Stravaganza e bellezza nel cinema inglese degli anni Quaranta

Transcript

Stravaganza e bellezza nel cinema inglese degli anni Quaranta
 POWELL &
PRESSBURGER
Stravaganza e bellezza nel cinema inglese degli anni Quaranta
gennaio – marzo 2010
CINECLUB DEL MENDRISIOTTO
Multisala Teatro Mignon e Ciak,
Mendrisio
www.cinemendrisiotto.org
CIRCOLO DEL CINEMA
BELLINZONA
Cinema Forum 1+2
CIRCOLO DEL CINEMA
LOCARNO
Cinema Morettina
www.cicibi.ch
www.cclocarno.ch
martedì 12 gennaio, 20.30
THE LIFE AND DEATH
OF COLONEL BLIMP
Duello a Berlino, GB 1943
sabato 16 gennaio, 18.00
49TH PARALLEL
Gli invasori
Michael Powell, GB 1941
LUGANOCINEMA 93
Cinema Iride
www.luganocinema93.ch
martedì 12 gennaio, 20.30
49TH PARALLEL
Gli invasori
Michael Powell, GB 1941
venerdì 15 gennaio, 20.30
THE LIFE AND DEATH
OF COLONEL BLIMP
Duello a Berlino, GB 1943
lunedì 18 gennaio, 20.30
49TH PARALLEL
Gli invasori
Michael Powell, GB 1941
martedì 19 gennaio, 20.30
A CANTERBURY TALE
Un racconto di Canterbury, GB 1944
martedì 19 gennaio, 20.30
THE LIFE AND DEATH
OF COLONEL BLIMP
Duello a Berlino, GB 1943
lunedì 25 gennaio, 20.30
GONE TO EARTH
La volpe, GB 1950
sabato 23 gennaio, 18.00
BLACK NARCISSUS
Narciso nero, GB 1947
martedì 26 gennaio, 20.30
BLACK NARCISSUS
Narciso nero, GB 1947
venerdì 5 febbraio, 20.30
I KNOW WHERE I’M GOING
So dove vado, GB 1945
martedì 26 gennaio, 20.30
THE RED SHOES
Scarpette rosse, GB 1948
martedì 2 febbraio, 20.30
GONE TO EARTH
La volpe, GB 1950
lunedì 8 febbraio, 20.30
BLACK NARCISSUS
Narciso nero, GB 1947
sabato 30 gennaio, 18.00
GONE TO EARTH
La volpe, GB 1950
martedì 9 febbraio, 20.30
THE RED SHOES
Scarpette rosse, GB 1948
lunedì 22 febbraio, 20.30
THE RED SHOES
Scarpette rosse, GB 1948
martedì 2 febbraio, 20.30
I KNOW WHERE I’M GOING
So dove vado, GB 1945
martedì 23 febbraio, 20.30
I KNOW WHERE I’M GOING
So dove vado, GB 1945
martedì 9 febbraio, 20.30
PEEPING TOM
L’occhio che uccide
Michael Powell, GB 1960
martedì 2 marzo, 20.30
A CANTERBURY TALE
Un racconto di Canterbury, GB 1944
mercoledì 13 gennaio, 20.45
THE LIFE AND DEATH
OF COLONEL BLIMP
Duello a Berlino, GB 1943
mercoledì 20 gennaio, 20.45
BLACK NARCISSUS
Narciso nero, GB 1947
mercoledì 27 gennaio, 20.45
THE RED SHOES
Scarpette rosse, GB 1948
mercoledì 3 febbraio, 20.45
GONE TO EARTH
La volpe, GB 1950
mercoledì 10 febbraio, 20.45
PEEPING TOM
L’occhio che uccide
Michael Powell, GB 1960
martedì 9 marzo, 20.30
PEEPING TOM
L’occhio che uccide
Michael Powell, GB 1960
in collaborazione con Lab 80, Bergamo
entrata CHF 10.– / 8.– / 6.–
POWELL E PRESSBURGER VITE PARALLELE
Powell e Pressburger: un regista visionario e uno scrittore capace di tener dietro, in sceneggiatura, alle esigenze fantastiche del
primo. Sarebbe tutto più semplice se la collaborazione ventennale dei due fosse nettamente definibile in questi termini, se il loro
fosse uno di quei casi di grande sintonia tra parola e immagine che si verificano talvolta nel cinema, e spesso nel cinema britannico
(per esempio, Carol Reed e Graham Greene, o Joseph Losey e Harold Pinter). In realtà, il rapporto tra Michael Powell ed Emeric
Pressburger è più complesso, più dichiaratamente complesso, anche se le mansioni preminenti restano, rispettivamente, quelle della
regia e della sceneggiatura.
