Il progresso verso l`abolizione della pena di morte in Africa

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Il progresso verso l`abolizione della pena di morte in Africa
Quaderni Jura Gentium - Feltrinelli
IL PROGRESSO VERSO L’ABOLIZIONE DELLA
PENA DI MORTE IN AFRICA (*)
William A. Schabas
Secondo un vecchio studio sulla pena di morte preparato per le Nazioni
Unite e pubblicato nel 1965, nessun paese dell'Africa subsahariana aveva
abolito la pena di morte. (1) Nel 1987, il presidente della Corte suprema
dello Zimbabwe affermava: "Se guardiamo all'Africa, il fatto deprimente
è che [...] tutti i paesi africani mantengono in vigore la pena di morte".
(2) Queste valutazioni erano forse un po' troppo negative. Nel 1989,
quando Amnesty International cominciò a registrare e ad analizzare i dati
statistici sulla situazione globale della pena di morte, registrò che l'unico
paese africano ad aver abolito formalmente la pena di morte era l'ex
colonia portoghese del Capo Verde, con una legge approvata nel 1981.
L'ultima esecuzione avvenuta a Capo Verde risaliva al 1835. Circa
trentacinque altri paesi erano elencati come abolizionisti per tutti i reati.
(3) Le Seychelles e São Tomé e Príncipe erano classificati insieme a sedici
altri stati come abolizionisti per i soli reati comuni. La data dell'ultima
esecuzione era nota. (4) Vari altri stati erano collocati nella categoria degli
abolizionisti di fatto, stati cioè che non eseguivano condanne a morte da
almeno dieci anni: le Comore, la Costa d'Avorio, Gibuti, il Madagascar
(1958), le Maldive (1952), il Niger (1976), il Senegal (1967) e il Togo. (5)
La misurazione dell'abolizione di fatto è considerata un indicatore utile
perché molti stati africani abbandonano semplicemente la prassi della
pena capitale anche senza abolirla per legge.
Due decenni dopo, la situazione è cambiata in misura significativa. A
partire dal 1989 quindici stati africani hanno abolito per legge la pena di
morte e altri stati possono essere aggiunti all'elenco degli abolizionisti di
fatto. Il Togo è l'ultimo paese africano ad aver abolito la pena di morte.
La legge di abolizione è stata approvata nel dicembre 2008. La scelta
compiuta da questo paese di istituire una giustizia sana che limiti gli
errori giudiziari, corregga, educhi e garantisca i diritti della persona
umana, non è più compatibile con un codice penale che prevede ancora
la pena di morte, che riconosce alla legge un potere assoluto le cui
conseguenze sono irrimediabili, secondo una dichiarazione rilasciata dal
consiglio dei ministri di quel paese. Per il governo del Togo, l'abolizione
della pena di morte, considerata una pena umiliante, degradante e crudele
dalla comunità internazionale che rispetta i diritti umani di tutti noi, è
entrata nella coscienza del popolo dopo trent'anni di moratoria, anche se
continuava a essere presente nel codice penale.
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Perciò, mentre nel 1989 si poteva dire che solo undici stati africani
avevano abolito per legge la pena di morte o avevano smesso di
applicarla in modo abbastanza definitivo, vent'anni dopo questa categoria
ne conta trentanove. Allo scopo di descrivere la situazione attuale è più
facile elencare la minoranza di stati africani che mantengono la pena
capitale: il Botswana, il Ciad, la Repubblica Democratica del Congo,
l'Egitto, la Guinea Equatoriale, l'Etiopia, la Guinea, la Libia, la Nigeria, la
Sierra Leone, la Somalia, il Sudan, l'Uganda e lo Zimbabwe. Sono
soltanto quindici. Secondo Amnesty International, di questi stati non
abolizionisti solo una manciata applica regolarmente la pena di morte. La
Nigeria per esempio, che è lo stato più popoloso dell'Africa e che un
tempo utilizzava la pena di morte con un certo entusiasmo, non ha più
riferito ufficialmente di aver eseguito condanne a morte dal 2002. La
Liberia, che aveva abolito formalmente la pena di morte nel 2005, l'ha
reintrodotta per legge nel 2007, ma non ci sono state di fatto esecuzioni.
Non è chiaro se la Liberia appartenga al campo degli abolizionisti di fatto
o di diritto perché, sebbene la legge di quel paese consenta adesso la
pena capitale, ha fatto seguire all'abolizione di diritto la ratifica del
Secondo protocollo opzionale al Patto internazionale sui diritti civili e
politici. Di conseguenza in base al diritto internazionale le è vietato
utilizzare la pena di morte.
