Fake Edizioni - Macchina dei Sogni

Transcript

Fake Edizioni - Macchina dei Sogni
Titolo originale dell’opera:
“Fake Edizioni.
Nuovo catalogo aggiornato di romanzi eventuali”
MACCHINA DEI SOGNI
associazione culturale
cinema&scrittura
È un motore alimentato dal propellente della creatività
e messo in moto dalla comunità solidale di tutti
gli ingegni impazienti.
Genera conoscenza connessioni incontri, alimenta passioni,
traduce sogni in scintille e non danneggia l’ozono.
www.macchinadeisogni.org
[email protected]
collana
LIBRI della MACCHINA DEI SOGNI
volume 15
© 2011 by MACCHINA DEI SOGNI
Corso MANUALE D’AUTORE progettare il romanzo
Edizione 2001
Condotto da Matteo B. Bianchi
EDIZIONI AUTOPRODOTTE
traduzioni previste in tutte le lingue richieste
Progetto MACCHINA DEI SOGNI
Art director: Jasmina von Büren – www.xsdsign.ch
Coordinamento del progetto: chicca profumo
Redazione: Loretta Patrini
Fake Edizioni
Nuovo catalogo aggiornato di romanzi eventuali
Un catalogo immaginario per un'immaginaria casa editrice, che però illustra romanzi
possibili. I libri che troverete in queste pagine non esistono, o per meglio dire, non
esistono ancora: sono i progetti che i frequentatori del corso "Manuale d'autore"
stanno portando avanti. Durante gli incontri ne abbiamo discusso le trame, analizzati
i personaggi, verificato i dialoghi... Tra qualche mese alcuni di questi romanzi saranno
terminati, ma a noi, per gioco e anche per incoraggiamento, piace presentarli qui come se lo
fossero già tutti.
Matteo B. Bianchi
5
Emma è cresciuta “dalla parte giusta”, ma ora si sente l'unica nel proprio
mondo a non trovare più conforto in un patrimonio condiviso di certezze,
preferenze, riferimenti culturali. A partire da una spregiudicata scelta lavorativa, intraprende un percorso di ribellione segreta che apre sempre
di più la crepa invisibile che la separa dalla famiglia e dal compagno. Le
ricadute saranno più ampie di quanto si possa immaginare, perché Emma
lavora come ghostwriter e le sue parole danno voce a esponenti di primo
piano sulla scena politica nazionale.
Fuori tema è la storia di una donna e il ritratto ironico e spietato di un
Paese in cui il privato è pubblico e il pubblico è privato.
Francesca Pampinella è nata a Belluno nel 1970. Negli ultimi vent'anni
ha cambiato spesso dimora e un paio di volte carriera. È stata un cervello
in fuga, poi rientrato, mai rassegnato.
Questo è il suo primo romanzo.
6
Fuori tema, Francesca Pampinella.
Scrivo da trent'anni lo stesso discorso. Noi siamo migliori di voi.
Alle elementari voi eravate i barbari, i dominatori austro-ungarici, Napoleone che
si porta via le opere d'arte, gli assassini dei partigiani. Noi, io e mio fratello in gita
al sacrario di Bastia Mondovì, in fila indiana dietro nostro padre. Eravate ormai
lontani e sconfitti.
Al liceo eravate i corruttori, quelli che se n’erano approfittati troppo a lungo, quelli
della strategia della tensione, i nani e le ballerine. Umiliati, esiliati, finiti. Noi, l'insalata di riso di mia madre davanti al tg e i tram sull'asfalto rovente fuori dal tribunale.
Adesso siete quelli che non danno valore alla cultura, che non riconoscono le regole, quelli delle hostess nelle prime file, delle convention, dei tabloid all'italiana,
gli avvocati difensori, gli evasori e i piazzisti. Adesso siete in mezzo a noi e avete
vinto.
Ho scritto che siamo migliori di voi nelle recensioni cinematografiche per una rivista
studentesca, nei primi esperimenti con un corso di scrittura creativa, nel forum
“Cieli puliti per Milano”, dove ho conosciuto Luca. Ce lo siamo detti insieme che
siamo migliori di voi, nelle passeggiate dopo il cinema, nei negozi equo-solidali,
alle presentazioni dei libri e nelle serate antisanremo. Forti del nostro amore che
cresceva dalla parte giusta. Ho scritto che siamo migliori di voi persino nei commenti di un blog dedicato alla cucina a chilometro zero.
Scrivo da trent'anni lo stesso discorso, ora lo scrivo più o meno ogni giorno per
una senatrice del PD e mi pagano per farlo.
La strada più sicura è indubbiamente quella di continuare a credere che noi siamo
migliori di voi, se non fosse che a forza di scriverlo non sono più così certa di sapere chi siate voi né a cosa abbia portato tutto questo essere migliori.
1
«Non passa giorno senza che io mi domandi dove sia finito il paese che in tante
abbiamo sognato per le nostre figlie.»
Qui il suo sguardo si rivolge dritto in camera. All'improvviso. Niente esitazioni, niente
“vede”, basta togliere quel “vede” all'inizio e non sembra più una lezione. Gli occhi
sobriamente truccati fermi su di noi che siamo qui a raccogliere le briciole dalla
tovaglia, e dallo schermo il suo quasi quotidiano appello alle nostre coscienze.
Scuotiamo la testa mentre ammonticchiamo le bucce di mandarino. Nella metà
delle case italiane altre famiglie correttamente ammonticchiano bucce e compiaciuta disapprovazione, e pendono da quelle labbra rosa pallido al giusto grado di
carnosità. Esattamente equidistanti dalla maestrina invidiosa e dalla cinquantacinquenne che non si arrende.
In questa cucina invece l'attenzione è coagulata sulla mia bocca ancora un po'
macchiata di cacao. Aspettano che onori il nostro gioco. E io, incorniciata in un
copione ormai fasullo quanto il teatrino di cartone dove da bambina facevo ballare
le marionette, pronuncerò una frase scelta con cura e osserverò l'onda dei loro
7
sguardi infrangersi contro il televisore e poi di nuovo rimbalzare su di me. Sorridenti, fieri. Come se ancora riuscissero a rivivere la sorpresa di quando scoprirono
che quelle parole così importanti le avevo scritte io.
Era la prima domenica che mio padre e mia madre venivano a pranzo a casa nostra. Un modo di dichiarare a se stessi che con la partenza di Enzo il loro cessava
di essere il baricentro della famiglia. Il figlio piccolo era uscito di casa e restavamo
noi, due coppie di diversa età a scambiarsi le feste e qualche cena infrasettimanale.
Del mio ultimo avanzamento di grado nella schiera dei parolai di partito avevo raccontato a mio fratello mentre lo accompagnavo in aeroporto. Non mi aveva ferito
né stupito l'indifferenza con cui aveva accolto quella notizia. Definirla indifferenza
sarebbe inesatto, ma allora non avevo alcuno strumento per decifrare quella sua
visione del mondo, ciò che per noi era solo un “chiamarsi fuori”, lasciare, appunto,
andarsene.
Per la preparazione di quel pranzo io e Luca iniziammo da vere e proprie riforme
infrastrutturali, che prevedevano l'affissione di quadri ancora appoggiati per terra
da quasi cinque anni, l'omologazione stilistica di piatti e bicchieri e la sostituzione
della consunta pallina di gomma del meccanismo che blocca lo scarico del WC.
Ciò gli impose l'iniziazione al mondo dei negozi di ferramenta e una definitiva resa
al ruolo di maschio che gestisce le piccole riparazioni, una mia personale conquista
nell'impostazione della nostra convivenza.
L'ideazione del menù ci vide lavorare fianco a fianco come un dream ticket nella
costruzione del programma elettorale. Ci apprestavamo a intaccare il nostro patrimonio di gourmand della domenica, pazientemente accumulato nei saloni del
gusto e alle fiere dei prodotti D.O.P. nei borghi medievali. Tutto di qualità rigorosamente certificata, i prodotti, i produttori e, se possibile, anche i borghi medievali. Il
sabato mattina battemmo palmo a palmo il Farmers Market di via Ripamonti, il pomeriggio lo passammo in cucina.
Era il nostro debutto ufficiale. Le festicciole di compleanno, le cene con gli amici,
nemmeno il fatto che due o tre volte l'anno ospitavamo la riunione del gruppo di
acquisto solidale di cui Luca era uno dei promotori, contavano davvero. Ci vuole
una famiglia per certificarne un'altra e questa era la nostra prima e unica occasione.
La madre di Luca probabilmente non verrà mai a Milano, figuriamoci nel nostro
appartamento. Questo nella sua famiglia non è vissuto come una mancanza o un
qualcosa per cui cercare una giustificazione. Anche se non ne abbiamo mai parlato, siamo certi che nel loro universo non esista il concetto di “Emma e Luca”
come nucleo familiare. Noi siamo “i ragazzi”, quelli che li raggiungono per Natale
nella casa di Terni, dove sua madre è arbitro e giudice supremo in un'eterna competizione in cui sorelle e cognate si sfidano per il titolo di famiglia modello. Noi due
siamo fuori concorso, a prescindere, e alla fine delle vacanze ce ne torniamo in
quella nozione vaga e indefinita che è per loro la nostra dimora milanese, con
l'auto stipata di pietanze da congelare in contenitori monoporzione. Il massimo
della considerazione l'abbiamo raggiunto a Pasqua dell'anno scorso, quando abbiamo impastato e infornato le focacce per tutti quanti. L'aver rimesso in funzione
8
il forno a legna, inattivo dalla scomparsa del padre, ci ha fatto guadagnare i nostri
cinque minuti di popolarità come unità in grado di contribuire al sostentamento
della tribù con un qualsiasi genere di produzione. Un po' come vincere nella sezione Un certain regard.
Quando arrivò la domenica, la tensione da debutto si mescolò all'anticipazione,
tanto che, nell'accogliere i miei sulla porta, nemmeno notai gli strass che tempestavano i jeans di mia madre, né detti troppo retta al roteare di pupille con cui mio
padre sollecitava un mio solidale commento di disapprovazione. Avevano ciascuno
il proprio lutto da elaborare, mi dissi, lei la perdita dell'amato bamboccione e lui la
fuga di quello che non poteva nemmeno vantare come “cervello”, perlomeno non
in base ai canoni attuali. Confidavo nel fatto che il mio annuncio li avrebbe distolti
da questo nadir della loro parabola genitoriale.
Dopo qualche convenevole papà accettò con grazia l'invito a scegliere e stappare
la bottiglia di vino, e il pranzo ebbe inizio.
Tra una portata e l'altra lievitava la bolla d'intesa dentro la quale io e Luca ci scambiavamo sorrisi ebeti. Davanti al soufflé di cioccolato, la complicità con cui mia
madre ci chiese cosa avevamo da nascondere sgonfiò il nostro programma in un
colpo solo.
Un nuovo baricentro per la nostra famiglia, con il sistema più classico e sostanziale, questo si aspettavano da noi.
«Mi hanno chiesto di scrivere per la Pocchiola.» Avrei potuto dirlo così, a bruciapelo, per evitare che nello spazio di un “devo dirvi che” o “ho una novità da raccontare”, mio padre avesse già mentalmente messo in sicurezza il nostro
appartamento e applicato i tappi anti-dita-di-bimbo a tutte le prese.
Risposi che eravamo solo molto contenti di aver finalmente risolto l'annosa questione della pallina del WC e fugai ogni dubbio con una risata, mentre percepivo
lo sguardo perplesso di Luca e mi rifiutavo di incrociarlo.
Non volevo che i miei pensassero che il pranzo fosse stato organizzato per quello.
Sapevo che sarebbero stati contenti per me e anche fieri, ma avevamo messo in
piedi una liturgia da lieto evento. Improvvisamente ci guardavo con i loro occhi e
non mi piaceva quella sensazione. Non dico come se gli avessimo annunciato che
intendevamo prenderci un cane, ma quasi. Soprattutto non volevo condividere
questi pensieri con Luca.
La sera, a letto, quando sapevo di non poter più sfuggire alla spiegazione per quel
mio estemporaneo dissociarmi dal nostro lavoro d'équipe, me la cavai con la storia
che mi era venuto in mente solo all'ultimo quel modo molto più spettacolare di svelare la sorpresa. La creatività mi va a mille quando sono sotto stress.
Come ogni domenica il caffè del dopopranzo lo prendemmo davanti alla trasmissione della Annunziata. Ospite proprio quel giorno, Anna Pocchiola, da poco eletta
al senato e già una delle voci più autorevoli dell'opposizione. Il programma si sarebbe aperto con il filmato di un suo recente intervento a Palazzo Madama, il primo
scritto da me. Il primo di molti che avrei ricordato a memoria, tanto da poter anticipare lo schermo. Scegliere una frase qualunque e pronunciarla qualche secondo
prima che le stesse identiche parole siano diffuse dal televisore come un'eco. Così
feci quella domenica e così farò adesso per l'ultima volta.
9
Al ritorno dalle ferie dovrò aver trovato un modo per convincerli che questo gioco
ha fatto il suo tempo. Inizialmente avevo pensato di raccontare che avevo chiuso
con il ghostwriting per fare altro ma, a parte questa, nessuna delle attività a cui mi
sia dedicata finora era almeno vagamente remunerativa. E qui invece i soldi continueranno ad arrivare. Anzi, adesso ancora di più. Perché domani, io, passo dall'altra parte.
2
L'assistente di volo illustra, ignorata, le procedure di evacuazione dell'aeromobile.
Puntuale mi visita lo stesso pensiero di ogni decollo e mi immagino nell'attimo
estremo di rimpiangere la mia reiterata noncuranza delle procedure. I miei che entrano in casa. La mia eredità è un bagno con il caos senza pudore di un qualsiasi
mercoledì senza visite annunciate. Improbabile che ci sia un cadavere da rivestire
e al limite gli abiti li potrebbe procurare Luca, ma lui in queste visioni non c'è mai,
e non solo perché in molti casi è ovviamente deceduto al mio fianco. È un immaginario nato prima della nostra relazione e ancora non si è aggiornato con la sua
presenza.
Nel pc c'è tutta la corrispondenza di queste settimane, inclusa questa lettera che
mi porterò in grembo fino alla fine. Speriamo almeno che a metterci le mani sia
mio fratello, anche se forse per rintracciarlo ci metterebbero qualche giorno.
Rileggo per la centesima volta la mail di Vizzeri per cercare di capire come affronterò l'incontro. È piena di espressioni convolute come “in un certo qual modo”,
“sondare la sua disponibilità”, “sforzandoci di perseguire un superamento di quella
cesura cartesiana” e “volendo inquadrare il tutto in una prospettiva più ampia che
trascenda la contingenza delle contrapposizioni correnti”. Se inserissi questo testo
nel software che genera le tagcloud il prodotto sarebbe un arabesco.
Elaborato quanto la trama dei tendaggi ai lati della finestra del suo studio romano,
davanti alla quale mi parla qualche ora più tardi. È in piedi esattamente al centro
della luce che filtra tra i suoi capelli crespi e rossicci, come la raffigurazione di un
santo illuminato dallo spirito divino.
«Signorina Benedetti, capisce bene che con questa impostazione il materiale che
ci serve è molto più... come posso dire... denso.»
«Denso?»
«Senza le consuete interruzioni, l'impasse dei diverbi» l'iPad bianco nelle sue mani
affusolate sembra un messale, «ecco, il peso, il peso specifico dei testi.» Termina
la frase a metà allargando le braccia e sorridendomi con le labbra strette.
Per una frazione di secondo ho quasi la certezza che stia per impartirmi una benedizione. Istintivamente mi aggiusto meglio la gonna sulle ginocchia e cerco di
sedermi ancora più dritta sulla poltrona marrone di velluto consunto. Di tutti gli stereotipi che mi stanno stretti, quello che attribuisce al centrodestra la povertà del
linguaggio e lo sfarzo degli arredi avrei sinceramente preferito conservarlo.
Del resto Vizzeri è una figura che va sicuramente “inquadrata in una prospettiva
più ampia che trascenda la contingenza delle contrapposizioni correnti”.
Qui dentro si respira quell'aria ministeriale tra il solenne e l'ammuffito che nel mio
immaginario appartiene alla Prima Repubblica, quando non la si considerava an-
10
cora una versione destinata a essere soppiantata dalle successive. Il palazzo si
porta abbastanza dignitosamente i suoi due o tre secoli, i mobili dello studio hanno
l'aria di essere diventati di colpo obsoleti, passata l'infatuazione per la combinazione legno-formica (ammesso che sia mai esistita), e Vizzeri ha un'età indefinita
tra i sessanta e i duemila anni.
«In altre parole prevedete più spazio per i contenuti? Una bella novità» sorrido e
mi appoggio allo schienale. Lui ignora l'ironia della battuta, intento a scorrere un
menù dall'iPad. Lo sguardo è calamitato sulla tavoletta, il profilo sfuggente contro
la luce che si è fatta più ambrata, forse anche i vespri li pubblicano in versione tablet.
«Ad ogni modo ho capito cosa vi serve e mi farò un'idea più chiara guardando la
trasmissione.»
«Molto bene. La diffusione è ancora locale, ma non si sa mai» si avvia verso la
porta e capisco che devo seguirlo. «Del resto per noi è molto importante l'azione
sul territorio.» Questa parola la pronuncia come se fosse un termine esotico che
ha imparato ieri e non è ancora del tutto sicuro che glielo abbiano insegnato correttamente.
Mi fa uscire da una porta diversa da quella da cui sono entrata, verso un salottino
in stile anni Trenta perfettamente conservato, ed evidentemente utilizzato solo
come luogo di passaggio.
Fa per aprire il portoncino, ma poi lo richiude come in preda a un ripensamento e
vi si appoggia con la schiena frapponendosi fra me e l'uscita. Presa alla sprovvista,
mi fermo a circa dieci centimetri dal suo naso e indietreggio come presa da una
scossa. Sono certa di aver involontariamente invaso il suo spazio vitale, ma lui
con molto savoir faire non lo dà a vedere.
«Poi, signorina Benedetti, un giorno, se non le dispiace, mi racconterà che cosa
l'abbia spinta ad accettare.»
Mi congeda senza nemmeno lasciarmi il tempo dell'imbarazzo, la risposta che gli
darei ora non lo incuriosisce per niente, come se sapesse che io stessa sono ancora molto lontana dall'averlo capito.
Giù in strada il traffico è meno rumoroso rispetto a quando sono arrivata, le luminarie di Natale sono ancora appese e spente. L'aria è pungente, ma ha comunque
quell'odore di stagione nuova che mi colpisce sempre arrivando da Milano. Carico
su un taxi il mio bagaglio di dubbi e perplessità. So già che prima di atterrare avrò
deciso di mollare tutto e tornare indietro, e mi sarò anche recuperata da sola, almeno un paio di volte. Ora non posso contare sui familiari meccanismi di salvataggio. Tornando a casa da Linate Luca vorrà sentire un nuovo aneddoto sulla
segreteria del PD e su chi sono questa settimana i cospiratori che affossano la
Pocchiola. Su questo ho un repertorio che mi consente un'autonomia di almeno
un annetto. Poi si vedrà.
C'è poca gente in aeroporto, scivolo nell'atmosfera sonnacchiosa da serata di
bassa stagione e procedo in automatico verso il gate con la più alta concentrazione
di uomini d'affari sopra i sessanta. Verifico il numero sulla carta d'imbarco e sul
monitor, il volo partirà con trenta minuti di ritardo. Mezz'ora in più di questo tempo
che ufficialmente non esiste.
11
Grata per l'imprevista dilatazione dell'intercapedine tra la mia vita e l'embrione di
un universo parallelo, mi cerco un posto tranquillo per aspettare.
Venti minuti più tardi sollevo la testa dai documenti che mi hanno consegnato
prima del colloquio, cinque pagine di clausole di riservatezza e una scheda della
trasmissione “Lasciamoli parlare”, in diretta il venerdì sera su Emittente Veneta.
Oltre la vetrata vedo solo il bianco dell'aereo attaccato al finger e la mia immagine
riflessa contro il buio pesto. Dal cappottino afflosciato come un pupazzo sgonfio
su un sedile alla borsa aperta in bilico, sul punto di riversare tutto il contenuto sul
pavimento, ho occupato lo spazio di quattro posti. La stanchezza mi fa espandere
gradualmente come un gelato mezzo sciolto. Ripenso alla domanda di Vizzeri, è
evidentemente sicuro del fatto che a muovermi non sia il denaro. Forse ne è ancora più certo di me.
Una misconosciuta giornalista padovana si è inventata un nuovo format per l'approfondimento politico: a ogni puntata invita solo persone dello stesso partito. Gli
ospiti non perdono tempo a interrompersi e a rinfacciarsi le reciproche interruzioni
e hanno ben cinquanta minuti per parlare effettivamente di qualcosa. La trasmissione è in diretta e il tema lo comunica lei, la sera prima. Gli esponenti del PDL
veneto non hanno ancora accettato l'invito e la cosa inizia a farsi notare.
«Ci serve la vostra... pluralità di punti di vista. In questo caso, però, si dovrà giungere a una sintesi, ovviamente.»
Ovviamente. Mentre scendo dalla scaletta bagnata dal nevischio di una gelida
notte milanese, mi colpisce, a posteriori, la sensazione della vicinanza fisica con
il funzionario romano. Una pneumatica assenza di odore.
12
13
Anna e Marco sono molto sposati, in una Milano degli anni Dieci. Anna
vive in bilico tra un’esistenza borghese ben disegnata, un lavoro all’avanguardia e sogni bohémien. Marco è un dirigente di successo e ha il dono
di prendersi cura di tutto: di lei, delle piante, del gatto Sciòn. Sanno ancora
ridere insieme, tutte le tessere sono andate a posto, perché mai ricominciare a spostarle?
Cri e Massimo sono la coppia amica, quella con cui festeggiare i compleanni, scappare nel week end, gustarsi un concerto di nu jazz scandinavo. Natalie e Daniele sono una coppia creativa dalla carriera
disordinatamente internazionale, che incrocia il quartetto così ben affiatato, movimentando la scena.
Quando Anna riconosce in Daniele una soul mate e intravede tra loro un
legame misterioso, la faccenda si complica. Gli equilibri instabili saltano,
secondo un effetto domino che avrà conseguenze per tutti.
Le vite dei sei personaggi si ingarbugliano in luoghi surreali che sembrano
avere una loro voce nella storia, dalle architetture post-industriali dell’Hangar Bicocca, al calore stridente del quartiere Isola, alla natura imperfetta di Framura.
Elena Ghiretti viviseziona la coppia e i meccanismi della seduzione con
uno sguardo che oscilla tra perfidia ed empatia, intessendo una ragnatela
di piccole manie quotidiane, sogni romantici fuori tempo, episodi grotteschi, da cui emergono tre figure femminili emblematiche, donne sull’orlo
di una mutazione antropologica in un’Italia alla deriva.
Elena Ghiretti è architetto, si occupa di innovazione, e ha messo insieme
una carriera improbabile. È stata prospective marketing manager in multinazionali chimiche svizzere, ha fatto ricerca blue sky su scenari tecnologici futuri e ha gestito licenze profumate. Oggi si occupa di strategia di
marca e trend forecast per marchi del Made in Italy. Ha esordito nel 1999
con un racconto pubblicato da MarieClaire, poi per anni non ha trovato il
tempo per la scrittura. Oggi il tempo l’ha ritrovato e tiene tre blog: donnealpha.blogspot.com, lostinstyle.splinder.com e mia-mi.it. Questo è il suo
primo romanzo.
14
Duepertre, Elena Ghiretti.
½
BLUE
Anna e Marco sono seduti già da un po’ dentro una canzone.
#
«A che ora dobbiamo essere là?»
«Alle nove.»
«Nove in punto? Te la fai o no la doccia? Guarda che io tra un quarto d’ora sono
pronta.»
«Io ci metto dieci minuti.»
«Figurati.»
«Vedrai.»
#
Anna è in piedi nella cabina armadio. Le mani sui fianchi, il piede destro appoggiato al polpaccio sinistro in una versione fiacca dell’Albero, fissa il groviglio di abiti
giacche bluse pantaloni gonne gilet camicette.
Aspetta. Sa che magicamente, come sempre, si manifesterà l’outfit perfetto per la
serata. Deve solo scegliere il primo pezzo, poi gli altri seguiranno per catena semiotica.
Allunga una mano, sfiora rasi di seta fredda, ruvidi crêpe di lana, viscose sottili,
maglie di cashmere impalpabili come nuvole. Si ferma per un attimo su un abito
nero in lino drappeggiato. Diana alla caccia? Troppo esplicito.
Qualcosa di più cerebralmente sensuale.
Si blocca su un paio di pantaloni a sigaretta in cotone pettinato color malva. Con
il kaftano di seta acquerellata? Glielo hanno già visto. Mette a fuoco un gilet nero.
Chiude gli occhi. Sì. Questa sera sarà una Annie Hall.
#
Anna e Marco sono seduti già da un po’ dentro una canzone, al loro tavolo per sei
in seconda fila, visibilità discreta.
#
Marco accende la doccia, si toglie la camicia e la getta nel cesto ricolmo. Questa
settimana non è ingrassato. Ma non è nemmeno dimagrito. Deve riprendere il tennis, la partitella a calcetto del mercoledì non è sufficiente. Poi ormai sono tutti un
po’ acciaccati, vanno a rilento, non si corre più come quando avevano trent’anni.
15
Rimane a lessare nel vapore davanti allo specchio, analizzandosi di tre quarti, poi
ruotando il busto di profilo, fino a quando la propria immagine non si dissolve nella
nebbia.
Rimane fermo con gli occhi chiusi sotto il getto caldo, cercando di lavare via il
senso di allerta per la serata che l’ha accompagnato tutto il pomeriggio.
Non è sicuro di volersi fare la barba. L’ha tagliata stamattina. Forse è meglio non
avere un aspetto troppo studiatamente curato. Lasciare un grado di approssimazione disinvolta.
Il fatto è che non ha un quadro preciso del pericolo. Sa solo che deve stare in
guardia.
#
Anna e Marco sono seduti già da un po’ dentro una canzone, al loro tavolo per sei
in seconda fila, visibilità discreta. Sorseggiano un balloon di vino rosso e cercano
di colmare lo spazio lasciato dai posti vuoti con arie da connoisseur.
#
La sala del Blue Note è immersa in una penombra serica. C’è quasi tutto: i tavoli
rotondi, il palco, la balconata, il chiacchiericcio di fondo, il ghiaccio nei drink,
l’aspettativa da pre-concerto. Potremmo essere davvero a New York o dentro Mo’
Better Blues. Ma siamo a Milano, è novembre e fuori c’è l’Isola sotto la pioggia.
«Prova a richiamare Massimo, manca poco» Anna ovatta la voce.
«Stanno arrivando, piantala di agitarti. Al limite perdono l’inizio, che c’è?» e, dopo
un secondo, «Hai chiuso la porta della cucina?» Se ne frega di abbassare il tono,
per ora.
Riprende a studiare il menù. Mazzetto di asparagi con uova di quaglia, veli di suprema d’anatra leggermente affumicata, salsa spumosa all’orientale. Spumosa.
Rieccoci. Spume ovunque, pure al Blue Note, tutta colpa di Adrià.
«Ordiniamo?» dice Marco mentre sta già studiando i dessert, meglio portarsi
avanti.
«Ma non possiamo ordinare solo per noi, non è carino.»
«Lo sai che odio mangiare in faccia ai musicisti. E poi Cri e Massimo prendono
solo una portata, noi possiamo iniziare con un antipasto. Gli altri non so.»
«Gli altri? Intendi The Others?»
Anna imposta sopracciglia sarcastiche, posa il bicchiere al rallentatore. È tentata
di intavolare una discussione, ma si censura. Si rifiuta di creare tensioni, ha solo
voglia di crogiolarsi in quel buio vellutato, pregustarsi la serata.
«Aspettiamo ancora cinque minuti.»
«Anna, il concerto sta per iniziare.» (Tentativo di tono autorevole).
Anna fa la sfinge. Tiene lo sguardo fisso sul palco. Le si stanno già gonfiando i
piedi, c’è troppo caldo. Sbircia furtiva sotto il tavolo e scopre che la tovaglia bianca
arriva fino a terra, un sipario sicuro se volesse sfilarsi le scarpe più tardi. Certo
che le stringate non si prestano all’operazione.
16
Si aggiusta una ciocca lasciata volutamente libera dallo chignon lento, si guarda
attorno e prende atto di non essere osservata. Rimane sempre un po’ delusa. È
difficile accettare di non essere più la più bella della situazione, anche se si difende
piuttosto bene. Mantiene in media una terza o quarta posizione, a seconda degli
ambienti. Certo in un party di ventenni ormai scompare, risucchiata in una palude
invisibile. Dipende anche dalle giornate e dalle cure preparatorie. Per questa sera
si è regalata un Oxygen, niente di invasivo, solo ossigeno spruzzato sul viso con
un aerografo. Un po’ di freschezza, tre anni in meno per qualche giorno. Ma la
notte scorsa non ha dormito e gli occhi non sono luminosi come vorrebbe. Per fortuna il buio aiuta, sempre.
Marco vorrebbe sparire dalla scena. Sbriciolarsi e ricomporsi in Malesia, su una
spiaggia oceanica, a contare paguri. I paguri sì che sanno vivere. Se si mette male,
basta ritrarsi nella propria conchiglia. E quando la conchiglia è troppo stretta, se
ne cerca una più adatta a sé e ci si trasferisce, senza tanti patemi. La società dei
paguri questo lo accetta. Una bella vita monotona. A fare e disfare ricami di sabbia,
pronti a essere schiacciati da piedi umani e code di rettile. Un po’ frustrante, ok,
ma semplice, lineare, senza casini emotivi, al massimo qualche ansia da riproduzione. Ma i paguri sono ermafroditi come le lumache? Si guarda furtivo attorno,
estrae il blackberry dalla tasca della giacca di Piombo, lo tiene in pugno sotto il tavolo, vigile. Tenendo il mento alzato con aria estremamente disinvolta, riesce a digitare sessa paguro sulla mini tastiera. Forse intendevi sesso paguro? Sì,
intendevo sesso paguro. Risultati della ricerca: ottocento pagine di sesso paguro.
Un sacco di ristoranti Il Paguro. Tutti al Paguro per orge romane? Nel forum di
Animali nel mondo punto com Lepre e Acciuga disquisiscono sui loro terrari domestici. In Pescare a Messina punto com si affronta la difficile pratica di innescare
il paguro. Innescare il paguro? Paguro come bomba? O come esca? Che orrore.
Marco sente gli occhiacci di Anna sulla guancia. Gli occhiacci di Anna potrebbero
sterminare un esercito di paguri in un solo istante.
«Stai usando il blackberry?»
Il tono non è amorevole. Meglio sospendere la ricerca zoologica.
Mentre Marco fa sgusciare la propria protesi tecnologica dentro la tasca dei pantaloni del sarto, i musicisti fanno la loro entrata sul palco finalmente illuminato, accolti da applausi milanesi, un po’ diffidenti. Come ogni altra cosa in questa città,
anche gli applausi devi sudarteli, non si regala consenso a priori, a meno che la
tua fama non sia planetaria da almeno due generazioni, il che non vale per l’ensemble di nu-jazz scandinavo di scena questa sera.
Anna e Marco spariscono nel buio della sala, il tavolo troppo grande nasconde il
proprio imbarazzo confondendosi tra pieni e vuoti senza più contorno.
Sui primi accordi strumentali, ecco comparire Massimo. Si muove tra i tavoli col
suo passo molleggiato, cercando di limitare il disturbo, costernato. Scusate. Scusate. Li ha individuati, ha strizzato gli occhi miopi e ha puntato su di loro. Cri non
si vede ancora, si sarà attardata al guardaroba con gli altri. No, eccola che spunta,
il musetto da topo biondo fa capolino da dietro la giacca dell’eterno fidanzato.
«Scusateci, non si trovava un taxi.» (Squittio al silenziatore).
«Siete soli?» (Bisbiglio soffocato dagli applausi fiacchi).
17
«Natalie non sta bene, alla fine non sono usciti. Gli abbiamo rivenduto i biglietti.
Avete già ordinato?»
I loro sussurri si intrecciano agli accordi, lamenti di un gatto idrofobo. I musicisti
sono tutti biondi. Tutto può ancora succedere, sul palco.
Anna si sforza di non mostrare delusione, la tiene bloccata dentro, ma sente la
faccia che le scivola giù. Si aggrappa al menù fingendosi concentrata, ma sa di
essere un’attrice mediocre.
Marco ha un’espressione da cessato allarme, trattiene l’ultimo sorso di Shiraz tra
il palato e la lingua, si lascia sprofondare nella poltroncina, trasportato dalle prime
note del concerto.
1
BLUES
Com’era, prima? C’è stato un prima? Quanto tempo è passato da quella sera al
Light? Sei mesi? Un anno? E tra il primo e il secondo incontro, al compleanno di
Cri? Anna si sta attorcigliando su se stessa e vorrebbe srotolarsi, è scomodo stare
così. Non riesce a mettere in sequenza esatta gli eventi e a collocarli nel suo calendario mentale.
Sciòn la guarda, raggomitolato sui suoi piedi, con gli occhi tondi un po’ ebeti e le
vibrisse tese. Si sta sforzando di capire quello che le passa per la testa. Ha una
faccia ottusa, con l’iPad sulle ginocchia e lo sguardo perso nella parete di fronte.
Forse vuole cambiare di nuovo la disposizione dei quadri. Forse vuole rimetterli a
terra, come piacevano di più a lui, che ci si poteva rifugiare dietro quando arrivava
la donna con l’aspirapolvere. Era anche un buon nascondiglio per il topopeloso.
Spera solo che questo suo stato catatonico non ritardi il secondo round di pappa,
all’alba il tonnetto con i gamberi faceva schifo e ne ha mangiato solo metà, sforzandosi per farle piacere.
Anna sistema il cuscino in memory foam dietro la schiena. Eppure – pensa – il
tempo nella sua testa è in ordine, scandito da cinque giorni lavorativi e due festivi,
e si addensa attorno a eventi-cardine annuali imposti dal calendario CorporateCattolico-Locale: gennaio-marzo lavoro intenso, Pasqua, ponte del 25 aprile, ponte
del 1 maggio, maggio-giugno lavoro intenso, luglio e agosto spina staccata, settembre-dicembre lavoro intenso, ponte di sant’Ambrogio, Natale, 20 dicembre-6
gennaio spina staccata. Anno dopo anno, da quando è rientrata in Italia.
Non c’è possibilità di tregua, non è ammessa flessibilità, o vie di fuga.
Anche ora che potrebbe svincolarsene, lavorando in proprio – di cosa ti occupi?
Consulo – e potendo gestirsi le giornate come le pare, rimane ancorata a questo
imprinting atavico.
Possibile che sia finita imbrigliata in uno schema mnestico, proprio lei che come
titolo in LinkedIn ha Visionary? Deve essere l’ascendente Vergine che avanza.
Se un martedì si trova ad avere la mattinata libera, mica riesce ad andare in giro
a fare cose da sabato pomeriggio. Sente la città che corre, l’energia che solleva
l’asfalto, lo smog che vibra, i telefoni fissi che urlano, i cellulari untuosi appiccicati
18
alle guance, gli ingorghi auto-indotti, la nevrosi che scorre nelle strette di mano.
Come può cazzeggiare quando tutti attorno a lei lavorano, o fingono molto bene
di essere impegnatissimi? Si rende conto che a volte prende appuntamento dal
parrucchiere in pausa pranzo, quando potrebbe benissimo andarci alle tre del pomeriggio. Ma come ci si può presentare da Di Luca alle tre del pomeriggio di un
mercoledì? Sarebbe come ammettere di essere diventata una qualunque Giacomazzi del Centro-Ovest, di quelle con il giusto punto di biondo e la messa in piega
vaporosa.
Lei non è così, oh no. Lei viene da molto lontano. E porta ancora i capelli da ventenne. Così continua a muoversi a gincana in un’agenda immaginaria, evitando
ostacoli inesistenti. Entra da Di Luca finto-trafelata, sempre un po’ in ritardo, come
se arrivasse da un pranzo di lavoro al ristorante piacentino all’angolo, anche se in
realtà fino a cinque minuti prima era stesa a gambe in su con una maschera in
tessuto-non-tessuto sul viso.
Ha voluto rallentare. È che forse ha rallentato troppo.
Sciòn è costretto a cambiare ancora posizione, visto che lei non sta ferma con i
piedi. Stende le zampe e ci mette il muso in mezzo, soluzione precaria. Oggi è fastidiosissima. E non dà segni di alzarsi per andare in cucina. Se ne sta lì da un’ora
a non fare niente. Prima è suonato il telefono fisso e lei niente.
Se tutto è continuato a fluire secondo le regole – intanto continua a rimuginare
Anna – come può non ricordare il prima? Il tempo è diventato pastoso, sotto la superficie liscia delle cose. Lì sotto è successo qualcosa.
La delusione le è rimasta incrostata addosso dalla sera precedente, al Blue Note,
e non per colpa del concerto surreale. Non è servito farsi lo scrub ai cristalli di zenzero, mettersi biancheria pulita Grazia‘Lliani e spruzzarsi l’eau parfumée au té
blanc sui capelli e sui polsi. Di solito così recupera comfort ed equilibrio. Oggi no.
Un’altra occasione mancata. Questa volta sembrava tutto a posto.
Non va bene, così. Ricominciano nausea e languore insieme. Deve esserci ancora
una mela cotta nel forno.
Ha bisogno di rimettere in fila i fatti. Forse così scoprirà il punto in cui si è ingarbugliato tutto. C’è stato forse un momento in cui la realtà avrebbe potuto prendere
una piega diversa, alla Sliding Doors.
Anna si alza e si avvia verso la cucina. Sciòn segue ogni suo gesto con grande
attenzione. Finalmente si è ricordata di lui, e che cavolo. Scende dal divano, si
stira sulle zampe inarcando la schiena concavo-convessa, zampetta fiducioso
verso il corridoio già pregustando il pranzo. Speriamo che sia manzo, speriamo
che sia manzo, speriamo che sia manzo. È solo a metà strada quando la vede
tornare indietro come sonnambula, superarlo indifferente e tornare in sala. Lo sta
prendendo per il culo?
Anna torna a sedersi, una gamba piegata di lato come di gomma, e affonda i denti
nella mela spappolata caramellosa.
Il Light. Di chi era la festa? Forse di Sergio. Sì, di Sergio, l’amico cretino di Massimo. Chi vuoi che organizzi ancora una festa al Light, se non lui. Faceva freddo,
doveva essere febbraio, perché lei indossava l’abito nero di Michael Kors con
sopra il cardigan ampio di lana e gli stivali lunghi scamosciati. Un anno fa, allora.
19
Gli avevano comprato last minute quel vaso di gomma di Italian Independent. Il
vaso di Lapo. Che vergogna. A pensarci ora, perfetto per Sergio. Sembrava più
un pallone da rugby sgonfio.
Quindi, il Light. Cri e Massimo erano già lì. Cri era ancora un personaggio dai contorni sfumati, un profilo da Nefertiti albina, lei e Massimo si stavano frequentando
solo da pochi mesi. Che strano, ora sono il loro orizzonte, uno status quo.
Glielo aveva presentato lei, era venuto – solo – con loro due. Aveva una giacca di
velluto a coste nera ed era molto più alto di lei, che significa essere almeno un
metro e ottantacinque. Di cosa avevano parlato? Possibile che in quel momento
non avesse attivato tutti i dispositivi di registrazione live, assorbendo ogni parola
e gesto?
Ha sporcato il bracciolo del divano con un pezzo di mela cotta, le mani sono tutte
appiccicose, butta il torsolo molle con i semi nel piattino, si lecca le dita, non si
muove di lì.
Si sta sforzando di mettere a fuoco la scena, ma i pezzi rimangono staccati e l’insieme è un magma fluttuante con dentro qualche Kir Royal, tende bianche, molti
mojito, musica lounge datata, facce di spugna vagamente familiari, palloni da
rugby sgonfi, profili di Nefertiti, giacche di velluto a coste.
Sciòn si guarda bene dal tornare a scaldarle i piedi. Si arrampica su un altro divano
vuoto, piantando con perizia le unghie nella trama del tessuto, gira a ciambella un
paio di volte e si adagia, voltandole le spalle, sdegnato.
Quello che Anna ricorda con più chiarezza è la reazione di Marco.
Mentre stava chiacchierando con lui – avevano parlato dei propri lavori, adesso il
file si ricompone, e avevano scoperto di avere frequentato la stessa università, e
lì doveva avere pensato ma guarda che coincidenza – si era accorta che Marco li
stava fissando, da un gruppetto ridacchiante all’angolo opposto della sala. Era durato giusto uno scambio di occhiate.
Piripì piripì piripì piripì – il suono odioso dell’asciugatrice la avverte che le lenzuola
sono pronte – piripì piripì piripì piripì – si alza e corre nel bagno di servizio – piripì
piripì piripì piripì – si fionda sul pulsante arancio e lo stoppa – pì. Torna ad accoccolarsi sul divano con le ginocchia in grembo, allunga un braccio per accendere
la sua lampada da lettura-value-for-money-di-designer-emergente. Che schifo di
tempo, anche oggi.
C’è stata quella frazione di secondo in cui ha sentito gli occhi di Marco su di loro.
Ora le piacerebbe infilarsi in quella scena e sgusciare dentro Marco come in Ghost
per osservare quei due comportarsi come vecchi amici che non si vedono da anni,
ma che in realtà non si sono mai incontrati prima.
Lei sembra disinvolta, gesticola per spiegare meglio qualcosa, ha le spalle nude.
Lui è un po’ chino su di lei per sentirla nel frastuono che li avvolge, ha le mani in
tasca e sorride.
Sono perfetti. Sembrano stati progettati per essere lì insieme a parlare dentro quel
locale con le luci sexy e le tende bianche, arrivano da due traiettorie lontane che
finalmente si sono incrociate, dopo alcuni inspiegabili depistaggi.
Peccato che lei sia sua moglie.
«Hai parlato tutta la sera con quello là.»
20
«Tutta la sera, che esagerato. Due parole! Viene dalla mia scuola, non conosco
nessuno qui che abbia studiato a Venezia!»
«Ci ha provato.»
«Macché provato, me l’ha presentato Cri, ti pare? È un suo amico.»
«È alto. Avete parlato per ore. Chiedi a Massimo.»
«Togli quelle scarpe dal tappeto?»
Anche standosene acquattata sotto la pelle di Marco non riesce ad afferrare la
sua gelosia proattiva, senza precedenti. Continua a sembrarle irreale e fuori luogo.
Marco non era mai stato geloso. Disonesta e ipocrita fino all’osso. (Chi ha parlato?)
Lei che possiede dalla nascita il Cromosoma Gelosia, sospettosa e diffidente nei
confronti di qualsiasi novità femminile appaia nella vita di Marco: product manager
dalla pelle di alabastro e la dolcezza di un rottweiler, brand manager con i seni a
punta, segretarie di direzione travestite da Valentina, direttori creativi borderline
di agenzie di comunicazione across-the-line, PR biondo miele, avvocatesse anoressiche. Sospetto a priori. Gelosia preventiva a tappeto, altro che proattiva. (Chi
ha parlato?)
C’è uno strano silenzio oggi, fuori. Dove sono finiti i trapani e le martellate del cantiere all’angolo? La rilassavano.
Di quella sera una cosa le era rimasta, di certo: il suo cellulare. Glielo aveva chiesto lei, sull’onda dell’entusiasmo da compagni-di-università-mancati. Questo a
Marco non lo aveva detto, ammette. E per un lungo periodo si era persino scordata
di avercelo, quel numero.
La macchia sul divano le dà un fastidio tremendo. Ha provato a non farci caso,
ma ora sta diventando insostenibile. Si alza di nuovo, con fitta lombare, e va a
prendere un panno inumidito con cui cerca di pulire via i residui di mela. Sfrega
piano, per non far scolorire l’azzurro e il rosso. Un alone beige si allarga attorno
al peccato originario.
Sciòn le sta ancora girando le spalle. Monitorizza i suoi movimenti con l’udito e
l’olfatto, standosene stravaccato lì, occhi chiusi. Non lo frega più, con le sue finte
mosse.
L’iPhone vibra sul tavolo, poco distante. Anna molla lo straccio e va a vedere chi
è.
La faccia di Marco la guarda da una foto di cinque anni prima.
«Hello?»Anna si accorge che la batteria è quasi scarica.
«Hellooooh, che fai oggi?»
«Devo andare in Campari, per Londra.»
«Avete già fissato la data?»
«Circa. Fanno casino con le agende, non so se ne usciremo. Tu? A che ora arrivi,
caaaro?»
«Pensavo di andare in palestra, prima.»
«Uuuh, i Buoni Propositi reggono ancora!»
«…Hai portato la Smart a far revisionare?»
«No.»
21
«Cosa aspetti? Che si rompa? Non hai cura delle cose.»
«Io ho cura delle cose, fin troppa. Ti ricordi di passare a pagare la tintoria? Sono
due settimane.»
«Arrivo alle nove.»
«Ok, preparo per le dieci. Mao.»
«Guarda che io arrivo davvero alle nove.»
«Sì, sì, mao.»
«Mao.»
Marco riattacca e prende in mano una cartella bianca in formato A3, la apre e ne
estrae una tavola con la prima proposta della nuova campagna, la osserva dubbioso, poi tira fuori la seconda. Le dispone sulla scrivania. Passa lo sguardo da
una all’altra, mentre risponde a un sms di John Cass che lo invita a pranzo alla
trattoria pugliese e allo stesso tempo scrolla le email del mattino, solo cinquantasette, fino a trovare quella di Timo della Publicis. Dal corridoio si sentono le voci
dei colleghi vicino al distributore di junk food. Suona il fisso.
«Adesso no.»
«Quello delle sette da Linate va bene.»
«Pensaci tu, grazie.»
Bussano alla porta e non fa in tempo a dire no che Manuela si affaccia dentro con
aria tapina, lo guarda supplichevole, occhioni da vitello.
«Alle dieci.»
«Ma abbiamo bisogno adesso, CAPO.»
«Ci vediamo in sala Jupiter alle dieci, ce la puoi fare.»
La porta si richiude, stizzita.
Marco ruota verso la finestra, afferra l’annaffiatoio d’acciaio e versa un po’ di acqua
nella terra degli otto vasi che compongono la sua mini-giungla, uno a uno, scivolando con la poltroncina come un leprotto su un prato, dosandola con precisione.
La sua giungla l’ha seguito di ufficio in ufficio negli ultimi tre incarichi. Con qualche
caduto, certo, e qualche sostituto, non tutte hanno superato il trauma da ambientamento. Ripone l’annaffiatoio e passa a studiare le foglie della Sanchezia Speciosa, che si sono un po’ ingiallite. Luce naturale troppo diretta? Dovrebbe spostare
il vaso. Non ora. Passa ad analizzare la Tradescantia, toglie con delicatezza le foglioline secche. Lei invece ha bisogno di più luce artificiale, quegli idioti delle pulizie
devono avere ripreso a spegnere la lampada la sera, deve ricordarsi di dirlo a
Laura.
Guarda fuori, nebbia. Ieri sera cosa può essere successo? Perché Daniele e Natalie non si sono presentati? Che lei abbia capito qualcosa e lo abbia costretto a
non andare? C’è davvero qualcosa da capire? Anna è sempre più strana. Si è dimenticata ancora di portare la Smart a revisionare. No, questo non è strano. Non
gliene frega nulla delle incombenze pratiche, preferisce che siano gli altri a occuparsene. Ma è strana. Si è messa a leggere Le regole dell’attrazione, l’ha scovato
nella libreria, sepolto tra gli altri Einaudi. Era in seconda fila, per cui deve averlo
proprio cercato. È una lettura da anni Ottanta, non ha senso rileggerla oggi, anche
se è ufficialmente in atto il revival. E martedì ha voluto a tutti i costi rivedere The
22
Kids Are All Right, dove Julienne Moore tradisce Annette Benning – fighissima
anche da lesbica, col capello corto da pulcino arruffato – con Mark Ruffalo, che
sembra uno degli Ewok, gli orsetti di Star Wars. Un po’ bolso, e non altissimo, in
effetti. Sempre di tradimento si tratta, anche con un Ewok sovrappeso.
Si sposta con la sedia di nuovo verso la scrivania, riprende in mano la prima proposta della campagna, è tutta sbagliata. Non hanno capito il brief, quei coglioni.
Apre l’email di Timo, schiaccia un Reply to All.
Stasera deve assolutamente andare in palestra.
1½
VALS
Quel week end.
Stavano insieme da poco, ormone galoppante, coppia non ancora simbiotica.
Erano partiti tardi, da Milano. Al passo del San Bernardino: fuori un metro di neve
ai lati della strada e paesaggio lunare, dentro il primo dei Franz Ferdinand. Nessun’altra auto, solo loro. Aveva ripreso a nevicare.
Anna teneva i piedi sul cruscotto e guardava fuori. Marco, che a chiunque altra
avrebbe fatto pesare la faccenda dei piedi sul cruscotto, ogni tanto sbirciava il suo
profilo, estasiato.
Avevano fatto battute sceme sui Grigioni. L’Abominevole Uomo dei Grigioni se ne
stava probabilmente nascosto dietro i muri di neve, e loro erano spacciati.
Dopo un’ultima curva a gomito, ecco nel buio bianco il leggendario villaggio di
Vals. Quattro case-baita e quattro case da architetto svizzero razionalista. All’apparenza vuote.
Erano già le nove quando si erano trovati nel piazzale di fronte all’hotel, illuminato
di blu dall’insegna al neon Therme Vals.
Una receptionist dei Grigioni li aveva accolti compunta e gli aveva consegnato le
chiavi di una delle stanze temporanee. Le chiamavano da anni le stanze temporanee, quelle disegnate da Zumthor, il falegname poeta architetto, che progetta
con la memoria.
Stavano per entrare nell’ascensore, quando la ragazza li aveva raggiunti.
«Stasera le terme sono aperte fino alle undici. Solo il giovedì.»
Le porte si erano richiuse come un sipario metallico. Anna e Marco si erano guardati nella luce gialla dell’ascensore e a un tratto li aveva colti un’euforia infantile,
una gioia stupida per quella notizia inattesa. Le piscine aperte di notte, e chi lo immaginava. Ceneremo dopo, oppure non ceneremo affatto. L’avventura.