Quando nel 1943, in The Life and Death of Colonel Blimp, adottano per i titoli di testa la formula “Scritto, prodotto e diretto da Michael
Powell e Emeric Pressburger”, affermano esplicitamente la centralità del lavoro dello sceneggiatore, annullando contemporaneamente
le barriere che segmentano il lavoro creativo. Ricorda Powell: “Decidemmo un ordine dei titoli di testa secondo quella che era per
noi l’importanza: scrittore, produttore e poi regista. Non erano in molti a pensarla così. Personalmente, mi aveva sempre irritato la
maniera in cui sono trattati nel cinema gli scrittori. Ma la nostra decisione nacque spontaneamente e quasi tacitamente”. La formula,
assolutamente unica nella storia del cinema, dura tredici anni (fino al ritiro dal cinema, nel 1966, di Pressburger) e quattordici
film, che rappresentano il culmine della poetica del “regista” Michael Powell (con una sola eccezione: quella dello straordinario e
famigerato Peeping Tom, che nel 1960 sconvolge l’opinione pubblica e la critica inglesi, per il quale però Powell ha costituito un nuovo
binomio, purtroppo occasionale, con uno sceneggiatore stravagante, Leo Marks).
I compiti sono definiti con chiarezza per tutto il tempo della collaborazione. Pressburger è il narratore (…), senza reali ambizioni
di regia (dirige da solo un unico film, Twice Upon a Time, nel 1953), con tutta la scontrosa riservatezza dello scrittore puro. Figura
tondeggiante, sempre lievemente in secondo piano nelle fotografie che li ritraggono insieme, non ha il divismo spontaneo di Powell:
non chiacchiera, non rilascia, per quanto possibile, interviste, non tratta con finanziatori e produttori (a parte il connazionale
Alexander Korda), non ama raccontare il suo lavoro e, men che meno, scendere a patti sulle storie che ha pensato e costruito.
(…) Dotato di senso dell’umorismo e del paradosso (di tipica marca mitteleuropea), il sornione Pressburger completa Powell non
solo con il professionalismo acquisito in anni di lavoro per il cinema tedesco e francese, ma anche con la cauta curiosità della sua
percezione da fresco immigrato della cultura e della società britanniche. Scopre il nuovo e l’insolito (e lo sottolinea senza pudori) in
un universo che per il “nativo” rischia di essere ovvio o rimosso. In pratica, Pressburger, con la silenziosa tenacia dell’esule che vuole
essere accettato ma non travolto dalla cultura che lo ospita, aiuta Powell a mantenere vive quelle suggestioni bizzarre e devianti che
rappresentano uno degli elementi di fascino della cultura britannica, ma che sono tradizionalmente bandite dalla rigida educazione
e dall’establishment. (…)
Pressburger, l’ungherese fantasioso che si era abituato nel suo paese e in Germania a scrivere le sceneggiature non in forma di
scene e di dialoghi ma come complicati racconti per metafore e immagini, è il contraltare ideale con cui il regista Powell confronta
la propria stravaganza percettiva. Sostanzialmente disinteressato a qualsiasi utilizzazione “civile” del cinema (e, quindi, all’impianto
realistico o teatrale), Powell affronta il suo lavoro con lo stesso entusiasmo affascinato con il quale, da piccolo, soggiaceva alle fantasie cinematografiche altrui. (…) Aiutato dalla sua naturale propensione all’affabulazione, Powell sviluppa e coltiva una personalità
piuttosto anomala nel suo paese: da un lato, si propone come autore, senza per questo enfatizzare la dimensione sociale del cinema
(e questo, in pieno documentarismo prima e nel bel mezzo dello sforzo bellico poi); dall’altro, sottolinea sempre l’aspetto tecnico del
mestiere di regista. (…) La tecnica serve per dar corpo ai sogni e l’autorialità passa attraverso essa. Strumento indispensabile della
regia, la tecnica racchiude in se stessa il diabolico e il logico, concretizza l’astrazione più folle. (…)
Molto amati da Korda (che era abbastanza eccentrico da apprezzare e ricercare nei suoi autori doti di stravaganza e affabulazione),
trascurati, liquidati con sufficienza o apertamente osteggiati dai critici, seguiti con notevole entusiasmo dal pubblico della loro epoca,
Powell e Pressburger, deviando con decisione dalle traiettorie dominanti, hanno creato il nucleo autoriale più coerente e duraturo
della storia del cinema britannico, l’unico in grado di competere con quello dei grandi maestri europei e americani sul piano delle
suggestioni visive e tematiche e della ricchezza stilistica. Miravano a un cinema “totale”, sintesi di tutte le arti e di tutte le tecniche, in
armonica sintonia con l’universo psichico del pubblico. (…) “Io non sono un regista con uno stile personale”, ha detto Powell. “Io sono
il cinema. Sono cresciuto con e attraverso il cinema; tutto quello che ho imparato l’ho imparato dal cinema; se mi sono interessato
alla pittura, alla letteratura, alla musica, è stato grazie al cinema. Così, quando faccio un film come Peeping Tom, io sono il cinema.
