima dell’informatica, è la realtà. Articoli Orazio Miglino [email protected] Laboratorio per lo studio dei sistemi cognitivi naturali e artificiali Università degli Studi di Napoli “Federico II” Il progetto Inf@nzia DIGI.tales 3.6. Sviluppare nuove tecnologie dell’educazione per la scuole dell’infanzia e le scuole primarie italiane Introduzione Buona parte dei processi di apprendimento/insegnamento che vedono come protagonisti gli esseri umani si basano sull’utilizzo di qualche forma di tecnologia. Per esempio il libro, la penna a sfera, la lavagna anche se ci appaiono come un prolungamento della nostra mente e del nostro corpo sono a tutti gli effetti delle tecnologie inventate in tempi relativamente recenti. D’altronde è facile rilevare come anche l’evoluzione (e l’aggiornamento) dei metodi didattici va di pari passo con l’evoluzione tecnologica. L’attuale accelerazione dello sviluppo tecnologico sta fornendo possibili nuove opportunità per il sostegno dei processi di apprendimento anche nuove fasce di età, come l’infanzia. Le prospettive psico-pedagogiche di riferimento I bambini fin dai loro primi giorni di vita conoscono il mondo attraverso l’uso del loro corpo. Anche quando non hanno ancora affinato le loro funzioni motorie (deambulazione) e cognitive (logiche e linguistiche) lo spo- stare, il toccare, l’indicare accompagnano e sostengono i loro processi di apprendimento. Con il passare degli anni, gli atti manipolativi “concreti” vengono gradualmente “simulati” nella mente umana e diventano atti simbolici e cognitivi. Recentemente, la “Embodied and Situated Cognition Theory (ESCT)” ha proposto una spiegazione relativa a come le nostre interazioni senso-motorie con l’ambiente determinano l’organizzazione delle nostre strutture neuro-cognitive. L’approccio ESCT sottolinea un aspetto fondamentale dal punto di vista di Inf@nzia DIGI.tales 3.6: le interazioni avvengono sempre all’interno di un contesto sociale e culturale che mette a disposizione oggetti, tecnologie e substrati culturali concreti o astratti. All’interno di questa prospettiva, assumono nuova rilevanza i tradizionali contributi sulla genesi dello sviluppo cognitivo. Si veda ad esempio Piaget (1926), che aveva sottolineato l’importanza delle interazioni con l’ambiente fin dalle prime fasi della vita; Vygotsky (1978) secondo cui la direzione dell’apprendimento nel passaggio tra le forme naturali in forme culturali superiori procede dall’esterno verso l’interno; Papert (1993) che ritiene il processo di apprendimento una costruzione di rap- 31 IN•FORMAZIONE 12-2014 32 presentazioni più o meno corrette e funzionali del mondo con cui si interagisce, introducendo il fondamentale concetto di artefatti cognitivi. Anche Bruner (1990), sottolinea la fondamentale caratteristica del processo di apprendimento attivo. Lo sviluppo cognitivo si realizza in un contesto nel quale sono decisivi i fattori sociali e motivazionali e nel quale si assiste ad un passaggio sempre più efficace ed efficiente nell’elaborazione delle informazioni la cui spinta motrice viene dall’attività del soggetto apprendente. Questo climax ascendente avviene attraverso tre forme di rappresentazione: azione, immagine e linguaggio. Le tecnologie su cui si concentra Inf@nzia. DIGI.Tales 3.6 danno ampio spazio all’espressione di tutte e tre le rappresentazioni che si esprimono all’interno di un contesto sociale per cui la conoscenza umana viene informata dalla cultura attraverso simboli e convenzioni condivise nella stessa misura in cui viene guidata da fattori individuali. L’apprendimento è inserito in una serie di pratiche socialmente e culturalmente determinate come leggere, scrivere, eseguire operazioni aritmetiche e chi apprende lo fa in un contesto culturale e sociale in maniera attiva e creativa. In quest’ottica, negli ultimi decenni si fa strada un’idea di intelligenza articolata in diversi tipi di rappresentazioni mentali, idee, immagini, linguaggi. Da esempio sono le otto forme separate di intelligenza di Gardner (1985), rappresentate in aree diverse a livello encefalico. La differente combinazione in ognuno definisce la specificità dei singoli individui. Esistendo una “impronta intelligente” in virtù della quale si percepisce e si risponde in modo specifico a vari stimoli, le tecnologie per l’educazione dovrebbero offrire la costruzione di un proprio personalissimo percorso per ogni discente. Risulta perciò di primaria importanza differenziare e personalizzare i percorsi edu- cativi per facilitare l’apprendimento e gli strumenti proposti nel progetto possono essere un asso nella manica in questa partita. In quest’ottica, già Rousseau (1762) descriveva come l’educazione deve basarsi dall’inizio della vita, sullo sviluppo degli aspetti senso-motori, ma non vanno dimenticati Frobel (1895) che sottolinea l’importanza dell’espressione del bambino attraverso l’attività ludica, e la pietra miliare costituita dal lavoro della Montessori (1995, 2004), il cui metodo si basa sul rispetto per il naturale sviluppo psicologico del bambino che viene favorito attraverso la possibilità di scegliere autonomamente, all’interno di una serie di opzioni prestabilite, l’attività da svolgere, abbracciando così il modello costruttivista per cui si apprende attraverso il contatto diretto e il lavoro con gli oggetti, piuttosto che con istruzione diretta e con l’utilizzo di materiale didattico specializzato. Tutti i materiali proposti dalla Montessori, possono essere tutti resi “augmented” attraverso la metodologia che proponiamo in [email protected] 3.6. Da questa breve disanima appare evidente l’azione “gronde”, “situated” ed “embolie”, che spiega le cause del successo di massa di alcuni device tecnologici come il “mouse” e i “touch screen”. Questi device vengono immediatamente assimilati dall’apparato senso-motorio che, in accordo con il punto di vista dell’ESCT, diventano delle naturali protesi perché compatibili e isomorfi con il nostro modo di acquisire e organizzare le conoscenze. Le tecnologie I sistemi di interazione uomo-computer di nuova generazione Nella progettazione nuove di tecnologie didattiche un ruolo di particolare importan- Articoli 33 za è rivestito dalle interfacce utente. Negli ultimi anni si è avuta un’evoluzione delle interfacce che ha portato ad una “naturalizzazione” dell’interazione uomo-macchina (NUI, Natural User Interfaces). Nelle interfacce naturali l’utente interagisce con la macchina utilizzando modalità comunicative tipiche dell’interazione tra esseri umani: la voce, i gesti, i movimenti del corpo, la scrittura, ecc. Una tecnologia emergente in questo ambito, permette il tracciamento delle azioni degli utenti ed è basata sull’utilizzo di dispositivi RFID (Radio Frequency Identification Device) e NFC (Near Field Communication). Questo tipo di tecnologia permette l’identificazione di oggetti “taggati” ai quali viene assegnato un codice leggibile con un lettore. I tag RFID sono elementi passivi costituiti da antenne che tipicamente vengono commercializzate sotto forma di piccoli adesivi quadrati delle dimensioni di pochi centimetri che possono essere attaccati ovunque. Un oggetto così taggato può essere identificato attraverso un apposito dispositivo di lettura. Le potenzialità di questo tipo di tecnologie derivano molto più dal modo in cui sono utilizzate piuttosto che dalla loro sofisticatezza tecnica. Queste tecnologie sono adatte all’impiego in applicazioni come giochi da tavolo in cui è necessario registrare le scelte di un utente o sequenze di azioni mantenendo un livello di interazione del tutto naturale. I sistemi di Intelligenza Artificiale a supporto dei processi di apprendimento/insegnamento (Adaptive Tutoring System) Nell’ambito della technology-enhanced education, gli sviluppatori propongono sistemi software di supporto a learner e teacher/tutor che vengono detti “adattivi” e/o “intelligenti”. Un AES (Adaptive Educational System) adatta, in funzione di esigenze specifiche o preferenze del learner, alcuni aspetti dell’ambiente educativo in tal modo, opera differentemente per i singoli learner, invece, gli ITS (Intelligent Tutoring System) sono ambienti educativi computer based che, hanno l’obiettivo di fornire supporto adattivo e personalizzato (per il singolo learner) alla risoluzione di problemi emulando il comportamento di un tutor “umano”. Queste definizioni “storiche” sono state superate da altre più recenti che fanno riferimento a nuove forme di intelligent computer-based tutoring che supportano esperienze di collaborative learning, emotionally intelligent tutors che prendono in considerazione anche gli aspetti relativi alle emozioni, all’umore e all’attenzione. Di grande interesse è l’AICLS (Adaptive Intelligent Collaborative Learning Support) a rappresentare l’ampia area di ricerca che mira a definire sistemi adattivi e/o intelligenti per supportare le attività educative collaborative. Conclusioni: le linee di sviluppo di Inf@nzia DIGI.Tales 3.6 Il progetto Inf@nzia DIGI.Tales 3.6 ha come punti di partenza le esperienze maturate dai partner del consorzio di ricerca. In particolare, per quanto riguarda le attività curriculari della scuola primaria l’avvio delle attività è rappresentato dai risultati prodotti nell’ambito del progetto europeo Block-Magic (BM). Il progetto ha sviluppato un primo dimostratore sulla base dei principi brevemente schematizzati delle prospettive teoriche sopra delineate e l’utilizzo di alcune tecnologie appena descritte, arricchendo i tradizionali Blocchi Logici con tecnologia RFID La figura 1 riporta i componenti es- IN•FORMAZIONE 12-2014 34 senziali del dimostratore: 1) blocchi dotati di tag RFID; 2) una tavoletta con un apparato di ricezione RFID, collegata wireless con un computer/tablet. La tavoletta rappresenta il tavolo da “gioco” in cui uno o più bambini possono giocare mettendo i vari blocchi e ricevendo un feedback da un Tutor Artificiale “residente” sul PC. L’insegnante (o il genitore) può monitorare le sessioni di “gioco” e intervenire quando lo ritiene necessario. In tal modo è possibile coinvolgere i discenti senza vincoli (si può giocare anche a casa o in qualsiasi ambiente al di fuori della scuola). È da sottolineare che il consorzio ha realizzato in collaborazione con la Lega del Filo d’Oro una versione per bambini affetti da ritardo mentale. Inf@nzia DIGI.Tales 3.6 si propone di ideare, progettare e realizzare dimostratori di metodologie e tecnologie di apprendimento/insegnamento innovativi a cui ci riferisce con l’acronimo di ESTeL (Enviroments for Smart Teaching and Learning). Alcuni dimostratori saranno un’estensione del prototipo descritto e avranno l’obiettivo di supportare le attività curricolari della scuola dell’infanzia e del primo Figura 1 – Una versione arricchita con sensori RFID del gioco didattico dei Blocchi Logici anno della scuola primaria per facilitare e stimolare i bambini nell’acquisizione di competenze (soft skills) e conoscenze (hard skills) indispensabili per affrontare il successivo percorso scolastico. Inoltre, sarà prestata particolare attenzione allo sviluppo di metodologie e tecnologie che promuovano l’inclusione scolastica e sociale di bambini con bisogni speciali. I dimostratori dovranno necessariamente nascere dalla convergenza tra la dimensione psico-pedagogica e quella puramente tecnologica coinvolgendo insegnanti, psicologi, pedagogisti e tecnologi secondo il modello dell’Interaction Design. La figura 2 descrive le varie fasi del processo di produzione dei cosiddetti ESTeL che si trovano nel punto di convergenza tra la dimensione psico-pedagogica (asse orizzontale) e la dimensione tecnologica (asse verticale). Come detto gli obiettivi del progetto da una parte sono particolarmente ambiziosi dall’altra devono essere co-costruiti, accettati e valutati dalla società e dalla comunità degli educatori. Questo aspetto è un passaggio cruciale dell’intera “avventura” su cui si fonderanno le speranze di successo delle attività progettuali. Per tale motivo, il Dipartimento di Comunicazione e Ricerca Sociale dell’Università Sapienza di Roma, stimolerà e supervisionerà i rapporti con tutti gli attori coinvolti (enti sociali, scuole, educatori, genitori, ecc.) lungo tutto il percorso di Inf@nzia DIGI.Tales 3.6. Ora non resta che iniziare! Ringraziamenti Molte informazioni e riflessioni di questo scritto sono il frutto di suggerimenti e colloqui con le persone che hanno collaborato alla stesura della proposta progettuale Inf@nzia DI- Articoli 35 Figura 2 – Le fasi per la realizzazione di nuove tecnologie didattiche per la scuola dell’infanzia GI.Tales 3.6. Mi corre dunque l’obbligo di ringraziare A. Di Ferdinando, R. Di Fuccio, J. Mangione, F. Orciuoli, M. Ponticorvo, M. Schembri e L. Sica. Infine, sono debitore a Mario Morcellini che ha sollecitato la realizzazione di questo contributo. Bibliografia • Atzori L., Iera A., Morabito G. (2010). The Internet of Things: A survey. Computer Networks. doi /10.1016/j.comnet.2010.05.010 • Bruner J.S. (1990). Acts of meaning. Cambridge, MA: Harvard University Press, 1990. • Isotani S., Mizoguchi R. (2008). Theory-Driv- • • • • • en Group Formation through Ontologies. Intelligent Tutoring Systems. 646-655. Dienes Z.P. (1971). Le sei tappe del processo di apprendimento in matematica, Firenze: Giunti-O.S., 1971. Froebel F. (1895). Pedagogics of the Kindergarten, translated by J. Jarvis (New York: D. Appleton Co., 1906). Jung H.H., RFID-based digital board game platforms, Computing and Informatics, Vol. 29, 2010, 1141-1158. http://issuu.com/neascience/docs/issue_ nov_13/1?e=0/7173872 Miglino O., Di Fuccio R., Rega A. (2013) editors. Technolgy to Enhance Hands-On Psychopedagogical Practices. HYPERLINK http://issuu.com/neascience/docs/issue_ nov_13/1?e=0/7173872 Articoli 36 Marco Ricceri [email protected] Eurispes Media Literacy: an exercise of democracy The real voyage of discovery consists not in seeking new landscapes, but in the ability to look at things with new eyes Marcel Proust Protection of minors: the original experience of the EU-Companies co-regulation “Children need quality content on-line, and skills and tools for using the Internet safely. Parents need support. And we are all better off if companies play a leading role in this effort. So we need to join forces for a greater impact. We all agree that making a better Internet for children is important, and that it needs to be tackled, synergies between us should be found, in education, in partnerships, and elsewhere. Together we should become the ambassadors of child online safety”. With these words, the vice president of the European Commission, Neelie Kroes, introduced June 3, 2013 the meeting with the Coalition of operators in the media sector (CEO Coalition), the permanent co-ordination body formed in 2011 that brings together CEOs and senior members of the boards of Directors of the largest industries in the digital world, media, technology products. To be precise, the Coalition is made up of 31 members represent- ing the following multinational companies: Apple, BSkyB, BT, Dailymotion, Deutsche Telekom, Facebook, France Telecom-Orange, Google, Hyves, KPN, Liberty Global, LG Electronics, Mediaset, Microsoft, Netlog, Nintendo, Nokia, Opera Software, Research In Motion, RTL Group, Samsung, Skyrock, Stardoll, Sulake, Telefonica, TeliaSonera, Telecom Italia, Telenor Group, Tuenti, Vivendi and Vodafone. During the meeting, Coalition submitted to the European authorities the Report on the initiatives undertaken so far to make Internet a tool for growth increasingly valid and safe for children who start surfing in a more and more younger age. According to the analysts, this age is, on average, around seven or eight years: an average, so often even before. It is enough, for instance, to visit the websites dedicated to the provision of digital games for children aged between two and six years to get an idea of the variety and quantity of stimuli and appeals truly remarkable that so many products exercise in favor of their involvement in the digital world. There is an offer of every type of game connected to the most diverse purposes: games to stimulate action or fantasy, games to acquire skills, to educate, to inform (the brain training in junior version). Games that get a child to learn words and numbers, visit a zoo or take off for a virtual flying tour, listen to stories, to color cartons, to learn along with Batman to surf Internet (from videogames to minicomputers). All this is located on tablet, ipad Articoli 37 and smart phones, ADSL and mobile Internet, touchscreen and apps, as well as on the normal desktop computers, namely on instrumentation that more and more often parents have no hesitation to give even to their younger children (with the help of a parent already at 18 months a child learns easily to use a tablet). In this social reality of the media-sphere, the today’s digital children (the so-called third digital generation) move at ease with a great precocity, forming their knowledge and cultural system and acquiring practical skills that exceed those of their parents, with an heavy impact on their educational action, and anticipate that of the school children will attend in future. Compared to this scenario and keeping in mind the indications of the Community programs on the issue, the Coalition of the largest companies (the Top Tech & Media Companies) has confirmed its commitment to operate in the following main directions: i) the development of simple and effective tools for users of all ages for helping them to solve the problems they may meet while browsing on Internet; ii) the production of age-appropriate privacy settings, for a real, effective protection at every age; iii) a wider use and dissemination of content classifications as well as of early warning tools useful to advise both children and parents on what they may find when start to stay online; iv) the production of tools as well as the development of techniques to support parents in their control action; and v) the development of contrast systems for a more effective takedown of child sexual abuse material. The fundamental principle inspiring these actions, stressed by the CEOs of the sector companies during the meeting, is very simple: when dealing with the issues concerning children, what matters is cooperation, not competition. Accordingly to this principle, some specific areas have been identified in which companies intend to promote new forms of cooperation. In summary they are: • Provide access to educational materials in their possession on a common on-line platform so that what is produced by a company could be re-used free-of-charge and without special constraints by any other organization operating on the territory of the European Union; • Develop a common brand or logo for the initiatives promoted in Europe, in order to make progressively more effective the efforts in spreading awareness about this type of problems; • Involve the hundreds of thousands of people, employees and not, working for the Coalition’s companies in the education and protection of children, which implies, for example, promoting initiatives to encourage employees to go and speak in the schools of their children on the best ways to protect children who are starting to surf Internet; • Promoting joint actions between companies to raise awareness and knowledge of the parents; • Extend best practices outside of the Coalition, joining forces for a comprehensive and co-ordinated action on the entire Internet system. Among the most important results achieved during 2012, the Coalition reported, for example: the production of some robust tools to support the parent’s control activity as well as to enhance the direct children’s protection; the set-up of an European data collection system to facilitate the activities of parents and educators committed to protect the children’s privacy; the development of effective tools to draw the atten- IN•FORMAZIONE 12-2014 38 tion of the children themselves about the dangers they may encounter while surfing Internet; the set-up of systems for measuring, assessing, monitoring the various types of risk while surfing Internet; finally, the set-up of a common technical task force to increase the operational co-operation among companies. It is interesting to note that each of the 31 major companies attending the Coalition, on the occasion of that meeting, presented specific reports on the initiatives undertaken within its operating field, with the explanation both of the guiding principles and working methods adopted and the practical actions implemented. What emerges is a very rich set of information that shows the great variety of approaches and interventions made by the companies in converging towards the common goal shared with the European Union. It is also important to stress that these actions, taken with reference to the European Digital Agenda (a key part of the wider development strategy Europe 2020) as well as to specific Community programs such as Safer Internet, INSAFE, Better Internet for Children, Safer Social Networking Principles, reflect a process based on the spontaneous and voluntary adhesion by companies and their availability to adopt forms of self-regulation; however a process which, afterwards, just because the launch in 2011 of the Coalition’s initiative, has led to the original European experience of co-regulation. This approach to problem solving, as the European Union explains by illustrating the specific action of Agenda in favor of the digital natives, has created a positive situation that would produce widespread benefits for all: “with the proposed measures in place, children will benefit from better digital skills and media literacy and more creative and educational on- line contents. Parents and children will benefit from better ways of on-line safety, such as, simple and effective tools for the abuse report, privacy settings appropriate for different age groups, content classification schemes suitable to facilitate the parental control action. Society in general will benefit from the best practices for identification, notification and blockage of child pornography found on-line”. The commitment to intensify efforts for the media literacy dissemination What has been said so far shows clearly that the orientations, programs and actions undertaken by the authorities as well as by the business community converge towards am unifying goal and focus their attention on the media literacy process, as a central element to which connect any subsequent measure of control and protection. It deals, therefore, with an approach which is not only defensive, but active, with actions which are not restricted to an ex post intervention, but ex ante, which aim to create a cultural environment and to spread a general feeling to allow first the digital natives to act under the best conditions in the media-sphere and seize the great opportunities offered by contemporary society. In short, even this new, original experience of co-regulation between the EU and companies promoted within the EU, is an incentive to increase the efforts for spreading the media literacy; undoubtedly one of the most important policy areas on which the European Commission is currently committed, together with other international bodies such as the Council of Europe and the United Nations, with UNESCO and the Alliance of Civilizations. But to fully understand the value of these initiatives it is important to have a clear also Articoli 39 theoretical and conceptual framework of reference, because often, in practice, the expressions referring to the literacy processes are used in an interchangeably way even if such processes are dealing with different contents and meanings. Thus, for example, the term media literacy is often indifferently used in place of media education, and vice versa; media education in turn is used to replace and/or overlap digital literacy, computer literacy, information literacy, audio-visual literacy. It is clear that in the new digital era, the literacy process calls the need for every citizen to acquire the cognitive elements (knowledge, skills, technical practices) that enable him to understand the world is living, to learn assessing the positive and negative aspects, to participate actively and responsibly to its dynamics. The different expressions that combine the term literacy, mentioned above, in fact relate to the many specific aspects of this complex process. Thus, for example, media education concerns the learning methodologies followed in schools (formal education), in the organized bodies of the community to which a citizen belongs, as family, private associations and other organizations (non-formal education), or acquired by a citizen directly from its own personal experience (informal education). Likewise, digital literacy is about learning the characteristics and use of digital technologies, audio-visual literacy the use of specific tools, and so on, up to the knowledge and use of the computer, reading newspaper, etc. As regard these special issues and needs in the relationship between citizens and media world, media literacy calls to a more general and comprehensive concept; and project. These are related to the development in the citizens of advanced capabilities of critical thinking, such as to enable them to decipher the messages conveyed by the media, make use of their information and become, themselves, media interlocutors as well as producers of media content. Media literacy surely includes the education of citizens to the media world, in the terms specified above, but its real goal is to open up the media to the active participation by the citizens and to contribute thereby to the improvement of social life and to strengthening the practices of democracy. Its true scope of action is, therefore, the democratization of the society. The international initiatives for the dissemination of media literacy were launched just starting by this reflection about the serious risks for the democratic systems due to the ignorance and passivity the citizens have against the media world. It deals with a situation in which the modern communication systems are, objectively, in the condition to spread with a lot of freedom of action even the most negative effects of their work, such as the manipulation of consciences, the deformation of the identity, the dissemination of particular cultures and lifestyles; in essence, to convey cultures and messages that may lead people to reduce their original, conscious and responsible contribution to the social, cultural and political life. The removal from the institutions, the weakening of the community spirit and that of solidarity, the closure in situations of strong individualism: these are just some of the most significant negative consequences that may be caused by a self-referential media world, committed in the promotion of its own exclusive interests; not open – this is the essential point – even to an active citizens participation. (For this reason, the start of the co-regulation experience between EU and companies, described above, provides an early sign of great positivity, although at the moment it is mainly limited to eliminate the major risks of Internet use). IN•FORMAZIONE 12-2014 40 The promotion of media literacy carried out by the European institutions is specifically intended to reverse this situation fraught with risks for democracy and aims to build a different kind of relationship between citizens and media, based on greater accountability, openness, collaboration between producers and consumers-users of communication, between public and private actors, between the economic players and the many subjects that animate civil society, starting by private associations. Definition and main components of media literacy The European Union officially defines media literacy as “the ability to access the media, to understand and to critically evaluate different aspects of the media and media contents and to create communications in a variety of contexts. Media literacy relates to all media, including television and film, radio and recorded music, print media, the Internet and other new digital technologies used in communication” (Communication 833/2007). This definition refers to a broader concept of literacy than the traditional and includes the set of knowledge and skills that make a citizen a “cultured” person, that is to say, as already mentioned, able to understand the surrounding world. Media literacy – which considers all media, old and new, for their interaction and objective convergence – according to the scholars Paolo Celot and José Manuel Pérez Tornero (2009), presents three essential components, which are usually represented by 3 C, where the C letter of the alphabet is for Critical (critical thinking), Creative (creative production), Citizenship (active citizenship). i) The first component is dealing with the development in the citizens of the ability to know, understand and evaluate in a thoughtful and critically way the media world and its complexity (critical thinking), to analyze and think independently about the logic, nature and content of the messages, to know how to interpret the symbols, codes, and cultural conventions used by the media. The development of this cognitive and critical approach calls to the observance of a precondition, namely the guarantee of a real possibility for the citizens to access the media. ii) A second component deals with the development of the citizens ability to write with the media and for the media; then, to produce contents as well as to use the media as a platform from which to interact with other users. iii) A third component concerns the contribution that media literacy can give to the strengthening of participatory moment. In this respect it is almost obvious to remind that the whole media system is the main source of information on the basis of which the citizens get their idea of the world and of the processes that govern it; and if it is true that there is no democracy without participation, it is equally true that this participation can hardly be experienced by those who do not have a sufficient level of education and critical awareness. If media have also to serve the democratic life and be functional to its strengthening, then, of course, they will have to be open to the citizens participation. Other scholars, according to the models of interpretation taken as reference, add two more components to these three components, above mentioned. These added components are: Culture (cultural awareness) and Comprehension (understanding), with reference to the autonomy acknowledged to the process of understanding the media world. Articoli 41 Media literacy: Documents and initiatives by the European Union The process developed to clarify the role of media literacy in building a positive relationship between citizens and media, according to the need of strengthening the democracy practices, was for the European Union neither easy and nor short. After having approved in 1989 the Directive “Television without Frontiers”, on the coordination of certain broadcasting activities undertaken by the member states (Directive 89/552/ EEC), the EU adopted in December 2007 the Directive on “Audiovisual Media Services” (Directive 2007/65/CE ) in which, among other things, there is an explicit reference to media literacy. “Media education – states the document – refers to skills, knowledge and understanding that allow consumers to use media effectively and safely... therefore, it should necessary to promote the development of media literacy in all sections of the society and carefully monitor his progress”. It should be noted that previously, in the same year 2007, the Commission sent another Communication to the other Community institutions, “I-2010. Annual Information Society Report 2007”, with a very precise description on the state of information society, the development trends of digital and the main open problems, especially in the field of pluralism protection in the media world and media literacy dissemination. This line of commitment has been developed also in other documents elaborated by the European Commission in the same period. For instance, the Communication of December 20 2007 entitled “A European approach to media education in the digital environment” (COMM/2207/833), the first official document that has the merit of treating the subject in a systematic way and to highlight the importance of a European approach to media literacy. The Communication focuses in particular on three specific areas –advertising, audiovisual and Internet – and draws the attention to the importance both of developing a critical attitude towards these media especially among the young people, and to set-up mechanisms of self and co-regulation, as well as to adopt effective codes of conduct. Member states should commit their national regulatory authorities to work in this direction. The year 2008 is important for the advancement of the initiatives aimed to support media literacy because, after the previous Communications by the Commission, these initiatives tackle a new stage of assessment, very different from the past: the political assessment. On July 28 2007 the European Parliament submitted a draft resolution on “Media skills in the computerized world”, approved in December of the same year (2008/2129/INI). The document of the European Parliament calls the Commission for the development of indicators to measure and assess the diffusion of media literacy in Europe and confirms the importance of strengthening the critical spirit among citizens towards the media. Among other things, it also calls for the commitment of the Commission and the member states to promote educational programs, especially in schools, for teachers and students. This resolution, which is no longer a study document but a real political act, opens up the possibility of incorporating media literacy into the curricula of schools and universities; it is the starting point of a process which, in 2014, is currently implemented in all European countries, albeit with different stages of progress. On October 8 2008 it was the turn of another Community institution, the Committee IN•FORMAZIONE 12-2014 42 of the Regions, which acts in the same direction by adopting a positive opinion on the Commission’s documents. In particular the opinion urges states and regional and local authorities to adopt programs for the promotion of media literacy to be developed with the participation of civil society organizations and the widest possible involvement of citizens, bearing in mind that the media play a decisive role for the preservation, or less, of regional and local identity, intercultural dialogue, democracy. On this specific issue, the contribution that media literacy gives to strengthening democracy, the European Commission is back again in 2009 with a specific Recommendation (2009/625/CE ) to promote supporting actions with a twofold purpose: a more competitive audiovisual industry and an inclusive knowledge society: “democracy – the document states – depends on the active participation of citizens in the community and media literacy would provide the skills they need to make sense of the daily information flow disseminated through new communication technologies”. Media literacy: documents and initiatives by UNESCO Important references to contextualize the concept of media literacy, and, within its framework, media education, can be found in the UNESCO initiatives relating to the promotion of human rights and the development of socalled “knowledge society”. The guarantee to access to quality content in communication as well as to participate in media planning are for UNESCO among the essential elements of freedom of expression. The first definition on the subject dates back to 1982 and to the Gruenwald Declaration, a document approved in a conference promoted by Germany and attended by educators, experts and researchers from 19 countries. Since 1982, UNESCO has continued the work of deepening the issue and promoting media literacy, as evidenced by a series of periodic conferences, among which are: Toulouse (1990), Vienna (1998), Seville (2000), Paris (2005 and 2007), Riyadh (2008), Rabat (2010), Fez (2011). Even UNESCO has adopted a definition of media literacy on the same line of the European Union. “Developing the growth of individuals through the Information Literacy and Media Literacy – says the official website – is an important prerequisite for promoting fair access to information and knowledge and build an inclusive knowledge society. The Information Literacy and Media Literacy puts people as users of information and media, in conditions of interpreting and making judgments informed, so as to become competent creators and producers of information and media, according to their right”. Continuous are the invitations by UNESCO to the states in particular to close the gap of education systems, formal and informal, with respect to the speed of technological change in the sector as well as to expand the educational responsibility from teachers to parents, media professionals, decision-makers of public affairs. In particular, UNESCO, after having defined in 2008, the standards of the digital competencies for media literacy teachers, was successful in 2011 by developing a model of a