Erano corsi in camera, gettando i bagagli sul pavimento bianco lucido – tutta la
stanza era un guscio bianco lucido, costellato di pochi pezzi scelti dalla storia del
design del Novecento, eccetto la tenda rosso cangiante e il tappeto afgano – si
erano spogliati inciampando nei jeans e negli stivali buttati in giro, si erano infilati
un costume a caso e, avvolti nell’accappatoio, si erano sparati di nuovo nel corridoio da Overlook Hotel, in un crescendo di eccitazione. Le terme stavano sotto,
nel basamento. L’albergo sembrava deserto. Solo loro due risucchiati nelle viscere
23
minerali.
Si erano ritrovati, spugna contro spugna, all’inizio di una sala lunga e stretta, l’aria
improvvisamente calda, pareti e pavimento rivestiti di ferro, un primo segno d’acqua che corrodeva il materiale in una striscia di ruggine. L’acqua si avvicinava a
ogni passo, ora la potevano sentire scorrere lungo la parete, e forse aspettarli giù
in fondo.
Non si immaginavano nulla, alla fine. Era già bello attraversare quello spazio vicini,
toccandosi appena, senza guardarsi.
Sbucati fuori invece erano stati sopraffatti. Un’architettura colossale e minimale,
tutta in ardesia, un labirinto nero sommerso dall’acqua.
Erano rimasti sulla soglia, respirando piano come per non disturbare. Si erano immersi lentamente nell’acqua calda e densa, sapone vellutato liquido che scivolava
sulla pelle e avvolgeva il corpo. Silenzio assoluto, scandito solo dai getti delle vasche esterne. Si erano spinti fendendo la superficie a bracciate ampie, uno dietro
l’altra, fino a un varco da dove proveniva una corrente fredda.
Anna stava davanti, la più intrepida. Marco poteva scorgere nella penombra i capelli bagnati sulla nuca, appiccicati alla pelle ancora ambrata dall’estate lontana.
Avrebbe voluto allungare la mano e toccarli, sfiorarle il collo sottile, invece no.
Di colpo si erano trovati fuori, il corpo coccolato dall’acqua calda, le orecchie nel
vapore gelido. I volumi geometrici proseguivano senza interruzioni, come lava
scura tagliata di netto.
Anna si era spinta fino al centro della grande vasca, attraversando la nebbia che
profumava di quarzo e neve.
Marco l’aveva seguita e si erano trovati con le teste vicine. Non si erano nemmeno
baciati, troppo ovvio. Avevano solo tenuto le tempie a contatto, pulsazioni bagnate,
occhi chiusi. Poi Anna aveva sollevato lo sguardo.
Sopra di loro, oltre il vapore, una stellata limpida dei Grigioni che conteneva tutti i
cieli possibili.
«Hai visto?»
Il firmamento al completo in una mezzanotte senza inquinamento luminoso nel
deserto di Ouarzazate dal tetto della Kasbah, dopo avere attraversato l’Atlante su
una Peugeot 205 con centomila km di noleggio (Quanto credi ci metteremo? Bah,
massimo due ore. Stai scherzando, vero?). Una striscia di alba sul mare di Grenada dalla veranda del cottage, dopo tre cocktail speciali del barman killer (Hai
notato con che precisione affetta il lime?). Un Grande Carro dispiegato IMAX sull’Egeo dalla terrazza della casetta di Sifnos, prima di una sessione erotica al Meltemi (Devo confessarti una cosa. Cosa? Io questo vento lo odio, mi piacevano di
più i giorni senza. Ottimo, siamo passati dal collasso alla nevrosi). Un pezzo di
cielo grigio smog dal balcone della loro casa milanese, zeppo di piante asfittiche,
bottiglie oblunghe di vino altoatesino, siciliano, bordolese, cristalli per lettiera, terra
acida, rosmarino alle polveri sottili (Perché non usi il nostro rosmarino per il sugo?
Marco, è tossico).
«Abgeschlossen!» L’inserviente notturno delle Therme Vals, un nibelungo adolescente, si era materializzato in bianco e nero sul bordo traslucido, mani sui fianchi
nella sua uniforme firmata Zumthor, e li stava fissando professionale.
24
«Dici che dobbiamo andare?» aveva mugolato Anna, sentendo improvvisamente
freddo.
«Linguaggio del corpo inequivocabile» aveva risposto Marco.
2
CANTIERI
Le fette biscottate al kamut integrale sono finite e il trendwalk di Londra rischia di
essere un fallimento. Se Anna riuscisse a concentrarsi su queste due catastrofi la
mattinata potrebbe prendere una piega di normalità. Aggredire il problema e depennarlo dalla testa. Stare dentro le cose.
Decide di iniziare dalle fette biscottate, per salvare almeno la colazione del mattino
dopo. Aggrapparsi ai rituali quotidiani. Un salto al Centro Botanico potrebbe scuoterla. Prende le chiavi e se le infila nella tasca del giubbotto. Apre la porta Déco
imbottita di acciaio, se la richiude alle spalle, facendo attenzione che Sciòn non
fugga verso la libertà, guarda la porta. Sciòn è dall’altra parte, fissa il mogano lucido e non ci trova la soluzione all’enigma. Eppure una ragione ci deve essere, se
oggi l’ha lasciato a stomaco vuoto. Dieta della luna piena?
Dove ho messo le chiavi? Ah. Nella tasca del giubbotto. Per ora non funziona, il
cervello è ancora in standby. Fare le scale di corsa con rischio di scivolare sul
marmo bagnato – ha adocchiato il secchio-con-mocio abbandonato sul pianerottolo – e sbattere quel che resta della sua coda di primate sullo spigolo dello scalino.
Non sa immaginare nulla di più adrenalinico, al momento. Ci prova. Sbuca in
strada. Nessun ferito.
Traiettoria predefinita, pilota automatico, rotaie di cemento. La gente la scansa,
lei non vede niente. Anestesia totale. Stare dentro le cose. Non funziona. Già è
tornata a galla l’idea. L’idea di tornare a sedurre, abortita. Ha preso corpo in Anna
senza preavviso dall’imbalsamazione del loro ménage certificato.
Imbalsamazione è una parola forte (Chi ha parlato?). Loop, piuttosto. Ecco. È
come se lei e Marco fossero finiti risucchiati dentro un mandala tibetano, a girare
in tondo, ripetendosi sempre le stesse cose, prevedendo con tre secondi di anticipo le risposte. Succede a tutte le coppie, prima o poi (sicura?). E il loro è un bel
mandala. Disegnato da Ross Lovegrove. Tridimensionale. Climatizzato. E anche
ironico, quasi sempre. Ne sono consapevoli, ci ridono sopra. Le chiamano idiotsincrasie.
Nonostante l’approccio metalinguistico alla crisi dei sette anni, l’idea di tornare a
sedurre ha preso corpo in Anna dal loop del loro ménage certificato.
Perché un certificato c’è. Nero su bianco. Il Contratto.
Sono gli unici a essersi sposati, nel loro gruppo di amici. Gli altri convivono da secoli. Hanno fatto figli, gatti, cani, senza bisogno di sposarsi. Loro invece hanno
convolato verso un sobrio matrimonio laico, senza riprodursi.
Quando Anna l’ha annunciato alla sua famiglia-stretching, riunita un po’ solennemente nella cornice del Pescatore a Canneto sull’Oglio, tre stelle Michelin, si sono
messi tutti a ridere. Pensavano scherzasse. Anche la zia Poldina ha riso, tenendosi
25
il tovagliolo di mussola appoggiato alle labbra increspate. Anche a Nadia Santin,
lo chef stellato, è scappato un sorriso, di là in cucina. La matrigna Agata ha fatto
una battuta pesante. Il patrigno Sergio ha risposto con una battuta più greve. Il
fratellastro Luca ha rincarato ulteriormente, citando Belushi. Quando hanno capito
che non era uno scherzo, ci sono rimasti male.
«Da Vinci Code?»
Cosa c’entra adesso Dan Brown con Belushi? Sì, l'articolo su Vanity della settimana scorsa. Sembra che l’autore di best sellers interplanetari stia lavorando a
una trama sorprendente sul più grande complotto della storia: un filo rosso sangue
teso tra le morti dei miti pop. Elvis Presley, Marilyn Monroe, Jim Morrison, John
Belushi, Kurt Cobain non sono morti, sarebbero stati tutti sequestrati dalla stessa
setta dell’Arizona e vivrebbero nel bunker dell’isola di Lost.
«Scussi, Da Vinci Code?»
Anna riemerge in superficie mettendo a fuoco due ragazzoni con bermuda kaki, tshirt verde muschio, camicie a quadrettini sottobosco, guida Footprint sotto braccio, occhi da Husky. Solo due norvegesi delle foreste potrebbero aggirarsi estivi
in una Milano a cinque gradi Celsius. Viaggiatori del Nord, ruvidi. Spiriti liberi. Spartani dentro. Unghie sporche e menti nitide. Ne ha sempre invidiato il coraggio. Lei
in viaggio non potrebbe mai fare a meno della trousse di prodotti skin care, della
trousse di prodotti body care, della trousse di prodotti hair care, dei due phon –
uno per asciugare, uno per lo styling – degli integratori in scatolotto travel, delle
infradito anti verruca. Con gli anni è migliorata, è riuscita a razionalizzare passando
a taglie mini, ma non potrà mai essere un viaggiatore scandinavo, sebbene li abbia
studiati da vicino.
«You mean Cenacolo?» Anna si toglie gli occhiali da Jackie O, svelando le occhiaie
avute in dono dall’insonnia cronica e li strabuzza contro, in un improvviso moto di
orgoglio nazionale.
I due annuiscono biondi all’unisono, ma non è certa che abbiano capito.
«Ok, you have to go back to that narrow street, then take the first on the left, go
ahead until the little square. The church will be on your left. Capito?» È sempre
una soddisfazione poter sfoggiare il proprio inglese fluorescente, smentendo il pregiudizio infondato glitalianinonparlanolelingue.
«Yess, grassie. Ciiao.»
Le fanno bye bye con le manone e tornano al loro privato concetto di Italia, intessuto di bellezza e dolcezza, quello che gli italiani hanno perso per strada.
Ora che la bolla è stata infranta, si rende conto di avere già oltrepassato il Centro
Botanico. Cercando di dissimulare l’imbarazzo (e chi la guarda?) fa dietrofront e
torna sui suoi passi freddi.
Varca la soglia a scomparsa e si ritrova in un bellissimo mondo bio.
Se non pensiamo all'immortalità ma all'evoluzione naturale
e alla diversità, rischiamo la felicità. Campeggia arancio – scritto quando era ancora il colore dell’innovazione, tardi Novanta – sopra gi scaffali del pane e derivati.
Ci si aspetta che lei ne tragga insegnamento?
Afferra un carrello giallo bio e si lascia scivolare lungo un perimetro di rigenerante
fiducia in un futuro migliore. La nebbia triste in cui era avvolta si dipana di fronte
26
a questi packaging sorridenti, che riverberano di luce a risparmio energetico, lontani dal marketing di massa, pensati per pochi, fortunati, eletti. Per chi sa pensare
green e può permettersi di pensare green.
Hanno spostato i medaglioni di seitan. Dove sono i medaglioni di seitan? Io ne ho
bisogno! Panico panico panico. Fino a quanto tempo fa una scoperta del genere
non l’avrebbe gettata nello sconforto? Sono segnali da non sottovalutare. Era abituata a trovarli nel banco frigo tra le bistecche al tofu e il Camembert caprino. Eccoli, sono finiti oltre l’area latte vegetale. Menomale.
Mentre stringe tra le mani il suo tesoro sottovuoto, le parte di nuovo il link a tornareasedurre.edu, sezione primipassi.
Dopo secoli senza flirt, in principio un po’ di gioco le era sembrato salutare. Risveglio dei sensi, pizzicore primaverile, leggerezza ritrovata. E poi una nuova energia, di quelle rinnovabili e pulite, che le ha regalato uno sguardo nuovo sulle cose
di sempre. Non aveva calcolato la sua predisposizione al dramma sentimentale e
al sogno, e nemmeno la natura di questo nuovo oggetto del desiderio.
È il tè Bancha o il Sencha che manca? Anna fissa lessa i due sacchettini quasi
identici, cercando di ricordare quale nuance di verde abbia buttato nella raccolta
differenziata il giorno prima. Facciamo Bancha.
Aveva sentito parlare di DanieleNatalie in qualche occasione, prima del Light.
Amici di Cri dalla sua vita precedente, erano rientrati da NYC – dopo una tappa
precedente ad Amsterdam – dove avevano vissuto in un mondo fatto di loft di
Brooklyn, colazioni al MoMa, teatri off off, negozi vintage di Nolita, vernissage sulla
Bowery, crogiolandosi nel ruolo di creativi emergenti dalla carriera disordinatamente internazionale. Antipaticissimi anche solo raccontati. Cri sembrava così orgogliosa di appartenere al loro passato ed eccitata all’idea di riaverli a Milano,
mmmh, così vicini.
Non c’erano ancora state occasioni comuni, fino a quando la nuova amica-perproprietà-transitiva, dall’energia inesauribile e sempre avvolta in una nuvola di glamour, aveva deciso di festeggiare il suo compleanno nel cantiere della casa che
stava costruendo con Massimo. Era arrivata una mail d’invito corale, tono effervescente, sottocategorie di conoscenti stranamente shakerate, per una attenta al
lato diplomatico dell’esistenza.
Quella sera tutto sembrava casuale e perfetto, anche mentre succedeva, non solo
nel ricordo. Contrariamente al Light, Anna ne conserva una fotografia a fuoco e
fiamme.
Sul pavimento di cemento polveroso si accanivano tacchi funambolici e platform
improbabili, mentre l’aria, satura di profumi di nicchia e calce viva, teneva insieme
commenti e battute stranianti. Anna si era trovata catapultata in una scenografia
così consapevolmente shabby chic, animata da personaggi vagamente appartenenti all’élite creativa di una città che aveva dato il suo meglio vent’anni prima,
senza riuscire a rinnovarsi. Visi ben disegnati, pensieri originali. E tutti così disinvolti e fringe. Si era spesso affacciata su questo universo osservandolo con occhio
clinico, attingendone l’essenza per trasformarla in beni di consumo per le masse.
L’aveva usato a fini di marketing, sempre con un retrogusto d’invidia, bloccata dentro la sua gabbia borghese costruita pezzo per pezzo insieme a Marco.
27
Nella loro vita tutto era al posto giusto, come i cuscini in tinta sul divano di Moroso,
mentre lei di notte sognava un’esistenza da Charlotte Gainsbourg: accovacciata
in un angolo, la cenere della sigaretta sui piedi scalzi (mai fumato), i capelli scarmigliati sulle spalle nude. Meno certezze e più disinvoltura.
Ora, da dentro, capiva di non appartenere né a un mondo né all’altro, di essere
sempre fuori luogo, ma – anche grazie a un fisico da modella un po’ fané e al collo
da biscotto mangiami – di riuscire sempre a mantenere uno sguardo a volo d’uccello, proprio sopra le loro teste.
Le vibra la quarta tasca.
«Buongiorno. Bene, tu? Come, c’è un ferito? Cos’è successo? Non ci credo! Ma
tu stai bene? Ah. La spesina. No. No. Sì. No. Stasera? Ma era domani sera. Ah,
è oggi giovedì. Merda. Mi scusi, signora. Niente, niente, una Giacomazzi bio. Ma
sei sicuro? Merda. Mi scusi. Allora prepariamo tutti insieme una pasta, io sono indietro con Londra. Sì. Ok. Ma proprio The Road? No, così, non allegrissimo. È di
qualità? Così. E ci sono i sottotitoli per Massimo? Ok, ok. Proprio tu devi andarci?
Ok. Mao.»
Bene. L'aspetta una delle loro serate a quattro. Deve riuscire a estorcere informazioni senza esporsi troppo. Afferra il vasetto da 250 ml di yogurt ai cereali tostati,
che si rovescia dentro il cantiere. Seduta su un’asse di legno da impalcatura, attenta a non sporcarsi troppo la mise simil-Alexander Wang immaginata per la serata, stava osservando con interesse da antropologo un gruppetto di ballerini
scalmanati da una posizione sicura, sorseggiando un miscuglio letale di vodka e
altri ingredienti a caso, quando uno dei più scomposti e sudati si era staccato ed
era venuto verso di lei, sorridendo di un bianco perossido di carbamide. Era Daniele, l’uomo con la giacca di velluto. Senza giacca, stavolta. Si era presentato.
Ancora.
Fa finta di non riconoscermi per darsi un tono, è rincoglionito o proprio non si ricorda di me?
L’ultima ipotesi non reggeva, chi mai poteva non ricordarsi di lei? O erano convinzioni stantie, retaggio dell’epoca in cui era ancora sul mercato, roba da soffitta?
(Chi ha parlato?)
Deglutita la mezza delusione, aveva raggirato l’ostacolo con un Ma noi ci conosciamo! Tanto la musica era altissima. Stretta di mano bis, ed era ripreso il dialogo
interrotto. Le si era seduto accanto. L’asse di legno aveva traballato. Aveva le basette più lunghe, da Lupin III, suo sogno erotico della quinta elementare, dopo Terence. Anche Marco le porta, brizzolate. Gli accentuano la linea della mascella.
Queste erano basette sconosciute, esotiche. Teneva le gambe accavallate strette
nelle mani intrecciate, come in un talk show. Forse era un’intervista della Bignardi.
Chi era la Bignardi dei due? Anna parlava con sottotesto, sospesa su un ponte
elastico verso il Light. Daniele era lì e ora.
Il problema è: cambiare o non cambiare marca di fette biscottate al kamut? Quelle
che ha finito non erano fragrantissime. A lei piacciono tostate-tostate, l'ideale sarebbe bruciate. Sceglie quelle meno pallide.
L’intimità non si crea, non si distrugge, ma si trasforma, attraversando i corpi? C’è
già in potenza, quando incontri una persona? È lì che cova tra le sopracciglia?
28
Anna non è timida. Su questo sono tutti d’accordo. È risultata per tre anni consecutivi una Extrovert Intuitive Thinking Perceiving nel test Junghiano della Personalità, quando lavorava su al Nord. Alla ventisettesima affermazione – You
frequently and easily express your feelings and emotions – ha sempre cliccato
yess. Alle trentottesima – You enjoy being at the center of events in which other
people are directly involved – yesss. Alla cinquantaduesima – You usually place
yourself nearer to the side than in the center of the room – noh.
Ma è anche molto, molto, molto selettiva. Raramente trova le persone interessanti.
Dimmi qualcosa che non so, dimmi qualcosa che mi affascini. Lo spera sempre.
Rimane delusa. Sei noioso, sei saccente, sei banale, parli male, non so di che
parli.
Anna invece ora se ne stava con Daniele dentro una sceneggiatura di Aaron Sorkin, dialoghi serrati, dritti nel cuore della storia. O era un doppio monologo? Perché
aveva l'impressione che stessero esprimendo uno i pensieri dell'altra, in simultanea. Forse non si ascoltavano nemmeno. Non stavano nemmeno emettendo
suoni. Uno formulava una frase, l'altro la completava, vasi comunicanti. La musica
era diventata dance, qualcuno aveva attivato una vecchia strobo, attorno la boom
dei quarantenni tuonava, e loro in un silenzio biposto. Chissà che ruolo avevano i
ferormoni in questo quadro. Che succede, qui?
Anna era riuscita a schiacciare pausa. Distanza tra i nasi inferiore ai dieci centimetri, fianchi a contatto, piedi che fanno amicizia. Ground control to Major Tom.
Pipì tattica. Si era alzata adducendo scusa un po' più elegante e si era allontanata
facendosi largo tra abiti a fiori e giubbotti di pelle sudati. Nella traiettoria aveva intercettato Cri.
«Ti presento Natalie!»
Natalie di DanieleNatalie. La legittima proprietaria delle basette esotiche appena
lasciate a svaporare sulla panca. Bella Natalie. Bel tipo, piuttosto. Sguardo deciso.
Sorriso largo. Elegante. Avranno un accordo da flirt libero? (domanda scorretta).
«Finalmente ci si conosce...»
«Codice?»
Quale codice? Ancora Da Vinci? Anna torna alla terza dimensione e sente gli occhi
addosso della cassiera bio che la sta interrogando. È sempre la stessa, e ha sempre la stessa aria depressa, a volte puzza di minestra. Oggi no. Il codice non lo
sa, non ha studiato.
«Numero della tessera?» quella insiste.
«2142…» azzarda.
Batte i tastini nervosi, è giusto, deve averlo ripescato chissà da quale scatola.
«Hai visto il regalo di Anna?» la voce di Cri le rimbomba dal dietro le quinte.
Si erano trovate in tre aggrappate a uno chemin de table che Anna aveva scovato
in un negozietto di Berlino Mitte – nell’atelier di Rossana Orlandi sarebbe costato
il doppio, e questa era una gran soddisfazione – a contemplare scaglie di betulla
intrappolate in un rettangolo di lattice trasparente.
«Carino. È legno?» aveva chiesto Natalie col naso appiccicato al suo lembo trasparente, in un italiano tutto consonanti.
«Credo di sì, sì» le aveva sorriso Anna, studiandole il profilo. È Ingrid Bergman.
29
Non la Rossellini. Proprio l'originale, non il clone. Quindi avrà anche la corporatura
robusta da istitutrice austriaca e le caviglie grosse. Invecchierà bene di faccia,
male di culo. Anna è convinta che esistano tipologie fisiche precise, che dettano
tutti i pezzi e le fasi di un corpo.
«L’hai preso a Milano?» l’aveva incalzata Ingrid-Natalie, mentre Cri si allontanava
di un metro per farsi fotografare Lomo con due tipi alla Mad Men.
«No, ormai non riesco più a comprare a Milano, sono tutti pazzi. Solo all’Isola, al
limite.»
«È vero, ma qualcosa a Milano c’è, se cerchi bene. L’Isola, ma anche Tortona e
Corso Genova» aveva continuato Notorius con aria davvero sicura, per una appena arrivata in città. Invasione di territorio. La Visionary è lei.
«Di cosa ti occupi?» le aveva chiesto Anna, cercando di suonare genuinamente
interessata e per nulla acida.
«Art Direction» Ingrid aveva piegato la tovaglietta viscida su un mobile improvvisato con i pallet di legno, mani lunghe lunghe, e le aveva piantato negli occhi due
iridi che potevano essere verde vetro.
«Ah.»
«Tu?» le aveva chiesto a sua volta, senza distogliere lo sguardo indagatore.
Chissà se l’aveva beccata fare la gatta in estro col fidanzato, giusto sette minuti
fa.
«Trend Forecast.»
«Ah.»
Ecco, mettiamo le cose in chiaro.
«Venite a darmi una mano con la torta?» le aveva riacciuffate Cri per la collottola,
con la voce da sbronza felice.
«Marco dove l’hai lasciato?» era riuscita a chiederle Cri mentre una mano pelosa
la agguantava alla vita da Barbie.
Marco? Marco mio marito? Anna si era sentita improvvisamente molto Emma Bovary, i pallet si erano tramutati intorno a lei in trumeau ottocenteschi, il cemento
sotto i suoi piedi si era sciolto in un lucido pavimento alla veneziana e alle pareti
erano apparse cornici dorate, che le cantavano in coro: Marco dov’èèè?
Aveva aguzzato gli occhi a fatica, passando in scansione quel tugurio degno di
un set di Vogue Italia. E Marco si era materializzato laggiù in fondo, a confabulare
placido con Massimo e altri tre omuncoli del loro gruppo storico, un insano ibrido
culturale tra la trilogia della fuga di Salvatores e tutti gli Amici Miei. Marco era normale.
Mentre se ne stava lì, metà Anna e metà Emma, qualcuno o qualcosa l’aveva
presa per mano e l’aveva trascinata in mezzo a un groviglio di braccia e visi ondeggianti al ritmo di revival anni Settanta, tracce scelte a turno da dj improvvisati
dietro un vecchio computer appoggiato su una pila di casse di Lambrusco piacentino, tra i bicchieri di plastica abbandonati. Era Daniele e anche questo era normale, no? (Chi ha parlato?)
Aveva ballato, a una distanza variabile da lui ma sempre nel suo raggio, mescolata
al gruppo, le braccia in alto intrecciate a molte altre braccia sconosciute. Si erano
sfiorati per caso, poi erano stati allontanati dal magma saltellante ed era stata tra-
30
sportata in una zona neutra, dove Marco le stava porgendo la giacca per andarsene. Aveva cercato di ritrovare quella figura dinoccolata, ma senza troppo impegno. Così lei e Marco se n’erano andati a metà festa, come sempre, per far ritorno
alla sicurezza del nido candido.
In questo supermercato devono avere spento il riscaldamento. Anna guarda a
terra e vede i propri piedi galleggiare sul marciapiede, illuminati snob dalla vetrina
di Curatolo, il commerciante più astuto del quartiere. Quel volpone dal gusto sublime negli anni le ha spillato una percentuale crescente di reddito. Mentre gioca
alla bilancia con i sacchetti della spesa biodegradabili cercando di calcolare
quanto può avergli regalato, due cartelli appesi all’ingresso della boutique le si infilano a tradimento nella visuale. Il primo è un annuncio funebre stampato in casa
su carta riciclata. Dice che Curatolo è morto. Il secondo è un grande foglio di carta
verde, dove Curatolo morente ha tracciato in pennarello i suoi ultimi pensieri. Molla
i due sacchetti. Rumore di vetro rotto. Anche il succo di agave è morto. Inizia a
leggere, come un automa, ma subito si ferma, per pudore. Scrittura infantile, lingua
involuta, azione di guerrilla marketing postuma. Fastidio. Commozione. Fastidio.
Commozione. Quel Signor Bonaventura bonsai con la montatura da primo Allen,
sul letto di morte ha preso un pennarello nero di quelli dell’asilo e ha dato l’addio
ai propri clienti, augurando a tutti di godersela. Perché tra tutte le morti quotidiane
proprio questa qui la colpisce? Una morte di quartiere, in una città senza quartieri.
Raccoglie le sporte inzuppate, si ricompone, punta dritta verso casa. La ciotola
vuota di Scìon le si è manifestata in 3D.
3
LANCI
Il cielo è incollato sulla spianata d’asfalto che vorrebbe essere una piazza. Attorno
pulsa il centro commerciale della prima periferia. Giornata fiacca, per un non
luogo.
Marco ha parcheggiato lontano, apposta. Si è dato l’obiettivo di fare tremila passi
al giorno. Cinquemila sarebbe meglio, come dicono gli americani, ma anche tremila è già un inizio. Tiene le mani in tasca, in una stringe il contapassi digitale,
che se ne sta rannicchiato al calduccio a fare il proprio dovere. Ogni tanto lo tira
fuori e controlla se la lucina è ancora rossa o se è già diventata verde. Non si sa mai.
Si affretta, è in ritardo, come sempre. Il ritardo ce l’ha nel sangue. E lo coltiva con
dedizione.
Manuela ha le braccia incrociate sul petto baldanzoso. È stufa di aspettare, lo si
capisce dall’espressione più scazzata del solito. Odia questo posto, la gente che
lo frequenta, l’azienda che la obbliga a queste faticate per uno stipendio da fame,
il capo che la tratta come un’ebete e se ne frega di lasciarla lì da sola a controllare
i preparativi dell’evento. Hanno sbagliato il blu delle transenne che delimitano la
fila, e sì che lei gli ha dato il riferimento Pantone. Quando Marco lo vedrà la cazzierà, sicuro.
«Tutto a posto?» Marco le bofonchia in un sorriso tirato senza nemmeno un buon-
31
giorno, mentre a testa china legge un messaggio a cui è vitale rispondere entro i
prossimi cinque minuti, o l’universo intero verrà risucchiato dentro una media station dal prezzo al pubblico sbagliato.
«Be’, sì. No. In realtà il colore delle transenne…» Manuela gli trotterella a fianco
e lo guida verso lo spiazzo davanti alle porte del negozio, già pronto per l’inizio
della competizione. Un Pippo Baudo trentenne col riporto precoce color faraona
sta facendo le prove microfono per la conduzione della gara, pronto-pronto-provaprova-uno-due-tre-ciao-ragazzi-siete – prontiiii-siete-caldiiii, gli grida dentro già
compreso nella parte del bravo presentatore da mall. I primi ragazzini si stanno
avvicinando alla pedana di lancio, curiosi, cavallo basso. Un sottofondo musicale
di vecchie hit riempie già da ore ogni interstizio di plastica e cemento. Nell’aria c’è
odore di fritto.
Manuela osserva Marco di sottecchi. C’è qualcosa che non va. Non le ha ancora
fatto lo shampoo per la faccenda del blu. Che stia male? Gli sbircia le mani paffutelle. Non tremano. Prova ad analizzargli il bianco degli occhi, sembra tutto sommato bianco. Forse un leggero tic alla palpebra. Occhio che trema, stress emotivo.
Non è proprio il momento per chiedergli il permesso per lunedì, e ogni ora che
passa il prezzo del volo Easy Jet aumenta. Giocarsela ora potrebbe essere controproducente.
«Dove sono i telefonini?» domanda Marco, sempre immerso nel suo ipertesto.
«Nello scatolone, là, vedi?» Manuela fa cenno con la mano, i sei braccialetti d’argento fanno la ola.
«Mhh. Mostrami il percorso, simula» Marco solleva finalmente lo sguardo.
Simula? Manuela vorrebbe sprofondare. Non vorrà mica farmi fare la prova del
lancio del telefonino da sola davanti a questi energumeni come una polla? Vuole
proprio smantellarmi la dignità. Pensa a lunedì, concentrati su Easy Jet,
Ommmmmhh.
Intanto il pubblico è aumentato, sale il fermento in vista della gara. Già si vedono
arrivare i lanciatori esperti, si sgranchiscono le braccia dandosi arie da agonisti
delle telecomunicazioni, sono quelli che non si perdono una tappa e puntano al
primo premio europeo.
Marco si appoggia al muro, non sa dove sedersi. Deve avvertire Anna della cenetta con film, Cri e Massimo vorrebbero vedere The Road, la copia è buona. Una
serata tranquilla a quattro, come ai vecchi tempi. Magari si è immaginato tutto.
Non c’è nulla di reale. In fondo sono solo dettagli nebulosi, che lui ha interpretato
come indizi. Se solo lei non fosse così focalizzata. Porta sempre i discorsi lì. Enfasi, c’è molta enfasi. E un eccesso di impegno a simulare naturalezza, a mettere
le cose sul piatto, parlarne in modo esplicito, come una strategia ingenua per fare
sembrare tutto normale, sotto controllo. E se dipendesse dal fatto che ha smesso
di farla ridere? Ha smesso di farla ridere? Stop. Rischio paranoia molto alto. Si
guarda le Church nuove, sono identiche alle altre sei paia. Estrae meccanicamente dalla tasca il contapassi, la luce pulsa rosso. Anna direbbe che sono compulsivo, ma non è mica vero.
Manuela avanza verso la pedana, i pugni stretti. Pippo Baudo Jr. la accoglie calorosamente: «Ecco qua il primo concorrenteeeeee! Ma che bella signorina, da
32
dove vieni cara?» Manuela lo fulmina e, a denti stretti «Sono io, cretino.» Lui non
fa una piega, deve intrattenere, the show must go on. «Varese? Hai detto Varese?
La nostra prima concorrente è di Vareseeeeee» improvvisa, sudando come il ventitré luglio. Manuela arranca verso il bidone stracolmo di telefonini, ne afferra uno
a caso, si porta in posizione di lancio. Easy Jet. Easy Jet. Easy Jet.
«…e si appresta a fare il suo primo e unico lancio. Un lancio solo ciascuno! Una
possibilitààààà!»
È proprio necessaria pure tutta la telecronaca? Marco la sta guardando, è un sorriso sornione quello? O un inizio di paresi? Senso di irrealtà, formicolio agli arti inferiori, forse sverrà su questa lurida pedana blu sbagliato. Qualcuno deve arrivare
a salvarla da tutto ciò. Si guarda attorno. Un centinaio di occhi sono pronti a godere della sua figura di merda.
Marco ha fame. Ha sempre fame. Soprattutto di roba dolce. Gelati. Tortine morbide
al cioccolato fondente. Gelati. Brioches ripiene di crema pasticcera con scaglie di
mandorle tostate. Gelati. Sbrisolona piacentina. Gelati. Sbrisolona mantovana intinta nello Zacapa. Gelati. Biscotti artigianali tutto burro. Gelati. Biscotti industriali
al cacao Batticuori. Acquolina. O forse è perché non la porta in luoghi abbastanza
elitari? – si guarda attorno – Ha questa mania dell’edge. Adesso tutto deve essere
edge. Ma che vuol dire edge? Stare sul bordo di cosa? A stare sul bordo si rischia
di cadere. Il suo lavoro non è più aspirazionale per lei? Lui non è più aspirazionale? Quelle transenne hanno proprio il Pantone sbagliato, e adesso che ci bada
forse anche la pedana. E il logo non è abbastanza grande, dal fondo della piazza
non si vede di certo. Uccidiamo il brand, ma sì. Un’operazione da novantamila
euro buttata nel cesso. Non può delegare niente, almeno per queste cose dovrebbe potersi fidare di Manuela, la meno deficiente del team. E invece guardala
lì, come si destreggia sulla rampa di lancio. Imbranata cronica. Dopo tre anni deve
potermi garantire una gestione decente del progetto. Ci saranno ancora brioches
senza marmellata al bar?
Manuela stringe il telefonino nella mano destra, sudaticcia. È pronta. Riuscire a
estraniarsi da questo spazio-tempo è possibile. Chiude gli occhi. Sente l’odore
del mare e la salsedine nei capelli. Li riapre. Punta all’orizzonte, dove acqua e
cielo si incontrano. Inspira. Assume la posizione del Discobolo. Vaghe reminescenze di prima liceo la aiutano a riprodurre fedelmente la posa plastica. Fidia o
Mirone? Fa sempre casino. Diciamo copia romana. Si bilancia sulla gamba sinistra, piega il ginocchio destro, allunga il braccio destro all’indietro, in torsione, un
tutt’uno con il Nokia E52, sposta il peso sul piede destro, piega il busto in avanti,
ogni muscolo in tensione, pelle di marmo dell’Attica, attraverso ogni fibra porta
tutta la forza, la rabbia blu, le umiliazioni, il cielo e il mare, l’odore di fritto, Easy
Jet, il sorriso di Marco dentro il braccio fino alla mano, che si carica fino a vibrare,
affondando la carne nel metallo e poi zzzzzzzzzzzooot!, come una scultura futurista rilascia l’energia nell’aria, il telefonino parte come un dardo infuocato, spezza
l’etere in un sibilo acuto, per poi esplodere in collisione con. Con? Sciolgo le trecce
e i cavalli… corrono… e le tue gambe eleganti… ballano… riporta Manuela sulla
pedana, qui e ora. Mette a fuoco scompiglio tra il pubblico, brusio crescente, Pippo
Baudo non c’è più, Marco non c’è più. Forse è successo qualcosa di brutto.
33
34
Uno yacht affonda in circostanze misteriose al largo della costa ligure.
Negli stessi giorni, una serie di furti di dipinti occupa le prime pagine dei
giornali. Gli indizi collegano i fatti a operazioni finanziarie che coinvolgono
alti prelati e una società di affari russa controllata da manager senza scrupoli.
Il capitano dei Carabinieri Andrea Manetti indaga. Contro il volere dei suoi
stessi superiori segue una pista che penetra le mura della Città del Vaticano e scala la gerarchia pontificia.
Andrea è gay, convive con un ex tossicodipendente e qualcuno non esita
a usare questi elementi per distruggere la sua credibilità prima che possa
danneggiare gli interessi occulti che collegano Roma, Mosca e lo yacht
misterioso. Le minacce che arrivano da lontano si mescolano a quelle
dell’ambiente machista dell’Arma dei Carabinieri quando un’operazione
rocambolesca nel mezzo del Mediterraneo conclude l’ultimo degli inseguimenti.
Stefano Paolo Giussani (1966) è giornalista e autore di documentari.
Lavora alle testate GrandTour e L’Orso. Ha scritto per il Corriere della
Sera e i Viaggi di Repubblica. Ha pubblicato il libro Sentieri di Fede (Bellavite Editore) e ha curato guide tematiche per Touring Editore e l’Istituto
Geografico De Agostini.
Magellano è il suo secondo romanzo.
35
Magellano, Stefano Paolo Giussani.
Da Roma Today1:
18 marzo 2009.
Duecentotrentasette reliquie di santi sono state trafugate dalla diocesi di Porto e
Santa Rufina alla Storta. Tra il materiale portato via anche un frammento di legno
della Santa Croce, le reliquie dei santi Ignazio di Loyola e Ippolito e una Madonna
rinascimentale di scuola fiorentina.
Sul furto stanno indagando i Carabinieri del NTPA2, coadiuvati dalla Gendarmeria
Vaticana. Le indagini sono a tutto campo.
4 aprile 2009.
Sono state recuperate in un casolare abbandonato nelle campagne tra La Storta
e il comune di Formello le reliquie rubate lo scorso 18 marzo nell'interno della Cattedrale della Diocesi di Porto e Santa Rufina, in via del Cenacolo a La Storta a
Roma.
Gli inquirenti, coordinati da un nucleo speciale della Gendarmeria Pontificia, hanno
recuperato la refurtiva poco prima che fosse immessa nel mercato clandestino
delle opere d'arte. Le reliquie sono state consegnate nella parrocchia della Beata
Vergine Maria Immacolata Concezione al vescovo monsignor Luigi Conti.
Tra gli oggetti sacri che erano stati rubati ci sono anche la reliquia ex Ossibus di
San Ippolito, patrono della Cattedrale della Diocesi di Porto Santa Rufina, e una
croce di vetro con all'interno un pezzo della Santissima Croce di Gesù. Manca ancora all’appello una preziosa Madonna di manifattura medievale italiana. Parole
di apprezzamento sull’operazione sono state espresse dal Cardinale Barberini,
delegato responsabile della sicurezza pontificia per le opere d’arte.
Capitolo 1 – Laurin
Bolzano, 10 agosto, ore 23
Ha già allacciato la cintura di sicurezza.
Sta pensando che gira parecchio e le città dall’alto gli sembrano tutte uguali. Tutte
tranne quelle di montagna. Lì le luci si concentrano dove si incrociano le poche
strade, come un gorgo nel mezzo di un oceano scuro.
L’area del piccolo aeroporto è segmentata dalle corsie ordinate delle luci di atterraggio. Sembrano lucciole disciplinate al margine dell’asfalto, segnano il confine
tra prato e pista. È da quando era piccolo che non vede una lucciola, pensa. La
distesa di erba intorno alla striscia è il proseguimento del buio dei boschi sulle
montagne. Non si capisce dove finisca uno spazio e inizi l’altro. Circondata dai rilievi, Bolzano sembra ancora più piccola di quella che è. Un nugolo di case schiacciate dalla cappa di umidità estiva. Attorno spuntano solo le montagne, i bordi di
1 Notizie basate su fatti reali tratte da fonti web.
2 Nucleo Tutela Patrimonio Artistico, il nucleo dei Carabinieri specializzato
nelle indagini su furti dʼarte.
36
un catino in cui galleggia la città. Riconosce il Rosengarten a oriente, la luna che
sta per sorgere proietta il suo profilo seghettato nel cielo.
Alle spalle dell’Alfa Romeo 156 dei Carabinieri, il quartiere industriale della città è
un insieme di parallelepipedi di cemento appoggiati in ordine sparso e sovrastati
da un fantasma di foschia arancione. La nube iridescente si allunga pigra tra i meandri, alla confluenza tra i fiumi nella stretta pianura.
Dei due militari, quello più anziano fuma in piedi a fianco all’auto. Fissa il tratto di
pista di fronte a lui. Non gli importa nulla di essere lì. Guarda distrattamente lo
scorrere dei fari sull’autostrada che costeggia l’aeroporto. Il traffico scivola senza
ostacoli. Ascolta l’ultimo treno passare, è un merci. Il rumore dei carri pesanti riecheggia tra le pareti della montagna. Tutto è concentrato nei pochi metri della pianura. Il carabiniere più giovane è seduto in macchina, sfoglia una rivista di moto.
Tiene la portiera aperta. L’alone del cruscotto illumina l’asfalto attorno all’auto.
«Eccolo» dice seccamente il fumatore all’accendersi di un punto nel cielo proveniente da sud.
L’oggetto diventa un fascio luminoso sempre meglio distinto. È in lento avvicinamento. Sembra fermo nell’aria. L’unica altra luce nitida verso il cielo è quella della
torre di controllo. C’è solo un uomo dietro la vetrata. Sembra un pesce solitario in
una bolla sospesa su un pilastro.
«Un aereo della presidenza del consiglio. Qui. Oggi… a quest’ora. Chemminchia
ci sarà di così importante?» dice. Butta a terra la sigaretta. La schiaccia con la
scarpa mentre il giovane scende dall’auto e nasconde la rivista nel bagagliaio. Si
sta sistemando camicia e cappello quando l’aereo li sorvola. Per atterrare deve
prima superare l’aeroporto, virare sopra la città e imboccare la corsia di avvicinamento. Nell’ultimo passaggio transita molto vicino. Le gomme dei carrelli stridono
al tocco della pista. Il suono della turbina è un lungo sibilo aspirato che striscia di
fianco a loro. È un disturbo di quelli che non ti aspetteresti nella quiete notturna di
una vallata alpina. All’avvicinarsi dell’aereo in rullata il rumore diventa più fastidioso.
L’apparecchio si ferma con un leggero beccheggio a pochi metri dall’auto. Si accendono le luci interne. L’apertura del portello squarcia il buio di fronte ai militari.
Disegna il profilo di un uomo affacciarsi dall’interno della carlinga.
«Capitano Manetti?»
«Eccomi, buonasera!»
«Benvenuto in Alto Adige, signore. Abbiamo l’ordine di condurla all’hotel Laurin. Il
colonnello Mazzucchelli ci ha chiesto di accompagnarla là» dice il maresciallo
aprendo la portiera posteriore.
Le dodici lettere di “Mazzucchelli” scorrono veloci nella mente del capitano Manetti. Dalle orecchie scendono dritte nel fondo della pancia con il fastidio che provi
quando ingoi qualcosa di andato a male. Quelle sensazioni che ti disgustano per
qualche secondo. Poi passa, ma intanto ti lasciano in bocca una sensazione di
acido.
L’ultima volta che ha sentito pronunciare il nome del colonnello Mazzucchelli era
37
a Roma. Si era appena conclusa l’operazione alla Storta, o almeno credeva fosse
così. Giornate serrate di indagini. Ore interminabili in osservazione. Pedinamenti.
Lo studio delle opere trafugate. Un incastro tra gli alibi dei sospettati e l’ipotesi di
qualche movente. Il successo e il recupero della refurtiva fino alla telefonata del
superiore.
Di fronte alle reliquie, ancora in mimetica, lo squillo sul cellulare di servizio era
echeggiato all’interno della navata, dove con i suoi uomini stava riconsegnando
le opere. Stavano richiudendo la teca contenente un frammento della Croce del
Cristo. A tutti sembrava un momento solenne. Anche i militari fissavano muti la lastra di vetro antiproiettile mentre sigillava la custodia blindata. Alcuni uomini in
borghese osservavano la scena dal colonnato.
Gendarmeria Vaticana, aveva pensato Manetti guardandoli. Li aveva riconosciuti
al volo perché hanno uno sguardo strano. Non si capisce se ci sono davvero o
fingono e con la testa sono altrove. Le barzellette dovrebbero raccontarle su di
loro, non sui Carabinieri.
Dal telefono avevano cominciato a uscire delle frasi. Al momento la concentrazione sulla reliquia le aveva fatte scivolare via. Come l’acqua di un rubinetto aperto
su un oggetto impermeabile.
Chiusa la teca, lo scatto della serratura elettronica aveva avuto l’effetto di infilare
la spina di una connessione che riportava alla realtà.
«…mi ha capito, capitano?»
«Scusi?»
«Qui finisce la sua missione. Il merito sarà della Gendarmeria Vaticana. Nessuna
conferenza stampa per voi. Sono stato chiaro? Ora esca immediatamente da lì
con i suoi uomini e torni a fare rapporto.»
Ma checcazzo sta dicendo, ha pensato. Là fuori è pieno di stampa e tivù. Buttare
nel cesso un’occasione così.
«Signore, fuori è pieno di giornalisti…» ha provato a dire.
«Un’ottima ragione per rientrare subito!»
Dall’altra parte la comunicazione interrotta produceva un suono continuo che lo
ha fatto sentire uno stupido. Uno stupido con un telefono spento appoggiato all’orecchio. Mazzucchelli è uno di poche parole, e questo lo rende ancora meno
simpatico di quel che è.
Frasi lapidarie per un ordine arrivato direttamente dall’alto. Senza una ragione.
Ha eseguito, ma non ci ha creduto davvero fino ai giornali del giorno dopo.
Monsignor Conti accoglie il ritorno delle reliquie recuperate grazie a un’operazione
di Intelligence in concerto tra la Gendarmeria Vaticana e le forze dell’ordine.
Ma vaffanculo!
Gendarmeria Vaticana? Non agisce fuori dalle mura della Santa Sede. Un generico “forze dell’ordine”? No, non c’è niente di generico nei Carabinieri! Mille pensieri battevano i piedi nella sua testa. Loro sono “quelli del nucleo tutela patrimonio
artistico”. “L’élite dell’élite”. “Quelli votati alla protezione del bello di cui il Paese
38
abbonda e che in parecchi minacciano”. “Un braccio investigativo a tutela dell’arte”.
Evvai con tutte quelle cazzate che il pubblico legge sui giornali dopo le operazioni
e con cui li avevano farciti al corso ufficiali. Dove sono finite? Prima in Accademia,
poi le ore con gli studiosi dei musei, i pomeriggi nel silenzio delle biblioteche a studiare le tracce del passato, a farsi raccontare che un’opera d’arte si legge così,
che certi falsi sono quasi indistinguibili dagli originali. Che ognuno in passato dipingeva sopra le sue vecchie tele e a volte si fa fatica a capire chi abbia fatto cosa,
che due colpi di scalpello su un sasso possono far credere che Modigliani abbia
toccato la pietra che si ha di fronte.
Non siamo un generico “forze dell’ordine”, minchione di un ufficiale impavonato,
avrebbe imprecato volentieri a sentire il nome del colonnello Mazzucchelli.
Intanto però i giornali e i siti avevano battuto la notizia. Il vescovo esprimeva la
soddisfazione per la gioia dei fedeli, il ministro per lo svolgimento dell’operazione
e bla, e bla, e bla… è tutto bello quando sei alle giostre. Tuttibravi, tuttofigo. Sorrisoni ovunque. Tranne che per i suoi Carabinieri rimasti nell’anonimato. E poi mancava sempre una Madonna. Di questo nessuno ne parlava?
Quella sera aveva preferito andare in sauna a sfogarsi. Gli piace andarci. Lì, solo,
seduto sulla panca, ha iniziato a sudare e a sbollirsi. Un uomo sui trenta è entrato.
Bel fisico. Si sono guardati. Si è tolto l’asciugamano e si è seduto di fronte a lui.
Così da potersi vedere bene. Nudi. Volto contro volto. Corpo contro corpo. La macelleria era aperta. Sono usciti assieme dalla camera profumata di legno e senza
parlarsi si sono incamminati verso i camerini. Andrea dietro, l’altro davanti. Una
fila di porte in laminato bianco a sinistra, muro a destra. Aveva delle belle spalle.
Anche il culo era fatto bene. Uno di quelli delle statue di Michelangelo. Un piacere
da vedere, ancora di più da toccare. Da dietro una delle porte un gemito indistinto
era ritmato da dei colpi.
Sono entrati in uno spazio libero. Una specie di cabina armadio senza il soffitto.
Andrea ha chiuso la porta dietro di lui. Hanno incrociato gli sguardi, fatto scivolare
l’asciugamano sulla panca. I piedi nudi sul pavimento si sono avvicinati. Poi i corpi.
Ora non ricorda neanche che faccia avesse quell’uomo. Solo che si era svuotato.
Che era talmente incazzato da aver rimosso tutto di quei giorni. Tutto tranne i titoli
dei giornali e le foto dei sovrintendenti del ministero che sorridevano compiaciuti
con quelli della Gendarmeria Vaticana. Sembrava una foto ricordo dei tempi di
scuola. Quelle dove tutti hanno facce da ebeti ma alcune facce sono più ebeti di
altre. I vaticani, appunto.
«C’è un monsignore che vuole vederla, capitano» dice il maresciallo dal sedile anteriore.
Lo chiamano capitano ma per la sua anzianità di servizio dovrebbe già essere un
maggiore. L’essere diverso dai suoi commilitoni ha frenato la carriera. Forse lo
avrebbero già buttato fuori volentieri, pensa. Ma non possono perché lui, i casi, li
risolve. E se non li risolve, ci va molto vicino.
«Un monsignore?»
Non se l’aspettava. No che non se l’aspettava.
39
La macchina percorre il lungo viale deserto. Nessuno sui marciapiedi. Uffici a specchi e capannoni si susseguono in una sfilata anonima. Qualche murale sulle pareti
più vecchie. Un corridoio lungo e vuoto intervallato dalle luci dei lampioni. Accendono e spengono pozzanghere di asfalto in direzione del centro e dell’appuntamento. I fanali scorrono sulle strisce della strada. Le periferie sembrano tutte
progettate dalla stessa testa.
Non è un monsignore, pensa l’ufficiale guardando l’auto parcheggiata di fronte all’ingresso dell’Hotel Laurin. L’Alfa dei Carabinieri si accoda. Una Mercedes così è
riservata come minimo a un cardinale. Sul marciapiede l’asfalto è interrotto da cerchi bianchi in marmo che contengono delle parole. Donano alla superficie un effetto a pois che non c’entra nulla con l’architettura ottocentesca dell’albergo. Le
lettere non si leggono perché sono poco illuminate. Le bandiere sopra il portone
sudano sgonfie e immobili nell’afa.
È stato convocato in Alto Adige da un pezzo grosso. Gli scatta una lampadina. Sa
che il papa è in vacanza non distante da lì. Bressanone, crede. Può essere qualcuno del suo staff. Non sa chi, ma per farlo prelevare a quell’ora e mettere su un
volo della presidenza del consiglio, dev’essere qualcuno che conta. Qualcuno che
ha fatto una telefonata a qualcun altro che conta che ha fatto… Una cascata di telefonate che contano, fino a Mazzucchelli. Si è domandato quanto era lunga la
cascata prima di arrivare al colonnello e a lui.
La merda scende, ma prima o poi si ferma da qualche parte. Lui è il “da qualche
parte”.
Era estate.
