Intervista con Degrelle primo capitolo - Thule

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Intervista con Degrelle primo capitolo - Thule
Intervista con Degrelle
primo capitolo
Traduzione italiana a cura di Monica Mainardi
CAPITOLO PRIMO
Il giovane Degrelle
Degrelle, Crociato di nascita – Una famiglia, prima del
1914 – Un futuro primo ministro – Il vecchio Pétain e il
piccolo Léon Degrelle – Fuori dalla conca di Bouillon –
Léon Degrelle, figlio di Francese – L’Europa in bicicletta
– Degrelle e i Gesuiti – I suoi maestri politici – La passione
sociale – Primo libro a tredici anni, secondo libro a sedici
anni – Vandervelde, presidente dell’Internazionale, scopre Degrelle – L’amicizia del cardinal Mercier – Degrelle,
promotore dello scontro Vaticano-Maurras.
Domanda. Léon Degrelle, mi può descrivere com’era il suo
ambiente familiare? Ciò che ha determinato la sua successiva carriera?
Risposta. Sono nato il 15 giugno 1906 in fondo all’Ardenna belga, a tre chilometri dalla frontiera francese, a
Bouillon. La nostra casa e il nostro giardino stavano sulla
riva del Semois, un fiume pieno di trote e di lucci, di fronte
all’enorme castello feudale di Goffredo di Buglione, colui
che fu capo della Prima Crociata. Così, fin dai miei primi
attimi di vita fui immerso nel clima delle Crociate! Sono
partito alla conquista della Russia sovietica nel 1941, così
come il mio predecessore di Bouillon era andato a prendere d’assalto Gerusalemme nel 1099!
Anche il paesaggio delle Ardenne mi incitava alla grandezza. Ovunque, delle valli nere. I grandi boschi rossi cantati da Verlaine, la cui famiglia era originaria di Paliseul,
a quattordici chilometri al nord di Bouillon. Così come
Rimbaud era nato a Charleville, a trentacinque chilometri
a sud.
Tuttavia, il fatto di nascere in fondo ai boschi delle Ardenne, vicino a un fiume pieno di vita e ai piedi dell’antica
fortezza di un crociato, non prefigura necessariamente
un grande destino. In questa stretta valle sono nati migliaia di pacifici abitanti di Bouillon, che certo non hanno tentato in seguito di portare la rivoluzione nella loro
epoca!
Da piccolo, non ho neppure beneficiato di una serie di
insegnanti eccezionali. All’inizio non ho avuto che la mia
famiglia. Ma una famiglia è pur sempre una gran cosa. Soprattutto una famiglia come la si concepiva mezzo secolo
fa.
Nel 1976, Jean-Michel Charlier, giornalista e storico, autore di grandi inchieste per la Televisione francese, venne
incaricato di realizzare un ritratto-intervista in due puntate di Léon Degrelle, l’ultimo Volksführer nominato da Hitler che all’epoca fosse ancora vivo. L’intervista, realizzata
in Spagna, dove viveva l’ex capo di Rex, sarebbe dovuta
andare in onda in Francia nel 1978 su FR-3. Dopo la presentazione in Belgio e in Francia davanti a un pubblico di
giornalisti, critici, storici e specialisti, venne deprogrammata dalla rete con una misura di censura, dietro alla
quale pare ci fossero pressioni politiche del governo (che
allora vedeva il neogollista Raymond Barre come primo
ministro e il repubblicano Valéry Giscard d’Estaing come
presidente della repubblica). Dal maglio della censura si
salvò una copia del nastro, che arrivò sulle televisioni di
altri Paesi e che da anni è in circolazione in video e sul
web. Qui vogliamo offrire la traduzione del testo integrale dell’intervista, così come Jean-Michel Charlier la consegnò per “Leon Degrelle: persiste et signe”, il libro – edito
nel 1985 dalle edizioni Jean Pollec – che raccoglieva quella lunga e dettagliata conversazione.
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Intervista con Degrelle
In primo luogo, si trattava di famiglie profondamente cristiane. Non solo per la fede in sé, ma per la passione del
dono, il bisogno di sacrificarsi, il desiderio di afferrare le
anime e trasformarle.
Ciò che distingueva una famiglia di allora era il suo carattere spartano. Ci si formava duramente. Eravamo numerosi. In casa dei miei nonni c’erano stati nove figli da un
lato e tredici dall’altro. Vale a dire che, se tutti i miei zii e
le mie zie si fossero sposati, avrei avuto quaranta tra zii e
zie! Un autobus stracolmo!
Ma neppure noi eravamo stati da meno. Nella mia famiglia eravamo otto figli. Nove a casa di uno dei miei zii.
Dodici in quella di un altro. Io stesso ho avuto sei figli. Dai
Degrelle, la media, dal 1590, era di otto figli a famiglia. Io
ero il duecentonovantatreesimo Degrelle censito in linea
diretta!
Quando ho fatto la mia comparsa in questo mondo, nessuno da noi aveva denaro da buttare. C’era disciplina.
Molto presto bisognava sottomettersi a obblighi fisici
davvero severi. Ricordo ancora, avevo otto anni ed ero un
piccolo ragazzino da nulla: eppure ogni mattina, alle cinque e mezza, m’incamminavo attraverso la valle della Semois, in un’oscurità assoluta, spesso tra la neve alta, per
raggiungere il vecchio campanile della mia parrocchia.