specific media literacy curriculum, with a proper definition of the objectives, contents, sequences related to the activities and practices of learning and teaching, such as, finally, the criteria for the evaluation of the cognitive and experiential acquisitions made by the teacher. In October 2013, at the Youth Forum Articoli 43 held in Paris, UNESCO has opened a great debate on-line inviting young people worldwide to express their opinions on the best ways in which to combine and promote freedom of expression, providing information arranged in a specific tool: the Toolkit for a discussion at international level. Media literacy: documents and initiatives by the Council of Europe Noteworthy are also the initiatives of the Council of Europe, which on several occasions has addressed the issue of media literacy on the basis of the fundamental criteria which drive its overall action, such as the promotion and safeguard of the democratic principles, human rights, freedom of expression. Among the main documents we remind: the “Recommendation 1466 on media education” (2000), which calls on the governments of member states to promote both practices, and tools related to media education; the “Council Recommendation on empowering children in the new information and communication society” (2006) which calls on member states to develop a widespread computer literacy (information literacy) in parallel with an in-depth education of children and their teachers so that they use in the best possible way the information and communication services and technologies; then the document “Educational policies relating to the media” (2007), which contains a series of organic and complete proposals related to the whole range of educational activities on the matter. On September 21 2011 the Committee of Ministers of the Council of Europe adopted an important document (CM/Rec-2011-7) containing a Recommendation to member states for actions to promote in order to “A new notion of media”. The document – result of an in depth analysis and evaluation of the nature and evolution of media world – offers to the institutional and political decision-makers precise tools to take appropriate action in favor of the citizens’ personal growth as well as the progress of their communities. The Recommendation – a real guide for the policies in the field – contains, in particular, the updated definitions of what are called the new media-ecosystems, the guidelines to be followed in their regulation and promotion, the best strategies to be implemented by the public services, the gradual and differentiated approach to be followed in the interventions. Each specific aspect of the Recommendation is accompanied by a series of very accurate and precise guiding criteria and indicators to select and orient actions and to evaluate their concrete outcomes. For example, the section of the document dealing with the media responsibilities, identified with reference to well defined parameters and intervention areas, in paragraphs no. 93 and 94 provides the specific indicators to evaluate this responsibility towards children, which are the following: “93. Particular attention should be paid to preserving the dignity, security and privacy of children. Content concerning them can be a source of present and future prejudice. Consequently, – in the media – there should be no lasting or permanently accessible record of the content about or created by children, which challenges their dignity, security or privacy, or otherwise renders them vulnerable now or at a later stage in their lives”. “94. Risk of harm may arise from a wide range of content and behavior. Content intended only for adults should be clearly iden- IN•FORMAZIONE 12-2014 44 tifiable to facilitate rendering it inaccessible to children. Protection of children should not impinge on their freedom of expression and right to seek and receive information. Media can contribute to the development of safe spaces (walled gardens), as well as other tools facilitating access to websites and content appropriate for children, to the development and voluntary use of labels and trustmarks, to the development of skills among children, parents and educators to understand better and deal with content and behavior that carries a risk of harm”. Well: no any trace of dangerous content for children must be found in the media, in the present and for the future. That is a very precise commitment, taken by the Committee of Ministers, together with the commitments to safeguard the right to freedom of expression of children as well as to promote active policies to develop their skills in this matter, along with those of their parents and teachers. These indications of political value were reinforced in a subsequent document approved at the Conference of Ministers of the Council of Europe held in Belgrade in September 2013 on the theme “Media and information society”, a document which, in full accord with the guidelines of the European Union, offers a precise definition of media education and a clear indication of the basic criterion to which connect policies and initiatives. This criterion is the growth of the active participation of citizens, particularly young people, to the life of their communities. “Media community – the text states – must commit to train people, particularly the communities and individuals who are often not represented by the media and empower them to become active media producers and multipliers within their communities and beyond. Media Literacy is a basic competence on how to become active citizens and participate fully in society and democratic life. One of his goals is to build a critical awareness and a proper understanding of the problems of personal and social life related to media communication. Social media is primarily a platform for re-distribution and are not tied to any specific training function”. The European project EMEDUS for the evaluation of projects and effective cooperation “The Europe of this century needs European citizens to acquire new skills. It is no longer an advantage to be media literate, but a debilitating disadvantage not to be. Citizens must be equipped with the skills to utilize, and benefit from, media. To do this, Europeans need to acquire new competences beyond that of traditional literacy... In recognition of this need – it is necessary to develop – national education policies, to fit into a supportive European legal framework, aimed at promoting lifelong learning media education”. These words introduce a specific study on the subject, “EMEDUS-European Media Literacy Education Study”, which a qualified European consortium, set-up in 2011, conducted in 2012-2013 with the support of the European Commission (DG Education and Culture-Lifelong Learning Programme) and EACEA, the Agency specialized on education and audiovisual culture. The starting point of the study are the results of the most recent European research in the field on which to build additional advances, along with specific recommendations to the Community authorities and the member states as a contribution to solve the main outstand- Articoli 45 ing problems. The consortium is coordinated by Prof. José Manuel Tornero, a leading expert in the field at the international level, of the Department of Communication, Autonomous University of Barcelona, and composed by: EURISPES (Italy), EAVI-European Association for Viewers’ Interests (Belgium), Institute OFI (Hungary), The School of Communication and Media-SCM SKAMBA (Slovakia), the Department of Communication at the University of Minho (Portugal), the University of Warsaw (Poland). The United Nations and UNESCO supported the study as associated partners. The principal issues refer, on the one hand, to a general convergence on clear and shared concepts of media literacy and media education in order to promote throughout Europe a homogeneous, consistent, useful planning; and, on the other hand, to the relationship between school and society and thus, more precisely, to the definition of the relations and mutual influences between formal education (that received in schools by a person, young or old), the non-formal education (that received, for example, by attending the activities of associations and other institutions), and the informal education (the self-education organized by a person individually, or received, for instance, in the context of its family, group of friends, etc.). Each of these different educational approach, of course, affects the other in a web of continuous interchange. Clarifying the nature, scope and modalities of this system of mutual influences is very important for the promotion of proper education policy to the media by the EU member states as well as to provide a significant contribution to schools that across Europe are more and more engaged on this front. More specific objectives of the EMEDUS study, which integrate the reconstruction of the general framework of media education in Europe and of the main issues which are still open (for example, those relating to the definition and harmonization both of the national curricula of teachers, and the competences on the matter), are concerning the organization of two instruments which may be very useful to the achievement of the general goals, above mentioned. The first of these tools consists in the set-up of an “Assessment Table” that allows to organize in a systemic way the information related to the features of the many public and private projects on media education that are taking place throughout Europe, to classify their purposes and initiatives, assess their scope, measure their real effects and the concrete results achieved. This “Assessment Table”, the processing of which see the contribution, for Italy, by EURISPES Institute and CORIS, Department of Communication and Social Research at Sapienza University of Rome, is set up as a working tool primarily for measuring the consistency of individual projects with the guidelines of the European Commission, in order to support a general convergence on them; and then to develop a proper analysis of the actual value of many European projects in the field, to allow a realistic representation of the progress of media education in the individual European countries as well as the acquisition of media skills by the citizens and particular social groups (teachers, young people, etc.). A second tool, set-up by the EMEDUS project, deals with the organization of a permanent “European Observatory on Media Literacy” that will allow scholars and operators to have a source of updated information on the subject, useful for their research and decisions about. It is a real platform that will also encourage the widest possible cooperation between operators across Europe which are com- IN•FORMAZIONE 12-2014 46 mitted in promoting teaching lifelong media education of the people. A final thought: media literacy and new humanism In a book published in 2010 by Perez Tornero and Tapio Varis on behalf of the Institute for Information Technologies in Education-IITE at UNESCO, just from the title the two scientists link media literacy with the birth of a new humanism. At first glance, this approach may seem too forced, but the reasons explained in the presentation make it plausible. In a world increasingly dominated by information technology, in which media have occupied the epicenter of our lives, it becomes essential to defend the autonomy of the individual, which is based on critical thinking, free-examination, the right to information; and all this, in turn, will be possible only by ensuring to all people an equal opportunity to access media world and as much an equal opportunity to acquire skills and abilities allowing people to react to the negative processes, when they generate passivity and depersonalization. This setting given to media literacy, according both scholars, contains an echo of the principles on which in the 15th and 16th centuries humanism and Renaissance have been developed in Europe, as well as an echo of the sense of freedom, independence, critical individual mind whose value was proclaimed by the Enlightenment thinkers. This idea is supported by the Director General of UNESCO, Irina Bokova, who, in the presentation of the book, explains that “the idea of a new humanism has become the new credo for UNESCO. Applied to education, it suggests the creation of a more inclusive society in which all human beings must have access to knowledge and quality education, and every voice must be heard in the universal dialogue”. Media literacy is the tool for the construction of this new situation, it is the answer to the negative effects of a technological civilization and a media culture that discourage, rather than to enhance, the creative ability, the imagination and active life of individuals, that reduce the originality of free thinking, drop the respect for cultural diversity, weaken democratic systems. These concepts are important points of reference for those who have to take decisions concerning the dissemination of media literacy between individuals of every age and condition. 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Un punto di vista medico Fino agli anni Ottanta poco interesse era stato rivolto al ruolo dell’esperienza nello sviluppo delle strutture cerebrali e, di conseguenza, al ruolo attivo del bambino nello sviluppo cerebrale mediante l’interazione con l’ambiente. Il cervello dei bambini e degli adolescenti non è una miniatura di quello degli adulti, rappresenta invece una tappa complessa di uno sviluppo che si protrae durante tutta la durata della vita. Il cervello si struttura in decenni di crescita, e il modo in cui le diverse parti che lo compongono maturano spiega lo svilupparsi graduale delle sue diverse competenze. Oggi, grazie all’utilizzo delle brain imaging, è possibile osservare la maturazione del cervello nel corso dell’infanzia. È nelle prime due settimane di vita, quando l’embrione è lungo solo qualche millimetro, che ha inizio il primo stadio dello sviluppo del sistema nervoso: da una placca di neuroni primitivi si forma un piccolo tubo, detto tubo neurale. Da quest’ultimo si formano sia il cervello che il midollo spinale poi, successivamente, la parte superiore del tubo si espande formando una bolla che diverrà il telencefalo. Da qui un nucleo di cellule staminali formerà nuovi neuroni che lentamente migreranno verso la peri- feria dove andranno a formare la corteccia cerebrale. Dalla decima alla ventesima settimana inizierà poi la divisione cellulare, processo estremamente delicato, che si completerà con lo sviluppo della massa cerebrale.Tutte queste tappe seguono una traccia spaziale e temporale sotto una guida genetica: un meraviglioso e complesso piano strutturato in milioni di anni. È durante questa fase delicata che possono intervenire mutazioni, disturbi, ostacoli che porteranno ad alterazioni nella qualità dello sviluppo cerebrale. Alla nascita i bambini possiedono l’intero patrimonio neuronale necessario in vita. Nel cervello ci sono cento miliardi di neuroni ciascuno dei quali ha in media dalle 20.000 alle 50.000 connessioni con altri neuroni per un totale di 500-600 trilioni di sinapsi. I collegamenti tra neuroni si modificano continuamente nel corso della nostra vita, trasformandosi e trasformandoci sulla base delle nostre esperienze. Il volume cerebrale totale è già a sei anni il 90% del volume di un adulto. Questa fase di sviluppo del cervello richiede grandi quantità di energia, in media il 40% dell’energia del corpo pur rappresentando solo il 2% del peso corporeo. Da adulto questa quantità scenderà al 20%. 49 IN•FORMAZIONE 12-2014 50 Le misurazioni dello spessore della corteccia cerebrale e la sua modificazione nel tempo sono ormai gli strumenti più importanti per capire lo sviluppo cerebrale durante l’infanzia. Il volume della corteccia cerebrale è formato in gran parte dai collegamenti fra neuroni, prolungamenti che aumenteranno in gran quantità nelle fasi iniziali ma che subiranno nelle fasi successive intensi processi di potatura. Le linee guida (congenite) di tutto lo sviluppo e della configurazione funzionale del cervello sono due: la sopravvivenza e la riproduzione. Seguendo questi due principi, controllati dai geni negli anni successivi e per tutta la durata della nostra vita, il cervello sarà in continua evoluzione, anche se le trasformazioni non saranno mai di un’entità e drammaticità paragonabile a quelle che avvengono subito dopo la nascita. Le prime aree del cervello a raggiungere un completo sviluppo sono il tronco cerebrale ed il mesencefalo, esse regolano le funzioni corporee essenziali alla sopravvivenza (respirazione, digestione, escrezione, termoregolazione): le cosiddette funzioni autonome. Le aree che invece si sviluppano secondariamente sono il sistema limbico (in cui ha luogo la regolazione emozionale), l’ippocampo (fondamentale per l’elaborazione delle memorie) e la corteccia cerebrale (che permette il pensiero astratto). L’ultima a maturare è la corteccia prefrontale. Man mano che il cervello si sviluppa, aumenta di volume e di plasticità. Negli ultimi anni una delle scoperte più importanti è stata la durata dello sviluppo del cervello; oggi si ritiene che questo completi il suo sviluppo a venticinque anni. La crescita di ogni regione del cervello dipende in larga parte dalla stimolazione che riceve e, quindi, dalla possibilità di creare nuove sinapsi, cioè nuove connessioni tra i neuroni Il numero e il tipo di queste connessioni sinaptiche dipendono unicamente dall’esperienza. All’età di tre anni, nel cervello del bambino si sono formate ormai circa 1.000 trilioni di sinapsi, che sono molto di più di quelle che serviranno nella sua vita. Alcune di esse si rafforzeranno e rimarranno intatte altre andranno perse. Una volta giunto all’adolescenza il bambino avrà perso la metà di queste sinapsi. In presenza di livelli adeguati di cibo, di sonno e di stimolazioni il cervello è geneticamente predisposto per svilupparsi in modo armonico: negli anni tutte le esperienze che facciamo (le persone che amiamo, il tipo di disciplina che riceviamo, le emozioni che proviamo, la musica che ascoltiamo, i libri che leggiamo, i film che vediamo) influiranno profondamente sull’architettura cerebrale.Tale architettura è regolata in parte dai geni e, in larga maggioranza, dalle stimolazioni che il bambino riceve dal mondo esterno: saranno queste a guidare la prima fase di grande esubero delle interconnessioni neuronali e la successiva fase di sfoltimento. Quali siano i periodi più sensibili per lo sviluppo delle diverse funzioni è una domanda chiave nella psicologia dell’età evolutiva. Si è potuto appurare che esistono delle finestre temporali di possibilità che facilitano la formazione completa di alcune funzioni; superata tale finestra il processo non è completamente inibito ma sicuramente alterato. L’intervento dei genitori, o in generale delle figure di attaccamento significative, può quindi agevolare grandemente l’integrazione. Tant’è che se il bambino non viene esposto a esperienze essenziali come, ad esempio, la voce della madre, rischia di non riuscire a rispondere in modo adeguato agli stimoli.Tutto ciò avviene in modo inconsapevole, grazie alla plasticità del cervello e alla sua incredibile capacità di mutare continuamente in Articoli 51 base alle esperienze che la persona fa durante tutta la vita. Alcune ricerche (Giedd, 1999) hanno individuato come il processo di crescita cerebrale avvenga in maniera continuativa in numerose aree cruciali della corteccia cerebrale, fra cui: i lobi parietali, (regioni associate con il ragionamento logico e spaziale), i lobi temporali (collegati al linguaggio), i lobi frontali (quelli che consentono agli adolescenti di agire in modo corretto). Queste aree, molto probabilmente, risultano sviluppate e rifinite solo dopo il 25 anno di età, infatti, dopo aver raggiunto dimensioni decisamente superiori a quelle riscontrabili negli adulti, la sostanza grigia comincia a regredire rapidamente. Parallelamente allo sviluppo degli organi sensoriali il bambino ha necessità di iniziare a sviluppare i circuiti mnemonici, sia a breve che a lungo termine. Nasciamo con una gran quantità di memorie congenite che hanno creato circuiti funzionali e indispensabili alla sopravvivenza; quest’ultime, funzionanti con connessioni ad altissima velocità, sono assolutamente inconsce e non aggredibili o modificabili se non in ridottissima parte. Tutto ciò che i nostri sensi raccolgono, che rappresenta solo una piccolissima parte di ciò che ci circonda, viene decodificata e scomposta in moltissime parti, trasmessa con circuiti capaci di funzionare anche in parallelo e infine distribuita a numerosi moduli di raccolta dati. Una volta tradotta, l’informazione viene trasmessa ad altre zone intimamente interconnesse e ricodificata.Tutto questo è un processo inconscio che sfrutta memorie congenite, antiche, attuali e dà una lettura personale della realtà. Per poter effettuare questi percorsi abbiamo bisogno di una memoria lavorativa, particolare forma di memoria a breve termine che ha la possibilità di trattenere informa- zioni per brevissimo tempo, sufficiente però ad una elaborazione in grado di ricordare e ordinare le sue parti. Quando osserviamo una scena non vediamo un’immagine completa, ne focalizziamo solo alcuni dettagli, il resto è creato dalla nostra memoria, dalle conoscenze generali e dall’immaginazione, molto marcata nei bambini. L’area dove vengono trasferite le elaborazioni che devono essere trasformate in memorie a lungo termine, è l’ippocampo; il suo sviluppo tardivo (completo dopo i 2 anni) spiega il perché un neonato non ha la possibilità di creare ricordi duraturi. Siegel osserva che la memoria non è come uno schedario da cui recuperare un fascicolo ogni volta che si rievoca un ricordo, né come una fotocopiatrice, che sforna riproduzioni fedeli e accurate degli eventi trascorsi. In realtà i ricordi del passato influenzano il nostro modo di vedere e interpretare il presente, modificando continuamente la struttura del cervello attraverso connessioni neuronali. L’atto stesso di ricordare induce modificazioni nel ricordo, distorcendo gli avvenimenti in base ai nostri stati emotivi. Accanto alla capacità di ricordare consapevolmente le esperienze passate, la memoria esplicita, vi è anche una memoria inconsapevole, la cosiddetta memoria implicita, che porta a formarci una serie di aspettative sul modo in cui va il mondo. La memoria implicita può essere responsabile di alcune reazioni apparentemente irragionevoli: in questi casi è probabile che un ricordo implicito abbia creato un modello mentale che influenza il nostro comportamento senza che ce ne rendiamo conto. La parte del cervello deputata all’integrazione tra i ricordi impliciti ed espliciti è l’ippocampo, una piccola regione del lobo temporale. La memoria diventa più efficiente se la teniamo in allenamento: per questa ragione è IN•FORMAZIONE 12-2014 52 importante incoraggiare i bambini a raccontare le loro esperienze nei momenti importanti della loro vita, ma anche nelle ordinarie attività della vita di tutti i giorni. Molti ricercatori si chiedono se gli adolescenti nel momento di prendere decisioni hanno modo di valutare rischi e ricompense. Il processo decisionale dipende dal sistema di ricompensa e dalla corteccia prefrontale che valuta i segnali, pianifica e prende decisioni. Avendo un sistema di ricompensa (nucleo accumbens) abbastanza sviluppato, ma un lobo frontale relativamente immaturo, un adolescente si comporta diversamente da un bambino che ha i due sistemi immaturi e l’adulto che ha i sistemi maturi. Il comportamento sarà guidato da una incoscienza non controllata dal lobo prefrontale. È noto a tutti che le esperienze vissute durante l’infanzia possono condizionare la funzione cognitiva. Lo stress, ad esempio, è in grado di produrre effetti in modo rapido, alterando le nostre capacità da un giorno all’altro e persino da un minuto all’altro. Tutto questo influisce sullo sviluppo cerebrale di bambini anche molto piccoli, probabilmente perfino prima della nascita. Gli ormoni dello stress possono infatti modificare i circuiti cerebrali in via di sviluppo, influenzando le connessioni neurali nella corteccia prefrontale, che presiede alle funzioni esecutive. Se dosi moderate di ormoni dello stress come cortisolo e noradrenalina, possono incrementare l’attività nelle aree prefrontali, sede delle funzioni esecutive, ad alti livelli possono invece ingolfare questo motore di autoregolazione. Il cervello è diviso in due emisferi, ognuno dei quali funziona in modo diverso. L’emisfero sinistro è logico-matematico, linguistico, lineare e si esprime con il linguaggio esplicito. L’emisfero destro è, invece, olistico, emoziona- le, non verbale, esperienziale ed autobiografico, più che i dettagli recepisce il quadro di insieme delle esperienze in modo intuitivo ed emotivo. I due emisferi sono collegati tra loro da un fascio di fibre, il corpo calloso, che li mette in relazione e favorisce un funzionamento armonico e integrato del cervello. Nei primi tre anni di vita è dominante l’emisfero destro: i bambini non hanno ancora acquisito la capacità di usare la logica e le parole per esprimere le proprie emozioni. Siegel paragona lo stato di integrazione, e quindi del benessere mentale, a una navigazione al centro di un placido fiume (il fiume del benessere), equidistante sia dalla riva del caos (totale mancanza di controllo) che da quella delle rigidità (controllo eccessivo con scarsa capacità di adattamento). Quando la pura emotività destra non si unisce alla logica, il bambino naviga troppo vicino alla sponda del caos; viceversa, quando i bambini negano le proprie emozioni e si rifugiano a sinistra, rischiano di arenarsi sulla riva della rigidità. Questa integrazione orizzontale consente ai bambini di diventare persone equilibrate capaci di comprendere il mondo sia attraverso la logica che attraverso le emozioni. Oltre all’integrazione orizzontale tra i due emisferi cerebrali è auspicabile anche il raggiungimento di un buon livello di integrazione verticale tra le aree del cervello che si trovano più in alto e che consentono di riflettere sulle proprie azioni e quelle più in basso collegate all’istinto alle reazioni viscerali e alla sopravvivenza. L’integrazione consiste nel costruire un collegamento fra il piano di sotto, abitato dall’amigdala responsabile delle emozioni di rabbia e paura, con il piano di sopra dove si trova la corteccia prefrontale e dove avvengono i processi di pensiero legati all’immaginazione e alla pianificazione. Articoli 53 È al piano di sopra che prendono forma molte delle caratteristiche che ci auguriamo si sviluppino nei nostri figli: la capacità di decidere e progettare con giudizio, l’empatia, la moralità, il controllo delle emozioni e la comprensione del sé. Durante l’infanzia e l’adolescenza si hanno dei problemi quando l’amigdala, in risposta a stimoli di rabbia o paura, prende il sopravvento, interrompendo del tutto la comunicazione tra i due livelli. Uno dei cambiamenti più significativi avviene nella corteccia prefrontale; è in questa zona che si regola il controllo degli impulsi, delle emozioni, la consapevolezza della conseguenza delle proprie azioni ed i processi decisionali, logici e razionali. Come evidenziato dagli studi di Yurgelun-Todd (2006), gli adolescenti usano soprattutto l’amigdala per il riconoscimento delle emozioni anziché la corteccia frontale come i giovani adulti. Ciò suggerisce che gli adolescenti sono predisposti a fornire risposte comportamentali istintive. Llinas (2000), inoltre, sottolinea come il cervello adolescente non fa altro che monitorare continuamente il suo stato interno: non è vero che il cervello guarda il mondo esterno, il cervello guarda i contenuti emozionali che si sono creati e che si continuano a creare al suo interno. La capacità di mentalizzare, cioè di avere una teoria della mente, comporta la capacità di riconoscere che l’altro ha una mente differente dalla nostra (Dennett, 1978; Fonagy & Target, 2001). Condizione dell’adolescente è quella di mettere alla prova la capacità di riconoscere una situazione importante e di passare all’azione, un movimento intenzionale del soggetto verso l’oggetto. Il movimento intenzionale dell’adolescente verso l’oggetto implica di per sé la capacità di riconoscere e comprendere i movimenti dell’altro. Usa a tal fine i neuroni specchio. Il fenome- no del rispecchiamento consiste essenzialmente nel fatto che la semplice osservazione delle azioni di un’altra persona provoca un’attivazione della corteccia motoria che è somatotopica rispetto alla parte del corpo che è osservata. I neuroni specchio hanno la caratteristica di rispondere sia quando il soggetto fa qualcosa di specifico sia quando quel qualcosa di specifico viene visto fare da un altro. Recenti ricerche (Meltzoff, 2002) hanno dimostrato che neonati già a poche ore dalla nascita sono capaci di riprodurre i movimenti della bocca e del volto degli adulti che li guardano. Il corpo del bambino simula quindi correttamente quello dell’adulto non come arco riflesso dato, ma attraverso informazioni visive che vengono trasformate in informazioni motorie. L’ampliamento delle conoscenze psicologiche sullo sviluppo infantile permette di riconoscere il ruolo cruciale giocato dall’empatia dalla responsività dagli scambi visivi, dalla sintonizzazione affettiva dalla contingenza della risposta ambientale. Questi diversi e complessi processi relazionali muovono dalle originarie esperienze emotive del rispecchiamento. Tali esperienze rilanciano lo scambio intersoggettivo, favoriscono la progressiva consapevolezza dell’importanza dell’altro e contribuiscono alla costruzione di rappresentazioni stabili di tale consapevolezza. Giungere al sicuro convincimento di disporre di una propria mente di un mondo soggettivo interno, equivale a riconoscere che gli altri hanno mondi interni differenti dal nostro. Bibliografia • Chugani H.T. et al. (1987). Positron emission tomography study of human brain functional development. Annals of neurology, 22: 487-497. IN•FORMAZIONE 12-2014 54 • Dennett D. (1978). Beliefs about beliefs, Behavioral and Brain Sciences, 1, 568-570. • Fogany P., Target M. (2011). Attaccamento e funzione riflessiva. Milano: Cortina, 2001. • Giedd, J.N. et al. (1999). Brain development during childhood and adolescence: a longitudinal MRI study, Nature Neuroscience, 2, 861-863. • Kandel E.R., Schwartz J.H., Jessel T.M. (1994). Principi di neuroscienze. Milano: Ambrosiana, 1994. • Klingberg T. (2006). Development of a superior frontal-intraparietal network for visuo-spatial working memory, Neuropsychologia, 2006. • Klingberg T. (2010). 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Articoli Isabella Mingo [email protected] Dipartimento di Comunicazione e Ricerca Sociale Sapienza Università di Roma I media in età prescolare: una lettura esplorativa dei dati ISTAT Introduzione La fruizione mediale dei bambini in età prescolare costituisce un argomento scarsamente coperto da ricerche empiriche ad hoc su campioni ampi e rappresentativi. Questa carenza di studi sistematici può in parte essere colmata facendo ricorso ad alcune indagini conoscitive condotte periodicamente da Istat (2010). Pur se non incentrate specificamente su questa fascia di età, i dati che ne derivano costituiscono un imprescindibile punto di riferimento per tracciare scenari empiricamente fondati su questo tema. L’obiettivo di questo contributo è di esplorarne le potenzialità. A tal fine sono state considerate le maggiori indagini Istat sulle famiglie di fatto e i loro componenti, da cui è possibile trarre informazioni pertinenti ed in particolare: 1. Cittadini e tempo libero, focalizzata sulla percezione del tempo libero e sulle attività mediali, espressive e ricreative svolte nel suo ambito. La periodicità dell’indagine è quasi quinquennale: la prima rilevazione risale al 1995, l’ultima è del 2006. I quesiti sono prevalentemente rivolti agli individui da 14 anni in su, tuttavia alcune attività vengono rilevate sui bambini di 3 anni in su (sport, Tv), altri su quelli da 6 anni in su (uso di Internet)1. 2. Uso del tempo, finalizzata a rilevare i differenti modi in cui la quantità di tempo a disposizione dei soggetti viene ripartita tra usi differenti, allo scopo di fornire chiavi interpretative di diversi stili di vita. Nell’indagine viene utilizzato anche un diario giornaliero, rilevato a partire dai bambini di 3 anni, in cui l’intervistato descrive le varie attività svolte nelle 24 ore suddivise in intervalli di 10 minuti. L’indagine è stata effettuata per la prima volta nel 1988 e reiterata nel 2002 e nel 20082. 3. Aspetti della vita quotidiana (AVQ), indagine annuale, condotta a partire dal 1993, in cui si indaga su diverse tematiche sociali e culturali. L’indagine fornisce un’ampia panoramica, annualmente aggiornata, di questi temi tra cui è inclusa, da circa un decennio, la fruizione delle ICT da parte degli individui. L’ultima rilevazione risale al 2012, ma è nel 2011 che l’indagine ha previsto un focus sui minori, integrando la rilevazione con un questionario ad hoc sugli individui da 0 a 17 anni3. 