Il capitano Andrea Manetti si trovava a Roma fino a un’ora e cinquantacinque minuti prima. Era in un ufficio alla Legione Carabinieri della capitale. Occupando un
ruolo delicato nell’Arma ha più o meno una scrivania in ogni comando di regione.
Ed è normale per lui rimanerci anche dopo cena. Stava stendendo un rapporto,
quando la chiamata di un ufficiale lo aveva avvertito di un volo a sua disposizione
da Ciampino. Partenza immediata. Sono in pochi a poter muovere un comandante
dei Carabinieri a quell’ora verso un aereo. Quei pochi stanno sul colle del Quirinale
o a Palazzo Chigi. Non c’è nessuno di altrettanto potente da questa parte del Tevere… oppure… oppure oltre il Tevere, qualcuno che vive all’ombra della cupola
di San Pietro. Nel deserto romano di agosto, dove gli uffici sono completamente
vuoti, è molto probabile che la chiamata originaria fosse partita proprio da qualcuno
del Vaticano. Lì non chiudono mai. Dio non va in vacanza. Il papa sì, però. Ecco
perché a Bolzano.
L’hotel Laurin è tra i più vecchi della città. Pur trovandosi a pochi passi da piazza
Duomo è abbastanza defilato da non essere al centro dell’attenzione di paparazzi
e cronisti. È normalmente frequentato anche dagli uomini d’affari. Un incontro lì
non desta troppi sospetti. L’edificio ha ancora quell’austerità di quando Bolzano
era governata dagli Asburgo. In fondo è passato solo un secolo. In parecchi qui
vorrebbero che ci fossero ancora gli austriaci a governare.
40
L’albergo è affacciato sulla strada. Sul lato opposto all’entrata si apre un giardino
con sequoie che forse furono piantate all’inaugurazione.
Entra nella hall. La reception è in fondo al corridoio. Una ragazza lo saluta. Ricambia. Sulla sinistra si apre il bar. È tutto rivestito da una boiserie in noce. Nello
spazio tra la sua fine e il soffitto, un ciclo di affreschi circonda tutta la sala. Sono
raffigurati cavalieri e scene di corte. Su una parete un frate battezza qualcuno, a
fianco un guerriero brandisce una spada alta quanto il dipinto.
Eccolo. Aveva ragione. È un cardinale. Barberini, addirittura. Il poliziotto del papa.
Fiuta un odore. La cascata di merda è passata da lì. Forse è partita da lì. Lo sta
aspettando. È in piedi da solo tra le poltrone che circondano il grande camino
spento. Un’esile figura con una statura superiore alla media. Torreggia tra le forme
arrotondate dei divani. Il cardinale sta guardando gli affreschi. Il camino è così
grande che Manetti ci immagina che qualcuno potrebbe giocarci a calcio e usarlo
come porta. Non lui perché il calcio non lo sopporta.
Dall’operazione alla Storta è la prima volta che vede di persona Barberini. Era in
chiesa, defilato in un angolo buio, ed è una delle persone che farebbe volentieri a
meno di vedere.
«Eminenza» esordisce Manetti senza nessun altro convenevole.
«Capitano, lei mi odia?» risponde il prelato. Nessun saluto, nota il carabiniere.
«Dovrei?»
«Me lo dica lei. Ne avrebbe il motivo. Capirei… le vie del Signore sono infinite,
quello che prende poi dà…» dice con voce e tono da predica. «Intendiamoci: so
bene che il merito alla Storta è stato suo e dei suoi uomini. Il problema è un altro.
In Vaticano stiamo attraversando una crisi interna molto grave. Qualcuno sta minacciando la nostra sicurezza. E lo sta facendo dall’interno delle mura… Si sta
domandando perché le sto dicendo questo?» chiede una frazione di secondo dopo
il prelato.
È esattamente quello che il capitano si sta chiedendo.
«La cinta di San Pietro è molto, molto alta. Quanto più devi proteggere il tuo
gregge, tanto più deve essere alta la protezione… lupi e volpi non devono poterla
saltare. Ma può succedere che la volpe sia più astuta del previsto e riesca a entrare dalla porta travestendosi da pecora. In questi casi è meglio che l’intruso pensi
che il cane pastore del gregge sia sveglio.»
La parabola del giorno, pensa Manetti.
«Ecco perché abbiamo dovuto far credere che il merito fosse della nostra gendarmeria» incalza il cardinale, «per far credere che qualcuno dei nostri sia vigile. Intendiamoci, capitano, un piccolo gruppo di uomini non può proteggere da solo un
luogo dove è concentrata gran parte delle opere d’arte dell’umanità. Possiamo investire in tecnologia, fornire ai nostri uomini mezzi sofisticati, addestrarli a pensare
prevenendo i rischi. Ma non possiamo arrivare a tutto. Provi a immaginare il Vaticano come un quartiere di Roma, un quartiere dove però sono stipate tutte le firme
della storia dell’arte. Pochi cani pastori per proteggere una grande stalla rivestita
d’oro. Lei crede in Dio, capitano?»
Silenzio.
Il capitano lo guarda. Si chiede se per fare il cardinale devi essere pazzo o lo di-
41
venti dopo, o hai una forma di lucidità che a lui in questo momento sfugge.
«Diciamo che ci sto lavorando, eminenza.»
Sta cercando di stabilire una certa confidenza, pensa il carabiniere.
«Mi permetta di confidarle una cosa» dice il prelato mentre si incammina nel giardino.
Quest’uomo legge nel pensiero? si domanda improvvisamente il militare.
«Non serve saper leggere nel pensiero…»
Sì è risposto. Si accoda a lui. Non è pazzo. Gli fissa la nuca mentre cammina. La
pelle è tirata tra la base del cranio e il colletto della veste. È molto più vecchio di
quanto pensasse.
«…per capire che non tutti in Vaticano sono guidati dallo Spirito Santo o non tutti
credono che un giorno saremo giudicati. Purtroppo alcuni agiscono con la convinzione che il giudizio non sia neppure di questa terra, allora si muovono non preoccupandosi di nulla se non del proprio vantaggio.»
«Eminenza, con tutto il rispetto, non capisco dove vuole arrivare.»
«Capitano» fermandosi si gira e lo guarda negli occhi, «siamo di fronte alla più
grave minaccia che lo stato pontificio abbia conosciuto nei tempi recenti. Qualcuno
sta cercando di sottrarre i beni più preziosi del nostro patrimonio. E qualcuno dei
nostri lo sta aiutando.»
«Con tutto le opere che custodite, come può definire una minaccia la sparizione
di qualche reliquia?»
«Lei è giovane, ma ha esperienza. E sa che fa paura quel che non si conosce.
Noi non conosciamo chi sta minacciandoci.» Sul “non” il cardinale si ferma, lascia
avvertire un’incertezza, la prima dall’inizio della conversazione. Anche lui è un
uomo, allora. «Temiamo che possa essere solo questione di tempo il fatto che la
crepa nella nostra sicurezza si trasformi in una breccia e poi nel crollo di una parte
del sistema» non smette di tenere lo sguardo fisso nel suo, ha le pupille che pungono, pensa Manetti. «La prossima sparizione potrebbe essere ben più importante
di qualche reliquia.»
«Ma a catechismo ci insegnavate che la chiesa è spirito, eminenza.»
«Sì. È vero» sorride, ed è la prima volta, nota il carabiniere. Lo sguardo si alleggerisce. «Apprezzo che lei ricordi questo. Ma non è il punto. Senza una certa garanzia patrimoniale lo spirito da solo, oggi, non può arrivare ovunque. O meglio,
non con la forza necessaria. Pensi alle missioni che manteniamo, pensi alla più
piccola parrocchia nel posto più sperduto…»
…allo sperpero delle cerimonie in Vaticano, alla Mercedes parcheggiata qui fuori…
aggiunge Manetti senza dirlo.
«…siamo anche là. Ma per poterci essere dobbiamo passare da Roma. Non si
faccia ingannare dall’opulenza che a volte dimostriamo. La consideri una “necessità” che siamo costretti ad affermare attraverso dei simboli.»
Nel giardino c’è ancora un piccolo buffet allestito per la cena. Sono rimaste solo
due persone sedute a un tavolo. Un cameriere aspetta di finire il turno. Ruota il
polso spesso per leggere l’ora. Sembra un tic nervoso.
«Abbiamo bisogno di lei, capitano.»
Il cardinale chiede al cameriere un bicchiere di vino.
42
«È l’unico che in questo momento ci può aiutare.» Impugna il calice tenendolo alla
base con la punta delle dita. Annusa il contenuto. Il naso appuntito si ferma appena
oltre il bordo del vetro.
«Perché, eminenza? Sono l’unico che non protesta se quando risolve un caso non
gli si riconosce il merito?»
Il cardinale lo guarda per un attimo in un silenzio senza espressione.
«No, però sono sicuro non si lascerebbe contaminare. Ho capito di che pasta è
lei. So quanta fatica ha fatto per arrivare dove si trova.» Guarda il calice che in
mano: «Questo è Lagrein» lo alza verso un lampione e lo porta in controluce, i riflessi porpora brillano nel cristallo. Il carabiniere nota che sono dello stesso colore
della fascia della sua tonaca. «È probabilmente uno dei migliori vini rossi al mondo.
Cresce tra queste montagne. Le sue vigne resistono al gelo dell’inverno. Chi lo
coltiva deve impegnarsi di più per via dei dislivelli e del clima. Il risultato è un nettare che è costato fatica ma che ha potuto maturare con calma, grazie a qualcuno
che lo ha curato. Qualcuno che dopo il gelo dell’inverno ha permesso al tepore
delle primavere di arieggiare le vigne, che le ha protette mentre crescevano.»
Anche Manetti lo assaggia. Ha ragione. Per quel che ne capisce di vino è davvero
buono, anche se a digiuno gli sta puntando dritto al cervello.
Il gesto del cardinale lascia spuntare l’orologio dal polsino. Rolex Cellini, listino
seimilanovecento euro, più o meno, pensa il capitano. Adeguato alla macchina
qui fuori, “signor” eminenza.
«C’è chi minaccia la nostra vigna e non sappiamo dove si nasconda. Non sono i
soliti corvi. Non basta qualche fucilata in aria o uno spaventapasseri. C’è qualcosa
di invisibile che sale dalle radici. Non posso chiederle di aiutarci se non vuole farlo.
Non posso neanche assicurarle che questa volta le saranno riconosciuti dei meriti.
Però posso anticiparle che ho la sensazione che le cose presto peggioreranno e
il gioco si farà più pesante.» Il cardinale alza lo sguardo verso il cielo. È spuntata
la luna. «Ora è tardi. Ci rifletta.»
Il cardinale lo guarda, è un attimo che gli sembra durare parecchio. Accenna a
un’espressione dove ti aspetteresti un sorriso, ma senza sorriso. È il suo saluto.
Si gira e rientra nella hall. Il carabiniere lo guarda allontanarsi.
È stato un piacere averla incontrata di persona e ci scusi ancora per averle infinocchiato il caso alla Storta, pensa Manetti mentre il prelato sta per scomparire.
Ah! e grazie per essere saltato su un aereo e corso fino a qui per farsi ubriacare
dalle nostre parole, continua.
Fanculo anche a lei, eminenza.
Rimane solo di fronte all’edificio.
Dal giardino l’albergo sembra un grosso castello dove tutto è addormentato. La
facciata interna non ha più nessuna finestra accesa. Un glicine si arrampica fino
ai piani alti. Il suo profumo arriva fino a lì. Torna verso il buffet. Si fa versare un
altro bicchiere di vino. Il cameriere è un ragazzo molto giovane. La barba gli sporca
appena il mento e le guance. La camicia bianca che indossa gli è piccola. È riempita da un torace ben fatto. L’ultimo bottone del collo è stretto e probabilmente lo
infastidisce. Pensa che glielo slaccerebbe volentieri.
43
Capitolo 2 – Rose
Monza, 14 agosto, ore 1:55
L’abbaino della stanza è affacciato sul roseto della Villa Reale. È stato fortunato a
trovare quei locali vicino al suo comando. Erano gli alloggi di chi lavorava a corte.
Ora sono case comunali e costano poco di affitto. Le pareti hanno qualcosa da
raccontare. Le ha lasciate grezze apposta. Gli piace toccarle. Gli piace vedere le
travi di legno sul soffitto, immaginare le materie che si affiancano combinandosi,
come i colori in un quadro. Una riproduzione del san Sebastiano di Mattia Preti è
appesa all’ingresso, sul muro intonacato senza una tinta. La tela parte dal pavimento e tocca quasi il soffitto. L’espressione del giovane accasciato di fronte al
tronco prende forma sullo sfondo grigio del cemento.
A distanza di anni continua ad apprezzare il silenzio delle notti d’estate, quando la
luna impallidisce il parco. La luce diafana è riflessa dalle foglie del roseto. Si è appena spenta l’irrigazione e le piante sembrano un tappeto di gocce immobili nella
pianura estiva. Gli alberi circondano l’edificio. Le loro sagome scure sono come
delle sentinelle sullo stato di quiete. Un argine sul resto del mondo. Gli piace pensare che è la stessa pace che amava il re quando stava qui. Almeno prima che gli
sparassero. Lo hanno ucciso in fondo al viale, appena fuori dalla riserva dove si
rifugiava con le sue amanti. Si chiede se anche lui prima o poi sarà minacciato
fuori dalla sua riserva.
Andrea si affaccia alla finestra. È tardi. Qualche auto passa ancora sul viale. In
fondo, oltre la pesante cancellata, il traffico sembra un elemento estraneo al suo
mondo. Dalle sue spalle arriva il rumore di un respiro pesante, affaticato. Cesare
sta dormendo. Vuole stargli vicino. Non vuole lasciarlo solo. Lo ha già lasciato solo
troppe volte.
Sente il rintocco delle due arrivare da un campanile del centro. La chiesa non è
distante. Gli vengono in mente il cardinale Barberini e la predica di Bolzano.
Dovranno fare a meno di lui. Ha deciso che non si lascia incantare.
Il mattino è sceso presto in ufficio. La caserma è ancora deserta. Gli piace perché
non sembra affatto una caserma. Si rende conto che è fortunato. Lavora in un
posto che gli piace. Fa un lavoro che gli piace.
Sta indagando su un caso di trafugamento di reperti da una necropoli etrusca.
Hanno sfondato una parete in pietra e portato via tutto quello che c’era dentro.
Nonostante il sopralluogo gli è comunque impossibile capire cos’era conservato
nella tomba. Può solo immaginarlo. Così come immagina che i reperti saranno irrintracciabili, probabilmente già sulla piazza di qualche mercante.
La scrivania è completamente piena di foto. Se le è stampate tutte. Spera di intuire
qualcosa. Per ora ci vede solo una collina con degli arbusti. Guardandola ricorda
quando era lì. Sente ancora il profumo della campagna romana bagnata dalla
pioggia. Vede un’apertura su un lato, come se tra i cespugli ci fosse una porta per
entrarci. Le pareti interne e la volta sono decorate da scolpiture. C’era un odore
strano dentro. Più simile a un non-odore fatto dall’assenza di odori. Qualcuno ha
44
lavorato più di duemila anni fa per rendere gradevole quell’ingresso. Quella porta
dell’aldilà. Le linee si susseguono combinandosi tra loro fino a perdersi nel buio in
fondo. Sono perfette. Il senso del bello è un linguaggio universale. Forse era la
tomba di un uomo importante. O forse era solo importante per chi lo ha conosciuto
e ha pagato per la sepoltura. Gli etruschi credevano che il defunto avesse un’altra
vita dopo quella terrena.
Poi una foto discosta, l’immagine del foro nella parete. Una serie di martellate ha
squarciato le righe scolpite. Senza nessun rispetto per quel lavoro antico. Senza
nessun rispetto per quella tomba. Chi le ha tirate non si è preoccupato di quel che
stava facendo. In qualsiasi altra parte del mondo civile quel luogo sarebbe stato
protetto. Pensa alla stalla d’oro di Barberini.
Squilla il telefono.
«Manetti» dice meccanicamente alzando il ricevitore, senza smettere di guardare
le immagini sul tavolo.
«Colonnello Mazzucchelli» dall’altra parte.
«Buongiorno, signore» svogliatamente.
Il superiore è al corrente dei contenuti dell’incontro di Bolzano. Se lo aspettava.
Gli dice che ci sono certe occasioni che non si possono rifiutare.
Gli risponde che ci sono certe occasioni che non danno stimoli.
Lo chiama a rapporto. Gli ordina di presentarsi al comando regionale.
«Obbedisco, signore.»
Riaggancia il telefono. Rimane a fissare l’apparecchio. Alza lo sguardo. Alla parete
è appesa una copia del Narciso di Tintoretto. Non vale come quella originale conservata a Roma ma è di buona fattura, probabilmente un allievo del maestro. L’ha
intercettata dal fondo di un camion carico di frutta secca diretto in Francia. In quel
caso una soffiata lo aveva aiutato. Nessuno l’ha reclamata ed era ferma lì da loro.
Capita. E a lui piace che capiti. È come se un po’ dell’arte che aiuta a recuperare
gli rimanesse attaccata addosso.
Domani andrà al comando di Milano. Si alza, prende una birra dal piccolo frigo
alle sue spalle. La sorseggia molto lentamente. Sente la schiuma fermarsi sul labbro. Mangia un paio di mandorle tostate. Sale da Cesare. Vuole chiudergli la finestra e accendergli l’aria condizionata. Sarà una giornata calda. Un po’ di fresco gli
darà sollievo.
45
46
Nina cuce corpetti da attricetta per ricche signore siliconate e tailleur da
romana borghese per tettute ballerine della tv.
Nina non cuce abiti da sposa.
Ama il cibo ma è sempre a dieta, adora dormire ma soffre di insonnia.
È alta con i tacchi, magra con la gonna giusta, e ha gli occhi troppo grandi.
Ma blu. Che comunque è un bel colore.
Ha due tette discrete e non esce mai senza lo smalto.
Ha la frangia troppo lunga ed è stata tutto, tranne che bionda.
Non è capace di stare zitta. Mai.
Piange solo se è da sola.
Adora i musical, fosse per lei dovrebbero cantare tutti, sempre, anche
nella vita.
Guarda solo film in inglese perché ha paura di svegliarsi un giorno e non
saperlo più parlare.
Sceglie i libri leggendo l’ultima parola.
L’ultima di questo qui è “Fine.”
Lei lo avrebbe letto.
Vivere da donna tra le donne. Una storia che fa ridere anche se si ha il
rossetto sui denti e per cui piangere imbrattandosi la faccia di rimmel,
come ogni femmina che si rispetti. Anche se siete maschi.
Manuela Mazzocchi è una intorno ai trenta, intorno al biondo, intorno al
goffo.
Scrive testi per programmi radiofonici e inventa pubblicità. Quelle che,
quando passano in radio, la gente abbassa il volume. O cambia canale,
e c’è sempre la canzone sbagliata.
Ha anche un lavoro che riesce a spiegare alla sua famiglia: organizza
eventi ed è un addetto stampa.
Ha un blog: achickenthing.blogspot.com
Nina cuce è il suo primo libro, non più nel cassetto.
47
Nina cuce, Manuela Mazzocchi.
1
Sto abbracciando una bara.
Il tappeto di rose schiacciato sulla faccia, le mani che cercano di vincere contro
questa lucida discesa di legno. Lo scuotersi, perpetuo e regolare, delle teste alle
mie spalle scandisce la fine della mia dignità. Sudo incenso e lacrime. Stramaledetti tacchi. Avrei dovuto accendere un cero alla “Madonna dello Stiletto”. Potrei
fingere un improvviso attaccamento al nonno del mio capo, buttare lì un singhiozzo, un gemito, un urlo popolano in perfetto stile Magnani. Raddrizzo le ginocchia e lentamente cerco di staccarmi dalla nuova, laccata, dimora del defunto.
Raccolgo il telefono da terra, mi strappo un petalo dalla guancia e concludo il mio
viaggio verso la prima fila della basilica di Santa Maria in Trastevere: una che saggiamente portava sandali alla schiava.
L’ultimo lifting ha privato Costanza delle rughe d’espressione, ma il suo sguardo
è piuttosto esaustivo.
Le passo il telefono. Mi volto. Occhi bassi e passo lento, esco dalla chiesa.
Memo: trovare un modo creativo per raggiungere il nonno di Costanza. Entro oggi.
La solita Roma rassicurante che non si accorge di niente mi aspetta fuori.
«Ma la bara si è aperta?»
Mi tolgo le scarpe e finalmente mi passa il mal d’aria.
«Allora? Il ministro? S’è visto?»
Il nonno, era stato ministro.
Vuoi non sdraiarti su un politico, prima o poi?
È il trionfo del racconto all’italiana: scivolo per colpa dei tacchi e al terzo passaparola sono un’estremista che tenta di trafugare la salma dell’ottuagenario, in cambio
della liberazione dei prigionieri politici della Papuasia.
«Dice Matteo che t’hanno dovuto sollevare in due perché eri incastrata nella corona dei compagni di partito.»
Attendo fiduciosa almeno un paio di teorie del complotto, e il racconto dettagliato
sull’ingresso in chiesa dei Corpi di Pace.
Se lo ricorderà qualcuno il morto? O negli anni l’aneddoto della sconosciuta che
gli è caduta sulla bara offuscherà le sue gloriose gesta?
Devo finire di cucire il corpetto di Cleopatra.
Il mio ago passa diligente e puntuale attraverso l’imbottitura.
«Nina…»
Matteo ha la voce coccola, quella delle brutte notizie date con amore.
«Ti vede subito.»
«Ma è già qui?»
«Sì.»
«E tu?»
«Io cosa?»
«Non hai ancora caricato su youtube la mia performance funebre di oggi?»
48
«Mi sono permesso di aggiungere un tocco di teatralità nel raccontare l’aneddoto,
te lo concedo. L’idea del video l’ho accantonata subito. Ti voglio bene.»
Matteo è l’assistente di Costanza, il mio primo abbraccio in questa città. Gli concedo tutto, il risotto alla milanese con la soia e l’amatriciana di tofu, Lady Gaga a
tutte le ore e True Color di Cindy Lauper quando deve sputare tristezza.
Oggi potrei strangolarlo ma, spingendolo per raggiungere l’ufficio di Costanza, ho
visto i suoi calzini rosa. La filosofia del rosa è iniziata quando avevo vent’anni.
Amavo uomini che non mi filavano e liquidavo ragazzi gentili, perché sulla loro
fronte lampeggiava costantemente un semaforo rosso, che minacciava di fermare
la mia corsa verso SaDioCosa. Cercavo fortuna. Per vederla meglio le ho dato un
colore.
L’Amore non l’ha cambiato, l’Umore sì. Questione di vocali.
Il giorno del funerale di mia madre, mia zia portava un foulard rosa antico. L’ho
preso e buttato prima di arrivare in chiesa. Quel giorno la fortuna non aveva colore.
Nell’ufficio del mio capo c’è la solita temperatura “Greetings from Aspen”.
«Se esce anche una sola foto del tuo sedere sulla bara di mio nonno sei licenziata!»
Giurerei di aver visto una ruga sulla faccia di questa diciottenne, classe 1951.
«Costanza, sono scivolata. Comunque non credo che il mio sedere su una bara
sia spendibile sulle pagine di cronaca. Forse le tette. Ma le tette non si vedevano.»
«Nina! Prendi la tua risposta pronta e andate dalla Maccapani che deve stringere
l’abito per il Festival!»
«Ma non sarebbe più pratico prendere le misure della Maccapani a liposuzioni terminate?»
«Fuori!»
«Vado.»
2
Non avevo mai guidato una Vespa prima di Roma. Ho sempre provato terrore per
le due ruote, ma qui la vita è incosciente. C’è qualcosa nell’aria. In questa città la
gente mangia e ride. Si tocca.
Domenica sono andata a comprarmi dei fiori. Davanti a me c’era un signore, a occhio i settanta erano passati da un pezzo. Le dita sorde e grassocce della fioraia
litigavano con le spine e il nastro delle rose.
«Lo mette il biglietto?»
«Che?»
«Lo scrive il biglietto?»
«Ma… So’ quarantacinqu’anni de matrimonio. Le parole l’amo già mischiate tutte.»
«Allora niente. Vado dietro a finirle la confezione.»
Siamo rimasti in silenzio un paio di mazzi di fiori, poi il genio: «Signorì, sia brava,
mettemo anche er bietto. Passi qua la penna che je damo na’ rimestata!»
Questa è la Roma che ho scelto io.
49
Casa Maccapani starebbe bene nell’inferno di Dante se ci fosse il girone dei rifatti.
Al terzo matrimonio, dopo un notaio e un latitante “re del mattone”, Lucrezia Maccapani ha scelto di unire l’utile al dilettevole sposando un chirurgo plastico. Potrebbe avere dai trenta ai quarantacinque anni, e quasi certamente li ha, tutti e
quindici, in una tasca interna delle tette, dove il marito infila la parte crescente di
ogni tiratina. Pensavo che anche per la Maccapani valesse la teoria “Valentino the
Last Emperor”: dopo ogni lifting (rigorosamente non dichiarato) del maestro della
moda, spunta un pechinese nuovo nel suo attico parigino. Ma Ugolino e Ugonotto
non si vedono a Palazzo Maccapani da mesi. La signora dice di averli mandati in
una Spa per cani. Erano stressati. Ci avrà attaccato due maniglie trasformandoli
in borse da viaggio.
Le sto cucendo un abito per la serata inaugurale del Festival del Cinema. È la
terza volta che le strizzo le tette in questo trionfo di lurex.
«Nina cara, che ti devo dire, dimagrisco a vista d’occhio. Ho la stessa silhouette
di quando avevo vent’anni.»
«Letizia, cosa mi dice mai! Lei non ha vent’anni?»
«Tesoro no! Avrò più o meno la tua età!»
Memo: ricordarsi uscendo di prendere il biglietto da visita del Maccapani chirurgo.
Mia nonna era una sarta, vederla cucire mi dava l’idea che tutto potesse essere
sistemato.
Mi diceva: «Se sei brava il rammendo non si vede, sei tu che scegli a chi mostrarlo.
Tutti abbiamo qualche punto qua e là, e non solo sui vestiti.» Rammendava la sua
vita con la stessa cura con cui cuciva gli abiti. Aveva perso un figlio e un marito,
eppure nessuno sapeva dove la sua vita si fosse strappata.
Per questo ho scelto questo mestiere. Per aggiustare tutto il possibile. Per vestire
le persone e coprire le cuciture delle loro vite.
«Gioia, sei sovrappensiero?»
«No, no signora. Un altro punto e abbiamo finito» fino alla prossima liposuzione.
3
NinatipregopuoiandaretipregoaprendereBartolomeoall’asilotipregocheiosonobloccataalcircolotipregotipregoAsianonpuò.
Sveva ha due ottimi polmoni, i messaggi che regala alla mia segreteria telefonica
sono sempre composti da un’unica lunghissima parola e, se non altro, molto educati.
L’asilo è di strada.
«È la mamma del piccolo?»
Nel caso sarei la terza.
«No. Un’amica.»
«Ce l’ha la delega?»
Mostro diligentemente l’sms che Asia mi ha memorizzato sul telefono, il mio certificato da ausiliaria della maternità.
«Nina, ce l’hai il gelato?»
50
La manina appiccicosa di Bartolomeo si incolla alla mia giacca.
«Amore, adesso lo prendiamo, fammi finire di parlare con la maestra.»
«Coordinatrice didattica.»
Questi occhialini anni Trenta celano un’appassionata delle gerarchie. Nascondo
dietro a tutti i miei denti il disgusto per i collant color carne che indossa.
«Possiamo andare?»
«Ancora una cosa. Potrebbe dare ai genitori questo avviso? Dovrei vederli con
una certa urgenza. Madre e padre possibilmente.»
«Il padre di Bartolomeo vive a Londra.»
«Ma io c’ho due mamme. Anche!»
«Sì, amore. Infatti verranno loro a parlare con la signora.»
«Signorina.»
«Con la signorina coordinatrice didattica. Ma è successo qualcosa?»
«Non sarei autorizzata a parlarne con lei. Ma è una cosa alquanto bizzarra, in effetti. E poi al momento lei fa le veci della figura genitoriale. Bartolomeo, vai un momento nella sala ricreativa “colori del mare”, vuoi?»
«Bartolo vai, io finisco qui e arrivo. Poi doppio cioccolato.»
La sua manina si stacca da me come una striscia di ceretta.
«Tripolo!»
«Triplo. Aggiudicato!»
Mentre saltella nel suo cubo blu pieno di giocattoli, realizzo che potrei passare la
vita intera ad accordarmi con esseri umani che hanno meno di sei anni. Sono una
diplomatica dei denti da latte.
«Vede signorina. O signora?»
«È uguale.»
Leggo negli occhi della signorina coordinatrice didattica una scossa di terremoto.
Direi secondo grado della scala Mercalli.
«Come preferisce. Signora. Il fatto è che abbiamo un problema con l’espressione
articolata per immagini del bambino.»
«I… disegni?»
«Esattamente.»
«Che tipo di problema?»
«Vengo al punto. Non delinea con sufficiente coscienza la rappresentazione grafica della… come dire… mascolinità. Mi capisce?»
«Non proprio. Ha qualcosa da mostrarmi per chiarire il concetto?»
Apre la cartellina color topo che usa come scudo da quando sono arrivata, e mi
passa un foglio da disegno.
«Abbiamo chiesto di rappresentare il concetto di Festività Natalizia. Questa è l’elaborazione di Bartolomeo.»
Ecco. Babbo Natale ha le tette. Oggi andiamo alla grande.
In questa casa ci sono due mamme, un bambino di cinque anni e un padre gay
che vive a Londra e viene a trovarci una volta al mese.
Io nella mia vita ho amato un uomo solo che si fissava le scarpe mentre piangevo,
urlavo, e facevo le valigie per andare lontano da lui. Ogni volta che giro l’angolo,
51
spero di incontrare Quello Giusto. In questo collage di cuori speciali ci sto benissimo. Potrei imbottigliare l’amore che c’è tra questi muri e venderlo a un sacco di
famiglie in bianco e nero.
Noi siamo rosa, anche se stasera sta per scattare l’allarme rosso.
Ho messo l’avviso della scuola e il disegno di Bartolomeo nel microonde. Lo
usiamo tutti come svuota tasche. Sveva dice che non va usato per cucinare, perché rende il cibo radioattivo. Ma non lo butta, lo usa come scalpo del nemico.
La “criatura”, come lo chiama la melodrammatica madre di Sveva, è in cameretta
a disegnare.
Asia entra in casa con le sue tre macchine fotografiche ancora al collo. Conto le
crepe sulla sua faccia. L’ennesimo matrimonio coatto con cigni di ghiaccio a grandezza naturale e sposo con gli stivali da texano, rigorosamente in vernice bianca.
«Com’era?»
«La torta era la bandiera della Roma.»
«Non oso immaginare le… bomboniere.»
«Con la faccia di Totti e Ilary sopra. Me pare ovvio.»
«Tu zitta che sei della Lazio!»
«Te stai a romanizzà?»
«Un tantino. Senti, ci sarebbe una cosa… dalla scuola di Bartolomeo.»
Asia sforna il richiamo e il disegno. Le macchine fotografiche le penzolano ancora
dal collo, dovevo aspettare che si cambiasse, ora passerà la serata con venti chili
di obiettivi addosso. La mutazione in Godzilla è quasi ultimata. Manca solo l’arrivo
di Sveva.
«Non ti vuoi levare quella roba di dosso prima?»
È già in modalità screensaver. Potrei lanciare un fumogeno in mezzo alla cucina
senza farle fare una piega.
«Nina, ma a te pare una cosa grave? È solo un disegno. C’è bisogno di convocare
lo stato maggiore? Lo sapevo io che questa scuola era eccessiva. È Sveva che
ha voluto mandarlo con tutti questi nanetti in divisa. Io con questa giacchetta simil
Londra non lo posso vedere!»
«Magari dovreste parlarci. E spiegargli che Babbo Natale è un vecchio ciccione
che sta in Finlandia a mangiare le renne.»
Sorride e rimette i fogli nel forno come se fosse un fascicolo della CIA.
«Vado a fargli il bagno.»
Io metto su l’acqua della pasta e stacco dal gruppo i miei soliti quindici maccheroni.
Amo il cibo, ma sono sempre a dieta. Con le bolle sale in superficie anche il mio
senso di colpa. E se fossero le mie fiabe?
Ogni sera ne racconto una a Bartolomeo. Diciamo, la mia versione della storia.
Piuttosto fedele all’originale in verità. Solo, senza principi azzurri. Nelle mie, Cenerentola fa la donna delle pulizie, Biancaneve vive con i nani, La Bella addormentata è narcolettica. Insomma, sono tutte ferme dove sto io, e aspettano.
Quando gli rimbocco le coperte lui mi chiede: «Ma lo troveranno il Principe?» e io
rispondo: «Spero di sì, ma sono felici anche così.»
Memo: sono una persona orribile.
Adoro dormire, ma soffro d’insonnia.
52
Sveva e Asia hanno discusso fino a tardi. La loro camera è accanto alla mia. Sono
dotata da sempre di una specie di super udito. Le sentivo parlare e agitarsi, la ragione passava dall’una all’altra rimbalzando come in una finale di Wimbledon.
Le ho sempre ammirate per il loro coraggio. Ho sempre pensato che, per aggiungere una vita a questo caos, devi avere una specie di dono. Bartolomeo mangia
e dorme in una bolla di amore cosmico, poi esce e le sue guanciotte devono attutire i colpi del mondo a cui ci siamo abituati.
E per quanto possiamo considerarci progressisti, ci siamo abituati tutti al brutto,
con troppa facilità.
4
Un cappottino rosa attraversa la strada di corsa e mi si staccano i pensieri dalla
testa. Mi vibra la tasca.
PASSA AL PARIOLI A RITIRARE I COSTUMI DEL BALLETTO E POI FAI L’APPUNTAMENTO DAI MARCHESI AL POSTO MIO. IL TUO CULO È A PAGINA 12
DI REPUBBLICA.
La vita è una cosa meravigliosa. Dicunt.
A Roma hanno tutti un nome romano.
Io adoro il mio perché ha solo quattro lettere e perché il suo anagramma è “nani”,
che in milanese è una cosa affettuosa con cui gli anziani chiamano i bambini.
La sartina del Parioli si chiama Cencia. Lavora in questo teatro da vent’anni. È la
mamma di tutti. Gli aghi nelle sue mani sembrano grandi e quando cuce canta.
Le mie prime giornate romane le ho passate con lei, a cucire i costumi delle ballerine di un programma tv. Gli stessi che ora devo portare via. È lei che ha impostato il mio orologio sul fuso orario romano. Quello che tra un minuto e l’altro ci
infila la vita.
Mi viene incontro. Per abbracciarla mi piego in due.
«Ho provato a dire di non stare a farti passare. Ci potevo mandare un taxi a portarli!»
«Fa niente Cencina.»
«Bella. Sei consumata. Ma mangi?»
«Sì. Sì. Pure troppo.»
«Non mi pare proprio.»
Memo: passare dalla Cencia ogni volta che mi sento in colpa per aver ingoiato un
piatto di tonnarelli cacio e pepe senza masticare.
«Ni’, ma che è sta storia, che di là stanno a dì che sei su Repubblica?»
«No! Caz… No!»
«Ma che davero?»
«Ma no. No. Niente Cencia. Ora vado che sono di corsa!»
«Ciao amore. Non li sgualcire! E mangia!»
Il sedere su Repubblica non lo voglio vedere.
Il sacchetto con i costumi delle ballerine continua a impigliarsi nel mio cappotto di
finto pelo. A ogni strattone prego che le perline che abbiamo attaccato, una a una,
reggano il loro primo giro in Vespa. Costanza le passerà tutte tra le dita con la pre-
53
cisione maniacale di un serial killer. CSI Sartoria.
Dovrà strapparmi questi costumi dalle mani, come sempre. Mi attacco ossessivamente a ogni vestito, ogni orlo, ogni bottone che uso. Matteo dice che sono il Dr.
Frankenstein dell’ago e del filo. Quando lavoro fino a tardi, spunta dal buio urlando
SI PUO’ FFAAREEE.
Spesso prendo i lavori che nessuno in showroom vuole fare, mi metto nell’angolo
con Gilda, il mio manichino, e inizio le mie guerre con i “casi difficili”. Provo dei
sentimenti per tutti gli abiti a cui lavoro, inizio e non riesco più a staccarmene. Potessi, vivrei in un hangar pieno di manichini con tutti gli abiti che ho fatto, anche
quelli a cui ho solo attaccato un bottone.
«Un cappuccio e un cornetto.»
Mi sono rassegnata. La brioche a Roma non esiste.
Il tizio accanto a me sfoglia Repubblica. Mi giro di scatto per non guardare. Il cornetto mi esplode in mano. Ho appena rallentato la mia pausa caffè del 300%.
Entro in casa dei Marchesi con le mani che sanno di marmellata e sapone
“oceano”. Immagino gli omini del Carrefour che chiedono asilo sulle barche di Greenpeace per imbottigliare la schiuma di mare da mettere nei loro saponi da 0.99€.
L’ennesimo attico romano, il soffitto alto dove litigano gli affreschi di tre correnti
artistiche differenti, qua e là un mezzobusto di qualche filosofo, che a Roma la diplomazia non è mai troppa, e tende di broccato.
Memo: pagare il riscatto e liberare la sobrietà dei ricchi romani.
Mi viene incontro una biondina tutta occhi.
«Costanza! Che piacere!»
«Sono Nina, lavoro con Costanza. Purtroppo ha avuto un imprevisto. Ha mandato
me.»
«Lei è quella con il sedere sulla bara a pagina 12 di Repubblica?»
Le labbra di Tuttaocchi sono sigillate. Chi parla?
«Dico, è lei o no?»
Dubito sia ventriloqua. Mi giro pronta a rispondere al mezzobusto di Marco Aurelio.
Una donna esile, con il collo da giraffa segnato da un filo di perle, sta guardando
fuori dalla finestra dandomi le spalle.
«Non credo, signora.»
«Matilde, vogliamo affidare il tuo abito da sposa a una che non riconosce il suo
stesso sedere?»
«Lo riconosco piuttosto bene, in verità. Andiamo d’accordo. Certo, come tutte le
coppie che si rispettino, litighiamo un pochino quando gli chiedo se sono ingrassata e lui non risponde. Ma capita, no?»
Abito da sposa.
«Vieni Nina, posso darti del tu? Ti faccio vedere le foto che ho preso dai giornali.
Nonna, tu vieni?»
Abito da sposa.
«Non credo, Matilde. Andate avanti voi.»
Abito da sposa.
«Gina, sta dimenticando la borsa. Le misure le prende a spanne?»
54
Abito da sposa.
«Nina, mi chiamo… Nina» il sangue raggiunge finalmente il mio cervello. «Chiedo
scusa, ma deve esserci un errore, io non faccio abiti da sposa.»
«Ma Costanza farà il mio abito da sposa, siamo in parola da mesi!»
Tuttaocchi mi dispiace, se potessi ti abbraccerei per non guardare la tua faccina
da cammeo trasfigurare in questa smorfia di dolore. Ma non ho tempo. Devo uscire
da qui.
«L’abbiamo anche già pagato, a dire il vero. Cara Gina.»
«…Nina» dico con un filo di voce mentre raccolgo borsa cappotto di pelo e sacchettone contenente le micro mutande in perline delle ballerine del Parioli.
Poi chiudo gli occhi. E sono già seduta sulla Vespa con Costanza che mi vibra
nella tasca. Resto immobile, infilata in una strada chiusa con le gambe rigide e il
casco slacciato.
Ho fatto in una notte l’abito di mio padre per il funerale di mamma. Tutto quello
che avevo da dire a quell’uomo improvvisamente vecchio, piccolo e pentito, l’ho
cucito in quel vestito. Nella tasca interna della giacca ho sigillato il mio sogno di
bambina: camminare verso l’altare aggrappata al suo braccio, vederlo piangere
con la coda dell’occhio e incontrare lo sguardo di mia madre che ride e piange
come si fa nei giorni veramente felici.
Io non faccio abiti da sposa. Non li guardo nelle vetrine, abbasso gli occhi ai matrimoni delle mie amiche, e non dirò sì davanti a Dio. Dio ha preso mia madre. E
se mi vede da lassù, di certo non mi vedrà vestita di bianco.
Non sopporto le complicazioni, cambio canale quando la gente litiga in tv o quando
le cose per il protagonista della storia si mettono male.
Costanza continua a vibrare nella mia tasca e non c’è nessun telecomando che
possa salvarmi da questa giornata.
«Confido che al nostro prossimo appuntamento non agirà da perfetta squilibrata.»
La voce pacata di Collodagiraffa gira nella mia testa come un mantra. Non si è
nemmeno voltata. Sottile, affusolata e immobile, con gli occhi fissi sul chiasso romano, mentre una povera sudamericana, vestita come la governante in un giallo
di Agatha Christie, mi apre la porta.
5
«Fammi capire, ci hai sbattuto la testa oltre al culo su quella bara?»
«Era per un abito da sposa. Io non li faccio.»
«Nina, te lo ripeto l’ultima volta, piano, così capisci bene: L O D E V I F A R E O T
E N E V A I!»
Esco dal suo ufficio senza aprire bocca, lenta come le sue parole.
Matteo è nel mio angolo, accarezza il raso da ragazza per bene che avvolge Gilda.
Mi rimetto il rossetto con l’automatismo di un cyborg.
«Cosa facciamo? Ci votiamo al silenzio sigillando le labbra con il gloss di Chanel?»
Ho gli occhi grandi. Quando mi viene da piangere mi si allargano come se Dio
usasse lo zoom.
55
«Dai, finisci le tue cose qui, che stasera ti porto fuori.»
Mi siedo, appoggio la mia scatola dei bottoni sulle ginocchia e li mescolo con le
dita.
«Passo da te alle nove.»
Metto i bottoni rosa in fila sul legno lucido del mio tavolo da lavoro.
«Mettiti bene che facciamo serata. Carciofi alla Giudia da Gigetto, mi voglio rovinare. Stasera mangio anche il pane!»
Gli occhi mi tornano a grandezza naturale. Matteo mi bacia sulla fronte e scompare
tra il rumore della macchina da cucire e il clacson del furgone dei tessuti. Gli suona
da dieci minuti, fermo sul passo carraio, per principio, mica perché non c’è parcheggio.
Esco per ultima, spengo le luci, respiro la stoffa. Carico Gilda sul taxi insieme alla
scatola con le mie cose. Resta il mio post-it sulla scrivania di Costanza.
ERA PER UN ABITO DA SPOSA. IO NON LI FACCIO.
«Ce lo facciamo un tiramisù in due?»
«Ma hai già mangiato il pane…»
«Fanculo! Due tiramisù, grazie.»
Le dita di Matteo tamburellano sul tavolo e le briciole saltano, isteriche come lui.
«Lunedì torni in ufficio, le parli, ti fai un gin tonic, e vai a coprire di tulle quella culona romana!»
«Veramente è magra come un chiodo.»
«Meglio ancora! Meno stoffa.»
«Era per un abito da sposa. Io non li faccio.»
«Se me lo ripeti un’altra volta mi faccio portare un barile pieno di cioccolata, mi ci
butto dentro, tipo Houdini, e ci annego dentro grazie ai sensi di colpa che non mi
permetteranno mai di finirla.»
«Però è così.»
«Nella tua testa, e credimi sono certo che lì dentro, stipata tra un’introvabile etero
in calzamaglia blu e cavallo bianco e la pace nel mondo, avrà anche un inattaccabile filo logico. Ma qui fuori è una puttanata!»
Infilo il mio cucchiaio nel suo piatto e spappolo il suo dolce.
«Credi che non lo mangerò? Solo per quella mia fobia da cibo mischiato?»
Nessuno dei due abbassa lo sguardo. È la versione schizofrenica di un duello alla
Sergio Leone.
«Se lo mangio, tu fai il vestito la sposa.»
«Bene. Mangia.»
La mano gli trema, solleva con la forchetta un atomo di torta e cerca di avvicinarlo
alla bocca. Non ce la farà mai. Misura i tramezzini con il righello, leva la sottiletta
che esce dall’area dei toast, l’unico gelato che mangia è il Mottarello. La geometria
è il paracadute della sua vita.
La forchetta è a un centimetro dalla sua bocca. Chiusa.
«Ti odio!» lascia ricadere la forchetta nel piatto.
Sono brava nel mio lavoro. Ho lavorato per anni nella sartoria di un teatro mila-
56
nese, quando vivevo in una vecchia casa di ringhiera e mi prendevo il lusso di non
fare programmi.
Poi mi è stato presentato il conto di qualcosa che pensavo mi spettasse di diritto:
mia madre è morta. Ho fatto le valigie e sono partita per Roma. Faccio abiti. Non
ho mai pensato di fare altro.
Entro lunedì è bene che mi faccia venire un’idea, però.
Sono alta con i tacchi e magra con la gonna giusta, dubito di riuscire a riciclarmi
come top model. Magari un call center. No. Un call center no.
Tra Hollywood e Centocelle c’è tutto un mondo di opportunità. Tanto per cominciare domani cambio colore.
«Houston, ci sei? Cosa bevi?»
«Una piccola chiara.»
«Due gin tonic, grazie.»
«Ma allora perché me lo chiedi?»
«Credo nei miracoli. A ore dodici, polo blu, faccia da inglesotto.»
Mi giro a caso.
«Nina! Ore dodici!»
Riprovo. Mezzo giro in più.
«Santo Dio! Ma l’Afghanistan lo bombardavi tu?»
Mi gira la faccia ignorando l’esistenza del collo e delle sue leggi motorie.
«Carino… Ma non è roba tua?»
«Uno che mette la maglia della salute sotto la polo?»
L’inglesotto, intenerito dal mio sguardo o più realisticamente impietosito dal fatto
che Matteo mi tenga ancora la testa e me la giri come se fossi Barbie Occhio di
Vetro, alza il bicchiere e sorride.
«Dai, vai!»
Due strattoni dopo sono di fronte al principe Henry del Contestaccio.
«…Ciao» credo. La musica è assordante.
«Ciao» dico. E ho finito gli argomenti.
«Il tuo amico non si unisce a noi?»
Questa la sento benissimo.
«…Sì, certo. È solo un po’ timido.»
Mi si incolla all’orecchio.
«Gli… facilito la cosa» e va a ripescare Matteo al bar. Io vado a cercare il mio orgoglio di donna nel fondo del lavandino del bagno e decido che domani mi faccio
nera. Il rosso non va.
Memo: la maglia della salute non è più un’esclusiva etero.
6
Sono stata praticamente di tutti i colori: rossa, nocciola, cannella, ma bionda mai.
Non sono io.
La tinta nera cola nel lavandino e spero che non lasci segni, o Sveva me li farà levare con la lingua. La frangia mi va negli occhi ma non la taglio. I capelli ormai mi
arrivano sotto le spalle. Mi piace il nero, gli occhi sembrano più blu e meno grandi.
57
Solo una femmina può formulare un pensiero del genere.
«Bella nera! Mi piace!»
Asia entra in bagno con Bartolomeo e le paperelle. Il mio tempo è scaduto.
«Biancaneve!» dice Bartolomeo puntandomi contro il ditino cicciotto.
Poteva andarmi peggio.
Esco dal bagno e mi metto sul terrazzino sperando che i capelli si asciughino, che
il nero non evapori e che nella pagina degli annunci di lavoro che ho strappato ci
sia qualcosa che si possa fare con un ago.
Sveva penzola da una specie di cesto indiano appeso molto fiduciosamente con
una corda al soffitto.
«Sicura che ti regge?»
«Se mi libero dei pensieri pesanti, sì.»
Memo: mai sedersi nel cesto indiano.
Oggi sembra estate. Roma è così, mischia le stagioni e a differenza della mia vecchia Milano sa usare il sole. Chiudo gli occhi e respiro il tempo.
Asia e Bartolomeo riemergono dal set di Waterworld che hanno allestito in bagno.
«Ni’, ma perché non lavori con me questa settimana? Ho quattro servizi per Signorini e posso infilarti come stylist.»
«Assolutamente sì!» risponde Sveva.
«Dite? No perché qui secondo me trovo qualcosa, così non vi rompo.»
«Ah be’, se vuoi riprovare il call center…»
«Sono tutta tua!»
La mia esperienza al call center è una delle leggende metropolitane preferite dai
miei amici. La usano per rimorchiare, alle cene con i parenti, ai colloqui di lavoro.
È un evergreen.
Prima di trovare lavoro all’Elfo, i teatri milanesi e le tv mi usavano solo part time,
e per arrivare a fine mese serviva un altro lavoro. Dovevo vendere polizze assicurative. Una cosa per gente in difficoltà. Sei povero? No problem, accettiamo pagamenti in debiti. Odiavo il meccanismo, il posto, e il microfonino in stile “Non è la
rai”, in cui dovevo infilare tutte quelle bugie.
La mia prima telefonata è stata alla famiglia Marchioni.
Luisa Marchioni è vedova, ha tre figli tra i sette e i quindici anni. Lavora part time
per un’impresa di pulizie. Invece di venderle la polizza/debito le faccio di tasca
mia un bonifico di trecento euro per mandare i figli in gita con la scuola.
In due settimane al call center non vendo nulla ma faccio bonifici ai potenziali
clienti per un totale di mille euro. Dopo Luisa Marchioni mando duecentocinquanta
euro a Nilla Verecondi, che deve curarsi una brutta infezione ai polmoni e ha ottant’anni ma è single, nessuno la può aiutare; quattrocento euro a una ragazza
madre della provincia di Bari; e do cinquanta euro a una mia collega divorziata
con due figli per comprare il costume di carnevale al piccolo Duccio.
Sono stata salvata da una serpe che ascoltava le mie telefonate e mi ha fatto licenziare.
La Marchioni mi manda ancora gli auguri di Natale. Nilla Verecondi è morta l’estate
scorsa. Ovviamente le ho mandato dei fiori.
58
7
Quanto poco so del mondo.
Le foto che Asia scatta per Signorini sono dei finti scatti rubati. Abbiamo appuntamento a casa di Miss Italia alle nove del mattino. Io la aiuto a scegliere i vestiti, le
do un paio di punti così la camicia cade meglio, le stringo i jeans e la passo alla
truccatrice che la dipinge. E finalmente la riconosco.
Poi scendiamo, Asia si apposta come concordato con la miss fuori dal portone e
scatta.
Il titolo dell’articolo sarà una cosa tipo “Foto rubate. Ecco una Miss acqua e sapone”.