E solo qualcuno come me può fare Peeping Tom, perché è necessario identificarsi di più con il cinema che con un mondo personale”.
(da Emanuela Martini, Powell & Pressburger, Firenze, La Nuova Italia, 1988)
Questo omaggio a Powell & Pressburger rientra nella tradizione dei cineclub ticinesi di allestire, all’inizio di ogni nuovo anno, una
vetrina su momenti importanti della storia del cinema, che affianchi e completi le annuali rassegne a scadenza mensile (come in
questa stagione quella dedicata a Fritz Lang). In passato è stata la volta della Commedia sofisticata degli anni ’30 e ’40 (2005), de
Lo specchio scuro (il noir classico hollywoodiano), di Billy Wilder (2008) e di Ernst Lubitsch (2009). Tutte queste rassegne sono
state possibili grazie alla collaborazione con la Lab 80 di Bergamo, che ci ha fornito molte pellicole ormai difficilmente reperibili sul
mercato. Anche quest’anno sette film su otto vengono da Bergamo: oltre che ringraziare gli amici della Lab 80, non possiamo che
elogiare il lavoro di questo manipolo di autentici cinefili che (forse gli unici in Italia) si dedicano alla diffusione del cinema di qualità
attraverso copie in 35mm in versione originale con sottotitoli.
Finora ci si era mossi nell’immenso bacino del cinema classico hollywoodiano, la fabbrica dei sogni. Questa volta il nostro viaggio
ci porta nella Gran Bretagna degli anni della guerra e di quelli immediatamente successivi. Magari non tutti conoscono il cinema di
questi due geniali creatori di storie ed è anche possibile che alcuni dei nostri abituali spettatori non li abbiano nemmeno mai sentiti
nominare. La cosa non deve sorprendere, sia perché Hollywood ha ormai da lungo tempo monopolizzato la costruzione dell’immaginario cinematografico collettivo (e l’Europa vi concorre in parte solo con le glorie del passato ottenute dal cinema di pochi paesi: la
Germania dell’espressionismo, la Francia del realismo poetico, l’Italia del neorealismo, l’Unione sovietica del cinema rivoluzionario) sia
perché i film di Powell & Pressburger sono stati per decenni considerati dalla critica come opere non degne di particolare attenzione,
nel migliore dei casi come prodotti tecnicamente brillanti ma privi di impronta autoriale, o come spettacoli divertenti ma adatti solo
per un pubblico poco raffinato. La riscoperta e la rilettura dell’opera dei due cineasti avviene solo a partire dalla seconda metà degli
anni Sessanta, dopo l’interesse e le polemiche suscitati da quel film conturbante che è Peeping Tom (1960), realizzato dal solo
Powell quando il sodalizio tra i due era ormai finito da tempo. Solo nel 1971 il National Film Theatre di Londra renderà omaggio alla
loro opera con un’importante retrospettiva, che sarà seguita da molte altre in altri paesi d’Europa, fra le quali è giusto ricordare quella
del Festival di Locarno nel 1982. Alla sacrosanta rivalutazione dell’opera dei due contribuì poi non poco l’appassionato interesse
dimostrato nei loro confronti, a partire dagli anni ’80, da cineasti come Martin Scorsese, Brian De Palma e Francis Ford Coppola
(Powell alla fine della sua carriera lavorerà anche agli Zoetrope Studios di quest’ultimo, prima del loro fallimento): Scorsese e Coppola
si impegneranno personalmente nel restauro e nella diffusione dei loro film anche negli Stati Uniti, perché convinti ed ammaliati dal
loro modo di intendere “la conoscenza come diretta conseguenza della visione e della visionarietà” (1). Quindi, buona visione e buona
conoscenza a tutti!