Ci sono voluti quindi vent'anni perché ventotto stati africani abolissero la
pena capitale. Se la tendenza all'abolizione continua immutata, l'intero
continente sarà libero dalla pena di morte intorno all'anno 2020. La
tendenza è analoga a quella riscontrabile a livello mondiale, ma sembra
progredire ad ritmo più rapido in Africa. (6)
Un momento saliente dell'abolizione della pena capitale in Africa è stata
la sentenza emessa dalla Corte costituzionale sudafricana nel giugno del
1995. La Corte era stata istituita l'anno prima, dopo l'elezione di Nelson
Mandela alla presidenza del paese. La Corte contava fra i suoi membri
molti autorevoli esponenti della campagna per la fine dell'apartheid, che
avevano utilizzato le loro competenze giuridiche per accelerare la fine del
regime razzista. Il primo caso sottoposto alla Corte riguardava due
internati nel braccio della morte. I difensori, appoggiati dalle
organizzazioni della società civile, sostenevano che la pena capitale era
contraria alla nuova costituzione provvisoria sudafricana, e gli undici
giudici furono unanimemente d'accordo. Ogni membro della Corte
scrisse una motivazione separata, che spesso conteneva punti di vista
personali sulla materia. Una delle più notevoli fu quella del giudice Albie
Sachs, la cui visibile disabilità era la conseguenza di un attentato del
governo sudafricano mentre viveva in esilio in Mozambico. Il giudice
Sachs sottolineò la dimensione africana del fenomeno della pena di
morte affermando che le biblioteche del Sudafrica contenevano un gran
numero di opere di studiosi famosi, africani o di altri continenti, che
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descrivevano con dovizia di particolari il modo in cui si risolvevano le
dispute e si assegnavano le punizioni nelle società africane tradizionali.
Secondo Sachs vi erano numerosi riferimenti alla pena di morte e poteva
soltanto essere deplorato che il loro significato per questa materia non
fosse mai stato discusso.
In primo luogo, le fonti ci impongono di riconoscere che i sistemi di
applicazione del diritto fondati su procedure razionali erano ben radicati
nella società tradizionale. Nel suo classico studio dei popoli di lingua
tsonga, Henri Junod osserva che i bantu possiedono un forte senso di
giustizia. Credono nell'ordine sociale e nell'osservanza delle leggi e,
sebbene tali leggi non siano scritte, sono universali e conosciute
perfettamente. Il "Cape Law Journal", in un resoconto lungo e ammirato
di quella che chiama una causa civile fra i kafir, afferma che in un
processo tipico il metodo socratico di discussione appare in tutta la sua
perfezione. John Henderson Soga rileva che i reati erano considerati
offese alla comunità e alla tribù più che all'individuo, e le punizioni per
aver rotto l'equilibrio della vita tribale erano di natura costruttiva o
correttiva.
Con una rilevanza più diretta per i nostri scopi, i materiali indicano che
fra gli nguni del Capo la pena di morte era limitata in pratica ai casi di
sospetta stregoneria, e normalmente era eseguita spontaneamente dopo
l'accusa da parte degli indovini. Soga afferma che la pena di morte non
veniva mai imposta, in base al seguente ragionamento: perché sacrificare
un'altra vita per una che è già stata perduta? Il professor Zachariah
Keodirelang Mathews è sostanzialmente d'accordo. Il "Cape Law
Journal" osserva che le esecuzioni sommarie erano normalmente inflitte
in seguito ad aggressioni alle mogli dei capi o a casi aggravati di
stregoneria, ma altrimenti la condanna a morte era rara anche per un
omicidio, se commesso senza l'aiuto di potenze soprannaturali; e poiché
il bando, l'imprigionamento e le pene corporali sono pene sconosciute
alla giurisprudenza (africana), la proprietà del popolo costituisce il grande
patrimonio con cui vengono pagati i debiti di giustizia.
Simili usanze erano palesemente seguite da altre comunità africane. Si
diceva che il re dei sotho Moshoeshoe fosse noto per la sua opposizione
alla pena capitale, anche in caso di accusa di stregoneria, e così pure
Montshiwa durante tutto il suo lungo regno sui barolong. L'assenza della
pena capitale fra gli zulu irritava palesemente Theophilus Shepstone,
vicegovernatore del Natal. Donald Morris invita a ricordare ciò che
diceva Shepstone il 25 novembre 1850, quando aveva sostituito la pena
capitale all'uso indigeno della multa in capi di bestiame per l'omicidio:
"sappiatelo tutti [...] la vita di un uomo non ha prezzo: nessun capo di
bestiame può ripagarla. Chi uccide di proposito un suo simile, per
stregoneria o per altro motivo, deve morire".
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Perciò, se queste fonti sono attendibili, sembrerebbe che le procedure
giudiziarie relativamente evolute delle società indigene non prevedessero
in generale la pena capitale per l'omicidio. Quando avvenivano, le
esecuzioni erano le frenetiche uccisioni extragiudiziali delle persone
sospettate di stregoneria, una forma spontanea e irrazionale di
comportamento del branco che purtroppo continua ancora oggi nella
forma della collana di fuoco e del rogo delle streghe. Anche le punizioni
inflitte dai comandanti per imporre la disciplina militare erano spesso
durissime e costavano la vita a molte persone. Tuttavia le fonti sopra
citate indicano che, quando si seguivano le procedure giudiziarie, la pena
capitale non era generalmente applicata all'omicidio. (7)
Naturalmente, l'abolizione della pena di morte in Sudafrica, con i suoi
altissimi tassi di violenta criminalità, va vista probabilmente come un
gesto simbolico di rifiuto del passato, un segnale che la nuova
democrazia pluralista metteva da parte l'orribile passato del paese. Ma
l'evocazione della storia africana da parte del giudice Sachs è un'utile
indicazione del fatto che la pena di morte non era una parte importante
della giustizia tradizionale africana. Il suo largo uso in tempi recenti era
piuttosto legato al colonialismo. Ciò è del tutto plausibile. I regimi
coloniali, e prima di loro i mercanti di schiavi, avevano bisogno di
punizioni brutali per portare a termine i loro progetti disumani.