Mentre la guardo, penso che se facessero una cosa del genere a me, senza ritocco, la domenica mattina quando porto Bartolomeo al parco così le ragazze possono dormire un po’ di più, i lettori chiederebbero gli occhiali 3D pensando di
vedere l’immagine sfuocata.
Rispondo a Matteo una volta ogni cinque, altrimenti minaccia di mandarmi un’ambulanza a casa. Dice che Costanza non ha toccato il post-it, che oggi hanno un
appuntamento con Collodagiraffa e Tuttaocchi. Dice che gliela pago. Prima o poi.
Non ero a casa alle quattro del pomeriggio da anni. Le ragazze sono fuori e non
devo prendere Bartolomeo. Mi metto sul terrazzo con il computer sulle ginocchia.
Vediamo cosa fanno quelli che hanno il tempo. Ho trenta mail da leggere. Venti
sono di mio padre. Do un’occhiata alle dieci che leggerò veramente. Costanza,
senza oggetto. Concita di Gregorio: Grazie per aver firmato la nostra petizione.
Matteo: Ti ammazzo. Oracolo.com: Trova la tua anima tra gli astri. Matteo: Ti ammazzo davvero. Banca Popolare di Milano: Estratto conto on line. Matteo: Oh! Sei
morta? Sveva: Bollette del gas o ci tagliano i fili. Iloveshopping.it: Le tue Jimmy
Choo al 30% in meno. Asia: Ho scordato le bollette non dirlo a S.
Cancello la mail dove troneggiano le Jimmy Choo che ho preso il mese scorso,
chiaramente a prezzo pieno, facendo i debiti.
Quelli che hanno il tempo lo sprecano. Mi unisco al gruppo.
Rubo un'altra confezione di Plasmon dalla credenza. Per smettere mi ci vorrà un
gruppo di sostegno tipo reduci del Vietnam.
Sul tavolo c’è una busta per me. La mia prima lettera. Scritta a mano. Su una carta
presumibilmente rubata dal cassetto della Principessa Sissi, imperatrice d’Austria.
Gentile Signorina Cerruti,
ho avuto il suo recapito da Costanza Cascavilla, che mi ha assicurata di essere
autorizzata a divulgarlo a chiunque.
Mi scuso per il poco preavviso, La invito a raggiungermi mercoledì alle ore 11 alla
Sala da tè Babington’s in PIAZZA DI SPAGNA 23.
Le spiegherò il motivo del nostro colloquio vis à vis.
RingraziandoLa anticipatamente,
Violante Marchesi
Collodagiraffa. Domani alle undici. Lo scrivo su un post-it, come fossi in trance, e
59
lo incollo al pc.
Matteo si è attaccato al citofono dieci minuti fa. Apro per evitare che i due settantenni
della portineria lo finiscano a colpi di tosse. Lo sento ansimare sulle scale. Mi sporgo
per vederlo fare stretching tra il terzo e il quarto piano. Arriva al sesto in dieci minuti
netti.
«Ascensore rotto!» dice usando solo le consonanti.
«No. C’è il cartello ma funziona. Si dimenticano di levarlo.»
Sento l’odore della paura.
«Come mai sei passato?»
«Per ammazzarti. Ma non ne ho la forza.»
«Che dice Costanza?»
«Niente.»
«Meglio.»
«E insisti un po’! Torturami! Vabbe’, ho capito. Il tuo post-it non l’ha nemmeno staccato
dalla scrivania. Lo ignora. Noi passiamo e lo veneriamo. Tipo una moderna Sindone.
Siamo stati dai Marchesi oggi. Madonna com’è secca la sposina. Potevi farle l’abito
da sposa usando un pacchetto di kleenex senza fare tutto ’sto casino! La matriarca
ha fatto come se niente fosse. Costanza prendeva le misure e lei “a questo pensiamo
la prossima volta con Gina… Quello lo vediamo poi con… Gina.»
Rido. Ma il mio stomaco fa bungee jumping. Prendo la lettera e la passo a Matteo.
«Da Babington’s! Fanno delle pastarelle da urlo!»
«Ci vado per quello.»
«Ci vai?»
«Sì.»
«Ah be’, certo! Non fa una… piega» intanto fa il mimo suicida. Questa volta ride
anche il mio stomaco.
60
61
Marcello ha smesso di vivere nel 1970, ora semplicemente esiste.
Un'icona del cinema italiano che per timore del lento affievolirsi della luce
che ha scaldato il suo successo per quasi vent'anni ha scelto di uscire di
scena. Funerali di stato e lacrime da cinema salutano il passaggio di una
bara vuota.
Il grande attore porta il suo segreto lontano dal set e cerca di invecchiare
serenamente nella sua nuova vita, amaro sequel della sua morte. Una
storia che nessuno vuole raccontare, un personaggio che nessuno può
interpretare, una pellicola che nessuno vuole girare lo catapulteranno, insieme al suo orgoglio e alla sua insicurezza, nel panorama del cinema
chiassoso e improvvisato di un'Italia banale e frenetica, che sembra non
avere tempo per la sua resurrezione.
Giulio G. D'Antona debutta con un romanzo che ha il sapore del vecchio
cinema. Racconta il consumarsi di un talento unico e spaventato, tra ipocondria e compulsione, che torna a reclamare il suo posto sulla scena.
Una storia unica e commovente che segue con la delicatezza di un dolly
la parabola discendente del viale del tramonto.
Giulio G. D'Antona è nato a Milano nel 1984, dove vive e lavora come
copywriter, pubblicista e illustratore. Ha pubblicato racconti sulla rivista
Out Of The Blue e sull'antologia La Pagina Bianca, edita da Giulio Perrone. Scrive sul blog www.grandefreddo.wordpress.com.
62
Ogni giorno che Dio manda in terra,
Giulio G. D’Antona.
Parte Prima
AZIONE
Il muscolo corrugatore destro agisce in perfetta armonia con il muscolo oculare
suo compagno, mentre il sinistro scende volubile a incrinare leggermente il temporale, che si ritira lasciando che siano altri a compiere il lavoro. Una linea immaginaria, che va dall'estremità del sopracciglio sinistro al centro della fronte, disegna
l'inalienabile solco espressivo, noto alle riviste come agli schermi, che si infrange
in un fuoco artificiale di piccole pieghe al bordo dell'occhio aperto, ma non spalancato. È la curva sinuosa, che sembra fatta apposta per incoronare l'occhio destro, a prendersi tutti i meriti. Due parti perfettamente complementari.
Se immaginaste di staccare dall'adipe sopracciglio e palpebra per incollarli tra loro,
trovereste le loro curve armoniosamente identiche, la superiore solo leggermente
più arcuata dell'inferiore per concedere il miracolo di un incastro perfetto.
Il procero s’increspa leggermente sotto la spinta dei muscoli del setto, sfiorando i
frontali che ne subiscono la delicata prepotenza. La parte trasversa del muscolo
nasale dialoga alla perfezione con la sua parte alare, allargando di qualche millimetro la narice destra e conferendo una pennellata di colore all'aspetto generale
dell'espressione. Mai volgare, un signorile stupore si dipinge sornione tra il setto
e l'incisivo del labbro superiore. I denti rimangono nascosti.
I quadrati del labbro trascinano con delicatezza l'estremità sinistra della bocca, a
sollevare solo di poco il pesante orecchio, senza curvare, con naturalezza. Il buccinatore è inerte, incerto se intervenire o meno, resta preparato alla chiamata del
triangolare inferiore. Non un tremore, ma un delicato corrugarsi non visto.
Gli occhi sono tutta un'altra storia. Le pupille, sveglie e vive, dilatate al punto giusto,
segnano il posto di frontiera per la luce naturale proveniente da sinistra. I bastoncelli riflettono quasi tutto, regalando all'iride una scura caparbietà mediterranea. I
bulbi oculari, di un bianco naturalmente venato da pochi capillari, che altro non
fanno che accennare colore, risultano armonici nel taglio mandorlato. Il muscolo
orbicolare sinistro, contratto sia inferiormente che superiormente, dà l'abbrivio al
destro che, con diseguale armonia, contrasta la staticità cerea del sollevatore del
labbro superiore.
Il mentale è solcato. Lo sternocleidomastoideo fa coppia gemella con i muscoli
della nuca per conferire una postura retta, che componga un angolo di poco meno
di novanta gradi tra il mento e il collo, per non risultare né troppo austero né troppo
remissivo. Un fiero orgoglio maschile che non si imponga, che esista semplicemente, con signorilità, eleganza e naturalezza.
Chiunque avrebbe riconosciuto quell'espressione. Era la fotografia del successo,
il manifesto della sensualità, il sogno proibito dello schermo. Ma questo in altri
tempi e in un altro luogo. Ora, guardandosi allo specchio, si sentiva semplicemente
vecchio.
63
1
16 Giugno 2007
Marcello Merkele aveva smesso di esistere nel 1970.
Uscì di casa che l'isola sembrava ancora un set dismesso. Non presto, ma molto
prima che cominciasse a popolarsi di turisti. Le saracinesche, poche e ben evidenti,
erano ancora abbassate, la strada saliva appena prima di tuffarsi decisa verso la scogliera. E il mare.
Marcello ci provava a tenere la schiena dritta e il mento alzato, come gli avevano insegnato, ma da un po' di anni era diventata dura. Aveva una volontà di ferro ma
un'anca di polistirolo, l'unica soluzione era camminare molto lentamente. Non che
avesse fretta di arrivare da nessuna parte.
Questo sole del cazzo rimbalza da tutte le parti, con gli occhiali scuri è anche peggio.
Tanto vale strizzare gli occhi. Le strade sono tutte strette e solo una è asfaltata, per
il resto brecciolino. Che fa scivolare.
Vent'anni prima avrebbe pagato per un posto come questo dove venire a riposare le
ossa, ora a malapena aveva ossa da riposare e si trascinava lungo le giornate tutte
uguali con un'idea fissa. Fortunatamente era troppo vigliacco per considerarla davvero.
Ogni giorno smetteva di fumare, verso le dieci di sera, ma la mattina se ne dimenticava, per cui estrasse dal taschino della giacca il pacchetto morbido. Si fermò su uno
slargo della strada che porta in centro, accese una sigaretta guardando i cardi che
da soli svettavano sui cespugli di rovi. La prima boccata fa girare la testa a chiunque,
sentì cedere le ginocchia e dovette sedersi.
Guardava per terra. Se negli anni avesse segnato la ghiaia, si sarebbe accorto che
ogni sasso non si era spostato più di qualche centimetro dalla prima volta che aveva
percorso quella strada. In bicicletta. Gli era sembrata una buona idea, ma ben presto
aveva scoperto che la salita non era poi così leggera, quindi l'aveva depositata a far
ruggine sotto la finestra dello studio. Ora andava a piedi.
Finita la sigaretta, gli ci vollero due minuti e sedici secondi per poter riprendere a
camminare. Arrivato in cima al dislivello, non si fermò per guardare il panorama, lo
aveva fatto un paio di volte e aveva scoperto che non faceva altro che insinuargli nel
petto un senso di tristezza di cui non aveva bisogno. Iniziò a scendere. Case bianche
da cartolina, cielo terso e tranquillo, non una macchina, non un suono se non quello
delle onde sulla scogliera. Una desolazione devastante alla quale aveva fatto l'abitudine a fatica.
Il bar era aperto. Per gli operai che avevano lavorato di notte sull'unica strada asfaltata che attraversava l'isola e adesso smontavano il turno. Erano in cinque, Marcello
li conosceva tutti di vista. Accennarono un saluto. Lui salutò la barista.
Mentre aspettava che il fondo si depositasse, con la pazienza di chi ha dovuto impararla, gli venne in mente quanto fosse facile prendere un caffè a Roma. Sulla strada
per andare agli studi. Un gesto rituale, ripetitivo, veloce. Ora ci volevano tra i cinque
minuti e uno e i cinque minuti e sei solo perché il caffè fosse bevibile. Ma la cosa che
lo infastidiva di più era che tutta questa lentezza sembrava volersi adeguare alla sua
età. E se c'era una cosa che non poteva tollerare, era che l'ambiente esterno si per-
64
mettesse di ricordargli quanti anni aveva.
Guardò la barista, una bella donna sulla quarantina, il profilo marcato tipico delle
donne greche, capelli neri, occhi neri, solo un accenno di trucco. Un tempo le
avrebbe sorriso, forse un secolo fa, e lei si sarebbe sciolta come neve al sole.
Tornò a guardare la tazzina.
Gli operai, seduti a un tavolino dietro le sue spalle, non parlavano. Uno di loro leggeva un quotidiano, gli altri sembravano tutti sul punto di addormentarsi. Quello
con il giornale lo appoggiò al tavolo e lo richiuse con calma, quasi con perizia. Si
alzò, scostò la sedia e venne al bancone.
«Tesseris cafè, parakalò.»
«Duo ogdonta.»
Pagò per tutti, nessuno fece una piega.
«Eukaristò.»
«Kaliméra.»
Tornò al tavolo, batté con le nocche chiuse sul piano accanto a uno dei suoi colleghi.
«Aurìo.»
Alcuni accennarono un saluto, uno di loro prese il giornale e cominciò a sfogliarlo.
Con dedizione. Una dedizione soffocante.
Iniziava a fare caldo e Marcello, in camicia e pantaloni di lino, scarpe comode, la
cintura che stringeva sui fianchi e la schiena stanca, si sporse in avanti, prese il
recipiente dello zucchero, di quelli col dosatore, e ne versò una generosa quantità
nella tazzina. Mescolò. Parte del fondo tornò a galla per poi ridepositarsi quasi subito.
«Posso usare il telefono?»
La barista gli passò un cordless. Sorrise, probabilmente quella era l'unica frase
che conosceva in italiano, Marcello la ripeteva quasi tutti i giorni e quasi sempre
alla stessa ora. Il telefono rimase appoggiato al bancone un minuto esatto, tempo
di tastarsi il polso sinistro e contare fino a sessanta. Tutto bene. Prefisso internazionale, prefisso, numero. Routine, routine, routine.
2
26 Agosto 1962
«Merkele, quali sono le sue aspettative per questa ventisettesima edizione?»
«Dovrei avere delle aspettative? Vedo molta di gente vestita bene, sicuramente il
buffet sarà all'altezza.»
Risate.
«Lei si presenta con Sergio Straniero. Antonino ha avuto una tiepida accoglienza
nelle sale, e la competizione quest'anno è agguerrita. Non ha paura che Venezia
segni l'inizio del declino?»
«Straniero è un genio, oltre che uno dei miei più cari amici. E il pubblico non ha
mai influenzato Venezia. Conta quello che pensano qui, non nelle sale.»
65
Brusio.
«Cosa risponde a chi l'ha accusata di aver perso il criterio nella scelta dei ruoli?
Gli intellettuali sono rimasti infastiditi dalle sue recenti apparizioni in pellicole comiche.»
«Sono un attore.»
«Questo lo sappiamo, ma non ha paura di perdere il suo pubblico di affezionati, voltandogli
le spalle?»
«Non sono io a voltarle a loro ma loro a me. Essere intellettuali non vuol dire essere noiosi, consiglierei ai miei affezionati di farsi quattro risate di tanto in tanto.»
«È qui con sua moglie, Merkele?»
«Cosa?»
«È qui con Betta Reisenstein?»
«Mia moglie è impegnata nelle riprese a Saint Tropez. Se vuole chiedermi un appuntamento, le consiglio di contattarmi in privato, però. In questa sede mi vedo
costretto a declinare.»
Risate, ancora.
«È la sua terza moglie?»
«Come? Non la sento.»
«È la sua terza moglie? Alcuni sostengono che lei fosse già sposato prima di conoscere Emma Pagani.»
«Nessuno ha domande sul mio film?»
«C'è chi sostiene che non basti più Marcello Merkele a sollevare la qualità di una
pellicola. Dicono che abbia perso lo smalto.»
«È una domanda?»
«Sì.»
«La domanda sarebbe se io ho perso lo smalto, se non mi sento più in grado di
recitare?»
«Possono capitare momenti di scarsa lucidità.»
«Lei ha visto il film?»
«Sì.»
«Come lo ha trovato?»
«Molto divertente, però Straniero ha...»
«Tanto basta, grazie a tutti.»
Brusio, ancora.
«Aspetti, Marcello!»
«…»
«Marcello!»
Si alza, il microfono resta solo.
«Cani schifosi, si riempiono la bocca di stronzate.»
«Tranquillo, lo fanno perché gli metti soggezione.»
«Soggezione un cazzo. Fammi mandare su una bottiglia di Cointreau e una confezione di paracetamolo. La schiena mi sta uccidendo.»
66
3
16 Giugno 2007
Il televisore avrà avuto almeno dieci anni, a tubo catodico, grande come un armadio, pesante come un macigno, ma tanto nessuno lo avrebbe spostato. Mentre il
nastro della cassetta girava nascosto dal frontalino del videoregistratore, emetteva
un suono sinistro, un fruscio che per chi era distratto dalle immagini suonava come
un sibilo animalesco. L'audio non era necessario, Marcello conosceva la scena a
memoria.
La stanza era illuminata solo dalla luce intermittente delle immagini. Grigia e orgogliosa arrivava a baciare la libreria colma di volumi mai aperti, scaffale per scaffale. Tutti tranne quello più in basso, tenuto in ombra dalla poltrona di pelle
marrone, con i suoi faldoni stropicciati di documenti e articoli di giornale, rilegati
come una reliquia pagana. Odore di ricordi e di carta ingiallita.
Il colore dei pantaloni di raso bordeaux a coste del pigiama andava e veniva, così
come quello della vestaglia. Niente calzini, ciabatte chiuse. Nessuno lo aveva mai
visto così, nemmeno Varessa era autorizzata a entrare nello studio dopo le nove
di sera.
Spostò il posacenere sul bracciolo sinistro, spense il mozzicone quando ormai
non c'era più nulla da fumare. Si accarezzò una guancia col dorso della mano, la
barba gli dava ancora fastidio ma ormai era abituato alla ruvidità crespa e bianca
che gli gonfiava la faccia. Cercava di tenerla in ordine, perlomeno. Aveva gli occhi
lucidi ma l'espressione dura, non si commuoveva più, non sentiva più niente nel
petto. Il se stesso dello schermo sorrideva, non era lui la figura derelitta e sfatta
dall'altra parte del vetro.
Si chinò in avanti per prendere il telecomando, avanzamento veloce fino al volto
di Anna Magnani. Il suo sorriso e le occhiaie lo facevano sentire meno solo, come
se avesse avuto una complice da qualche parte che lo capiva, che apparteneva a
entrambi i suoi mondi.
«Non toglietemi nemmeno una delle rughe, ci ho messo tanti anni per averle.»
Retorica. Ma adesso avrebbe voluto saperlo dire lui. Stop. Si alzò.
Una volta spento il televisore, la poca luce sparì del tutto, ma conosceva l'ambiente, poteva muoversi anche al buio. Riordinò a memoria gli oggetti sulla poltrona, prese in mano il posacenere e lo svuotò nel cestino accanto alla scrivania.
Strisciando i piedi, raggiunse la porta. Varessa stava già dormendo, dovevano essere almeno le undici. E in Italia? Un’ora in meno. Tutto bene. Tolse la vestaglia e
l'appese accanto alla testata del letto, si sedette. Non aveva più sonno da molto
tempo, guardò sul comodino e riconobbe la confezione di Roipnol dalla sagoma
familiare, bombata. Decise che era presto. Varessa respirò troppo a fondo per essere
profondamente addormentata.
«Hai fumato?»
«Fumo di continuo.»
«Non dovresti, agàpe.»
«Non dovrei fare un sacco di cose. Non ho per niente sonno.»
67
«Sdraiati e concentrati, il sonno arriva poi.»
Marcello tossì, Varessa sospirò.
«Sono vecchio.»
«Sono vecchia anch'io, ma non lo ripeto di continuo.»
«Non me lo voglio dimenticare.»
«Però così lo ricordi a me.»
Si sdraiò sopra le lenzuola ma tenne gli occhi aperti, lei era sdraiata sul fianco sinistro. Mise le mani in grembo, poi le spostò sul petto. Pensò di nuovo al Roipnol.
Ancora cinque minuti.
4
18 Giugno 2007
Eduardo Baum, un tempo analista, non si preoccupava di apparire ridicolo in calzoni corti, canottiera e calze fino al ginocchio. Aveva smesso di indossare i completi da vent'anni, da quando non ce n'era più nessuna necessità, nessun paziente,
nessun appuntamento. Lo studio di via Armorari era ormai sfitto, e i libri che aveva
contenuto, centinaia, dormicchiavano impolverati in una cantina greca, accanto ai
barili di olive. Non ne sentiva la mancanza, e se capitava di sentirla scendeva nella
cantina, li guardava dalla giusta distanza per coglierli tutti, pescava un'oliva nera
e salata e ritornava verso il mare masticando. Tutto bene, in fondo.
«Merkele.»
«Dottore, sai che non devi chiamarmi così.»
«E tu sai che non sono più un dottore, siamo pari.»
Marcello guardava il mare dal terrazzino del ristorante. Bianco. Il terrazzino, non
il mare, il mare era azzurro intenso e gli metteva una grande tristezza. Ma non
c'era nulla che non gli mettesse tristezza ultimamente, perlomeno il mare sembrava fare il suo dovere.
«Se non sei più un dottore, dovresti smetterla di analizzarmi.»
«Deformazione professionale, suppongo. Mi appassionano i casi patologici reiterati.»
«E a me appassionano le donne che hanno un quarto dei miei anni. Non sempre
si può avere quello che si vuole.»
Girò il bicchiere nella mano, la salsedine lo aveva opacizzato.
«Quante mogli hai avuto?»
«Quattro.»
«Le hai amate tutte?»
«Loro amavano me, ma era facile amarmi. Così com’era impossibile per me innamorarmi. Mi invaghivo, ma mi stancavo presto.»
«Vuoi parlarmene?»
«No, non voglio parlartene. Sono anni che cerchi di farmi parlare e sono anni che
cerco di dissuaderti.»
«Dovresti smetterla, accettare il fallimento e liberarti una volta per tutte. Ho parlato
68
con tua sorella.»
«Anch'io. Ti ha detto della sceneggiatura?»
«Sì. Non fa per te.»
«lo penso anch'io. E allora perché sono qui a fissare il mare al tramonto come un
vecchio stronzo malinconico?»
«Mi è stato suggerito di smettere di analizzarti. Scelgo di seguire il suggerimento.»
«Vigliacco. Che ore sono?»
«Le otto e mezza.»
«Controllavo che fosse tutto a posto.»
«Hai fatto bene.»
Marcello tossì, una tosse profonda, ancestrale. Dovette inspirare a fondo.
«Vedo il mare a pallini.»
«Sfuocato?»
«No, a pallini. Come il segnale statico della televisione.»
«E i colori?»
«I colori ci sono, ma non sono uniformi.»
«È normale, l'importante è che tu veda i colori. E non sforzare la vista.»
«Perché dovrei? La cosa più distante da vedere su quest'isola è comunque a cento metri
dal mio naso.»
«Non hai più quarant'anni.»
«Ma non posso averne di più. Ho scelto di fermarmi.»
«Non hai informato il resto del corpo, però. Cadi a pezzi.»
Eduardo aveva le gambe accavallate, Marcello distese davanti a sé. Non serviva
che parlassero veramente per dirsi quello che dovevano. In tanti anni di amicizia,
quella era la prima volta che avevano veramente qualcosa su cui riflettere. Ognuno
per conto suo, ognuno con i suoi motivi che inesorabilmente andavano a incrociarsi con quelli dell'altro.
I turisti avevano affollato il ristorante tutto d'un tratto. Erano arrivati in massa dalla
spiaggia, chiassosi, caotici, fuori luogo. Specialmente italiani e americani, ma
anche francesi e russi. Nessun greco. Si sedevano ai tavoli, cercavano di accaparrarsi quelli più vicini al parapetto. Chi non trovava un posto a sedere si accalcava intorno al bancone, come se fossero a digiuno da due settimane. Una scena
pietosa, anche per Marcello che non la stava guardando, ma la sentiva e ormai la
conosceva a memoria.
«Sembrano profughi, non sembra gente in vacanza.»
«Sei cinico oggi, Marcello, hai deciso finalmente di abbracciare lo stereotipo dell'anziano
brontolone?»
«Sono riflessivo. Vedi se riesci a procurare un'altra caraffa.»
69
70
Virginia, Carlo, Luna e Nadia erano amici ma dieci anni fa Virginia se n’è
andata senza lasciare traccia. Senza di lei, gli equilibri saltano, i ruoli e i
sentimenti si confondono.
Anche Nadia se ne va dopo qualche anno, si trasferisce a Roma con il
marito. Poi succede qualcosa, gli altri ricevono una sua mail, una richiesta
d'aiuto.
Virginia, Carlo e Luna si ritrovano a Milano da trentenni. Sono quasi degli
estranei, così diversi dalla proiezione di loro stessi da adolescenti che il
loro viaggio alla ricerca di Nadia sarà pieno di silenzio. Il segreto di Virginia fa paura a tutti, nessuno osa affrontarlo. Ma verrà fuori, quando si ritroveranno ad avere un’unica possibilità per ritrovare Nadia.
Dopo di te è tutto quello che succede quando si decide di soffocare qualcosa, perché se lo svelassimo cambierebbe così radicalmente la nostra
vita da non riconoscerla, da non farci riconoscere nemmeno più. Ed è
tutto quello che succede quando si decide di non nascondersi più, dando
la colpa alla vita, anche se non è stata lei a decidere per noi.
Loretta Patrini nasce nel 1978 a Crema. Alle elementari si dilettava con
sceneggiature per gli spettacoli con le marionette di peluche del Dixan.
Molti anni più tardi scopre Pier Vittorio Tondelli che le cambia irreparabilmente la vita. Capisce come deve scrivere, oltre a cosa.
Ha scritto dei racconti nelle pubblicazioni Nessundorma, On my shoes e
Il portiere rassicura della Macchina dei Sogni, di cui si è occupata anche
della redazione.
Ha fondato e dirige la rivista letteraria static (staticreview.wordpress.com).
Questo non è il suo primo romanzo, ma i due che ha scritto prima è meglio
che rimangano nel cassetto.
71
Dopo di te, Loretta Patrini.
“Hai creduto che ti bastasse chiudere una porta,
ma sei rimasta a guardarla per tutta la vita.”
A. Gatto
1
Le piastrelle sono fredde e il palmo umidiccio non fa presa. Spinge i polpastrelli
per bloccarsi ma è come tentare su una parete oleosa. Le unghie sono senza
smalto, sono giorni che non se lo mette più, non c’è una persona da cui vuole farsi
notare, per cui essere curata e attraente. Con la pressione la punta delle dita diventa bianca, la vede da sotto le unghie. Le righe nette delle falangi, i cinque tendini che partono dalle dita e convergono all’inizio del polso. Le mani sono
screpolate, il dorso ha delle piccole crepe bianche, la cattiva abitudine di lavarsi
le mani con l’acqua fredda.
La sua immagine riflessa così da vicino la sta fissando. Ci sono delle righette nere
appena sotto gli occhi. Ha premuto gli occhi forte e il mascara si è incollato lì sotto.
Ha il trucco colato e le unghie senza smalto ma il rossetto è ancora intatto. Cattivissimo segno. È quello che la frega, che spegne il suo interruttore.
Non sta guardando lui ma se stessa. Il gioco davanti allo specchio è iniziato tempo
prima ma ha smesso di essere divertente già da un po’. Non fa altro che guardarsi
negli occhi, vuole riconoscere qualcosa. Cerca qualcosa che non trova. E lui dietro
che spinge è solo patetico, immerso nel suo piacere. Lo osserva dal riflesso. È un
gioco autoreferenziale per entrambi: l’uomo vede in diretta il potere che crede di
gestire, la donna l’espressione che può avere solo in quei momenti. È una curiosità
morbosa, non ha niente a che vedere con il sesso, ma solo con quello che di se
stessa non controlla.
Guardandosi le labbra il suo piacere si interrompe subito. Una passata di rosso
inutile e se ci pensa si accorge che è da un pezzo che non si baciano più.
Lui le sta mettendo le mani sui fianchi, le preme le quattro dita sotto e con il pollice
cerca di farle slittare il bacino in fuori, nella sua direzione. Lei lo asseconda e lo
guarda, lui fa un accenno di sorriso e continua. Non è possibile che lui non si renda
conto che nessuno dei suoi muscoli sia più in tensione e che stia scopando senza
di lei. Lui chiude gli occhi e butta la testa indietro, non è più nemmeno nello specchio con lei, è proprio uno che si sta scopando una qualsiasi.
E la sua è una posizione piuttosto scomoda. Se non la sfrutti per il sesso non è
che ti metteresti proprio così davanti allo specchio.
Quando il telefono squilla si distrae subito, perché ha le suonerie personalizzate
e sa chi la sta chiamando. Rimane a contare gli squilli, sa che ce ne saranno nove
prima che cada la linea. Se una persona ti cerca senza fretta magari aspetta solo
fino al quinto o al sesto. Quando il nono si interrompe capisce che c’è qualcosa
che non va. Il telefono ricomincia a squillare. Con una mano lo scosta all’indietro
facendolo uscire. Lui spalanca gli occhi, prova ad accennare qualcosa ma non fa
in tempo, perché lei scappa nell’altra stanza.
72
«Carlo» la sente dire.
Ha interrotto la sua scopata per rispondere a un altro.
Quando torna nemmeno lo guarda, raccoglie i suoi slip da terra e li lancia nel cesto
della biancheria sporca, entra nella doccia dicendogli:
«Te ne devi andare.»
«Come, scusa?»
Luna solleva la manopola della doccia facendo uscire il getto al massimo. Parla al
di sopra dell’acqua.
«Tesoro, finito, almeno per me. Tu se vuoi finiscitela da solo, ma non in casa mia»
chiude gli occhi e si butta sotto l’acqua calda. Gli sente dire: «Sei davvero una
troia!»
Resta ad ascoltare i suoi movimenti con gli occhi chiusi, solo quando sente sbattere la porta li riapre.
Non si lava mai i capelli sotto la doccia, lo fa sempre a parte, perché detesta avere
capelli ovunque quando si deve asciugare, ma stavolta butta sotto anche la testa.
Carlo le ha chiesto se ha visto la mail. Gliel’ha letta e le ha chiesto di incontrarsi
appena possono. Le viene da piangere, perché ha paura e non le piace per niente
non sapere di cosa avere paura. Appoggia una mano alle piastrelle, stavolta senza
fare pressione, senza dita bianche sotto le unghie e tendini tirati. Lava via tutto
l’odore di quello lì che ha appena mandato via, il suo riflesso nello specchio che
non riconosce più, il mascara che non farà più colare senza piacere. Si strofina
nei punti in cui l’ha toccata facendo arrossare la pelle.
Fuori dalla doccia nota subito che lui ha lasciato di proposito il preservativo usato
per terra. Voleva farla inginocchiare a raccoglierlo ma lei sorride, perché è l’ultima
volta che si inginocchia per lui.
2
Virginia legge il nome del mittente e ha come l’impressione che qualcuno le abbia
lanciato addosso una secchiata di cubetti di ghiaccio senza avvertirla. Sente i capelli che le si drizzano sulla nuca e d’istinto si mette una mano in testa come se
stessero per staccarsi tutti. Il cuore le sbatte contro la laringe. Lo sente ovunque,
sembra che voglia uscire dall’ombelico.
La distrazione, deve cercare la distrazione. Muove gli occhi a destra e a sinistra
per focalizzarsi su qualcuno. La hostess sta picchiettando qualcosa al computer.
Un po’ guarda le sue dita e un po’ i tasti, come se non fosse sicura di scrivere tutto
correttamente. Alza la cornetta di un telefono grigio con il filo di plastica arrotolato
a spirale, come quelli dei vecchi telefoni con la rotella, che se sbagliavi l’ultimo numero dovevi ripetere tutto daccapo ed era una gran rottura di palle.
Pigia un tasto e rimane in attesa facendo un lungo sospiro. Le sue labbra sembrano dire solo ok, prima rimettere la cornetta al suo posto.
Ha sempre pensato che le hostess non abbiano una vita propria, che siano solo
dei meccanismi robotici posti in uno spazio vuoto per far salire i passeggeri sugli
aerei. Anche le sale d’imbarco le fanno lo stesso effetto.
La gente è seduta ad aspettare, sulle loro facce c’è stampata solo l’attesa. La
73
maggior parte di loro ha lo sguardo imbambolato a terra. Anche se alcuni parlano,
in realtà non stanno dicendo niente, cercano solo di riempire un po’ quello spazio
vuoto. Chi è in partenza sembra non abbia mai niente da dire o da pensare.
Ci sono tre bambini che giocano con un palloncino verde. Ridacchiano saltando,
non hanno la minima coordinazione nel colpirlo al momento giusto. Non appena
distoglie lo sguardo sente uno “Sciaf!” seguito da un’esplosione di pianto. Uno dei
tre bambini è sdraiato per terra e sembra aver sbattuto una guancia. La sua
mamma accorre, ma invece di consolarlo lo rimprovera con un accento bavarese
fortissimo. Il bambino prova a frignare un po’ ma quando vede che nessuno ha intenzione di compatirlo la smette. Gli altri due sono rimasti a osservare la scena in
silenzio. Quello con in mano il palloncino verde fa spallucce e lo tira all’altro che
glielo rimanda. Il gioco ricomincia, tragedia finita.
Manca quasi mezz’ora all’imbarco e il tempo sembra fermo. Apre lo zaino e ci
guarda dentro. Tutto il suo contenuto in quel momento diventa improvvisamente
interessante. C’è la sua Canon e ci sono i suoi libri, il suo taccuino arancione e il
suo astuccio. I fazzoletti di carta che profumano di menta e la guida della città. Fa
per estrarre la guida e sollevandola scorge il libro appoggiato. Rimane un attimo
lì sospesa a fissare il pezzo di copertina al contrario che riesce a vedere, poi molla
la guida e prende il libro. Si intitola “Il buio della notte” e ogni volta che lo legge si
ripete che è un titolo davvero banale.
«La recensione per venerdì. Sii clemente, è la nipote dell’editore.»
Clemente. Non era mai stata clemente in vita sua e il suo capo la apprezzava proprio per questo.
La scrittrice si chiamava Anja von Geller, aveva ventisette anni e due settimane
prima l’aveva invasa con i racconti del suo viaggio australiano, da cui aveva trovato
l’ispirazione per scrivere quel libro. Lei l’aveva fissata per un quarto d’ora ma dopo
qualche minuto aveva smesso di ascoltarla. Muoveva impercettibilmente la testa
verso un sì per dare l’aria di essere attenta e sorrideva quando Anja sorrideva,
spalancando gli occhi con un po’ troppa enfasi.
A un certo punto Anja le aveva chiesto:
«E tu?»
«…Eh?»
«Tu, dico. Non scrivi?»
Lei era rimasta in silenzio un attimo, strofinandosi la falange del pollice contro
quella del medio.
«…Sì. In realtà l’ho sempre fatto.» E si era pentita immediatamente di averglielo
detto.
«Ah sì? E cosa?»
Non aveva per niente voglia di parlarne. Avrebbe potuto tagliare corto dicendole
che scriveva cose da nulla ma non ci era riuscita. Le poche volte che parlava delle
cose che scriveva si sentiva costretta a non mentire.
«Anni fa ho scritto delle cose. Ma adesso le trovo imbarazzanti.»
Anja von Geller aveva ridacchiato. Cosa c’era da ridacchiare?
«Ero un po’ giovane» si era giustificata, «e forse un po’ troppo convinta.»
«Lo siamo stati tutti, ma va bene così.»
74
Situazione molto retorica.
«E dopo? Non hai più scritto altro?»
«No, in realtà no.»
«E come mai?»
Si stava sentendo un po’ troppo l’intervistata e trovava la von Geller invadente,
anche se in realtà le aveva posto solo una semplice domanda. Ma quando eviti di
trovare la risposta semplice alle domande semplici, allora quelle domande diventano un colpo diretto, quasi peggio di un’accusa.
Rilegge il nome dell’autrice in copertina e sospira. Puoi distrarti fino a un certo
punto ma poi l’accusa ti arriva diretta addosso e te la devi prendere per forza.
Abbassa gli occhi sul palmare e scorge gli altri due destinatari in copia.
La mail dice soltanto quello.
3
Carlo è appoggiato alla portiera della sua macchina. Ha lo sguardo fisso a terra, i
capelli lisci lunghi fino alle spalle gli cadono in avanti. Guarda la sigaretta spenta
che ha tra le dita, la gira di qua e di là come se nascondesse un segreto. Gli sembra di tremare, che non sia possibile. Ha passato anni in attesa che quel momento
arrivasse e adesso non si sente più così sicuro.
Sente il passo di Luna avvicinarsi ma non osa alzare la testa. Lei si ferma davanti
a lui.
«Mi sembrava che avessi smesso» gli dice lei.
Lui la guarda. Luna è truccata, vestita e pettinata come una che lavora in banca.
L’impiegata perfetta, quella a cui tutti porterebbero il loro salvadanaio per farselo
tenere al sicuro.
«Quando sono nervoso ne tengo una in mano, a volte faccio anche finta di aspirare. Se tengo tra le labbra il filtro mi tranquillizzo.»
«Pare che oggi tu non l’abbia tenuta ancora tra le labbra.»
Lui fa un riso forzato, in realtà butta fuori solo aria dal naso e solleva un po’ le
spalle.
«Io ho bisogno di bere.»
È un po’ presto per l’aperitivo ma Luna è una che non si è mai fatta troppi problemi.
Si sta mangiando tutte le olive che il cameriere ha portato. Gli indica la ciotola per
invitarlo a prenderne una, ma lui alza la mano rifiutando.
«Cosa ne pensi?» le chiede lui.
«Ti sembra una domanda sensata?»
«Cercavo solo di capire, magari tu non stai subendo un blackout.»
«Più che blackout mi sento un grosso punto di domanda che mi lampeggia sopra
la testa.»
«Ecco, giusto.»
«Cosa ne pensa la tua ragazza?»
«Non lo sa. E non credo le interesserebbe.»
Alza gli occhi su di lui e lascia in pace le olive:
75
«Tu credi? Nemmeno se dovessimo partire?»
«Non essere ridicola, Luna… e per dove?»
«Ad esempio all’indirizzo che abbiamo.»
«Certo, ci mettiamo lo zaino in spalla e partiamo per un bell’on the road.»
«Perché non dici che il tuo vero problema non è la mail di Nadia ma il fatto che
potrebbe ricomparire Virginia nella tua vita?»
«Virginia non ricomparirà mai.»
«Non è possibile che tu non voglia mai parlare di lei.»
«Non c’è niente da dire.»
«Sì, invece.»
«No! Invece.»
«Non hai la stessa reazione quando parli di Nadia.»
«Nadia ha scelto quello che era giusto per lei. Ora non devo essere io ad andare
a salvarla dalle sue scelte sbagliate.»
Carlo si alza.
«Siediti…»
«Non sono più affari miei da moltissimo tempo. Ho la mia vita. Ho una ragazza…
»
«Che non ami» taglia corto Luna, e si beve l’ultimo sorso del suo spritz, guardandolo negli occhi. Posa il bicchiere sul tavolo con attenzione, per non fargli fare rumore.
Carlo ripensa a quand’erano adolescenti. La schiettezza di Luna gli dava sempre
fastidio, lo faceva subito infiammare. Lei invece rimaneva impassibile e la sua
calma non faceva altro che alimentare il suo fastidio. Adesso sapeva di non potersela più prendere con lei, non quando diceva la verità.
«Devo andare» Carlo sfila la giacca dallo schienale della sedia e se la mette.
«C’è qualcosa che tu non mi hai mai detto. Che voi tre non mi avete mai detto.
Guarda che non sono stupida» dice Luna fissando l’interno del suo bicchiere
vuoto.
Lui rimane paralizzato e non riesce a nasconderlo in tempo. Sta per darle modo
di interrogarlo ma lei rialza la testa e dice soltanto:
«Faresti meglio ad accendertela quella sigaretta.»
C’è stato un periodo in cui avrebbe voluto sapere, invece ha sempre fatto finta di
niente. Luna non ha mai chiesto niente a nessuno in realtà, piuttosto ha sempre
detto in faccia ciò che pensa, che non si è mai basato su qualcosa che non sa. La
sua è una discrezione schietta: io mi faccio gli affari miei, ma quello che penso te
lo dico.
È una cosa che più o meno tutti apprezzano, perlomeno le persone non ipocrite.
È la prima volta che si ritrova a svelare una sua curiosità. Anche se non ha formulato una domanda il punto è lo stesso.
Carlo è il suo migliore amico dai tempi del liceo. Lei gli faceva copiare latino, lui le
faceva copiare matematica. Lei gli ha sempre raccontato tutto senza che lui le
chiedesse niente e gli ha sempre detto cosa pensava di lui, anche quando lui non
le raccontava niente.
76
Un pomeriggio aveva preso in prestito il libro di Carlo con i suoi appunti sulla seconda guerra mondiale. Aveva deciso di portare storia come seconda materia alla
maturità. Una fotografia era scivolata per terra con l’immagine rivolta verso terra.
Non aveva nemmeno fatto in tempo a vedere chi ci fosse fotografato sopra, perché
Carlo era stato velocissimo a raccoglierla.
«Guarda che lo so chi è» gli aveva detto.
Lui aveva guardato la fotografia e aveva quell’espressione di ogni volta che lei gli
centrava un pensiero.
«Ma sono affari vostri» aveva aggiunto.
Carlo aveva appoggiato la foto sul tavolo. Virginia sorrideva con lo sguardo basso,
teneva in mano una margherita. Ogni anno, quando arrivava la primavera, prendevano il sole tutti e quattro nel cortile di Nadia. Sua madre faceva delle focacce
al rosmarino buonissime.
Un mese dopo il giorno di quella foto si erano diplomati.
E Virginia era sparita.
4
È soltanto un altro stupido Natale ed è già passato, in realtà, da due giorni. Ma
quando detesti qualcosa sembra che duri ancora di più, infesti l’anima e rallenti
l’orologio.
Giù in strada il silenzio tirerebbe scemo anche un guru dello yoga.
C’è un orologio digitale attaccato alla parete, Luna non sopporta il ticchettio dei
secondi. Ma se ci fosse adesso le sembrerebbe di sentirlo una volta ogni cinque.
Ha chiesto a tutti di non farle gli auguri e quando si è svegliata la mattina del 25
ha acceso il cellulare, ha aspettato, ma non è arrivato niente. Ha sollevato un po’
la testa, come se la suoneria non si sentisse da sdraiati, poi l’ha ributtata sul cuscino. Quando chiedi cose del genere nessuno ti dà retta, si sarebbe aspettata
quegli sms tipo: “So che non ami il Natale ma ti voglio bene e oggi ci tenevo a dirtelo”, oppure quegli orrendi messaggi retorici inviati con una pigiata di pollice a
tutta la rubrica.
E invece niente, e ci è quasi rimasta male.
Il suo silenzio, lo ha sempre detto, è il suo controllo. La vita è rumorosa, ma in
casa non vuole sentire niente. Non ha una tv e nemmeno uno stereo con una
radio, può sentirla sul cellulare quella, ma non lo fa mai. Ci ha provato, una volta
le si è rotto l’altoparlante, non sentiva la voce dell’interlocutore e doveva per forza
usare l’auricolare. Aveva scoperto che la radio si poteva ascoltare solo con quello,
così l’ha attivata, ma dopo soli due giorni si è resa conto di pedalare per chilometri
attraverso la città con i suoi pensieri sintonizzati su altro che non fosse la radio.
La televisione non la vede più da qualche anno, senza un motivo ben preciso.
Luna ha smesso di fare tante cose, come ascoltare le persone. Perché la annoiano, non ha altri motivi nemmeno per questo.
Ha iniziato a leggere furiosamente e a seguire serie tv. Guarda anche una decina
di episodi al giorno durante il weekend. Carlo le ripete di continuo che non è sano
e anche se lei non lo ammette in fondo lo sa, ma non riesce proprio a smettere.
77
Ha trovato un modo per stare dentro il più possibile alla storia di qualcun altro.
Quando si alza dal letto è già mezzogiorno. Mette il latte a scaldare con due cucchiaini di zucchero. A parte trita il cacao con il caffè solubile e la cannella. Torna a
letto con la sua tazza e la piccola stanza da letto prende un altro profumo.
Il suo computer è acceso, di notte scarica gli ultimi episodi. Non è arrivata nessuna
mail notturna. Nel programma di posta tiene perfettamente ordinate tutte le cartelle
dei suoi contatti. Non fa in tempo ad arrivare una nuova mail che già la sposta
nella cartella. In questo modo ha sempre la cartella di posta in arrivo vuota. Sono
giorni però che la cartella è piena di una mail di una persona che nella sua vita
non c’è più da un bel po’ di tempo. La tiene lì, non saprebbe nemmeno dove spostarla, perché non c’è una cartella apposta per lei. La potrebbe creare, ma non è
questo il punto. Il punto è che non vuole archiviare Virginia come tutti gli altri. Continua a riaprire quella mail e a rileggere quella riga. È Nadia che l’ha scritta, ma è
a Virginia che Luna pensa.
Carlo non vuole averne niente a che fare.
Non si sono fatti gli auguri, Luna non è andata a pranzo dalla famiglia di Carlo
come negli ultimi anni. È rimasta a casa da sola a trovare le parole per chiedergli
scusa, anche se sa di avergli detto la verità.
Ha tenuto la mail di Nadia aperta per un giorno intero. Ci ha camminato avanti e
indietro con il suo caffelatte alla cannella. Ha pensato di rispondere a Nadia e in
contemporanea a Virginia e Carlo, ma lui si sarebbe arrabbiato. Avrebbe potuto
scrivere solo a Nadia ma le viene difficile. Cosa si potrebbe mai scrivere a una
persona che ti chiede aiuto quando è sull’orlo del precipizio? Come stai? E non
vuole risponderle da sola.
L’ultimo numero che ha di lei è inattivo da più di due anni. Suo padre non lo vede
da altrettanto, e chiamarlo adesso è fuori discussione, è come suonare una sirena
di allarme.
Sul fondo della tazza ci sono dei grumi di caffè e cacao non sciolti. Li schiaccia
con la punta del cucchiaino.
I rami degli alberi fuori sono immobili, il sole sbatte contro i balconi del palazzo di
fronte dal terzo piano al sesto, dal secondo in giù c’è meno luce, o magari c’è ma
è una luce diversa, che mette a fuoco altro.
Luna si volta verso lo schermo, riapre la mail e gli occhi le vanno direttamente sull’indirizzo di Virginia.
È a lei che deve scrivere.
5
Elena è contenta di non aver avuto Luna tra i piedi al pranzo di Natale. Lei e la
sua spocchia, le sue frecciate, il suo ridere solo per cose che la infastidiscono.
Non si è mai spiegata come sia possibile che lei e Carlo siano tanto amici. Almeno
la giudicasse apertamente, almeno fosse una di quelle stronze che non fanno altro
che trovarti qualcosa fuori posto, come quelli che non ti vedono da un pezzo e la
prima cosa ti dicono è: «Ma come sei ingrassata!» Invece la ignora. Non fa nemmeno finta di salutarla col sorriso quando la incontra. Se Carlo non è totalmente
78
in sintonia con lei è colpa di quella Luna storta.
È il primo Natale senza di lei ma il padre di Carlo, alla fine del pranzo, non ce la
fa a non evocarla.
«Adesso ci vorrebbe proprio una bella torta di Luna.»
Sua moglie è in piedi che sta sparecchiando e non fa in tempo a dargli una gomitata.
«Elena ha fatto il tiramisù» dice.
«Oh, bene.» Suo padre si strofina le mani contento, non coglie il disagio che ha
creato.
«Quindi? Perché non è venuta quella che non si abbasserebbe mai a fare un banale tiramisù?» gli chiede Elena in macchina, di ritorno a casa.
«Abbiamo litigato» Carlo non ha nemmeno più voglia di fingere.
«Ma smettila, voi non litigate mai. E alla scusa dell’influenza ci possono credere
solo i tuoi.»
Carlo sta guidando ma si gira a guardarla male, ha appena dato indirettamente
degli idioti ai suoi genitori.
«Se fossi mancata io non l’avrebbero menata tanto.»
«Non fare la vittima.»
«Perché devi sempre farmi sentire così?»
«Perché devi sempre fare così?»
Ma Elena è già partita e non la ferma più.
«Quando c’è lei mi sembra di non essere una coppia ma un cazzo di trio, in cui mi
sento il numero tre non perfetto. Quando non c’è per i tuoi è come se tu fossi single, o come se tu avessi lasciato la fidanzata a casa, che sembro non essere io.»
Carlo sospira e non risponde.
«Silenzio, come sempre.»
«Elena, dici sempre le stesse cose.»
Lei alza la voce: «Certo, io sono solo quella che ti rompe i coglioni. Perché allora
non stai con lei?»
«Non urlare.»
«Perché non ti togli il disturbo di portare due persone a pranzo dai tuoi, invece di
una?»
«Non. Urlare.»
Elena, che si era spinta in avanti verso il cruscotto, torna a sbattere la schiena
contro il sedile.
«Mi chiedo se anche quando mi scopi in realtà non desideri scoparti lei. O magari
quando sono in ginocchio speri di sbatterlo in bocca a lei» lo dice senza più alzare
la voce, a cui seguono tre, quattro secondi immobili.
Carlo dà un’occhiata veloce al retrovisore, vede che non c’è nessuno, stringe tra
i pugni il volante fino a sentire compressi sulla pelle le palline di gomma della fodera, poi spinge il piede sul freno come non ha mai fatto prima. Le gomme si immobilizzano e fischiano fortissimo, la macchina sbanda ed Elena finisce urlando
con una spalla contro la portiera.
Carlo ha ancora le mani strette sul volante, i piedi ancora schiacciati sul freno e la
79
frizione, quasi abbia paura che la macchina possa ripartire da sola.
«Scendi» le dice con calma.
«Cosa?» Elena è incredula per la sua voce così pacata.
«Scendi.»
«Non fare la testa di cazzo…»
Carlo non ha ancora schiodato lo sguardo dal vetro davanti.
«Elena. Scendi.»
Lei lo fa senza dire altro. Slaccia la cintura, raccoglie la sua borsa e la teglia che
ha comprato apposta per fare il tiramisù, e scende. Non sbatte la portiera, è spaventata.
Carlo riparte subito senza guardarla, non la osserva nemmeno dal retrovisore. Sa
di essere riuscito a farla star zitta per una volta, ma non le interessa guardarla.