1. http://www.istat.it/it/archivio/5584 2. http://www.istat.it/it/archivio/5723 3. http://www.istat.it/it/archivio/4630 55 IN•FORMAZIONE 12-2014 56 Delle suddette indagini, l’Istat rilascia in forma gratuita, oltre i macrodati diffusi in pubblicazioni e database on line, anche i microdati, in cui l’unità di analisi corrisponde al singolo individuo. Le potenzialità offerte da questi tipi di dati sono indubbiamente più estese, consentendo, in sede di analisi secondaria, di decidere autonomamente le modalità di aggregazione dei soggetti (ad esempio le classi di età) e di selezione delle variabili, sulla base dei propri obiettivi conoscitivi. Tra le indagini citate, per la specificità delle informazioni e per il particolare segmento di popolazione su cui sono in parte rilevate, quella che riveste particolare importanza ai fini del nostro contributo è “Aspetti della vita quotidiana” (AVQ), edizione 2011. Pertanto è sui microdati che da essa derivano che sarà incentrata l’analisi seguente. Le basi di dati: i bambini e le informazioni Dai microdati dell’indagine AVQ 2011 si sono estratti soltanto i bambini di età compresa tra 0 e 6 anni, un campione di 2971 soggetti rappresentativo di circa quattro milioni di bambini di questa fascia di età4, di cui il 13% risulta frequentare la scuola elementare e il 47% quella dell’infanzia. Su questi bambini vengono rilevati, insieme ad altre numerose informazioni individuali e familiari, alcune variabili riguardanti l’uso delle nuove tecnologie e la fruizione mediale con quesiti differenziati in base all’età dei rispondenti: • per i bambini da 0 a 1 anno: non ci sono dati sulla fruizione mediale; • per i bambini da 2 a 5 anni viene rilevato se, al di fuori dell’orario scolastico, leggono, sfogliano, colorano libri o albi illustrati; 4. I microdati rilasciati da Istat consentono di ottenere stime relative alla popolazione oggetto d’indagine, mediante l’uso dei coefficienti di riporto all’universo. • per i bambini da 3 anni in su vengono rilevati: la fruizione della radio, della Tv, di canali tematici, delle videocassette/DvD, dei videogiochi, dei giochi preferiti, del Pc, alcune informazioni sulle skills riguardanti il Pc, sulla partecipazione fuori dall’orario scolastico a corsi di diverso tipo (tra cui il laboratorio Informatico); • per i bambini di 6 anni vengono rilevati inoltre: l’uso del telefono cellulare (uso e tipo di attività svolte), l’uso di Internet (a casa, sul luogo di studio), tipi di attività svolte con Internet, le letture, la fruizione del cinema, del teatro e di spettacoli vari. Presenteremo sinteticamente alcuni dati emersi da una prima analisi esplorativa e descrittiva delle informazioni riguardanti la fruizione mediale dei bambini da 2 a 6 anni, circa 2200 intervistati rappresentativi di circa tre milioni di bambini residenti in Italia. Piccoli lettori crescono I bambini da 2 a 5 anni sembrano avere un ottimo rapporto con i libri: fuori dall’orario scolastico, le fiabe e le favole, lette presumibilmente dagli adulti che li accudiscono, alimentano la fantasia di una quota molto rilevante (oltre il 70%) dei piccoli, seguiti dalle storie con tante immagini che possono sfogliare anche da soli (59%), dei libri sulla natura e sugli animali (52%), ma anche da libri didattici, per imparare numeri, parole, o comportamenti (40%) (fig. 1)5. Queste prime informazioni sulle “letture in erba”, potrebbero essere oggetto di approfondimento (che esula da questo primo contributo) considerando anche la frequenza d’uso e 5. Tutte le figure si riferiscono a nostre elaborazione dei microdati AVQ 2011. Articoli 57 Figura – 1 Le letture dei bambini da 2 a 5 anni Figura 2 – Quesito sulle modalità di fruizione Fonte: AVQ 2011 - questionario C la modalità di fruizione solitaria o socializzante, come si evince dalla domanda tratta dal questionario utilizzato per rilevarle (fig. 2) A differenza dei più piccoli, tra i bambini di 6 anni, pari a 456 intervistati, rappresentativi di circa 600 mila bambini, la lettura di libri per motivi non scolastici, non sembra essere molto diffusa: interessa solo 3 bambini su 10, che leggono in media 5 libri durante l’anno. Presumibilmente l’ingresso nella scuola elementare e l’impegno richiesto per lo studio dei libri scolastici sottrae loro tempo e interesse per libri di altro tipo. Si può inoltre ipotizzare che proprio a partire da questa età l’uso di altri media cominci a prevalere sui libri nella dieta mediale dei bambini Figura 3 – I bambini e la Tv Figura 4 – I bambini e i canali tematici Piccoli televisivi crescono In linea con il dato riguardante tutta la popolazione, il 94% dei bambini da 3 a 6 anni guarda la televisione nei giorni non festivi. I “non televisivi” sono circa il 6%, ma il 90% guarda la Tv per più di 1 ora al giorno con punte di 10 ore che interessano ben 12 mila bambini (fig. 3). IN•FORMAZIONE 12-2014 58 Figura 5 – I bambini e il Personal Computer Figura 6 – Il Pc nelle diverse età La visione di canali tematici interessa circa 1 milione e 500 mila bambini da 3-6 anni: quasi 7 bambini su 10 che vedono la Tv si intrattengono dunque con canali ad essi dedicati, con una frequenza molto elevata (sempre/spesso) per 4 bambini su 10 (fig. 4). Oltre alla fruizione televisiva, per i bambini di 6 anni l’indagine fornisce inoltre ulteriori informazioni, che in questa sede non vengono prese in considerazione, utili a delineare la loro dieta “culturale” che potrebbe arricchirsi dell’ascolto della radio, della lettura di riviste, di periodici, di quotidiani ma anche del cinema, del teatro e di spettacoli vari. Nativi digitali crescono Il 22% dei bambini da 3 a 6 anni, pari a 500 mila soggetti, ha utilizzato il Pc negli ultimi 3 mesi prima dell’intervista: circa 300 mila ne fanno un uso abituale (qualche volta a settimana) (fig. 5). La propensione ad usare il computer è molto diversificata nelle diverse età e aumenta rapidamente da un anno all’altro: se tra i bambini di 3 anni solo 6 su 100 usano il Pc, tra quelli di 6 lo utilizzano ben 36 bambini su 100. Nel tempo, la diffusione del Pc tra i piccoli non sembra aver subito cambiamenti di rilievo: rispetto ai dati del 2005 si osserva tuttavia un incremento nell’uso del computer tra i bambini di 4 e 5 anni e una diminuzione tra quelli di 6 probabilmente attratti dall’uso di altri media (fig. 6). Analogamente al Pc, anche videogiochi catturano l’interesse dei bambini, occupandone in parte il tempo di vita, accanto agli altri giochi tradizionali preferiti: le costruzioni, i giochi di movimento, le automobiline, le bambole, il pallone, i pupazzi. Più che i giochi di ruolo o di quelli da tavolo, i videogiochi sono preferiti da circa 26 bambini su 100 (fig. 7). Questa preferenza, analogamente a quella del Personal computer, muta rapidamente con l’età: solo 9 bambini su 100 di 3 anni amano i videogames ma tra quelli di 6 anni circa 42 bambini su 100 indica questi giochi tra quelli preferiti (fig. 8). Anche la Rete è, per un numero rilevante di bambini di 6 anni, un ambiente abituale: nel 2011, circa 115 mila bambini di 6 anni Articoli 59 Figura 7 – I giochi preferiti Figura 8 – Videogiochi e computer Figura 9 – Piccoli Internauti crescono Figura 10 – Competenze digitali (19%) hanno usato la Rete nei tre mesi prima dell’intervista e circa 62 mila piccoli internauti lo hanno fatto abitualmente, tutti i giorni o almeno qualche volta a settimana. Questo dato segnala la crescente familiarità dei più piccoli con il cyberspazio, se confrontato con quello di un quinquennio fa: nel 2005 i piccoli internauti erano circa 19 mila e rappresentavano il 3,5% dei bambini di 6 anni, in un quinquennio si è registrato pertanto un aumento di circa 16 punti percentuali. Se si analizzano le competenze digitali di questi piccoli internauti, si evidenzia che, accanto alla prevalente dimensione operazionale, in cui rientrano le competenze cognitive necessarie per la ricerca e la selezione delle informazioni, che ne caratterizza il 60%, si registrano anche skills riconducibili alla dimensione relazionale (Mingo, 2011, p. 233), ossia a quelle abilità necessarie per sfruttare appieno le potenzialità relazionali e interattive offerte dal web 2.0: caricare testi, filmati, eccetera, telefonare via internet, chattare, e così via (fig.10). All’uso di questi media digitali si accompagna poi anche quello del cellulare, utilizzato dal 15% dei bambini di 6 anni, pari a 92 mila bambini, alcuni dei quali, circa 32 mila, dispone di un proprio telefonino (fig.11), utilizzato non solo per comunicare (telefonare 98% e inviare/ricevere messaggi 33%), ma anche per svolgere altre attività: giocare (62%), fotografare (30%), ascoltare la musica (21%). IN•FORMAZIONE 12-2014 60 Figura 11 – I bambini e il mobile Luci e ombre dell’analisi secondaria Lo senario della fruizione mediale dei più piccoli, ricostruito nei precedenti paragrafi, evidenzia le potenzialità dei microdati Istat e le opportunità offerte dall’analisi secondaria. In particolare: 1 – La possibilità di compiere analisi specifiche su ciascuna età, evitando le consuete aggregazioni proposte dai macrodati Istat in cui i bambini da 3 a 5 anni e quelli da 6 a 10 anni vengono analizzati rispettivamente come due insiemi unici. L’analisi disaggregata per ciascun anno di età permette invece di seguire l’evoluzione della fruizione mediale che, come emerso dai dati, registra proprio nei primi anni rapidi cambiamenti. 2 – Il tipo e l’ampiezza del campione utilizzato dall’Istat, nonché il coefficiente di riporto all’universo, consente di riferirsi non solo agli individui del campione, ma anche alla popolazione di riferimento da cui è stato estratto. 3 – La periodicità delle indagini consente di effettuare comparazioni temporali, anche se non per coorti e non per tutte le variabili rilevate. Il campione impiegato non è infatti di tipo panel, pertanto la periodicità an- Figura 12 – Tra comunicazione e altre attività nuale dell’indagine consente, di confrontare ad esempio la fruizione mediale dei bambini di 6 anni di 5 anni fa con quella dei bambini di 6 anni di oggi, ma non consente di tracciare i cambiamenti degli stessi individui nel tempo. Inoltre da una edizione all’altra cambiano alcuni quesiti o vengono introdotti questionari ad hoc in aggiunta a quelli consueti, per i quali non è possibile compiere confronti temporali. 4 – La molteplicità delle variabili disponibili nelle matrici di dati elementari, sia a livello individuale che familiare, consente di effettuare approfondimenti, teoricamente orientati, in relazione al genere del bambino, al contesto territoriale, alla tipologia e al background familiare, economico e culturale, alle risorse materiali disponibili, al capitale umano e sociale, e così via. Si possono in tal modo individuare fattori di influenza sui diversi tipi di fruizione mediale, ma anche, seguendo un approccio multivariato, diete mediali o stili di fruizione che diversificano i più piccoli. A fronte di queste opportunità offerte dall’analisi dei microdati Istat, è però opportuno segnalare il limite comune a tutte le anali- Articoli 61 si secondarie: poiché i dati vengono rilevati per obiettivi conoscitivi diversi da quelli del ricercatore che poi li analizza in altri contesti di ricerca, i microdati possono presentare lacune informative non colmabili se non con analisi primarie condotte ad hoc. Nel caso specifico ad esempio, oltre a variabili utili a specificare i contenuti della fruizione mediale (tipi di programmi Tv, tipi di libri letti, ecc.) mancano informazioni sui bambini da 0 a 1 anno, per i quali l’indagine di tipo estensiva e con strumenti di rilevazione standardizzati non sono adatti a rilevare adeguatamente informazioni pertinenti. Infine non può essere sottaciuto che per i bambini fino a 6 anni sono i genitori a rispondere al questionario6, dunque è loro il punto di vista sulla fruizione mediale dei figli che i dati consentono di ricostruire. Bibliografia • Istat (2010). Navigando tra le fonti demografiche e sociali. Roma: Istat. • Mingo I. (2009). Concetti e quantità. Percorsi di statistica sociale. Acireale-Roma: Bonanno editore. 6. Nell’indagine AVQ i componenti fino a 13 anni compresi non devono essere intervistati direttamente ma in proxy, termine tecnico che indica che dovrà essere un adulto, a rispondere per loro. Fanno eccezione alcune domande sull’utilizzo del pc e di Internet e sull’abitudine al fumo e il consumo di bevande, alle quali possono rispondere direttamente i bambini da 11 a 13 anni. (Cfr Istat: Aspetti della vita quotidiana. Anno 2011 – Guida per l’intervistatore, documento interno). Articoli 62 Mihaela Gavrila [email protected] Dipartimento di Comunicazione e Ricerca Sociale Sapienza Università di Roma Bambini nell’arcipelago delle tv. La multidimensionalità delle esperienze televisive Tutti i grandi sono stati bambini una volta. (Ma pochi di essi se ne ricordano) (A. De Saint – Exupèry, Il Piccolo Principe) L’infanzia non è affatto conosciuta: con le idee sbagliate che si hanno in proposito, più si va innanzi, più cresce la confusione ( J. J. Rousseau, Emilio e dell’Educazione) “Sophie, 2 anni, guarda la tv 1 ora al giorno. Questo duplica le sue chance di avere disturbi di attenzione quando sarà grande. Lubin, 3 anni, guarda la tv 2 ore al giorno, triplicando così le sue possibilità di diventare in sovrappeso. Kevin, 4 anni, guarda programmi per ragazzi violenti come Dragon Ball Z. Questo quadruplica le sue possibilità di avere dei disturbi di comportamento quando inizierà la scuola elementare” (Desmurget, 2012, nostra trad.). È questa la quarta di copertina di uno studio dedicato all’influenza nociva della televisione sulla mente del bambino e sul forte condizionamento dell’intera vita di una persona esposta alla fruizione tv durante l’infanzia. Tale punto di vista estremo trova conferma, sia negli studi neurologici e pediatrici, interessati soprattutto al medium, a prescindere dal contenuto, sia in una certa letteratura mediologica, improntata sull’incidenza della tv nella diffusione dei fenomeni come la violenza, le paure, le insicurezze a vari livelli (vedi, tra gli altri, Brown, 1979, Eron, 1986, Barry, 1993, D’Amato, 1996, Rule, Ferguson, 1999). Il dibattito, iniziato già negli Anni Cinquanta, rimane tuttora aperto e ancora pieno di contraddizioni, almeno nel campo degli studi di sociologia e psicologia della comunicazione. Evidentemente, la contestualizzazione dell’argomento entro le caratteristiche psico-fisiche e socio-attitudinali delle prime fasi dell’infanzia pone un nuovo ordine di problemi, che necessiterebbe di una riflessione multidimensionale, sia a livello quantitativo, in modo da rilevare le dimensioni del fenomeno, sia in termini qualitativi, permettendo di analizzare la qualità dell’esperienza televisiva del bambino e le sue conseguenze positive o negative su comportamento, linguaggio, relazioni, fiducia, disponibilità e capacità di apprendimento. Tuttavia, i dati e la letteratura scientifica disponibile inducono una diversa scelta, spostata soprattutto sull’analisi del “peso” quantitativo che la fruizione televisiva ha nella vita dei bambini in età prescolare. L’universo dell’infanzia, proprio per la sua incidenza a medio-lungo termine su quello che sarà l’orizzonte valoriale, culturale e di stabi- Articoli 63 lità di una società, è da sempre stato particolarmente affascinante per gli studi di sociologia dei processi culturali e comunicativi (tra gli altri, Porro, Livolsi, 1990, Manna, 1982, Morcellini, 1997 e 1999). Tuttavia, mentre alle età della formazione “istituzionalizzata”, quindi al periodo di rigoroso inquadramento scolastico dei bambini, sono stati dedicati nel tempo vari studi, dal profilo inter e trans disciplinare (sociologia dell’educazione, psicologia dell’età evolutiva, psicologia dell’educazione, pedagogia, sociologia della comunicazione, ecc.) una certa area d’ombra, seguita dall’abbandono nella sfera prettamente psicologica o pediatrica, ondeggia sull’età delle prime esperienze socio-culturali e comunicative: 0-6 anni. Certo, nella storia degli studi sull’infanzia, contributi vari arrivano dal territorio della riflessione filosofica, con un punto culturale culminante nella filosofia illuminista di Jean Jacques Rousseau, che dedica all’età della prima infanzia (0-5 anni) una parte rilevante del suo Émile ou sur l’éducation (1762). Si tratta di un attento studio dell’evoluzione della vita umana entro la sua sinergia con gli elementi della natura, con le regole sociali e con sé stessi, che troverà poi riscontri nella maggior parte degli studi psico-pedagogici degli ultimi due secoli, a partire dalla moltitudine di contributi di Jean Piaget, per continuare con la vision sperimentale di Maria Montessori e con tanti altri apporti provenienti sostanzialmente dalla psicologia dell’età evolutiva (ad es. Vygotskij, 1934). Tutte testimonianze sull’importanza strategica di questa fase della vita di un individuo per un’armoniosa crescita. Tuttavia, “i classici” delle teorie sullo sviluppo e sulla “buona educazione” non potevano prevedere quanto sarebbe accaduto in poco più di mezzo secolo di storia dell’umanità, con la nascita e la fortuna di una delle più coinvol- genti forme di comunicazione umana: la televisione. Per contestualizzare la portata del fenomeno, riportiamo solo un ulteriore riferimento, questa volta riconducibile a una ricerca statunitense, che documenta che i bambini tra i 0 e i 4 anni trascorrono in media davanti alla tv circa 3-4 ore al giorno, spendendo così il 30-40% del totale tempo di veglia (immaginando che stiano attivi per 10-12 ore giornaliere). Lo studio, pubblicato da Acta Paediatrica, e realizzato da Dimitri Christakis, medico presso il Seattle Children’s Research Institute e docente dell’Università di Washington, arriva alla conclusione che, almeno fino ai 2 anni, un bambino non dovrebbe essere esposto assolutamente alla tv. Nei primi due anni di esistenza, il cervello triplica la sua dimensione, da una media di 333 grammi a 1 kg. L’aumento delle dimensioni è direttamente correlato alla stimolazione esterna e alle prime esperienze di vita. Le immagini luminose in rapida successione stancano il cervello dei figli, agitandoli e generando disagi, conclude Christakis. Tra i risultati dello studio, che ricostruisce i dati pubblicati in 78 altre ricerche di settore condotti tra il 1983 e il 2008: 1. I programmi televisivi, persino quelli cosiddetti educativi generano problemi di sviluppo e ritardo nell’apprendimento del linguaggio. Il telespettatore-bambino guarda, ascolta, ma non interagisce con altri oratori, non parla, inibendo o ritardando le proprie capacità espressive1. 2. I bambini in età scolare che hanno guardato spesso programmi televisivi nei primi due 1. L’autore dimostra che un gruppo di bambini di età compresa tra 7 e i 16 mesi sottoposto alla visione di DVD speciali per bambini conosceva meno parole rispetto ai bambini che non avevano visto tali programmi. IN•FORMAZIONE 12-2014 64 o tre anni di vita hanno performance più deboli nei test di memoria e lettura, dimostrando anche una più scarsa attenzione e capacità di concentrazione. La lettura richiede uno sforzo maggiore, un impegno di immaginazione, implica una concentrazione superiore rispetto alla semplice visione di immagini. Pertanto, conclude Cristakis, un bambino di 14 mesi può imitare quello che vede in un film, ma imparerebbe molto di più da una vera e propria esperienza2. Eccoci, dunque, sul territorio apocalittico delle ricerche sull’influenza della televisione sullo sviluppo psico-fisico dei bambini. Un territorio particolarmente controverso, che riversa sulla tv le responsabilità di generazioni con problemi di sviluppo intellettuale, risultati scolastici insoddisfacenti, problemi di linguaggio, di attenzione, di immaginazione, di creatività. Tabagismo, violenza, alcolismo, disturbi sessuali, comportamenti alimentari sbagliati, obesità e persino aspettativa di vita sono, dal punto di vista di questi studi, da mettere sul conto di una scorretta dieta televisiva, somministrata in età precoce (Pool, et al, 2000, p. 293-326). Tuttavia, questo filone di studi, piuttosto compatto, con una precisa collocazione in ambito medico, privilegia aspetti specifici di natura fisiologica e neurologica, senza un legame diretto con i contenuti dei media e della televisione in particolare. Per il caso italiano, a queste considerazioni si aggiunge la funzione sociale svolta dalla tv, non a caso considerata parte importante della famiglia e persino “mamma” (vedi “Mam2. Ad esempio, i bambini che hanno imparato il cinese mandarino da un madrelingua, hanno acquisito le competenze linguistiche meglio rispetto al gruppo di controllo di bambini che hanno appena visto filmati con lezioni tenute dalla stessa speaker (Cristakis, 2009, pp. 8-16). ma Rai”), quindi quella che dà vita e mantiene solidi i legami intergenerazionali. La televisione, infatti ha fatto da indiscutibile catalizzatore dell’attenzione di un pubblico multigenerazionale (nonni, genitori, figli), svolgendo indiscriminatamente un ruolo di agenzia di informazione e di socializzazione, che passa attraverso i linguaggi e gli stili espressivi dell’informazione e dell’intrattenimento. In contesti di povertà di stimoli culturali e integrata con altri consumi culturali e mediali e con le istituzioni tradizionali, la tv in Italia si è proposta, soprattutto nelle sue prime fasi di sviluppo, quale vero e proprio vettore valoriale (Morcellini, 2004) e strumento di scansione della quotidianità. Persino la pubblicità, in quella fase di sviluppo, non ha lasciato troppo spazio alle popolari definizioni apocalittiche come cattiva maestra, serva infedele, ladra di tempo (Popper, 1994 e Condry, 1993). Anzi, in piena etica del lavoro e del risparmio, a mandare a letto i figli era sempre l’accomodante baby sitter televisione, con un efficace “Bambini, dopo il Carosello, tutti a dormire!”. E a proposito di remoti, e senza in nulla mancare di rispetto a fronte della specifica autorità di Popper, sarà consentito dire qui che la fortuna del pamphlet intitolato alla cattiva maestra Tv costituisce un indicatore chiaro della decadenza della ricerca e insieme della gratuità e ininfluenza delle posizioni antitelevisive. Il successo di questo testo è indicativo della difficoltà dei ricercatori di far passare un messaggio più sobrio e corretto, rigorosamente ispirato ai dati, anche perché ha alimentato un genere editoriale di successo non meno kitsch delle atmosfere culturali che voleva combattere e flagellare (Morcellini, 1999, p. 9). Certo, i tempi sono cambiati e lo spazio di questo contributo non ci permette di addentrarci adeguatamente nell’ampia e plu- Articoli 65 ridimensionale letteratura scientifica nazionale e internazionale su televisione e minori. Proviamo, tuttavia, a esplorare, seppur sinteticamente, il territorio della programmazione per bambini, così come si presenta nell’Italia del terzo millennio. Nonostante l’andamento positivo dei programmi dedicati a tutta la famiglia, inclusi i bambini piccolissimi, come Chi ha incastrato Peter Pan3, oppure come i vari talent con protagonisti giovanissimi di varie età, i prodotti per bambini e ragazzi nei palinsesti tradizionali sono sempre di meno, contribuendo progressivamente all’invecchiamento delle platee tv. Negli ultimi anni la programmazione della televisione tradizionale ha ridotto sempre di più gli spazi dedicati ai minori. Solo una media di 3,6% della programmazione delle reti tradizionali veniva dedicata, nel 2006, ai cartoni e a trasmissioni ad hoc per ragazzi, mentre risultano particolarmente scarse le trasmissioni educative pensate per il giovane pubblico4. Da un’elaborazione dei dati Auditel (febbraio 2009), a cura di Starcom Italia5, si evince come, a partire dal 2003, anno della nascita di Sky Italia, avviene un processo di transizione dei fruito3. Chi ha incastrato Peter Pan?, prodotto Mediaset con un format Endemol, adattato per l’Italia a partire dal programma statunitense Kids Say, con la conduzione di Paolo Bonolis (nel 2009), riesce a garantirsi una media d’ascolto delle otto puntate di 7.055.234 telespettatori, con uno share del 27,8%. Il programma è andato in onda in tre edizioni condotte da Paolo Bonolis e Luca Laurenti (1999, 2000 e 2009) e una da Gerry Scotti e Michelle Hunziker (2005), con l’adattamento del titolo in Chi ha incastrato Zio Gerry?. 4. Cfr. Rapporto IEM 2007. Una panoramica sul disinvestimento da parte delle reti tradizionali nella programmazione per minori è stata pubblicata da questa rivista nel numero 6 del 2010 (cfr. Gavrila, 2010, pp. 39-42). 5. Starcom Italia, Il futuro della tv dei bambini è nel digitale, www.primaonline.it, 2009. ri bambini e ragazzi dalle reti tradizionali verso la più stimolante e ricca offerta satellitare. Il fenomeno di disaffezione riguarda in particolare le reti pubbliche, con una RaiDue che ha accusato un vero e proprio crollo di share, soprattutto relativo al target 4-7 anni, mentre Italia1, comunque colpita da un decremento delle audience, riesce a mantenere una certa affinità con il target di bambini tra 8 e 14 anni. La7, invece, che nel 2003 contemplava una programmazione rivolta ai minori, ha eliminato del tutto la programmazione destinata a questo target. Questo trend, leggibile già tra i dati del 2009, si amplifica nell’ultimo periodo, nonostante il sostanziale arricchimento dell’offerta tematica digitale terrestre. Rispetto alla staticità del mercato televisivo prolungatasi per più di un ventennio, lo scenario attuale vede un sostanziale spostamento delle platee dagli attori del duopolio televisivo, Rai e Mediaset, verso l’offerta maggiormente targettizzata di Sky. I dati diventano ancora più interessanti guardando la fascia di età più vicina al nostro target: 4-7 anni, dove si osserva una sostanziale perdita di pubblico, nonostante l’investimento in reti dedicate ai piccolissimi, sia da parte della Rai (Rai Yoyo) sia per Mediaset (prima con Italia1, attualmente con la più targettizzata Cartoonito). A fronte di una perdita di 11,23% della Rai e di 21,35% delle reti Mediaset, in un solo anno, Sky guadagna il 27,67% sulla stessa fascia di età. A fare da guida nella scelta della programmazione Sky è stata forse la più decisa strategia di differenziazione dell’offerta per bambini e ragazzi, ben definita tra i numeri dei canali 600, permettendo così a genitori e figli di orientarsi facilmente. A questa caratteristica si aggiunge la scelta di alcuni editori di evitare la pubblicità nei palinsesti per i più piccoli. IN•FORMAZIONE 12-2014 66 Tabella 1 – Bambini in fuga dal mainstream. Le audience Rai, Mediaset, La7 e Sky a confronto (2011 vs. 2012) 2011 Bambini 4-7 anni Bambini 8-14 anni Teens (15-19 anni) Adulti 15-24 anni Adulti 25-34 Adulti 35-44 anni Adulti 45-54 anni Adulti 55-64 anni Adulti 65 anni e oltre Totale Rai 2012 Var.% Totale mediaset 2011 2012 Var.% 2011 La7 2012 Var.% 2011 SkY 2012 Var.% 38.385 34.075 -11,23 -21,35 2.793 2.707 -3,8 30.873 39.417 27,67 76.631 67.714 -11,64 142.403 119.866 -15,83 5.237 5.013 -4,28 78.907 88.434 12,7 64.951 56.063 -13,68 133.267 114.768 -13,88 4.135 4.101 -0,75 55.707 65.617 17,79 -6,99 11.255 10.385 -7,73 110.478 122.481 10,86 -8,89 28.387 25.121 -11,51 162.355 176.828 8,91 369.302 326.207 -11,67 505.556 448.214 -11,34 39.503 35.459 -10,24 271.741 294.361 8,32 9,71 129.021 120.005 61.913 48.696 261.280 234.571 -10,22 229.028 203.985 -10,93 343.504 313.046 511.727 480.504 -6,10 524.426 505.655 -3,58 56.113 50.593 -9,84 266.802 292.716 682.170 665.799 -2,40 510.518 480.062 -5,97 85.186 77.521 -9,00 183.497 206.014 12,27 1.573.110 1.582.004 0,57 886.687 804.410 -9,28 159.863 149.667 -6,38 154.544 185.814 20,23 Fonte: nostra elaborazione su dati Auditel 2011 e 2012 Con la diffusione della Tv satellitare in Italia si apre davanti all’universo giovanile un nuovo panorama televisivo. Si è passati da una limitata programmazione ad hoc dedicata ai minori, attraverso i soli tre canali mainstream (RaiDue, RaiTre e Italia1) e incastrata entro le logiche a volte troppo rigide del palinsesto, a un fiorire di programmi e, soprattutto, di canali espressamente pensati per questo target. Un’offerta che apre la stagione dell’abbondanza, attraverso una pluralità di canali digitali tematici, spesso distinti per fasce di età6, che ha provocato un gra6. Sono 23 i canali per bambini attualmente disponibili sulle varie piattaforme digitali in Italia. Il bouquet del digitale terrestre offre 9 canali per bambini, di cui 5 a pagamento, l’offerta satellitare prevede la presenza di 20 canali in italiano (oltre all’offerta per bambini in altre lingue, su Sky), di cui 18 pay. Nel palinsesto trovano spazio cartoni animati di produzione italiana e europea, fiction e programmi come videogiochi, community. duale trasferimento di contatti dalla Tv generalista a quella satellitare, e negli ultimi tempi, sulla spinta del recente switch off dell’analogico, anche di quella digitale terrestre. Il successo della programmazione per bambini e ragazzi si evince in modo sorprendente dalla graduatoria dei canali più visti proprio sulle piattaforme digitali, satellitare e terrestre, attestando ancor una volta la scarsa lungimiranza dei principali broadcaster, consapevoli solo in parte dell’importanza in termini sociali, culturali e commerciali di un target come quello dei bambini. Sorprendentemente, già nel 2010, sul terzo e rispettivamente quarto posto nei canali digitali satellitari preferiti si trovavano RaiSat Yoyo (attualmente Rai Yoyo) e Playhouse Disney, entrambi canali dedicati ai piccolissimi7. Oltre a garantire una 7. Elaborazioni Starcom Italia su dati Auditel AGB Gennaio 2010 ‐ Fascia 02.00‐02.00; Var % vs omologo 2009. Articoli 67 Grafico 1 – Genitori e figli. La tv che (ancora) unisce Fonte: Auditel aprile 2013 programmazione “protetta”, adatta alle caratteristiche psicofisiche di una fascia di età che ha bisogno di “accompagnamento” cognitivo e attitudinale, soprattutto attraverso proposte di programmazione basate sulla musica, su Grafico 2 – Genitori e figli. Il caso Rai Yoyo Fonte: Auditel aprile 2013 un linguaggio più pacato e sul gioco, questi canali diventano anche un vero e proprio business per gli editori, riuscendo a convogliare nei propri palinsesti sia i piccoli fruitori sia i loro genitori o nonni. I dati disponibili ren- IN•FORMAZIONE 12-2014 68 Grafico 3 – Genitori e figli. Il caso Cartoonito (Mediaset) Fonte: Auditel aprile 2013 dono difficile una precisa ricognizione della fruizione televisiva da parte dell’intera platea che interessa la nostra ricerca. Auditel, infatti, considera nelle proprie rilevazioni solo la popolazione a partire dai 4 anni. Basta, tuttavia, osservare l’andamento delle curve di ascolto relative sia alla platea televisiva complessiva, sia a canali come Rai Yoyo e Cartoonito, per comprendere quanto l’esposizione alla tv interessi anche le fasce d’età precedenti. Sarebbe sorprendente, altrimenti, la presenza davanti a tale programmazione di adulti con figli tra 0 e 3 anni e la particolare coerenza tra le curve che rappresentano i vari casi analizzati (cfr. grafici 1, 2, 3). Si tratta di stili di consumo televisivo già documentati dalla ricerca sociale, confermando così il tendenziale utilizzo della tv per fini di socializzazione, soprattutto in alcuni momenti della giornata. La programmazione per bambini, dunque, diventa strategica non solo ai fini di intrattenimento ed educazione delle nuove generazioni, ma anche in quan- to familiare, e dunque, particolarmente efficace come mediatore nelle relazioni tra le generazioni. Già negli anni Novanta, Mario Morcellini, usando un’elaborazione su dati Istat del 1995, dimostrava il carattere socializzante della tv (Morcellini, 1999, cit. p. 80) e quest’abitudine viene riconfermata dalle varie fonti più recenti analizzate. Oltre ai dati Auditel già esposti, anche l’indagine Censis 2011, ripresa nel “Libro Bianco Media e Minori” dell’Agcom (2013), conferma che il 68,9% dei bambini di 4-5 anni guarda la tv prevalentemente in compagnia dei genitori e il 20,1% con i nonni. Solo il 4,7% dei bambini, dimostra la ricerca, viene lasciato solo d’avanti allo schermo (Censis, 2011). Si conferma, dunque, che la cosiddetta “fruizione congiunta” non è un’infondata astrazione degli studiosi dei media, ma una realtà che testimonia la funzione relazionale che la tv continua a mantenere almeno rispetto alle fasce di età più piccole. Ovviamente, tale orientamento non sfugge Articoli 69 ai pubblicitari, ben consapevoli dell’incidenza dei figli piccoli nella scelta e nell’acquisto di prodotti audiovisivi e multimediali8. Per concludere, riprendiamo nuovamente la voce “degli altri”, in fattispecie di una ricerca realizzata dall’Accademia delle scienze francese nel 2013 (Bach, J-F., Houdé, O., Tisseron S., Léna, P., 2013). Frutto delle riflessioni di psicologi specialisti per l’infanzia, psichiatri, neuroscienziati, il rapporto cerca di far luce su una serie di convinzioni, alcune vere, altre false, e sui cosiddetti neuro-miti, costruiti intorno all’esposizione massiccia di bambini e adolescenti davanti agli schermi di qualsiasi tipo. E mentre tablet, computer e altri schermi vengono presentati come “facilitatori” dello sviluppo psico-fisico e persino sociale dei bambini, l’unica incolpata è l’eccessiva televisione senza “accompagnamento” dei genitori. Sommando i dati, tuttavia, e pensando alle alte percentuali di fruizione in compagnia restituite dai dati Censis, si potrebbe persino sostenere, parafrasando un testo già citato in questo contributo che, tutto sommato, la tv non fa male ai bambini. Bibliografia • AA. VV. (2013), Libro bianco “Media e Minori”. Autorità per le Garanzie nelle Comunicazioni, Roma. • Bach J-F., Houdé O., Léna P., Tisseron S., (2007). “Rapports sur l’usage excessif des éscrans”. Emotional and Behavioral Ef8. Frequentemente, gli spot vengono infantilizzati, per raggiungere i più piccoli. Infatti, il 41,3% dei genitori intervistati dal Censis dichiara che il figlio di 4-5 anni ha molta o abbastanza influenza nella scelta e nell’acquisto di contenuti audiovisivi e multimediali (Censis 2011). • • • • • • • • • • • fects of Video Game and Internet Overuse – AMA Council on Science and Public Health Report. Bach J-F., Houdé O., Tisseron S., Léna P. (2013). L’enfant et les écrans. Un avis de l’Académie des sciences. Paris: Le Pommier. Barry G. L. (1993). Children and Television: images in a changing sociocultural world. Sage Publication: Thousands Oaks. Brisset C., (2002). Les enfants face aux images et aux messages violents diffusés par les différents supports de communication: rapport par la Défenseure des enfants. Brown R. (1979). Children and Television. Londra: Macmillan. Charren P., Gelber A., Arnold M. (1994). “Media, children and violence: a public policy perspective”. Pediatrics, 50(5), pp. 631-637. Christakis D. 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Under eight circoscrive il focus di attenzione della nostra riflessione, partendo dalla ricerca condotta dalla Kaiser Family Foundation nel 2011 sull’esperienza mediale dei bambini da zero a otto anni. La riflessione relativa all’incidenza dei linguaggi tecnologici sui processi di socializzazione appartiene a una recente tradizione sociologica inaugurata, fra gli altri, dai ricercatori della Scuola di Toronto. A partire da Marshall McLuhan, una serie di studi e ricerche ha focalizzato l’attenzione sul rapporto fra linguaggio, cultura e sviluppo di strutture mentali tenendo conto della inevitabile ritorsione sui processi di costruzione della cultura e dell’esperienza sociale (Ong, 1982, De Kerkhove, 2008). La rapida evoluzione dei mezzi di comunicazione richiede un continuo aggiornamento teorico ed empirico, tenendo conto delle metamorfosi dei linguaggi digitali e degli stili di fruizione degli utilizzatori. Così studi recenti (Meyrowitz, 1995, Turkle, 2011, Simone, 2012, Ferri, 2010, Rivoltella, 2012), ripercorrendo le teorie classiche di orientamento psicopedagogico, da Piaget a Vigotsky, da Bruner a Gardner, sottolineano in un’ottica interdisciplinare come le tecnologie digitali contribuiscano alla formazione di un nuovo tipo di intelligenza, definita in alcuni casi simultanea (Simone, 2012), frutto della percezione visuale multimediale e di un’organizzazione reticolare e immediata delle informazioni. Una riflessione di tale portata non può prescindere da un approfondimento del background pedagogico, psicologico e neuroscientifico, funzionale per un’analisi complessa di questo fenomeno. Il rapporto fra processi cognitivi, alterazioni cerebrali e usi sociali della tecnologia è stato da sempre un tema sensibile nel dibattito pubblico per comprendere non solo gli effetti dei media sul comportamento individuale, ma anche le cause delle conseguenti connessioni cognitive ed emotive. Se i media stabiliscono un rapporto di influenza con le dinamiche di ragionamento del bambino, orientano anche quelle percettive, rappresentative e interpretative della realtà, nonché gli atteggiamenti e i comportamenti sociali in età più adulta. Ma quale è la natura di questa influenza? Quali sono le tecnologie più incisive sui processi di apprendimento dei bambini? A che età i media sono fruiti per la prima volta? Qual è la loro intensità di utilizzo? Che tipo di contesto famigliare accompagna tale fruizione? Nella ricerca sociologica, l’osservazione e l’analisi dei comportamenti culturali, partendo da dati statistici secondari, è certamente un’azione preliminare a qualsiasi disegno della ricerca che voglia svolgere una ricognizione di sfondo e strutturare un percorso di verifica delle ipotesi teoriche, o voglia semplicemente rico- 71 IN•FORMAZIONE 72 12-2014 Articoli 73 L’indagine della Kaiser Family Foundation del 2011 è circoscritta al contesto americano (USA) e ha coinvolto 1.384 bambini di età inferiore agli otto anni, grazie alla mediazione dei genitori intervistati. Sebbene non sia stata verificata la rigorosità della metodologia adottata e della strutturazione dello strumento di rilevazione rispetto agli obiettivi dell’indagine, i risultati rappresentano un interessante input di riflessione sociologica. Il focus della ricerca si è concentrato sul tipo e sul grado di penetrazione dei media nelle abitudini culturali dei bambini, analizzando le variabili contestuali che diversificano la relazione. Nello specifico, i media considerati nella ricerca sono stati raggruppati in quattro tipologie: dispositivi mobili (smartphone o cellulari, ipad, tablet), piattaforme televisive, personal computer e videogames. Per ogni tipologia sono state indagate tre dimensioni: 1. L’accesso; 2. Il tipo di utilizzo; 3. Il tempo di fruizione. Ciascuna è stata descritta partendo dalle variabili sociodemografiche precedentemente presentate, rispetto alle quali saranno illustrati i principali risultati della ricerca. Gap di accesso La dimensione strutturale relativa all’accesso tecnologico indaga la dotazione mediale delle famiglie coinvolte nella ricerca, enfatizzando come la componente relativa al reddito, nel contesto americano, rappresenti una variabile discriminante per l’accesso tecnologico e per il suo continuo aggiornamento tecnico. Questo aspetto inevitabilmente condiziona lo sviluppo di opportunità culturali e conoscitive per le nuove generazioni (Nussbaum, 2001), in quanto da essa dipende la scelta del- la fonte informativa e culturale delle famiglie (capabilities esterne) e la numerosità delle stimolazioni emotive e cognitive per il bambino (capabilities interne); in tal modo si contribuisce da subito alla radicazione dei presupposti di un gap culturale intra-generazionale quasi fisiologico, che in futuro non può far altro che aumentare. Dall’analisi dei dati della Kaiser Family Foundation, la TV è certamente il medium maggiormente diffuso nelle famiglie americane, sebbene non sia mai isolato, ma corredato da altri devices tecnologici (vedi tab. 1). La dotazione mediale si diversifica in base al reddito secondo un rapporto direttamente proporzionale fra dotazione tecnologica ed economica. I media, rispetto ai quali il gap di accesso risulta particolarmente significativo, sono Internet (con 50 punti percentuali di scarto), il computer (43 punti di scarto), lo smartphone (30 punti di scarto) e la tv via cavo (27 punti di scarto). Questa considerazione è facilmente intuibile e rilevabile, in quanto la maggiore disponibilità economica famigliare consente l’acquisto e la dotazione di quei media di nuova generazione più costosi, ma che richiedono allo stesso tempo un impegno cognitivo più attivo da parte dell’utente. Così se queste tecnologie più interattive espongono maggiormente l’utente al rischio fruitivo, ne consentono anche una maggiore stimolazione per l’apprendimento, con rilevanti implicazioni a livello di sviluppo mentale ed affettivo, rispetto a chi non ha opportunità di accesso. Gap fruitivo La dotazione infrastrutturale non è l’unico fattore interveniente nella stimolazione co- IN•FORMAZIONE 12-2014 74 Grafico 1 – Accesso mediale per reddito (%) Tabella 1 Accesso % TV 98 DVD player 80 computer 72 TV via cavo 68 Internet 68 smarthhone Videogiochi console 67 computer smartphone 41 DVD player Video ipod 21 TV via cavo E-book reader 9 TV set Internet tablet 2 eReader 3 video ipod tablet 8 Fonte: Kaiser Family Foundation, 2011 gnitiva ed emotiva del bambino. Una famiglia può disporre di una buona base tecnologica, ma non regolarne o orientarne l’utilizzo per i propri figli. L’abuso fruitivo del medium oppure la non regolazione, o accompagnamento informativo e culturale, comportano una maggiore difficoltà per i genitori di limitarne le potenziali conseguenze, spesso imprevedibili, connesse