Il legame fra la pena capitale e un passato di repressione compare nella
relazione della Commissione verità e riconciliazione della Sierra Leone,
pubblicata nel 2004. La Commissione, i cui lavori si svolsero dal 2002 al
2004, esaminò le violazioni e gli abusi dei diritti umani commessi in
Sierra Leone durante la guerra civile degli anni novanta del Novecento.
Ma esaminò anche gli antecedenti del conflitto. Al primo posto fra le
raccomandazioni rivolte al governo, la Commissione verità pone
l'abolizione della pena capitale. Nei risultati dell'indagine e nelle
conclusioni generali la Commissione afferma che i vari governi avevano
abusato della pena di morte per sopprimere gli oppositori politici. La
Commissione ritiene che la perdurante previsione della pena di morte nei
codici della Sierra Leone sia un oltraggio a una società civile fondata sul
rispetto della vita umana. (8) La relazione della Commissione spiega:
La pena di morte è prevista dal diritto della Sierra Leone per vari reati fra
cui il tradimento e l'ammutinamento. I vari governi hanno utilizzato la
pena di morte per sopprimere gli oppositori politici. Il diritto di ricorrere
in appello contro le decisioni delle corti marziali è stato abrogato nel
1971. Numerosi soldati sono stati processati e giustiziati in base a questa
disposizione fra il 1971 e il novembre 1998. Il presidente Kabbah e il suo
governo hanno proceduto all'esecuzione di ventiquattro soldati nel 1998,
ignorando l'appello della Commissione per i diritti umani delle Nazioni
Unite a non procedere con l'esecuzione. In seguito le esecuzioni sono
state dichiarate una violazione del Patto internazionale sui diritti civili e
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politici e della Carta africana dei diritti dell'uomo e dei popoli. La
Commissione ritiene veritiere queste accuse della Commissione africana
dei diritti dell'uomo e dei popoli contro il governo della Sierra Leone.
Una volta eseguita, la pena di morte è irreversibile. Gli errori giudiziari
sono comuni in Sierra Leone. Nessun atto successivo di clemenza o di
risarcimento può porre rimedio a un'esecuzione ingiusta. (9)
Il governo del presidente Kabbah non accolse con favore questa
raccomandazione formulata nella relazione della Commissione verità e
riconciliazione. Tuttavia, alle elezioni successive la sua organizzazione
politica è stata bocciata dagli elettori. Il nuovo presidente, Ernesto Bai
Koroma, ha promesso che il suo governo attuerà le raccomandazioni
della Commissione verità e riconciliazione.
Un altro fatto recente indicativo della tendenza in atto in Africa è la
decisione dell'Assemblea nazionale ruandese di abolire la pena capitale.
La legge è stata approvata nel luglio del 2007. All'epoca del genocidio del
1994 il Ruanda stava per entrare nella categoria degli stati abolizionisti di
fatto. La pena di morte non veniva più eseguita dai primi anni ottanta e
nel 1992 il presidente Habyarimana commutò sistematicamente tutte le
condanne a morte pendenti. (10) Il programma del Fronte patriottico
ruandese, che ottenne la vittoria militare nel luglio del 1994, prevedeva
l'abolizione della pena capitale. Inoltre, con gli Accordi di pace di Arusha
del 1993, che in Ruanda hanno valore costituzionale, il governo si è
impegnato a ratificare il Secondo protocollo opzionale. (11) All'indomani
delle atrocità fu approvata una legge che riduceva di fatto l'ambito di
applicazione della pena di morte rispetto alle disposizioni previgenti del
codice penale. (12)
Il governo del Ruanda ha però rifiutato l'idea che i principali responsabili
del genocidio potessero sfuggire alla pena di morte. Si è infatti opposto
all'adozione dello statuto del Tribunale penale internazionale per il
Ruanda da parte del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite nel
novembre del 1994, a causa dell'esclusione della pena di morte
dall'ambito delle pene irrogabili da tale organo. Il governo ruandese
sostenne che sarebbe stato fondamentalmente ingiusto esporre i
criminali processati dai suoi tribunali all'esecuzione quando quelli
processati dal tribunale internazionale - verosimilmente gli architetti del
genocidio - avrebbero rischiato soltanto l'ergastolo. (13) "Poiché è
prevedibile che il Tribunale processerà i sospettati di aver ideato,
pianificato e organizzato il genocidio - affermò il rappresentante del
Ruanda -, costoro potranno sfuggire alla pena capitale, mentre coloro
che hanno semplicemente eseguito i loro piani saranno soggetti alla
severità di questa condanna. Questa situazione non condurrà alla
riconciliazione nazionale in Ruanda". (14) Per replicare a questa
argomentazione, però, il rappresentante della Nuova Zelanda ricordò che
"da oltre tre decenni le Nazioni Unite stanno cercando di eliminare
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progressivamente la pena di morte. Sarebbe assolutamente inaccettabile e uno spaventoso passo indietro - reintrodurla in questo caso". (15)