A CANTERBURY TALE
Un racconto di Canterbury, GB 1944
Sceneggiatura: Michael Powell, Emeric Pressburger; fotografia: Erwin Hillier; scenografia: Alfred Junge; montaggio: John Seabourne; musica: Allan Gray; interpreti: John Sweet, Eric Portman, Sheila Sim, Dennis Price, Esmond Knight, Charles Hawtrey, Hay
Petrie; produzione: Powell & Pressburger per The Archers.
35mm, bianco e nero, v.o. inglese st. it., 124’
In un villaggio vicino a Canterbury, dove imperversa un maniaco che impiastra di colla i capelli delle ragazze, si incontrano un
sergente americano in licenza (Sweet, un vero soldato americano) che da tempo non riceve lettere dalla sua fidanzata; un sergente
inglese (Price) che sognava di fare l’organista e si era adattato a suonare nei cinema; e una ragazza (Sim) della difesa civile, che
crede di aver perso in guerra il fidanzato. Durante il viaggio in treno a Canterbury l’imbrattatore, un archeologo (Portman) con
qualche complesso edipico alle spalle, confessa le malefatte, ma liete sorprese aspettano tutti gli altri.
La guerra è agli sgoccioli, e Powell e Pressburger girano un film dove si respira già un’aria di pace. L’intreccio è volutamente esile,
per lasciare spazio a una descrizione affettuosa della provincia britannica, dove si scherza sulla convivenza tra americani – ignoranti di storia – e inglesi – tanto legati al passato da sentire l’eco dei pellegrini del tempo di Chaucer. Pieno di annotazioni deliziose
e stravaganti, con i limiti e i pregi dell’opera minore girata senza preoccupazioni. La versione che circola abitualmente è di 95’, ed
è priva di gran parte della sequenza in costume. La nostra è la versione integrale.
I KNOW WHERE I’M GOING
So dove vado, GB 1945
Sceneggiatura: Michael Powell, Emeric Pressburger; fotografia: Erwin Hillier; scenografia: Alfred Junge; montaggio: John Seabourne; musica: Allan Gray; interpreti: Wendy Hiller, Roger Livesey, George Carney, Pamela Brown, Walter Hudd; produzione: Powell
& Pressburger per The Archers.
35mm, bianco e nero, v.o inglese st. it., 92’
Joan Webster (Hiller), venticinque anni, non ha mai avuto esitazioni nella sua vita: e si infuria quando il cattivo tempo le impedisce
di raggiungere l’isola di Killoran, nelle Ebridi, dove deve sposare uno stagionato e ricco industriale. Ma la sosta forzata le fa conoscere l’affabile Torquil (Livesey), tra l’altro signore del luogo: finirà col cambiare i suoi progetti.
Powell e Pressburger fanno risuonare echi imprevisti in un racconto apparentemente lineare e senza pretese: l’amore di Joan e
Torquil diventa infatti una favola sulla predestinazione, mentre il paesaggio selvaggio, con tempeste e vortici marini, fornisce uno
scenario da passione romantica, in felice contrasto coi toni prevalenti dell’ironia e della leggerezza. Stravagante rispetto all’intreccio, ma assai divertente, la sequenza onirica all’inizio, dove Joan sogna un paesaggio scozzese le cui colline sono coperte di
tessuto – appunto – scozzese. La sequenza iniziale (dove i titoli di testa appaiono nei luoghi più impensati) è più vertiginosa di
quella di un film dei fratelli Coen. Conosciuto anche col titolo So dove sto andando.
BLACK NARCISSUS
Narciso nero, GB 1947
Sceneggiatura: Michael Powell, Emeric Pressburger, dal romanzo omonimo di Rumer Godden; fotografia: Jack Cardiff; scenografia:
Alfred Junge; montaggio: Reginald Mills; musica: Brian Easdale; interpreti: Deborah Kerr, David Farrar, Flora Robson, Sabu (Sabu
Dastagir), Jean Simmons, Kathleen Byron; produzione: Powell & Pressburger per The Archers.