alla fruizione. Tali conseguenze potrebbero sfociare nel medio e lungo periodo in comportamenti sociali indesiderabili, spesso emotivamente sbilanciati e privi di autoregolazione (Galimberti, 2009). In tal senso, l’uso mediale in età prescolare rischia di assumere connotazioni negative sul versante educativo e della socializzazione. Per questo motivo, è auspicabile che la dotazione mediale sia accompagnata da un background culturale che favorisca ed orienti il processo di integrazione dei media nelle abitudini sociali dei bambini. Partendo dai dati proposti dalla Kaiser Family Foundation, la lettura (intesa come farsi leggere) è certamente il consumo più diffuso 92 42 17 15 10 34 57 27 91 48 72 53 >75.000 $ 80 99 98 <30.000 $ nella prima infanzia che rimane costante e in leggera crescita fino agli 8 anni. I media audiovisivi si inseriscono subito dopo la lettura nella dieta culturale dei bambini seguiti, sebbene con uno scarto percentuale rilevante, dal PC, dai videogames e dai dispositivi digitali interattivi (tablet, smarthphone, ecc.). Osservando la tabella 2, è possibile notare come al secondo anno di età si generi una improvvisa intensificazione di utilizzo mediale di tutti i dispositivi tecnologici, generando una fruizione multitasking e multi schermo, il cui primato è detenuto dalla televisione, fruita in quantità maggiore anche rispetto alla stessa lettura. Questo primo dato diventa interessante nell’analisi sociologica in quanto, se approfondito e verificato, fornisce input di riflessione sul rapporto fra linguaggio audiovisivo e stimolazione cognitiva, cerebrale, linguistica ed emotiva fin dal primo anno di età. A partire dai due anni si assiste a un rapido processo di mediatizzazione della socializzazione, con potenziali ripercussioni dal punto di vi- Articoli 75 Tabella 2 – Uso generico dei media Guardano la tv Leggono/si fanno leggere Guardano DVD Usano il PC Giocano con la console/videogames Usano game player, cell., ipod, ipad x giochi app tot 89% 90% 85% 59% 0-1 anni 66% 76% 52% 4% 2-4 anni 96% 91% 92% 53% 5-8 anni Età media del I utilizzo 96% 9 mesi 96% 5 mesi 97% 11 mesi 90% 3,5 anni 51% 3% 44% 81% 3 anni, 11 mesi 44% 10% 43% 60% 3 anni, 9 mesi Fonte: Kaiser Family Foundation, 2011 sta emotivo, cognitivo e comportamentale, oggetto di studio e di analisi del progetto di ricerca Inf@nzia DIGI.tales. Partendo da queste informazioni generiche, la Kaiser Family Foundation ricostruisce l’età media del primo utilizzo tecnologico dei bambini secondo la seguente cronologia: i bambini si avvicinano alla lettura dal quinto mese di età, fruiscono la tv a 9 mesi e i DVD a 11 mesi. I media audiovisivi agiscono sulla stimolazione cognitiva contemporaneamente all’ascolto del racconto di libri o fiabe da parte dei genitori. I devices più interattivi, che richiedono un coinvolgimento e un’attenzione più significativa da parte del bambino fruitore, sopraggiungono invece nella dieta mediale dopo i tre anni secondo il seguente ordine: uso generico del pc, dei dispositivi mobili e dei videogames. L’inserimento del tatto attraverso i dispositivi mobili come senso aggiuntivo alla vista e all’udito, quali strumenti conoscitivi della realtà, rappresenta un ulteriore aspetto interessante da considerare nei processi di esplorazione e familiarizzazione del mondo circostante, nonché di rappresentazione della realtà rileggendo le stesse teorie piagetiane (1970). A riguardo, The American Accademy of Pediatrics (2011) attraverso le proprie ricerche presen- ta un atteggiamento allarmista e dunque prudente rispetto alla fruizione di dispositivi mediali in età precoce. L’Associazione suggerisce di limitare, se non addirittura vietare, l’uso della TV da parte del minore al di sotto dei due anni, per lasciare spazio a una prima forma conoscitiva di contatto con la realtà sociale e con i genitori. Tale relazione è infatti considerata fondamentale per sviluppare competenze trasversali quali il problem solving e la creatività. Per quanto riguarda i videogames, altrettante suggestioni derivano dall’American Psychiatric Association (2011) secondo cui il videogioco sviluppa il senso del controllo, ma comporta anche una perdita della cognizione dello spazio e del tempo e rischia di diventare disfunzionale se rafforza la perdita del senso della realtà. Tale condizione in ogni caso è sempre associabile ad altre variabili socioculturali della famiglia, o psicologiche pregresse dei singoli soggetti, che meriterebbero un approfondimento qualitativo. Rispetto al gap fruitivo, la variabile del reddito famigliare rappresenta un fattore incidente di diversificazione della socializzazione immediata (Morcellini, 1993). Se ad esempio i programmi televisivi sono di libero accesso a tutti, compresi quelli di orientamento educati- IN•FORMAZIONE 12-2014 76 Tabella 3 – Uso di piattaforme educative % Guardano programmi educativi in TV 23% Usano giochi educativi/software pc 8% Giocano con games educativi con cell., ipod, ipad 7% Grafico 2 – Uso di piattaforme educative per reddito (%) Fonte: Kaiser Family Foundation, 2011 vo, l’utilizzo di giochi al pc o attraverso i dispositivi mobili, sempre di natura educativa, diventano una prerogativa di quei nuclei famigliari che vantano una disponibilità infrastrutturale ed economica. In tal senso la dimensione del reddito incide sulle opportunità di accesso e di fruizione dei diversi dispositivi tecnologici, rafforzando gap intra generazionali di natura cognitiva e meta-cognitiva: le disponibilità di accesso e di fruizione tecnologica offrono molte opportunità di stimolazione della struttura cerebrale e del tessuto mentale dei bambini, stimolandoli a sviluppare diverse forme di osservazione e diagnosi, analisi e interpretazione della realtà rispetto a chi non ha l’opportunità di sollecitare le proprie meta-competenze (cfr. tab. 3 e graf. 2). Rispetto a quest’ultimo dato, la Kaiser Family Foundation introduce un nuovo fenomeno culturale emergente e dilagante, ovvero la nascita di una nuova forma di gap relativo alle app scaricate sui dispositivi mobili orientati ai bambini. Secondo questi dati, il 29% dei genitori scarica applicazioni educative sul cellulare per i propri figli, mentre il 38% non sa nemmeno che cosa sia un’app. Nella prima categoria rientrano soprattutto quei genitori con un reddito alto (superiore ai 75.000 dollari), mentre nella seconda rientrano famiglie con un reddito basso (inferiore ai 30.000 dollari) – cfr. graf. 3 –. Quest’ultimo dato sposta il focus di attenzione su un ulteriore fattore incidente sulla mediatizzazione in età prescolare: la rilevanza della mediazione degli adulti durante la fruizione in termini di background culturale, educativo e socio-relazionale. La disponibilità genitoriale a fornire strumenti di stimolazione sociale e cognitiva al bambino, anche attraverso le app del mobile, e il livello di aggiornamento genitoriale ai cambiamenti socioculturali, soprattutto per quello che concerne le tecnologie comunicative, interviene nella edificazione di un diverso atteggiamento mentale e di una altrettanta diversa predisposizione comportamentale dei bambini alla fruizione mediale. Gap educativo Il terzo livello di gap rispetto al quale strutturare un percorso di ricerca di orientamento Articoli 77 Grafico 3 – Genitori che scaricano app vs genitori che non sanno cosa sia un’app (%) Fonte: Kaiser Family Foundation, 2011 sociologico sulla socializzazione in età prescolare è quello educativo. In questo caso, i modelli trasmissivi generalmente utilizzati all’interno del nucleo famigliare, ibridati con la dotazione tecnologica disponibile a casa e con lo stile fruitivo mediale degli adulti, possono condizionare il processo di apprendimento del bambino e la conseguente costruzione delle competenze e meta-competenze, nonché dei processi cognitivi e delle reazioni emotive. A riguardo un interessante spunto di riflessione in questo ambito per un’indagine più approfondita, deriva dalla mappa teorica sui modelli educativi proposta in Millennial kids. Growing up in a boundless world, secondo cui dalla combi- nazione del modello educativo proposto in un contesto famigliare e lo stile di consumo tecnologico abituale derivano diversi profili di atteggiamenti dei bambini sia rispetto ai contenuti mediali, sia rispetto ad altri fenomeni socioculturali (cfr. schema 1). Secondo tale mappa, l’atteggiamento diffidente del bambino nei confronti della realtà sociale e mediale deriva da un modello educativo orientato prevalentemente al controllo, spesso autoritario e poco orientato all’autoespressione dell’autonomia interpretativa del bambino, alla creatività e originalità di pensiero. “Diffidente” è l’aggettivo utilizzato per descrivere il comportamento cultu- Schema 1 Famiglie tv-centriche diffidenti coinvolti Orientamento al controllo accomodanti fiduciosi Famiglie multi-piattaforme Fonte: Kaiser Family Foundation, 2011 Orientamento alla condivisione IN•FORMAZIONE 12-2014 78 rale del bambino e rimanda al tipo di forma mentis che viene a strutturarsi nel bambino e che condizionerà il suo grado di apertura e di esplorazione conoscitiva rispetto all’alterità e alla diversità anche relazionale. Questo tipo di atteggiamento è fortificato dalla scarsa dotazione tecnologica famigliare e da un consumo culturale prevalentemente monomediale, che limita al bambino, dal punto di vista strutturale, qualsiasi canale di accesso all’informazione e alla conoscenza. Se la dotazione strutturale famigliare fosse multipiattaforma, i genitori si troverebbero continuamente nella situazione di contrattare e regolare il consumo rispetto alla dotazione tecnologica, che consente un accesso facile e autonomo al bambino anche senza la loro approvazione. Il clima famigliare sarebbe caratterizzato dalla incessante contrattazione o dallo scontro fra orientamenti etico educativi restrittivi e l’accesso multimediale allineato al bisogno e al desiderio conoscitivo dei bambini. Un modello educativo improntato sulla condivisione e lo scambio certamente incentiva lo sviluppo di un atteggiamento mentale più propositivo e attivo da parte del bambino. Il grado di esplorazione e di apertura in questo caso sarebbe determinato sempre dalla dotazione tecnologia e dalla tipologia di consumo mediale condiviso in famiglia. Così quando la dotazione e il consumo culturale è monomediale e centrato prevalentemente sulla tv, l’atteggiamento sviluppato dal minore è “coinvolto” nei confronti della realtà, in virtù del forte condizionamento del modello educativo. Detto in altri termini, in questa situazione il nucleo famigliare dispone di capabilities interne (per utilizzare la terminologia della Nussbaum) ma non possiede quelle esterne per garantire il benessere conoscitivo e dunque mentale del bambino. Nel caso invece di dotazioni multipiattaforma, l’atteggiamento sarebbe prevalentemente “fiducioso” in quanto continuamente sollecitato da una molteplicità di stimoli conoscitivi fortificati, condivisi e discussi all’interno della famiglia. Conclusione Questa prima riflessione sociologica, costruita partendo da alcuni dati di ricerca della Kaiser Family Foundation rappresenta uno dei molteplici input da cui partire per inquadrare e strutturare un percorso di ricerca esplorativa sull’universo infantile in termini di fruizione dei dispositivi mediali. Molte di queste riflessioni vanno certamente riadattate al contesto di indagine Italiano, necessitano altresì di un’integrazione multidisciplinare teorica, in grado di far dialogare il comportamento mediale con la sollecitazione mentale, la contemporanea stimolazione relazionale e mediazione culturale, il conseguente sviluppo cognitivo e affettivo e le eventuali implicazione dal punto di vista psicologico e medico. Bibliografia • American Academy Pedriatrics (2011). Media use by children yuonger than 2 years. Council on Communication and media, Pediatrics official Journal of the American Academy of Pediatrics, volume 128, Number 5, pp. 1040-1045 • Bruner J., (1993). 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Etnografia dello stile mediale dei minori in età prescolare Approcci di indagine per l’analisi della relazione tra media e minori Media e minori costituiscono due termini chiave di un campo di riflessione e di analisi complesso e articolato, all’interno del quale è possibile individuare una molteplicità di oggetti di studio e di questioni problematiche che un ricercatore sociale può scegliere di esaminare e approfondire attraverso l’utilizzo di quadri interpretativi differenti che fanno capo ad approcci di indagine e prospettive di analisi specifiche. La scelta di utilizzare un approccio di analisi piuttosto che un altro dipende, plausibilmente, da come si concettualizza la relazione tra media e minori e da quali aspetti di questa relazione si pongono al centro della riflessione e si scelgono come elementi privilegiati di esame specifico, aprendo la strada a molteplici possibili direttive di ricerca che è possibile sintetizzare brevemente nella seguente suddivisione (Airoldi, 2012): 1. l’analisi dell’offerta di prodotti comunicativi destinati al pubblico dei minori nel più ampio panorama dell’industria culturale (tipi e caratteristiche dei materiali prodotti e distribuiti per i minori); 2. l’analisi del consumo di prodotti comunicativi sviluppato direttamente dai minori, anche al di fuori dei prodotti che gli sono appositamente destinati (a quali materiali, prodotti i minori finiscono per rivolgere la loro attenzione concretamente leggendo, osservando, ascoltando, digitando ecc.); 3. l’analisi del pubblico dei bambini – sul piano delle motivazioni, dinamiche e modalità di fruizione, come degli usi specifici dei testi mediali – come parte anagraficamente determinata del più ampio pubblico dei media; il focus è sullo studio delle specificità delle modalità di consumo delle fasce più giovani del pubblico dei media (0-6 anni) e sulle differenze determinate dalla variabile età nell’analisi delle caratteristiche del pubblico; 4. lo studio degli effetti dei media con una particolare attenzione ai media digitali che sono sempre più presenti nei contesti familiari e di socializzazione primaria dei minori; la sempre crescente digitalizzazione della dieta mediale è oggetto di studio in relazione alla condizione di particolare vulnerabilità legata ai processi, in corso, di costruzione dell’identità personale e di sviluppo della competenze adeguate per l’inseri- Articoli 81 mento futuro del bambino nel tessuto socio-culturale di riferimento, prestando particolare attenzione al rischio del mancato sviluppo di una strumentazione critica adeguata; 5. lo studio dei modelli e degli stereotipi sui bambini costruiti e proposti dai testi mediali, nei termini dei tipi di rappresentazione dell’infanzia e/o dell’ adolescenza veicolata dai programmi Tv, dai film, dai fumetti, dalla pubblicità, da internet. dai social media ecc.); 6. l’analisi delle leggi e dei codici formali e deontologici ideati per regolamentare e controllare l’esposizione dei minori ai messaggi dei media (istituzione di fasce orarie protette, codici di autodisciplina, censura) nonché il trattamento, soprattutto da parte dell’informazione, delle vicende che li vedono protagonisti spesso “al centro” di programmi di attualità e di informazione al grande pubblico. Attualmente esistono tradizioni di studio e di ricerca empirica su ciascuno degli oggetti di analisi citati nella mappatura appena illustrata che sono stati messi a fuoco, di volta in volta, in modi e con accenti differenti dalla riflessione sull’industria culturale in termini di domanda e di offerta; dalle ricerche di mercato interessate alla composizione del pubblico dei vecchi e nuovi media; dalla ricerca valutativa sugli effetti deboli o forti, a breve o a lungo termine; dalla content analysis dei testi e dei contenuti dei prodotti mediali con una sempre crescente attenzione a quelli digitali; dall’etica della comunicazione e dalla deontologia professionale fino all’analisi culturale e, quindi, all’etnografia dei reali comportamenti di fruizione dei bambini in contesti spazio-territoriali e socio-culturali specifici. Gli analisti dei media che si sono interessati del rapporto complesso e multi sfaccettato tra media e minori hanno sviluppato un’expertise di approcci metodologici specifici, una “cassetta degli attrezzi” articolata da utilizzare e personalizzare in base ai contesti e agli interrogativi di indagine nell’ambito di prospettive di inquadramento disciplinare di tipo sociologico, ora pedagogico, ora psicologico, ora più latamente comunicativo. Nel panorama complesso degli approcci di indagine ideati e sperimentati per l’analisi del rapporto media/minori sembra opportuno avviare una riflessione metodologica di stampo critico sull’opportunità d’uso di tipi specifici di approcci e metodologie di analisi in relazione agli obiettivi cognitivi e alle ipotesi di ricerca, di volta in volta sviluppate, all’interno di disegni di ricerca centrati su media e minori. L’obiettivo più ampio di questa riflessione è quello di stimolare il dibattito sulle metodologie di analisi della relazione tra media e minori, al fine di sollecitare i ricercatori ad una concettualizzazione puntuale dei fattori e delle variabili che si intendono indagare in un percorso di ricerca e alla costruzione di strategie di indagine “adeguate al problema” (Dewey,…) e, quindi, in grado di rispondere validamente agli interrogativi principali che si aprono intorno alla quaestio media-minori e ideando disegni di ricerca “a misura” di bambino. In particolare, in questo saggio, si focalizzerà l’attenzione su una sottodimensione importante del rapporto tra media e minori, ovvero quella relativa agli effetti della dimensione familiare e socio-culturale dei bambini in età prescolare rispetto alle possibilità di sviluppo di una dieta mediale, in grado di condizionare lo sviluppo delle competenze (di base e trasversali) e, di conseguenza, il processo di costruzione e radicamento dell’identità personale dei bambini. IN•FORMAZIONE 12-2014 82 Su questo problema di ricerca, l’approccio etnografico e l’analisi culturale sembrano aver sperimentato delle possibilità di analisi e di approfondimento interessanti, in grado di esaminare le modalità di costruzione degli stili mediali dei bambini all’interno dei contesti familiari e sociali quotidiani, in cui si apprendono e si mettono in pratica specifici comportamenti di fruizione dei media e si sviluppano le competenze indispensabili per la costruzione dell’identità personale e l’inserimento nella realtà sociale. Stili mediali, capitale sociale familiare e formazione dell’identità personale dei bambini Prima di illustrare nello specifico le caratteristiche dell’approccio etnografico come prospettiva di analisi particolarmente adeguata allo studio dei comportamenti di fruizione mediale dei bambini all’interno dei contesti principali di socializzazione familiare e sociale, sembra opportuno tenere presenti due scenari di fondo, indispensabili premesse della riflessione metodologica successiva. La prima considerazione si riferisce alla concettualizzazione che si condivide in questa sede dell’idea di “stile mediale” dei minori (cfr. Cannizzo, 1995; Faggiano, 2007), inteso come un concetto complesso e multidimensionale che può essere ricondotto all’insieme delle modalità di fruizione personalizzata dei media – digitali e non – strutturato da ciascun soggetto fin dall’età prescolare sulla base dell’influenza del comportamento mediale della famiglia di origine nonché delle dinamiche di interazione e comportamentali come delle tradizione educative dei genitori; variabili che inevitabilmente si mixano e orien- tano le scelte di fruizione e di consumo mediale dei bambini, inducendo all’acquisizione di uno stile mediale personale che andrà, in ipotesi, a produrre effetti rilevanti anche sullo sviluppo di competenze (di base e meta) del bambino e, di conseguenza, sulla costruzione della sua identità personale e sociale. In quest’ottica, si inserisce la seconda considerazione di sfondo al saggio in questione, riferita allo studio delle variabili sociali che possono influenzare la costruzione degli stili mediali dei bambini e, in seconda battuta, incidere sul processo di formazione delle competenze e dell’identità dei futuri giovani. Il rapporto articolato e complesso tra stile mediale del bambino, competenze sviluppabili e formazione dell’identità costituisce un terreno di ricerca particolarmente importante, ma al contempo difficile e spinoso, proprio a causa della necessità di mettere a punto e sperimentare sul campo modelli teorici e quadri interpretativi complessi (Rogers, 2008) in grado di esaminare i molteplici potenziali fattori di influenza che, nel contesto familiare e sociale quotidiano di socializzazione e di vita dei bambini, possono avere degli effetti di breve e/o lungo termine fino ad orientare il processo di sviluppo dell’identità personale e a condizionare le capacità dei minori di interpretare la realtà e di agire quotidianamente nei contesti sociali di vita. Lo sfondo descritto offre una chiave di lettura e di analisi critica che consente di collocare i media tradizionali e digitali in una prospettiva corretta rispetto alle posizioni contrapposte, e spesso richiamate in termini eccessivamente dicotomici, degli apocalittici e degli integrati. Non sembra utile propendere per l’uno o l’altro dei due fronti, piuttosto sembra urgente chiedersi fino a che punto e in che modi specifici i mezzi di comunicazione di massa riesco- Articoli 83 no a condizionare processi di sviluppo e di crescita che vedono come protagonisti i minori in relazione con gli adulti/educatori. Più precisamente, ciò significa considerare i media contemporaneamente sotto diversi aspetti e quindi come agenti di socializzazione, ora complementari ora concorrenziali con quelli tradizionali, a partire dalla famiglia e dalla scuola; come parte fondamentale del contesto in cui si sviluppa la formazione dell’identità del bambino, con tutto quanto ne consegue in termini culturali, sia per l’adulto che per il minore, e come risorsa socioculturale comune legata inevitabilmente alla disponibilità di altre risorse: economiche-di accesso, socio-comportamentali, affettive ed educative. Aspetti che possono essere ricondotti al concetto di capitale sociale familiare, che si ritiene in ipotesi un fattore chiave per la messa a punto di modelli di analisi dello stile mediale dei bambini, in grado di analizzarne anche l’influenza in termini di formazione dell’identità personale e sociale. Il riferimento al concetto di capitale sociale, come variabile fondamentale per l’analisi della formazione dello stile mediale del bambino e della sua influenza sul processo di sviluppo delle competenze indispensabili per inserirsi “con successo” nel tessuto socio-culturale di vita, si connette alla natura di risorsa offerta dai new media al gruppo familiare. Si tratta di una risorsa che può essere utilizzata per avviare nuovi terreni di socializzazione, nuovi ambiti di incontro intergenerazionale, nuovi percorsi di reciproca valorizzazione. I new media difatti costituiscono, un vero e proprio ambiente, uno spazio sociale virtuale, una porzione simbolica del nostro mondo in cui si compiono esperienze che coinvolgono l’identità personale e di gruppo, i valori, le regole della convivenza. È ormai condivisa, nel dibattito su media e minori, l’idea che i media digitali pongano al- la famiglia un nuovo impegno educativo (oltre che autoeducativo), ovvero quello di insegnare ai più piccoli come muoversi dentro il mondo dei new media, giudicando tutto quello che incontrano e trattenendo solo ‘ciò che vale’. L’approccio etnografico come strategia di analisi per contestualizzare la formazione dello stile mediale dei bambini da 0 a 6 anni L’analisi della relazione tra capitale sociale familiare, stile mediale e sviluppo di competenze e identità dei bambini risulta un obiettivo di ampio respiro che esce dai confini di questa trattazione, ma che è opportuno esplicitare come intento più ampio che fa da sfondo al ragionamento sviluppato. In questa sede ci si concentra sull’adeguatezza dell’approccio etnografico come strategia di analisi utile per la rilevazione e comprensione del processo di formazione dello stile mediale del bambino da 0 a 6 anni, fascia di età che, come è noto, si riferisce a soggetti in piena socializzazione e formazione identitaria, e quindi con una strumentazione critica e di ragionamento non ancora giunta a maturazione. Si aggiunga a questo, il fatto che i bambini sotto i tre anni non possiedono ancora una capacità di espressione tramite il linguaggio in grado di consentirgli di essere “interrogati” sulle pratiche quotidiane di consumo mediale e culturale, e che anche dai 3 ai 6 anni la padronanza della lingua non è comunque giunta ad un livello tale da consentire ai bambini di formulare risposte chiare rispetto alle domande di un questionario. In generale, l’approccio della survey research e la tecnica dell’intervista con questionario non sembrano costituire i metodi più ade- IN•FORMAZIONE 12-2014 84 guati alle indagini focalizzate sulle scelte e le preferenze in termini di dieta mediale dei bambini, che costituiscono un target specifico, che occorre osservare all’interno dei propri contesti “naturali” di vita (come la famiglia o la scuola), in una prospettiva che ha le sue origini nella tradizione di ricerca della “Scuola ecologica” di Chicago1. L’individuazione di un approccio di ricerca in grado di studiare efficacemente le modalità di formazione e di acquisizione dello stile mediale del bambino, è operazione preliminare imprescindibile per procedere, in un secondo momento, all’analisi dell’influenza del capitale sociale familiare sullo sviluppo di competenze e sulla costruzione dell’identità dei bambini. Gli studi della communication research hanno condotto ad un’acquisizione metodologica importante che qui sembra opportuno richiamare: la relativizzazione di ogni ricerca al suo contesto. Si tratta di un’acquisizione che è stata fatta propria dalla più attuale ricerca microsociologica e qualitativa e che ha spinto alla sperimentazione sempre più diffusa dell’approccio etnografico e degli studi culturali per l’analisi del consumo mediale dei bambini. Infatti, di recente, molti ricercatori hanno scelto di abbandonare finalità ‘universali’ e campioni statisticamente rappresentativi secondo la tradizione (per quanto autorevole) della survey research e dell’analisi quantitativa, a favore di campio1. L’approccio etnografico viene utilizzato per la prima volta in Sociologia nel primo ventennio del ’900, per opera di alcuni docenti e ricercatori che lavoravano presso il Dipartimento di sociologia istituito dal 1892 nell’università di Chicago. I ricercatori della scuola di Chicago diedero vita ad un ricco programma di ricerche che si proponeva, principalmente, di analizzare “in diretta” i fenomeni urbani, osservandoli nei luoghi dove nascevano e si svolgevano (Park, 1916). ni meno estesi o di studi di caso (Hin,…), su cui effettuare ricerche mirate, che più che alla generalizzazione dei risultati tendono alla ricchezza qualitativa del dato, e che sono in grado di individuare delle tendenze, degli orientamenti, da verificare poi in altre situazioni e contesti similari. Proprio all’interno di questa prospettiva si colloca l’approccio etnografico, di matrice anglosassone, che anche in Italia ha portato i primi contributi nell’ottica di una osservazione del consumo mediale ancorato allo specifico contesto in cui avviene, dando luogo a un filone di studi ad hoc noto come “etnografia del consumo mediale”. È acquisito che la scelta della strategia di ricerca più adeguata allo studio di ciascuno degli aspetti della relazione tra media e minori è strettamente legata alla definizione delle ipotesi di indagine, agli obiettivi generali e specifici e al contesto della ricerca. Occorre, quindi, riflettere sulle caratteristiche specifiche sul piano tecnico-metodologico dell’etnografia per valutare l’opportunità di utilizzarla ai fini dell’analisi della formazione e acquisizione degli stili mediali dei bambini in età prescolare. Etnografia del consumo mediale dei bambini Gli studi condotti in base all’approccio etnografico si fondano sull’utilizzo della metafora della “cultura”, in base alla quale, i contesti sociali relazionali sono analizzati come entità culturali e simboliche e la ricchezza della vita organizzativa può essere colta attraverso modelli di ricerca interpretativi e interattivi (Gagliardi, 1995). Negli ultimi due decenni, il metodo etnografico è divenuto, tra le opzioni di Articoli 85 matrice qualitativa, quello più frequentemente adoperato e accreditato per l’analisi della cultura mediale dei bambini contestualizzata negli ambienti quotidiani di vita. Recentemente Marzano (2006) afferma che, attualmente, l’etnografia può essere definita come un metodo di ricerca sociale caratterizzato dall’utilizzo dell’osservazione partecipante, ovvero dal fatto che il ricercatore sceglie di studiare la realtà sociale attraverso la presenza fisica e l’osservazione diretta sul campo di indagine delle attività ordinarie di un gruppo sociale. In questo lavoro, in generale l’etnografia è definita come un approccio d’indagine utile ad analizzare contesti sociali di diverso tipo (come relazioni, professioni, organizzazioni, mondi ecc.) in base ad una prospettiva “non scontata”, ad “un certo sguardo” direbbero Dal Lago e De Biasi (2002) con l’ausilio di un vasto bagaglio di tecniche di ricerca, tra cui anche, ma non solo, l’osservazione partecipante. Inoltre, recentemente, la ricerca etnografica nel campo degli studi su media e minori è stata combinata con strumenti interpretativi eterogenei come l’analisi conversazionale (Boden, 1994), la semiotica (Barley, 1983) e lo studio funzionalista delle culture organizzative (McDonald, 1988). La diffusione dell’approccio si accompagna a dibattiti piuttosto accesi sull’utilità effettiva dell’etnografia nel rapporto media e minori, sulla sua capacità di dare ordine e coerenza agli studi qualitativi in questo campo e di costituire un’alternativa convincente all’analisi quantitativa. Come afferma Van Maanen (1979), l’approccio etnografico consente a chi lavora sul campo di utilizzare la cultura dell’ambiente in osservazione (nei termini del patrimonio di conoscenze socialmente acquisite e condivise dai partecipanti dell’ambiente) per spiegare le re- golarità osservate in certe attività umane. La ricerca etnografica è caratterizzata da “un lungo periodo di residenza e di studio ravvicinato in una comunità ben definita, in cui si utilizza un’ampia gamma di tecniche di osservazione, quali un prolungato contatto faccia a faccia con i membri di gruppi locali, la partecipazione diretta ad alcune attività di gruppo, nonché un’enfasi più pronunciata sul lavoro intensivo a contatto con informatori che non sull’impiego di dati di carattere documentario o ricavati da inchieste”. Comune a tutti coloro che scelgono la ricerca etnografica è l’interesse per l’osservazione dell’azione sociale, l’attenzione a “ciò che le persone concretamente fanno” nella loro vita quotidiana in specifici contesti, l’importanza delle pratiche di interazione sociale e dei significati, dei “sensi” da esse prodotti (Marzano, 2006). Ciò sembra estremamente importante ai fini di un’analisi orientata ad esplorare fattori in ipotesi rilevanti rispetto alla costruzione dello stile mediale del bambino come le tradizioni e le abitudini educative dei genitori, le dinamiche relazionali, lo stile di vita familiare, che possono essere indagate adeguatamente solo se “situate” negli specifici contesti in cui si praticano e si attuano concretamente. In altre parole, si tratta di fattori su cui sembra meno indicato “porre domande” ma sia necessaria l’osservazione nei contesti naturali di messa in atto delle relative pratiche. Le pratiche di vita quotidiana possono essere rilevate efficacemente se situate nei contesti in cui sono naturalmente e concretamente messe in atto. E ciò è tanto più vero se l’obiettivo è quello di capire come queste pratiche familiari possono influenzare e contribuire a strutturare le pratiche dei bambini, anche con riferimento specifico alle scelte di consumo culturale e alla formazione dello stile mediale. IN•FORMAZIONE 12-2014 86 D’altra parte, le caratteristiche dell’approccio etnografico ben si adattano a questo obiettivo cognitivo e possono essere sintetizzate nei seguenti punti: •l’esserci, lo stare fisicamente sul campo che comporta uno studio longitudinale, esteso lungo un periodo prolungato di tempo, fondamentale per ricostruire la storia familiare e di crescita del bambino e portarne alla luce le specificità rispetto al contesto di socializzazione primaria; • oltre ad esserci, è opportuno, in uno studio etnografico, raccogliere tutte le informazioni possibili sul contesto di vita e relazionale, analizzandone anche i documenti, i manufatti, gli oggetti, in quanto parte delle espressioni visibili della dimensione culturale e di significato dei bambini; • l’accesso al campo e l’instaurazione di relazioni fiduciarie con gli “informatori” costituisce un elemento di grande rilevanza per l’analisi del contesto di formazione dell’identità personale e sociale del bambino; • il ricercatore etnografo deve costantemente cercare un equilibrio tra il distacco totale e il coinvolgimento pieno rispetto alla realtà osservata; • la raccolta minuziosa di tutto ciò che si osserva in quaderni di appunti è la base per la successiva elaborazione di un resoconto finale. Per le caratteristiche illustrate, è possibile considerare l’ “etnografia” come un approccio di ricerca adeguato a descrivere e a comprendere il funzionamento dei contesti quotidiani, relazionali e sociali di vita dei bambini attraverso l’osservazione delle pratiche effettive della vita ordinaria di un gruppo sociale. Si tratta di un approccio, ovvero di un modo generale di guardare una realtà, fatta di micro-cosmi continuamente modificati dalle interazioni e interpretazioni dei membri che li compongono, orienta- to da quel “certo sguardo”, di cui parlano Dal Lago e De Biasi (2002), che consente di inquadrare gli eventi ordinari in una prospettiva non scontata e di problematizzarli. L’osservazione partecipante costituisce la tecnica privilegiata di analisi dei micro-contesti della vita sociale, ma non l’unica. La raccolta di documenti formali e informali, le storie di vita, le interviste focalizzate, il focus group come l’analisi secondaria di dati statistici possono risultare tecniche utili nell’economia di un percorso di ricerca, quale quello etnografico, contraddistinto da una costante “imprevedibilità” (Marzano, 2006). L’etnografia può rappresentare un approccio adeguato allo studio dei contesti di formazione e radicamento delle scelte mediali dei bambini in quanto si fonda su una concezione di cultura organizzativa associabile a quel “sistema di senso, pattern di significati solo apparentemente invisibili” (Piccardo, 1995, p. 84), che si esprimono non solo attraverso le forme del linguaggio assunte dallo scambio intersoggettivo, ma anche attraverso le forme simboliche e gli artefatti del processo di vita della famiglia (i prodotti in sé, il disegno degli spazi di vita e delle case, l’arredamento, il modo di vestirsi, i riti e le cerimonie ecc.). È proprio attraverso questo campo simbolico che si realizza il processo di costruzione culturale; le forme espressive della vita delle micro-organizzazioni familiari sono contemporaneamente i “luoghi” dove la cultura si cristallizza ed è rintracciabile, e i mezzi attraverso i quali è tramandata, perpetuata e fatta evolvere. In questa prospettiva, come afferma Van Maanen (1979), sarebbe irrealistico pensare esclusivamente di interrogare i bambini o i loro familiari quanto sarebbe difficile “chiedere ai pesci di descrivere l’acqua nella quale quotidianamente nuotano”, dato che probabilmente i pesci non hanno mai fat- Articoli 87 to caso al tipo di acqua, né si sono mai chiesti di cosa sia composta. Allo stesso modo, chi vive in un contesto intimo come il nucleo familiare di un bambino, probabilmente, non è cosciente della cultura che ha costruito, che sta facendo propria e che orienta ogni suo gesto e azione; il sistema culturale di riferimento degli attori sociali, incarnato nel gergo proprio del nucleo in cui vivono e degli artefatti, nei prodotti di chi vi opera non può emergere da semplici risposte a domande contenute in un questionario preconfezionato e standardizzato, né da risposte razionalizzate a domande aperte. Gli studiosi della cultura organizzativa in accordo con tale posizione, hanno criticato aspramente i ricercatori che hanno cercato di “misurare” le culture familiari attraverso questionari psicometrici precostituiti, senza un preliminare investimento etnografico sul campo.2 Al fine di cogliere il significato delle microculture familiari è necessario studiare il contesto in cui esse si generano collocandosi tra gli attori e nella posizione dell’attore leggendo la realtà “dal suo punto di vista”. Le più recenti riflessioni degli studiosi afferenti all’approccio etnografico nelle organizzazioni si fondano sulla necessità di lavorare “sul campo”, di ricostruire gli “ongoing processes”3 (Weich, 1979) in una logica di ricerca storica 2. Rousseau (1991) ha realizzato un inventario di questi strumenti tra cui è possibile ricordare: il cultural gap survey di Kilman e Saxton del 1983, l’organizational culture inventory di Cooke e Lafferting del 1989, che misura le norme comportamentali categorizzate in dodici scale, e l’organizational culture profile di O’Reilly, Chatman e Caldwell del 1988, che misura cinque categorie di valori. 