A casa accende la tv ma la guarda un attimo e la trova subito noiosa. Gli sembra
di avere di fronte Elena. Non saprebbe dire quando ha smesso di ascoltarla, di
guardarla negli occhi sentendo la sua voce al rallentatore, sempre più ovattata.
Quando ha smesso di fingere di averla mai amata. E non sa cos’ha fatto stasera,
se l’ha lasciata soltanto per la strada o l’ha anche lasciata davvero.
Due giorni prima Luna gli ha urlato dietro per la prima volta nella sua vita. Ha provato di nuovo a tirare fuori il discorso di Nadia e Virginia ma lui l’ha fermata subito.
Lei ha reagito con un’aggressività mai vista, mai nei suoi confronti. Elena ha ragione su una cosa, lui e Luna non hanno mai litigato. Ma stavolta gli ha detto tutto
quello che pensa in modo così chiaro che lui ha potuto difendersi solo con la rabbia.
6
“Sto vedendo questa serie tv canadese che si chiama ‘Being Erica’, dove la protagonista è una ragazza di trentadue anni che un giorno incontra un tipo strano
che si spaccia per un analista, che le fa compilare una lista di rimpianti, e a ogni
episodio la fa tornare indietro nel tempo per rivivere la situazione che rimpiange,
per sistemarla – o come dicono gli inglesi: ‘to fix’ che è un verbo che adoro – anche
se il passato non si può cambiare, o soltanto per capire perché sia andata così.
Vederlo è terapeutico, in più questo dottor Tom per ogni situazione ha pronto un
aforisma che vale più di qualsiasi predica. Va diretto al punto, non riuscirei mai a
essere così neppure io, a meno che non diventi una sorta di libro di citazioni ambulante, esprimendomi solo con quelle. Ma credo che dopo un po’ risulterebbe noioso persino a me.
Tutto questo per dirti che l’altro giorno ho provato a stilare una mia lista di rimpianti,
anche senza nessun dottor Tom che mi consenta di viaggiare nel tempo. E non ci
sono riuscita. Non perché non ne abbia, anzi. È solo che il primo rimpianto che mi
veniva in mente era talmente forte da cancellare quelli successivi.
Il mio più grande rimpianto sei tu. Non avrei mai dovuto lasciarti andare via, avrei
dovuto chiederti perché stavi scappando. E anche se tu fossi andata via lo stesso,
non avrei dovuto smettere di cercarti, lasciare che tu uscissi così tanto dalla mia
vita da arrivare persino a scordare il suono della tua voce.
80
Se ci fosse un dottor Tom anche per me mi farebbe tornare indietro a quel giorno
e forse mi farebbe capire come fare a non ripetere sempre lo stesso errore: non
fermare nessuno, lasciare che le persone escano dalla mia vita senza inseguirle
mai, come se non me ne importasse niente, come se io fossi l’unica che si meriti
di essere soltanto cercata senza scomodarsi mai.
Per favore, Virginia. So che te lo sto chiedendo con dieci anni di ritardo. Ma fermati.
Per me.
Luna”
«Non so come tu faccia a bere tutto quel caffè.»
«Non mi ha mai fatto nessun effetto.»
«Sarebbe magnifico se non lo facesse a me. Non c’è momento della giornata che
io aspetti di più del primo sorso di caffè.»
Guarda divertita l’espressione schifata di Astrid davanti al suo decaffeinato del
tardo pomeriggio.
«Dovresti andare» le dice Astrid, e il suo sorriso si spegne all’istante.
«Non torno in Italia da dieci anni. Non penso nemmeno più in italiano.»
«Come se questo c’entrasse.»
Beve un altro sorso di caffè: «Non c’è niente che c’entri. Sono persone che non
vedo né sento da dieci anni.»
«Però una di loro ha bisogno di te.»
«Risponderanno gli altri due.» Virginia rialza la tazza per bere un altro sorso ma
Astrid le blocca il braccio. La tazza vacilla ma il caffè non esce.
«Una persona ti scrive “ti prego” e tu non vai perché sono passati dieci anni e ti
senti autorizzata a non esserne responsabile?»
«Astrid…»
Astrid la blocca con il palmo della mano puntato su di lei.
«Se io domani partissi e tra dieci anni tu dovessi scrivermi “ti prego”, tornerei immediatamente. E so che faresti la stessa cosa con me. Perché allora non lo fai
con questa Nadia?»
«È una lunga storia…»
«Ho tempo» risponde Astrid accomodandosi contro lo schienale e incrociando le
braccia.
Virginia guarda fuori dalla finestra. La sua bicicletta è chiusa con il lucchetto insieme a quella di Astrid. Ha chiuso con un lucchetto anche Nadia, Carlo e Luna.
Da quando vive lì non glieli ha mai nominati.
«In quella fotografia bellissima del tuo album, con altre tre persone, sei con loro,
vero?»
Annuisce.
«Quando sei arrivata qui sapevi a malapena il tedesco. Non potevo chiederti molto
di te e della tua vita ma siamo diventate amiche lo stesso. So solo che hai deciso
di fare l’università qui e di andare via dall’Italia perché avevi perso tua madre.»
«Non mi sono trasferita qui per questo.»
81
Astrid rimane senza parole, è sempre stata convinta che quello fosse l’unico motivo plausibile.
«Mi spiace. Ho solo cercato di dimenticare.»
«Sei tornata diversa da Monaco e stanotte ti ho sentita. Lo so che non hai dormito.»
«Astrid…»
«Dimmi solo se è successo qualcosa di grave dieci anni fa.»
Virginia scuote la testa, non vuole parlare. Si porta una mano alla bocca e stringe
gli occhi. Astrid le stringe il polso.
«Perché una mail ti ha sconvolta così?»
Virginia ricaccia giù le lacrime e guarda gli occhi azzurri di Astrid.
Le racconta tutto.
Le ha preparato il suo piatto preferito. Se la sua migliore amica ha una dote straordinaria è quella di afferrare i momenti negativi e trasformarli con leggerezza in
positivi.
Si preparano una tisana e Virginia la appoggia sul comodino. Astrid la saluta con
la mano per darle la buonanotte, non aggiunge altro.
Quando butta la testa sul cuscino se la sente leggera, come se l’incudine conficcata dentro fosse finalmente uscita.
Non ha deciso niente. Ha solo parlato e pianto singhiozzando fortissimo, urlando
quella parola che si ripete da anni. Un aggettivo scomodo che non riesce a lavarsi
via di dosso. Si è sempre sentita sporca di quell’aggettivo.
Descriviti con una parola, ci sono quelli che te lo chiedono. Tutti si sentono in difficoltà a rispondere. Una parola? Come si fa soltanto con una parola?
Eppure Virginia la sua la conosce benissimo.
Astrid ha ascoltato in silenzio. Non ha dato opinioni, non ha detto mi dispiace, non
le ha suggerito di fare niente, di partire o di non partire. Le ha detto soltanto che
se avesse saputo prima il suo segreto l’avrebbe costretta a toglierselo dalla testa.
Le bruciano gli occhi se prova a chiuderli, ma è esausta e non riesce a tenerli
aperti.
Si addormenta lasciando che la tisana si raffreddi senza averla toccata.
Virginia è un’intrusa.
82
83
Alessandro è un trentenne dalla vita tranquilla. Naviga a vista infischiandosene di quello che succede nella società intorno a lui. I suoi più grandi
interessi al momento sono Monica e i mondiali di calcio che stanno per
iniziare.
Ma tutto cambia quando misteriose interferenze cominciano a invadere i
programmi delle televisioni, sconvolgendo i palinsesti nazionali.
In un’Italia in cui democrazia e televoto sono ormai sinonimi, e in cui il sistema mediatico-televisivo è controllato saldamente dal governo, le interferenze inceppano l’efficiente macchina della propaganda nazionale
attaccando al cuore un sistema che rischia ben presto di crollare.
La vita di Alessandro è sconvolta quando viene identificato come l’hacker
autore delle interferenze.
Gianluca Pizzingrilli fin da giovanissimo dà prova di uno straordinario
talento letterario arrivando secondo al prestigioso premio “Giovani Promesse” di Topolino. Una promessa non mantenuta a causa di una vita
dissoluta che lo porta a perdersi nel vizio della scienza e nel degrado
della matematica, fino a laurearsi in ingegneria.
Questo è il suo primo romanzo, dopo una lunga disintossicazione.
84
Senza fede, Gianluca Pizzingrilli.
Capitolo 1
Te ne pentirai.
«Che uomo di merda!»
Taci!
«Che schifo.»
Stai zitto!
«Guarda che faccia!»
Chiudi il becco! Finché sei in tempo.
«Vorrei non vederlo mai più in televisione.»
Ecco. Il danno è fatto.
La faccia abbronzata e oleosa di Emilio Fede ti guarda sorpresa. È bloccata in un
fermo immagine stupito: gli occhi sgranati, le sopracciglia alzate aggrinziscono la
fronte color cuoio, la bocca aperta a O. Povero Emilio, cosa starà vedendo in questo istante congelato? La sua morte mediatica?
Poi tutto si spegne.
Tu sei ancora lì, con l'imprecazione a mezz'aria e il telecomando in mano. Ma il
pollice è sollevato, il colpo è ancora in canna. Non hai sparato, tu.
«Ale, bastava cambiare.»
Monica non capisce la portata dell'evento, anzi sembra infastidita. Silvio vi guarda
incuriosito, mentre addenta la pizza.
«Non... ho ancora fatto nulla.»
Rimani immobile, come intuendo il mare di guai in cui ti sei cacciato con la tua
sfrontatezza. Monica, spazientita, ti toglie il telecomando di mano e cambia. La
televisione torna in vita; lei prova uno zapping veloce, tutti i canali funzionano, o
quasi.
Rai1 Pacchi
Rai2 Pubblicità
Rai3 Blob
Rete4 buio
Canale5 Veline
Italia1 Simpson
«Sììì, Simpson!!» Silvio esulta per l'insperata fortuna.
Rete4, buio.
Tu e Monica vi guardate un istante pensierosi, decidete all'unisono che non è nulla
e che tanto vale finire la pizza guardando i cartoni.
«Avranno problemi ai ripetitori» la metti sul tecnico, anche se non riesci a non sentirti a disagio.
Non sei uno che si scalda per la politica, non te ne preoccupi troppo. Anzi, puoi
85
tranquillamente dire che non te ne frega nulla. Le polemiche politiche sono solo
rumori di fondo nella tua vita, buone per farne due chiacchiere al caffè. Non sei
come Guillaume, tu.
La tele era sintonizzata su quel canale per caso, in attesa di iniziare a guardare la
partita.
È stato quando Fede ha pronunciato il nome di Ago. Dopo tanti anni, nei quali sei
riuscito faticosamente a dimenticare tutta quella faccenda, sentire la voce nasale
del mezzobusto liftato ricominciare con le solite bugie sulla storia di Agostino ha
messo in moto in te un meccanismo di ribellione elementare quanto inutile: l’insulto.
Per una volta, hai deciso che non ne potevi più. E senza rendertene conto te la
sei presa con una macchietta televisiva.
La partita è finita da un po’. Silvio dorme sul divano. Tu dai una mano a Monica a
sistemare la cucina. Avresti altre idee sulla continuazione della serata, ma lei non
è d’accordo: «Con il bambino di là, te lo puoi scordare» taglia corto staccando le
labbra dalle tue e sgusciando dal tuo abbraccio.
«Daaai.»
«No!»
Monica ti piace. Non avresti mai pensato che potesse entrare così prepotentemente nella tua vita. Ti piace uscirci, ti piace parlarci, ti piace lavorarci e ti piace
passarci le notti.
Anche tu lo capisci che è qualcosa di diverso dal solito, e infatti è la prima donna
che vede casa tua alla luce del sole, a parte tua madre.
Lo hai capito quando tre mesi fa ti sei sorpreso con un vassoio della colazione.
Niente di speciale, visto che nel tuo frigo faresti meglio a metterci un poster per
nascondere lo squallore delle rovine. Un succo d’arancia dal colore accettabile,
uno yogurt appena scaduto e un caffè. I biscotti non ce li avevi – ti spiaceva – ma
la prossima volta avresti provveduto. La prossima volta. Tre parole che non pronunciavi mai a una donna. Specialmente se la donna era già nel tuo letto. Specialmente la domenica mattina.
Monica aveva sorriso, ringraziato per la magnifica colazione e fatto finta di nulla
su tutto il resto. Ma tu, sì insomma, ti eri dichiarato.
«Credo che stasera me ne andrò a casa.»
«Non dormi qui?»
«Non ne ho voglia. Che senso ha restare qui oggi?»
«Ma dai, fra poco la vicina torna e restiamo soli.»
Monica ti bacia con lentezza e tu cominci a far scorrere le mani sulla schiena e a
infilarle sotto la maglietta.
«La vicina! Se ne approfitta un po’ troppo» sussurra e si stacca da te.
Cominci a pensare che non sia stata una saggia idea dire di sì a Simona. D’accordo, non avevate nulla in programma. D’accordo che c’era solo la partita inaugurale dei mondiali, che ti fa sempre piacere tenere Silvio e che lei aveva
promesso di tornare per le nove. Ma sono già le undici passate.
I tuoi pensieri sono interrotti dal campanello: la vicina finalmente.
86
«Meglio tardi che mai» Monica va a rintanarsi in bagno.
Simona ha il viso stanco, ma il sorriso adorabile come sempre.
«Ciao Vicino, scusa il ritardo. Oggi l’ufficio era un delirio.»
«Non ti preoccupare» menti un po’, «Silvio si è addormentato.»
«Adesso lo metto a letto.»
Entra lasciando aperta la porta del suo appartamento. Nel pianerottolo, abbandonate per terra, le sue cose. Prende in braccio Silvio che la abbraccia stanchissimo.
Tu sei sempre sulla porta.
«Ciao Vicino, grazie.»
«Hai già fatto cena? C’è una pizza in forno, se riesci a mangiarla.»
«Ci riesco sicuramente, con la fame che ho.»
«Simo, lavori troppo» la rimproveri bonariamente.
Porti da lei la pizza fredda e pure le cose che ha lasciato sul pianerottolo: una
borsa, il pc, la sciarpa, le chiavi della macchina. Mentre lei mette a letto il figlio, rimani un attimo all’ingresso ascoltandola mentre lo coccola e lo accompagna nel
sonno. Ti dà uno strano piacere sentire quella cantilena sussurrata e roca. Come
la prima volta che l’hai incontrata. Era appena arrivata nel palazzo e aveva già invaso tutto il pianerottolo. Non solo pacchi e scatoloni, ma tutta una serie di oggetti
che ricordi di esserti chiesto come avesse fatto a trasportare senza un contenitore,
una valigia o un sacchetto qualunque. C’erano dei libri, delle scarpe, un boccaglio,
un peluche, un mouse, dei dischi, una padella, due bottiglie di vino. Oggetti che
avevano trovato il loro posto tra le scatole e sembravano essere a proprio agio, e
che formavano una specie di scia, come le molliche di pane delle fiabe. Seguendoli
eri entrato nell’appartamento di fronte al tuo e saresti potuto arrivare fino alla camera in fondo al corridoio, da cui proveniva una voce roca che cantava una ninna
nanna. Allora come oggi ti eri fermato ad ascoltare.
Questa volta però non puoi restare, devi convincere Monica a rimanere per la
notte.
Esci chiudendoti dietro la porta, senza salutare.
Capitolo 2
Accendi l’aria condizionata e un odore acre di pelo di cane bagnato investe l’abitacolo.
«Ancora problemi col filtro?» Monica chiude la portiera e si allaccia la cintura di
sicurezza.
«Già» commenti laconico, mentre abbassi i finestrini per far circolare un po’ d’aria
pulita. «Fra qualche minuto se ne sarà andato.»
«Sarebbe meglio cambiare l’auto.»
«Perché?» Alla tua auto ci sei affezionato, anche se ormai ha un’età. Sì, d’accordo,
il motore è un po’ rumoroso, ma basta tenere lo stereo alto.
«A proposito, a fine mese mi danno l’auto» Monica sta rovistando nella borsa.
Per fortuna siete fermi al semaforo, altrimenti avresti inchiodato brutalmente. La
guardi esterrefatto.
«Sergio mi ha detto ieri che ha pensato di dotare le persone del marketing dell’auto
87
aziendale» finalmente ha trovato quello che cercava, il cellulare. Lo guarda un attimo e lo ripone nell’immensa borsa griffata.
«Io l’aspetto da anni» mormori.
«Come?» Monica ti sorride. Le labbra si aprono sui denti bianchissimi – la piccolissima apertura tra gli incisivi, sorride anche lei – le gote si gonfiano e gli occhi
neri si accendono sulla carnagione abbronzata. È bellissima.
«No, nulla. Sono contento per te.»
Il resto del tragitto lo fate in silenzio, fino a piazza Berlusconi. Tutte le volte che
dormite insieme poi la lasci qui, a duecento metri dall’ufficio. Siete d’accordo di tenere segreta la vostra relazione, per ora. La guardi allontanarsi verso la statua
equestre di Silvio Berlusconi. Poi riparti verso il parcheggio.
Dieci minuti più tardi, mentre cammini su corso Craxi, il tuo sguardo è attratto da
alcuni cartelloni elettorali. Ci sono le elezioni a breve? Non lo sai e non ti interessa,
non voti da anni. Ti colpiscono però i poster del PDM, il partito del premier ha i
manifesti sei metri per tre: cielo azzurro, campi verdi, ulivi e il mare in lontananza.
In primo piano, a figura intera, il Primo Ministro, bello e abbronzato, i folti capelli
neri al vento, che porta sulle spalle una bambina sorridente. Sorride anche lui. La
scritta “PDM, il futuro dell’Italia” è blu. Passi davanti a uno dei poster che ti parla:
«Buongiorno giovanotto, ha già pensato per quale partito voterà alle prossime elezioni?»
I poster interattivi sono l’ultima trovata del partito del Cavaliere, basta che qualcuno
si avvicini e la sua voce registrata interagisce, salutando e parlando con il passante. Ti è capitato di vedere persone discuterci animatamente. Prosegui senza
rispondere.
«Va bene, sarà per la prossima volta. Le auguro una buona giornata. Pensi al suo
futuro, Voti PDM.»
Hai sentito che ci sono anche dei poster tridimensionali, ma non li hai mai visti.
Svolti su via Moratti, una stradina tranquilla, lasciandoti il traffico alle spalle. Anche
qui vedi un poster elettorale: su uno sfondo bianco c’è il mezzo busto in bianco e
nero di un uomo che indossa una camicia bianca con le maniche arrotolate e, intorno al colletto sbottonato, una cravatta nera a pois. L’uomo è quasi calvo, a parte
un po’ di capelli spettinati sulle tempie, ha delle occhiaie e un’espressione che vorrebbe essere austera ma sembra solo stanca. Lo guardi e ti fa venire in mente
una vecchia lampadina triste. La scritta è color verde ospedale e dice “Per una
nuova Italia. Vota L.O.S.E.R.: Lega di Opposizione per una Società Egualitaria e
Responsabile”. Il poster non è interattivo, non ti chiede nulla e non vuole sapere
nulla di te. Lo guardi per un attimo e poi te ne vai prima di deprimerti. Menomale
che non voti.
«Aleee! Vieni pure, caro.»
Non hai fatto in tempo ad arrivare in ufficio che la segretaria dell’amministratore
delegato ti ha convocato. Sergio vuole parlarti.
Questo qui deve essere un gran figlio di puttana, ti sei detto la prima volta che lo
hai guardato in faccia. Ti stava facendo un colloquio di assunzione. Lo avevi aspet-
88
tato per quasi un’ora in un’enorme sala riunioni con una parete di vetro smerigliato,
oltre la quale un’ombra agitata stava parlando in inglese al telefono. Quando aveva
chiuso la telefonata, era piombato nella sala riunioni, ti aveva stretto la mano e
aveva sfoderato un gran sorriso, bianchissimo. E aveva continuato a parlare. Sui
quarantacinque, molto sicuro di sé. Sapeva piacere alla gente: era il suo mestiere,
era l'amministratore delegato. Gli occhi però non ti avevano convinto: piccoli, scuri
ed estremamente mobili. Ti davano l’impressione che si guardassero intorno in
cerca della prossima preda.
Chissà cosa aveva pensato di te. Non che te ne importasse molto; ti stava offrendo
un bel lavoro, uno stipendio che non avresti mai neanche sperato dopo una laurea
breve e un open space pieno di belle ragazze. Quindi non servivano tanti discorsi
per convincerti. Non c’era stato bisogno di rispondere bene e di simulare sicurezza,
aveva parlato lui per tutti e due.
E poi ti aveva assunto.
Col tempo hai scoperto che con Sergio è sempre così, parla solo lui perché lui sa
sempre tutto di ogni cosa: conosce gli ultimi gadget tecnologici, le auto che stanno
per uscire, i colori di moda per il prossimo anno. E non chiede mai conferme. Né
ha mai tentennamenti, non ha bisogno di riflettere, ponderare o meditare. Lui sa.
Il suo istinto lo guida e gli indica la scelta. Che è sempre la più logica e corretta. È
sicuramente un uomo di successo nella vita e negli affari. Potresti quasi invidiarlo,
se non pensassi che è uno stronzo pieno di sé.
Mentre percorri gli svariati metri che separano la porta dalla sua scrivania, lo senti
concludere una telefonata.
«Certo certo. Non c’è problema caro mio, ci vediamo al porto domani sera. Ti faccio passare un weekend fantastico. Senza famiglia, senza rotture. Solo mare, vela
e relax. Ceeeerto.»
Ti strizza l’occhio, complice. Dietro di lui, la parete al plasma trasmette immagini
da un canale economico. Finalmente riattacca.
«Alessandro, come stai?»
Il suo sorriso si riapre nuovamente, bianchissimo e sicuro. Ha un viso aerodinamico. Si vede che è in cima alla catena alimentare.
«Volevi vedermi?»
«Come va con la Eptron? Consegnate le schede?»
«Arriveranno domani, purtroppo con un giorno di ritardo. Ma ho già sistemato con
loro.»
«Bene. Bene. Ti ho chiamato perché volevo parlarti dell’auto aziendale.»
Si alza. È alto, un corpo magro e atletico che si estende per circa un metro e novanta. Si tiene in forma. Se non fosse per le rughe del sorriso, non lo diresti che
ha quarantacinque anni.
«So che è da un po’ che la stai aspettando…»
Il telefono sulla scrivania si illumina e vibra. Sergio si distrae per un attimo. Poi
torna a guardarti con un sorriso ancora più largo. Però non parla, è ancora distratto
dal messaggio appena ricevuto. Dev’essere una buona notizia.
«Be’, certamente l’auto mi sarebbe utile» cogli l’occasione per rimarcare il tuo bisogno. «Te ne ho già parlato altre volte. Giro molto…»
89
«Sono il primo a dire che l’assistenza vendite dovrebbe essere dotata di un’auto
aziendale. Purtroppo però abbiamo problemi di budget. Ci sono vincoli imposti da
Chicago...»
Quando mette in mezzo gli americani, di solito butta male. Lui ha sempre grandi
idee, purtroppo i capi non gli lasciano la libertà per seguire tutte le sue intuizioni.
«Dopo lunghe discussioni, dato che quest’anno soffriremo per raggiungere gli
obiettivi, mi hanno concesso due auto…» tenendo le mani unite per i polpastrelli
davanti a sé, si sporge sul tavolo di cristallo fissandoti, «e voi dell’assistenza siete
tre…»
In effetti, siete tre.
«Perciò cominciamo dal marketing, dove sono solo in due.»
Non fa una piega.
«Ma scusa, abbiamo superato tutti i record di vendita. Possibile che ci siano problemi a dare tre macchine?» provi a batterti.
Sergio smette di sorridere. Di solito questo vuol dire che qualcuno è andato troppo
oltre. Riflette, in silenzio e con la bocca stretta. Una fessura sottile. Una cosa che
succede di rado e si tratta sempre di momenti innaturali, complessi.
Viene interrotto da una nuova vibrazione. Afferra il telefono dal piano di cristallo
con tanta irruenza da far cadere il telecomando dello schermo al plasma, lì a
fianco. Occupato a rispondere al messaggio, non si cura né dei pezzi del telecomando schizzati sul pavimento, né delle batterie che ora rotolano spensierate sul
parquet color miele, né del fatto che l’urto abbia sintonizzato lo schermo su Rete4.
Ripone il telefono e ti fissa severo.
«Stai forse mettendo in discussione il modo in cui è gestita l’azienda?»
No, tu non stai discutendo nulla.
«Se questa storia dell’auto crea problemi, la dovrò riconsiderare. Non la darò a
nessuno e se ne riparla l’anno prossimo.» Adesso ha ripreso a sorridere, «Vai a
chiamare Monica e Lorenzo che gli diamo la notizia.»
Così non vale! Monica ti ucciderà se le farai togliere l’auto.
«No, aspetta, non intendevo fare storie, stavo solo dicendo...»
«Non intendevi fare storie? A me sembra proprio che stavi facendo storie! Io cerco
in continuazione di migliorare la vostra vita, discutendo con gli americani per ottenere benefit per tutti voi. Mi aspetterei da voi più riconoscenza e pazienza. Siamo
sulla stessa barca, lo capisci?»
Stessa barca? Lui ha una barca. Tu solo una Punto vecchia di quindici anni con il
filtro dell’aria condizionata rotto.
«Hai ragione, Sergio. È solo che ho bisogno di cambiare l’auto» capitoli.
«Capisco. Ti prometto che la prima dell’anno prossimo sarà la tua.»
Il sorriso si è riaperto più radioso e balsamico che mai. La macchina di Monica è
salva.
Sergio continua a descriverti il radioso futuro che sta preparando per tutti voi, i
suoi ragazzi, che lui difenderà e proteggerà a ogni costo, purché voi rimaniate
sempre fiduciosi nel vostro illuminatissimo capo. Tu non lo segui più, perché nel
frattempo ti distrai guardando la parete alle sue spalle. Su Rete4 sta iniziando il
telegiornale di mezzogiorno. Dopo la sigla appare la faccia di Emilio Fede. Ha il
90
sorriso delle grandi occasioni, ma gli occhi sembrano più guardinghi del solito.
Trasmettono una certa apprensione.
«Gentili telespettatori, a nome di tutta l’azienda mi scuso per quanto è successo
ieri sera» la sua voce si confonde con quella di Sergio, riesci a distinguere a fatica
quella del giornalista. «È stato un increscioso incidente tecnico, che però è stato
risolto. Per rassicurare l’affezionato pubblico, abbiamo deciso insieme alla dirigenza che avrei aperto anche l’edizione di mezzogiorno.»
E risuccede. Lo schermo si spegne. Scatti in piedi per la sorpresa indicando il plasma spento.
«Che ti prende?»
«Niente, scusa, ho dimenticato che devo chiamare quelli della Eptron entro mezzogiorno. Scusami, ma è urgente.»
«Vai pure. Siamo intesi, giusto?»
«Giusto, giusto.»
Scappi via. Corri alla sala riunione del primo piano per controllare, sperando che
il plasma di Sergio sia difettoso, ma la sala è occupata, c’è già Guillaume con il
telecomando in mano. Fissa uno schermo buio.
«Hai visto il tanné? Era in crisi di astinenza! Forse lo pagano a ore, come la mia femme
de ménage.»
Lo fissi senza riuscire a parlare, poi guardi la lucina del televisore, allegramente
verde: non è spenta. Guillaume preme un bottone a caso. Le immagini tornano a
scorrere sullo schermo. Una sonora risata riempie la sala riunioni e richiama le
persone dall’open space vicino.
«Cosa succede?» chiede Anna, la centralinista.
«Rete4: si è spenta di nuovo» risponde con le lacrime agli occhi il francese, «Secondo me all’abbronzato gli prende un colpo!»
Cerchi di ridere anche tu, continuando a ripeterti che augurarglielo non vale.
Capitolo 3
Bruno Pizzi è seduto da un’ora sul divano immacolato nello studio del Presidente.
È in bilico sul bordo della seduta. Continua a dondolarsi senza sosta come fosse
seduto su una stufa. È agitato e angosciato. A vederlo in faccia non si direbbe
molto preoccupato, ma è solo dovuto ai tanti lifting subìti negli anni. Da tempo
Bruno non è più in grado di governare appieno i muscoli facciali. Poco male, lo
aveva messo in conto dall’inizio della sua carriera. Da quando si era proposto alle
selezioni. Gli esaminatori della giuria glielo avevano detto: hai la stoffa, ma dovrai
lavorare sulla faccia. E ci aveva lavorato, parecchio. In realtà si era sottoposto
anche a un intervento alle corde vocali, per riuscire a modellare la sua voce perfettamente uguale all’originale.
Dietro alla faccia abbronzantissima, dietro al completo impeccabile, Bruno è terrorizzato, perché sa che quello che sta succedendo può essere la fine della sua
carriera. Questo non può permetterselo, non dopo tutti i sacrifici che ha fatto. E
proprio per tutto ciò che ha fatto per lui, il Cavaliere dovrà aiutarlo.
Finalmente la porta si apre. Bruno scatta in piedi mentre Luca B Vischi, Presidente
91
del Consiglio della Repubblica Italiana, entra nel suo ufficio.
«Emiiiilioo! Eccoti qui finalmente!» il sorriso radioso del Premier è già un balsamo
sulle ansie del poveruomo. Lui lo capirà e aiuterà.
«Presidente, buongiorno.»
Il Presidente si ferma per un attimo a guardarlo: «Bruno, scusami se ti ho chiamato
Emilio. La forza dell’abitudine.»
«Si figuri. Anzi, lo considero un complimento.»
Il Presidente gli fa cenno di tornare a sedersi.
«Vuoi un caffè? Prego, serviti pure. I babà sono freschissimi» si siede nella poltrona di fronte, accavalla le gambe, si passa – come sempre – una mano tra i folti
capelli e lo guarda con aria rassicurante. «Allora dimmi, di cosa volevi parlarmi?»
Bruno esita un momento. Dopo aver passato due notti insonni, aver urlato contro
ogni collega e dirigente del gruppo e aver ostinatamente insistito con la segretaria
personale del Cavalier B Vischi per ottenere un colloquio, adesso è assalito dal
dubbio che il suo problema sia davvero poca cosa in confronto ai problemi che il
Cavaliere deve affrontare ogni giorno. Abbassa lo sguardo quasi vergognandosi
del suo ardire, e in quel momento vede riflesso nella brocca d’argento di fronte a
lui il viso, un po’ deformato dal metallo, di Emilio Fede. Emilio gli sta chiedendo di
non tradirlo.
«Presidente, ho chiesto di vederLa per parlarLe degli oscuramenti che ho subìto
negli ultimi due giorni…»
«Ah! I blackout del tuo telegiornale. Bruno, sappiamo benissimo che si è trattato
di un caso.»
«Ma Presidente. Ne è sicuro? È una strana coincidenza...»
«Ne sono sicuro. Ho parlato con Pio, si è trattato di un guasto tecnico.»
«Due volte?»
«Una coincidenza! E una riparazione al guasto fatta male. La persona responsabile è già stata rimossa. Problema chiuso.»
«Problema chiuso?»
«Chiuso.»
Il Cavaliere rimarca il concetto addentando risoluto un babà, meritato premio.
«Presidente, se posso permettermi…»
Il Presidente lo guarda con aria assente continuando a masticare, evidentemente
può permettersi.
«Mi è sembrato strano che proprio mentre ero in onda, per due volte di seguito, ci
sia stato lo stesso guasto tecnico. Secondo me si è trattato di sabotaggio.»
«Sabotaggio?» il babà finisce sputacchiato per terra.
«Sì, qualcuno dell’opposizione, qualcuno della concorrenza?»
«Concorrenza!? Emilio! Le satellitari sono fuorilegge da anni. Quale concorrenza!»
«Ma Presidente, potrebbe essere possibile. Se ci pensa bene, io sono da sempre
il suo collaboratore più fidato. Attaccare me è come attaccare il suo volto sullo
schermo.»
Il Presidente si alza e comincia a camminare avanti e indietro.
«Bruno, conosco perfettamente la tua fedeltà e il tuo coraggio. Ti ho scelto personalmente tra decine di aspiranti sosia. Ho saputo vedere oltre le differenze este-
92
riori. Ho capito che sotto le apparenze saresti stato il miglior candidato possibile
per sostituire il tuo compianto predecessore. E sono stato io a pagare tutti gli interventi chirurgici.»
«…Lo so, ma…»
«E ho fatto bene, perché negli anni hai rappresentato per tutti gli italiani la continuità di azione del governo. Continuità, cioè sicurezza. Le famiglie italiane si fidano
di te. E così anche io.»
Bruno–Emilio si sente così onorato che quasi dimentica le sue preoccupazioni.
«E ora io ti chiedo di fidarti di me.»
«Certo maest… certo Presidente!»
«Non ci sono attentati, non ci sono sabotaggi. Solo un guasto e una coincidenza.
Questa sera tornerai in onda come sempre, hai la mia parola.»
Bruno–Emilio si alza commosso: «Grazie! Grazie Presid…»
«Ma figurati, per così poco. Ora devo chiederti di lasciarmi, ho un’altra riunione.»
Il giornalista si inchina senza aggiungere altro ed esce dallo studio.
Pietro Pompei entra senza bussare qualche minuto dopo.
Ogni volta che entra in quello studio, il sottosegretario alla presidenza non può
fare a meno di pensare quanto sia orribile il nuovo arredamento scelto dal Presidente del Consiglio. Considera raccapriccianti e fuori luogo i mobili di design che
Vischi ha voluto mettere. La madre, buonanima, aveva molto più gusto.
«Era Emilio quello che usciva? Era in lacrime, non mi ha nemmeno salutato.»
B Vischi sta sorseggiando un caffè.
«Ultimamente è strano, saranno le medicine che prende. Mi avevano detto che a
lungo andare avrebbero potuto creare danni permanenti.» Posa la tazzina sul tavolino di cristallo: «Oggi ha voluto vedermi perché è convinto che ci sia un complotto contro di lui. Capisci? La mia rete ammiraglia è in blackout per quasi quattro
ore in due giorni. Io perdo fiumi di soldi in mancati introiti pubblicitari e lui si preoccupa perché lo stanno sabotando. E per quale motivo lo saboterebbero?» si
fissa le unghie delle dita affusolate. «Forse è il caso di avviare una ricerca per un
nuovo sosia di Emilio Fede» conclude.
Il segretario si siede sul divano di pelle bianca nel quale sprofonda come se i cuscini cercassero di ingurgitarlo. A fatica riesce a riemergere dalla pelle immacolata
e sedersi sul bordo. Pensa a quanto erano meglio le poltrone seconda Repubblica.
«Pietro, perché l’ambasciatore cinese vuole vedermi?» il Presidente si passa la
mano tra i capelli. «Devi spiegare a Zenit che deve finirla. Continua a dichiarare
che vuole permettere ai cinesi nati in Italia di votare.»
«Vuol far votare gli immigrati?»
«Non tutti, solo i cinesi, visto che a Milano sono ormai la maggioranza. Ma non è
pensabile farli votare, in Cina si stanno innervosendo.»
«Perché?»
«Scherzi? In Cina la democrazia c’è! Ma senza diritto di voto. Non vogliono cattivi
esempi.»
«Capisco. E se lo permettiamo solo alle municipali?»
93
«Non vogliono sentire ragioni. Minacciano di bloccare le importazioni dall’Italia.»
«Disastroso! La nostra industria del lusso tracollerebbe.»
«Appunto, non ce lo possiamo permettere.»
«Ma gli hai spiegato che poi alla fine il voto… si gestisce? Gli hai parlato di Democracy?»
«Lo sanno benissimo come funziona, ma non vogliono rischiare.»
«D’accordo, convoca Zenit e vedrò di fargli cambiare idea.»
Il Premier estrae un cellulare dalla tasca interna della giacca, lo fissa per qualche
istante e poi scuote la testa.
«Neanche un messaggio» mormora.
Il segretario appoggia lentamente la tazza vuota. Si ferma per un attimo a fissare
lo schermo cinquanta pollici che trasmette l’immagine di un acquario con fondali
caraibici. Poi guarda negli occhi il suo presidente: «Vuoi che mandi qualcuno a
cercarla? Con discrezione.»
Il Presidente tira un grosso sospiro e sembra accasciarsi sulla poltrona.
«No, per ora lascia perdere.»
Pietro si alza e va alla porta, ma esita ad aprirla.
«Luca, ci sarebbe un’altra questione.»
«Quale?»
«Questa storia dei blackout. Anche a me sembra molto strana.»
«Anche tu? Si è trattato di un incidente.»
«Sì, però… due volte? E sempre quando compare Emilio? A me sembra strano.
Se permetti vorrei occuparmene in prima pers…»
«Pietro» Luca B Vischi si alza e gli va incontro, «si tratta dell’azienda di famiglia,
l’ha fondata mio nonno.»
«Sì, ma…»
«Nessun ma, me ne sto occupando io, ti ho detto. E sono sicuro si tratti di una
coincidenza.»
Apre la porta al suo segretario. L’invito è inequivocabile.
«D’accordo. Ci vediamo più tardi con l’ambasciatore cinese e Zenit per risolvere
la questione.»
Pietro Pompei si chiude la porta alle spalle e si allontana turbato. Dopo qualche
metro, estrae un palmare e compone un numero.
«Sono io. Ho bisogno di una ricerca sui blackout degli ultimi due giorni. Con discrezione, mi raccomando.»
Capitolo 4
«Dammene uno che vince!»
Il barista porge il gratta e vinci all'uomo con la coda al bancone.
Lo osservi dal tavolo, mentre sorseggi il cappuccino. Estrae un mazzo di chiavi
dalla tasca, sceglie la più solenne e la strofina concentrato sul cartoncino dorato
che il barista gli ha passato.
Ti ricordi di quando tuo padre da bambino ti spiegò la logica dei gratta e vinci. A te
piaceva da morire strofinare le monetine sulla patina argentea per scoprire quello
94
che nascondeva. Il tuo preferito era il “Tris del Trapassato”. Se dietro alle tre caselle coperte si trovavano tre figure uguali, si vinceva la proprietà di un conto bancario dormiente. Tu a quell'età nemmeno sapevi cosa fosse un conto corrente né
perché stesse dormendo. Però ti piaceva scorticare la pellicola delle tre caselle e
scoprire quali figure nascondessero. Le pulivi tutte e tre accuratamente, anche se
alla seconda già si poteva smettere: non ce n'erano mai due uguali. Smettesti di
giocarci quel giorno che al bar sottocasa avevano finito i cartoncini del “Tris del
Trapassato”. «Mi sono finiti, ormai sono introvabili» aveva detto il barista parlando
a tuo padre. Avevi cominciato a piangere e a dare calci al basamento di marmo
del bancone: non era giusto! Tuo padre si era accucciato, ti aveva guardato fisso
con i suoi occhi calmi fino a quando non avevi smesso di frignare, e poi ti aveva
spiegato: «Alessandro, questi giochi del gratta e vinci sono la tassa sulla stupidità.» Tu una tassa non sapevi proprio cosa fosse, ma la stupidità invece sì. «Solo
gli stupidi pensano che grattare un cartoncino gli cambierà la vita. Sei stupido tu?»
Avevi tirato su col naso e avevi detto imbronciato «No!», e non avevi più voluto
grattare niente da nessuno cartellino.
Tuo padre. Chissà cosa direbbe oggi nel guardare il tipo col codino così concentrato sul “Gratta e Vinci Democracy”.
«Fanculo! Ti avevo chiesto di darmene uno buono!» accartoccia il cartoncino e lo
getta per terra.
Sorridi tra te e addenti il cornetto.
«Mais vraiment voi italiani pensate che uno di quei cosi vi possa portare in parlamento?»
Guillaume ti sottrae dai tuoi pensieri con una domanda troppo complicata. Spallucce.
«Ragadzo...» il francese posa il marocchino e si sistema sulla sedia per aprire una
lezione di educazione civica d’oltralpe, «dites–moi la verità: hai mai visto nessuno
vincere?»
«Boh, ogni tanto si sente di qualcuno che vince» immergi la faccia nella tazza provando a leccare la schiuma rimasta sul fondo e sperando che la tazza nasconda
Guillaume.
Il francese è uno in gamba. Sul lavoro, ma anche nella vita. Uno che se ne frega,
che fa e dice le cose che devono essere fatte e dette. Che non ha paura delle
conseguenze. Uno che ha le sue idee ed è pronto a difenderle. Guillaume viene
da Parigi, ma non ha la puzza sotto al naso. Sarà che ha viaggiato un bel po', ma
è proprio un bravo ragazzo. Però quando inizia con la politica, non si regge.
«Gui, siamo in ritardo. Io devo timbrare» ti alzi e vai a pagare.
«Quanti senatori vengono nominati ogni anno? Quanti sono?»
Non molla, continua a tormentarti anche sulla strada assolata verso l'ufficio.
«Non lo so, Gui. Sono tanti, ma non è che basti vincere al gratta e vinci per diventare senatore, per chi ci hai preso?»
«Ah no?»
«Certo che no, quelli che vincono poi devono andare in tv, e solo alcuni vengono
scelti col televoto.»
Il francese aggrotta la fronte, si sta preparando per un nuovo attacco.
95
«E in Francia come fate per sceglierli?» lo anticipi.
Per un attimo rimane sorpreso dalla domanda.
«Noi siamo all'antica, noi li eleggiamo.»
La mattinata passa velocemente, ci sono un bel po' di commesse da chiudere
prima della pausa estiva, il lavoro non manca.
Ritrovi Guillaume a pranzo per una piadina al solito posto, dove vi raggiungono
anche Monica e Lorenzo, il suo collega del marketing.
«Ciao ragadzi» Gui addolcisce sempre le zeta, «come va? Lavorate sempre alla
strategia di comunicazione?» e si porta una mano alla bocca, facendo il gesto di
tracannare un bicchiere.
«Certo! Vuoi dare una mano?»
I due stanno parlando della serie di eventi pensati da Sergio in occasione dei mondiali di calcio. Nelle principali città d'Italia verranno organizzate serate per i nostri
clienti migliori con megaschermi e spettacoli per cenare e festeggiare, con la scusa
di guardare le partite. Ovviamente, visto che Avaya è sponsor della manifestazione, saranno proiettate le immagini migliori: quelle delle telecamere più vicine.
Neanche le pay tv possono offrire tanto.
Per Guillaume si tratta di una scusa per offrire cene e mignotte ai clienti peggiori.
A te piacerebbe partecipare, per le partite e perché le organizza Monica. Ma la
cosa è fuori discussione: Sergio è stato chiaro.
«No no, c'est un travail trop difficile per me!»
È proprio un peccato che Guillaume e Monica non si piacciano. Passano il tempo
a punzecchiarsi. Non che te ne importi molto, è solo che ogni tanto ti tocca metterti
in mezzo prima che si accapiglino.
«Fede si è rivisto?» ti chiedi come mai tu abbia scelto proprio questo argomento
per cambiare discorso.
«Fede?» Monica sembra neanche ricordarsi già più chi sia.
«No no» Guillaume non aspettava altro. «Il vecchio tanné non si vede più: quando
lo invitavano a un programma, il programma veniva oscurato! Anche al TG4 lo
hanno rimpiazzato! Ormai scrive.»
«Scrive?»
«Sui giornali!» si guarda intorno e ne prende uno sgualcito su un tavolo vicino. Te
lo sbatte davanti. La foto a colori di un furibondo Emilio Fede ti fissa astiosa. L'articolo che la circonda parla di complotto, di personaggio scomodo, nemici del popolo, fedeltà totale al Presidente, attentato. Alla terza riga sei già annoiato.
«È così su tutti i giornali. Il vecchio non si rassegna di aver perso il suo giocattolino.»
«Ma secondo voi come mai è sparito dalla tv?»
Tu non lo sai di certo. E augurarselo non conta.
«Io penso che Le Boss si è stancato de luì e ha deciso, come dite voi? di fare luì
fuori. E lo ha cacciato. Quando sei fuori dalla telé, sei fuori da tutò.»
Annuisci vigorosamente, cercando di convincerti della razionalità della spiegazione.
Monica guarda il giornale.
96
«Stasera c’è la finale di Democracy.»
Alzi lo sguardo al cielo, sai già quello che sta per succedere.
«Ah, il futuro della democrazia» Guillaume non se l’è fatto ripetere due volte.
«In che senso?» Monica è già sulla difensiva.
«Democracy è il programma per scegliere i parlamentatori…»
«Si dice parlamentari. Sono i senatori che vengono scelti con Democracy.»
«Non era col gratta e vinci?»
«No! Chi te l’ha detto? Col gratta e vinci si accede alle selezioni. Poi si passa nella
casa del programma e si deve dare prova di avere delle abilità. Se il pubblico ti
vota, diventi senatore.»
«Incroyable.»
«Un corno! È un metodo molto migliore di quello che c’era prima, quando i deputati
li sceglievano i partiti.»
«Migliore?»
«Certo, adesso la scelta è prima casuale, quindi nessuna possibilità di brogli o inciuci. Nessun indagato, nessun mafioso. È solo la fortuna che decide. E poi c’è la selezione da parte del pubblico. Più democratico di così, cosa c’è?»
«Mooolto democratico, davvero!»
Per fortuna arrivano le piadine, non avresti saputo come interromperli. Mangiate
in silenzio.
«E se avesse ragione?» mormora alla fine Lorenzo.
«Chi?»
«Fede. E se avesse ragione lui: se fosse un complotto?»
«Vado a prendere i caffè!» ti alzi di scatto.
97
98
«Adesso ti spiego come funziona.
Partendo da Sud, Riccione si contraddistingue per i vampiri, dandy del
diciottesimo secolo che tra una vittima e l’altra passano le loro nottate
sorseggiando Martini Dry nei bistrot lungo viale Ceccarini.
Rimini è da sempre feudo indiscusso di licantropi piuttosto sanguinari e
ciellini.
Alcuni sostengono che il ventitreesimo piano del grattacielo di Cesenatico
sia in realtà una porta per l’inferno.
Pinarella è di una noia mortale anche per gli spiriti maligni, mentre gli
zombie hanno sempre apprezzato la zona di Cervia, forse per l’aria salina.
A Milano Marittima non ci vado da quando sono stato multato per aver
parcheggiato l’Ape in sosta vietata. Per me quel posto e i suoi vigili urbani
possono anche finire arrostiti da Satana in persona.
Marina di Ravenna è da sempre la patria di serial killer con tendenze religiose e fanatici alla Charles Manson.
Dopo Marina iniziano i lidi frequentati dai ferraresi: se non ci sei mai stato,
immaginati Fàntasia de La storia infinita dopo l’arrivo del Nulla e aggiungici pini marittimi e un po’ di tristezza.»
1.500.000, sono le persone che la notte del 2 luglio 2009 si sono riversate
nelle spiagge romagnole.
63, i km che separano Ravenna da Riccione lungo la statale Adriatica.
12, i metri di lunghezza media di una Limousine Lincoln.
10, le ore che mancano all’alba.
8, i ragazzi molto molto cattivi che non dovresti mai incontrare.
5, le persone che cercheranno di fermarle.
2, Luca e Donatella.
1, la notte: è la Notte Rosa.
Luca R (come tutti) è nato lo stesso giorno di Dylan Dog a Castel San
Pietro (BO).
Vive tra Milano e la Romagna: tutta, indistintamente.
Lavora in tv (ossimoro).
Questo è il suo primo romanzo.
99
Via le mani dagli occhi... la notte rosa, Luca R.
Indice
PARTE I - HANA-bi
CAP 1 - LOSER(S)
CAP 2 - SATURDAY NIGHT’S ALRIGHT (FOR FIGHTING)
CAP 3 - HIGHWAY TO HELL
INTERMEZZO - TRE PAPERELLE
PARTE II - COSMONAUTI
CAP 4 - WELCOME TO THE JUNGLE
CAP 5 - SHOOT FOR THE THRILL
INTERMEZZO - TRE PAPERELLE (II)
PARTE III - MEXICAN STAND-OFF
CAP 4 - BATTLE WITHOUT HONOR OR HUMANITY
CAP 5 - A FIOR DI PELLE
CAP 6 - SCAPPA CON ME
EPILOGO
«Ci sono delle regole precise che vanno rispettate
se si vuole sopravvivere in un horror:
1. Non si deve mai fare sesso. Sesso uguale morte.
2. Mai ubriacarsi o drogarsi.
3. Mai, mai e poi mai, in nessun caso dire: “torno subito”.»
Randy in Scream
100
Parte I
Hana-bi
CAPITOLO 1
LOSERS
“I’m a loser baby, so why don’t you kill me?”
Beck
1.
Imola, ore 17:30
Vaffanculo, ma andiamo con ordine.
Le differenze tra le due squadre partivano dal livello epidermico.
I giocatori del Ceramicandi Faenza, quadri e medi livelli dell’omonima cooperativa
ceramica, mostravano una coloritura uniforme frutto degli agi di una vita borghese,
dove l’abbronzatura si coltivava con regolarità sin dal primo weekend di maggio.
Al contrario l’ARCI Imola Basket 1997 esibiva sotto le canottiere color turchesi una
maggiore varietà cromatica: un nigeriano d’ebano, tre magrebini color faggio, una
larga rappresentanza di lavoratori dell’edilizia con pelle già scurissima – ma solo
dal gomito e dal ginocchio in giù – due programmatori informatici viranti sul beige
e infine un albino. Ma bisognava aggiungere altri due elementi per completare la
tavolozza.
Di un color scuro ai limiti del rosso lo era sin da dicembre il capitano Michele Bombardoni, titolare della Bombardoni installazioni elettriche srl, discussa ex promessa
della pallacanestro locale, alopecia incipiente, in quel momento in una dimensione
parallela: correva, difendeva, rubava, pallava, tirava, intercettava, dava il massimo
quando gli altri, sia i suoi compagni di squadra che gli avversari, si muovevano in
campo come zombie a dieta. Era l’ultima inutile partita di un campionato inutile di
una serie ai limiti del dilettantismo (“ai limiti”, verso il basso) e la foga di Bombardoni stonava in quel contesto da ufficio statale.
Si fosse giocato la permanenza nel quintetto base la si poteva anche comprendere
tutta quella volontà di dare il meglio, ma il fatto che le Bombardoni installazioni
elettriche srl fossero lo sponsor della squadra, la rendevano superflua e pertanto
ancor più insopportabile.
Tornando a noi, il tiro a palombella da tre punti che portò l’ARCI Imola Basket 1997
nel purgatorio dei tempi supplementari col Ceramicandi Faenza G.S. fu lo zenit
della stagione, della carriera e, perché no?, della vita di Michele Bombardoni.