35mm, colore, v.o. inglese st. it., 100’
Una missione di suore inglesi, mandata ad aprire un convento sull’Himalaya, deve far fronte alle difficoltà materiali e alle tentazioni
della carne. Dopo che una sua conversa (Byron), innamorata di un residente inglese (Farrar), impazzisce, la superiora, madre
Clodagh (Kerr), deve ammettere la sua sconfitta e abbandonare la missione.
Opulento melodramma pieno di sottintesi erotici e di amori impossibili, sceneggiato dai registi a partire dal romanzo omonimo
di Rumer Godden, costruito con una straordinaria abilità per le ellissi e tutto giocato sui contrasti: Inghilterra e India, ragione
e natura, sacrificio e piacere, repressione e lussuria, educazione e istinto (ma anche molto più concretamente, in una scena
delirante e sensualissima, il rossetto che si mette la conversa impazzita e il libro di preghiere che le vuol leggere la superiora).
Ancor oggi straordinaria la cornice esotica completamente ricostruita in studio, unico modo che i registi avevano per controllare
perfettamente lo stile sontuoso e fiammeggiante del film. Oscar alle scenografie (Alfred Junge) e alla fotografia (Jack Cardiff).
Conturbante l’interpretazione della peccatrice indigena offerta dalla Simmons. Le scene in cui la superiora ripensa al periodo in
cui non aveva ancora preso i voti e sperava di sposarsi furono censurate nell’edizione americana del dopoguerra. Qui presentiamo
la versione originale.
THE RED SHOES
Scarpette rosse, GB 1948
Sceneggiatura: Michael Powell, Emeric Pressburger, dal racconto di Hans Christian Andersen; fotografia: Jack Cardiff; effetti
speciali: F. George Dunn; scenografia: Arthur Lawson; coreografia: Robert Helpmann; montaggio: Reginald Mills; musica: Brian
Easdale; interpreti: Moira Shearer, Marius Goring, Anton Walbrook, Jean Short, Gordon Littman; produzione: Powell & Pressburger
per The Archers.
35mm, colore, v.o. inglese st. it., 133’
Il direttore (Walbrook) di un’importante compagnia di danza classica ingaggia una giovanissima e dotata ballerina (Shearer).
Ottenuto il successo con il balletto che dà il titolo al film, la ragazza si fa convincere dal fidanzato compositore (Goring) a lasciare
il palcoscenico, ma poi vi ritorna, posseduta dal demone della danza.
Un melodramma perfetto, osannato dal pubblico, amatissimo da molti registi (Coppola, Scorsese, De Palma) e imitato da altri
(Gene Kelly in Un americano a Parigi ), nel quale “i trucchi scorrono impercettibili al di sotto della messa in scena melodrammatica,
l’astrazione stilistica si fa palese solo nella sequenza dichiaratamente irreale del balletto e le convenzioni e il buon senso vengono
negati dalla stessa fluida eleganza del racconto (E. Martini). Perfetto, ma non convenzionale: in equilibrio tra romanticismo e
maledettismo, stabilisce un triangolo amoroso dove il vertice è occupato dall’arte, in nome della quale si può anche morire. La
sceneggiatura di Pressburger, ispirata da una favola di Andersen, fu scritta nel 1939 su commissione di Alex Korda, che però
accantonò il progetto. Dopo la guerra Pressburger comprò i diritti del proprio copione e con Powell allestì una vera compagnia di
danza, con al centro la stella del balletto britannico Moira Shearer. Si aggiudicarono l’Oscar sia la colonna sonora di Brian Easdale
che le scenografie e i costumi di Hein Hockroth, suggestiva combinazione di espressionismo e astrattismo. L’accesa fotografia
è di Jack Cardiff. Nella storia del cinema, pochissime volte racconto popolare e sperimentazione hanno trovato un così magico
punto d’incontro.
(Michele Dell’Ambrogio, Circolo del cinema Bellinzona)
(1)
Stefano Della Casa, Cinema inglese del dopoguerra, in Storia del cinema mondiale, III*, Torino, Einaudi, 2000
49TH PARALLEL
Gli invasori
Michael Powell, GB 1941
Sceneggiatura: Emeric Pressburger, Rodney Ackland; fotografia: Frederick Young; scenografia: David Rawnsley; montaggio: David
Lean; musica: Ralph Vaughan Williams; interpreti: Eric Portman, Richard Gorge, Raymond Lovell, Glynis Johns, Leslie Howard,
Laurence Olivier, Anton Walbrook, Raymond Massey; produzione: Michael Powell per Ortus Films/Ministero dell’informazione.