3. Secondo Weick è interessante la comprensione delle azioni e del loro significato così come si manifestano non solo nel loro contesto sociale, ma anche nel loro divenire attraverso la ricostruzione degli “ongoing processes” (1969, p. 35). che Pettigrew (1979) ha definito processuale, longitudinale e genetica. Bibliografia • Airoldi P. (2012). EU Parents Online. L’importanza del contesto familiare. I ragazzi e la rete. La ricerca EU Kids Online e il caso Italia. Brescia: La Scuola. • Barley S.R. (1986). “Semiotics and the study of occupational and organizational culture”. 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Quelli in età prescolare sono considerati soprattutto consumatori dipendenti e in divenire, appartenenti, a seconda dei casi, a mercati primari, secondari, d’influenza o futuri (Ironico 2010). Se sono rare le circostanze in cui i bambini al di sotto dei cinque anni costituiscono un mercato primario (perché difficilmente possono farsi carico per intero di un processo d’acquisto o comprender1. Come quella di nativi digitali, net babies è un’espressione che ha l’ambizione di definire un gruppo di individui in relazione all’epoca mediale in cui sono nati, a prescindere da altre differenze certamente più importanti e significative. È, dunque, un epiteto parziale e in buona misura discutibile. ne le fasi e le norme di funzionamento2), nella maggior parte dei casi essi sono considerati un mercato secondario, quello in cui le scelte vengono effettuate da altri soggetti, generalmente i genitori. Ciò è particolarmente evidente nella primissima infanzia, quando i destinatari dei beni, pur essendo portatori di specifiche esigenze di consumo, non hanno le abilità motorie e cognitive (come la manipolazione fine, la locomozione e il linguaggio) per poterle soddisfare autonomamente. Si tratta soprattutto del periodo che va dalla nascita ai dodici mesi circa d’età, ma anche del successivo, quello in cui i bambini continuano a essere destinatari di beni quali capi d’abbigliamento, giocattoli, prodotti per l’igiene, cibo o viaggi, per i quali non vengono coinvolti nei processi d’acquisto. 2. Ciò non accade quasi mai prima dei 7 anni, perché è necessario acquisire alcune conoscenze e abilità per poter effettuare una transazione economica, come saper usare il denaro, riconoscerne il valore, avere nozioni elementari su marche e prodotti, comprendere il ruolo del personale di vendita, ecc. Queste competenze si acquisiscono più in là con l’età e quando i genitori mandano i propri figli nei negozi del vicinato a comprare beni di prima necessità come il pane o il latte o prodotti di basso valore economico, quali gelati, patatine, caramelle o piccoli gadget (Ironico 2010). Articoli 89 In ogni caso, sono poche le scelte familiari che non prevedono alcuna influenza da parte dei più piccoli. Pur non partecipando direttamente alle decisioni dei genitori, i bambini possono orientare gli acquisti, manifestando le proprie preferenze – verbalmente dopo un anno di vita, tramite pianti, espressioni di piacere o di disgusto nei primi mesi – o condizionandole indirettamente con la loro semplice presenza. Con l’arrivo di un figlio, infatti, una parte della spesa familiare un tempo destinata ad altro è dirottata verso i prodotti per l’infanzia, cambiano il tipo di attività svolte nel tempo libero, la destinazione per le vacanze e i consumi culturali e i cibi consumati (Ironico 2010). Non stupisce quindi che molte risorse del marketing e della comunicazione pubblicitaria siano investite per quei bambini considerati consumatori di domani, ma anche influenzatori importanti, che è bene coltivare sin da piccoli (Linn 2005). Il marketing per l’infanzia Per raggiungere e conquistare i più piccoli sono state elaborate specifiche strategie di marketing e comunicazione. Tra queste, è piuttosto diffusa la prassi che tende ad associare l’ambito ludico ai prodotti più vari. È il caso del gift in pack, ossia l’inserimento di un gioco omaggio in una confezione, come per gli ovetti Kinder, la patatine Salati Preziosi, le merendine del Mulino Bianco o l’Happy Meal di Mc Donald (Ironico 2010). Ma è anche ciò che si verifica nel trans toying, ossia la trasformazione di prodotti d’uso comune in giochi, come accade per biscotti, caramelle o patatine a forma di lettere o animali, per spazzolini da denti, shampoo o bagnoschiuma trasformati in giochi, o per stivali, ombrelli o mantelle cui sono applicati oc- chi e bocca, come se fossero personaggi di fantasia (Linn 2005). Anche la miniaturizzazione dei beni per adulti, sia nel formato che nel nome, è funzionale a raggiungere e conquistare l’attenzione dei bambini. È ciò che avviene per scarpe e capi d’abbigliamento di dimensioni ridotte o per prodotti alimentari quali i Piccolini, i Tegolini, le Crostatine, i Saccottini di Mulino Bianco e Barilla o i Sofficini di Findus (Ironico 2010). Altra strategia è quella della age compression, che risponde al desiderio dei più piccoli di sentirsi e sembrare grandi e consiste nel destinare ai bambini prodotti indirizzati a preadolescenti o ragazzi, come i cosmetici, le scarpe con i tacchi o, in generale, capi di abbigliamento con lo stesso stile e il medesimo taglio di quelli delle collezioni per adulti (Linn 2005). Inoltre, sono piuttosto diffuse (e discusse) quelle strategie comunicative che invitano i bambini non solo a desiderare alcuni prodotti, ma anche a chiederli insistentemente, come nel caso del nag factor o pester power. Si tratta di una prassi rintracciabile in quelle pubblicità che chiedono ai figli di reclamare ossessivamente un prodotto, finché non lo otterranno (Zanacchi 2004). Infine, è abbastanza consolidata la pratica di adattare i messaggi a mamme e bambini, cercando di persuadere entrambi con promesse differenti e diversamente attraenti: di qui campagne basate sul cosiddetto dual messaging, che promuovono uno stesso prodotto alimentare, per esempio, dicendo alle mamme che è ricco di vitamine e ai bambini che è buonissimo (Schor 2005). Le strategie elaborate e utilizzate sono varie, articolate e piuttosto raffinate, a dimostrazione di un investimento solido e importante nella comunicazione rivolta a un target percepito come interessante e redditizio. IN•FORMAZIONE 12-2014 90 Bambini e pubblicità I bambini in età prescolare hanno caratteristiche peculiari, che li rendono particolarmente sensibili alle strategie descritte e alle modalità comunicative della pubblicità in generale. Solo dopo i 6 anni, infatti, colgono la distinzione tra uno spot e il resto della programmazione e dopo gli 8, quando si completa il loro sviluppo cognitivo, sanno riconoscere l’intento persuasivo della pubblicità (Zanacchi 2004). Pur diventando via via più cinici e consapevoli, però, non sono necessariamente meno influenzabili. Basti pensare a una ricerca di qualche anno fa di un osservatorio dell’agenzia McCann Erickson, secondo la quale 19 bambini su 100 di età compresa tra i 7 e i 12 anni ritenevano che il “bastoncino” fosse un tipo di pesce a cui seguivano, nella classifica delle specie conosciute, il delfino, lo squalo, gli “anellini fritti” e il “merluzzo surgelato”. E se 25 bambini su 100 definivano il Paradiso come il posto in cui vive Dio, 22 pensavano che fosse un luogo dove si beve il caffè, come in una nota serie di spot (Panarese 2009). Così, se uno dei principali scogli che oggi un messaggio pubblicitario deve affrontare è l’insofferenza o il rifiuto del destinatario, quando questo è un bambino le cose vanno diversamente: i più piccoli, infatti, sono entusiasti fruitori della pubblicità, tanto che una ricerca americana del 1996 dal titolo Kid Screen, svolta su bambini dai 4 ai 12 anni, dimostrava che più dell’85% affermava di non cambiare canale quando andavano in onda gli spot, ma anzi di guardarli con interesse (Lombardi 2010). Poiché però, soprattutto per i bambini in età prescolare, le capacità cognitive non sono ancora pienamente sviluppate, la corretta elaborazione di un annuncio è un processo difficile. Di qui la tendenza dei pubblicitari e ricorrere a escamotage come la ridondanza, la preva- lenza delle immagini sulle parole, la centralità della musica, l’uso di animazioni o la presenza di personaggi fantastici e scenari fiabeschi, funzionali a rendere il messaggio più attraente per i più piccoli (Ibid.). Sulle strade da seguire per attrarre e persuadere i bambini all’acquisto, comunque, esiste un letteratura piuttosto ricca e certamente più solida di quella volta a indagare gli effetti di tali investimenti nella precoce socializzazione al consumo che precede il tempo della scuola. Un pubblico “in crescita” Con l’intenzione di comunicare al meglio e nei giusti canali ai bambini tra 0 e 5 anni, aziende e agenzie di comunicazione ne registrano da tempo le abitudini mediali e i consumi culturali. Così, sono piuttosto diffusi, soprattutto negli Stati Uniti, convegni come gli annuali “Advertising and promoting to KIDS” o “Forza dei bambini”3, dove il termine forza ha un connotato economico, o pubblicazioni come “Il mercato statunitense dei prodotti per bambini dai sei agli otto mesi, dai nove ai trentasei, e per bambini in età prescolare. Vol. 1-3”, che nella sua seconda edizione costava 6000 dollari (Ironico 2010). Anche in Italia, tra le ricerche sistematiche su tale fascia d’età e la sua dieta mediale si rintracciano quasi esclusivamente quelle di istituti di indagini di mercato come Eurisko, che ai bambini tra 2 e 5 anni dedica una parte del report annuale Kids, Teens and Post-Teens (224 anni). Quella di Eurisko (2010) è un’ana3. Il convegno, organizzato dall’azienda Kid Power Exchange, prevede diverse sezioni come “Forza dei bambini cibo e bevande”, “Forza dei tweens”, “Forza dei teenagers”. Articoli 91 Figura 1 Fonte: Eurisko 2010 lisi che punta alla misurazione dei mercati di riferimento, dei comportamenti di consumo e dell’esposizione ai mezzi di bambini e ragazzi. Un’utile fonte di informazione sulle diete mediali e i consumi culturali di un cluster quasi del tutto ignorato dalle scienze sociali e della comunicazione. La fascia d’età tra i 2 e 5 i anni è indagata tramite un forum online, cinque colloqui in profondità e quattrocento interviste faccia a faccia con le mamme. Tra i risultati più interessanti, si rileva la centralità della Tv nelle esistenze dei pre-school e la sua forte capacità attrattiva: nel 2010, per esempio, la guarda quotidianamente il 64% di chi ha tra i 2 e i 5 anni (ma anche l’86% di chi ha tra i 6 e i 10 anni e l’84% dei ragazzi tra gli 11 e i 13)4, e lo fa in diversi momenti della giornata, come la mattina mentre ci si prepara per andare a scuola, nel tardo pomeriggio e durante i pasti (cfr. fig. 1). Nelle intenzioni della famiglia, la Tv dovrebbe essere poca e selezionata, con una fruizione centrata nel pomeriggio per i più piccoli 4. Più contenuta è l’esposizione ad altri mezzi come la radio e il Web. E se l’uso della Rete non è registrato da Eurisko per i pre-school, si rileva comunque che la dotazione di pc e connessione a internet nelle famiglie con bambini di diverse fasce d’età cresce radicalmente negli ultimi dieci anni. IN•FORMAZIONE 12-2014 92 Figura 2 Fonte: Eurisko 2010 e nell’orario pre-serale per i più grandi. Non a caso, i genitori dichiarano di esercitare un controllo sull’esposizione dei figli al mezzo televisivo, sia limitando i tempi di fruizione, sia scegliendo i programmi della fascia serale e della Tv generalista. Tuttavia, nel pomeriggio e sui canali tematici per l’infanzia il controllo sembra blando o assente. Per quanto riguarda la pubblicità, sebbene apparentemente i bambini si dichiarino infastiditi dall’interruzione dei loro programmi, Eurisko rileva che ne rimangono spesso affascinati: tutti ricordano e sanno descrivere diversi annunci e qualcuno afferma con orgoglio di avere avuto l’occasione di partecipare ad alcuni spot. Sette bambini su dieci apprezzano la pubblicità televisiva (più di quella su altri mezzi) e gli spot in cui i protagonisti sono coetanei, soprattutto se rappresentati in situazioni “normali” in cui rispecchiarsi, come quando “giocano” (16%), “fanno i birichini” (12%) o sono “insieme alla famiglia” (10%). In generale, i più piccoli considerano la pubblicità una forma di intrattenimento, tanto che preferiscono quella “buffa, che fa ridere” (73%) (Cfr. fig. 2). Sono questi dati che fanno riflettere. Non solo perché dimostrano l’attenzione per i bambini in età prescolare di marketing e pubblicità, pri- Articoli 93 ma ancora che delle istituzioni pubbliche o politiche, ma anche perché svelano la naturale attrazione dei più piccoli per un mezzo e una forma di comunicazione che hanno un ruolo importante nel loro processo di crescita e formazione, al fianco (e talvolta al posto) di altre agenzie di socializzazione. D’altronde, la stessa ricerca di Eurisko citata rivela che nella fruizione della Tv, la funzione di orientamento e filtro della famiglia è blanda o limitata ad alcuni momenti: i bambini vedono spesso da soli i programmi pomeridiani e raramente ne parlano con i genitori. Dunque, le situazioni e i personaggi della televisione e della pubblicità restano oggetto di un’elaborazione prevalentemente solitaria. È evidente, quindi, che l’addestramento al consumo (e non solo) comincia già dalla prima infanzia, per opera di quei media che sembrano avere un importante funzione anticipatoria e supplente dei processi di socializzazione, accanto alla famiglia e prima della scuola. Bibliografia • Berti A.E., Bombi A.S. (1988). The Child’s Construction f Economics. New York: Cambridge University Press. • Bauman Z. (2008). Consumo, dunque sono. Roma-Bari: Laterza. • Eurisko (2010). Kids, Teens and Post-Teens (2-24 anni), su www.gfk.com/it • Gunter B., Furnham A. (1998). Children as Consumers: A Psychological Analysis of the Young People’s Market. London: Routledge. • Ironico S. (2019). Come i bambini diventano consumatori. Roma-Bari: Laterza. • Linn S. (2005). Il marketing all’assalto dell’infanzia. 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Articoli 94 Claudia Matera [email protected] Dipartimento di Storia dell’Arte Sapienza Università di Roma Andrea Ingrosso [email protected] Dipartimento di Comunicazione e Ricerca Sociale Sapienza Università di Roma La fruizione dei beni culturali nelle smart cities: definizioni, problemi e metodi Smart City: definizione e significato Il termine “Smart City” è legato a un numero imprecisato di attività e di progetti direttamente correlati al territorio urbano, erroneamente considerati il mezzo per assegnare a una città o a un territorio ben definito l’etichetta di “smart”. Il concetto di Smart City non ha un significato e una definizione univoca, possiamo trovare le sue origini dal concetto altrettanto difficile da definire “ubiquitous computing”. L’espressione fu utilizzata da Mark Weiser nel 1988 per definire l’imminente era tecnologica, un’era in cui in cui i dispositivi tecnologici e le interazioni dell’utente con essi diventano trasparenti e si fondono con le nostre vite: «next comes ubiquitous computing, or the age of calm technology, when technology recedes into the background of our lives.» L’era dell’ubiquitous computing è supportata da un ecosistema tecnologico in cui le città possono crescere e svilupparsi ma in cui la tecnologia non è sufficiente per definire il concetto stesso di Smart City. La definizione di città intelligente trova all’interno della comunità scientifica un dibattito sempre vivo e acceso, coinvolgendo numerosi ricercatori con risultati diversi o contrastanti, direttamente influenzati dal background scientifico/accademico. Contribuisce poi l’uso inflazionato del termine da parte dei media e della comunità politica internazionale. Un approccio interessante alla definizione di Smart City è fornito da Komninos (2002) che mostra quattro possibili significati. Il primo si riferisce alla disponibilità di un gran numero di apparati elettronici e applicazioni digitali per la comunità e la città, che dovrebbe servire per con-fondere il termine smart con le idee circa il ciberspazio, il digitale, l’informazione e la conoscenza della città. Il secondo significato è l’utilizzo delle tecnologie per una reale trasformazione della vita e del lavoro all’interno del territorio in cui operano, con una ricaduta diretta della tecnologia sull’utente e sulle attività quotidiane prendendo in esame le necessità reali e non le definizioni “politiche”. Il terzo significato di città intelligente risiede nel modo con cui l’informazione integrata e le tecnologie del- Articoli 95 la comunicazione, nelle città, uniscano insieme le tecnologie dell’informazione e le persone per favorire l’innovazione, l’apprendimento, la conoscenza e la risoluzione dei problemi. Nel quarto una Smart City è un territorio dove le tecnologie e le persone si muovono insieme per migliorare i processi di innovazione, di formazione e di conoscenza. «Smart cities (are) territories with high capacity for learning and innovation, which is built-in the creativity of their population, their institutions of knowledge creation, and their digital infra-structure for communication and knowledge management.» Smart cities learning La definizione di Smart City fa riflettere sull’opportunità di creare un percorso formativo di condivisione dell’esperienza fisica e di contenuto e stimola la riflessione sui metodi e le tipologie formative da adottare. Ad esempio i “location-based serious games”, un’esperienza interattiva che ha caratteristiche di un gioco con finalità educative. Secondo Daniela Nicklas (2001) i location-based games sono divisi in 3 categorie: - Mobile games, in cui i giocatori si conoscono in occasione del gioco; - Location aware games, che sfruttano la localizzazione dell’utente; - Spatially aware games, realtà virtuali in cui i giocatori interagiscono con riproduzioni di opere. Un esempio di location-based serious game è O’Munaciedd, un location aware game ambientato a Matera. Il gioco coinvolge bambini tra i 9 e i 13 anni in una caccia al tesoro sulla cultura della Basilicata, tra gli edifici e le chiese di Matera. I bambini usano gli smartphone per consultare la mappa della città, leggere indovinelli e trovare gli indizi utili a proseguire il gioco. Un’interessante funzione del gioco si attiva quando il giocatore si trova vicino a un punto di interesse: sullo schermo dello smartphone appare un indovinello che crea l’attenzione su quel sito e invita ad ammirarlo. Approfondiamo ora l’approccio del playful learning. Playful learning: un approccio per coinvolgere i bambini nei percorsi formativi Nell’asilo è attraverso il gioco che i bambini sviluppano la propria immaginazione, curiosità e creatività ed esplorano il mondo che li circonda. Anche i musei per bambini e dedicati alle scienze adottano il gioco e, recentemente, anche i musei di arte hanno introdotto il gioco nei cosiddetti laboratori didattici. Il gioco qui ha una funzione molto chiara: è l’espediente per raggiungere lo scopo formativo perché è in grado di mantenere l’attenzione di gruppi di bambini per la durata del laboratorio didattico generando entusiasmo e coinvolgimento. Per esempio, per la mostra “Ah, che Rebus!”1 si sono organizzati due laboratori didattici per due gruppi distinti di bambini: dai 4 ai 6 anni e dai 7 agli 11. Gli scopi formativi sono: leggere un rebus; comprendere un’opera d’arte; creare dei propri rebus. I bambini sono dunque stimolati a os1. La mostra si è tenuta presso l’Istituto Nazionale per la Grafica di Roma dal 16 dicembre 2010 all’8 marzo 2011 e ha come tema i rebus presenti nelle opere d’arte del Rinascimento italiano, dai disegni di Leonardo da Vinci, fino al 2010, con opere di video arte e street art. IN•FORMAZIONE 12-2014 96 servare le immagini nell’insieme e in dettaglio, a fare connessioni tra immagini e parole e viceversa, per riuscire a risolvere i rebus e crearli. Il mediatore (punto di riferimento simile a un insegnante), stimola la riflessione sulle parole (ad esempio nella parola tesoro, per esempio, si trova la parola oro, due immagini distinte ma anche concettualmente legate). Per comporre i propri rebus, infine, i bambini hanno a disposizione: carta e matite, plastilina, oggetti come animali di pezza e ritagli di giornale. Al termine del laboratorio i bambini interpretano tutti insieme un rebus davanti ai genitori, invitati a risolverlo, utilizzando il proprio corpo, quindi i suoni, la mimica e il movimento. L’ultima attività di tipo collaborativo è molto importante perché contribuisce a raggiungere il secondo scopo formativo: fissare la conoscenza acquisita e avere a disposizione un’attività replicabile in futuro. Opportunità offerte dalle nuove tecnologie L’adozione delle applicazioni per smartphone e la realtà aumentata da parte dei musei era indicata nel NMC Horizon Report: 2012 Museum Edition come immediata diffusione, contestuale ai servizi localizzati. Lo stesso report nell’edizione del 2013 prevede in un paio di anni l’uso della tecnologia nei laboratori didattici per i bambini. A oggi, comunque, vi sono molteplici esempi di attività svolte dai dipartimenti di educazione dei musei che adottano le nuove tecnologie. Lo Smithsonian Institute, per esempio, ha pubblicato un gioco per smartphone e tablet dal titolo “goSmithsonian Trek” per visitare un museo alla volta partecipando a un unico gioco. Degno di nota è il gioco “Find the Future” ambientato nella New York Public Library il 20 maggio 2011. I giocatori hanno passato una notte intera nella biblioteca a consultare le centinaia di opere conservate nella biblioteca per scrivere, all’alba, una storia basata sull’esperienza condotta. Introduciamo ora un altro elemento: la narrazione. Il valore della narrazione per aumentare la sensazione di immersione nei bambini La narrazione costituisce un fondamentale strumento di comunicazione e formazione. Come sostiene Crawford (2005) «storytelling isn’t an idle leisure activity that humans developed to while away the hours: it evolved for serious purposes, as a necessary component in the development of human culture. Without storytelling, humans could never have communicated complex information. Storytelling isn’t merely characteristic or even definitive of the human condition, it’s absolutely necessary to the existence of human culture». Risulta quasi banale ricordare l’utilizzo dello storytelling come strumento pedagogico per parlare di fatti, eventi, concetti e agevolare la persistenza di informazioni di generazioni in generazioni. Diversi studiosi hanno individuato i molteplici benefici legati alla narrazione nel campo della formazione tra cui la capacità di mantenere l’attenzione del pubblico e lo stimolo a creare connessioni con la parte emozionale del discente. Il coinvolgimento emotivo, inoltre, consente di mantenere un alto livello di motivazione a continuare il percorso formativo e potenzia l’efficacia formativa. Articoli 97 Con lo sviluppo dei media digitali, la narrazione è rimasta una componente significativa per le esperienze interattive, compresi i giochi. Un esempio di utilizzo della narrazione in un gioco nel campo dell’arte è “Ghosts of a Chance”, un alternate reality game creato dallo Smithsonian American Art Museum e ospitato nel museo Luce Foundation Center for American Art. Il gioco ha coinvolto circa 3,300 oggetti della collezione ed è incentrato sulla storia di due giovani curatori perseguitati da due spiriti. I giocatori devono quindi scoprire la storia degli spiriti e aiutare i due curatori. Approfondiamo ora alcuni aspetti strettamente legati ai beni culturali. Molteplici opere d’arte, molteplici punti di vista: molteplici approcci ai Beni Culturali L’espressione “opera d’arte” indica molteplici tipologie di opere: dipinti, sculture, edifici, monumenti, fotografie, video, performance e attività di tipo collaborativo. Anche le Olimpiadi possono essere un’opera d’arte, come “The Flux Olympiad” immaginate nel 1960 dall’artista del movimento Fluxus George Maciunas e ‘giocate’ dal pubblico della Tate Modern di Londra nel Giugno del 2008. “The Flux Olympiad” è una performance che coinvolge il pubblico nel processo artistico, anche se l’artista non è presente in quel momento, ed è in grado di far comprendere l’approccio artistico del movimento Fluxus. I curatori della Tate Modern, infatti, hanno preferito coinvolgere il pubblico in un’esperienza Fluxus piuttosto che spiegare l’approccio Fluxus. Una scelta concettualmente molto vicino al metodo di Bruno Munari. L’artista italiano Bruno Munari ha iniziato a occuparsi di laboratori didattici sin dagli anni Settanta. Il suo metodo “Giocare con l’ar- te” coinvolge i bambini in prima persona, chiedendo loro di vedere l’opera e di pensare a come l’artista abbia potuto realizzarla. Nel corso dell’attività il mediatore è la figura che fornisce le informazioni e i dettagli utili ai bambini per cimentarsi nella realizzazione di una riproduzione dell’opera. Alla base del metodo di Munari vi è un antico detto cinese per cui “se ascolto dimentico, se vedo ricordo, se faccio capisco” e, ovviamente, il pensiero dei teorici John Dewey, Jean Piaget e Maria Montessori. Nel panorama italiano Munari è un modello di riferimento per l’organizzazione di laboratori didattici e di percorsi di visita per bambini. Anche gli insegnanti si sono avvicinati a Munari modificando il proprio approccio passando dalle tradizionali spiegazioni a un coinvolgimento più diretto degli studenti. Vediamo ora più da vicino il metodo in 4 fasi adottato dal MoMA, Museum Of Modern Art, di New York nelle proprie attività educative con gli studenti. 1. Osservazione dell’opera d’arte. L’insegnante lascia che gli studenti guardino il generale e i particolari dei soggetti, materia, colori e forme usate. 2. Domande aperte. Si da la possibilità di porre domande, ad esempio, “come descrivereste questo colore?” oppure “perché secondo voi ci sono dei giocattoli nella foresta?” incoraggiando gli studenti a pensare in base a ciò che vedono. In questa fase si inizia a generare la conoscenza e a condividerla con la classe stimolando il pensiero critico. 3. Informazioni. Alcune risposte, alle domande aperte, sono giuste e altre sbagliate, in questa fase si riprendono le informazioni errate per fornire quelle corrette. 4. Scrittura e attività sensoriali. A seconda dell’età della classe, in questa fase gli studen- IN•FORMAZIONE 12-2014 98 ti sono coinvolti in attività di gruppo, ad esempio scrivere una lista di aggettivi utili a inventare una storia o un disegno, oppure descrivere l’opera con un testo o il linguaggio del corpo. La figura del mediatore, quindi, è cruciale nel campo dell’educazione nei musei perché costituisce il collegamento tra l’opera e gli studenti. Il Museo d’Arte come luogo, inoltre, è cambiato nel corso degli ultimi decenni per diventare un museo dell’esperienza, simile ai musei delle scienze. Contestualmente è cambiata la definizione di Museo: un luogo dove tutti hanno l’aspettativa di imparare, ammirare da vicino degli oggetti che sono in grado di far provare emozioni profonde e stimolare il pensiero, anche quando ci si chiede “ma questa è un’opera d’arte?”. Proprio per questo motivo il Museo è uno spazio della mediazione culturale che si colloca a metà strada tra le opere che conserva e il pubblico. Concentriamoci ora brevemente sul pubblico. Il pubblico può essere suddiviso in due categorie: i gruppi (adulti, turisti o classi) e famiglie. I gruppi sono normalmente ben definiti, i partecipanti hanno la stessa età e titoli di studio. Le famiglie invece sono composte di due adulti e uno o più bambini di età variabile. Se per i gruppi le attività educative possono essere organizzate per un target specifico, per le famiglie si parla di Family Learning. Per i gruppi il mediatore è un operatore del museo, nella famiglia, invece, è uno dei genitori. Alcuni musei, quindi, mettono a disposizione un kit di visita con materiale esplicativo per aiutare i genitori, giochi per i bambini e istruzioni per attività collaborative di gruppo. Un altro elemento che ha cambiato le attività educative nei musei è stato l’adozione delle nuove tecnologie. Un esempio è il laboratorio “Prova a dipingere con i Pixel!” organizzato dalla Fondazione MAXXI di Roma in collaborazione con Nintendo, dal Marzo 2011. Bambini dai 7 ai 12 anni, accompagnati dai genitori, sono coinvolti in una caccia alle opere d’arte esposte alla ricerca di dettagli e per riprodurre l’opera con il gioco Art Academy della Nintendo DS (fornito dal museo). Al di là delle modalità di fruizione di un’opera, l’importante è che sia un’esperienza di mediazione culturale. L’esperienza di fruizione di un’opera varia a seconda dell’allestimento, della disposizione delle opere, dello spazio, del percorso di visita, del materiale informativo a disposizione, ecc. La scelta di questi aspetti dipende dal tipo di opera e dal punto di vista del curatore che si trova al vertice dell’organizzazione di un’esposizione. Negli ultimi anni i curatori sono maggiormente interessati agli aspetti educativi così tanto da prendere in considerazione il processo educativo come oggetto curatoriale e parte integrante delle attività curatoriali. Paul O’Neill e Mick Wilson, infatti, parlano di “curatorialisation of education”. Da un altro punto di vista potremmo anche affermare che i curatori hanno compreso il potenziale dell’educare all’arte come modalità di mediazione per la generazione di una conoscenza collettiva e di una pratica politica. I molti problemi e metodi delineati finora si collocano nel museo, concludiamo con un’ultima considerazione legata al contesto urbano. Dagli anni Settanta l’interesse degli artisti al di fuori degli edifici museali ha stimolato la museologia a interrogarsi sulle modalità di dialogo tra opere collocate dentro il museo con quelle nel tessuto urbano per garantire una continuità della mediazione culturale. Tra i molteplici punti di vista ed esperienze realiz- Articoli 99 zate, ve ne sono alcune anche con l’integrazione delle nuove tecnologie e l’uso dell’approccio del gioco. “Street museum” è un esempio di Alternate Reality Game in cui i giocatori sono dei curatori 2.0. Per vincere, infatti, i giocatori prendono parte al primo museo digitale di opere di street art, postando foto delle opere sul sito del gioco e fornendo maggiori dettagli possibili sull’opera. Conclusioni Il progetto Infanzia Digit@les 3.6 nasce da una serie di premesse concettuali di cui abbiamo qui brevemente accennato. Abbiamo, infatti, parlato della complessa definizione di Smart City, le peculiarità della nascente tecnologia e infrastruttura che consente di intravedere molteplici scenari nel campo della formazione; il gioco come approccio utile a garantire un percorso formativo per i bambini; la componente narrativa fondamentale tassello per consentire un continuum casa-scuola-città-museo; la moltitudine di problemi e metodi con cui ci si confronta nel momento in cui si parla di opere d’arte. L’occasione del progetto Infanzia Digit@ les 3.6 offre, dunque, l’opportunità di riflettere sulle molteplici definizioni e i diversi metodi necessari per condurre accuratamente la sperimentazione. Bibliografia • Aldrich C. (2009). The complete guide to simulations and serious games. San Francisco: Pfeiffer & Company. • Bo V., Harari, G. Studio Azzurro (2008). Fabrizio De Andre’ la mostra. Cinisello Balsamo, Milano: Silvana Editoriale. • Botte B., Matera C., Sponsiello M. (2009). “S Serious Games between simulation and game. A proposal of taxonomy”. Journal of e-Learning and Knowledge Society, v. 5, n. 2 (http://je-lks.maieutiche.economia. unitn.it/index.php/Je-LKS_EN/article/viewFile/315/297). • Cataldo L., Paraventi M. (2007). Il Museo Oggi. Linee guida per una museologia contemporanea. Milano: Hoepli. • Caton J. (2009). Going up in the world: guidelines for good practice on international opportunities for museums. London: Henrietta Hopkins editors. • Francucci C., Vassalli P. 