Peccato che la scenografia risultasse del tutto inadeguata a questo evento degno
di entrare negli annales del basket dilettantistico: qualche fidanzata, il vecchio che
non si perdeva mai una partita attaccato come un koala alla ringhiera di bordocampo, il butterato reporter sportivo del settimanale locale (non quello letto e rispettato, l’altro) che, per rimarcare il proprio interesse al match, prendeva appunti
ascoltando l’iPod.
101
Un colorito del tutto inappropriato alla stagione estiva era invece quello di Luca
Bazetti, guardia più allenata nello scatto panchina/spogliatoio che in quello dell’area di tiro/canestro. Ritrovatosi giocatore dell’ARCI Imola Basket 1997 per pressione osmotica dai tempi del liceo, Bazetti aveva in testa un modo migliore, molto
migliore, per passare il resto di quel primo sabato di luglio, ma quei venti minuti di
tempi supplementari rischiavano di comprometterlo per sempre.
Insomma, quel vaffanculo che Luca Bazetti sibilò a denti stretti allo scadere del
tempo regolamentare, il suo capitano se l’era decisamente meritato.
2.
Imola (ma altrove), ore 17:30
Ritornò al centro della stanza: era tardi e doveva arrivare a una soluzione.
Per le decisioni davvero importanti, Donatella iniziava infatti con l’ordine cronologico: appoggiava sotto l’armadio le vecchie Reebok dalla suola in plastica verde
logorate in punta fino ad arrivare, trentadue paia dopo, alle tacco dodici rosso vernice.
Quel plotone di calzature le già aveva dato delle suggestioni e un probabile vincitore, ma il pretenzioso vestito appoggiato sul letto le suggeriva maggiore attenzione.
Si chinò sulle ginocchia e riprese a rimescolare, prima con criteri propriamente
cromatici, poi sistemando il tutto in ordine di altezza, ma non usciva una risposta
certa nemmeno in questo caso. Non riuscendo però a non pensare all’altra faccenda ritornò alla scrivania, dove però nulla era cambiato, quindi riprese a trafficare
con le scarpe sbuffando d’impazienza. Riprovò con un sistema che si era rivelato
il migliore: cercare quelle scarpe che, in qualche modo, si erano rivelate dei validi
porta fortuna.
Il podio di questa disposizione vedeva al terzo posto le Head con cui aveva vinto
il primo torneo di tennis, le Nike Silver con cui era stata al Cocoricò insieme a
Jenny e sul gradino più alto ancora le tacco dodici di vernice rossa che pur essendo nuove erano già importanti, visto che le aveva acquistate al primo appuntamento con Marcello.
Le vernice rossa sembravano quindi le vincitrici ai punti di diverse classifiche, ma
quello di calzare i piedi di Donatella non era mai un gioco facile, nemmeno per
delle scarpe come loro: c’era sempre un “ma” che contrastava un “visto”.
Il “visto” era perché “visto che piacciono tanto a Marcello avrebbe dovuto indossarle quella sera”; il “ma” derivava dal fatto che avrebbero sicuramente raggiunto
gli altri a qualche in festa in spiaggia per la Notte Rosa («Rimini? Riccione? Marina
di Ravenna? No, ti prego Marcello, Marina di Ravenna no...»), e in quel caso con
i tacchi sulla sabbia avrebbe fatto una figura piuttosto patetica, arrancando come
una tossica. Perciò: forse sandali (posizione nove)? Forse ciabattine (posizione
tredici)? Perché no, delle ballerine rosa (posizione ventidue, con un plus aggiuntivo
per il colore in sintonia con lo spirito della serata)?
Incominciava a odiarla quella Notte Rosa: non bastava un capodanno a metterle
102
ansia su cosa? come? e con chi fare cosa e come?, ora avevano pure inventato
il capodanno dell’estate per raddoppiare i suoi problemi.
Le serviva un analista. Uno migliore di quello che aveva già.
Ancora a piedi nudi ritornò alla scrivania e controllò posta elettronica, Msn Messenger, Myspace, Facebook, Twitter... l’elenco era lungo ma alla fine il risultato
era lo stesso, cioè niente.
La sera precedente, raggiungendo le colonne greche del proprio orgoglio, gli aveva
persino scritto per chiedergli cosa avesse intenzione di fare («Rimini? Riccione?
Milano Marittima? No, ti prego Marcello, Milano Marittima no...») e lui non solo
non le aveva risposto, ma nelle venti ore successive non le aveva nemmeno fornito
un orario indicativo di quando sarebbe passato a prenderla, e senza un orario lei
come avrebbe potuto essere in ritardo? Rischiava seriamente di fare la figura della
morta di fame che al primo squillo è già bella e pronta sull’uscio di casa con un
fiocco rosa sulle mutandine.
Così, in mattinata, gli aveva riscritto per annunciargli il suo trionfo al torneo di Lugo
e ricordargli, en passant, della serata, ma anche il secondo tentativo pareva essere
stato vano, nonostante avesse inoltrato la comunicazione attraverso tutti i mezzi
possibili.
Telefonargli? Mai, nemmeno sotto tortura, e poi nelle vicinanze non si registravano
incidenti mortali o rapine con vittime intorno ai venticinque anni, quindi il bastardo
doveva essere vivo, aver ricevuto il messaggio e perciò doveva risponderle, e pure
in fretta, se la voleva ancora vedere. Cacciò via i pensieri su Marcello chiudendo
il laptop e ritornando alle cose che contavano veramente, come le scarpe.
Riassumendo: i sandali facevano troppo liceale, quindi non andavano bene, via.
Le ciabattine non le portava più nemmeno sua cugina pugliese mezza suora... via.
Le ballerine forse, ma erano troppo poco impegnative, quasi fossero la prima cosa
semplice e decente che avesse avuto davanti. Via, ma con riserva.
L’idea che voleva dare era di uno stile ricercato ma non da festa del villaggio, tipo
abito buono della domenica, perché “sono una tipa speciale”, rimarcando però con
qualche piccolo particolare che in fondo anche la serata lo era.
Le tacco dodici rosso vernice erano quindi la scelta, e pazienza se quei cretini
della compagnia di Marcello avevano nel frattempo scelto un party sulla sabbia:
lei sarebbe stata al sicuro sul cemento vicino al bar e Marcello lì con lei per parlare,
ridere e ballare insieme.
Sotto la luna, pensava.
Fino all’alba, sperava.
Soli in mezzo al delirio di una spiaggia nella prima notte d’estate, immaginava.
Sentì uno squillo, abbassò i Club Dogo che pompavano dallo stereo sul davanzale
della finestra e prese in mano il cellulare.
Marcello, SMS.
Ciao, sono già al mare con gli altri! Scusa ma no soldi nel cel. e ho ricaricato solo
ora. Te scendi? Dai è una figata! Siamo a Villa Papete a MiMa, entro mezzanotte
posso farti entrare col tavolo! Mi ha detto Fabio che ti ha visto al torneo: brava.
Poi ha aggiunto che tua madre è proprio una gran FXXA ;-) a dopo, bacio!
Le ballerine rosa sarebbero andate benissimo.
103
3.
Imola, ore 18:00
Dopo avere salutato tutti, tranne Bombardoni che dopo la sconfitta era rimasto
solo a piangere e singhiozzare come un vitello a metà campo, era pronto a inforcare la bici, raggiungere la videoteca per riconsegnare i dvd a noleggio ed essere
così a casa entro le diciannove in punto, l’ora X entro la quale lui e la sua sorellastra Clara si giocavano il possesso della macchina di famiglia.
Se uno dei due fosse arrivato in ritardo, la Yaris Blu spettava di diritto all’altro senza
alcuna contrattazione, e questo Luca non poteva permetterselo. Clara, Clara la
viscida, quando c’era da prendere prendeva senza lasciare tracce, testimoni e
possibilità di trattativa.
Ma ce l’avrebbe sicuramente fatta e ne rimase convinto, almeno finché non vide
le ruote della bicicletta sventrate. Non ebbe nemmeno tempo di chiedersi chi fosse
stato a fare quel gesto, se un giocatore del Faenza, un tifoso (no, non ce n’erano)
o qualche adolescente annoiato; sapeva solo che per fare tutto quello che aveva
in mente nei tempi previsti le opzioni si riducevano a una sola: correre.
Col senno di poi, quindi, il non essere sceso in campo restando fresco come una
rosa ma coi muscoli già riscaldati e pronti per la corsa, si sarebbe rivelato l’unico
colpo di fortuna per Luca Bazetti fino all’alba successiva.
4.
Cesenatico, ore 18:10
Prima di finire investito da una macchina, di essere preso a calci e sputi in faccia
da un bambino di otto anni e di vedere quello che mai avrebbe voluto vedere,
David Malvezzi aveva letto i segni di quel caldo sabato di inizio luglio come propizi
ai suoi scopi.
Il primo segno fu l’aver vinto per due volte di seguito al gratta e vinci: aggiungendo
solo qualche centesimo alla somma era riuscito a prendere un pacchetto di light
a spese dello stato. Il secondo segno fu che la tabaccaia, versione slava di una
perversione felliniana, l’aveva definito “un mago”, anzi, “un vero mago”, cosa che
difficilmente accadeva, anche se lui era effettivamente un mago. Il terzo segno,
inequivocabile, si palesò mentre percorreva viale Carducci, e una persona dalla
faccia antipatica, dopo aver incrociato il suo sguardo, era inciampata su una radice
sporgente nel marciapiede ed era caduta a terra.
“Porta jella”, avrebbero creduto in tanti; “è il mio giorno fortunato”, pensò invece
David, che aveva sempre nutrito la certezza che alle persone che gli erano antipatiche non accedesse mai nulla di male.
Arrivato in fondo al viale, all’angolo dove sorgeva la libreria Safarà, tirò l’ultima sigaretta del pacchetto: perso com’era nel contemplare i successi della giornata e
a limare gli ultimi dettagli del piano lungo i due chilometri del tragitto, aveva fumato
rapsodicamente, un tiro o due al massimo, scacciando con le cicche anche i pensieri di insuccesso. Perché non poteva andare male, non poteva andare male
104
anche quella volta.
«David Malvezzi, se non la smetti di assillarmi giuro che chiamo la polizia e ti denuncio per stalking, se solo fossi certa che tu sappia cosa significa.»
La libreria, come al solito, era avvolta nel buio; solo la zona vicina alle casse era
illuminata dagli occhi di due pipistrelli di plastica che penzolavano dal soffitto, mentre il sole era tenuto a debita distanza dalle tende viola di stoffa che coprivano
buona parte della vetrina.
Cassandra se lo ritrovò di fronte mentre stava rientrando dal magazzino dove
aveva appena preso tre tomi troppo pesanti per il suo fisico ai limiti dell’anoressia,
ma non così pesanti perché lasciasse che David venisse in suo soccorso.
«Non mi pare ci siano gli estremi per...» messo in difficoltà, David Malvezzi tendeva
a uscire dall’impasse usando un linguaggio forbito al quale non credevano nemmeno gli estranei, figurarsi lei.
«Credi che in due mesi non mi sia accorta di te che mi aspetti sotto casa finché
non rientro? O delle misteriose telefonate anonime che ricevo in negozio? O di
quando resti giorni interi là fuori a spiarmi?»
Secondo le leggi dell’ars oratoria che David aveva studiato al liceo, la parte peggiore doveva essere passata, ma forse Cassandra non aveva avuto le sue stesse
letture.
«…almeno mi avessi spiato, almeno ti fossi nascosto: no, come un cretino su viale
Carducci, ore e ore su quella panchina a fumare e bere birra in lattina come un disadattato... sembravi la versione handicappata di Forrest Gump… chissà cosa
avranno pensato...»
«Da quando ti interessi di quello che pensano gli altri?»
«Dal momento esatto in cui ho capito che non volevo stare con te.»
Non che fosse sempre stata così stronza, Cassandra.
Sei anni fa era una neo laureata in antropologia culturale di ventiquattro anni con
gli occhi carichi di sogni per il proprio avvenire. Fallita la possibilità di un dottorato
all’estero per un disguido con il suo relatore (lui la pretendeva ma non gliel’aveva
data) era tornata in Romagna, dove aveva preso in gestione i locali del negozio di
souvenir marittimi di famiglia con l’idea di adattare l’attività a quelle che erano le
sue passioni, ovvero la magia e l’occulto.
Sei mesi dopo il negozio di souvenir si era trasformato in una libreria specializzata
in arti occulte (Safarà, sì, come quella di Dylan Dog), mentre il vice responsabile
crediti della filiale di Tagliata del Banco Romagnolo, ragioniere Malvezzi Davide,
aveva ormai abbandonato la sua scrivania per seguire il proprio destino diventando
così David M., cacciatore di spiriti malvagi e illusionista a tempo perso. In realtà
tendeva a soprassedere sulla sua attività principale, preoccupato che organizzatori
di convention aziendali e direttrici di asili nido, i clienti che gli consentivano di restare sopra l’indigenza, potessero vedere in cattiva luce le sue scorribande notturne in cerca di demoni, vampiri e compagnia.
David e Cassandra, che in un ambiente come quello di Cesenatico avrebbero dovuto faticare per non incontrarsi, avevano assecondato la reciproca attrazione arrivando a celebrare, due pleniluni dopo, un rito di fidanzamento con tanto di sabba
105
celebrato sulla foce del Rubicone per ringraziarsi gli spiriti, ma soprattutto la signora Malvezzi che una qualche forma di ufficialità alla relazione del figlio la pretendeva.
Nel corso della loro lunga relazione, David si era spesso chiesto cosa avesse mai
trovato in lui una ragazza come Cassandra, arrivando a elaborare ipotesi perfino
credibili, ma a giudicare da com’era finita, ci doveva essere qualcosa che gli era
sfuggito.
«Sei patetico, un verme inutile, sei l’intruso che intasa il water.»
«La verità è che tu non sopporti che io sia qua fuori perché ogni giorno ti sbatto in
faccia quanto era magica la nostra storia.»
Cassandra odiava essere contraddetta, e quando veniva contraddetta Cassandra
si arrabbiava sul serio, e se si arrabbiava sul serio aveva il vizio di sbattere qualsiasi cosa avesse a portata di mano: porte, posate, gatti, la faccia di David Malvezzi. In quel caso furono i tre tomi di magia nera larghi quasi mezzo metro che
prese a picchiare sul tavolo della cassa con tale forza da farlo quasi crepare. Poi,
come al solito, si alzò sulle punte dei piedi e serrò le mani fino a formare due piccoli
pugnetti che gli puntò sotto il mento.
«Non sopporto più te, la tua faccia, i tuoi vestiti logori e... il tuo odore» prese ad
annusare l’aria, «Dio Santo David, ma da quanto non ti fai una doccia?»
David era sempre stato una persona con una sua dignità igienica e fin da piccolo
la signora Malvezzi gli aveva imposto l’abitudine di farsi una doccia ogni mattina
appena sveglio; sveglia e getto d’acqua scattavano con riflessi pavloviani. Ma dopo
la fine della storia con Cassandra iniziò a soffrire d’insonnia e alle ore diciotto e
dieci di quel sabato stava per superare il suo record di duecento e passa ore di
veglia ininterrotta.
«E io che pensavo fossero queste fialette a puzzare così tanto!» si intromise il
commercialista Palmanovi sbucando dal reparto gadget con qualche intruglio proveniente dalla Transilvania sotto le narici. Il commercialista Palmanovi era stato
uno degli allievi più sciroccati tra i tanti incapaci che avevano partecipato al primo
e unico corso di micromagia tenuto da David Malvezzi nel retrobottega del Safarà:
pessimo entertainer, non riusciva a seguire il gioco delle tre carte che lui stesso
gestiva, confondeva le formule magiche e durante il saggio finale il suo tentativo
di estrarre un coniglio dal cilindro si risolse in una cena che David preparò a Cassandra la sera dopo l’esame.
«Lei si faccia gli affari suoi, ma tornando a noi...» era in difficoltà, doveva mostrare
intelligenza. «Non lo sai che il WWF ha promosso una campagna contro lo spreco
dell’acqua? Una doccia ogni due giorni è più che sufficiente per mantenere la propria dignità.» David Malvezzi aveva letto quell’informazione su un depliant prima
di usarlo come fazzoletto.
«Tu vieni a parlare di ambientalismo a me?! Tu hai sgozzato quattro capre perché
pensavi che il loro sangue ti servisse per un incantesimo, e poi quando ti sei accorto di aver tradotto male dall’aramaico le istruzioni hai lasciato i cadaveri sul ciglio dell’Adriatica e a quello del distributore quasi non viene un infarto perché
pensa si tratti di un avvertimento mafioso...»
Cassandra riprese in mano i libri e, facendosi largo con una spallata, si avviò verso
106
lo scaffale di riferimento “Magia nera, occultismo, marketing”.
Con quel suo comportamento ostile lo stava obbligando a mettere in atto il primo
dei suoi due piani fino in fondo, cosa che non voleva fare perché desiderava sì riconquistarla, ma non sfoderando tutti i poteri di cui era in possesso. Ma forse c’era
ancora tempo per parlare e...
«E se non l’hai ancora capito, voglio che tu esca dal mio negozio e se Dio mi concedesse la grazia, anche dalla mia vita» disse lei mentre, dandogli le spalle, infilava il primo dei tre tomi nello scaffale più in alto.
Ok, l’aveva voluto lei con quell’attacco diretto: David Malvezzi si vedeva costretto
a mettere in atto il piano numero uno, nome in codice: strategia laterale. Recuperò
l’espressione più spavalda del suo repertorio pescando tra i suoi modelli di riferimento: Osvaldo Valenti e David Copperfield e, dopo aver incrociato le braccia, si
appoggiò a una colonna della libreria.
“Guarda fuori dalla vetrina come se parlassi di cose senza importanza e, mi raccomando, voce impostata” si ripeté prima di iniziare.
«Ho notato» partì in falsetto per l’emozione, tossì per rimettere a posto il tono, poi
riprese: «Ho notato che negli ultimi tempi gli affari non vanno un granché bene.»
Nell’ultima settimana, e si parla dell’inizio dell’alta stagione, aveva contato solo
dodici ingressi, molti dei quali uscivano senza aver acquistato niente, molti dei
quali erano il commercialista Palmanovi.
«Si dà il caso che una certa persona» “avrà capito che parlo di me?”, si chiese,
«sia in contatto con molte altre persone che sarebbero ben felici di tornare a fare
acquisti qui da te...»
«Che cosa stai dicendo?» replicò Cassandra, stupita.
«Sto parlando di tutti i miei amici che da quando ci siamo lasciati hanno smesso
di venire qua per solidarietà nei miei confronti, visto l’ignobile maniera in cui mi
hai trattato.» E ora il colpo finale, l’Enola Gay di tutte le vendette di un ex: «Basta
solo una mia parola e qua dentro tornerà a scorrere lo stesso fiume di persone
che c’era l’anno scorso. Ti chiedo di darmi solo un’altra possibilità e grazie a me
e rivedrai riprendere i tuoi affari.»
David Malvezzi aveva ovviamente previsto qualsiasi tipo di reazione possibile, era
pur sempre un mago abituato a confrontarsi con la sorpresa delle persone di fronte
all’incredibile, ma la risposta di Cassandra, l’unica parola con la quale rispose, lo
colse del tutto impreparato.
«Internet.»
Cosa? Cosa significava internet?
David Malvezzi suppose che lei volesse solo prendersi un po’ di tempo, magari il
tutto poteva partire con un paio di chiacchiere in chat o con uno scambio di mail
romantiche.
«No, non hai capito nulla, coglione. Se quando stavamo insieme mi avessi mai
ascoltata sapresti che ormai da un anno il novanta percento degli incassi li faccio
vendendo via web o su ebay, e che tengo queste quattro mura solo perché ci sono
affezionata, visto che mia nonna ci ha lavorato una vita. E i tuoi amici “solidali”
sono ancora tra i miei più affezionati clienti, anzi, ora che faccio consegne a domicilio, comprano più di prima.»
107
«Anche io compro online e se vengo qui è solo perché mi fa piacere vedere questa
deliziosa signorina» si intromise nuovamente il commercialista Palmanovi.
«Ma lei vuole stare un po’ zitto?! Qua c’è qualcuno che ha delle cose importanti
da dirsi.»
Come un gentleman d’altri tempi il Palmanovi, accortosi di essere di troppo, salutò
Cassandra con un delicato baciamano e uscì dal negozio.
Forse il primo atto non era proprio andato come previsto ma David Malvezzi aveva
già il secondo colpo in canna, il diretto, il letale, il piano numero due: il nome in
codice ufficioso dell’operazione ora passava da “mettiamola sugli affari” a “suscitare pietà”. David si inginocchiò quindi ai piedi della sua ex e strinse le braccia intorno alle ginocchia magre e pallide che sbucavano dalla gonna di jeans. Pochi
istanti prima di accasciarsi a terra, con abile mossa da mago, si era spruzzato del
liquido per stimolare le lacrime che era solito usare nelle sue esibizioni più melodrammatiche, un misto di cipolla e acqua della laguna di Marghera. Ma aveva esagerato e ora le pupille odoravano di tabasco e per il dolore il tono di voce si tramutò
in stridulo, infantile, da vecchio in fase di delirio di fronte all’abisso imminente.
«La mia vita non ha più senso senza di te... non faccio una convention da due
mesi... mi sono rimaste solo le feste per i bambini... e anche quelle mi fanno schifo,
li odio tutti quei mocciosi, e poi vogliono solo essere ammanettati e fatti sparire...»
«David...»
«Dimmi che non hai un altro, e se un altro c’è, non è quell’hippie del cazzo con la
coda e gli occhialini alla Elton John, quello della farmacia omeopatica vicino al
porto vecchio, quello che a gennaio ti scrisse quel messaggino...»
«David, ti prego...»
«Non ci sto più con la testa, l’altra sera quasi mi facevo sventrare da un maligno
di grado zero perché mi ero dimenticato l’acqua sacra a casa... sono sempre
ubriaco, non dormo più, puzzo da far schifo, non so cucinare... riprendimi con te!»
poi urlò: «Perché non mi vuoi?!»
Cassandra gli fece segno di alzarsi poi, una volta che fu in piedi, prima con un
fazzoletto bianco gli asciugò le lacrime dal volto e passò il dorso della sua mano
sulla guancia arrossata con una tenerezza che stavano per farlo commuovere
nuovamente, questa volta sul serio.
“Ha funzionato”.
Avvicinò quindi le labbra al suo orecchio, David notò che il rossetto aveva il profumo dell’albicocca, quello che piaceva a lui.
“Cazzo, ha proprio funzionato. Lo sapevo, come patetico sono imbattibile.”
Sussurrò:
«Non ti voglio perché sei un fallito e mi fai anche un po’ pena. E ora fuori dal mio
negozio o chiamo sul serio la polizia, coglione.»
Una volta fuori, David si chiese dove avesse sbagliato nel leggere i segni di un
destino, e se non fosse il caso di dare una ripassatina al manuale di ars aruspicina.
“Però è ancora carina” pensò.
Stava per rimettersi sui suoi passi tornando mestamente all’Ape Car che aveva
108
lasciato vicino al grattacielo, quando una voce conosciuta lo colse alle spalle.
«È lui mamma! È lui il mangia merda!»
Riconobbe immediatamente quel piccolo nano bastardo dai capelli ricci e rossi
con i polsi troppo cicciotti per la sua età e la madre, una megera cesenate cafona
dalla criniera d’argento. Se la diede così a gambe levate e ce l’avrebbe anche
fatta a svignarsela se la familiare azzurro confetto del commercialista Palmanovi
non si fosse fermata allo stop e non l’avesse travolto.
Era ancora tramortito quando i piccoli ma precisi calci del bambino iniziarono ad
arrivargli, con un ritmo da orologio svizzero, nell’area facciale.
«Mangia merda! Ha ragione il mio papà, sei un mangia merda!»
Ebbe il tempo di ripetere calci e frasi più volte, anche perché la mamma non aveva
la minima intenzione di fermarlo, e l’unico suo probabile alleato, il commercialista
Palmanovi, impiegava a causa dell’artrosi non meno di sette minuti netti per scendere dalla vettura.
«Lei e le sue stupide manette! È dalla festa di compleanno di suo cugino che cerchiamo di contattarla per liberarlo» si intromise la madre tra un mangia merda e
l’altro. «Per un trucco del piffero lei ha legato mio figlio come un salame poi è
scomparso... mio marito e suo fratello l’hanno cercata per ore attorno a casa ma
hanno trovato solo il suo costume abbandonato vicino una bottiglia di vodka vuota»
e travolta dall’emozione sferrò anche lei un colpo di sandalo in faccia a David.
In effetti, notò David, il piccolo bastardo aveva le manine legate proprio dal paio
di manette che mancavano all’appello, quelle con gli elefantini disegnati sui polsi
e che lui si era convinto di aver perso in cantina dopo l’ultima e molto degenerata
sbronza.
Prima di svenire travolto da un mix letale di umiliazione e puro dolore fisico, il mago
David M. promise a se stesso che era giunto il tempo di rifarsi agli occhi della vita.
Non sapeva ancora come, ma quella sera ci avrebbe provato.
A dire il vero, l’ultima cosa che vide fu l’arrivo davanti alle vetrine della libreria Safarà di un uomo alto quasi due metri, coda di cavallo, camicia a fiori aperta sul
petto, occhiali con lenti blu alla Elton John.
Il bastardo aveva pure delle rose in mano, quel tipo di fiore che per anni Cassandra
gli aveva giurato di odiare. Ma quell’immagine David Malvezzi non se la ricorderà
al suo risveglio: sarebbe stato un segno troppo evidente che in effetti quel giorno sarebbe stato sì positivo, ma per qualcun altro.
5.
Imola, ore 18:28
Il club “non abbiamo voglia di andare al mare in mezzo a quel casino” pareva essersi dato appuntamento al Blockbuster di Imola quel pomeriggio.
Chiara, che era stata la bassista del primo gruppo di Luca Bazetti (una cover band
degli 883, i “Non me la suonare”), spuntava dietro alla cassa cercando di placare
l’orda di clienti che più o meno velatamente mostravano il disappunto per la lentezza con cui la commessa sembrava svolgere le sue funzioni.
109
Luca Bazetti, fiato ancora corto per la maratona improvvisata, non poteva lasciare
semplicemente i film nella buchetta e andarsene, doveva infatti consegnare le
copie a mano se voleva che in nome della vecchia amicizia Chiara gli togliesse il
ritardo accumulato in due settimane (e Luca Bazetti non voleva sborsare cinquanta
euro per “Scream”, “Nightmare 3” e “La casa delle finestre che ridono”). Si mise
quindi in fondo alle quindici persone in fila e, controllato l’orologio dietro il bancone,
fece due calcoli: se Chiara non si fosse persa in chiacchiere, se davanti a lui non
ci fossero stati clienti sprovvisti di tessera, se non ci fosse stato qualche stronzo
che si impuntava a non voler pagare il ritardo, se i due bambini presenti non avessero piantato qualche grana dell’ultimo momento cambiando continuamente idea
su quale film prendere... insomma, se fosse accaduto quello che in un normale
sabato da Blockbuster non accadeva mai, Luca Bazetti, correndo a perdifiato fino
alla parte opposta della città, sarebbe potuto ancora arrivare a casa in tempo.
6.
Bologna, ore 18:30
La camera di Jamal era l’unica di tutta la casa dove c’era l’abitudine a bussare
prima di entrare.
«Avanti» rispose il giovane che per specchiarsi era costretto a piegare la schiena
come il soggetto di una macchina fotografica dall’obiettivo troppo stretto.
Era Amad. Al contrario di Jamal, ancora in mutande, lui era già pronto per la serata
sin da tarda mattinata. Aveva lavorato così tanto al ristorante nelle ultime due settimane che aspettava quel sabato sera di riposo in riviera con trepidazione.
«Tuo cugino... era in vistoso imbarazzo… Joussef.»
«Cos’ha combinato stavolta...?» chiese portando davanti allo specchio la sfumatura del lato destro.
«Non ho capito bene, ma se vuoi che neanche questa volta lo uccidano, vieni di
là. E fai in fretta.»
“Me li ha tagliati proprio alla cazzo” pensò facendo ben attenzione che Jamal non
si accorgesse del suo disappunto. Si infilò una maglietta dei Simpson che teneva
appoggiata sulle spalle e seguì il coinquilino lungo gli stretti e afosi corridoi dell’appartamento, pronto a risolvere l’ennesima crisi diplomatica.
«Io continuo a sostenere che Israele abbia le sue ragioni.»
Il naso di Joussef ora sanguinava molto meno, il tampone che Jamal gli aveva inserito nella narice sembrava funzionare, anche se la voce del giovanotto usciva
ancora più simile a quella di un papero saccente.
«So che hai ragione, ma forse...»
«Se leggessero qualche giornale» da terra prese in mano alcune copie di quelle
riviste straniere a cui era abbonato e che ogni settimana intasavano la buchetta
delle lettere, «capirebbero che sono nel giusto...»
Di questo Jamal ne era certo a priori, ancor prima di arrivare in soggiorno e sedare
la rissa, o meglio, pestaggio: suo cugino nel giusto lo era sempre. Era nel giusto
quando all’inizio dell’estate scorsa contattò la CGIL per far denunciare le ridicole
110
condizioni di sicurezza di un cantiere edile vicino alla stazione, peccato che per
quell’impresa lavorasse più di metà del caseggiato e che per colpa sua buona
parte fosse stata licenziata in una sorta di vendetta trasversale.
Quella volta Joussef uscì dallo scambio di opinioni (leggi: agguato) avvenuto nel
cortile condominiale con due dita rotte, una decina di lividi sparsi per il corpo e minacce di morte che l’avrebbero accompagnato negli incubi per settimane: e questo
pur essendo il cugino di Jamal, quel Jamal.
«Non è colpa mia se loro sono stupidi.»
«Saranno anche stupidi, ma vivono con noi, anche con te. Sono i nostri amici, la
nostra famiglia.»
Gli aveva fatto quel discorso almeno un milione di volte: ogni sera che Joussef
entrava in soggiorno sbraitando perché coinquilini e altri amici, giocando con la
playstation, gli impedivano di concentrarsi a dovere negli studi e questi lo lapidavano di patatine e pop corn; ogni volta che a cena metteva su un caso per un errore nella raccolta differenziata a persone che si erano svegliate all’alba per andare
su impalcature o in catena di montaggio e questi per poco non gli infilavano le forchette nel costato; ogni volta che si parlava di figa davanti a un porno e lui tirava
fuori il concetto di dignità femminile e si beccava del frocio e, a volte, un’altra forchettata
nella mano.
Ma Joussef era fatto così, non riusciva a farsi amare dalle persone, non c’era mai
riuscito in Marocco da bambino e a maggior ragione non ci sarebbe mai riuscito
nella sua vita adulta in Italia. Per questo Jamal lo vedeva già avvocato.
«Senti, gli animi si sono surriscaldati un po’ troppo oggi e anche se gli altri mi
hanno promesso che ti chiederanno scusa, le cose non possono andare avanti
così.»
«Mi stai cacciando?»
Jamal sapeva che Joussef avrebbe accettato una vita da odiato da tutti ma non
lontano da lui, perciò l’ipotesi di estrometterlo dal nido era fuori discussione. E poi
lui stesso non aveva la minima voglia di allontanare l’unica persona davvero intelligente che conoscesse in famiglia.
«No, stupido... ma devi integrarti!» si alzò e gli mise le mani sulle spalle, usando
quel tono paterno che nessuno aveva usato con lui. «Sei molto meno stronzo di
quanto vuoi far sembrare, io lo so, ma gli altri fanno fatica a crederti. Per questo
stasera uscirai con noi, c’è la Notte Rosa al mare, un sacco di feste in giro... Verrai
a ballare con noi e dimostrerai a tutti di essere simpatico, almeno un pochino.»
«Non esiste, tra dieci giorni ho un esame di diritto marittimo e sono indietro...» balbettò.
«Joussef, non fare il musone. Te lo chiedo io.»
“Te lo chiedo io” era un colpo basso e Jamal lo sapeva, ma non poteva fare altrimenti o rischiava di perdersi in ore di discussioni che non avrebbero portato a nulla
e, pur con tutto l’affetto del mondo, aveva altri programmi ben più piacevoli per la
serata.
«Partiamo tra dieci minuti per Marina di Ravenna» disse con tono risolutivo mentre
usciva dalla stanza, «quindi vedi di muoverti.»
«Ma...» aveva mille obiezioni, nessuna valida. «Va bene…» pausa, piuttosto lunga,
111
«...marocchincello.»
Jamal si fermò sulla soglia della porta e rifletté su cosa consistesse l’essere cugini,
almeno per lui: non nell’avere come padri due fratelli, ma nel ridere ancora come
pazzi per quel modo di dire che solo loro, che erano passati sotto le grinfie di un
arrogante e razzista professore di lettere alle medie, sembravano ricordare.
Jamal tornò indietro e i due si abbracciarono.
7.
Imola, 18:42
Luca Bazetti stava tagliando la piazza principale di Imola correndo a perdifiato (“ce
la faccio, ce la faccio, ce la faccio...”), dribblando un paio di mamme con carrozzine
e il tandem che trasportava l’assessore locale al bilancio e la sua signora, quando
squillò il telefono.
“Lei, lei e il suo solito tempismo”.
Non avrebbe risposto, ovviamente, se quella stessa mattina non avesse chiuso la
comunicazione su Skype dicendole in maniera chiara e diretta che se fosse andata
a Nantes in compagnia di quel Philippe poteva dichiararsi single.
Alt, rewind.
Luca Bazetti era fidanzato da circa un anno con Maria Cristina, perugina, bella
presenza, automunita, studentessa fuorisede presso l’università di Bologna al
terzo anno di ingegneria gestionale, media del trenta e lode, aziende che chiamavano in continuazione per proporle stage su stage (fin qui tutto bene) e attualmente
in Francia per il progetto Erasmus (da lì tutto male).
Luca Bazetti, figurante senza battute nella facoltà di economia e marketing dello
stesso ateneo, era sinceramente contento per i progressi della propria compagna,
e quando lei gli aveva confessato il suo desiderio di recarsi all’estero per un periodo di studi aveva assecondato la sua volontà. Certo, quando venne a sapere di
essere stato informato già a consegna della borsa di studio avvenuta si sentì un
po’ preso in giro, ma come gli aveva insegnato suo padre (quello vero, non il replicante che girava per casa in mutande monopolizzando tutte le sere Sky Sport)
si era messo nei suoi panni e aveva lasciato correre.
Di Philippe invece non ne sapeva nulla se non che era belga, che era il classico
belloccio da Erasmus, che studiava medicina e che la sua presenza nelle foto che
Cristina postava su Facebook cresceva esponenzialmente giorno dopo giorno:
prima come figura di sfondo, poi come parte del gruppo (zona centro/laterale) infine, immagine degli ultimi giorni, solo insieme a Maria Cristina in una serie di pose
a due a base di linguacce e brindisi. Abbastanza per scatenare fiammate di gelosia
e un bruciante desiderio che la convivenza tra fiamminghi e valloni degenerasse
in una guerra civile, con un richiamo immediato in patria per tutti i belgi e il loro arruolamento forzato nell’esercito nazionale. Nell’improbabilità di questa ipotesi
anche una forma inguaribile di herpes avrebbe portato analoghe felici conseguenze.
Quel sabato mattina, nella loro consueta chat prima del weekend, lei lo aveva av-
112
visato che nel pomeriggio sarebbe partita insieme ad altri erasmuci alla volta di
Nantes, e Luca Bazetti, senza che dalla bocca di Cristina uscisse un solo riferimento a Philippe, era sbottato in una serie di improperi e vaghe allusioni fino a
chiudere d’improvviso la conversazione minacciando di lasciarla in quanto “puttana
e senza cuore”. Se non avesse risposto subito le conseguenze che potevano scatenarsi erano incalcolabili, soprattutto con quell’avvoltoio belga nei paraggi pronto
alla sua prima mossa falsa; se avesse risposto, la logorrea di Cristina gli avrebbe
fatto perdere l’anticipo netto di due minuti che era riuscito ad accumulare contro
la viscida Clara.
E così lo sventurato rispose.
113
114
Un impero di famiglia alle prese con il passaggio generazionale, il nipote
del fondatore che ne sta scardinando gli equilibri, un gruppo di colleghi
incapace di fermare il tracollo, sono gli elementi attorno ai quali ruotano
le vicende del romanzo. Natan Mondin si abbandona al manifesto dell’impotenza che guida i personaggi tra uffici, linee di produzione, campi
da golf e motel. Dal direttore di stabilimento che si rifiuta di trasferire la
produzione nell’Europa dell’Est al fedele ragioniere che viene licenziato
in tronco; dall’impiegato dell’ufficio acquisti al top manager, tutti vengono
risucchiati nel vortice insensato di ruoli che è divertente leggere in un romanzo, ma speri di cuore non ti capiti mai.
Natan Mondin nasce nel 1978 a Milano, si trasferisce dopo una settimana a Bresso, dove abita da circa trentatré anni. Lavora per un ente
coreano e Agglomerato è il suo primo romanzo.
115
Agglomerato, Natan Mondin.
La paura
Le scale mobili sono più pericolose degli ascensori. Il gradino gli ballava sotto i
piedi. Sono più pericolose perché non hanno i cunei lungo le guide laterali, il pistone di frenata e il doppio cavo di sicurezza. Il problema sta nella fossa, nella
mancanza di dispositivi di sicurezza realmente efficaci, nel movimento dal basso
all’alto e viceversa. A causa di una manutenzione non proprio ortodossa, quel
pezzo di metallo avrebbe potuto cedere, lui si sarebbe incastrato fra l’alluminio e
il vuoto; una volta arrivato alla piattaforma avrebbe fatto la stessa fine di Robespierre.
Anche il corrimano non gli dava fiducia. Poteva succedere l’incidente più banale
mentre stava lì aggrappato alla striscia di gomma nera che, cedendo all’improvviso, l’avrebbe trascinato in avanti fino fargli perdere l’equilibrio. Si sarebbe ritrovato con il naso schiacciato e il viso tumefatto. Una questione statistica, un dato
di fatto, come dire che un italiano su tre ha i baffi.
Finalmente aveva appoggiato i piedi sulla terraferma del secondo piano. Aveva
comprato una Coca, si era accomodato a un tavolino che dava sull’ampia area
d’atterraggio della macchina infernale, lontano dalla vista di tutti.
Era del tutto immotivato. Darsi appuntamento in quel posto in un giorno di festa.
In molti avevano approfittato per agganciare un giorno di ferie al fine settimana.
Da quando lavorava in Riva non aveva mai fatto un ponte. Si guardava attorno attento a riconoscere volti e fisionomie; se un paio di occhiali, la camminata, le
spalle, un taglio di capelli gli sembrava appartenessero a qualcuno dei suoi colleghi, abbassava la testa, leggeva un sms immaginario, scorreva i nomi sulla rubrica
del cellulare.
Scuoteva il bicchiere di carta, i cubetti urtavano uno contro l’altro, osservava chi
scendeva al piano uno alla volta. Con la cannuccia succhiava l’acqua rimasta sul
fondo; era una cosa che non tollerava. Aveva chiesto senza ghiaccio e l’avevano
messo lo stesso. Il trucco più vecchio del mondo per fare margine con le bevande.
Ok McDonald’s, ma se anche il pizzaiolo egiziano l’aveva imparato voleva dire
che la fine era vicina.
Asfissiato dalla preoccupazione di non farsi riconoscere, si teneva il viso tra le
mani. Lo cercava fra la gente che si lasciava portare in giro dai cartelli di saldi e
occasioni. Le persone si spingevano verso la galleria di vetrine. Quando lo riconobbe, gli fece un piccolo cenno con la mano sinistra, lo salutò con gli occhi e appoggiò il bicchiere sul tavolino di metallo.
«Scusa il ritardo, mi aspettavi da molto?»
«No, ho preso soltanto da bere.»
«Allora vado a ordinare, cosa mangi?»
«Un kebab senza cipolla.»
«Patatine?»
116
«Ok.»
«Ketchup o maionese?»
«Tutti e due.»
«E poi?»
«Prendimi un’altra Coca.»
«Va bene.»
«Tieni.»
«Lascia stare, offro io.»
«Allora io pago il cinema.»
«Non incominciare.»
«Ma sono io che ti ho detto di venire.»
«Che c’entra, mi devi raccontare le novità.»
«Aspetta, vado a ordinare.»
Tornò con il vassoio, inseguito da una scia di spezie e olio esausto.
Scaricò prima le bevande e poi il cibo, si sedette.
Rimoldi
Ho ceduto e sono andato al vegetariano. Mara l’aveva detto che non mi sarei sentito a disagio, sono tutti in giacca e cravatta, a parte donne in tailleur e cameriere
in tuniche sgargianti.
Avevo una voglia tremenda di andarmene; sembravano tutti mezzi fatti, seguivano
ogni mio movimento con sorrisini ebeti e mani giunte. Tanto più che a due passi
c’è il pub dove abbiamo visto la finale. Quello del roast beef famoso. Mara è al limite della paranoia, mi ha perfino controllato nel portafogli per vedere se mi sono
iscritto.
L’altra sera mi ha fissato durante tutta la cena, in silenzio. Lei davanti alla sua insalata e ai germogli di soia, io alla mia costata. Manzo, ventiquattro euro al chilo,
Esselunga.
«Tu non sai cosa patiscono gli animali negli allevamenti, se lo leggessi anche tu,
non avresti più voglia di mangiare carne. Per non parlare del fatto che tutto lo
stress e l’aggressività che hai è di sicuro un riflesso, una conseguenza dei loro
maltrattamenti.»
Qualche segno di cedimento l’aveva già dato in passato, ma da quando si è messa
a leggere quel libro si è totalmente rincoglionita. Hai capito? Secondo lei io sono
aggressivo e stressato perché mi piacciono le bistecche.
Ad ogni modo non mi aspettavo nulla di simile, pensavo che fosse pieno di fricchettoni luridi e sballati, invece dentro è messo meglio che al matrimonio di mia
sorella: tavoli e sedie ricoperti di broccato, candido e profumato. Incenso ovunque,
ma non mi ha dato fastidio; i bicchieri e le posate molto semplici, le brocche d’acciaio, tutto lustro e di classe.
Alle pareti non c’è nulla, a parte le foto in bianco e nero di un ometto pelato e sorridente. In questo ambiente asettico l’unica nota di colore sono i fiori arancioni che
decorano le immagini del santone.
117
Ti puoi accomodare dove vuoi. Io mi sono seduto a un tavolino in un angolo, dove
non c’era nessuno e speravo che rimanesse vuoto. Non avevo nessuna voglia di
fare conversazione. La cameriera mi spiega tutta la manfrina, i due menù, la possibilità del bis, e mi dice di compilare con calma la tessera per l’iscrizione al centro
culturale. Scelgo il menù ridotto, come aveva consigliato Mara. Mi portano un vassoio con tre ciotole e un piattino, la cameriera mi dice di conservare il tagliando e
la scheda della tessera per la cassa.
«Da dove inizio?» le faccio.
«Se vuole può partire dall’insalata e poi proseguire in senso antiorario» mi risponde con un alito al gelsomino.
Nella sala non c’è musica, si sentono parlare soltanto i cucchiai. Divoro l’insalata
condita con noci e qualcosa che sembra panna acida, finisco in un nanosecondo
il riso e mi butto sul piatto forte, una caponata rinforzata con qualcosa di spugnoso.
Il tutto innaffiato con un succo di nonosochecosa, molto buono, sarà per le vitamine. Mi faccio il bis di caponatina e quando sto per addentare il dolce non sento
più il rumore delle posate. Un silenzio fastidiosissimo. Si distingue il respiro di ogni
persona. Dal fondo della stanza vedo entrare le cameriere in fila indiana. Lasciano
cadere i petali sulla moquette mentre si dirigono verso di me. Parte un frastuono
di cembali e flauti ed entra lui, quello delle foto, molto più magro, scavato dalla
fame, in tunica arancione. Il viso e il cranio lucidi, rasati, sulla fronte un bollino
enorme, molto più grande di quello delle cameriere. Si avvicina, tutti mi fissano a
mani giunte e non la smettono di harekrishnare. Il tizio si siede al mio tavolo, mi
saluta con inchino e mi versa una tazza di tè.
Non avevo ancora associato voce, sguardo e nome, quando mi dice:
«Dottor Rimoldi, è un piacere rivederla, la stavo aspettando.»
«In realtà sono venuto qui perché mi ha costretto Mara» balbetto.
«Non si faccia troppe domande, a noi non è dato sapere il volere di Krishna.»
Butto giù quello che rimane del tè.
«Mi venga a trovare quando vuole e mi raccomando, non abbia paura» dice mentre mi allontano verso la cassa. Ho pagato e soltanto allora ho capito che quel
santone sorridente avvolto dal lino arancione era il ragionier Malversi.
«Ti sarai sbagliato.»
«Ti giuro, era lui, dimagrito di almeno quindici chili.»
«E non sei più tornato a parlargli?»
«Sei pazzo, me ne guardo bene. Da quando mi hanno fatto quel discorsetto non
mi allontano mai dall’ufficio. Ho paura di trovare la mia roba in uno scatolone.»
«Esagerato.»
«Lascia stare. Non sai. Riva è un pazzo, e quello del fondo a cui sta cedendo la
società è ancora peggio. Senza scrupoli, muove tutto dietro le quinte. Mariani l’hanno lasciato a casa, dopo che ha trasferito tutta la produzione all’Est. Con lui
sono rimasti senza lavoro seicento operai. Mia sorella ha ricevuto il benservito, il
responsabile qualità, quello della logistica, il direttore vendite estero pure. La Riva
è un’azienda senza management, allo sbando. Ora temo anche per noi. Ho già ricevuto un avvertimento. Tu andrai a Roma, ma chi ha sponsorizzato il tuo trasfe-
118
rimento è stato Malversi.»
«Tu come fai a saperlo?»
Il ragionier Malversi
Non l’hanno mai affascinato le filosofie indiane, i Beatles sì. Nel 73, finite le superiori, il tirocinio, la naja nei bersaglieri e il posto fisso, ufficio contabilità fornitori alla
Riva S.p.A. Otto ore di partita doppia e poi la musica, le donne e la droga. Suonava
molto bene la chitarra ma non la usava per rimorchiare.
“Il Valore è un rapporto tra fasi di tempo. Così ad esempio una penna ha valore
perché prevediamo di scrivere; quindi il Valore è un rapporto fra il momento della
previsione e il momento previsto. La prima fase di tempo è il momento strumentale,
che attiene all'oggetto, la seconda fase di tempo del Valore è il momento edonistico
[di godimento del bene], che attiene al soggetto”.
Che cazzo significava quel biglietto?
Gliel’aveva lasciato Marzia sul vassoio, assieme alla pasta al sugo e la cotoletta
con patate. L’avrebbe invitata comunque al parco Lambro. Re Nudo, i suoi ex compagni di classe e gli altri del gruppo, ne parlavano da mesi. Spiritualità e musica.
Aveva preso ferie e una scorta di acidi. Marxisti, leninisti, anarchici, Hippy, Goa,
Osho, Abhay Charanaravinda Bhaktivedanta Swami Prabhupada e i suoi Hare Krishna a lui non gliene fregava un cazzo. Voleva vedere Finardi, donne nude e tanti
draghi volanti, magari ballare anche lui, senza vestiti. Con Marzia, che a parte le
prediche sul mangiare animali e sulla reincarnazione era veramente carina. Senza
cuffietta, con i capelli neri al vento e non solo quelli. Non portava il reggiseno,
l’aveva notato perché il grembiule bianco era di cotone leggero – il vecchio Riva
aveva risparmiato con la fornitura – e in mensa era più freddo che dalle altre parti.
Erano riusciti a stare insieme per il tempo del festival e poi c’erano stati gli scontri,
all’interno del movimento e fra di loro. L’amore libero non si conciliava con il concetto di famiglia di Malversi. Per quanto fricchettone, era pur sempre un ragioniere.
Lei lavorava in mensa per racimolare i soldi sufficienti per partire e andare in India.
Così fece.
Malversi trascorse il 77 e gli anni successivi lontano da P38 e rivolte. Nessuna
iscrizione al sindacato, niente Autonomia Operaia né eroina. La sua ribellione era
impugnare la chitarra dopo il libro mastro. Il dovere era poco e ben pagato e a lui
rimanevano più tempo e soldi per il piacere.
Dimenticò Marzia e si innamorò di Bob Marley.
Venerdì 27 giugno 1980 non era andato in ufficio, era stato uno dei primi centomila
che entrarono a San Siro. Si era portato dietro il suo batterista, il cantante, il bassista, due michette con la mortadella e una mela. La mela finì contro una delle coriste della Average White Band, le si scoprì una tetta mentre il resto del coro e il
gruppo erano spariti dietro le quinte. Forse in quel momento cadde l’aereo a Ustica
e per una sconosciuta coincidenza astrale lui si accese una canna. Dopo due tiri
la passò a una bionda con i pantaloni a zampa e il pezzo sopra di un bikini giallo
rosso e verde. La baciò per colpa di “No woman no cry” e, nonostante fosse cotto
119
dal sole e dalle nubi cariche di THC, le chiese indirizzo e numero di telefono.
Chiunque avesse un accendino lo teneva acceso, sull’ultimo anello comparve un
falò e la luna era rossa di caligine.
Uscirono per ultimi, lui e Barbara, fra lattine schiacciate e bottiglie rotte, dribblarono
una 127 blu e gli amici di lei, sparirono fischiettando.
La ospitò nel suo monolocale così lei tornò a Roma con due giorni di ritardo. Barbara per un anno lo andò a prendere a Termini il venerdì notte, Malversi si presentava il lunedì mattina in ufficio con barba fatta di fresco nei lavandini targati
FS. Le chiese di trovarsi un lavoro a Milano. Lei non amava la nebbia e aveva un
debole per gli ufficiali dei Granatieri. Così un venerdì non trovò la Renault 4 posteggiata in doppia fila in via Marsala. Probabilmente aveva avuto un contrappello
al forte di Pietralata. Per quello ogni volta che sentiva “Cinzia e Piero” di Venditti
alla radio cambiava stazione o spegneva. Barbara il veleno l’aveva iniettato a lui.
Vendette la chitarra.
Nel gennaio dell’82 venne promulgata la legge numero diciassette “Norme di attuazione dell'art.18 della Costituzione in materia di associazioni segrete e scioglimento dell’associazione denominata Loggia P2” e il capo ufficio contabilità
generale andò in pensione. Il vecchio Riva lo chiamò in ufficio e gli offrì una promozione in cambio di un taglio radicale di capelli. Chiuse il suo primo bilancio e
quando Zoff alzò la coppa del mondo, si trovò il primo ciuffo incastrato fra i denti
del pettine.