Mentre il Tribunale penale internazionale per il Ruanda si è limitato a
infliggere condanne all'ergastolo, le corti ruandesi hanno condannato
molti imputati alla pena di morte. Il 24 aprile 1998 il Ruanda ha
proceduto all'esecuzione pubblica di ventidue génocidaires, sfidando gli
appelli dell'Alta commissione delle Nazioni Unite per i diritti umani che
lamentava il possibile mancato rispetto delle garanzie processuali e
sosteneva che "la natura pubblica delle esecuzioni programmate" avrebbe
avuto un effetto brutalizzante su una popolazione già traumatizzata dal
genocidio del 1994. (16) L'alto commissario per i Diritti umani richiese
inoltre al Ruanda di imporre una moratoria alle esecuzioni. Le esecuzioni
coincidevano anche con la trentaduesima sessione ordinaria della
Commissione africana dei diritti dell'uomo e dei popoli, che si tenne in
Gambia nell'aprile del 1998. La Commissione indirizzò un appello
urgente al governo ruandese perché rimandasse le esecuzioni,
dichiarando che altrimenti avrebbe violato l'articolo 4 della Carta africana
dei diritti dell'uomo e dei popoli che garantisce il diritto alla vita. La
Commissione richiese un'indagine accurata sulle accuse mosse agli
imputati e un nuovo processo con assistenza giuridica adeguata. (17)
Il parossismo retributivo del Ruanda fu di breve durata e non ci furono
altre esecuzioni, anche se i suoi tribunali continuarono a emettere
condanne a morte. Il dibattito riprese nel 2005, in conseguenza della
proposta che il Tribunale penale internazionale per il Ruanda trasferisse
una parte del suo eccessivo carico di lavoro ai tribunali nazionali. Le
regole processuali del tribunale furono modificate per consentire questo
trasferimento, ma solo a condizione che il Ruanda informasse il
Consiglio di sicurezza della sua disponibilità a rinunciare alla pena di
morte rispetto a questi casi, "in maniera coerente con i desideri del
popolo ruandese nella sua strategia legislativa e in conformità alle
richieste specifiche del Tribunale internazionale". (18) Nel marzo 2007
l'Assemblea nazionale ruandese ha approvato una legge che esclude la
pena di morte per tutti i casi trasferiti dal Tribunale penale internazionale
ai tribunali nazionali ("L'ergastolo è la pena più grave che può essere
inflitta a una persona condannata in un procedimento trasferito al
Ruanda dal Tribunale penale internazionale per il Ruanda"). (19) Questa
legge si applica anche ai casi di estradizione da altri stati.
Questa decisione sollecitò in Ruanda un periodo di riflessione generale
sul valore della pena capitale. Nel giro di alcune settimane si cominciò a
parlare di una riforma legislativa il cui significato era di abolire
completamente la pena di morte. Verso la fine di luglio del 2007
l'Assemblea nazionale abolì la pena di morte per tutti i reati e in ogni
circostanza. (20)
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L'alto commissario delle Nazioni Unite per i Diritti umani, Louise
Arbour, accolse con favore questa decisione, definendola un rilevante
segnale di accettazione dell'importanza di ricercare la giustizia ripudiando
la violenza in ogni sua forma. "L'abolizione della pena di morte in
Ruanda," dichiarò, "manda un messaggio molto forte. Un paese che ha
sofferto il crimine peggiore e il cui popolo ha una sete di giustizia che è
ben lungi dall'essere appagata, ha deciso di rinunciare a una sanzione per
la quale non dovrebbe esserci posto in alcuna società che rivendica i
diritti umani e l'inviolabilità della persona. Il Ruanda dimostra con i fatti
di essere andato avanti." L'alto commissario aggiungeva poi: "Con la
promulgazione della legge che mette al bando la pena di morte, il Ruanda
nello stesso tempo fa un importante passo avanti per garantire il rispetto
del diritto alla vita e compie un ulteriore progresso nell'assicurare alla
giustizia i responsabili degli odiosi crimini del genocidio del 1994". (21)
Come accade a volte quando la pena di morte è abolita dai parlamenti
nazionali, il Ruanda ha cercato di soddisfare chi aveva dubbi
sull'abolizione sostituendo la pena capitale con una forma di detenzione
estremamente dura. Il risultato è stato una legge che sostituisce la pena di
morte con l'ergastolo "in isolamento". In pratica è improbabile che il
Ruanda infligga questa pena perché le sue prigioni non sono dotate di
celle individuali adatte a questo regime detentivo. Purtroppo il
compromesso ha avuto un effetto negativo sugli sforzi di trasferire i
prigionieri del Tribunale internazionale, che si è rifiutato di autorizzare il
trasferimento dei procedimenti perché la lunga detenzione in condizioni
di isolamento è contraria alle norme sui diritti umani. (22)
La vicenda significativa più recente sulla pena di morte in Africa è la
decisione presa dalla Corte suprema dell'Uganda nel gennaio 2009,
secondo la quale la pena di morte obbligatoria in quel paese è
incostituzionale. La Corte ha respinto una richiesta di appello contro una