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L’ambito primario d’intervento del progetto è quello della scuola dell’infanzia; Inf@nzia DIGI.tales 3.6 infatti, ha come obiettivo principale quello di avviare un processo di innovazione dei modelli di insegnamento e apprendimento in questo segmento d’istruzione. L’attenzione al rinnovamento del percorso educativo del bambino, però, si coniuga con un ulteriore obiettivo: la valorizzazione del patrimonio culturale e ambientale del territorio e l’ideazione di nuovi percorsi di fruizione dei beni culturali materiali o immateriali in esso presenti, a partire dalla singola risorsa musea- le per arrivare fino ai parchi tematici e all’intera città. Uno degli ambiti secondari d’intervento del progetto è infatti proprio quello del Cultural Heritage. L’altro ambito secondario di riferimento di Inf@nzia DIGI.tales 3.6 è quello delle Cloud computing technologies per smart government. Il progetto, infatti, intende anche sviluppare applicazioni, basate prevalentemente sul paradigma Cloud, per migliorare la qualità e l’accessibilità dei servizi scolastici, facilitare le attività del personale docente, e semplificare la relazione e la comunicazione scuola-famiglia e fra i genitori. A seguire saranno analizzati con maggiore dettaglio gli obiettivi realizzativi e la struttura del progetto, prima però descriveremo brevemente le principali problematiche di ricerca e sviluppo affrontate dal progetto e lo stato dell’arte da cui esso prende le mosse. Principali problematiche di R&S Nell’intervallo di età compreso tra i tre e i sei anni, i bambini di oggi sono spesso esposti 101 IN•FORMAZIONE 12-2014 102 a un sovraccarico di comunicazione e tecnologie. Numerose fonti documentano come la presenza della tecnologia sia sempre più pervasiva nell’ambiente domestico: secondo l’indagine “Aspetti della vita quotidiana 2011” condotta dall’Istat, il 90% dei bambini tra i tre e i sei anni guarda la Tv per più di un’ora al giorno, il 22% ha usato il computer nei tre mesi precedenti l’intervista e il 19% ha navigato in internet (Istat, 2011). Sempre l’Istat, inoltre, nel rapporto “I cittadini e le nuove tecnologie” (Istat, 2012) evidenzia come le famiglie con almeno un minorenne siano le più tecnologiche: l’83,9% possiede un personal computer, il 79% ha accesso a Internet e il 70,8% utilizza per questo una connessione a banda larga. Superiore rispetto alla media nazionale è anche il possesso di consolle per videogiochi (46,5% contro il 20,3% della media nazionale). Inoltre, stime dell’International Data Corporation (IDC) aggiornate a maggio 2013, indicano che la diffusione dei tablet è in deciso aumento; nel corso di quest’anno, infatti, il mercato mondiale di questo tipo di dispositivi raggiungerà i 229,3 milioni di unità, rispetto ai 144,5 milioni di unità dell’anno precedente (IDC, 2013). Questa sovraesposizione a stimoli tecnologici e mediali rischia di avere conseguenze negative se non è guidata da un’attenta riflessione e da attività di ricerca che sappiano valorizzare il potenziale delle nuove tecnologie elaborando modelli didattici e soluzioni formative adeguate alle reali esigenze dei bambini, soprattutto in una fascia d’età delicata per il loro sviluppo come quella compresa tra i tre e i sei anni. Tra le principali problematiche affrontate nell’ambito del progetto rientrano quindi aspetti legati all’analisi degli stimoli tecnologici e dei messaggi culturali ai quali il bambino è esposto già in età precoce. Partendo dal recente lavoro di ricerca condotto da Alessia Rosa (2012) questa linea di ricerca investigherà anche l’universo mediale di riferimento dei bambini tra i tre e i sei anni, al fine di individuare un ventaglio di contenuti che, già presenti nell’immaginario dei bambini, possano essere proficuamente intessuti negli strumenti del progetto Inf@nzia DIGI.tales 3.6. Per quello che riguarda le metodologie didattiche, Inf@nzia DIGI.tales 3.6 si fonda sul presupposto che i bambini fin dai loro primi anni di vita conoscono il mondo attraverso l’uso del loro corpo e raccoglie una eredità metodologica molto ricca e articolata che trova una pietra miliare nel lavoro di Maria Montessori e di Bruno Munari. Per valorizzare questi approcci il progetto darà ampio spazio alla sperimentazione di attività didattiche basate sull’interactive storytelling e sul game-based learning. Tra i numerosi benefici dell’utilizzo della narrazione nei processi di apprendimento si possono annoverare la capacità di mantenere alto il livello di attenzione dei discenti, di creare un forte coinvolgimento emotivo e di massimizzare l’efficacia e la persistenza dell’apprendimento (Mott et al., 1999). Anche il legame tra gioco e apprendimento è molto stretto, specialmente per i più piccoli per i quali il gioco rappresenta la prima forma di apprendimento. A questo proposito Jane McGonigal, game designer e figura chiave dell’Insitute for the Future di Palo Alto, ha dichiarato che “la scuola ideale non utilizza i giochi come strumenti per l’apprendimento. La scuola ideale è un gioco” ( Jane McGonigal, 2011). L’unione sinergica di narrazione e gioco, grazie anche alle possibilità offerte dalle nuove tecnologie, ha già trovato molteplici applicazioni anche in relazione all’obiettivo di valo- Articoli 103 rizzare il patrimonio artistico e culturale, che come abbiamo visto costituisce uno degli ambiti secondari del progetto Inf@nzia DIGI.tales 3.6. Narrazione e interazione ludica e creativa, infatti, possono essere utilizzati come un ideale fil rouge in grado di collegare momenti educativi che, grazie alle nuove tecnologie ubique e pervasive, possono snodarsi lungo veri e propri percorsi, sia all’interno di spazi delimitati (musei, esibizioni, aree archeologiche) sia nel più ampio contesto urbano. Un interessante esempio di come narrazione, gioco e arte possano essere connessi in un’esperienza formativa è dato dal gioco “Ghosts of a Chance”, organizzato nel 2008 dallo Smithsonian American Art Museum. I giocatori che hanno preso parte a “Ghosts of a Chance” hanno esplorato la ricca esposizione del museo raccogliendo indizi e risolvendo indovinelli per spiegare la misteriosa storia di due fantasmi rimasti intrappolati all’interno del museo. “Ghosts of a Chance” ha in questo modo trasformato la visita all’interno del museo in un’esperienza nuova, interattiva, creativa, sociale e soprattutto divertente e coinvolgente per i partecipanti. Stato dell’arte delle tecnologie didattiche Cruciale per il successo di Inf@nzia DIGI. tales 3.6 è anche l’individuazione delle tecnologie più appropriate sia in relazione ai bisogni del target di riferimento sia in relazione alle specificità dei modelli didattici adottati. Tenendo inoltre presente che le soluzioni educative che saranno oggetto della sperimentazione saranno destinate ad essere fruite sia nella scuola d’infanzia sia lungo il continuum scuola-casa-città, e quindi dovranno essere funzionali alla creazione di ambienti educativi diffusi e context-aware, sarà dato ampio spazio alle tec- nologie mobili (mobile device, realtà aumentata, sistemi di geolocalizzazione e tagging, ecc.). Tra i device che si prevede di impiegare all’interno del progetto rientrano i tablet, per i quali saranno sviluppate apposite applicazioni basate su interfacce naturali (NUI, Natural User Interfaces). Le interfacce naturali, infatti, consentono all’utente di interagire con la macchina utilizzando modalità comunicative tipiche dell’interazione tra esseri umani: la voce, i gesti, i movimenti del corpo, la scrittura. Per questo sono particolarmente indicate per incoraggiare l’interazione spontanea da parte dei bambini, come testimoniano anche le numerose applicazioni presentate alla conferenza annuale Interaction Design and Children, che si è tenuta recentemente a New York, e che rappresenta uno dei principali appuntamenti per chi opera nel settore delle tecnologie per l’infanzia (http://idc2013.org/about/). Saranno inoltre progettati e realizzati degli smart object, ossia degli oggetti utilizzabili per l’esecuzione di giochi didattici, come ad esempio i tradizionali blocchi logici, arricchiti però da tag RFID (Radio Frequency Identification Device) o NFC (Near Field Communication) leggibili da appositi lettori e in grado di consentire il tracciamento delle azioni degli utenti (Miglino et al., 2013). Questi smart object potranno alimentare, con informazioni relative alle azioni compiute dal bambino, dei sistemi di tutoring “adattivi” e/o “intelligenti” (Conati, 2009). Nell’ambito del progetto Inf@ nzia DIGI.tales 3.6 tali sistemi di tutoring saranno pensati per fornire feedback personalizzati ai bambini stessi (ad esempio dando loro suggerimenti in caso di difficoltà nell’esecuzione di un compito didattico) e agli insegnanti (per aiutarli a comprendere difficoltà specifiche dei singoli bambini) e avranno quindi il ruolo di “mediatori” che non sostituiscono l’in- IN•FORMAZIONE 12-2014 104 segnante ma lo supportano nel monitoraggio e nell’analisi del comportamento del bambino. Struttura del progetto e obiettivi realizzativi Inf@nzia DIGI.tales 3.6 intende valorizzare e mettere in relazione lo stato dell’arte delle ICT appena delineato al fine di ideare, progettare e realizzare “Smart Learning &Teaching Enviroments” che possano costituire spazi di espressione e di esperienza plurisensoriale che abilitino nuovi modelli di digital interactive storytelling e di game-based learning (Mangione et al., 2011). Poiché l’apprendimento non è solo un processo individuale, inoltre, il progetto guarda anche alla collaborazione del bambino con l’insegnante e alla socializzazione con i compagni durante il tempo scolastico; all’interazione coi pari, i genitori, e le agenzie formative nell’extrascuola; e alle dinamiche di relazione, mediate dall’adulto, con gli stimoli culturali che possono derivare dalla dimensione locale. Per raggiungere questi obiettivi il progetto è stato articolato in un percorso composto da nove Obiettivi Realizzativi (OR), ciascuno dei quali è associato a specifiche attività e deliverable. Il primo passo di questo percorso, corrispondente all’OR1, è costituito dalle attività di analisi preliminare del fabbisogno, di definizione di idonee linee guida metodologiche, di screening delle soluzioni tecnologiche, che costituiscono un riferimento imprescindibile per tutte le successive attività di ricerca. Su quanto emergerà da questa fase di analisi preliminare si fonderanno le attività di ricerca finalizzate alla definizione di metodologie e tecnologie a supporto delle attività curri- colari nella scuola dell’infanzia e del primo anno della scuola primaria (OR2). Saranno inoltre definite specifiche strategie per rendere tali esperienze condivisibili fra docenti, portabili fuori dalle classi, partecipate coi genitori e permeate degli stimoli culturali che possono derivare dal contesto socio-culturale e territoriale. Gli obiettivi realizzativi correlati (OR3, OR4) prevedono, infatti, la realizzazione di prototipi funzionali alla generazione di esperienze di apprendimento narrative estese al territorio e ai suoi beni culturali. Sul “cuore pedagogico” del progetto, che ha nel bambino il proprio protagonista, si innestano una serie di obiettivi-corollario (OR5, OR6, OR7) finalizzati a far leva sulle più ampie opportunità che l’ICT mette a disposizione per rendere più efficace la fruibilità dei percorsi formativi, facilitare i docenti nel monitorare in maniera non invasiva i progressi dei discenti e costruire nuovi scenari educativi. Tutte le attività di ricerca relative ai tre ambiti (scuola, cultural heritage, cloud computing technologies per smart government), inoltre, saranno oggetto di sperimentazione, validazione e valutazione dei rispettivi risultati (OR8) oltre che di exploitation e dissemination (OR9), al fine di garantire la replicabilità del progetto e il riuso dei suoi risultati. Conclusioni I bambini di oggi sperimentano uno scarto tecnologico rilevante tra la scuola, che risulta generalmente piuttosto arretrata dal punto di vista tecnologico, e l’ambiente domestico, dove invece le tecnologie risultano sempre più pervasive, avanzate e diversificate e comprendono consolle per videogiochi, smartphone, computer e tablet. Articoli 105 Ciò significa che la maggior parte degli strumenti educativi utilizzati nella scuola non è basata sulle ICT, pur avendo il vantaggio di assicurare che gli apprendimenti avvengano sotto la vigile supervisione dell’insegnante. Al contrario a casa i bambini utilizzano spesso le nuove tecnologie in solitudine e senza l’intervento e la supervisione di un adulto competente. Inf@nzia Digitales 3.6 intende intervenire proprio per collegare e integrare questi differenti scenari al fine di individuare soluzioni efficaci a promuovere lo sviluppo del bambino, mettendo a frutto le ampie opportunità offerte dalle nuove tecnologie. • • Bibliografia • • Conati C. (2009). Intelligent Tutoring Systems: New Challenges and Directions. IJCAI’09 Proceedings of the20th International Joint Conference on Artificial Intelligence. Morgan Kaufmann. San Francisco, 2-7 • IDC (2013).Worldwide Quarterly Tablet Tracker. Press Release. • Istat (2012). Indagine Aspetti della vita quotidiana 2011. • Istat (2013). Rapporto I cittadini e le nuove tecnologie. • Mangione G.R., Orciuoli F., Pierri A., Ritrovato • • • P., Rosciano M. (2011). A new model for storytelling complex learning objects – Proceedings – 3rd IEEE International Conference on Intelligent Networking and Collaborative Systems, INCoS 2011, art. no. 6132918, pp. 836-841 McGonigal J. (2011). 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Articoli 106 Simone Mulargia [email protected] Dipartimento di Comunicazione e Ricerca Sociale Sapienza Università di Roma Non è mai troppo presto? Considerazioni sull’utilizzo delle tecnologie nei bambini in età prescolare Segnali di cambiamento tecnologico: nuovi device, nuovi stili d’uso Malgrado l’assenza di dati convalidati dai tradizionali istituti di ricerca1, è comunque possibile ricavare un’immagine della diffusione di nuovi dispositivi che utilizzano, a differenti livelli, una forma di interfaccia touch eliminando, o riducendo enormemente, il ruolo dei tradizionali strumenti di input (prima fra tutti la tastiera). Secondo quanto riportato da Audiweb2, in concomitanza con la presentazione del nuovo report che, proprio a partire dal 20133 rileverà il traffico web anche in riferimento ai nuovi smart device: Cresce del 35% dallo scorso anno il numero di italiani con smartphone connessi a in1. Appare significativa la scelta di ISTAT che ha recentemente aumentato il peso relativo della spesa per l’acquisto di tablet e smartphone all’interno del tradizionale paniere di prodotti utilizzato per il calcolo dell’inflazione (ISTAT 2013). 2. Come è noto si tratta, per usare le parole presenti sul sito audiweb.it, di un organismo “super partes” che rileva i dati di audience di internet in Italia, offrendo al mercato dati obiettivi, di carattere quantitativo e qualitativo, sulla fruizione del mezzo. 3. Alla data di scrittura del presente contributo, il dettaglio della rilevazione non è ancora disponibile. ternet (21 milioni di italiani 11-74 anni) e del 160% da tablet (6 milioni). Dai primi dati della rilevazione delle audience mensili risultano 9,2 milioni gli utenti online da smartphone nel mese di agosto e 4 milioni da Tablet (18-74 anni – sistemi iOS e Android) (Audiweb, 2013). Una diffusione percentualmente rilevante che, per alcuni aspetti, è spiegabile in termini di effetto sostituzione rispetto alla precedente generazione di dispositivi digitali quali pc desktop, netbook e telefoni cellulari. Gli smartphone e i tablet, infatti, vengono per lo più utilizzati come porta di ingresso alla rete immediata e sempre a disposizione, sfruttando la connettività mobile. Se il numero davvero rilevante degli smartphone è spiegabile per la natura sostanzialmente personale dello strumento (secondo la formula uno smartphone per una persona), il tablet è più pensato per un uso famigliare, anche se la prevedibile discesa dei prezzi al consumo può far presagire un ulteriore aumento della penetrazione di questa tecnologia e un’adozione come strumento di proprietà del singolo. Il sistema di interfacciamento touch rappresenta l’ultima manifestazione di una tendenza di lungo periodo verso la semplificazio- Articoli 107 ne del rapporto uomo-macchina, alla ricerca di metafore di manipolazione dell’informazione più naturali e in grado di recuperare un repertorio di gestualità da sempre a disposizione dei soggetti4. Afferrare fisicamente un oggetto riprodotto all’interno dello spazio virtuale dello schermo, infatti, sembra la naturale conseguenza di una strategia di rappresentazione grafica del rapporto semantico delle informazioni, già presente nelle intuizioni dei pionieri dell’utilizzo dei computer come macchine per comunicare e portata al grande pubblico sotto forma di interfaccia grafica nei modelli di computer machintosh della metà degli anni Ottanta (Mulargia 2013). Il gesto della mano, formalizzato e semplificato attraverso la mobilità del mouse, sembra oggi liberarsi da qualsiasi riferimento alle necessità di schematizzazione della macchina e diventa emblema (o più probabilmente promessa) di un rapporto diretto e immediato con il contenuto della rappresentazione digitale. Non deve stupire, d’altronde, che questa volontà di semplificazione dei meccanismi di interfacciamento (che oggi osserviamo come punta di diamante dello sviluppo tecnologico) fosse una delle motivazioni alla base dei primi utilizzi delle touch technologies, inizialmente adottate come ausilio per l’utilizzo dei computer da parte delle persone con disabilità (Consolo, 2013). Il clamore che accompagna la fase attuale deve essere storicamente ricondotto ai modelli 4. Sin da quando, recuperando le intuizioni di Leroi-Gourhan (1964), il raggiungimento della stazione eretta liberò la mano degli esseri umani dalle funzioni di deambulazione e aprì un nuovo ventaglio di possibilità di azione all’organo propriamente deputato alla gestione delle interazioni con il mondo esterno. Per uno sviluppo di questo ragionamento in termini di ricadute tecnologico-comunicative, cfr. Borrelli, 2003. più generali di adozione di una tecnologia. Come ben evidenziato dalla cosiddetta regola dei trent’anni (Saffo, 1992), un artefatto tecnologico attraversa una lunga fase di sviluppo lontano dai riflettori prima di arrivare al grande pubblico. È altresì vero che l’adozione massiva di una tecnologia rompe una soglia di regolarità nei comportamenti sociali e si pone all’intersezione di differenti forze che contribuiscono a spiegare le impressionanti percentuali positive di adozione di uno strumento: gli investimenti industriali che, attraverso le classiche economie di scala, riescono a proporre ai consumatori prezzi più ragionevoli; l’interesse suscitato negli early adopters (Rogers, 1962) che si trasmette a cascata a quote crescenti di utenti; la comunicazione pubblicitaria che illustra sempre nuovi scenari di utilizzo delle nuove caratteristiche tecniche, contribuendo a modellare il senso sociale di una tecnologia e, è bene ricordarlo, un effettivo gradiente di utilità dei nuovi strumenti, anche solo in termini di utilità percepita dai soggetti. La presenza di questi device nel contesto famigliare rende sempre più probabile il loro utilizzo da parte dei bambini, anche in virtù di una certa capacità dei più piccoli di entrare in facile intimità con le tecnologie5. Se questa affi- 5. Facilità che non deve essere confusa con automatismo. In questo senso, se è vero che le giovani generazioni risultano interpreti privilegiate del cambiamento comunicativo, non convince fino in fondo l’idea che la giovane età sia il presupposto in grado di determinare un utilizzo virtuoso delle tecnologie digitali (Morcellini e Mulargia, 2012). Da questo punto di vista, non sempre la riflessione sui cosiddetti nativi digitali (Prensky, 2001) riesce a proporre modelli di analisi completi, che recuperino, ad esempio, il peso delle variabili socio-culturali e dei differenti livelli di literacy nel modellare l’effettivo valore aggiunto che i media digitali possono dare ai giovani (Warschauer, 2003; Livingstone, 2003). IN•FORMAZIONE 12-2014 108 nità elettiva tra giovani e nuovi dispositivi rientra in un più ampio ambito di indagine del rapporto media minori, le particolari caratteristiche delle touch technologies sembrano abbassare ancora di più l’età del primo contatto con i dispositivi digitali. L’utilizzo del touch screen, infatti, mette in secondo piano la tastiera e con essa un seppur minimo riferimento alle competenze alfabetiche necessarie ad impostare i comandi per l’accesso ai contenuti. I nuovi sistemi operativi presenti negli smartphone e nei tablet (basati sull’utilizzo delle app), rendono ancora più immediato l’utilizzo degli strumenti, a tutto vantaggio di un atteggiamento cognitivo che può by-passare comandi fatti di lettere e numeri e concentrarsi sulle icone delle applicazioni, semplici pulsati da premere per attivare il programma desiderato. La questione dei dati La relativa novità del tema, rende ancora più difficile avere a disposizione dati aggiornati e qualificati su questo fenomeno. Allo stato attuale, dunque, risulta davvero difficile poter inquadrare quantitativamente il fenomeno che, proprio in virtù della giovane età dei potenziali utilizzatori, meriterebbe maggiore attenzione da parte della comunità scientifica. Ma è il rapporto tra i bambini in età prescolare e i media digitali a non essere ancora al centro dell’agenda degli studiosi, come viene messo in luce in un recente intervento (Holloway et al., 2013) che prova a riassumere il pur traballante stato dell’arte della ricerca. Attraverso il riferimento allo studio condotto da Ólafsson et al. (2013) è possibile analizzare l’andamento dell’interesse dei ricercatori sul tema minori e tecnologie digitali. Se nel 2000 vengono individuate 20 ricerche in Europa sul tema, il dato è destinato a crescere anno dopo anno sino ad arrivare alle 172 ricerche del 2010; solo nel 2011, con 152 ricerche censite, si assiste a una lieve inversione di tendenza rispetto al trend evidenziato (pag. 14). Una significativa distorsione appare per quanto riguarda l’età degli utenti presi in considerazione nel loro rapporto con i media digitali. Solo il 6% degli studi esaminati, infatti, analizza il comportamento dei bambini fino a 5 anni d’età, contro un 70% delle ricerche che si focalizza sui teenagers (1517 anni) (Ólafsson et al., 2013; pag. 20). Alcuni evidenti limiti organizzativi concorrono a spiegare tale disomogeneità: i bambini più piccoli, infatti, proprio perché non in possesso delle competenze alfabetiche di base, non possono essere raggiunti da indagini condotte con i classici strumenti della survey online e richiedono anzi un diretto coinvolgimento dei genitori. La preoccupazione generale per i potenziali utilizzi negativi della rete da parte dei teenagers (spesso ricondotti agli episodi di bullismo o a un contatto precoce con contenuti sessuali) è senza dubbio fondata su presupposti condivisibili, ma proprio nel momento in cui i nuovi dispositivi rendono l’accesso ai contenuti digitalizzati (spesso online) facile ed immediato, appare quanto mai opportuno focalizzare l’attenzione proprio sui più piccoli, anche in considerazione di uno sviluppo cognitivo non ancora completato. Coerentemente con il quadro analizzato, le principali ricerche raccolte e codificate nell’ambito delle attività dell’EU Kids Online network si focalizzano su alcuni temi: accesso e utilizzo delle tecnologie e della rete (72%); attività svolte online (73%); potenziali rischi e danni inferti agli utenti (57%); opportunità e benefici derivanti dall’uso della tecnologia (40%); il tema della mediazione (33%) (Ólafss- Articoli 109 on et al., 2013; pag. 22)6. Per quanto riguarda i soggetti che hanno materialmente condotto le ricerche censite, il 43% delle indagini è stato condotto da istituzioni pubbliche; il 15% da soggetti in possesso del Phd o di un master; il 15% da istituzioni private; il 9% da gruppi di ricerca collegati ad iniziative dell’Unione europea; il 6% finanziate da organismi caritatevoli e un 4% da soggetti non identificati (pag. 23). Per quanto riguarda la metodologia adottata: il 62% utilizza un approccio quantitativo, il 22% qualitativo e il restante 16% un mix tra i due approcci (Ólafsson op. cit; pag. 23). Benché la maggior parte delle ricerche citate abbia come oggetto l’utilizzo della rete, in alcuni casi è possibile recuperare dati circa la piattaforma utilizzata per la connessione. Tale indicazione è interessante per capire quale uso i bambini in età prescolare fanno delle tecnologie touch e rappresenta, a un livello più generale, una preziosa indicazione per comprendere l’effettivo setting ambientale che ospita l’interazione dei soggetti con i contenuti digitali. Risulta evidente, infatti, che l’utilizzo di un computer desktop da casa o di uno smartphone (che può essere attivato per la navigazione indipendentemente dal luogo in cui ci si trova) modifica l’esperienza di navigazione anche senza entrare nel merito dell’utilizzo del sistema di interfacciamento touch. Secondo uno studio del 2012 condotto dall’Ofcon, un terzo dei bambini (3-4 anni) del Regno Unito va online utilizzando un pc da scrivania, un laptop o un netbook. Il 6% dei bambini che va online utilizza un tablet mentre il 3% dei bambini che va online utilizza uno smartphone. Se aumentiamo di poco l’età dei bambini considerati (5-7 anni) ben l’87% uti6. Alcune ricerche indagano più ambiti: per questo la somma dei valori percentuali supera il 100%. lizza internet, con tassi crescenti di penetrazione della rete (nel 2007 la percentuale si assestava al 68%). Se i dati del Regno Unito testimoniano una presenza online dei bambini meno che episodica, il numero di baby utenti si ridimensiona leggermente in Germania, anche se le ricerche considerate utilizzano differenti fasce d’età e non consentono una comparazione puntuale e statisticamente significativa. Secondo una ricerca condotta dal network di ricerca tedesco specializzato in pedagogia dei media il 21% dei bambini tedeschi (6-7 anni) risponde di utilizzare internet almeno “raramente” e la percentuale arriva al 48% se consideriamo bambini di due anni più grandi (8-9). Considerata la natura del fenomeno e il rapido sviluppo del contatto precoce con i media digitali, non stupisce che, anche in riferimento a un contesto socio-culturale affine a quello tedesco quale è quello austriaco, uno studio del 2013 ( Jungwirth, 2013) presenti percentuali più alte: in Austria circa la metà dei bambini (3-6 anni) usa internet su base regolare. I paesi del nord europa confermano, anche in riferimento al comportamento dei bambini, un utilizzo estensivo della rete: il 70% dei bambini (3-4 anni) in Svezia va online almeno qualche volta (Findahl, 2013). I trend di utilizzo della rete da parte dei giovanissimi mappati in riferimento al contesto europeo trovano alcuni elementi di proiezione futura se volgiamo lo sguardo al contesto nord americano. In relazione a uno studio condotto nel 2011 (Gutnick et al. 2011) emerge che il 25% dei bambini (3 anni) va online quotidianamente; la percentuale sale al 50% per i bambini di 5 anni e al 70% per quelli di 8 anni. Tale configurazione dell’utilizzo di internet da parte dei bambini è evidentemente destinata a crescere in relazione alla variabile temporale e al successi- IN•FORMAZIONE 12-2014 110 vo aumento della penetrazione di smartphone e tablet, strumenti in grado di rendere più pervasiva la presenza di porte di ingresso alla rete. La presenza di un numero crescente di dispositivi dotati di tecnologia touch screen, insieme ai dati di utilizzo della rete consentono, in via per lo più ipotetica considerata la mancanza di dati, di immaginare una graduale iniziazione dei bambini alla fruizione di contenuti digitali organizzati secondo le modalità tipiche dell’interfaccia touch. In riferimento ad alcuni studi recenti è possibile iniziare ad avere prove concrete di questo precoce contatto, anche se le ricerche fanno riferimento a studi specifici e geograficamente localizzati e non consentono un confronto a livello europeo; a ciò si aggiunge che, allo stato attuale, non è possibile neanche una differenziazione macro tra Europa del nord e paesi mediterranei, mancando per questi ultimi dati aggiornati e specifici. Tornando ai dati disponibili, il 25% dei bambini (3-4 anni) in Svezia utilizza lo smartphone e il 50% dei bambini (3-4 anni) il tablet (Findahl, 2013). In Norvegia, il 23% dei bambini (0-6 anni) ha accesso a un touch screen a casa; di questi, il 32% lo ha usato per la prima volta prima dei 3 anni (Guðmundsdóttir e Hardersen, 2011). In Germania, possiede un tablet il 17% delle famiglie con bambini (3-7 anni) e il 18% delle famiglie con bambini (6-11 anni) (Medienpagagogischer Forschungsverbund Sudwest, 2012). Per quanto riguarda il Regno Unito, l’utilizzo dei tablet viene stimato per il 2012 all’11% dei bambini tra i 5 e i 7 anni (nel 2011 il dato si fermava al 2%); mentre sale, sempre nel 2012, al 13% dei bambini 8-11 anni (6% nel 2011) (Ofcom, 2012). Il contesto famigliare, da intendersi sia a livello di disposizione materiale delle risorse tecnologiche, sia per quanto riguarda gli stili edu- cativi dei genitori e il loro ruolo di mediatori della relazione con le tecnologie, risulta centrale per la comprensione delle modalità effettive attraverso le quali i bambini entrano in contatto con i nuovi dispositivi, fermo restando una più ampia influenza del paese di riferimento, in termini di propensione al possesso della tecnologia. Da questo punto di vista, un rapporto per nulla casuale sembrerebbe instaurarsi tra presenza di bambini nel nucleo famigliare e atteggiamento nei confronti delle tecnologie e dei contenuti digitali. In riferimento al contesto nord americano, tra i possessori di tablet, il 75% ha scaricato app per il suo dispositivo; tra i genitori possessori di tablet, la percentuale di chi ha scaricato app sale all’84% mentre scende addirittura al 69% tra i possessori di tablet che non hanno figli. Un comportamento analogo è riscontrabile tra i possessori di smartphone: il 38% ha scaricato una app per il telefono; ma la percentuale oscilla significativamente tra il 48% dei possessori di smartphone che hanno figli e il 33% di quelli che non li hanno (Lenhart, 2012). L’interesse per le app mostrato dai genitori analizzati dal Pew Internet & American Life Project sembra essere diretta conseguenza dell’attenzione che i produttori di app stanno mettendo in campo nei confronti degli utenti più giovani. Rispetto a chi ha scaricato app per il proprio device, il 34% degli intervistati ha dichiarato di aver scaricato app per bambini (o comunque app che potessero essere usate anche da un bambino). La presenza di figli rende più probabile il download di contenuti per bambini: il 16% degli adulti senza figli ha scaricato app per bambini, contro il 57% degli adulti genitori (Lenhart, 2012). Una parziale conferma di questo orientamento deriva dal dato relativo al tipo di app per bambini scaricate: il Articoli 111 47% degli utenti ha scaricato app di intrattenimento, il 31% applicazioni relative ad apprendimento e formazione, mentre il restante 22% ha scaricato entrambi i tipi di contenuto. Una porzione significativa delle attività svolte attraverso l’utilizzo di tablet e smartphone ha a che fare con il videogame. È per questo motivo che anche gli adulti che non hanno figli dichiarano di scaricare contenuti per bambini (che sarebbero più in generale videogiochi che interessano gli adulti, ma possono essere utilizzati anche da bambini). È proprio questo orientamento ludico a rendere queste piattaforme così affascinanti per i più piccoli. È facile immaginare che già a un livello base, la sola osservazione passiva di un adulto che gioca con uno smartphone o un tablet, invogli i bambini ad avvicinarsi allo strumento e, con il passare del tempo, spinga i più giovani ad avanzare richieste esplicite ai genitori al fine di entrare in possesso di nuovi contenuti ludici. Alcuni numeri, però, segnalano un percorso inverso di utilizzo degli strumenti. Citando dati della Harris Interactive, Felix Richter (2013) fotografa l’uso degli strumenti tecnologici per tenere occupati i bambini. Il dato fa riferimento ai genitori nord americani di bambini e ragazzi fino a diciotto anni e non consente di avere il dettaglio dell’età dei giovani utenti, ma offre un interessante punto i vista su un atteggiamento dei genitori particolarmente diffuso. Il 61% dei genitori intervistati ha dichiarato di aver usato smartphone o tablet per tenere occupati i loro figli; la percentuale scende al 47% per chi ha dichiarato di aver usato lo smartphone e al 44% per il tablet; solo il 20% degli adulti ha dichiarato di non aver utilizzato alcun device in funzione di bambinaia. Il fenomeno non è nuovo: già il mezzo televisivo è stato ampiamente utilizzato per tenere occupati i minori e consentire ai genitori una gestione più semplice del tempo. L’idea di tenere occupati i bambini, però, supera l’utilizzo congiunto degli strumenti e fa venire meno la presenza del genitore nel momento dell’interazione tra il giovane utente e lo strumento, venendo fisicamente meno alla funzione di mediazione adulta del contatto con la tecnologia. Tale utilizzo non felice della strumentazione tecnologica appare ancora più inappropriato in riferimento all’assenza di una riflessione scientifica sul tema che abbia prodotto indicazioni specifiche sul corretto utilizzo dei digital device. Toccare un contenuto nuovo. Stili di utilizzo della tecnologia touch, modelli di interazione e potenzialità per l’apprendimento I dati appena richiamati sono da intendersi come prime manifestazioni di un nuovo panorama tecnologico che, negli anni a venire, promette di imporsi come standard a disposizione delle giovani generazioni. Da un versante opposto, diversi ricercatori sono già impegnati ad analizzare alcune concrete applicazioni delle tecnologie touch, soprattutto per quanto riguarda il loro potenziale educativo. Attraverso il confronto con alcune significative esperienze in atto, è possibile costruire una mappa degli elementi in gioco nel rapporto minori e touch technologies. In un recente studio sulle applicazioni tecnologiche per l’apprendimento collaborativo della matematica, Mercier e Higgins (2013) analizzano la capacità di implementare scioltezza e flessibilità di calcolo attraverso un’applicazione di apprendimento collaborativo dotata di tecnologia multi-touch. I risultati, pur se limitati a una singola sperimentazione e difficilmente applicabili a un contesto più ampio, IN•FORMAZIONE 12-2014 112 mostrano una certa prudenza nell’attribuzione di un ruolo specifico della tecnologia multi-touch. L’aspetto che più è riuscito ad aumentare la flessibilità dei ragazzi è infatti il modello collaborativo nell’affrontare il compito, unito a una tecnologia che facilità forme di confronto tra i partecipanti all’interazione. Una delle chiavi di un potenziale utilizzo positivo delle tecnologie risiede nella possibilità di utilizzarle per aumentare il gioco intergenerazionale. Della vasta gamma di applicazioni per il gioco già disponibili per i touch device, molte sono a carattere ludico e sembrano incontrare l’interesse dei giovani utenti. Si tratta, a questo punto, di produrre applicazioni che mescolino insieme l’attrattiva del gioco con un impianto per l’apprendimento che possa essere usato per far dialogare, attraverso la mediazione tecnologica, il mondo degli adulti e quello dei ragazzi. In uno studio condotto presso il Dipartimento di Sistemi Informativi dell’Università di Melbourne (Davis et al., 2011) si indagano proprio le caratteristiche del gioco tra nonni e nipoti alla presenza di giochi tecnologici. I ricercatori mettono in evidenza alcune caratteristiche del gioco intergenerazionale con particolare attenzione ai ruoli7 svolti dai nonni e dai nipoti e alla natura dell’interazione tra i due. Vengono dunque riassunte alcune caratteristiche principali delle interazioni ludiche avvenute. Si scopre, così, che l’attività più svolta dai nonni è quella di osservare i bambini mentre giocano, rispetto a una reale interazione con loro. L’interazione intergenerazionale è, infatti, breve ed 7. Nel dettaglio, alcuni ruoli svolti dai bambini: l’apprendista, l’imitatore, l’iniziatore, l’egocentrico (che cerca attenzione), il rassicuratore, lo spettatore, il co-player, il seguace, l’insicuro (che cerca rassicurazione); e alcuni ruolo svolti dai nonni: l’osservatore, il compagno di giochi, l’intrattenitore, l’organizzatore, il giocattolo surrogato. episodica, spesso lasciata a metà quando l’attenzione del bambino si sposta verso un nuovo focus. Benché non manchino episodi di interazione tra i diversi soggetti coinvolti, i ricercatori sottolineano che essa avvenga più sotto forma di scambio soddisfacente che in relazione al gioco formale. Il portato culturale dei partecipanti (soprattutto per quanto riguarda i nonni) è un fattore determinante per l’organizzazione dei giochi: gli adulti applicano all’attività ludica alcuni schemi culturali e una certa preorganizzazione dei ruoli. Le indicazioni emerse dallo studio sgombrano il campo da un equivoco: né la natura del gioco in quanto attività spontanea e, secondo alcuni, quasi magicamente capace di rompere le barriere tra i partecipanti; né il fascino della mediazione tecnologica sono in grado di generare automaticamente un ambiente adatto allo scambio intergenerazionale. Affinché una piena interazione avvenga, è necessario un preciso orientamento in termini di progettazione dell’esperienza ludica. E ciò risulta ancora più necessario se quell’interazione deve avere risvolti positivi legati all’apprendimento. Le tecnologie intergenerazionali devono quindi supportare gli adulti nei loro differenti ruoli, senza uno schema rigido, ma anzi aprendosi alla flessibilità osservata nei comportamenti dei soggetti analizzati. Lo stesso vale per i bambini, anche rispetto a comportamenti (l’iniziatore del gioco, il resistente al cambiamento) che parrebbero appartenere al mondo degli adulti. Attenzione deve essere anche posta alle differenze tra bambini e adulti, in termini fisici, intellettuali e sociali. Malgrado si osservi una certa tendenza al mescolamento dei ruoli, infatti, una tecnologia che non sappia riconoscere le differenze non sarebbe un omaggio alla democrazia, ma andrebbe semplicemente a creare confusione. Un appropriato design dell’interazione ludica mediato dalla tecnologia potrebbe, però, pro- Articoli 113 muovere attivamente una sorta di meta riflessione sui ruoli, favorendo episodi di mescolamento là dove alcune rigidità culturali potrebbero imbrigliare eccessivamente la posizione dei partecipanti. Il rispetto per i giovani utenti passa anche attraverso la comprensione del tempo del gioco: molto spesso intermittente e agito attraverso sequenze interpretative brevi. La possibilità di lasciare da parte momentaneamente l’attività per riprenderla in un secondo momento pare una buona strategia per venire incontro alle esigenze dei bambini. Malgrado lo studio in questione mescolasse giochi tradizionali e digital toys, i ricercatori sintetizzano alcune indicazioni emerse in termini di suggerimenti per la progettazione, mettendo in evidenza le potenzialità nell’utilizzo di tecnologie touch. Gli utenti utilizzano una macchina fotografica (incorporata in uno smartphone o tablet) per fotografare oggetti; le immagini, archiviate su un server che mette in comunicazione device distanti tra loro, vengono poi manipolate da bambini e adulti per comporre storie e creare occasioni di interazione significativa tra i partecipanti. Come sottolineato dai ricercatori, il ricorso a immagini e touch technologies rende il gioco proposto adatto anche a bambini non ancora in possesso delle literacy skills. La possibilità di modificare i giocattoli tradizionali con l’inserimento di sensori sembra dunque essere un promettente ambito di sviluppo per le applicazioni orientate ai bambini. Ne danno un’interessante testimonianza Tracy et al. (2012), applicando questi giocattoli aumentati allo studio delle interazioni tra bambini e oggetti al fine di mappare alcuni pattern caratteristici di gioco, anche in funzione di monitoraggio degli sviluppi cognitivi dei giovani utenti. Nello studio in oggetto, i bambini interagiscono liberamente con gli smart toys e vengono ripresi da alcune telecamere allo scopo di confrontare le interazioni più significative con i dati raccolti dai sensori, inviati in remoto a un computer per ulteriori analisi alla ricerca di schemi ricorrenti di comportamento. I ricercatori hanno applicato anche un modello a priori relativo ad alcuni comportamenti ludici definendo: il gioco esplorativo (azioni su un singolo oggetto al fine di testarne le caratteristiche); il gioco relazionale (quando due o più oggetti sono utilizzati insieme); il gioco funzionale (uso convenzionale di un oggetto influenzato da regole culturali); il gioco simbolico (che fa riferimento a oggetti, situazioni, attributi non immediatamente presenti). Malgrado le promesse insite in questo filone di studi, le difficoltà non mancano. Le particolari caratteristiche del gioco dei bambini, rendono davvero difficile una sua formalizzazione e ancora di più la possibilità che alcuni comportamenti (magari indicativi di un disagio o di una specifica patologia collegata allo sviluppo cognitivo) possano essere automaticamente riconosciuti dalla macchina. I sensori, per rimanere a un esempio immediato, registrano il movimento degli oggetti anche quando essi sono casualmente colpiti da un bambino senza alcuna intenzione di utilizzarli per il gioco. La presenza di più bambini all’interno dello stesso playground e un numero crescente di giocattoli da monitorare rendono ancora più complessa l’individuazione di pattern significativi. Una nuova agenda di ricerca I dati analizzati, sia in termini diretti sia per via induttiva, segnalano l’urgenza di un decisivo aggiornamento dell’agenda di ricerca in direzione di un’analisi sistematica del rapporto tra bambini in età prescolare e tecnologie touch. Due almeno le direzioni che dovran- IN•FORMAZIONE 12-2014 114 no prendere le indagini: a un livello micro, costruire e validare ipotesi circa il rapporto tra l’utilizzo delle touch technologies e le conseguenze per i bambini, con particolare attenzione alle prime fasi di vita (0-3 anni) in considerazione di uno sviluppo cognitivo non del tutto completo; a un livello macro cercando di fotografare i trend di adozione di tali dispositivi, inserendo nei modelli di analisi le variabili socio-culturali relative al contesto famigliare, spesso determinanti nella predisposizione di un uso corretto e potenzialmente virtuoso delle tecnologie. Non si tratta di riproporre uno schema dualistico uso vs non uso delle tecnologie touch, dunque, ma di costruire mappe ragionate dei contenuti che possono essere adatti a un così particolare tipo di utenti. La questione che rischia di rimanere al di fuori dello schema brevemente proposto è quella delle conseguenze culturali di più ampia portata, da monitorare su un lungo periodo che mal si concilia con l’impostazione sperimentale e di laboratorio di molte esperienze di analisi attualmente in corso. Le caratteristiche specifiche del contatto possono, per alcuni aspetti, acuire ulteriormente la crisi delle figure di mediazione (Morcellini 1992). Il pericolo è che i processi decisionali circa le opportune modalità di utilizzo delle tecnologie touch da parte dei bambini in età prescolare possano essere monopolizzati dai forti interessi di mercato, invece che da una riflessione scientifica indipendente che possa evidenziare potenzialità positive e eventuali rischi (Morcellini 2013b). Bibliografia • Audiweb (2013). 