Con i capelli lo lasciò anche il patriarca, il fondatore dell’impero di cui lui era arrivato a tenere le chiavi della cassaforte. Poco prima lo aveva convocato in ufficio,
gli aveva mostrato la copertina dell’Espresso con la foto di Ania Peroni e Craxi.
«Prima regola: negare l’evidenza. Ma è per questo che ho combattuto sul Piave e
vostro padre ha assalito convogli nazisti? Troie a palazzo, cocaina fra i ricchi e robaccia per i poveri? Menomale che me ne sto andando. Voi state attenti, vi affido
la baracca. Tenete d’occhio mio figlio e soprattutto mio nipote. Non può venire
niente di buono da uno che è stato tirato grande da mia moglie. Mi raccomando.»
Aveva seppellito le parole del vecchio con la sua cassa. Ottenuta la fiducia del figlio, a cui non faceva mancare nemmeno l’illusione di manovrare uomini e capitali,
era pronto a manipolare il loro destino attraverso i numeri.
Alberto
Era arrivato per caso a Milano, perché a Roma tutti i suoi amici non contavano
nulla. Perché nessuno doveva favori a suo padre. Aveva soffocato l’idea del posto
fisso nell’esercito sul nascere, al contrario di molti suoi amici. A chi aveva detto
bene, si era ritrovato a organizzare i turni di guardia alle ambasciate e alle sedi diplomatiche, oppure tratteneva la pancia con il cinturone di cuoio davanti alle banche e sui furgoni blindati che ritiravano i soldi alla chiusura dei supermercati. In
tanti avevano preso le missioni di pace come una scorciatoia per mutui più leggeri
o per sistemare i conti delle famiglie. Enzo era partito perché ci credeva, alle sue
capacità, alla battaglia per la democrazia, la libertà e tutte le belle chiacchiere con
120
cui tanti si riempivano la bocca. Tranne lui.
Stava in cima al mucchio, le avevano stampate al centro commerciale con uno di
quegli aggeggi dove infili la chiavetta e toccando lo schermo scegli inquadratura,
formato, quantità.
Gli occhi di Enzo non si vedevano, le lenti erano troppo grandi e scure. Indossava
gli occhiali di un’amica, quelli da diva: un po’ Monica Bellucci, un po’ Sandra Mondaini. Si divertiva a prenderlo in giro. Sembrava di sentire il rumore della sua risata,
che lo metteva in imbarazzo quando stavano in pizzeria o in metropolitana, e che
ora mancava da morire a tutti.
Era abbronzato, l’avevano scattata al mare, i due solchi fra la bocca e le guance
che formavano i vertici di un triangolo perfetto con la fossetta sul mento si notavano ancora di più. L’ultima vacanza insieme della comitiva. Aveva sorriso anche
a Ciampino prima di partire. Li aveva salutati con lo sguardo dello stesso colore
della divisa, fino a quando le palpebre avevano smesso di raccogliere le lacrime.
Si era girato e se n’era andato.
L’aveva conosciuto pochi mesi prima della maturità. Lui, già diplomato, lavorava
nella carrozzeria del padre mentre aspettava l’esito del concorso. Abitavano nello
stesso quartiere, uno dei tanti a ridosso del Grande Raccordo Anulare. Palazzi
come caserme e caserme fra i palazzi. I pini lungo le strade, troppo piccole per
contenere il flusso di auto verso il centro. I muri usati per la corrispondenza fra innamorati, per insultare gli avversari politici o sfottere la tifoseria avversaria.
Aveva raggiunto gli amici sotto casa alla solita ora, uno dei tanti sabato sera. Si
erano incontrati lì, fra i cassonetti tenuti aperti dalle cassette di frutta, fra l’odore
di marcio misto CK One.
«Lui è Enzo, sta in classe con mio cugino.»
«Piacere, Alberto.»
L’aveva incrociato tante volte, una di quelle persone che sono una parte del tuo
mondo ma su cui non ti soffermi mai, come i manifesti che fanno sentire la loro
presenza con i simboli dei partiti ma che non ti viene mai voglia di leggere. Era
uno di quei ragazzini che tormentavano i più grandi per poter fare un giro con le
loro moto nuove. Che saltavano con la bicicletta sulle pedane dei carri attrezzi in
manovra, che finivano le superiori uno o due anni dopo la media perché passare
le ore sui libri era quanto di più vicino ci fosse a un soggiorno a Rebibbia.
L’aveva rivisto diverse volte anche senza gli altri, Alberto aveva deciso di leggere
quel manifesto, per capire come mai fosse così vivo. Davanti a una birra gli aveva
chiesto per quale motivo si fosse arruolato.
«Più per passione che per necessità.»
Gli aveva raccontato della prima parata a cui aveva assistito, sulle spalle del
nonno.
«L’unico modo per migliorare questo mondo è dare il buon esempio. Non posso
farlo usando la testa.»
Quella era stata l’unica volta in cui la sua risata non lo aveva messo in imbarazzo
per l’invadenza, ma per un motivo molto più profondo. Avevano fatto una passeggiata lungo il fiume, sul ponte con i menti rivolti verso l’alto, Alberto aveva interrotto
il silenzio.
121
«Le hai viste quelle luci?»
«Sì.»
«Ci credi agli UFO?»
«Anche tu l’hai sentita quella dei transistor?»
«Cosa?»
«I transistor li hanno inventati gli americani, hanno trovato un po’ di rottami nel deserto di cui non conoscevano l’origine, li hanno studiati e ora abbiamo i cellulari.»
«Fico, non lo sapevo.»
«Mi piace pensare che lì in alto ci sia qualcuno che non ha bisogno della violenza
e di sopraffare gli altri per vivere bene.»
«T’immagini, quelli ci stanno spiando e se la stanno ridendo per quanto siamo coglioni.»
«Stanno aspettando, saremo noi a eliminarci da soli.»
Non si erano più visti fino a quando Enzo giurò sotto le bandiere; tutti gli amici sedevano sulla tribuna fatta di tubi d’acciaio avvolti nel velluto azzurro.
Aveva spento il cellulare, sistemate le foto nel cassetto della scrivania, non voleva
più ricevere altre telefonate. La televisione era accesa, dimenticata in salotto: l’inviato muoveva la bocca dal terrazzo di un albergo; sullo sfondo montagne senza
neve, alberi senza foglie e in sovraimpressione l’elenco dei nomi.
Con la fotografia nella tasca del giubbotto era uscito di casa, si era infilato il casco
e aveva incominciato a guidare, lasciandosi alle spalle il centro. Sorpassava le
macchine in doppia fila di fianco ai banchi improvvisati di frutta e verdura. Fra le
luci e le ombre dei cavalcavia, dove riposavano salotti abbandonati e giocattoli
rotti, apriva l’acceleratore sui rettilinei; le case avevano lasciato il posto ai depositi
di rottami, materiali edili e alla campagna. Un semaforo l’aveva costretto a fermarsi, ad accorgersi della stazione dei carabinieri fra case coloniche e villini. Il
drappo verde nascondeva gli altri due colori a mezz’asta: una giornata senza nuvole e vento. Il semaforo era scattato e Alberto si era accorto di aver bagnato la
visiera.
Aveva continuato gli studi a oltranza: corsi di lingua all’estero, aggiornamento e
formazione in Italia, master quanto basta. Mentre nessuno leggeva le sue risposte
agli annunci di lavoro. Fra un semestre e l’altro, aveva allenato la sua predisposizione al teamworking in un centro spedizioni di Brighton; spiccate doti analitiche
non gli mancavano, le aveva arricchite in anni di parole crociate e sudoku; la sintesi
non era il suo forte ma se la cavava in proattività e problem solving, merito dei
mesi trascorsi a scarrozzare pacchi con un furgone. Al terzo stage non rinnovato
aveva interrotto la sequela di sfighe con un contratto da fame in Riva e la promessa del tempo indeterminato finiti sei mesi di rodaggio e altri tre di collaudo.
Aveva trovato una casa in città, dove le vie hanno i nomi delle regioni e di qualche
eroe dimenticato; un sottotetto soppalcato che gli costava metà stipendio. Le giacche e le camicie appese alla trave che reggeva il letto facevano da separé fra zona
giorno e cucina. La luce illuminava lavabo, fornello da campeggio e frigobar dall’oblò di una roulotte. Era fortunato ad avere un bagno dove si lavava i denti piegato a portafogli e poteva pisciare soltanto da seduto. La vecchia proprietaria di
casa passava a trovarlo una volta al mese e dava sempre un occhio al di là della
122
porta a soffietto del bagno, per sincerarsi che ci fosse soltanto lui in casa.
La sua vicina era una ragazza di Sanremo che non aveva il bagno e si accontentava di quello comune davanti al motore dell’ascensore. La incrociava di ritorno la
sera, ogni tanto le offriva una birra o di fare il bucato con la sua lavatrice. Era molto
carina e aveva una passione per i completi intimi di seta, ma non gli interessava.
Le donne per lui erano accessori ingombranti, in quel momento della vita non
avrebbe saputo dove metterle. Giulia lavorava come commessa fra un provino e
l’altro. Aveva tentato due volte di entrare in una scuola di teatro prestigiosa, poi
qualcuno le aveva detto che per fare televisione non era necessaria una dizione
perfetta e nemmeno conoscere a memoria la biografia di Ionesco. Gli raccontava
degli sconti stratosferici che era costretta a fare a soubrette e star che andavano
a comprare i vestiti da lei, e delle signore che le chiedevano cosa avessero comprato per imitarle a prezzo pieno. Le stesse che lui incrociava per le strade del
centro con buste decorate da toraci scolpiti e glabri.
Riva
«Piano terra. Ground floor.»
La voce dell’ascensore.
Si è fermato davanti al muro dipinto di fresco. Sapeva avrebbero sbagliato la tonalità di azzurro, motivo in più per incazzarsi con Malversi.
Nell’atrio si è sentito il bip della macchina timbratrice, il cartellino magnetico sfugge
dalle mani dell’impiegato e si ferma contro una suola.
«Buonasera dottor Riva.»
«Non le sembra presto per uscire?»
«Veramente…»
«È una domanda chiusa, può rispondere sì o no.»
«Sì, ma…»
«Non le hanno mai insegnato che le giustificazioni le danno soltanto i perdenti?»
«Mi scusi.»
«Dove sta andando?»
«Ho appuntamento dal medico.»
«Però, di venerdì pomeriggio. E il suo medico riceve per caso a Roma?»
Silenzio, Alberto sentiva la faccia bollire. Non era vergogna.
«Raccolga il tesserino. Ci vediamo lunedì, nel caso in cui non sia nulla di grave.»
È finito il secondo giorno di lavoro dopo le ferie di agosto: un ricordo sbiadito.
Alberto è uscito, ha aggredito la scala che porta al parcheggio e si è lasciato dietro
la risacca di ghiaia e asfalto.
Nell’afa il sole faticava a scendere dietro le coperture di amianto, Riva abbandonò
l’aria condizionata dell’atrio per quella della sua macchina. Appoggiò la giacca sul
sedile posteriore e sentì la camicia bagnata raffreddarsi sotto le ascelle e sulla
schiena. Passò di fianco al capannone sei, l’ufficio spedizioni; due cartelli consumati: Italia, Estero.
Abbassò il finestrino per rimproverare il magazziniere che si era acceso una siga-
123
retta; gli chiese il numero di matricola, lo annotò sullo scontrino di un posteggio.
Aspettò che spegnesse la sigaretta e rientrasse dall’avvolgibile, poi spinse sull’acceleratore e gli pneumatici lasciarono una striscia appiccicosa e nera dietro la
macchina. Si alzò la sbarra, la strada era sgombra, soltanto qualche camion carico
di terra si allontanava dai cantieri vicini. I lavori in corso lo deviarono verso i palazzoni lungo la tangenziale. Le torri prendevano vita, interruttori spinti da dita di
poveracci accendono le finestre.
Il pensiero di fuggire gli trapassò il cervello alla velocità della moto che lo sorpassò
in terza corsia. Abbandonare tutte le persone appese al filo delle sue decisioni.
Schiacciò il pulsante, entrò nel cortile, lasciò la macchina in quella che un tempo
era una rimessa per le carrozze, attraversò il giardino e salì in casa. Fece scivolare
la giacca su una poltrona, raggiunse la cucina dopo aver congedato la governante
e si accese la televisione. Immagini di vetture in fiamme, militari in pattuglia, madri
in apprensione e figlie scomparse si sostituivano ai consueti primi piani del presidente del consiglio e degli esponenti dell’opposizione.
Si aprì una birra e infilò un piatto di lasagne nel microonde. Finito di mangiare decise di prepararsi per la serata. Spense la televisione, la musica uscì dallo stereo
e invase la casa. Bach in filodiffusione, una delle tante manie di sua madre. Si
buttò sotto la doccia: un corpo minuscolo fra getti che scaldavano vetro e marmo.
Asciugò i capelli, si strofinò nell’accappatoio con le cifre ricamate in argento. Le
stesse del nonno e del nonno di suo nonno. Entrò nella cabina armadio, passò in
rivista le camicie schierate da Ines per colore e tipo di collo. Sgradevole era l’aggettivo migliore per definire il suo aspetto. Ne era consapevole e non si vestiva
bene per camuffare gli scherzi di una natura bizzarra, nemmeno per vanità. Tutto
ciò che indossava era legato al concetto di decoro che gli era stato trasmesso fin
da bambino. Dimesso e borghese ma allo stesso tempo raffinato. Alle porte dei
quarant’anni, pochi sogni dimenticati in fondo a un cassetto tutti pronti per essere
esauditi da una carta di credito o una telefonata alla persona giusta. Questo lo
rendeva diverso dagli altri, questo e il cassetto Luigi XVI.
A parte soldi e potere, la vita era solo routine e voglia di evasione. Si rifletteva nei
suoi occhi, dietro al parabrezza illuminato dai neon dei locali del centro. Colori, insegne, vetrine sempre accese, vie infettate da facce mimetizzate con i marciapiedi,
imbalsamate dallo stress e dall’alcol; vino al ristorante, birra in pizzeria. Un posteggio, l’insegna si intravedeva in lontananza. Il palo, la donna in bikini e la foca
aggrappata agli slip.
Aveva nostalgia del bancone, delle Polaroid dell’inaugurazione sparse sulle pareti:
vintage è trendy, ma ricorda il cattivo gusto delle ricevitorie di periferia.
Ai tavoli ai lati delle passerelle illuminate non c’era ancora nessuno. Si avvicinò al
barista.
«Fammi un negroni.»
Il primo è il più buono, con il secondo le papille gustative sono anestetizzate dal
gin, non si sente più alcun sapore, ti accorgi di aver bevuto perché tutto è avvolto
da una fitta nebbia.
Il locale incominciò riempirsi, due ragazze vennero a salutarlo, senza impegno
offrì da bere. Faceva fatica a muovere i piedi a tempo fra tette, sorrisi e occhi lucidi.
124
Malversi gli fece cenno dalle scale, aveva il trentatré per cento delle probabilità di
incontrarlo. Anche questa volta si era sbagliato a fare i conti con il ragioniere.
«Buonasera Malversi, pensavo venisse qui soltanto una volta alla settimana.»
«Esatto, il giovedì.»
«Ma lunedì non aveva accompagnato i signori del fondo?»
«E cosa c’entra, era un impegno di lavoro. Il giovedì al Foca Loca è sacro!»
«Già, come darle torto.»
«Stasera c’è una nuova ragazza, Olga, mi fa compagnia al tavolo?»
Riva si sedette al tavolo e ordinò il terzo negroni. Sul palco una contorsionista
nuda si stava suonando le chiappe come bonghi.
«E poi se davvero vuol fare qualcosa di interessante per proseguire la serata, ho
scoperto un posto nuovo. Mi avevano ritirato la patente da due giorni. Non sapevo
che i vigili hanno le auto civetta. C’era quella macchina che bloccava la strada,
ferma vicino a una mignotta. Non avevo bevuto tanto, un paio di birre. Ho aspettato
un minuto prima di mettermi a suonare. Quelli non si muovevano, allora sono salito
sul marciapiede con due ruote e ho accostato. Chi avrebbe immaginato che la vigilessa si sarebbe incazzata così tanto. Alla fine sembravano tre pervertiti pronti
a caricare la quarta per un’orgia, e io mi sono limitato a farglielo notare. Con parole
mie. Hanno lasciato stare la puttana e si sono concentrati su di me. Hanno chiamato la centrale. Sono arrivati i rinforzi e mi hanno fatto il palloncino. Ho il vantaggio di avere tutte le comodità a due passi. La metropolitana sotto casa. Il bar vicino
all’ufficio. Il club per scambisti sulla strada. In macchina non ci fai caso. Non ti soffermi, fai tutto meccanicamente. Se cammini, i tempi si dilatano e riesci a curiosare.
Stavo tornando dal bar, questa volta ubriaco, il ritiro della patente mi ha tolto tutti
i freni. Visto che non devo guidare, tanto vale fare le cose fatte bene. Allora esco
dal bar e mi faccio la solita scarpinata. Vicino al McDonald’s noto una porta di metallo nera. Nessuna insegna, soltanto un neon rosso. Vicino alla porta un campanello. New Fantasy Club. Non mi ci è voluto molto a decidermi a suonare. A casa
non c’era nessuno ad aspettarmi. Mi apre un vecchietto tutto occhiali e doppiopetto. Chiede la tessera. Gli rispondo che non ce l’ho. Chiede se sono single. Gli
dico di sì. Sono duecentocinquanta l’iscrizione annuale e poi venti l’ingresso. Tiro
fuori i contanti. Dice che la prima consumazione è compresa. Prende il cappotto
e mi lascia un numerino. Mi siedo al bancone e mi faccio fare un gin tonic. E osservo il salone con i divanetti vuoti, gli specchi alle pareti che riflettono soltanto
me e il vecchietto. “È arrivato tardi” mi dice, “sono già tutti di sopra”. Indica la scala.
Prendo il gin tonic e salgo. Un’anticamera con un’altra statua, una venere con un
vassoio di preservativi. E una tenda nera. Scosto la tenda e mi ci vuole un po’ per
abituarmi alla semioscurità. Divani e corpi, corpi e divani. Qualcuno mi tocca la
spalla. Mi giro. Qualcuno mi abbassa la zip. Io abbasso lo sguardo. Non vedo
bene. Mi sembra una donna. Fosse stato un uomo non avrebbe fatto differenza.
Completamente nuda. La sollevo e la giro. Si piega. Ho appena incominciato a
farmela, quando mi accorgo di uno che ci sta fissando. Rallento. Mi sorride. Mi
fermo. Ha la mano nei pantaloni. “Continua ti prego” mi sussurra lui. “Hai sentito
quel finocchio di mio marito?” mi fa lei. Riprendo a darle colpi sempre più forti fino
a quando non sento più i gemiti di fondo e sento urlare soltanto lei. Le vengo sulla
125
schiena. Non ho preso il preservativo. Il tizio si avvicina e mi ringrazia. Lei si alza,
mi bacia e scivola dentro un rettangolo di luce alla mia sinistra che subito si spegne. Scavalco una testa in mezzo a due gambe, scanso un paio di tette che si
muovono sopra una pancia bianca, quasi fosforescente, enorme anche da sdraiata, ed entro anch’io nel bagno. Tengo gli occhi chiusi per un po’ prima di avere il
coraggio di riaprirli. Lentamente. Il neon mi fa male. Mi sciacquo nel lavandino.
Arranco verso la carta asciugamani. Sento scorrere l’acqua. Vedo entrare un uomo
della mia età con un pisello enorme. Vedo uscire un culo peloso e raggrinzito. Ritorno al buio e ai gemiti. Mi diventa di nuovo duro. Da anni non avevo un tempo di
recupero così corto. Non mi impegno troppo a capire come funzionano le dinamiche. Mi avvicino a una bocca e mi ci infilo. Esco poco prima di venire. Prendo due
respiri profondi prima di infilarmi in un altro buco. Mi sono bevuto il bicchiere della
staffa con un notaio di Biella e ci siamo dati appuntamento per la settimana successiva. Ha una moglie cubana. Sono arrivato a casa, ho fatto una doccia, colazione e mi sono buttato a letto.»
«Questa sera preferirei qualcosa di tranquillo.»
Riva si alzò con la scorza d’arancia fra i denti. Al posto della contorsionista c’era
una bionda che faceva la verticale fra le gambe di un tatuaggio a forma di donna.
Uscì ad accendersi una sigaretta, cacciò l’ambulante con le rose e coprì il suo
odore con uno sbuffo di tabacco. Nemmeno rientrò a salutare Malversi, si ritrovò
al volante, direzione Navigli, cercando un diversivo allo svago.
Dribblò i tavolini ammassati sul pavé e si infilò in un locale. Il barista lo squadrava
dalla testa ai piedi, in mano aveva quattro bottiglie che stava spremendo in una
fila di bicchieri, ragazzini vestiti come comparse di un film di Spike Lee si contorcevano nelle frasi triturate in inglese. Non si imbarazzò a ordinare un altro drink;
poi barcollando scese dallo sgabello e si fece strada attraverso la selva di visiere
e cappellini.
Uscì fra le bancarelle mentre l’aria umida saliva dai canali, nella transumanza di
coppie e comitive incrociò sguardi di persone dimenticate.
«Riva, carissimo!»
«Ciao.»
«Non mi riconosci? Seguivamo finanza aziendale insieme.»
«Ah.»
«Ti trovo in gran forma.»
«Anch’io.»
«Incontriamoci una sera di queste, per un aperitivo, sono sempre laggiù, al Pellicano.»
«Magari, sarebbe fantastico.»
«Top, a presto.»
Una goccia gli sfiorò la punta del naso, le parole di circostanza si sciolsero nella
pioggia. Fissò distratto le scarpe del compagno di università diventare sempre più
piccole, mentre cercava di allontanarsi una sportellata lo fermò. Un agglomerato
di muscoli abbronzati scese dal SUV, lo ignorò completamente nella fretta di rifugiarsi nel primo ristorante. Il gomito gli si stava gonfiando, la camicia gli si appiccicò
sul livido e il formicolio prolungato lo riportò indietro con gli anni, a giochi d’infanzia,
126
a spigoli di scrivanie ricoperte da matite colorate e fogli pasticciati. Improvvisamente un’ondata elettronica lo travolse. Arrivava da una vetrina completamente
azzurra che si apriva al suo passaggio. Era tutto confuso nel blu intermittente; si
accorse di essere appoggiato a una ragazza. Era mora, splendida e più ubriaca
di lui. I loro corpi si sfioravano, si toccavano si univano. Svuotarono bicchieri, cercarono di dirsi qualcosa.
«È la prima volta che vengo.»
«Hai un viso davvero interessante.»
«I Navigli sono un postaccio per turisti, studenti fuori sede e provinciali.»
«Non sei il solito ragazzino che ci prova.»
«Metà di questi posti è in mano a ex galeotti e prestanome.»
«Hai delle mani molto mature.»
«Che dici? È come se avessi messo la testa in un compressore.»
«Sei davvero signorile…»
«Oppure una radio a tutto volume fra le orecchie.»
«…e interessante.»
Si accesero le luci, piombò il silenzio.
La morettina aveva appoggiato la testa sulla sua spalla. Lavanda e anice.
«Cazzo, devo smettere di bere.»
«Scusa?»
«Aspetta, vado in bagno.»
Tagliò una pallina bianca sul coperchio del cesso e tirò su la polvere bianca aiutandosi con cinquanta euro arrotolati.
«Dicevamo?»
«Mi accompagneresti a casa? Le mie amiche mi hanno piantata qui senza nemmeno i soldi per un taxi. Sono devastata e domani devo fare qualcosa e non mi ricordo cosa e tu sei così interessante e io sono così ubriaca dai ti prego no non ci
sto provando.»
«Va bene, la macchina non è distante.»
Uscirono, la pioggia se n’era andata e aveva lasciato un’umidità più fresca dell’aria
stagnante del Naviglio.
I riccioli scuri gli accarezzano la guancia mentre la testa si appoggiava nuovamente sulla sua spalla. La ragazza gli afferrò il braccio con entrambe le mani.
«Cosa c’è, non ti piaccio?»
«No, è che di solito pago.»
«Scusa?»
«Cioè, prendo io l’iniziativa.»
«Hai ragione, quando bevo divento un po’ sfacciata, ma dove hai parcheggiato?»
«Siamo arrivati. Là, sotto quel lampione.»
Lei si legò in fretta la cintura di sicurezza.
«Ti dispiace se mi accendo una sigaretta?»
«No, basta che tiri giù il finestrino.»
Entrò nell’abitacolo aria fresca, accompagnata dall’odore di asfalto bagnato.
«Dove ti porto?»
«Ho voglia di dormire con te.»
127
128
L’altro volto è la storia di un ragazzo che non riconosce il proprio volto.
Sconvolto da nevrosi compulsiva in seguito a un incidente drammatico,
Davide deve andare all'inseguimento di un equilibrio che passerà attraverso l'arte manuale, alla ricerca del volto perfetto. Il supporto di un artista
amato e di un filosofo comunista saranno la chiave per scavare a fondo
nella propria psiche e ritornare ad abbracciare la tranquillità perduta. Il
confronto con la sorella, conformista consumata, gli darà modo di sviluppare un proprio io, in netta opposizione con la realtà superficiale dei tempi
moderni.
Una drammaticità ottimamente orchestrata e una prosa intimamente complessa danno vita allo splendido intreccio dei personaggi, fondamentale
per comprendere questo viaggio psicologico nel superamento di un
trauma primordiale.
Tiziano Buffoli ci regala una piccola perla, lasciando affondare tutti noi
nei più profondi meandri della mente insieme al protagonista.
Tiziano Buffoli é nato a Varese nel 1968, vive e lavora in provincia di
Milano. Ha scritto diversi racconti, sceneggiato alcuni cortometraggi, di
Dal tramonto all’alba ha curato la regia. Questo è il suo primo romanzo.
129
L’altro volto, Tiziano Buffoli.
Una cicatrice, segno violento, profanatore di un viso che rivela grazia.
Seduto davanti al computer nella sua camera, suoni ad alto volume in cuffia e
nello schermo, immagini sincronizzate in bianco e nero di reti che avvolgono e si
incrociano. Accanto a lui, appese alla parete, c’è un poster con Marilyn di Warhol
e un altro vicino, con uno dei volti di Orlan. La strumentazione collegata al computer è invadente. Davide si muove a ritmo, è concentrato sulle immagini video
che lui stesso crea compiendo dei movimenti di regolazione level. Aumenta il ritmo
dei suoi movimenti, accenna un sorriso di soddisfazione.
Si spalanca la porta alle sue spalle, Giulia entra, lo guarda un istante, si avvicina
senza essere sentita e vista, gli toglie di scatto le cuffie e gli grida nell’orecchio.
A mangiare!
Dai, stavo…
Fammi sentire!
Giulia si mette le cuffie e fa una smorfia inorridita.
Sempre peggio, ma che roba è?
Si toglie le cuffie.
Vieni a mangiare!
Giulia se ne va.
Lui riprende da dov’era rimasto e continua la sua opera.
Niente da fare, nell’interruzione ha perso la concentrazione, non gli viene nulla di
buono. Spazientito si toglie la cuffia, sconsolato.
Che rompipalle!
Si alza dalla sedia ed esce dalla stanza, si dirige in soggiorno ma sente delle voci
che non riconosce. Si ferma, ascolta per un istante e ritorna in camera. Chiude la
porta e si rimette al computer. Nello schermo si apre la finestra messenger.
Anna: Ci sei? Ci vediamo stasera?
Davide: Devo uscire con quei miei amici per organizzare la festa.
Anna: Me n’ero dimenticata. Allora a domani.
Si spalanca ancora la porta, di nuovo Giulia.
Ti muovi!
Chi sono quelli?
Come chi sono, lo sapevi che doveva venire quella coppia amica loro.
No, non ho voglia, portami da mangiare qui.
Sei scemo, lo sai che si incazzano.
Mangio qui.
Va bene, cazzi tuoi.
Giulia va a tavola, il soggiorno è arredato con buon gusto e ricercato design degli
elementi. Ci sono seduti il padre Sergio, un uomo sui cinquant’anni palestrato, capelli lunghi, pizzo e baffi in stile biker, con muscoli e tatuaggi in bella vista; sua
madre Serena, una donna minuta di bell’aspetto e la coppia loro amica. Interrompe
la discussione fra i genitori e gli ospiti, dice che Davide non vuole venire a tavola.
Il padre si scusa e si giustifica dicendo che è fatto a modo suo. Giulia prende un
130
piatto, ci mette un po’ di lasagne e dell’arrosto, poi prende un bicchiere, una birra
e porta tutto a Davide.
Ti è andata bene, sono di buon umore, però io non sopporto di farti da cameriera,
presto ti dirò come dovrai ripagare questo servizio.
Non se ne parla, mi hai interrotto sul più bello.
Allora mangi per terra.
Giulia divertita posa il tutto a terra, abbaia come a imitare il cane-fratello e se ne
va.
Davide, con un grido che tenta di essere aggressivo, ma finisce in un ghigno.
Carogna!
Giulia torna in cucina, siede a tavola e ride.
Suo padre le chiede cos’ha combinato.
Niente.
Allora perché abbiamo sentito quella parola?
Sua madre Serena spiega agli amici che Giulia pizzica spesso il fratello, che fortunatamente è un buon ragazzo e perdona la sua vivacità.
Giulia, fra quelli che ritiene dei noiosissimi discorsi tenuti dai genitori e dalla coppia
amica, consuma velocemente la cena.
Scusate, vado in camera mia, buona serata.
Si avvia nel corridoio che porta alla zona notte, passa dalla camera di Davide e in
direzione della porta abbaia ancora.
Chiede l’amica ospite a cena.
Ma avete un cane?
Risponde il padre.
No, sempre Giulia.
La coppia ride divertita.
La cena continua con tema imperante la crisi economica che non dà scampo ai
vari settori in cui lavorano.
Suona il campanello di casa, Serena chiede scusa agli ospiti e raggiunge il citofono. Avvisa Davide che c’è il suo amico Alessandro, ma lui non si schioda dalla
sua camera. Lei si scusa di nuovo con gli ospiti e apre la porta d’ingresso ad Alessandro. Lui è vestito con jeans, felpa con cappuccio e cappellino con visiera tenuta
di lato, entra e timidamente saluta tutti i presenti. Serena gli chiede come sta e
aggiunge che è da tanto tempo che non si fa vedere. Lui si scusa gentilmente di
aver interrotto la cena e fa i dovuti convenevoli prima di essere accompagnato
nella stanza di Davide.
Ma cosa fai, la cena sul pavimento?
Chiede la madre prima di lasciarli.
Chiedilo a quella tarata di tua figlia.
Non usare quelle parole, per favore. Ma non hai mangiato nulla, si è sicuramente
raffreddato, vado a scaldartelo.
Ma perché mangi per terra?
Alessandro insiste.
Mica ho mangiato! Comunque di solito mangio sul tavolo.
Almeno in questo sei normale. Come butta?
131
Bene, e tu?
Bella! Ma chi è questa?
Chiede Alessandro indicando il volto di Orlan.
È un’artista.
Cosa fa?
Ha scelto il proprio corpo come materiale da plasmare e modellare alla ricerca dell'ideale di bellezza.
Roba leggera, ma non so, tipo Michelangelo o roba simile per te troppo normale,
eh? E ’sta musica? Tipo, un po’ di Fibra non ce l’hai!?
Dovrei sporcare il mio archivio con la roba che ascolti tu? No, non se ne parla.
Oh, modestone.
Dai oh, dobbiamo andare che ci aspettano Ce e Ri, ma fammi sentire quella cosa
che vuole farti mettere alla festa Ri.
Guarda che è questa che stai sentendo.
Ma si balla? No perché le tipe vogliono ballare.
Chi vuole balla, e chi vuole guarda e ascolta.
Ma ad ascoltarla bene non è male, è tutta roba tua?
Tutta mia.
Figa!
È buio, i due amici camminano lungo un marciapiede poco illuminato, intorno a
loro palazzi popolari tutti uguali. Dall’ombra sbucano cinque ragazzini dal fare minaccioso, si incrociano. Raggiungono l’ingresso del condominio in cui abita Cesare. Alessandro suona il campanello, risponde una voce maschile adulta, dice
che Cesare arriva. Davide nell’attesa appoggia una mano al muro. Alessandro con
tono allarmato gli dice che c’è uno scarafaggio vicino alla sua mano, lui sobbalza.
Alessandro scoppia a ridere.
Ti sei cagato! Non ti è passata la strizza degli insetti!
Fanculo!
Controbatte Davide.
Cesare li raggiunge, lui e Alessandro si salutano con gesti delle mani e battute
che a Davide non viene di replicare, e si limita a un Ciao, come stai?
Bella. Quanto tempo, zio!
Andiamo dai, che Ri ci aspetta. Dice Alessandro.
Si incamminano lungo un marciapiede identico a quello percorso per arrivare a
casa di Cesare. I palazzi si fanno più imponenti e degradati dall’inquinamento e
dall’incuria.
Riccardo, un ragazzo alto e robusto con aspetto rude, è in un piccolo appartamento seduto su un divano. Il padre con voce alta gli sta dicendo che quei soldi
per la sua festa non ci sono.
Se vuoi i soldi devi lavorare, se continui a non fare un cazzo non vedrai più un
centesimo.
Non li cago mica i soldi io, è ora che trovi qualcosa da fare.
Bravo, e perché non me lo trovi tu un lavoro?
132
Muovi il culo come fanno molti della tua età, sei l’unico che ha abbandonato la
scuola da due anni e non ha mai fatto un cazzo!
E tu che cazzo fai per farci stare meglio!?
Il padre si avvicina minaccioso.
Testa di cazzo, io mi faccio il culo tutti i giorni.
La madre cerca di calmare il marito ma viene spinta e fatta quasi cadere. Riccardo
si infuria dicendo che non deve permettersi di toccare sua madre. Il suono del
campanello di casa interrompe il litigio fra spinte e insulti. Riccardo afferra il ricevitore del citofono.
Chi è?
I tre amici arrivano a un ingresso condominiale. Il contenitore della pubblicità cartacea straborda, le cassette della posta sono in gran parte divelte, sui campanelli
si fa fatica a leggere i nomi, alcuni sono scritti a penna, altri con etichette a carattere Courier New, tutti in qualche modo uno diverso dall’altro. Suonano al citofono.
Ri, siamo noi.
Chi è?
Un sottofondo di urla, Riccardo si incazza ancora.
Silenzio, non sento un cazzo! Chi è!?
Noi!
Arrivo.
Alessandro, mentre Davide osserva la facciata del palazzo con una mano appoggiata al muro, bisbiglia a Cesare.
Digli che c’è un ragno vicino alla sua mano.
Cesare.
Minchia che ragno! Guarda vicino alla tua mano!
Davide lancia un urlo e sobbalza nuovamente in modo ridicolo. Gli altri due crepano dal ridere.
Alessandro.
Ma sei un vero cagone.
Cesare ridendo come un pirla.
Fratello, ho visto il panico nei tuoi occhi.
Andate a cagare!
Riccardo li raggiunge, Alessandro gli presenta Davide ma lui è teso, tirato in volto,
ripete insulti rivolti a suo padre.
Raggiungono una piazzetta. Riccardo e Cesare si siedono su un muretto. Alessandro e Davide si mettono di fronte. Riccardo chiede a Davide se ha preparato
musica e video per la sua festa.
Ale mi ha detto che fai delle cose, che roba è?
Alessandro dice di fidarsi che è roba figa mai vista. Riccardo dice che vuole una festa mega,
non la solita roba.
Davide è solo in un luogo appartato della discoteca, Alessandro è con Cesare e
due ragazze visibilmente stordite, una cicciona e l’altra molto magra. Si accorge
133
che Davide è rimasto solo e con il resto del gruppo lo raggiunge. Intorno ci sono
ragazzi che ballano con musica che pompa. Gli presenta le ragazze e spiega rivolgendosi a loro che Davide era un suo compagno alle medie, si sono divertiti
molto insieme. Ora lui è un bravo VJ, crea musiche e video, di lì a poco si esibirà
con una performance. Davide timidamente annuisce. Cesare aggiunge che tutti
sono cresciuti nel quartiere. Le ragazze ridono inutilmente. Quella magra gli
chiede.
Cosa ti è successo in faccia?
Davide non risponde.
Poi tutti raggiungono Riccardo che è seduto su un divano, visibilmente fuso.
Auguri Ri, minchia come sei lesso!
Dai, beviamo.
Auguri! Tutti in coro.
Fanno un gran casino tutti insieme.
Riccardo grida a tutti.
Divertiamoci, cazzo è il mio compleanno e domani tutti allo stadio, e ci vieni anche
tu.
Intima a Davide.
Vedrai che figata.
Davide prova a dire di no ma gli altri lo sovrastano e confermano per lui.
Si esibisce con la sua performance video musicale, il pubblico è stupito, qualcuno
apprezza, molti sono indifferenti.
Davide entra in casa, porta un piumino, un cappello tenuto basso sugli occhi e i
guanti, dall’ingresso accede direttamente all’open space, dove la madre in cucina
sta terminando di preparare il pranzo, il padre e Giulia sono seduti in salotto. Saluta
la famiglia riunita e si toglie piumino e berretto, scoprendo il nuovo taglio di capelli.
Giulia lo stuzzica immediatamente, gli dice che è brutto. Sergio dice che così ha
perso quel poco di maschile che gli era rimasto.
Davide, incurante, si siede accanto alla sorella che con gli auricolari ascolta musica
di una boy band. Gliene toglie uno e se lo mette, ascolta un istante.
Ma com’è possibile! Non cresci!
Saranno belli quei rumori che ti crei tu?
Il padre dice che la musica negli ultimi anni è espressione di come va il mondo.
La madre difende Giulia, padre e figlio attaccano la madre accusandola di aver
usato il pretesto di accompagnare Giulia per vedere l’ultimo concerto dei Tokio
Hotel.
Siedono a tavola, pranzano e il padre fa le dovute raccomandazioni.
Ci hanno confermato la partenza per domani, come previsto staremo via circa
dieci giorni. Ci dispiace lasciarvi soli ma dobbiamo andare tutti e due. Cercate di
essere responsabili, soprattutto tu, ricordati che l’auto può essere un’arma, fai attenzione. Come va con la guida?
Bene, tutto ok. Domani vado allo stadio.
Tu allo stadio?
134
Davide entra nella sua camera, si avvicina al computer. C’è la finestra messenger
aperta.
Anna: Vengo alle tre.
Risponde.
Davide: Oggi dormo, ieri sera ho fatto tardissimo. Domani vado allo stadio.
Mette della musica classica e inizia a cambiarsi. Giulia entra in camera, lui è in
mutande, si vergogna e le dice di uscire, ma lei inizia a prenderlo in giro, gli tira il
cuscino dicendogli che ascolta musica da vecchi e che lo dirà ai suoi amici e a
Anna che razza di musica ascolta a casa. Continua dicendo che i libri che legge
e le cose che fa sono vecchie. Davide la butta sul letto e iniziano una lotta a cuscinate. Giulia gli preme un cuscino sul viso. Lui reagisce in modo eccessivo, la
fa cadere. Preoccupato si assicura che non si sia fatta nulla, si scusa.
Lei.
Dimenticavo, pure claustrofobico.
Risponde con uno schiaffone e ride, riprendono la lotta.
Un cuscino finisce sulla parete dove c’è una maschera in ceramica di Arlecchino
nella versione demone. Cade e si rompe in pochi pezzi taglienti, loro incuranti continuano a giocare.
Sullo schermo del pc appare la risposta di Anna: Stadio?
Davide indossa una maglietta bianca ed è con i suoi tre amici: Cesare, Alessandro
e Riccardo seguono la partita sugli spalti. La squadra del cuore è sotto di un gol.
Riccardo grida come un forsennato e incita il pubblico al sostegno. Alessandro e
Cesare litigano fra loro, c’è un giocatore che è responsabile della situazione secondo Alessandro, Cesare impreca contro l’allenatore. Davide non capisce cosa
stia succedendo ed è spaventato dal boato della folla incazzata intorno a lui.
Verso la fine viene fischiato un rigore contro. La partita è persa. Al fischio di fine
partita si scatenano tutti e tre con urla e insulti all’arbitro e alla squadra avversaria.
Davide è impressionato ma anche un po’ affascinato dalla potenza scatenata da
un pubblico incazzato.
Davide guida la sua nuova auto, stanno per tornare a casa, continuano a imprecare contro l’arbitro.
Cesare vuole bere.
Fermiamoci al centro, dai che ho sete.
Tutti d’accordo.
Entrano nel parcheggio sotterraneo e trovano posto per l’auto. Vicino c’è una
Punto identica alla loro ma non la notano. Scendono. Alessandro prima di allontanarsi nota la targa dell’auto di Davide: VO101OV
Ma che targa hai? Pure la targa strana.
Entrano in un supermarket, si recano al frigo delle bevande, Cesare e Alessandro
prendono delle birre e si dirigono alla cassa, Riccardo con una mossa furba passa
davanti a due ragazzi, gli riesce ma uno dei due gli dice, con accento dell’est, che
ci sono prima loro. Riccardo non gli dà retta e sia Cesare che Alessandro si infilano
superando i ragazzi che ragionevolmente lasciano perdere e fanno passare anche
Davide, il quale si scusa. Nel dirigersi al posteggio per riprendere l’auto si tracan-
135
nano le birre.
Riccardo nota una ragazza che guarda una vetrina di abiti da sposa, fa segno agli
altri che restano indietro, le si avvicina spavaldo e inizia a parlarle, lei fa un gesto
di disapprovazione e se ne va stizzita. Lui, già incazzato per la partita andata male,
non sopporta l’insuccesso davanti agli amici. Alza la voce, le dà della figa di legno.
Alessandro e Cesare sorridono.
Riccardo grida attirando l’attenzione della gente che passa dall’ampio corridoio.
Chi cazzo vuoi che ti sposi!
Tutti provano imbarazzo. Torna dagli amici e continua a insultare la ragazza. Raggiungono le scale che portano al parcheggio sotterraneo.
Arrivano all’auto, davanti a tutti c’è Riccardo, vede i ragazzi romeni che hanno appena incontrato alla cassa del supermarket, sono vicino alla Punto rossa, stanno
fumando e uno dei due è leggermente chinato, sta per aprire l’auto. Riccardo ferma
tutti, Alessandro bisbiglia:
Figli di puttana, ci stanno fregando la macchina.
Riccardo si scaglia contro i due, immediatamente Alessandro e Cesare lo seguono, Davide si blocca, resta impietrito.
Inizia un terribile pestaggio, Riccardo è una furia.
I due ragazzi dell’est cadono a terra, prendono calci e perdono sangue in modo e
in quantità esagerata. I colpi ricevuti creano schizzi di sangue che colorano i vestiti
e i volti di tutti e tre gli aggressori in modo costruito.
Davide sbalordito si avvicina e tenta un misero gesto per fermarli. Anche lui viene
raggiunto da uno schizzo di sangue che gli colora il volto e la maglietta bianca.
Con vista dall’alto le figure degli aggrediti e il pavimento creano una composizione
di corpi e di colore rosso bella ed equilibrata, evidentemente preparata e quindi
innaturale.
Alessandro alza lo sguardo e si accorge che vicino c’è un’altra Punto rossa identica. Riconosce dalla targa che è la loro auto. Grida.
Cazzo, oh, fermi, guardate.
Indica agli altri.
Cesare.
Oh cazzo, non è la tua, Davide… Quella… Non ce la stavano rubando.
Corrono verso la Punto di Davide, ma lui è scioccato, resta immobile a guardare i
corpi dei due malcapitati, Riccardo torna indietro, lo afferra e lo spinge verso la
loro auto, riescono a partire.
Le telecamere della videosorveglianza hanno ripreso tutto.
136
137
Matteo è uno psicologo milanese abituato a relazionarsi al mondo solo
tra le pareti sicure del suo studio.
All'inizio di gennaio si trova costretto a prendere un aereo per L’Avana a
causa del silenzio prolungato di suo fratello Diego. Sull'isola cubana scopre che il fratello è morto in circostanze misteriose.
Matteo si sente rimosso dalla sua dimensione intimista ed è completamente incapace di gestire il suo dolore. Eppure sarà la sua abitudine a
osservare, ad analizzare il suo io, che risolverà l'enigma intorno alla morte
del fratello.
Ripercorrendo poi a ritroso la vita di Diego, il protagonista si ritrova tra le
mani la trama sfilacciata di altre vicende del proprio passato, di segreti di
famiglia che chiedono di essere esplorati. I fili riannodati lo portano a tornare prima a Milano per poi continuare per le strade del Sud America, da
Cusco, dove vive ancora lo spettro dell'antica cultura Inca, fino a Buenos
Aires, capitale di fumose milonghe.
Camminando tra le frontiere dell'animo umano Michele Crescenzo esplora
il delicato confronto tra l'io e gli altri, tra l'istinto di conservazione e la necessità del cambiamento, chiedendoci se in fondo il viaggio non è semplicemente un percorso di avvicinamento a se stessi.
Michele Crescenzo è nato nel 1977 a Napoli nel quartiere di Fabio Cannavaro. Vive e lavora a Milano come impiegato in una multinazionale
americana. Inspiegabilmente non farebbe mai a cambio con il concittadino. Lavora per vivere e scrive per vivere meglio. Spesso in ufficio legge
le sue bozze di nascosto chiuso in bagno. Alcuni colleghi sono convinti
che abbia una rara disfunzione ai reni.
È laureato in sociologia, che gli ha donato occhiali nuovi per guarire la
sua miopia culturale.
Ama viaggiare, ha girovagato per tutta l'Europa e l'America Latina.
Nel 2009 con immensa sorpresa ha vinto il Premio Chatwin. Quest'anno
un suo racconto è stato inserito nella raccolta antologica In viaggio della
collana Les Cahiers du Troskij Café della casa editrice Montegrappa.
138
Camminando sull’isola coccodrillo,
Michele Crescenzo.
É appena finito il film, non mi è piaciuto. Anzi, ora che ci penso non mi piacciono
quasi mai i film che trasmettono in aereo, scelgono sempre quelli con trame banali
e personaggi prevedibili. Le persone non sono così, nella vita reale si mente senza
rendersene conto, si sbaglia, si è convinti di fare una cosa e si fa tutt'altro, e questo, devo ammetterlo, è molto più divertente.
Mi affaccio al finestrino, siamo ancora sull’Atlantico. Paulo dorme. Accanto a me
un nostalgico sessantottino ha la testa inghiottita nella biografia di Fidel Castro,
ogni tanto ne legge dei passi alla moglie che gli sta accanto. Nel 1947 il leader
massimo fu uno dei pochi sopravvissuti di una barca di rivoluzionari naufragata
vicino a Santo Domingo.
«Un segno del destino!» esclama lui.
Sarà, a me sembra solo fortuna, solo uno di quei piccoli particolari della vita che,
senza renderti conto, te la cambiano, te la spostano. Li cerco sempre nei miei pazienti.
Iniziamo la fase d'atterraggio, mi affaccio e dall’aereo L’Avana mi appare sfocata,
luci lontane velate. L'illuminazione della città è talmente sottile che non la si distingue dal mare. Accanto a me Paulo si sveglia.
All’aeroporto un’umidità soffocante mi entra in gola, rumore di gente e di accenti
diversi. Mentre aspettiamo il bagaglio, Paulo, cercando di non farsi notare, guarda
una donna in divisa che gli ricambia lo sguardo con un sorriso malizioso. Non c'è
dubbio, già si conoscono. Senza rendermene conto la fisso; lei mi guarda indispettita e va via. In realtà non guardavo lei ma la sua divisa: ma è normale avere
gonne così corte?
Appena usciti veniamo presi d’assalto da tassisti. Ne trovo uno che parla italiano.
Chiede, come se fosse la cosa più semplice del mondo, se vogliamo andare a
donne. Paulo mi guarda, sorride cercando un atteggiamento complice, ma stronco
il suo entusiasmo indicando subito il nome dell'hotel che avevo prenotato dall'Italia.
Non so perché l’ho fatto, certo non per lei.
Arriviamo all’albergo, le nostre valigie sono leggere; gesto dovuto al caldo o forse
speranza di ritrovarlo presto?
Sarà per il fuso orario, sarà per l'aria strana di questo albergo, ma non riesco proprio a dormire. Accendo il telefonino, c’è un sms di Giulia, non lo leggo, guardo
fuori: uomini e donne si muovono in modo sgraziato tra le mille ombre di questa
città.
Butto giù un sonnifero, dormo.
Mi risveglio infreddolito dall’aria condizionata. Paulo mi ha lasciato un messaggio:
vado a fare due chiacchiere. ci vediamo stasera, tu butta un occhio in giro.
Rimango colpito dal modo insolito di scrivere le vocali, come se fossero più larghe
rispetto alle consonanti.
Esco dall’albergo e sono sommerso da sole e afa cubana. Ma se a gennaio fa
139
questo caldo, cosa ci sarà ad agosto? Giro senza una meta, vengo avvicinato più
di una volta da ragazzi cubani: provano a indovinare la mia nazionalità, mi chiedono se voglio dei sigari o rum. In un angolo di strada c'è l'uomo fotografato nella
copertina della Lonely Planet che, con la guida a fianco, chiede l’elemosina.
Dietro ogni angolo cerco Diego, mio fratello. Mi aspetto che sbuchi all’improvviso,
mi guardi sbalordito e si metta a ridere, mentre giustifica il suo lungo silenzio con
una delle possibili scuse che ho ipotizzato a Milano.
L’Avana mi appare decadente ma anche energica, è una fila di palazzi sbriciolati
ma ancora colorati, è musica che esce dalle case, bambini in strada e auto americane anni Cinquanta che sfrecciano colmi di passeggeri.
Non sono abituato a camminare così tanto, così cerco riposo entrando in un bar.
Davanti a una tazza di caffè riguardo l’Avana che cammina davanti; i movimenti
spiati la notte scorsa mi appaiono più chiari ora, carnagioni di ogni colore si muovono davanti ai miei occhi, nessuno ha davvero qualcosa da fare, nessuno riesce
davvero a star fermo. La mia attenzione è rapita da quattro anziani che giocano
animatamente a domino. Uno di loro si rende conto che lo fisso e mi invita ad avvicinarmi. Capisco che mi sta chiedendo se voglio giocare con loro, io con uno
spagnolo improvvisato gli dico che non conosco le regole, lui inizia a elencarmele
ma non le capisco. L’unica cosa che afferro è che si gioca in senso antiorario.