35mm, bianco e nero, v.o. inglese st. it., 123’
Sei marinai tedeschi, scampati sulle coste del Canada dall’affondamento del loro sottomarino, attraversano il paese guidati da un
fanatico ufficiale hitleriano (Portman), commettendo violenze d’ogni genere per raggiungere il 49. parallelo e arrivare così negli Stati
Uniti, allora ancora neutrali.
Prodotto con chiari intenti propagandistici, il film utilizza l’ambientazione canadese e la varietà della sua popolazione per mettere
in scena una unanime contrapposizione alla barbarie dei nazisti che vengono eliminati, simbolicamente, dai diversi rappresentanti
di questo cosmopolitismo: Johnnie, il trapper francese (Olivier); Peter, il capo della comunità tedesca utterita (Walbrook); l’inglese
Philip (Howard); il canadese Andy (Massey); i pellerossa delle Three Sisters Mountains. La sceneggiatura di Emeric Pressburger (e
la regia di Powell), comunque, si preoccupano di evitare ogni facile effetto melodrammatico, utilizzando la miglior tradizione culturale
britannica (rispetto degli altri, elogio del “quieto lasciar vivere”) per evitare le schematizzazioni e arrivare a dire che non tutti i tedeschi sono nazisti e alcuni di questi sono persino riscattabili, ottenendo così “uno dei film di propaganda bellica più bizzarri e ricchi di
sfumature sotterranee prodotti dal cinema (non solo inglese) di quegli anni” (E. Martini). Oscar per il miglior soggetto a Pressburger.
THE LIFE AND DEATH OF COLONEL BLIMP
Duello a Berlino, GB 1943
Sceneggiatura: Michael Powell, Emeric Pressburger; fotografia: Georges Périnal; montaggio: John Seabourne; musica: Allan Gray;
interpreti: Roger Livesey, Anton Walbrook, Deborah Kerr, John Laurie, James McKechnie; produzione: Powell & Pressburger per
The Archers.
35mm, colore, v.o. inglese st. it., 163’
Dopo il duello per difendere l’onore dei rispettivi paesi, che li contrappone nella Berlino di inizio secolo, l’ufficiale inglese Clive
Candy (Livesey) e quello tedesco Theo Kretschmar-Schuldorff (Walbrook) diventano amici per la vita. Sapranno conservare il
rispetto reciproco a dispetto dei sommovimenti politici (due guerre mondiali, l’avvento del nazismo) e si ritrovano ormai vecchi a
ricordare il passato.
Primo (di dodici) film “scritto, prodotto e diretto” dai due registi con la propria casa di produzione, The Archers, è il “maggior
affresco romantico mai realizzato nel cinema britannico” (E. Martini). Costruito con una struttura a flashback, il film racconta la
storia di un uomo e del suo paese ma soprattutto quella di alcuni valori (l’onore, lo spirito di casta, l’amore) che la cultura del
ventesimo secolo sembra aver messo in crisi. E lo fa con una libertà di invenzioni e una fantasia narrativa (la panoramica ascendente e discendente con cui è raccontato il duello a Berlino, il salto temporale che accompagna la nuotata in piscina di Clive) che
sconcertarono i critici contemporanei ma la cui forza visionaria oggi è unanimemente riconosciuta. Così come era molto in anticipo
sui tempi la capacità del film di scavare “sotto il compassato silenzio del riserbo britannico per far emergere passioni, debolezze,
ingenuità, perversioni, malattie dell’anima e languori che non erano necessariamente etici, positivi o educativi” (idem). Deborah Kerr
interpreta tre personaggi – Edith (la moglie di Theo), Barbara (moglie di Clive) e Angela (autista di Clive) – tre volti della stessa
donna amata dai due amici (e amata nella realtà da Powell). Il film ebbe molti problemi con la censura (attivata direttamente da
Churchill) perché il titolo sembrava ricordare il protagonista di una striscia antimilitarista, disegnata negli anni Trenta e Quaranta
da David Low, e perché Theo è descritto come un “tedesco buono”, figura inaccettabile durante la guerra (anche se la commovente
scena dell’ufficiale interrogato dalle autorità inglesi allo scoppio della seconda guerra mondiale rende ridicola ogni accusa di
disfattismo). Una delle conseguenze fu che Laurence Olivier, che doveva interpretare Clive Candy, non ottenne il permesso che lo
esentava dal servizio militare attivo; l’altra, che il film fu distribuito all’estero con notevoli tagli.