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Articoli 116 Donatella Cannizzo [email protected] Dipartimento di Comunicazione e Ricerca Sociale Sapienza Università di Roma L’età riflessa: pre-adolescenti, new media e “vite parallele” Il presente contributo al tema della socializzazione digitale pre-scolastica prende in considerazione un ambito analitico entro cui ipotizzare facilmente il futuro che sarà: le scelte di consumo della cosiddetta “età riflessa”, generazione compresa fra gli 8 ed i 15 anni che vive come mai in questi ultimi anni un rinnovamento nelle modalità di approccio agli strumenti del comunicare e che funge da traino alle generazioni immediatamente precedenti sia negli stili di fruizione che nelle strategie operative connesse al mercato dei nuovi media. L’analisi prende spunto dai risultati di una recente ricerca che aveva come obiettivo di indagare il rapporto di bambini e ragazzi compresi tra gli 8 e i 15 anni con gli strumenti della comunicazione tradizionale e i media digitali. Il mio peculiare contributo era focalizzato sulle scelte di consumo dei pre-adolescenti (812) e degli adolescenti (13-15) nel tempo libero sia per comprovare la pervicacia della tv e degli altri media tradizionali (radio, libri, fumetti) che per constatare la diffusione delle tecnologie mediali nelle vesti di collaudati catalizzatori dell’esperienza giovanile più recente (Cannizzo, 2013). L’altra ipotesi verte sulla constatazione che l’infanzia – come categoria anagrafica – sia stata sostituita dalla pre-adolescenza, contrassegnata da una rilevante perdita di centralità dei luoghi forti e tradizionali della formazione (famiglia e scuola) in favore di media e new media e da una precoce attrazione verso forme ed esperienze più adulte, tipiche comunque dell’adolescenza vera e propria (smartphone, tablet, social network). All’interno del campione, la parte più consistente dei minori proviene dalle provincie di Roma (27,5%), Cosenza (25,7%) e Matera (23%) ed è relativo ai ragazzi che frequentano la 2 media (37,3%). In primo luogo, verrà presentata l’esposizione del campione alle diverse opportunità – mediali e non – fruite nel tempo libero cui seguirà il commento ai dati più salienti e una riflessione in appendice relativa all’ipotesi della diffusione dei new media nelle dinamiche evolutive della fascia d’età 3-6 anni. Consumi culturali e tempo libero1 La tv si conferma il medium più seguito dal nostro campione di ragazzi dagli 8 ai 15 anni, il consumo culturale maggiormente fruito nel tempo libero (82,6% ). La tv è guardata tutti i giorni a tutte le età e con uno scarto fra maschi e femmi1. Le tabelle relative ai dati qui analizzati sono contenute in appendice. Articoli 117 ne davvero esiguo: addirittura a 8 anni il 100% del bambini dichiara di guardarla tutti i giorni. Il livello di esposizione al medium decresce di poco al crescere dell’età anche se a 13 anni si attesta ancora al 90,2% . A 15 anni la tv si guarda comunque ancora con frequenza quotidiana ma con un lieve calo percentuale (66,7%). quasi a scandire le tappe cruciali della transizione da uno status di pre-adolescenti all’adolescenza vera e propria. La frequenza con cui le altre attività vengono svolte registra, dopo la TV, l’utilizzo di tecniche comunicative più innovative come il telefono cellulare (62,4%) e la navigazione in Internet (44,6%). Al quarto posto nelle attività del tempo libero troviamo quella relativa alle attività ricreative con gli amici (41,1%). Se la tv si attesta al primo posto nella classifica di gradimento, la radio rimane un medium non adatto ai più piccoli: i bambini di 8 anni dichiarano di non averla mai seguita e, comunque, meno di una volta a settimana. L’esposizione al medium radiofonico aumenta con il crescere dell’età del campione: a 15 anni la metà dei ragazzi intervistati sostiene di seguirla tutti i giorni. Le ragazze sembrano essere le ascoltatrici più assidue (18,4% le femmine che la seguono tutti i giorni contro il 12,5 dei maschi). La pratica dello sport sembra registrare buoni risultati: tra i 9 e gli 11 anni la frequenza più registrata è di 1-2 volte a settimana (36% a 11 anni) mentre sale tra i 12 ed i 14 (più di 2 volte a settimana) anche se appannaggio più dei maschi che dalle femmine. L’uso dei videogiochi si rivela una pratica di consumo più di pertinenza maschile e concentrato fra i 9 (33,3%) ed i 13 anni (28,3%) dove l’esposizione è quotidiana. Il valore relativo alla lettura di libri extrascolastici è abbastanza sconfortante: a parte il caso fortunato di un 47,6% di pre-adolescenti di 9 anni che leggono tutti i giorni e sicuramen- te più delle altre fasce d’età, col crescere dell’età diminuisce il consumo di libri giornaliero fino ad arrivare al dato più desolante: quasi il 70% dei ragazzi di 15 anni non legge libri al di fuori di quelli scolastici; sommando tutte le età la percentuale numerica prevalente è quella del consumo 1-2 volte a settimana. Le ragazze si distinguono dai loro coetanei per una maggiore assiduità nella lettura: il 20% legge tutti i giorni contro il 10,3% dei maschi. La lettura dei fumetti è poco assidua e appannaggio dei pre-adolescenti dai 9 (28,6%) agli 11 anni (15,4%) in prevalenza maschi. Il valore più consistente legato al gioco con gli amici è registrato tra i bambini di 9 anni ed è sicuramente connesso al gruppo scolastico o a quello frequentato nei luoghi di aggregazione sportiva e/o religiosa. Decisamente più soli gli adolescenti, specie a 15 anni, sia maschi che femmine: a 9 anni il 66,7% del campione incontra gli amici tutti i giorni contro il 33.3% dei quindicenni. Il fenomeno Internet costituisce una realtà presente in maniera omogenea nei due sessi. Gli anni della scuola elementare sono contrassegnati da una navigazione in rete quasi giornaliera che riguarda, in particolare, i bambini di 9 anni che presumibilmente fanno ricerche scolastiche on line e/o navigano nei siti protetti dei programmi Disney o in quelli dedicati ai giochi. Il picco di frequentazione giornaliera si registra peraltro dai 13 ai 15: a 14 (65%) e a 15 anni (67%) il campione dichiara di utilizzare la rete tutti i giorni. Evidentemente la navigazione assidua degli adolescenti si esplica soprattutto sui social network: i ragazzi di 13 (32%) e 14 (42,1%) utilizzano i social anche tutti i giorni: il dato più interessante è che dagli 11 ai 14 anni si registra un’ascesa più o meno costante nell’utilizzo di Facebook senza differenze sostanziali legate al genere. IN•FORMAZIONE 12-2014 118 Lo stesso interesse menzionato nei confronti della rete si riscontra per ciò che riguarda il fenomeno chat, dove anche i preadolescenti di 9 anni (14,3%) incontrano i propri amici virtuali 1-2 volte a settimana; a 11 anni già il 15,4 % del campione (maschi e femmine) comunica in tempo reale con amici e conoscenti tutti i giorni per arrivare al dato più rilevante e quotidiano registrato a 13 (28%) e 14 anni (29,3%). L’utilizzo del telefono cellulare è quotidiano e legato al crescere dell’età (dal 19,% nei 9 anni fino all’80,5 % nei 14) raggiungendo la diffusione massima a 15 anni (83,3%), senza particolari differenze di consumo fra maschi e femmine. Livello di possesso dei new media I valori quantitativi rilevati sul possesso dei nuovi strumenti per comunicare (cellulare, tablet, smartphone, computer e console) non lasciano adito a dubbio alcuno: i nuovi media sono entrati di diritto nell’uso quotidiano dei ragazzi, anche dei più giovani esponenti della “touch generation”. Il computer e il cellulare sono tra i new media più diffusi. Il cellulare – diffuso nell’87% del campione – passa dal “non possesso” degli 8 anni alla sua massima diffusione tra i quindicenni e comunque in costante ascesa dai 9 ai 14. Essendo il cellulare diverso dallo smartphone si presume peraltro che il suo utilizzo prevalente sia quello per telefonare e messaggiare. Ma, ancora una volta, il dato su cui riflettere è che “tutti i bambini di 8 anni del campione abbiano dichiarato di usare almeno una volta a settimana il telefono cellulare” mentre solo il 3% del nostro campione ha dichiarato di non averlo mai utilizzato. In ogni caso il cellulare risulta lo strumento tecnologico che, più di ogni altro, cele- bra il rito del passaggio dall’infanzia all’età più giovanile; dalla scuola elementare, dove solo il 27% dei bambini lo utilizza quotidianamente, alle scuole medie dove la percentuale sfiora addirittura il 74.1%. L’elemento più significativo riguarda tuttavia la diffusione dello smartphone – vero e proprio medium tecnologico multitasking – posseduto dal 31% del nostro campione – più le ragazze – specie tra i 13 e i 14 anni (40% circa) ma ampiamente diffuso tra i bambini di 9 anni (20%). Ma è sulle modalità di utilizzo dello strumento che si concentrano i nostri sforzi analitici in quanto i dati a nostra disposizione registrano che l’80,7 % del campione lo utilizza per inviare messaggi e il 34,4% per navigare in internet con percentuali che riguardano la fascia 8-12 davvero interessanti: il 33,3 % del campione dei bambini di 9 anni dichiara di navigare in internet con il proprio smartphone (Malatesta, 2013). La grande copertura del computer sull’uditorio analizzato (95% del campione) è sicuramente legata alla sua fruizione nel contesto familiare, utilizzato costantemente dagli 8 (il 100% del campione) ai 15: evidentemente i bambini di 8 anni entrano on line per giocare mentre quelli di 15 chattano con gli amici e frequentano i social networks. Molto diffusa anche la “console” per videogiochi tra i maschi di 11 anni (ben l’88,5% ) il cui uso diminuisce al decrescere dell’età per arrivare ad interessare il 67% dei quindicenni. Il sintomo più eclatante di una vera e propria rivoluzione di costume – “la scomparsa dell’infanzia” di cui parleremo più avanti – riguarda il tablet che, secondo i nostri dati, è largamente diffuso proprio tra i più giovani: ben il 32% dei bambini di 10 anni dichiara di possederne uno (o, forse, confonde un utilizzo frequente del tablet dei genitori con il possesso effettivo dello stesso…). Articoli 119 Il consumo di tv e new media è legato al luogo di provenienza? Non sembra anche se effettivamente il possesso di smartphone e tablet è più alto a Roma che nelle altre provincie esaminate. L’ultima considerazione in merito alla larga diffusione delle strumentazioni tecnologiche tra i più piccoli riguarda il fatto che, grazie proprio a smartphone e tablet, i bambini non sono più costretti ad aspettare l’appuntamento canonico con la serie televisiva preferita su un determinato canale ma possono farlo quando vogliono e dove vogliono. Commento ai dati Le osservazioni conclusive si fondano sui seguenti temi riscontrati ad un’analisi accurata dei dati della ricerca • la tenuta della TV: la TV non è più analogica e accanto al digitale terrestre che offre canali specifici per i più piccoli c’è un’offerta talmente ampia da accontentare ogni segmento più stratificato di pubblico giovanile attraverso un’operazione sinergica di “marketing cross mediale” che punta al consolidamento del marchio e alla nascita di nuovi prodotti: dalle bambole alle figurine all’abbigliamento fino agli articoli di cancelleria (Cannizzo, 2003). Inoltre, sempre più spesso i ragazzi trascorrono molto tempo da soli, nelle loro camere dotate di televisore. Film, telefilm e cartoni animati risultano essere i generi più visti e, a proposito di questi ultimi, il collegamento tra le nuove aspettative del target giovanile e le strategie narrative del prodotto appare palese e riguarda sia il contenuto che il mezzo attraverso cui i cartoni sono erogati. I titoli più gettonati (“Dora l’esploratrice”, “Manny Tuttofare”, “Little Einsteins”) manife- stano infatti la tendenza a volersi proporre come ausili didattici alternativi e sicuramente più appetibili nella loro modalità quasi interattiva di impartire nozioni basilari di storia, geografia e matematica attraverso un approccio ludico mai nozionistico. Di contro, la sequenza di cartoni animati che si rivolge alla fascia adolescenziale è intrisa di violenza e richiami sessuali più o meno espliciti (“I Griffin”, “American Dad!”, “South Park”) a sottolineare anche qui la netta separazione di competenze e tattiche comunicative tra l’infanzia e l’adolescenza vera e propria (Raffo, 2013). • la “scomparsa dell’infanzia” e la sua sostituzione: la fascia più appetibile dal punto di vista pubblicitario e di investimenti televisivi è quella compresa tra gli 8 e i 12 anni che la letteratura classica denominava “età dell’infanzia” caratterizzata soprattutto da un radicamento dei luoghi e delle figure cardine dell’educazione: la famiglia e la scuola2. La formazione dei più giovani è delegata oggi al contributo informale dei media e dei nuovi strumenti tecnologici e la costruzione della soggettività giovanile avviene grazie ad un interscambio continuo e ininterrotto con la realtà mediatizzata più che tramite il contatto con le tradizionali agenzie della socializzazione (Cannizzo, 2004). L’infanzia come categoria sociale rischia di scomparire ed essere sostituita dalla pre-adolescenza proprio in virtù 2. Sul concetto di “scomparsa dell’infanzia” e sul ruolo determinante dei media nella modificazione dell’ambiente esterno e dei livelli di interazione cfr. Postman N., The Disappearance oj Childhood, Delacorte Press, New York, 1982 (tr.it. Ecologia dei media. La scuola come contropotere, Armando editore, Roma, 1981); J. Meyrowitz J., Oltre il senso del luogo. Come i media elettronici influenzano il comportamento sociale, Baskerville, Bologna, 1995, p. 408. IN•FORMAZIONE 12-2014 120 della presenza massiccia di internet, tablet e smartphone che ha modificato già in maniera integrale le fasi salienti dell’età evolutiva anche nei settori dell’abbigliamento, del linguaggio e degli approcci interpersonali. Essere sempre connessi, in contatto con il proprio mondo di riferimento, rappresenta una normale attitudine, una forma abituale di comunicazione tra pari oltreché una contestuale tensione verso l’autonomia e l’individualizzazione di ciascun nuovo adepto alla socializzazione 2.0. • L’ascesa dei new media e la generazione “I like it: il motivo principale dell’attrazione fatale? Nell’ambito dei nuovi media, il giovanissimo fruitore assume un ruolo privilegiato in quanto diventa componente dinamica del processo di comunicazione ponendosi al centro delle proprie pratiche di apprendimento e di consumo che gli permettono di costruire e forgiare a proprio piacimento l’identità in rete. Se riflettiamo infatti sul ruolo svolto da social network come Facebook – di più larga diffusione tra i giovanissimi – non è difficile riconoscere come la realtà, la conoscenza e l’informazione si costruiscano proprio attraverso l’interazione reciproca e partecipativa di tutti i membri di questa comunità virtuale. I media digitali offrono risorse inedite alle capacità creative del soggetto che da semplice destinatario delle informazioni mediate diventa emittente di veri e propri flussi comunicativi. Inoltre, i nuovi strumenti della comunicazione digitale propongono visioni del mondo, occasioni di conoscenza e modelli cognitivi che prendono corpo dai media precedenti modificandone il ruolo, gli effetti e i significati: dalla tv alla web tv; dal quotidiano ai giornali on line; dalla radio al podcast; dal telefono all’i-phone. «[…] Il processo che ne deriva è forte- mente incentrato non più sul risultato che si vuole ottenere […] ma sull’elaborazione stessa della socializzazione che viene affidata in maniera sempre più esclusiva al soggetto» (Cannizzo, 2005). • Il rischio è quello di una interazione virtuale più forte di quella reale? Stando ai dati relativi alla nostra indagine pare proprio di sì specie nel constatare come la relazione reale con gli amici sia solo al quarto posto tra le attività più “fruite” nel contesto quotidiano. Ma è proprio negli universi paralleli di Facebook e Whatsapp che lo scambio virtuale tra coetanei si fa reale attraverso un’interazione metaforica e ridondante che, grazie all’abbattimento dei confini spazio-linguistici-temporali, acquisisce simultaneità e velocità ma può provocare forme di isolamento passivo, perdita di autonomia ed eterodirezione dei contenuti, cyberbullismo qualora non avvenga un confronto anche con le altre fonti informative. La socializzazione digitale non è impartita o mediata da altre figure istituzionali in grado di esercitare una forma di controllo in quanto poggia su di un’unica componente comunicativa – il soggetto – la cui prerogativa è quella di mettere on line la propria identità per ricomporla entro la community di appartenenza grazie anche alle funzioni di registrazione dei messaggi vocali e di video chat presenti sui network e sulla chat di più larga diffusione (Viber, Tango, Facebook e Whatsapp). Appendice: ipotesi e proiezione di una possibile applicazione alla fascia prescolare Il fenomeno della socializzazione precoce alle nuove tecniche dell’apprendimento di- Articoli 121 gitale di cui abbiamo finora dibattuto – realtà immanente della pre-adolescenza – è destinato ad una costante e massiccia diffusione anche in ambito pre-scolare tra i bambini d’età compresa tra i 3 ed i 6 anni. Ne deriva un presumibile conseguente incremento nel mercato di tablet, smartphone, applicazioni in cui ogni forma tecnologica possa diventare tangibile e verosimile per far leva proprio sulle caratteristiche innate dell’apprendimento infantile rivolto alla soddisfazione quasi immediata dei bisogni di conoscere, interagire e divertirsi. La “scomparsa dell’infanzia” precedentemente accennata può essere qui riletta come una sorta di “declino delle aspettative sull’infanzia” in quanto appare inconfutabile la presenza di una vera e propria rivoluzione cognitiva contrassegnata dall’incalzare delle tecnologie digitali, dalla “crossmedialità” (Paccagnella, 2010) e da un ambiente familiare fortemente mediatizzato e/o digitalizzato in cui è facile muovere i primi passi. Se è dunque facile riconoscere al pre-adolescente e al fratellino più piccolo doti e caratteristiche innate da vero e proprio “nativo digitale”, il punto dolente risiede piuttosto nel difficile ruolo educativo delle agenzie istituzionali della socializzazione: scuola e famiglia troveranno tempo e modo di adeguarsi ad un cambiamento epocale dei paradigmi basilari dell’apprendimento e della formazione? Il sistema scolastico dovrà fare ricorso a un investimento sempre più cospicuo di tecnologie ausiliarie all’insegnamento tradizionale per favorire l’adeguamento tra l’utilizzo scolastico e quello extrascolastico degli strumenti digitali sfruttando proprio le caratteristiche ludico-percettive del tablet utilizzato a casa con o senza la presenza dei genitori (Bruni, 2013). La vera rivoluzione è infatti quella che spinge a concedere un’opportunità formativa ai nuovi media al di là delle vetuste contrapposizioni tra le te- si critiche e quelle più accondiscendenti sul loro utilizzo in età pre scolare: i piccoli “digi-alfabetizzati” sono fatalmente attratti dalla modalità touch screen del tablet proprio perché – con il solo ausilio tattile – riescono ad esperire attivamente percorsi di fruizione mai testati, ad esempio, davanti alla tv assimilando un’esperienza forse più superficiale ma spontanea e tagliata su misura nel rispetto dei propri interessi e dei propri tempi (Ferri, Mantovani, 2012). Possiamo a questo punto prendere in considerazione, seppure ricollocandola in un contesto assai più recente e complesso, la “tesi del ritardo culturale” di Ogburn (1922) per cui, oltre alla scuola, anche la famiglia –luogo cardine della “cultura adattiva” – fa fatica a stare al passo con un ambiente sociale e materiale fortemente propenso al mutamento: sono spesso i membri più piccoli del nucleo familiare i protagonisti di questa contraddizione incolmabile tra la forte accelerazione della tecnologia e il più lento fluire dei valori e degli stili di vita. Una ri-educazione all’utilizzo dei media nei diversi ambiti di pertinenza infantile e giovanile e una rinnovata visione del policentrismo educativo grazie all’ausilio della Media Education, possono costituire la soluzione ai problemi sollevati dal fenomeno, ribadendo quanto sia sterile l’ipotesi di tenere i bambini lontani da Internet ma sottolineando l’importanza di un reale coinvolgimento degli adulti – genitori e insegnanti – nell’atto della decodifica dei contenuti digitali e soprattutto nella capacità di mediazione tra mondo virtuale e mondo reale (Rivoltella, 2008). La generazione dei “digital kids” è più vicina, adesso, a quella dei “pre-adolescenti” quanto a competenze e tecniche di apprendimento digitale ma entrambe sono inscrivibili in un più complesso meccanismo di comunicazione trasversale che ha innescato, negli ul- IN•FORMAZIONE 12-2014 122 timi anni, un modello di realtà riflessa e speculare i cui contenuti appaiono fortemente contrassegnati dalla trasgressione e dalla “creazione di pseudo-fenomeni esclusivamente mediatici”. È la nuova strategia di MTV e dei protagonisti giovani, belli, e talentuosi di “Jersey Shore”, “Ginnaste: vite parallele”, “Calciatori: giovani speranze”, che si muovono, come il loro pubblico, entro uno spazio sociale fortemente digitalizzato, precocemente adulto e parallelo al vissuto quotidiano. Bibliografia • Bruni A. (2013). I media nell’apprendimento: due paesi a confronto, tesi di laurea magistrale in Scienze sociali applicate, Facoltà di Sociologia (relatore prof.ssa Cannizzo D.) AA 2012-2013. • Cannizzo D. (2003). Saranno famosi. La produzione mediale delle aspettative giovanili. Roma: Eucos. • Cannizzo D. (2004). Educazione, formazione e media. Roma: Eucos. • Cannizzo D. (2013). Generazione touch screen in (a.c. di Nazio P., Cannizzo D., De Rosa G., Raffo G., Malatesta S.) “Digital Kids. bambini, television e new media”. Roma: Upter. • Cannizzo D., Del Terra L., I media nella di- • • • • • • • • dattica e nella comunicazione, progetto IRRE-MIUR, marzo 2005, p. 9. Ferri P., Mantovani S., (2012). Digital kids. Come i bambini usano il computer e come potrebbero usarlo genitori e insegnanti. Milano: Rizzoli Etas. J. Meyrowitz J. (1995). Oltre il senso del luogo. Come i media elettronici influenzano il comportamento sociale. Bologna: Baskerville, 1995, p. 408. Malatesta S. (2013). Telefoni, smartphone e dintorni in “Digital Kids. bambini, television e new media”. Roma: Upter, pp. 22-24. Ogburn W. (1922). Social change with respect to culture and original nature, B.W Huebsch. Paccagnella L. (2010). Sociologia della comunicazione. Bologna: Il Mulino. Postman N. (1982). The Disappearance oj Childhood, Delacorte Press, New York, 1982 (tr.it. Ecologia dei media. La scuola come contropotere. Roma: Armando editore, 1981). Raffo G. (2013). Kids parade! Cosa guardano i bambini in tv? in “Digital Kids. bambini, television e new media”. Roma: Upter, pp.19-21. Rivoltella P.C., (2008). “Educazione e nuovi media. Diritti e responsabilità verso una cittadinanza globale”. Milano: Mondadori Educations. Articoli Leyla Vahedi [email protected] Dipartimento di Comunicazione e Ricerca Sociale Sapienza, Università di Roma Leggere prima di leggere. Una panoramica di indagini empiriche statunitensi sulla lettura della primissima e prima infanzia (0-3; 3-6 anni) dagli anni Ottanta a oggi Il presente articolo offre una ricognizione su alcune indagini e sulla crescente sensibilità verso la lettura precoce, prealfabetica e prescolastica, con particolare riferimento al contesto statunitense. Sin dagli anni Ottanta, infatti, un profondo interesse verso le modalità di lettura dei piccolissimi è sorto nel campo della psicologia dello sviluppo, estendendosi poi verso diverse prospettive disciplinari (antropologiche, cognitive, sociali, mediali). Nei paesi anglofoni in genere, l’albo illustrato è al centro delle abitudini di lettura di gran parte dei bambini, grazie a una ricca tradizione editoriale e culturale oltre che a specifiche politiche di promozione1. Il libro non è il solo strumento di trasmissione culturale ma nella primissima infanzia costituisce senza dubbio la palestra in cui met- tere alla prova capacità di literacy di base, abilità di decifrazione visuale, mediatica, narrativa. L’albo illustrato è un particolare strumento di introduzione alle strutture narrative e alla forma libro e alla cultura lineare e alfabetica costitutiva delle società occidentali. Nel 1984 furono pubblicati i risultati del convegno “Awakening to Literacy”2 in cui, forse per la prima volta, si illuminava lo scarto tra chi accedeva al percorso scolastico ready to learn e chi senza adeguate capacità decifrative e cognitive di base. Il divario non si assottigliava col progredire degli anni e le conseguenze influivano sul successo scolastico successivo: una nuova importanza andavano a assumere quindi, prima delle istituzioni scolastiche3, il contesto familiare e soggetti mediatori come pediatri, bibliotecari, ludotecari, operatori di nido. 1. Si vedano programmi come “Reach out and Read” (http://www.reachoutandread.org), il californiano “Early Start” (http://www.dds.ca.gov/earlystart/), o “Born to read” dell’American Library Association (http://www. ala.org/alsc/issuesadv/borntoread) negli Stati Uniti e “Bookstart” in Inghilterra (http://www.bookstar.org.uk), indirizzi consultati a aprile 2014. 2. Cfr. Teale (1984, pp. 110-122). 3. Si veda per esempio lo studio (Walker 1994) condotto negli anni Novanta su 32 bambini, seguiti dalla scuola dell’infanzia fino alla terza classe della scuola primaria, che ha mostrato quanto il vocabolario acquisito in età prescolare sia responsabile delle successive differenze nella lettura in terza elementare e nel riconoscimento fonetico. 123 IN•FORMAZIONE 12-2014 124 Nel corso di un ventennio, un gran numero di indagini4 continuano a dimostrare il legame tra emergent literacy e mantenimento dell’abitudine alla lettura e alla scrittura nel corso della vita. È soprattutto drammatica l’altra porzione: i bambini poco o per nulla sollecitati nei primi tre anni di vita, vera e propria “finestra di opportunità” dal punto di vista cognitivo, saranno meno portati a restare lettori, e in generale poco capaci di leggere e decifrare la realtà circostante. L’albo illustrato è in primo luogo uno strumento comunicativo e relazionale del bambino col mondo (Vygotsky 1978), oltre che con l’adulto mediatore; è un’esplorazione, una palestra, il primo contatto con i nessi della rappresentazione e del pensiero. Parallelamente agli studi sugli effetti sociali e comunicativi della lettura precoce, si sono indagati infatti i meccanismi dei collegamenti visuali, e si è visto che sin da piccolissimo il bambino riconosce i volti (per primo quello della madre) e le espressioni del viso e che questo riconoscimento suscita piacere e immagazzinamento progressivo di informazioni in direzione della decifrazione della realtà. Sin dai 15-18 mesi, i piccoli lettori sono in grado di collegare ciò che è rappresentato nei libri agli oggetti e alle situazioni della realtà, soprattutto quando l’immagine è fotografica o realistica5. In particolare, alcu4. Adams (1990); Baydar, Brooks-Gunn & Furstenberg (1993, pp. 815-829); Blair (2001, pp. 37-50); De Jong & Leseman (2001a, pp. 389-414); Duncan et al.(2007, pp. 1428-1446); Leseman & De Jong (1998, pp. 294-318); Payne, Whitehurst & Angell (1994, pp. 427-440); Scarborough & Dobrich (1994, pp. 245-302); Scarborough, Dobrich & Hager (1991, pp. 508-511); Walker et al. (1994, pp. 606-621). 5. Ganea, Pickard & Deloache (2008, pp. 46-66), e in generale: Barrera & Maurer (1981, pp. 714-716); Callaghan et al. (2004, pp. 1733–1744); Ganea et al. (2009, ni studi6 hanno evidenziato il legame tra pratiche di labeling objects, commenti testuali, invito all’interattività da parte dei genitori e risultati cognitivi: la maggioranza dei bambini osservati dopo una singola lettura ha appreso nuove parole, ha messo in atto generalizzazioni e collegamenti tra fatti o oggetti rappresentati e realtà esperita. Da queste ricerche emerge che, rispetto a altre attività di gioco condivise tra adulto e bambino, la lettura di albi crea uno spazio favorevole all’interazione sociale e all’apprendimento con l’introduzione dell’idea di ordine, organizzazione, sequenza (del testo pronunciato, delle illustrazioni, dello svolgimento narrativo). Poiché la voce e l’attenzione dell’adulto che legge rassicurano il bambino, la lettura condivisa ha effetti positivi sul loro legame affettivo. Anche a distanza di tempo i buoni risultati sembrano dipendere in parte rilevante dalla capacità del genitore di avere un atteggiamento di lettura caldo, protettivo, sensibile agli stimoli e agli interessi del bambino7. Osservando da vicino le modalità di lettura attivate, si è visto che il “motherese”, le chiacchiere extratestuali, l’intonazione della voce, la disponibilità a cadenzare la voce e rendere espressiva e performativa la lettura, a cercare pp. 283-295); Preissler & Bloom (2007, pp. 1-2); Robinson, Nye & Thomas (1994, pp. 165-191); Uttal et al. (2008, pp. 156-170). 6. Cfr. Gelman et al. (1998, pp. 1-148); Haden, Reese & Fivush (1996, 21, pp.135-169); Leseman & De Jong (1998, pp. 294-318); Leseman & De Jong (2001b, pp. 7193); Ninio & Bruner (1978, pp. 1-15). 7. Sul legame tra affettività e apprendimento, non solo da parte dei bambini, ma anche da parte degli adulti che “scoprono” le competenze stupefacenti dei neonati e nuove modalità di contatto, cfr. Bingham (2007, pp. 2349); Fletcher & Reese (2005); Leseman & De Jong (1998, pp. 294-318); Leseman & De Jong (2001b, pp. 71-93). Articoli 125 un contatto fisico col bambino, a indicare, stimolano nel bambino coinvolgimento, divertimento, imitazione8. Tanto sulla quantità, ovvero sulla frequenza di lettura (quanto spesso e quanto a lungo)9, che sulla qualità si è soffermata una letteratura vasta, che ha raccolto i dati con indagini quantitative e qualitative. Un’attività trentennale di ricerca che è riuscita a entrare nelle case e nelle biblioteche, a riprodurre ambienti naturali di lettura, facendo tesoro delle tecniche dell’osservazione partecipante o dell’osservazione a distanza (della relazione di lettura adulto-libro-bambino o di gruppi di pari). Sono stati redatti verbali dei dialoghi osservati, oltre alla registrazione di modi, posture, movimenti e contatti. Oggi alcune ricerche empiriche cercano di capire quanto e come i bambini apprendono dalle immagini degli albi illustrati e dall’interazione digitale con i libri app: non soltanto i benefici generali, ma proprio che cosa gli occhi e le orecchie dei piccolissimi colgono e ricordano attraverso la lettura, in cui tra supporto, immagini e parole c’è un nesso intrinseco e caratterizzante10. L’istituto Joan Ganz Cooney Center di New York ha recentemente pubblicato un rapporto sui media utilizzati in famiglia per scopi educativi (Wii, smartphone, televisione satellitare 8. Sull’imitazione nella primissima infanzia, cfr. Barr, Dowden & Hayne (1996, pp. 159-170); Barr & Hayne (1999, pp. 1067-1081); Hayne, Herbert & Simcock (2003, pp. 254261); McCall, Parke & Kavanaugh (1977); Meltzoff (1985 pp. 62-72, 1988a pp. 1221-1229, 1988b pp. 470-476). 9. Bus & Van Ijzendoorn (1995, pp. 998-1015); Bus, Van Ijzendoorn & Pellegrini (1995, pp. 1-21); Ninio (1993, pp. 445-451); Raikes & Whitmer (2006); Zill & Resnick (2006, pp. 347-371). 10. Fletcher & Reese (2005). Cfr. inoltre Simcock & Dooley (2007, pp. 1568-1578). o videogiochi): Learning at Home. Families’ Educational Media Use in America (Rideout 2014)11. Una buona parte dello studio si focalizza sulle nuove abitudini di lettura (condivisa o autonoma, cartacea e digitale)12. Il rapporto tiene presente che l’esperienza di lettura è da sempre, ma in maniera particolarmente intensa per i bambini di oggi13, eminentemente multimediale e multimodale, svolgendosi sui supporti più diversi, dai cartelloni pubblicitari agli albi e alle app. Le convinzioni, opinioni e perplessità espresse delle famiglie sui media digitali ci sembrano utili per decifrare tendenze in atto. La maggior parte dei genitori i cui bambini utilizzano abitualmente media educativi si dicono convinti che i figli abbiano effettivamente imparato grazie all’interazione con tali dispositivi e che ne vengano influenzati attivamente. Il 38% dei genitori racconta che i bambini parlano e raccontano la propria esperienza mediale, il 34% che ne prendono spunto per giochi da mettere in scena, il 18% che chiedono attività specifiche ispirate dall’interazione mediale. Il gioco, la rappresentazione, la teatralizzazione delle esperienze mediali, oltre a essere un rilevatore di interesse da parte del bambino, possono essere considerate parte stessa dell’esperienza di fruizione. 11. (verificato ad aprile 2014): http://www.joanganzcooneycenter.org/wp-content/uploads/2014/01/jgcc_learningathome.pdf 12. Risulta che in media dai 2 ai 10 anni si legge 40 minuti al giorno, i genitori leggono in media 44 minuti al giorno alla fascia 2-4 anni, 24 minuti in quella superiore, con una propensione verso la lettura condivisa nelle famiglie a basso reddito. 13. Scrive M. Mackey (1994, pp.9-19): “To talk about children’s literature, in the normal restricted sense of children’s novels, poems and picture books, is to ignore the multi-media expertise of our children”. IN•FORMAZIONE 12-2014 126 Presentando dati su diversi media educativi, questa e altre indagini restituiscono una mappatura di usi, tempi e abitudini di lettura su diversi supporti, offrendo cenni decisivi anche in direzione di una literacy transmediale, quella facilità di passare con dimestichezza da un sistema mediatico a un altro, e afferrarne il senso complessivo anche attraverso canali plurimi. Bibliografia • Adams M.J. (1990). Beginning to Read: Thinking and Learning about Print. 