sentenza della Corte costituzionale ugandese del 2005. Poiché la
costituzione ugandese prevede espressamente la pena capitale, la Corte
ha respinto la richiesta di dichiarare la pena di morte totalmente abolita,
pur riconoscendo che la celebre decisione sudafricana, "il caso
Makwanyane, così ben motivato, è un valido precedente per l'abolizione
totale della pena di morte, nel caso in cui la materia non sia disciplinata
dalla Costituzione". (23) La Corte ha affermato che ciò era compito del
legislatore, che avrebbe dovuto studiare più a fondo la questione della
pena di morte nella prospettiva di apportare opportuni emendamenti alla
Costituzione. (24) La Corte ha dichiarato anche che il ricorso alla
condanna a morte obbligatoria per omicidio in Uganda, fondato sulle
leggi ereditate dai britannici, era contrario alla Costituzione. (25)
Le decisioni delle corti ugandese e sudafricana, la relazione della
Commissione verità e riconciliazione della Sierra Leone e le vicende
legislative in Ruanda sono tutte influenzate dall'evoluzione del diritto
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internazionale dei diritti umani sul tema della pena di morte. La
questione del rapporto fra il diritto internazionale e la pena di morte
esula ovviamente dai limiti di questo breve scritto sull'abolizione della
pena capitale in Africa. (26) Tuttavia, il diritto internazionale relativo alla
tutela dei diritti umani ha anche un'importante dimensione regionale e le
istituzioni africane hanno avuto un ruolo specifico in questo processo.
La Carta africana dei diritti dell'uomo e dei popoli, approvata nel 1981
dall'Organizzazione dell'unità africana, non fa menzione della pena di
morte, a differenza delle convenzioni regionali dei paesi europei e
americani. Se gli estensori della Carta africana abbiano omesso
deliberatamente ogni riferimento alla pena di morte e quali conclusioni
vadano tratte da questa eventuale omissione sono interrogativi ai quali
non possiamo dare una risposta esauriente, data la pochezza dei materiali
disponibili sui lavori preparatori. Come altri documenti, naturalmente, la
Carta africana dichiara il diritto alla vita dal punto di vista della
protezione contro i trattamenti disumani e da quello delle garanzie
procedurali nel processo penale. Secondo l'articolo 4 della Carta, nessun
individuo può essere privato "arbitrariamente" della vita. Esso dichiara:
La persona umana è inviolabile. Ogni essere umano ha diritto al rispetto
della sua vita e all'integrità fisica e morale della sua persona. Nessuno
può essere arbitrariamente privato di questo diritto. (27)
Il linguaggio dell'articolo 4 della Carta africana, con il riferimento alla
privazione "arbitraria" della vita, riecheggia l'articolo 6, primo comma,
del Patto internazionale sui diritti civili e politici, e con ogni probabilità
proibisce l'uso arbitrario della pena capitale. (28) Inoltre la Carta africana
rinvia al "diritto internazionale relativo ai diritti dell'uomo e dei popoli",
compresa la Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo e "gli altri
strumenti adottati dalle Nazioni Unite". (29) Sotto questo aspetto
sembrerebbe ragionevole interpretare l'articolo 4 della Carta africana nel
senso che incorpori norme come quelle disposte nelle Salvaguardie che
garantiscono la protezione dei condannati a morte. (30) Spingendosi
ancora oltre, sulla base di un'interpretazione evolutiva della Carta
africana, sotto l'influenza degli sviluppi giuridici e politici discussi in
precedenza oltre che dalla straordinaria evoluzione della prassi degli stati
africani, alcuni autori sostengono che la Carta africana debba oggi essere
interpretata allo stesso modo della Costituzione sudafricana. (31)
La Carta africana dei diritti dell'uomo e dei popoli prevede un
meccanismo di petizione per mezzo del quale gli individui possono far
pervenire delle comunicazioni. (32) Formulato in un linguaggio vago, se
paragonato alle disposizioni simili contenute in altri documenti regionali
e internazionali sui diritti umani, questo meccanismo è divenuto
relativamente pubblico e trasparente solo di recente con la pubblicazione
dei pareri della Commissione africana su queste comunicazioni. In vari
casi la Commissione si è occupata di questioni collegate alla pena di
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morte. La più importante riguardava l'esecuzione dell'attivista dei diritti
umani Ken Saro-Wiwa da parte della Nigeria nel novembre 1995. La
Commissione aveva richiesto in via cautelare alla Nigeria di non
giustiziare Saro-Wiwa durante l'esame della sua posizione, ma la richiesta
era stata ignorata dalle autorità nigeriane. Nella motivazione pubblicata
nell'ottobre 1998 la Commissione sostenne che, non ottemperando alla
richiesta cautelare, la Nigeria aveva violato l'articolo 1 della Carta
africana. L'esecuzione e gli eventi collegati spinsero la Commissione a
tenere una sessione straordinaria a Kampala e infine a inviare in Nigeria
una commissione di indagine.