La versione che presentiamo è comunque quella originale.
GONE TO EARTH
La volpe, GB 1950
Sceneggiatura: Michael Powell, Emeric Pressburger, dal romanzo Tornata alla terra di Mary Webb; fotografia: Christopher Challis;
scenografia: Arthur Lawson; montaggio: Reginald Mills; musica: Brian Easdale; interpreti: Jennifer Jones, Cyril Cusack, David
Farrar, Sybil Thorndike, Hugh Griffith, Edward Chapman; produzione: D.O. Selznick per LFP/Vanguard.
35mm, colore, v.o. inglese st. it., 110’
Hazel (Jones), una ragazza gallese dallo spirito selvaggio e amante della natura, sposa un curato impotente (Cusack), e cade
poi tra le braccia di un uomo violento e crudele (Farrar). La situazione precipita quando lui dà la caccia alla volpe che lei aveva
addomesticato. “Sembra che il mondo sia una grande tagliola, e che noi ci siamo in mezzo”, dice lei.
Uno “scavo lucido dentro gli stereotipi della drammaturgia romantica” (E. Martini) nutrito di suggestioni panteistiche. Incompreso
all’epoca della sua uscita e tratto dal romanzo (in costume) Tornata alla terra di Mary Webb (sceneggiato dai due registi), è
invece uno dei vertici dello stile fiammeggiante di Powell e Pressburger. Il produttore David O. Selznick, marito della Jones, fece
rigirare a Robert Mamoulian alcune scene per la versione americana (intitolata The Wild Earth) di 82’, che è poi quella che circola
comunemente. La versione originale che qui presentiamo è stata restaurata nel 1986.
PEEPING TOM
L’occhio che uccide
Michael Powell, GB 1960
Sceneggiatura: Leo Marks; fotografia: Otto Heller; scenografia: Arthur Lawson; montaggio: Noreen Ackland; musica: Brian Easdale,
Wally Stott; interpreti: Carl Boehm (Karl Böhm), Moira Shearer, Anna Massey, Maxine Audley, Brenda Bruce, Martin Miller, Nigel
Davenport, Michael Powell, Columba Powell; produzione: Michael Powell per Theatre (MP).
35mm, colore, v.o. inglese st. f/t, 109’
Torturato in gioventù dal padre che lo usava come cavia per esperimenti sulle reazioni alla paura, il giovane cineoperatore Mark
Lewis (Boehm) ammazza le ragazze che riprende, facendo in modo che le vittime si vedano allo specchio un attimo prima di morire.
Geniale saggio sul cinema come voyeurismo, pulsione necrofila e insieme scopofila (il bisogno morboso di contemplare), capace di
legare indissolubilmente Eros e Thanatos, il film, scritto da Leo Marks, è chiaramente una metafora sull’arte della visione (come lo
era stato La finestra sul cortile, ma qui molto più crudele e imbarazzante), che Powell dissemina di “allusioni generali specifiche
al cinema, di stoccate malevole al perbenismo bigotto e, soprattutto, di riferimenti personali” (E. Martini): il protagonista veste la
giacca marroncina e il montgomery che sono stati per anni la divisa di Powell; questi appare brevemente nella parte del padre del
protagonista e affida a suo figlio Columba il ruolo di Mark bambino. Clamorosamente sottovalutato all’epoca della sua uscita (un
critico britannico scrisse che si sarebbe dovuto “prenderlo con la paletta e buttarlo subito nella fogna più vicina”), sprizza in realtà
intelligenza da ogni scena, oltre a rappresentare una sorta di punto di partenza per il thriller moderno, da Brian De Palma in poi.
Schede tratte da Il Mereghetti. Dizionario dei film 2008, Milano, Baldini Castoldi Dalai, 2007, con integrazioni per i dati tecnici da
Powell & Pressburger, Textes et iconographie réunis par Roland Cosandey, Locarno, Éditions du Festival, 1982, da Emanuela Martini,
Powell & Pressburger, Firenze, La Nuova Italia 1989, e da Fernaldo Di Giammatteo, Nuovo dizionario universale del cinema. I film,
Roma, Editori Riuniti, 1994.