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(Intervista strutturata ad un bambino di quarta elementare) È argomento quasi scontato che la famiglia e le istituzioni scolastiche con le loro difficoltà di modernizzazione cedano quote e funzioni di trasmissione culturale ai mezzi di comunicazione di massa, considerati sempre più invadenti nel vissuto e nell’immaginario dei più piccoli (Statera & Bentivegna & Morcellini, 1990). In questo scenario, la pubblicità appare uno dei più dibattuti segmenti, in parte per la sua efficacia (più o meno verificata o verificabile) nell’indirizzare il consumo, e in parte per la proposta di modelli comportamentali non sempre adatti ad un pubblico infantile (Brancati, 2005; Puggelli, 2002). Ciò che emerge con chiarezza è che la comunicazione pubblicitaria ha un forte potere educativo sull’infanzia, potere che serve a realizzare quello che è l’obiettivo più scontato della pubblicità, ovvero la vendita di un prodotto o servizio, oppure, che la sua pervasività rappresenta uno degli aspetti più caratterizzanti della società contemporanea e la sua centralità nell’immaginario infantile non sembra destinata a diminuire nemmeno in futuro, soprattutto con la progressiva affermazione dei nuovi media (Metastasio, 2007; Morcellini, 2006). Diversamente, ciò che stupisce è che i più recenti paradigmi di comunicazione non siano adottati per spiegare il rapporto tra comunicazione pubblicitaria e bambini, spesso più demonizzato piuttosto che analizzato oggettivamente. Certamente, la tutela delle nuove generazioni nei confronti dell’overload pubblicitario è necessaria, ma bisogna riconoscere la grande potenzialità che tale forma di comunicazione contiene nelle sue strutture semantiche: basta ricordare l’impronta indelebile lasciata nell’immaginario collettivo delle passate generazioni, cresciute “a pane e Carosello” (Calabrese, 1975). Come afferma Zanacchi (1999), la pubblicità subisce, sia pure con alterni gradi di intensità, l’accusa di essere il principale strumento di uno sviluppo per molti versi criticabile, in quanto spinta contraria all’affermazione di valori autenticamente umani e stimolo di un’esasperata crescita dei consumi. Tutto ciò non fa altro che alimentare il persistente mito negativo dei persuasori occulti – mai sfatato nel pensiero collettivo – che annebbia la lettura critica di molte ricerche, invece di indurre a una riflessione sul cambiamento sociale, che rende possibile l’osservazione sui pic- 129 IN•FORMAZIONE 12-2014 130 coli consumatori con occhi differenti, senza limitarsi ad una lettura apocalittica (Packard, 1958). Mentre sembrano assolutamente centrali le ridondanti ricerche accademiche sul ruolo della pubblicità televisiva come fonte di influenza primaria sul comportamento di consumo dei più piccoli, meno chiaro, invece, è il ruolo che gli altri agenti d’influenza giocano nelle preferenze di determinati prodotti e nella suscettibilità delle decisioni di acquisto dei bambini. In particolare, si può notare una sorprendente mancanza di ricerca sul tema dell’influenza dei pari sul comportamento dei piccoli consumatori o come questa agisce in parallelo all’influenza pubblicitaria, rafforzandola o inibendola. Un vuoto argomentativo che non si riscontra in altri contesti di ricerca come, ad esempio, quello rivolto ad analizzare il comportamento di acquisto degli adulti, sempre più incentrato a rilevarne l’influenza delle relazioni interpersonali, face to face o mediate attraverso i social media. Aver circoscritto lo studio sui piccoli consumatori all’influenza pubblicitaria ha prodotto delle evidenze parziali che hanno fortemente condizionato l’opinione pubblica, impedendo una reale comprensione delle scelte di consumo in età evolutiva1. Adottare un nuovo approccio alla problematica significa spostare di poco la prospettiva di analisi per comprendere con insolita trasparenza le possibili sfaccettature del consumo, 1. Evidenze già sopracitate, come il forte potere educativo o la centralità nell’immaginario infantile, che risultano parziali in quanto non tengono in considerazione l’importanza del contesto sociale e dell’influenza personale all’interno dei peer group in cui l’individuo si inserisce ed è costantemente in relazione (Fabris G., «La teoria dei gruppi di riferimento», in Studi di Sociologia, 1962). dato che la pubblicità non è l’unica fonte di influenza. In realtà, non si può procedere ad una reale comprensione dei processi di acquisto se non si mettono in discussione gli studi che hanno ipersemplificato e banalizzato in primis l’agire di consumo dei più piccoli, dopo averli considerati automi in balia di pubblicitari senza scrupoli (Schor, 2005; Linn, 2005). L’immaturità del pubblico, in relazione al rapporto con la pubblicità, è da sempre valutata come condizione di inferiorità per i piccoli consumatori, in quanto giudicati totalmente incapaci di proteggersi da un pericolo troppo grande come quello pubblicitario, nonché trattati in termini di sostanziale estraneità rispetto al contesto sociale in cui si inseriscono; allo stesso modo, anche la pubblicità è stata decontestualizzata. Tutto ciò ha inibito l’osservazione delle capacità sempre più selettive e critiche del bambino-consumatore, sia mediale che di prodotti di mercato (Morcellini, 2006). Muoversi oltre le aree problematiche della pubblicità, indagare in modo più approfondito il complesso rapporto tra comunicazione pubblicitaria e bambini non vuol dire aderire acriticamente all’ideologia della pubblicità, ignorare i suoi effetti sociali o assolverla pregiudizialmente da ogni eventuale responsabilità, ma significa contestualizzarla e anteporre gli ambiti che sono ugualmente in rilievo quando si parla di piccoli consumatori. Appare opportuno concludere questa riflessione osservando ancora come la pubblicità, inserita nel contesto sociale e considerata alla luce dell’influenza personale, sembra perdere molto dei tratti coercitivi con cui tradizionalmente si tende a caratterizzarla, per assumere una dimensione più umana e attendibile. Una demistificazione dei suoi poteri occulti, Articoli 131 della sua incontrastata abilità persuasiva e una contrapposizione con la realtà sociale basata su codici, norme di gruppo e sistemi di valori, che filtra le comunicazioni pubblicitarie che le sono dirette, decidendo liberamente se accettarle o rifiutarle, può rendere infondati molti preconcetti diffusi nell’immaginario collettivo. In primis, si può rivalutare la capacità cognitiva e selettiva dei più piccoli, concepiti per troppo tempo come bersagli passivi di una forza a cui non possono opporsi e che li condizionerebbe verso obiettivi prestabiliti: in realtà, come succede agli adulti, anche i bambini sono destinatari di una comunicazione che possono promuovere o interrompere con molta discrezionalità; in secundis si può rigettare la concezione meccanicistica tipica del modello ipodermico della comunicazione che ha fortemente caratterizzato tale rapporto, nonché limitato la reale comprensione del fenomeno pubblicità (Fabris, 1986). Eppure, dalla pubblicazione di uno dei classici della Sociologia della comunicazione Personal Influence (Kats & Lazarsfeld, 1968) in cui si documenta anche empiricamente l’esistenza e l’intensità dell’influenza personale in tutta una serie di aree – compresa quella dei consumi – l’importanza delle relazioni personali non poteva più essere elusa o addirittura omessa, anche per ciò che riguarda il rapporto tra bambini e pubblicità. Eludere tale variabile significa non prendere in considerazione tutta una serie di conseguenze derivate da altre fonti di influenza, che però vengono automaticamente attribuite alla comunicazione pubblicitaria, rendendola ancora una volta capace di un potere di influenza straordinario, ma irreale. Da un lato, infatti, come descrive Ferrarotti nell’introduzione all’edizione italiana della ricerca di Decatur, la prospettiva delle ricerche tradizio- nali nelle comunicazioni di massa va dunque capovolta: non si parte dai mezzi e dalla capacità persuasoria dei loro messaggi, ma dalle persone, che possono assimilarli o respingerli; non si procede estraniando i mass media dal loro contesto sociale, ma osservandoli in rapporto a tutto il resto, comprese le relazioni interpersonali (Fabris, 2002). C’è da chiedersi, a fronte della riconosciuta e probabilmente crescente influenza della mediazione interpersonale negli acquisti, come mai si sia dedicata così poca attenzione a quest’area. Ancor più disarmante appare invece il gap argomentativo sull’attenzione alle relazioni sociali nei confronti dei piccoli consumatori: in questo caso la letteratura scientifica e le ricerche empiriche sono praticamente inesistenti. Il disinteresse dei ricercatori verso questa importante fonte di influenza non sarebbe altro che un’ostinata presa di posizione dell’attribuzione aprioristica all’onnipotenza della comunicazione pubblicitaria per ciò che riguarda l’orientamento al consumo e la scelta d’acquisto di determinati prodotti da parte dei bambini, dimenticando l’incisività dell’influenza personale, che da sola può promuovere l’acquisto di un prodotto o rappresentare – diffondendo stereotipi negativi – una fonte di dissuasione, capace di ostacolare seriamente il successo del prodotto sul mercato (Cova & Giordano & Pallera, 2007). Tali effetti sono da considerarsi comunque al di fuori della forza manipolatrice pregiudizialmente attribuita alla pubblicità, mentre è doveroso chiedersi quali possono essere le eventuali ragioni della sottovalutazione nella prassi, al di là dei riconoscimenti teorici, dell’influenza personale. In questa trattazione si cerca di delineare due motivazioni che più di altre giustificano un disinteresse altrimenti incomprensibile. IN•FORMAZIONE 12-2014 132 La prima verte sulla ormai consolidata demonizzazione della comunicazione pubblicitaria nei confronti dei più piccoli, che non fa altro che alimentare l’interesse verso ricerche rivolte a dare l’ennesima conferma sulla sua presunta e incontrastata efficacia, considerata come unica fonte di influenza in grado di orientare la richiesta d’acquisto verso i prodotti reclamizzati da parte dei bambini, ma soprattutto descrivere questi ultimi sostanzialmente isolati e indifesi nei confronti dei messaggi pubblicitari. Ciò dimostra quanto non si sia ancora superata una concezione meccanicistica nel rapporto bambini-pubblicità, quasi facendo eco alle teorie psicologiche un po’ retrò del behaviorismo di Watson e della riflessologia di Pavlov, che per anni hanno ridotto il modello di comunicazione all’equazione elementare dello stimolo-risposta, ossia dell’acquisto incondizionato del prodotto reclamizzato (Fabris, 1970). La seconda probabile motivazione dello scarso interesse per l’influenza personale nel campo d’indagine dei piccoli consumatori è meno pragmatica, ma non per questo meno importante: prendere atto che esistono delle influenze sui comportamenti di consumo, al di là di quelle promosse dalla comunicazione pubblicitaria, chiama in causa ancora una volta il ruolo svolto da educatori e genitori e la loro responsabilità di influire essi stessi, con i loro comportamenti e in modo più o meno consapevole, sull’orientamento dei consumi dei bambini (Puggelli, 2002). I consumi mediali come gli stili di acquisto nell’ambito familiare costituiscono una fonte di influenza che può seriamente controbilanciare l’efficacia della pubblicità. Bibliografia • Calabrese O. (1975). Carosello o dell’educazione serale. Firenze: Cooperativa Libraria. • Cova B., Giordano A., Pallera M. (2007). Marketing non convenzionale. Milano: Il Sole 24 Ore. • Fabris G. (1970). Il comportamento del consumatore. Milano: Franco Angeli. • Fabris G. (1986). La comunicazione pubblicitaria. Milano: Franco Angeli. • Fabris G. (2002). La pubblicità. Teorie e prassi. Milano: Franco Angeli. • Linn S. (2005). Il marketing all’assalto dell’infanzia. Come media, pubblicità e consumi stanno trasformando per sempre il mondo dei bambini. Roma: Orme. • Katz E., Lazarsfeld P. (1968). L’influenza personale nelle comunicazioni di massa. Torino: Nuova ERI. • Metastasio R. (2007), Bambini e pubblicità. Roma: Carocci Editore. • Morcellini M. (2006). La TV fa bene ai bambini. 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However, media contents seldom have a direct or sole influence on our actions. Children can get conceptions and feelings from the TV, but they are mixed with all the other conceptions, norms, values, feelings and experiences they have already acquired and are acquiring from their own practice and from their family, school, peers groups, community. (Feilitzen, 2010). To think ethically about content/when creating content is fundamental. We understand that children are a special audience and deserve, for being so, to be protected for potentially harmful contents. Children can learn so much from audiovisual programmes, and it is important to encourage the production and airing of high quality content for them, respecting pluralism, cultural diversity and inclusion. Children’s voices should be heard and viewed on TV from their contexts, countries, accents, abilities, disabilities, and dreams as well as from other cultural contexts than their own. (Kolucki & Lemish, 2011). The TV should be a place for all. Freedom of expression vs. media regulation? Some say that speaking about regulation of television compromises freedom of expression. It is important to clarify that this is not the case. Freedom of expression is fundamental but cannot fail to ensure freedom of information, plurality and diversity. Otherwise, who has the freedom of expression? The “owners” of the media? The political or commercial forces? The global media conglomerates? Today, the 7 largest media conglomerates – AOL Time Warner, Viacom, News Corp, Bertelsmann, Vivendi, Universal, Sony, and Walt Disney– control a substantial portion of the global audiovisual segment (Media Database, 2013). The topics of media regulation and ownership have emerged as a major issue in regional and global trade negotiations. How to balance the protection of children while respecting the fundamental right to freedom of expression and freedom of information? TV regulation is seen, from this perspective, as a way to promote balance between the voices, images and messages that are spread. The international reference in matters of the protection of children is the Convention on the Rights of the Children, approved by the United Nations in 1989, nowadays signed by most countries of the world. Article 13 133 IN•FORMAZIONE 12-2014 134 states that every child “shall have the right to freedom of expression, this right shall include freedom to seek, receive and impart information (…)”Article 17 calls upon “to ensure that the child has access to information and material from a diversity of national and international sources, especially those aimed at the promotion of his or her social, spiritual and moral well-being, and physical and mental health.” It also states that the “creation of appropriate guidelines to protect children from information and material that is injurious to their well-being” is needed. Potential harmful content for children As an example of potential harmful content on television, we can highlight the correlation between television viewing and violence (von Feilitzen, 2009; von Feilitzen, 2010), or television viewing and obesity as a growing concern (Ekström & Tufte, 2007; Bond et.al, 2013). There is an unprecedented childhood obesity crisis in which 20% of children living either in the United States or in Europe are obese. Most televised food advertising targeted at children fall into one of 5 categories: sugar cereals, candy & sweets, salty snacks, soft drinks and fast food restaurants (World Health Organization, 2013). There are no direct and immediate effects, that means, the fact of being exposed to unhealthy advertising will not make children necessarily obese, since obesity is associated to other factors in children’s lives. (American Academy of Pediatrics, 2011; Lemish, 2006). However, accumulated evidence about the food advertising is quite convincing about its high risk factor (Ofcom, 2004). Is it ethical to target children on TV advertising, especially when the goal is to sell products that compromise children’s health? Quality content for children To think about ethics is also related to offering high quality content for children. Countries can invest, especially through their public broadcasting services, in domestically produced programmes and international programmes, content for all ages and offer a range of genres, as information, drama, fiction, documentaries, fairytales, news, science, sports, music, education, entertainment – not only cartoons produced by global conglomerates (Enli, 2013; Enli & Staksrud, 2013; Petterson, 2013; Rydin & Sjöberg, 2010). Ragna Wallmark, former producer of children programmes and as Head of children departments at SVT (Swedish Television) as well as UR, (Swedish Educational Broadcasting Company), defends the National television with domestic content. She says: • If you never see anyone you can really identify with, you might want to be someone else. • To be seen is one of the most fundamental needs – and to be seen on television is to be seen in the world today. • When you read a script or watch a program ask yourself: Is the child in focus? • Is it about or with children? • Can I identify the aspects mentioned above? The UNICEF publication “Communicating with children” (Kolucki & Lemish, 2011) brings a rich theoretical and practical framework about how to produce quality and inclusive tv for children, including international examples and case studies. Tv regulation Regarding TV regulation, there are mainly 3 regulatory frameworks (Palzer & Scheuer, 2003): Public regulation, as a traditional reg- Articoli 135 ulatory system. The public authority is the regulator. Self regulation, when tv producers draw up their own regulations and take full responsibility for monitoring them through codes of conduct and guidelines. Co-regulation, when the public authority, the broadcasters and the civil society cooperate. Compulsory age classification and content description are used. TV regulation, in the context of protection of children, means laws, watersheds, warnings, ratings, the ombudsmen, technological filtering (Aroldi, 2003; Frau-Meigs, 2003). But TV regulation also includes efforts to offer contents of high quality and diversity to children, especially locally produced programmes (homegrown content), by means of broadcasting quotas, codes of media conducts (Blumenau, 2011; Enli, 2008; Lustvik, 2013). Public Regulation To mention some examples, Sweden, Norway, Finland and Canada have prohibited commercial sponsorship of children’s television programmes; Ireland has banned the use of cartoon characters to promote foods; and France has passed legislation requiring healthy messages to accompany advertisements for foods and beverages high in sugar, salt or artificial color. (Bond et all, 2013). British regulatory framework bans advertising for foods high in sugar, fat and salt around children’s programmes (Steemers, 2012). The ban is based on the primary argument that children do not have cognitive abilities to distinguish between persuasive and entertainment messages. In Sweden (Radio and Television Act, 2010), commercial advertising in television broadcasts may not be designed to attract the attention of children under the age of 12; may not appear immediately before or after a programmes directed to children; individuals or characters who play a prominent role in programmes that are primarily aimed at children may not appear in commercial advertising. Self-regulation Self-regulation is voluntary. In this model, the media industry defines its own rules and compromises regarding the communication with children. Advertising is often self-regulated. An actual polemical debate regarding the effectiveness of self-regulatory initiatives is related to advertising of (unhealthy) food for children. Self-regulatory programmes aimed at reducing unhealthy food advertising to children through self-regulation do not seem to be working well (Matthews, 2008). Research about initiatives in Australia (Revee, 2013), Canada (Asquith, 2009), Spain (Fernández-Martínez & López-de-Ayala-López, 2011) and USA (Kunkel et al, 2009) comment that despite industry claims that food marketing to children would be limited to healthier food or that licensed characters (especially from children’s cartoons) would be used carefully, advertising of non-core foods (high in salt, sugar and fat) continues, including at times when many children watch television. As Palzer and Scheuer (2003) attest, since the state is not involved in this form of regulation, public authority sanctions cannot be imposed. Co-regulation The system of co-regulation means that it is the industry itself and the government together that are responsible for measures to protect IN•FORMAZIONE 12-2014 136 young people against harmful influences from the media. Kijkwijzer, the name of the Dutch rating system in use since early 2001, can be used as a successful example of cooperation between public authorities, the media industry and the civil society (Ofcom, 2008: 8). The rating of media products is done by coders employed by media producers or distributors. The Netherlands Institute for the Classification of Audiovisual Media (NICAM) is responsible for the classification of audiovisual products. Kijkwijzer provides information about the potential harmful effects of movies, videos, DVDs and television programmes including music videos. The rating system consists of 2 elements: age classification and content descriptors. The content descriptors, presented as icons, refer to violence, sex, fear, drug and alcohol abuse, discrimination and coarse language. Advertising is not classified (Palzer & Scheur, 2003; Aroldi, 2003). Other positive examples of co-regulation within the European Union and Australia are presented by Schulz & Held (2006). Media and Information Literacy Ethics and TV regulation are important, but with media content travelling across national borders and with regard to the use of other kinds of media content (internet, advergames), it is recommended that those actions be combined with Media and Information Literacy. Children and youth can learn how to assess information and evaluate TV programmes, examining and understanding how media content is produced, exploring issues of representation, diversity and plurality of media and information. A combination between protection (through TV and media regulation) and empowerment (through Media and Information Literacy) is needed. The term Media and Information Literacy (MIL) was coined by UNESCO in 2011, and it refers to the competence to access media and information; analyse media and information from a critical approach towards media content and create information and communication in a variety of contexts. The UNESCO curriculum (Wilson & al., 2011; Comunicar, 2012; Carlsson, U. & Culver, S.H., 2013) offers guidelines for teachers and teacher trainers about how to work with key competences in different grades at school in order to achieve these goals – and it can be adapted for the work in daycare and with really young kids as well. Media, information, freedom of expression, library, news, computer, internet, digital, cinema, games, television and advertising are seen as topics to be included in educational approaches at school in order to empower children since early ages, to act as informed citizens and creative communicators. To summarize, the MIL ultimate goal is to develop both critical understanding and active participation; enable young people to interpret and make informed judgments as consumers of media and information and to encourage them as producers of media and information to become more powerful participants in society. References • American Academy of Pediatrics (2011). 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(2012), Libro fammi grande, Idest, Campi Bisenzio (FI), Leyla Vahedi Un saggio sulla lettura nella fascia da 0 a 5 anni, periodo per eccellenza fertile per lo sviluppo del linguaggio e più in genere della mente ma tuttavia poco approfondito in letteratura. Il saggio trova collocazione nel campo della letteratura per l’infanzia, tuttavia non può fare a meno della psicologia dell’età evolutiva, della psicologia fisiologica, della biblioteconomia, di un’analisi della produzione editoriale, a testimonianza del dinamismo di questo settore di indagine. Gli autori si dichiarano due semplici amanti dei libri, sappiamo però che sono tra i più attenti operatori attivi nel mondo della scuola, dell’editoria, delle biblioteche: Rita Valentino Merletti è un’eminente studiosa e formatrice che si è soffermata sull’importanza della lettura a alta voce, Luigi Paladin è un appassionato bibliotecario, ispiratore, tra le altre cose, del progetto Nati per Leggere. Il libro propone un approccio precoce alla lettura e supporta alcune buone pratiche che in Italia e all’estero avvicinano genitori e adulti ai bambini e ai loro libri. Dalle conquiste teoriche degli ultimi anni intorno al bambino e dalle scoperte in ambito neuronale che a partire dagli anni ‘80 hanno svelato che il neonato è “competente” e precocemente capace di comprensione sociale, questo libro aiuta ad ampliare l’idea di una literacy a tutto tondo, competenza che il bambino attiva ben prima di cominciare a leggere e scrivere. Nati per Leggere è il progetto nato nel 1999 che ha visto pediatri e bibliotecari impegnati nella promozione della lettura sin dalla più te- nera età attraverso iniziative sui territori e la selezione di una bibliografia di libri di qualità. Uno degli obiettivi del progetto è la riduzione delle differenze sociali tra bambini che sembra vengano delineate proprio nel marchio dei primi anni di vita. Ciò che si scopre è che la lettura precoce è benefica non solo e non prevalentemente nel campo delle competenze linguistiche ma anche in direzione di un’alfabetizzazione visuale e simbolica ancora più pregnante: oltre alle capacità di decifrare e riflettere, i risultati più sorprendenti si registrano nell’ambito delle abilità relazionali, affettive, comunicative, espositive, sociali. I benefici della lettura ad alta voce, il piacere suscitato dalla voce della mamma nei neonati, la soddisfazione del riconoscimento di un volto o la sorpresa di una forma nascosta, la creazione di un rito affettivo intorno al libro che si tramuterà in una solida abitudine alla lettura sono alcuni dei nodi illuminanti di questo saggio, che non manca di offrire una gran quantità di riferimenti alle più recenti proposte editoriali di qualità. Il testo è infatti un indispensabile strumento per il lavoro sul campo in quanto indica dei consigli per scegliere libri per piccolissimi. Oltre a fornire una bibliografia di “libri del cuore” alla fine del volume, propone un tentativo di classificazione utile tanto per gli addetti al settore della letteratura d’infanzia che a chi muove i primi passi alla scoperta dei libri per piccolissimi, corredata da indicazioni per leg- 139 IN•FORMAZIONE 12-2014 140 gere i piccolissimi e sulla capacità progressiva del bambino mese dopo mese. Tre grandi categorie vengono delineate: le prime storie, i Picture Book, le fiabe. Spesso cartonati, dai bordi arrotondati, a volte fustellati e dalle immagini dai contorni definiti e i fondi uniformi, i libri con le prime storie (suddivisi in libri di parole, libri di concetti e protostorie) presentano oggetti, situazioni o piccole storie familiari ai piccoli lettori e svolgono la funzione di ponte tra la realtà conosciuta, la rappresentazione e la denominazione, attivata dalla lettura a alta voce. La fiaba qui si invita a leggerla senza timore, perché narra un universo psicologico che seppur crudo e doloroso è vicino all’esperienza dell’infanzia. Dei Picture Book si delineano alcune strutture in base al rapporto narrativo tra testo e immagini, e ci si sofferma sui silent book, gli albi senza parole, in quanto particolarmente funzionali alla costruzione di una visual literacy indispensabile nella società delle immagini. Uno strumento per operatori e genitori dunque, ma soprattutto un saggio specialistico che fa tesoro delle esperienze di promozione e sistematizza saperi troppo spesso confinati nel campo degli addetti ai lavori. Leyla Vahedi Scaffale: libri, video, programmi mediali e approfondimenti 141 Recensione del libro: Satta C. (2012), Bambini e adulti: la nuova sociologia dell’infanzia, Carocci Editore, Collana Bussole, Roma, Monica Bukat Il libro di Caterina Satta, ricercatrice e sociologa dell’infanzia e dei processi culturali dell’Università di Padova propone una riflessione critica sulla relazione tra adulti e bambini e la loro reciprocità di esperienze. Sulla scia dell’approccio dei new social studies of childhood, viene introdotto l’articolato dibattito sviluppatosi a livello internazionale presentato attraverso una ampia e variegata letteratura di riferimento. Il nuovo paradigma segna una svolta rispetto alle versioni classiche del pensiero sociologico. Riconoscendo i limiti della letteratura tradizionale dello sviluppo del bambino, letto esclusivamente nella cornice di un processo di adattamento e interiorizzazione dei valori e delle norme di una determinata società, propone una nuova prospettiva dalla quale riconsiderare il concetto dell’infanzia per spiegare e comprendere la differente visione e rappresentazione del mondo del bambino. L’innovazione proposta da questo filone di studi sposta il baricentro dell’osservazione non più focalizzato solo sui processi di natura organicistica e funzionalista della società ma anche e soprattutto sui soggetti che la abitano. Così con i new social studies of childhood nasce e cresce un nuovo paradigma d’indagine con l’obiettivo di studiare il bambino nel suo presente, per quello che esperisce e percepisce nella costruzione del proprio mondo. L’attenzione viene posta sulle reali condizioni di esistenza del bambino nel contesto culturale in cui vive. Da questo punto di vista quindi i bambini vengono considerati come attori sociali in grado di dare un significato a ciò che accade nel mondo che li circonda. I bambini possono influenzare gli adulti? Sono in grado di contribuire al cambiamento sociale? Diversi sono gli aspetti che entrano in gioco. Oggi la categoria sociale dell’infanzia appare di grande importanza per la società e riveste un enorme e rinnovato interesse sia nella ricerca scientifica che nel settore politico, socio-culturale nonché in quello dei mass media. Storicamente la categoria dell’infanzia si definisce su archetipi e miti costruiti dagli adulti mentre la nuova sociologia dell’infanzia indirizza il nostro sguardo verso la centralità del bambino andando a decostruire quanto fino ad ora siamo stati soliti credere e pensare sui bambini. Per comprendere l’agire dei bambini la moltitudine di studi e ricerche, prevalentemente di stampo psicologico – pedagogico ma anche sociologico, ha da sempre adottato una visione adultocentrica – ossia “dall’alto verso il basso” (Alanen 1998). Ma troppo spesso lo sguardo dell’adulto risulta distante, dall’alto, oggettivante che ci informa su come gli adulti vedono i bambini e su come quest’ultimi vanno controllati e guidati nella loro trasformazione verso l’età adulta. È uno sguardo che in termini di sviluppo lineare di acquisizione delle conoscenze e delle competenze, focalizza la propria attenzione su quello che i bambini “non sono ancora”, ragionando in termini di “mancanza” e “carenza” piuttosto che su quello che IN•FORMAZIONE 12-2014 142 essi “sono qui e ora”. A voler considerare i bambini primariamente o unicamente nella visione evoluzionistica verso una prossima età adulta, per quello che saranno un domani e puntare meramente al loro futuro, si corre il rischio di ignorare e sottovalutare l’importanza del loro presente. Nel libro l’autrice ripercorre l’evoluzione della sociologia dell’infanzia che pone le proprie radici nella teoria socio culturale dello sviluppo di Lev Vygotskij ripartendo dal suo concetto fondamentale dell’infanzia come un insieme di routine e pratiche collettive che il bambino concretizza interagendo sia con gli adulti sia con i propri pari in contesti culturali dinamici. In quest’ottica si inserisce l’approccio teorico della riproduzione interpretativa di William Corsaro sviluppato agli inizi degli anni Novanta che attribuisce un ruolo attivo al bambino visto come un soggetto autonomo che cerca di impossessarsi delle informazioni del mondo degli adulti, di interpretare creativamente quanto appreso e quindi di rimodellare gli elementi della realtà sociale che lo circonda a modo proprio. La riproduzione interpretativa viene quindi definita come “un processo produttivo-riproduttivo di crescente densità e riorganizzazione delle conoscenze che cambia con lo sviluppo delle abilità cognitive e del linguaggio dei bambini e con i cambiamenti dei loro mondi sociali” (Corsaro, 1992, p.162) Con questa affermazione si sostiene che i bambini non si limitano a emulare e interiorizzare norme e valori appartenenti al mondo degli adulti ma piuttosto che essi agiscono autonomamente essendo perfettamente in grado di reinterpretare in modo innovativo la realtà circostante attraverso la riproduzione e la partecipazione alla cultura specifica del gruppo dei pari median- te un appropriato uso del linguaggio. I bambini nella loro quotidianità si inventano l’infanzia sulla base dei propri bisogni, desideri e priorità. Il concetto generazionale appare centrale nell’analisi sulla condizione dei bambini nella società. La dicotomia bambini-adulti non va letta in chiave oppositiva e comparativa bensì in quella relazionale connessa alle specifiche posizioni sociali che entrambi occupano nell’ordine generazionale rappresentato mediante diversi modelli generazionali (non universali) chiamati a regolare i loro rapporti. Le pratiche dei bambini e quelle degli adulti costituiscono un complesso processo relazionale di costruzione e ricostruzione sociale in continua definizione e trasformazione. Così tra la “cultura degli adulti”, intesa come quell’insieme di valori educativi e pratiche di accudimento, e la “cultura dei bambini”, data dalla propria specificità infantile, esiste un processo reciproco di interdipendenza tale per cui l’una non può essere compresa senza considerare l’altra. I desideri di bambini e le responsabilità degli adulti sono continuamente sottoposti ad un processo negoziale della loro relazione in quotidiano divenire. Dalla lettura del testo emerge quindi che osservare i bambini, cosi come è accaduto storicamente, esclusivamente come il fenomeno di socializzazione significa distogliere lo sguardo dalle dinamiche contemporanee che propongono una rappresentazione del bambino come soggetto singolo dotato di agency, un attore sociale capace e socialmente competente in grado di partecipare all’interazione sociale e di contribuire al cambiamento della società stessa. Insomma un soggetto in essere e non solo in divenire. Monika Bukat Scaffale: libri, video, programmi mediali e approfondimenti 143 Jenkins H. and Kelley W. (2013) Reading in a Participatory Culture: Remixing Moby-Dick in the English Classroom. New York, USA: Teachers College, Columbia university, Jelena Perovic “NML’s message for educators is simple: Appropriate and remix these practices for your students, apply them to any book you wish or are required to teach, create your own community of readers, and embrace those elements of participatory culture that you think may empower learners.” (loc 495 of 4643) Reading in a Participatory Culture presents a new media literacies project implemented by a team of researchers, designers and educators with the aim of developing a new curriculum for high school English language arts classroom that is based on the practices of participatory culture. Principle Participatory culture is defined as one that has low barriers to artistic expression and civic activism; that supports creating and sharing with others; that has some form of informal mentorship so that the more experienced members share the knowledge with the new ones; that has members who believe that their contributions matter and who care about what other members think of their creations. “A well-designed curriculum will help students to develop both the literary mind, as traditionally conceived, and new competences required to more meaningfully engage with the Description access to technology is necessary, but not sufficient; all lear1. Address the participation gap ners must be supported to learn how to contribute 2. Bring new expertise and perspectives into there are many forms of literary scholarship, and "literary the English Language Arts Domain analysis" is not a monolithic set of practices and skills 3. Begin with core literary practices/concep- traditional literary practices take on new meaning when exts and expand tended into participatory cultures comparative perspectives encourage an exploration of the 4. Media studies approach intersection between literature and other media, often deepening an appreciation of the cultural impact of classic texts popular culture offers a culturally contested and therefore 5. Stance on popular culture valuable and necessary avenue for developing new media literacies skills there are multiple avenues to participatory culture, and many barriers that limit students’ access to these cultures. 6. Stance on technology Our hope is to offer a range of activities, both high and low tech, to support as many different kinds of classroom communities as possible. IN•FORMAZIONE 12-2014 144 new participatory culture.” (loc 563 of 4643) The six core principles that the new participatory curriculum is based on are summarized in the table below. (loc 629 -738 of 4643) The authors introduce a participatory understanding of reading and literacy that recognizes that there are many ways of making meaning out of a text and that they are all equally valid forms of reading. As a result, the classroom becomes a “community of readers”, where students share what and how they read, as well as appropriate and remix what they read. Hence, the participatory model of reading uses the text as a starting point for readers to respond to it by crating new works based on it. “... developing literacy is about learning how to read, think, critique, and create together.” (loc 1174 of 4643) The word “together” has an important meaning as the authors underline that literacy is no longer a set of personal skills, but a set of social and cultural competencies closely linked to our public lives online and the social networks through which we operate. The authors argue for new media literacies as a paradigm shift in education and not as a subject that is separated from the rest of the curriculum. “... the new media literacies should represent a paradigm shift that affects how we teach all aspects of the school curriculum, just as media change has affected every aspect of our society.” (loc 1749 of 4643) In order for this change to happen, it is necessary to adapt the assessment and testing of students, so that they are supported in participatory learning. The authors identify three participatory assessment design principles: 1. use contexts to give meaning to concepts and skills 2. assess reflections rather than artifacts 3. downplay assessments and isolate tests. “Education may be the great equalizer, ensuring widespread access to the skills and tools needed for democratic citizenship. Yet, there is a danger that education, working as a wing of the state, may devalue these emerging forms of participation, dismissing activities that are meaningful to students outside school, convincing them that they have little of significance to contribute to these larger conversations.” (loc 3758 of 4643) Jelena Perovic