Rispetto all'articolo 4 della Carta, che protegge il diritto alla vita, la
commissione osservò che:
dato che il processo conclusosi con le condanne a morte era esso stesso
in violazione dell'articolo 7, la successiva esecuzione delle condanne è
una privazione arbitraria della vita e quindi una violazione dell'articolo 4.
La violazione è aggravata dal fatto che al momento delle esecuzioni
erano pendenti delle comunicazioni alla Commissione africana, e la
Commissione aveva richiesto al governo di astenersi dal causare un
"danno irreparabile" ai soggetti delle comunicazioni prima che essa
potesse concluderne l'esame. In passato la Nigeria aveva rinviato altre
esecuzioni su richiesta avanzata dalla Commissione ai sensi della norma
sui provvedimenti cautelari (regola 109, ora 111) e la Commissione aveva
sperato che nel caso di Ken Saro-Wiwa e gli altri ricorresse una
situazione simile. È motivo di profondo rincrescimento che ciò non sia
avvenuto. La protezione del diritto alla vita ai sensi dell'articolo 4 include
anche il dovere di uno stato di non far morire deliberatamente una
persona in sua custodia. In questo caso la vita di almeno una delle
vittime fu messa in grave pericolo dal rifiuto di cure mediche durante la
detenzione. Perciò ci sono violazioni multiple dell'articolo 4. (33)
La Commissione ritenne che la Nigeria aveva violato numerose altre
disposizioni della Carta relative a materie come la libertà di espressione,
di opinione e di riunione pacifica:
La comunicazione 154 allega che il motivo reale del processo e poi delle
condanne a morte fosse la pacifica espressione di opinioni da parte degli
accusati. Le vittime diffondevano informazioni e opinioni sui diritti delle
persone che vivono nell'area petrolifera dell'Ogoniland, per mezzo del
Movimento per la sopravvivenza del popolo Ogoni (Mosop) e in
particolare nel corso di una dimostrazione. Questa comunicazione non è
stata smentita dal governo, di cui è già stato dimostrato il forte
pregiudizio nei confronti del Mosop, non sostenuto da giustificazioni
concrete. Il Mosop fu fondato specificamente per esprimere le opinioni
delle persone che vivono nelle aree petrolifere, e la dimostrazione era
stata organizzata a questo scopo. Le azioni del governo sono
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incompatibili con l'articolo 9 comma 2, la cui violazione è implicita in
quella degli articoli 10 comma 1 e 11. (34)
La Commissione descrisse l'esecuzione di Ken Saro-Wiwa come "una
macchia sull'ordinamento giuridico della Nigeria che non sarà facile
cancellare". E aggiunse: "l'aver eseguito la condanna a morte nonostante
le richieste in contrario da parte della Commissione e dell'opinione
pubblica mondiale è qualcosa che preghiamo che non accada più.
Chiamarlo una violazione della Carta è un eufemismo". (35) La
Commissione concluse, fra l'altro, che vi era stata una violazione degli
articoli 4 e 7 "in relazione allo svolgimento del processo e all'esecuzione
delle vittime".
Un'altra serie di petizioni rivolte contro la Nigeria riguardava un
procedimento abbreviato istituito per i delitti capitali concernenti le armi
da fuoco e la rapina. La Commissione sostenne che la possibilità,
prevista in base al decreto speciale n. 5 del 1984 concernente le armi da
fuoco e la rapina, di infliggere condanne a morte non impugnabili in
appello, violasse il diritto all'appello, garantito dall'articolo 7 comma 1(a)
della Carta africana. (36)
In una serie di quattro casi denunciati da organizzazioni non governative
contro il Sudan, i richiedenti sollevarono il problema della previsione
della pena di morte per un gran numero di reati previsti dal codice penale
del 1983, fra cui reati politici come la sovversione, l'omessa denuncia di
un progetto di ribellione, l'attentato all'economia nazionale,
l'organizzazione di scioperi, il possesso di valuta estera non dichiarata e i
reati connessi al traffico di droga. Allegavano anche l'impossibilità di
ricorrere in appello contro una condanna a morte e il diniego di
assistenza legale nei nuovi processi. (37) Una delle petizioni denunciava
che ventotto ufficiali dell'esercito giustiziati nell'aprile del 1990 non
avevano avuto assistenza legale. (38) La Commissione osservò che
l'affermazione del Sudan secondo cui queste esecuzioni avevano avuto
luogo in conformità al diritto vigente era "insufficiente", e concluse che
c'era stata una violazione del diritto a un equo processo, garantito
dall'articolo 7 della Carta africana. (39) La Commissione dichiarò anche
che c'era stata una violazione dell'articolo 4, ma non è chiaro se tale
violazione si riferisse alla pena di morte inflitta agli ufficiali dell'esercito o
a varie esecuzioni sommarie avvenute in Sudan. La Commissione non si
pronunciò in modo specifico sulla questione del numero e della natura
dei reati puniti con la morte.