Glielo ripeto, lo saluto e lui nella sua lingua dice: «Sai perché si gioca in senso
antiorario? Per ricordarci che le cose vanno sempre da un'altra parte rispetto a
quello che ci aspettiamo.»
Con questa frase mi lascia andare. Non è una grande perla di saggezza ma inizio
a pensare a Diego con un approccio diverso: se fosse scappato? No, improbabile.
Se non mi avesse chiamato per Natale perché stava male? No, qualcuno della
società dove lavora avrebbe recuperato i documenti e contattato l’ambasciata italiana. Se l’avessero rapito avrebbero potuto chiamare solo me per il riscatto. Ormai
siamo rimasti solo io e lui in famiglia. Perso tra questi magri pensieri mi ritrovo
nella stanza d’albergo.
Torna Paulo, mi dice che ha poche novità. Andiamo a mangiare in un ristorante
per turisti, accanto a me c’è un tavolo formato da ragazze mulatte bellissime e da
tedeschi di mezza età che ridono in modo goffo, uno di loro ha la fede al dito. Mi
fanno pena, lo dico a Paulo che mi risponde: «Matteo, non lo capisci perché tu
non sei mai stato con una ventenne cubana.»
Lui ordina aragosta. Non posso mangiare l’aragosta, l’immagine di un animale vivo
che muore lanciato in acqua bollente mi fa impressione. Fa una battuta ma io non
rido, la mia mente è sommersa di immagini di aragoste buttate in pentola un attimo
prima di chiudere il coperchio.
Dopo un po’ mi comunica che non c’è stata nessuna sparizione di turisti ma solo
un omicidio di una straniera nell’ultimo mese. Non si conosce la nazionalità, l'unica
cosa che si sa è che ha un tatuaggio sul braccio sinistro.
«Sul braccio sinistro... ti ricordi cosa c’è scritto?»
«Sì, ma non so cosa vuol dire. Qualcosa tipo Naelies, nefeli.»
«Naedys?»
«Sì, sembra di sì... ma come fai a saperlo?»
140
Una fiamma mi lacera il corpo, mi agito, mi sento come un’aragosta appena buttata
in una pentola d’acqua bollente, mi alzo ed esco.
«Cosa succede, non stai bene?»
«Mio fratello ha lo stesso tatuaggio sul braccio sinistro.»
Rimango bloccato. A Cuba gli uffici chiudono presto ma per certe cose non servono
orari. Paulo fa un paio di chiamate, paghiamo il conto e prendiamo un taxi. Guardo
il fondo giallastro dell'auto mentre Paulo spiega al taxista dove andare. Non riesco
a immaginare in cosa devo avere paura, in cosa posso sperare: mio fratello sparisce e muore una donna con lo stesso tatuaggio sul braccio? Casualità o c’è un
collegamento?
Sono io l’aragosta qui, un’aragosta che si muove dentro acqua bollente e spera
che qualcuno apra quel coperchio e la tiri fuori.
Paulo mi dice di aspettare nel taxi; sì, questo lo posso fare, mi fermo e conto i respiri: uno, due e tre, Matteo stai tranquillo, lentamente arrivo a dieci e poi ricomincio. Uno, due, tre. Vedrai che non è nulla.
Torna dopo un tempo incalcolabile, mi fa vedere una foto. Io svengo, tutto è buio.
L’aragosta è morta sbattendo contro una foto di mio fratello Diego vestito da
donna, è morta per soddisfare il palato di questa città calda di nome L’Avana.
Mi rigiro, tiro su con il naso, l’aria condizionata è al massimo. Guardo l’orologio e
scopro che sono le due di pomeriggio. Ma come sono tornato qui?
Trovo un biglietto sul comodino: vedo di capirci qualcosa, ci vediamo alle otto in
hotel.
Le immagini di ieri mi appaiono confuse, accendo il mio registratore, lo consiglio
sempre ai miei pazienti, e inizio a registrare: prima mia madre, poi mio padre e
ora Diego, possibile? Mio fratello ucciso a L’Avana, mio fratello vestito da donna,
perché? Per nasconderlo? Mio fratello ammazzato senza nessuno, mio fratello
senza un funerale.
Non riesco a star qui, esco dall'albergo, cammino senza meta. Inizio a correre
verso il mare, sono una lepre, una lepre che corre lontano, verso la ferrovia, ancora
oltre, verso una lunga strada in salita, non vedo la gente, i colori, le auto, i clacson,
corro fin quando non mi stanco, non mi abbatto. La lepre è stata raggiunta non so
da chi, viene morsa, fa male. Piango, picchio i pugni a terra.
La mia mente è opaca, sfumata. Continuo a camminare, come se il dolore possa
essere placato dalla stanchezza fisica. Guardo per terra, a un tratto la strada
smette di essere asfaltata, alzo lo sguardo e vedo da lontano la statua di un Cristo
come quella che c’è in Brasile; ma questo non è uno stato comunista e ateo?
Osservo questa grande statua bianca e penso a Diego, dove sarà adesso? Mi
starà osservando? Sono sempre stato critico sulle religioni, quanto vorrei crederci.
Ripenso a quello che dico ai miei pazienti, poi a Elisabeth Ross, alle cinque fasi
dell’elaborazione del lutto, sembrano concetti così astratti ora.
Ritorno meccanicamente all’albergo all’ora contrattata senza notare nessuno. Assenza di pensieri, assenza di energie. Paulo è lì che mi aspetta. Mi fa cenno di
sedermi, senza nemmeno incrociare il mio sguardo inizia a parlare:
«Tuo fratello è stato ammazzato, non ci sono dubbi. Non è stata contattata l’ambasciata perché nessuno ha trovato i documenti. Era registrato con il nome di una
141
donna, per giunta finto. Quando i medici dell’autopsia hanno capito che era un
uomo hanno tenuto la situazione ancora più nascosta. Tutti gli intervistati lo conoscevano come una donna: parlava, rideva e scherzava come una donna.»
«È troppo.»
«Cosa?»
«È troppo, dammi qualcosa da bere.»
«Be’, ho comprato del rum per corrompere un funzionario ma non è servito. Tieni…
ma sei sicuro? Non mi sembra la cosa giusta da fare…»
«Sono stanco di fare la cosa giusta.»
Mi sveglio nella mia camera con la nausea e il mal di testa. Rimango sotto le coperte a soffrire il freddo su un’isola tropicale. Quanto sono stupido, prevedibile.
Sono come tutti i miei pazienti quando soffrono, non sono migliore né diverso, anzi
sono peggiore perché so che dovrei essere lucido e concentrarmi su quello che
devo fare. Invece voglio solo starmene qui, spegnere il condizionatore e non alzarmi, voglio svegliarmi a Milano, nel mio appartamento, e voglio che a soffrire
sono siano solo i miei pazienti.
Mi rigiro. Cerco una foto di Diego nel portafoglio, non ne ho. Sono egoista e solo.
Perché si comportava da donna? Era per nascondersi? Mio fratello era omosessuale? Era un travestito? Ma come ho fatto a non rendermi conto di nulla? Come
ho fatto proprio io a non rendermi conto di tutto questo? Forse si nascondeva?
Ma cosa importa?
Con fatica mi alzo dal letto, spengo la rumorosa aria condizionata. Leggo il solito
bigliettino dalle lunghe vocali di Paulo: a questo punto non so che fare… ne parliamo a pranzo?
Mi muovo per la stanza e mi sale la voglia di piangere ma riesco a fermarmi. Ai
miei pazienti consiglio sempre di ritagliare un momento della giornata, un’ora dedicata al dolore, possibilmente la sera, quando fa buio e puoi dormire sommerso
dalle tue lacrime. Accendo il telefonino, un paio di messaggi di colleghi e un altro
di Giulia, lo guardo ma è solo un avviso di chiamata.
Prendo un pezzo di carta e provo a mettere giù le cose da fare. Non ci riesco.
Prendo il mio registratore ma non mi viene nulla da dire.
Paulo arriva puntuale al ristorante e mentre aspettiamo le ordinazioni illustra quello
che ha scoperto: quello di mio fratello fa parte di uno dei tanti processi-lampo per
omicidio che viene fatto a L’Avana. Il corpo è stato trovato mentre un uomo fuggiva.
La polizia non ha dubbi, è stato un omicidio passionale: l’uomo ha sedotto Diego,
ma quando ha scoperto che non era una donna l’ha inseguito e l’ha ammazzato
sotto gli occhi di una passante. Quando è arrivata la polizia ha provato a fuggire.
Lui parla e io non riesco a seguirlo bene, mi dice di andare all'ambasciata, che
forse il corpo si trova già in un cimitero. Io penso solo a Diego, ai regali ai suoi ritorni dai viaggi, al suo silenzio, a come io cercavo di capire il suo umore dalla musica che usciva dalla sua stanza, passavo ore a interpretarlo attraverso i Nirvana
o i The Cure.
Mi guarda dritto negli occhi e mi chiede:
«Concentrati su questo… che facciamo? Io ho del lavoro da fare in Messico. Che
142
ne dici di sistemare le pratiche con l’ambasciata e tornare in Italia?»
Cosa rispondo? Lascio tutto? Posso davvero tornare a Milano, al convegno che
ho tra qualche giorno?
Paulo, stanco del mio silenzio, dice:
«Ascoltami, lascia tutta questa faccenda alle spalle e torna alla tua vita.»
«Non lo so, ho bisogno di tempo.»
Rimaniamo a mangiare in silenzio. Mi sforzo di pensare ad altro. Lo guardo, noto
la sua postura perfetta, le sue mani grosse, il suo volto lungo e cupo. Da un punto
di vista puramente razionale sono stato fortunato a incontrarlo, così glielo dico.
«Ma che dici? Volevo tornare a L’Avana, vai a pensare che avrei trovato lavoro in
fila per i visti cubani…»
«È sempre così il tuo lavoro?»
«Di solito ricercare persone scomparse richiede molta più fatica, possono dire
quello che vogliono di Cuba, ma il resto dell’America Latina è molto più incasinato
di qui!»
Non voglio pensare a Diego così cerco di concentrarmi su di lui, gli chiedo della
sua vita. Mi racconta del suo passato in Argentina, della sua passione per il tango,
gli chiedo perché abbia smesso. Cerco di psicanalizzarlo ma qui non siamo nel
mio studio, così esagero diventando invadente e ritorna il silenzio. Volta lo sguardo
e pensa a qualcosa che probabilmente io non saprò mai. È strano, sono tre giorni
che parlo con lui ma solo quando ha parlato del tango mi è parso davvero puro.
Finiamo di mangiare, mi dice di aspettarlo alle venti in un altro ristorante e mi ribadisce di passare per l’ambasciata e poi per il cimitero.
Non eseguo gli ordini, non capisco nemmeno se davvero Paulo mi abbia parlato,
tutto sembra molto distante. Il tempo è infinito, nella stanza solo buio, rumori lontani e “Something In The Way” nella testa. Dormo, mi sveglio, ho mal di stomaco
ma non voglio mangiare, torno nel letto. Tutto è ovattato. Tutto quello che mi rimane sono i Nirvana nella testa.
Paulo bussa alla porta, io non apro. Mi lascia qualcosa fuori dalla stanza. È una
specie di pizza.
La mattina dopo ribussa alla mia porta con forza, sento che non posso evitarlo.
Mi parla con meno freddezza e mi consiglia di nuovo di andare all’ambasciata e
al cimitero. Mi convince.
Cammino come un automa, non sembro nemmeno un turista. Con una certa difficoltà arrivo all’ambasciata e poi al cimitero, guardo una bara senza nome né
croci. Addio fratellone, non so perché hai scelto questo posto, non so perché non
mi hai mai detto nulla di questi tuoi desideri nascosti. Mi dispiace, eravamo distanti
ma eri la mia famiglia, lo so, sarei potuto essere un fratello migliore.
Decido che questo è il mio momento del dolore e lo lascio sfogare. La gente passa
e mi vede piangere. Ho sempre percepito la morte come qualcosa di freddo, di
lontano. Questo calore mi spiazza, questo sole tropicale rende tutto ancora più irreale.
Ho voglia di bere, di farmi male, ho voglia di picchiare o forse anche di essere picchiato, questa città inizia a farmi paura.
Mi fermo in una piazza piena di bancarelle, raccolte casuali di libri del Che, di Fidel
143
Castro, qualcosa di Camilo Cienfuegos e mille foto di Ernest Hemingway. Tra tutte
queste cianfrusaglie vedo un coltello grande come un portachiavi, lo prendo. Girare
con un coltellino in tasca mi fa sembrare tutto ancora più pericoloso, mi siedo e
mi rilasso un attimo. La gente mi guarda, non so perché ma ora tutti capiscono
che sono straniero. Si avvicinano e mi chiedono se voglio sigari, se voglio puta. Io
tocco il mio coltellino in tasca e rispondo che non voglio niente. Voglio solo andarmene a casa, nel mio sicuro appartamento in Italia, nel centro dai miei pazienti.
Sono nella via principale, ritrovo il pub di ieri. Ordino un moijto, poi un altro. Questo
bar non è grande, ma i turisti ci passano spesso e non è difficile trovare degli stranieri più loquaci di me. Io quindi posso sparire, annullarmi, rallentare il respiro e
aprire bene gli occhi. Sono un palo sull’autostrada che spia e scatta fotografie per
multe cittadine. Non respiro quasi.
L’Avana si trasforma in una gatta dal pelo nero e curato che si muove con sensualità tra i balconi ornati del centro storico, fa le fusa ai turisti occasionali che si
fotocopiano nelle foto lungo le sue strade o che hanno lo sguardo perso tra barche
lontane e odore di salsedine.
Davanti a questo io sono un topo che cerca di sfuggirle, di nascondersi.
Provo a non pensare a Diego ma la mia testa è un’altalena di immagini del passato
e del presente. Nella mente mi ritornano frasi che ormai hanno perso anche forza:
perché non mi ha detto nulla? Perché non ho lasciato che si aprisse a me?
All’improvviso sento che qualcuno mi sta fissando, mi giro velocemente: sono
occhi neri e profondi quelli che mi osservano, che non si abbassano quando incrociano i miei, incuriositi e un po’ impauriti. Osservo la sua pelle mulatta, il suo fisico gracile e alto, vedo le sue mani mentre suona il contrabbasso, un’infinità di
treccine che le cadono oltre la spalla.
Io ho smesso di osservare, questa volta sono osservato, continua a scrutarmi incuriosita come se vedesse oltre me. Finiscono di suonare e lei si avvicina. Inizia
a parlarmi in uno spagnolo velocissimo, io mi sposto, urtando il tavolino faccio traballare il mojito. Qualcuno si gira ma nessuno si interessa a noi. Le dico che non
parlo la sua lingua, lei cerca di parlarmi più piano, io la allontano e le dico che non
vado con le puta. I suoi occhi diventano di fuoco nero, io non riesco a gestirli, mi
alzo di scatto, il mojito le cade addosso e io scappo.
Questo spavento mi ha svegliato. Guardo l’orologio e sono quasi le venti, così
vado all’appuntamento con Paulo. Mentre cammino ripenso a quegli occhi, a
quella pelle mulatta. Cos’ho provato? Prendo il registratore: questa città vuole
qualcosa da me, io ho paura, ho una strana sensazione, voglio tornare a casa!
Paulo fa commenti stupidi sulla mia faccia pallida e sul mio maldestro equilibrio.
Con la sua assoluta freddezza mi presenta la situazione: mio fratello è arrivato a
L’Avana avendo con sé tutti i suoi soldi, ha buttato i suoi documenti e ha deciso di
essere quello che aveva sempre desiderato, un travestito. Così ha iniziato relazioni
fugaci con turisti e qualche cubano. Insomma, batteva. Fin quando sulla sua strada
è arrivato il suo assassino, un cubano troppo ubriaco per rendersi conto che fosse
un uomo. Non credeva di poterlo ammazzare. Il processo è stato veloce.
«Ha preso trent’anni di carcere e stai sicuro che qui non è come in Italia.»
Ho la nausea, vado in bagno, va un po’ meglio, ma non voglio continuare a bere
144
né a fare altro. Ancora un po’ e mi lascio andare, ma cos’è questa sensazione?
Fastidio? Quasi sollevato che nessuno in Italia saprà che mio fratello era… frocio?
Mentre mi vergogno di questi pensieri ritorno verso il tavolo. Paulo ha abbordato
due ragazze, li vedo che parlano spagnolo, ridono tantissimo di cose che non capisco. Sembra tutto un circo. Da una parte ci sono due pantere che girano intorno
al domatore, lui cerca di far fare un percorso che le porti dritte al suo letto, ma
guardando con attenzione mi sa che non hanno bisogno di indicazioni, sanno bene
cosa fare.
Io? Io sono il clown, ma di quelli tristi, di quelli che cercano di far ridere e non ci
riescono.
Comunque lo spettacolo è iniziato e io non so che fare, mio fratello era un travestito
ed è stato ammazzato, di fronte a me c’è una cubana e io non capisco nulla di
quello che dice, rido cercando di non disperarmi, lasciandomi guidare da questa
danza dell’accoppiamento così lontana dalla mia quotidianità.
Paulo dice a entrambe qualcosa, poi lui sparisce con una delle due mentre io salgo
con l’altra in camera mia, è talmente bella che non riesco a toccarla. Non ci riesco
per pudore o per Giulia? All’improvviso la ragazza cubana piange, mi fa vedere la
foto della mamma malata, mi spiega che è la prima volta che fa “queste cose”.
Parla molto ma io riesco a comprenderla, capisco quasi tutto anche se le parole
sono sommerse dal pianto e richieste di soldi. Le do dei soldi e lei va via. Ha inventato tutto però lo ammetto, mi sono piaciuti i dettagli.
Rimango sul letto a guardare il bianco opaco del soffitto che non smette di fermarsi. Prendo un altro sonnifero.
Mi risveglio stanco sul letto dell'albergo. Ho fatto un sogno strano: camminavo e
inciampavo, mi rialzavo e inciampavo. Mi piacciono i sogni, li faccio sempre raccontare dai miei pazienti. Delle volte sono così pieni di particolari che sembrano
frammenti di vite passate oppure della vita presente, se si fossero fatte scelte diverse. Se non ci fosse stato quel particolare che stravolge la vita. Qual è stato il
mio? La scomparsa di mia madre quando ero piccolo? La morte di mio padre cinque anni fa? Diego e il suo segreto? Be’, mi sa che questi sono molto più che particolari.
Sento bussare alla porta, è Paulo: «Cosa ne dici se andiamo via da questa cazzo
di isola? Tu non avevi il convegno a Milano?»
Istintivamente gli rispondo di sì, basta afa, basta mal di testa, basta questa lingua.
Mi sorride e mi fa vedere i biglietti, li aveva già comprati. Ci si organizza per la
giornata. Esco dall'albergo e vedo in reception la ragazza mulatta di ieri, quella
che ha cercato di parlare con me al locale. La ignoro, mi dirigo verso l’ambasciata
italiana. Cerco di tenere la testa impegnata, faccio file interminabili, recupero documenti. Mi ripeto che andare via è la scelta migliore, prendere un aereo, far seppellire mio fratello in Italia. Elisabeth Ross con la sua teoria del lutto dice solo
cazzate; ora non devo pensare al dolore, devo concentrarmi sulle cose da fare.
C'è il tramonto e L’Avana sembra una tigre accovacciata sull'oceano, il giallo e
nero del suo mantello appaiono alternarsi nello stesso modo tra il colore oro dei
palazzi logorati dal sole e le sue ombre. Camminando senza meta incontro un
145
gruppo di bambini con la divisa scolastica che corrono dietro la maestra; sorrido,
ai miei pazienti suggerisco spesso di immaginarsi bambini e di dirmi come si vedono.
Io non sono quel bambino che chiede qualcosa da mangiare, non chiedo soldi. Io
non sono quel bambino che alcuni turisti cercano per regalargli saponi e matite
per ripulirsi la coscienza. Io sono quel bambino che avrebbe solo bisogno di un
abbraccio, di quelli che non ti fanno respirare bene, di quelli in cui puoi piangere.
Decido di tornare all’albergo e passo davanti al bar di ieri, il mio sguardo incrocia
quello della ragazza con le treccine, sta suonando il suo contrabbasso. Mi riconosce e smette di suonare. I colleghi la guardano, lei chiede scusa, prende il microfono e mi urla:
«Yo soy Naedys!»
Sono paralizzato. Naedys è un nome? Naedys è lei? Sento uno strano fuoco dentro di me, forse è gioia, sicuramente è gioia, ma perché?
Le sorrido quasi tramortito, lei mi fa un gesto come per dire “rimani qui”. Finisce di
suonare e si avvicina a me, inizia a parlare piano in spagnolo io capisco poco, mi
guarda e mi dice: «Diego?»
«Diego è mio fratello.»
Mi abbraccia forte, un abbraccio lungo più di un minuto, di quelli che non ti fanno
respirare bene, di quelli in cui puoi piangere, ma a piangere è lei.
Mi dice che vuole parlarmi, ma devo aspettare che finisca di suonare. Così rimango in un angolo, tra il timore e la curiosità, ascoltando questa musica commerciale e allegra cantata da una donna dagli occhi scuri e tristi che si
inumidiscono quando incrociano il mio sguardo.
146
147
Alla sua opera prima, l’autore ci vuole portare con sé in un paese lontano.
Un volo interminabile su un cargo militare deposita Giorgio Mazzoni nel
paese dei mille splendidi soli con il misero bagaglio di informazioni che un
occidentale ha a disposizione quando si parla di questa parte del mondo: la
televisione, il web, i saggi storici, Khaled Hosseini e Gino Strada. Il protagonista è un giovane avvocato stanco della professione considerata arida e
poco stimolante che decide di dedicarsi alla causa umanitaria nei paesi meno
sviluppati e più bisognosi del mondo. La partecipazione con Grazia alla festa
del matrimonio di una giovane coppia della capitale è il pretesto per rivivere
tutte le sue vicende di cooperazione in Afghanistan. Le nozze sono un evento
speciale dove ospitalità e generosità degli sposi e delle loro famiglie si annodano alle tradizioni, alle curiosità composte da impressioni, racconti e sensazioni. Nell’atmosfera gioiosa di condivisione, la gente si lascia andare a
pensieri e opinioni fuori dall’ordinario, fino a condividerli con un occidentale.
Così Giorgio riesce a trasformare l’esperienza della miseria e della sofferenza
nel suo alibi per la ricerca della semplicità, del grottesco, del magico nel
paese devastato dai conflitti. Tra avventure in luoghi sconosciuti, incontri con
personaggi misteriosi e percorsi alla ricerca di qualcosa e qualcuno, si snoda
l’opera di Moyersoen che, come un piatto di cucina locale, è ricco di sapori
variopinti ed è condito con spezie profumate che ti fanno sentire sazio solo
dopo averlo letto fino in fondo.
Joseph Moyersoen é laureato in giurisprudenza all'Università Statale di Milano e si è specializzato in diritto minorile. Ha svolto la funzione di vice Procuratore onorario (Pubblico Ministero d'udienza) presso il Tribunale di Milano
e svolge la funzione di giudice onorario presso il Tribunale per i minorenni di
Milano dal 2002. Collabora come esperto esterno con la Direzione Generale
della Cooperazione allo Sviluppo del Ministero degli Affari Esteri.
Ha pubblicato decine di articoli nelle riviste specialistiche: Minorigiustizia,
The Chronicle e Cittadini in crescita e nelle collane Puer della Franco Angeli
e Quaderni e Documenti del Centro Nazionale di Documentazione e Analisi
sull'Infanzia e l'Adolescenza.
Recensisce per il sito internet specializzato: www.tribunaleminorimilano.it
del Tribunale per i minorenni di Milano e per www.minori.it/rassegne-filmografiche del Centro Audiovisivo e Mediatico sulla Rappresentazione dell'Infanzia e dell'Adolescenza (CAMeRa) ha collaborato a lungometraggi che
trattano tematiche legate al mondo dell'infanzia e dell'adolescenza.
148
Sobh Bekheir Kabul, Joseph Moyersoen.
Capitolo 1 – Un matrimonio inconsueto
«Ma dai, vedrai che saremo tutti insieme, vieni anche tu. In fondo è una famiglia
progressista.»
«Non ti credo.»
«Ma li conosco, figurati se saremo in due sale separate!»
«Ma Grazia… sei sicura? Mi sembra così strano, anche se siamo nel 2010, qui
sono tutti ancorati alle tradizioni e a usanze direi… secolari. Comunque, la cosa
mi tenta muchissimo, dev’essere un’esperienza pazzesca. E come mi dovrei vestire?»
«Mah, mettiti una giacca. Non è come da noi, qui ognuno si mette ciò che si sente,
soprattutto gli uomini, questo lo so. D’altra parte il progetto che seguo è proprio
nel campo dell’abbigliamento.»
«Ma come li hai conosciuti?»
«Be’, semplice. Ahmed, il fratello dello sposo Rashid, è il capo della sartoria che
si è costituita con il mio progetto, per cui mi conoscono tutti.»
Giorgio aveva capito che in quel contesto la parola “Grazia” lo avrebbe salvato nel
caso in cui, come temeva, sarebbe stato solo in mezzo a tanti uomini sconosciuti.
«Prima di andare a prepararci, vista l’ora, spiegami come faccio a imbucarmi a un
matrimonio. Confesso che non lo avevo mai fatto, ma questa volta sono disposto
a rischiare. Mi piacerebbe tanto vedere le donne tutte agghindate a festa, immagino già i corpi avvolti in tessuti pregiati e colorati senza burka, i capelli nelle più
assurde acconciature senza chador, i gioielli sfoggiati per l’occasione, sìssìsì, già
mi immagino questo e altro!»
«Eeeeh adesso, non correre. Però penso che un po’ tu abbia ragione. Poi Ahmed
mi ha detto che la moglie di Rashid e le sue sorelle sono davvero bellissime
donne.»
«Ma pensi che oltre alla cena ci siano anche musica e danze?»
«Ma certo, cosa credi, qui quando si sposano si indebitano fino ai capelli per organizzare una festa davvero speciale, quindi ci saranno musicisti e poi anche
danze all night long. Vedrai che ci scappa anche un ballo scatenato.»
«E come ballano qui? Mica si balla il rock francese…»
«Vedrai vedrai, non ti dico niente, ti ho già detto troppo.»
«Già, ma noi a una certa ora dobbiamo rientrare come cenerentole, altrimenti poi
domani li senti quelli della sicurezza, oltre a trasformarci in zucche ci scappa anche
una bella strigliata. Comunque chi se ne frega, è talmente un’occasione unica, poi
non andiamo mica in uno di quei posti vietati perché frequentati dagli occidentali,
dove il rischio attentanti è sempre alto. In fondo il divieto di uscire la sera è proprio
legato a questo, se si va nei ristoranti frequentati dagli stranieri. Lì sì che si rischia
il botto.»
«Infatti tranquillo, non ti preoccupare, e comunque non facciamo tardi, perché poi
domani ho una giornata di quelle campali.»
149
«A chi lo dici, sai chi dovrò incontrare?»
«No, come sai qui è già tanto se uno riesce a seguire i propri di impegni, correndo
dietro al tempo da mattina a sera. D’altra parte non c’è altro, non si può che lavorare non potendo uscire dal compound se non in casi eccezionali.»
«Vedrò l’avvocato che si occupa dei minori in carcere. Quello che conosci anche
tu, come cavolo si chiama…»
«Fazul Zarbach? Ma guarda, allora quando lo vedi salutamelo. Sai che per me fa
un ottimo lavoro?»
«Tu dici? Non ho ancora capito bene come lavora. Devo chiedergli alcune cose
perché non mi tornano i conti sul numero dei minori che dice di aver difeso con la
sua ONG. Comunque certo che lo faccio. E poi, dato che lo vedo qui nel compound, se ci sei passiamo a salutarti.»
«Bene, dai che facciamo tardi, vado a prepararmi. Allora ci vediamo qui tra mezz’ora?»
«Perfetto, a tra poco.»
Giorgio era eccitato come un bambino che sta per aprire i pacchi di Natale, anche
se temeva molto che Grazia avesse preso un granchio con il film del matrimonio
che si era montata in testa.
«Dai, dai, che dobbiamo andare.»
«Eccomi Grazia, scusa ma stavo chattando via skype con un amico e gli stavo
raccontando dell’esperienza che sto per vivere. L’autista è pronto?»
«Sì, stasera c’è di turno Mohammed e ci sta aspettando all’uscita del compound.»
Anche lei era molto eccitata e per l’occasione aveva indossato un bell’abito attillato
a fiori con varie tonalità di blu, che faceva risaltare ancora di più il suo corpo snello,
sinuoso e sicuro, e i suoi occhi azzurri. Con un tocco di trucco sul volto, che usava
raramente, e i capelli lisci e neri lasciati cadere con naturalezza sulla schiena, era
pronta ad affrontare questa esperienza anche per lei nuova, nonostante lavorasse
lì da oramai tre anni.
In auto l’aria fresca entrava dai finestrini, da cui si scorgeva un cielo stellato così
vicino e brillante, senza l’ombra di una nube, accarezzando i volti e facendo ondeggiare leggermente i capelli di Grazia, contribuiva all’euforia che oramai pervadeva entrambi.
Appena arrivati all’ingresso del palazzo moderno, di cui gli sposi avevano affittato
tutto il secondo piano per l’occasione, furono subito accompagnati a due ingressi
diversi. Grazia entrò da quello dedicato alle donne che entravano con tanto di
burka o chador, mentre Giorgio da quello dedicato agli uomini vestiti di tutto un
po’. In quel momento si sentì perso, anche se aveva ben ipotizzato che sarebbe
successo l’inevitabile. Salì da solo la scalinata tutta agghindata con fiori e tappeti
per l’occasione pensando “ma che ci sto andando a fare io, se non conosco nessuno?”. Giunto al secondo piano si trovò di fronte una grande sala luccicante con
circa cinquecento uomini afghani seduti in tavoli da sei, otto o dieci persone.
Era l’unico straniero, un giovane molto alto che indossava un blazer blu. Appena
comparve nella sala tutti si girarono a guardarlo. Un ragazzo venne ad accoglierlo
e lo fece accomodare a un tavolo in cui c’era ancora un posto libero. Dopo qualche
150
saluto in farsi, calò il silenzio. Nessuno parlava altro che dari o farsi, e oltre ai saluti
di circostanza Giorgio non spiaccicava una parola.
Molti sorrisi, qualche gesto, poi finalmente un parente dello sposo venne in soccorso. Aveva capito che non era il posto giusto per quello strano e sconosciuto
ospite, quindi lo fece accomodare a un altro tavolo in cui tutti parlavano inglese.
Allora Giorgio usò la parola magica e disse: «I’m Grazia’s friend». In effetti, dalla
reazione capì che tutti la conoscevano, e non appena si sparse la voce che anche
lui era italiano, iniziò la processione di ragazzi che conoscevano qualche parola
nella sua lingua e uno dopo l’altro passarono a salutarlo.
«Come va.»
«Bella Italia.»
«Conosco italiani qui a Kabul.»
Che strana sensazione provò, perché erano molti che avevano lavorato con militari
o con civili italiani e risultava che si erano trovati molto meglio che con gli altri stranieri della coalizione internazionale.
In poco tempo arrivarono i parenti dello sposo, le portate, il cameraman a filmare
Giorgio, proprio mentre Grazia lo stava chiamando sul cellulare dall’altra parte
della sala divisa da un separé con altre cinquecento donne con abiti, colori, gioielli
e acconciature alla Bollywood.
«Giorgio, mi spiace ma avevi ragione tu, se vuoi ce ne andiamo.»
«No no, non ti preoccupare per me, va tutto bene, e in questo momento non posso
stare al telefono perché sono circondato, poi ti racconto.»
Quella sera fu davvero speciale per Giorgio. Parlò di tante cose con i suoi vicini di
tavolo, alcune anche un po’ tabù, ma con molta sincerità e naturalezza. Fu servito
e riverito fino all’eccesso, con mille attenzioni. Cibi squisiti, tre tipi di risi diversi,
tra cui uno con le scorze d’arancia e un altro con l’uvetta, dei ravioli tipo quelli cinesi un po’ piccanti, varie carni, tra cui pollo al curry e montone arrosto e tante
altre delizie, poi un ottimo dolce simile al dulce de lece al cardamomo ricoperto di
pezzetti di pistacchi. Il tutto annaffiato da coca cola o aranciata, dato che gli afghani
non possono bere alcolici neppure alle feste. Insomma, una cena da leccarsi i
baffi, anche se tutti per servirsi attingevano, spesso con le mani, allo stesso piatto
di portata.
Durante la cena parlarono di poligamia, di elezioni, di Karzai, di produzione clandestina di vino per il mercato estero e di tante altre cose. Per esempio era singolare, ma neanche tanto difficile da comprendere, la posizione sulla poligamia. Per
gli afghani era semplice, loro sostenevano che mentre gli europei hanno le amanti
di nascosto, come se tutti gli europei avessero l’amante, loro invece hanno più
mogli alla luce del sole. Potevano arrivare fino a sette mogli, ma il problema era il
dover garantire lo stesso tenore di vita a tutte quante, per cui gli stessi spazi vitali,
il che necessitava una casa molto grande. I suoi vicini di tavolo al momento avevano una sola moglie, non perché non volessero averne di più, anzi, ma perché
non se le potevano permettere. Alla domanda di come un vicino avesse scelto la
sua attuale moglie, siccome si vantava di averla conosciuta prima di sposarla,
quello rispose di averla vista all’università mentre chiacchierava con delle amiche:
151
ne era rimasto folgorato e aveva raccolto informazioni su di lei ed era andato dai
suoi genitori a chiederla in sposa. Alla faccia dell’averla conosciuta. Era incredibile
come il punto di vista della donna fosse praticamente inesistente per la cultura afghana, in particolare in tema di matrimonio.
Anche rispetto ad altri argomenti si erano lasciati andare nell’esprimere liberamente il loro punto di vista, e senza bisogno di bere alcolici. In proposito c’era chi
produceva vino, e pare anche di discreta qualità, nelle rigogliose valli del sud, e lo
esportava nei paesi limitrofi. Il tutto rigorosamente di nascosto, perché la religione
musulmana vieta in modo categorico il consumo di bevande alcoliche, considerate
opera di Satana: “Evitatele affinché possiate prosperare” (Corano, Sura V). E pensare che la parola alcol ha radici arabe (al-kul) e significa più o meno “il più sottile”.
Pausa sigaretta fuori dal locale, all’aperto con chiacchiere sotto il cielo stellato, e
poi di nuovo in sala, ma questa volta per le danze con un complesso di musicisti
pronto a strimpellare. Ovviamente qui Giorgio non poteva che fare furore, un vero
ballerino provetto, sempre pronto a fare quattro salti. Il primo ragazzo in pista lo
costrinse a buttarsi nelle danze e subito cercò di imitare l’afghano nei movimenti.
Su le braccia ondeggiando un po’, cercando il ritmo che era tutt’altro che lento.
Poi la pista si riempì e gli sembrò di riuscire a tenere il ritmo, e che ritmo!
Con la scusa di voler fare qualche foto che immortalasse lo sposo e i suoi amici
nelle danze, mentre al di là del separé anche le donne pareva si stessero scatenando, Giorgio si allontanò pian piano e chiamò Grazia sul cellulare, purtroppo
era ora di tornare alla base.
Capitolo 2 - Il viaggio
Rientrato al compound, ancora pieno di pensieri e di congetture su cui riflettere,
da raccontare e condividere, continuava a ripensare a quanta distanza ci fosse
tra il suo mondo e quello in cui era stato catapultato quella sera. Ripensò alla sua
città, al lavoro, agli amici, tutto quello che aveva temporaneamente congelato per
tuffarsi in questo pianeta così diverso. Nel suo viaggio si era immaginato tante
cose, ma non certo la possibilità di conoscere così da vicino gente con vere tradizioni, non quelle che si raccontano per sentito dire o si leggono sui libri. In quel
viaggio tante emozioni lo stavano attraversando, come quando si entra a scuola
il primo giorno e si trovano nuovi compagni di viaggio, nuovi insegnanti, nuove
materie, insomma, un nuovo mondo.
Era partito da Milano con tappa a Istanbul, un volo di linea come tanti, insieme a
tanti sconosciuti che si spostavano per lavoro o per piacere, che andavano a concludere qualche affare o a trascorrere qualche giorno di relax in un altro paese.
Ma poi il viaggio da Istanbul per Kabul aveva assunto tutt’altri connotati. Ricordava
che fuori era buio. Un viaggio interminabile, su un cargo militare. Il rombo costante
e il tremolio persistente gli riportava alla memoria un viaggio fatto qualche anno
prima a Pristina, su un piccolo Stol da venti posti. Allora non era circondato da soldati ma da civili armati di tanta volontà e generosità, che andavano a portare aiuti
umanitari ai sopravvissuti alla guerra in Kosovo appena conclusa. Anche su quel
volo, seppur più breve, la sensazione era stata di totale stordimento, e le grandi
152
cuffie impedivano qualunque tipo di dialogo. Aveva tentato di scambiare due parole
con la sua vicina, una giovane bionda e robusta australiana del World Food Programme, ma altro che dialogo tra sordi. Non solo non si capiva niente, ma il tremolio dava il colpo di grazia, come i compagni che alla recita scolastica tirano
oggetti per far perdere la concentrazione.
Arrivato a Kabul più stordito e frastornato che mai, era subito stato immerso nel
nuovo mondo ma come se viaggiasse in parallelo agli afghani, perché seppure
dovesse lavorare per loro, in realtà fin dall’arrivo si era sentito distante.
I primi giorni erano stati dedicati agli incontri con l’ambasciatore, con il personale
d’ambasciata per la registrazione, con il direttore della cooperazione italiana, con
lo staff del progetto sulla giustizia, con i militari che dovevano illustrare i piani di
evacuazione e le altre regole da tenere presente sempre, perché il pericolo di attentati e di bombe era all’ordine del giorno e c’era poco da scherzare. Tra le slide
mostrate dai militari ce n’era una che gli era rimasta molto impressa su un tipo di
ragno grande come una mano: il ragno cammello, marrone, enorme e pericoloso.
I ragni non erano mai stati la sua passione e vedere quell’essere che sembrava
venire da un altro pianeta lo aveva proprio colpito. “Certo che trovarsene uno nella
stanza da letto non dev’essere proprio il massimo” aveva pensato. Ma come gli
scorpioni che pure c’erano in quel paese, fortunatamente se ne stavano lontano
dai centri abitati.
Fu durante questi incontri che conobbe Grazia, con cui legò immediatamente per
uno stesso sentire e stesso modo di vedere le cose. Rimase molto colpito dalla
passione con cui combatteva tutti i giorni per poter fare dei passi avanti e raggiungere quei risultati attesi che il progetto da lei gestito perseguiva. Avevano molte
cose in comune e sicuramente anche lei poteva dargli validi suggerimenti rispetto
al progetto di cui si doveva occupare.
Capitolo 3 - La giustizia minorile
Giorgio era stato selezionato dal Ministero degli Affari Esteri Italiano per contribuire
al miglioramento della giustizia minorile in Afghanistan, ossia il sistema che gestiva
i minori in conflitto con la legge. Si trattava di un progetto innovativo, che prevedeva varie fasi, dalla revisione della normativa alla formazione dei giudici e degli
altri operatori del settore (procuratori, avvocati, assistenti sociali, ecc.), dalla costruzione di un centro di riabilitazione chiuso alla previsione di un centro di riabilitazione aperto e collegato al contesto sociale adiacente. Ora si trattava di chiudere
una fase e aprirne una nuova, sia a Kabul che a Herat.
Era felice di questa opportunità, avendo avuto già altre esperienze di questo genere in passato in altri paesi meno sviluppati come l’Afghanistan, sapeva che poteva dare il proprio apporto al progetto. Certo la lingua era un problema, doveva
lavorare con l’interprete dari e farsi perché molti interlocutori non sapevano bene
l’inglese.
Aveva già incontrato i giudici, per capire i bisogni e le priorità, aveva visitato le
strutture di Kabul e interloquito con i ragazzi internati, mentre con le ragazze ci
aveva parlato una sua collega con l’interprete, siccome era preferibile una persona
153
del loro stesso sesso.
Era rimasto molto colpito da un problema che era emerso rispetto alle ragazze.
Quasi tutte erano definite “running away from home”, scappate di casa. Ma l’avevano colpito le ragioni per cui erano scappate: avevano un fidanzato che i genitori
non accettavano, oppure i genitori volevano assegnare loro come marito un uomo
che non volevano, erano state picchiate e/o violentate dal padre, dal patrigno o
da un altro membro della famiglia, oppure, cosa incredibile, un membro della famiglia aveva commesso un grave reato, come ad esempio un omicidio, e la ragazza era stata scelta per costituirsi alla polizia. Non essendo le ragazze produttrici
di reddito, poiché le famiglie avevano bisogno delle entrate della persona che
aveva commesso quel reato, decidevano di sacrificare la figlia femmina. Incredibile
che si potesse arrivare a scelte così crudeli e ingiuste, che mettevano in luce ancora una volta la scarsa considerazione che la società afghana aveva della donna.
Ma la cosa ancora più terribile era che queste ragazze “running away from home”
non potevano essere rimandate a casa perché potevano rischiare la loro stessa
vita, e alla fine il centro di riabilitazione per minori autori di reato diventava l’unico
luogo per loro sicuro e protetto, non essendocene altri.
L’assenza di strutture aventi finalità diverse dai centri di riabilitazione e da quelle
carcerarie, nonché l’assenza di assistenti sociali che avrebbero avuto proprio il
compito di approfondire la situazione personale e familiare di questi minori, era
proprio la ragione principale che portava a trattarli come se avessero commesso
un reato. Questa era uno dei tanti paradossi di una società piena di contraddizioni,
sfaccettature e antiche tradizioni ancora applicate in modo ferreo.
Siccome il codice minorile era stato adottato e i centri di riabilitazione a Kabul ed
Herat erano stati costruiti, si trattava ora di farli funzionare al meglio e di far funzionare tutta la macchina della giustizia minorile. Giorgio quindi aveva un bel da
fare per conoscere il sistema sulla carta ma soprattutto quello applicato nella realtà, poiché il sistema nuovo, attivato con il codice minorile, si scontrava con la
sharìa e con la giustizia tradizionale, ancora applicate soprattutto fuori dalla capitale e lontano dalle grandi città. Sarebbe stato bello poter uscire da Kabul, dato
che l’Afghanistan è così diversificato dal punto di vista delle etnie, delle usanze e
del paesaggio, ma l’ambasciatore era stato chiaro: per uscire dalla capitale occorreva un permesso speciale e già Giorgio stava lottando per averlo per andare a
Herat, dove peraltro era basato il contingente militare italiano, figuriamoci quindi
se era anche solo lontanamente pensabile di poter andare anche altrove, in questo
paese dai mille splendidi soli.
Ma non voleva demordere, dopo essere riuscito ad andare a Herat era sua intenzione attivare un qualche stratagemma per uscire da Kabul, consapevole dei rischi
che avrebbe corso. Aveva intenzione di raccogliere più materiale possibile sia dagli
operatori del settore per cui lavorava, ma anche da soggetti terzi per avere la visuale più completa possibile. Oramai aveva imparato che, per ragioni diverse, le
informazioni che arrivavano dagli altri stranieri presenti così come dai locali, andavano messe a fuoco, lette e interpretate con delle lenti particolari.
Prima di incontrare il ministro della giustizia, era importante essere sicuro di avanzare e discutere delle proposte che fossero le vere priorità e soprattutto fattibili in
154
termini di fondi messi a disposizione dalla cooperazione italiana, che era più impegnata nella costruzione di strade e negli interventi in campo medico e sanitario,
anche se dall’Italia di tutto questo non aveva mai sentito parlare.
Questa era una cosa strana, in Italia infatti si parlava sui media soltanto dell’intervento militare, e tutta la sfera degli interventi civili realizzati sia dalla cooperazione
italiana che dai militari era pressoché sconosciuta. Non si capiva se si trattava di
una strategia oppure, come Giorgio pensava, di una carenza, per non dire assenza
di comunicazione, ed era un vero peccato perché, anche se a volte con notevoli
difficoltà di ogni genere, i risultati erano tangibili e anche molto positivi. Per esempio il centro di riabilitazione dei minori autori di reato che Giorgio aveva visitato a
Kabul, e che non vedeva l’ora di visitare a Herat, era stato interessantissimo perché costituiva una specie di laboratorio sperimentale per un paese islamico, e si
può dire anche all’avanguardia.
Il centro era costituito da una struttura totalmente chiusa, come un carcere minorile, ma con tutta una serie di attività dalla scuola alla formazione professionale
che consentiva ai ragazzi di preparare il terreno al loro reinserimento nella società
afghana. Andava tenuto conto che la maggior parte dei reati di cui erano accusati
questi ragazzi erano soprattutto furti di beni di prima necessità, perché la povertà
era e resta la causa primaria contro cui la gente lotta. Inoltre molti ragazzi avevano
abbandonato gli studi e non trovavano un lavoro.
A fianco di questo centro chiuso ce n’era uno aperto in cui i ragazzi svolgevano le
stesse attività ma tornando a casa alla fine della giornata. Il centro aperto, in collegamento con la comunità circostante, era la vera novità sperimentale, perché
consentiva di recuperare questi ragazzi che non avevano ancora acquisito le capacità per svolgere un mestiere di farlo in collaborazione con gli artigiani, che un
domani avrebbero potuto assumerli nelle proprie ditte individuali. Dato che il rischio
di recidiva era forte, per rompere questa catena era indispensabile dare gli strumenti a questi ragazzi per potersi un domani arrangiare, senza rischiare di tornare
a delinquere per i problemi di povertà o di mancanza di lavoro. Certo l’intervento
non era soltanto di carattere formativo-lavorativo, ma anche e soprattutto educativo-comportamentale.
Per esperienza Giorgio aveva imparato che solo operatori motivati e preparati e
un percorso individualizzato che tenesse conto delle qualità e delle potenzialità di
ciascun ragazzo erano la chiave di volta per far funzionare tutto il sistema e per
abbattere quindi anche la recidiva, che era altissima prima che questo nuovo sistema fosse messo in moto.
Dopo aver visitato il centro chiuso e il centro aperto di Kabul, costruiti dai civili con
fondi del Ministero Affari Esteri italiano, ora era curioso di vedere il risultato degli
analoghi centri di Herat, costruiti dai militari con fondi del Ministero dell’Interno italiano.
Capitolo 4 - Un volo per Herat
Durante una riunione con i colleghi USA del Correction System Support Program,
che lavoravano sul sistema penitenziario afghano, a Giorgio era stato proposto di
155
andare con il loro capo John Way all’inaugurazione del carcere femminile di Herat,
con un volo militare USA. Servivano tre giorni per avere tutte le autorizzazioni necessarie e organizzare il volo da Kabul. Consapevole delle difficoltà che gli si sarebbero presentate, Giorgio iniziò il calvario delle autorizzazioni.
«Pronto, buongiorno sono Giorgio Mazzoni, posso parlare con il consigliere Franzoni?»
«Buongiorno Giorgio, sono Ornella, come va?»
«Bene, bene, vorrei parlare con il consigliere per concretizzare la mia missione a
Herat, avrei una possibilità di cui volevo discutere con lui, e… inshallah…»
«Mmm, guardi che oggi non è giornata, comunque, un attimo che glielo passo.»
Il consigliere Pietro Franzoni era un giovane diplomatico con un pessimo carattere
e molto abile a mettere i bastoni tra le ruote alle persone che non gli andavano a
genio. L’operazione quindi non si prospettava delle più facili perché il canale con
l’ambasciatore, per poter essere autorizzato ad andare a Herat in quel modo, dipendeva molto dal suo umore e da come lo si riusciva a prendere.
«Pronto? In questo momento sono molto di fretta, mi dica.»
Già l’inizio della conversazione non prometteva bene.
«Buongiorno consigliere, sono stato invitato dai colleghi americani del CSSP all’inaugurazione del carcere femminile di Herat, mi hanno proposto di andare con
il loro volo militare, credo dovrei discuterne con lei.»
«Come, scusi? Credo di non avere capito bene.»
«Dicevo che sono stato invitato…»
«Sì sì, questo l’ho capito, ma non ho capito come pensa di andare a Herat.»
«Mi hanno proposto un passaggio sul loro volo militare.»
«È fuori questione, se vuole andare deve farlo con un volo civile.»
«Mi scusi, ma che problema c’è se vado con gli americani?»
«Il problema è che non l’autorizziamo, molto semplice.»
«Mi scusi, ma c’è un divieto esplicito per i civili italiani di salire su un volo militare
USA?»
«No, ma comunque è fuori questione, le ho detto. Mi scusi ma ora devo andare,
ne riparliamo più tardi, arrivederci.»
Come temeva l’impresa si faceva ardua, ma lui non avrebbe demorso tanto facilmente. Intanto occorreva prendere tutte le informazioni necessarie e studiare una
strategia che potesse convincere il consigliere Franzoni a ricredersi e farlo partire.
Ma come?
La prima cosa da fare era riuscire a sapere quali tipologie di autorizzazione servivano agli americani e da dove partiva il volo militare. Anche se controvoglia, occorreva subito contattare i militari italiani per questa seconda informazione.
«Pronto, capitano Mezzanotte?»
«Chi lo cerca?»
«Sono Giorgio Mazzoni, avrei bisogno di chiedergli una cortesia.»
«Guardi che sta venendo al vostro compound, anzi dovrebbe già essere arrivato.»
«Grazie, vado subito a cercarlo. Ah… capitano Mezzanotte?»
«Sì, Mazzoni, mi dica.»
«Lei per caso sa da dove partono i voli militari americani per Herat?»
156
«Mah, in genere dall’aeroporto militare di Bamiyan, che dista un’ora di strada da
Kabul. Perché?»
E di nuovo Giorgio è costretto, non certo per l’ultima volta, a spiegare la situazione.
«Mi spiace, non possiamo aiutarla, non può andare all’aeroporto di Bamiyan, è
troppo pericoloso.»
«Ma è sicuro che i voli partano solo da lì?»
«Certissimo.»
Era già scoraggiato in partenza, ma non si dava per vinto. Infatti gli era venuta
un’idea che forse lo avrebbe aiutato a partire con gli americani. Ma prima si voleva
consultare con un paio di persone, tra cui Grazia, e il tempo era davvero poco per
trovare una soluzione e far ripartire tutta la macchina per il verso giusto.
157