La Commissione africana ha anche adottato risoluzioni richiedenti una
moratoria della pena di morte. Durante la ventiseiesima sessione
ordinaria, tenuta a Kigali, in Ruanda, nel novembre 1999, la
Commissione africana dei diritti dell'uomo e dei popoli approvò una
Risoluzione di invito agli stati a prendere in esame una moratoria della
pena di morte. (40) Una risoluzione analoga fu approvata dalla
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Commissione durante la quarantaquattresima sessione ordinaria, tenuta
ad Abuja, in Nigeria, nel novembre 2008. (41) Il preambolo delle
risoluzioni nota che l'articolo 4 della Carta africana garantisce il diritto
alla vita. Nel preambolo si fa anche riferimento alle risoluzioni della
Commissione delle Nazioni Unite sui diritti dell'uomo, a quelle della
Sottocommissione per la promozione e la protezione dei diritti
dell'uomo e inoltre a quelle dell'Assemblea generale delle Nazioni Unite
che richiedono una moratoria della pena di morte. Cita anche l'esclusione
della pena di morte da parte dei tribunali internazionali, fra cui la Corte
penale internazionale e il Tribunale speciale per la Sierra Leone. Il
preambolo nota che solo sei stati africani hanno ratificato il Secondo
protocollo opzionale al Patto internazionale sui diritti civili e politici. Ed
esprime la preoccupazione che alcuni stati firmatari della Carta africana
dei diritti dell'uomo e dei popoli abbiano inflitto la pena di morte in
condizioni non conformi al diritto a un equo processo che essa
garantisce. Anche se la Commissione in quanto tale non ha preso una
posizione inequivocabilmente contraria alla pena capitale, alcuni singoli
commissari hanno dichiarato il loro sostegno all'abolizione. (42)
L'Africa è il continente in cui il progresso verso l'abolizione universale è
stato più rapido. Essenzialmente, il processo ha avuto inizio solo venti
anni or sono ed è un laboratorio interessante per studiare l'evolversi
dell'idea. Vari fattori possono spiegare la volontà degli stati africani di
abolire la pena capitale, di diritto o di fatto. In un rapporto del 1997 sulla
pena di morte in Africa, Amnesty International discuteva quelle che
chiamava "battute d'arresto del progresso verso l'abolizione". Spiegava
che erano dovute a due fattori principali: il declino economico che ha
come conseguenza sia la povertà crescente sia l'aumento dei tassi di
criminalità; la notevole instabilità politica accompagnata da un eccesso di
violenza. (43) In realtà questa sembra una valutazione molto discutibile
perché i problemi endemici della povertà e della violenza politica in
Africa non si sono attenuati negli ultimi dodici anni da quando Amnesty
International ha pubblicato il rapporto. In altre parole, la tendenza
all'abolizione è continuata nonostante la presenza di questi fattori.
Il continente africano è un ambiente molto complesso. Gli africani
sentono un grande bisogno di promuovere i loro diritti umani ma sono
frustrati dall'incapacità di affrontare in modo adeguato i problemi del
sottosviluppo e della guerra. Le cause di questi problemi sono di natura
globale e gli africani non hanno un sufficiente controllo dei mezzi per
risolverli. D'altra parte, l'abolizione della pena di morte è sicuramente un
traguardo alla portata dei governi e della società civile africani. Può
sembrare una modesta riforma in mezzo alle enormi difficoltà del
continente. Ma ha un valore simbolico con il quale l'Africa riesce ad
affermare la sua adesione a valori universali. Questo motivo forse più di
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ogni altro spiega il recente successo dell'abolizione della pena capitale in
questo continente.
Note
*. Da P. Costa (a cura di), Il diritto di uccidere, Feltrinelli, Milano 2010, pp.
247-263.
1. Si veda N. Morris, Capital Punishment: Developments, 1961-1965, Sales
No. E.67.IV.15 (United Nations, New York 1967).
2. Cfr. E. Dumbutshena, The Death Penalty in Zimbabwe, "Revue
internationale de droit pénal", 58 (1987), p. 524.
3. Amnesty International, When the State Kills..., The Death Penalty: A
Human Rights Issue, Amnesty International, New York 1989, p. 259.
4. Ivi, p. 260.
5. La data fra parentesi è quella dell'ultima condanna a morte eseguita nel
paese. Roger Hood e Carolyn Hoyle non includono le Comore, Gibuti, le
Maldive e il Togo: si veda R. Hood, C. Hoyle, The Death Penalty. A
Worldwide Perspective, Oxford University Press, Oxford-New York 2008, p.
73.
6. Per alcune valutazioni della tendenza africana, e per alcune
precisazioni, si veda: L. Chenwi, Towards the Abolition of the Death Penalty in
Africa. A Human Rights Perspective, Pretoria University Law Press, Pretoria
2007.
7. S. v. Makwanyane, 1995 (3) SA 391 (le citazioni sono state omesse).
8. Witness to Truth. Report of the Sierra Leone Truth and Reconciliation
Commission, vol. II, Freetown 2004, p. 29.
9. Ivi, pp. 90-1.
10. Arrêté présidentiel no 103/105, Mesure de grâce, "Journal officiel", 1992,
p. 446, articolo 1.
11. Protocole d'Accord entre le Gouvernement de la République Rwandaise et le
Front Patriotique Rwandais portant sur les questions diverses et dispositions finales
signé à Arusha, 3 agosto 1993, "Journal officiel", 32, n. 16, 15 agosto 1993,
p. 1430, articolo 15.
12. Legge organica n. 8/96 del 30 agosto 1996, "Journal officiel", 35, n. 17, 1
settembre 1996.
13. U.N. Doc. S/PV.3453, p. 16.
14. Ibid.
15. Ivi, p. 5.
16. UN Doc. E/CN.4/1998/61, paragrafo 81.
17. Amnesty International, Africa Update, ottobre 1998, AI Index: AFR
01/05/98, p. 2.
18. UN Doc. S/PV.4999 (Resumption 1), p. 10.
19. Legge organica concernente il trasferimento di procedimenti alla Repubblica del
Ruanda dal Tribunale penale internazionale per il Ruanda e da altri stati, "Journal
officiel", 46, numero speciale del 19 marzo 2007, articolo 21.
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20. Legge organica n. 31/2007 del 25/07/2007, concernente l'abolizione della
pena di morte, "Journal officiel", 46, numero speciale del 25 luglio 2007.
21. High Commissioner for Human Rights Hails Abolition of Capital Punishment
in Rwanda, United Nations Press Release, 27 luglio 2007.
22. Prosecutor v. Kanyarukiga (Case No. ICTR-2002-78-R11bis), decisione
sull'appello del procuratore contro la decisione in oggetto ai sensi della
regola 11bis, 30 ottobre 2008, par. 16.
23. Attorney-General v. Kigula et al., Constitutional Appeal No.3 of 2006,
Corte suprema dell'Uganda, 21 gennaio 2009, pp. 34-35.
24. Ivi, p. 37.
25. Ivi, p. 45.
26. Si veda ad esempio W.A. Schabas, The Abolition of the Death Penalty in
International Law, Cambridge University Press, Cambridge 2003.
27. Carta africana dei diritti dell'uomo e dei popoli, OAU Doc. CAB/
LEG/67/3 rev. 5, 4 EHRR 417.
28. T. Huaraka, The African Charter on Human and Peoples' Rights: A
Significant Contribution to the Development of International Human Rights Law,
in D. Prémont (a cura di), Essais sur le concept de 'droit de vivre' en mémoire de
Yougindra Khushalani, Bruylant, Bruxelles 1988, p. 203.
29. Carta africana dei diritti dell'uomo e dei popoli, OAU Doc. CAB/
LEG/67/3 rev. 5, articolo 60.
30. Risoluzione del Consiglio economico e sociale 1984/50,
successivamente recepita dalla risoluzione dell'Assemblea generale
39/118.
31. M. Nowak, Is the Death Penalty an Inhuman Punishment?, in Th.S. Orlin,
A. Rosas, M. Scheinin, The Jurisprudence of Human Rights Law: A
Comparative Interpretative Approach, Institute for Human Rights, Åbo
Akademi University, Turku 2000, pp. 42-43.
32. Carta africana dei diritti dell'uomo e dei popoli, articolo 55.
33. Ivi, parr. 103-104.
34. Ibid., par. 110.
35. Ivi, par. 115.
36. Constitutional Rights Project v. Nigeria (Comm. No. 60/91), (1996-97)
LRAC, Serie A, vol. 1, p. 54, 3 IHRR 132.
37. Amnesty International, Comité Loosli Bachelard, Lawyers Committee for
Human Rights and Association of Members of the Episcopal Conference of East
Africa v Sudan (Comm. No. 48/90, 50/91, 52/91, 89/93), Thirteenth
Activity Report of the African Commission on Human and Peoples'
Rights, 1999-2000, OAU Doc. AHG/222/36th, Annex V.
38. Ivi, par. 13.
39. Ivi, par. 6.
40. Resolution Urging States to Envisage a Moratorium on the Death Penalty,
Thirteenth Activity Report of the African Commission on Human and
Peoples' Rights, OAU Doc. AHG/Dec.153 (XXXVI), Annex IV.
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41. Resolution calling on State Parties to Observe the moratorium on the death
penalty, ACHPR/Res.136(XXXXIIII).08.
42. L. Chenwi, Fair Trial Rights and their Relation to the Death Penalty in
Africa, "International and Comparative Law Quarterly", 55 (2006), p.
612.
43. Africa, A New Future Without the Death Penalty, AFR 01/003/1997.
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