Un chiarore, uno solo, lambiva il fondo di una stradina:
quella del forno del panettiere, a torso nudo, davanti alle
fiamme color arancio. Mi inerpicavo su in alto nella chiesa, grazie a una ripida scala, per andare a suonare le campane. Un bambino di otto anni, che se ne va così tutto
solo attraverso la notte, che si inerpica in questo modo
nel mistero di una torre, che non perde la testa, ha già
ricevuto un’impronta, una lezione.
I genitori che lasciavano fare questo – coloro che lo decidevano – avevano anche l’idea ben risoluta di formare i
loro figli a una vita in cui si era pronti ad affrontare i propri
rischi.
litica regionale, quella che esisteva a quell’epoca nel mio
piccolo pezzo di Ardenne. Mi ci sono voluti un certo numero di anni prima di liberarmi da questi stretti confini.
D. In quel momento, pur essendo così giovane, aveva già
manifestato ambizioni politiche?
R. Fin dall’infanzia mi fu molto chiaro che sarei tutt’altro
che un consigliere provinciale come mio nonno, o a un
deputato permanente come mio padre.
La prima volta che lui venne a farmi visita al collegio dei
Gesuiti a Namur, mi disse: “Ora hai quindici anni e inizi a
pensare al tuo avvenire: che cosa vuoi essere un giorno?”.
“Un giorno sarò Primo ministro” risposi.
Si attribuisce quest’intenzione ad altri uomini politici. La
mia fu autentica, e diretta. E del resto non fu che un’ambizione provvisoria. In seguito – e non mi hanno chiamato a caso Modesto I – ho voluto sempre di più! Tra noi, il
15 giugno, data della mia nascita, fu a lungo festeggiato
come la festa di san Modesto! Il poverino ha avuto il suo
bel daffare con il suo protetto di Bouillon!
D. C’era anche senso religioso tra i Degrelle?
R. Sì. Tutti i Degrelle sono sempre stati profondamente
cristiani. Siamo credenti fino al midollo. Da bambino ero
di famiglia con l’Eterno. È nel profondo del mio essere.
Più forte di tutto. Più forte della politica. Ciò che è materiale non l’avrei mai concepito, se non col supporto dello
spirituale. Questa dualità, in seguito, mi avrebbe portato
varie delusioni. Ma il vero Degrelle è questo, malgrado le
contraddizioni che in tutta la vita fanno mostra di sé. Chi
non è mai scivolato? E chi non ha mai sofferto? Io sono
pervaso dal Dio che vive in me. I miei sensi, il mio cervello, la mia carne vibrano in lui. Tutta la mia famiglia era
così. Lo è tutt’ora. Ancora oggi ho una serie notevole di
nipoti, sia maschi che femmine, negli ordini religiosi: in
Francia, in Belgio, in Africa, in Corea. Avevo tre zii e tre
prozii gesuiti. Il mio padrino era curato della parrocchia
di Rendeux-Bas, vicino a La Roche-en-Ardennes. La mia
sorella maggiore era suora di clausura del convento della
Visitazione a Metz. Questa passione per Dio che possedeva tutti noi in famiglia mi ha davvero coinvolto, conquistato fin dalla nascita.
Se avessi seguito la mia vera vocazione, quella che mi ardeva dentro fin dall’inizio, eh sì: non sarei stato che un
conquistatore di anime. Per anni ho desiderato questo
molto più, a dire il vero, delle conquiste politiche, per
quanto fossero forti i richiami temporali e le ambizioni
umane che ribollivano in me.
Quando sarà venuto il momento, le spiegherò perché ho
cambiato mira e mi sono rivolto verso un sbocco diverso.
D. Suo padre, credo, già apparteneva all’ambiente politico…
R. Sì, infatti sono stato formato alla politica sin da giovane.
Ma non alla grande politica, quella che ho poi tentato di
realizzare nel mio Paese, e poi in Europa, e per la cui unificazione ho tanto lottato. Mio padre era deputato permanente della mia provincia, il Lussemburgo belga. Mio
nonno materno era stato uno dei capi della Destra. Fin da
bambino, sono stato inserito nella vita pubblica, afferrato
da essa. Ma da lì a voler rendere grande un Paese, a trasformarlo da cima a fondo, ce ne passava. E soprattutto
a voler creare un’Europa Unita che avrebbe rinnovato il
corso del mondo! Era un lavoro di tutt’altra portata.
Senza pressioni di nessuno, sono stato posseduto molto
presto dalla passione per la politica, dapprima per la po23
D. Vorrei chiederle di evocare brevemente un ricordo della
sua infanzia, ossia la visita del maresciallo Pétain a Bouillon.
Ce la può raccontare?
D. Anche la passione per i viaggi è iniziata presto?
R. Bouillon è un piccolo paesino nascosto nell’incavo di
una vallata limitata a est da un monte che si chiama Il Punto del Giorno: è da lì che ci arrivava il sole. L’altro versante
della vallata, a sud-ovest, si chiamava Il Termine. Questi
due nomi mi intrigavano molto. Non ero mai stato al di
là del Punto del Giorno né del Termine. Per me, bambino,
erano le due estremità del mondo. Vi era forse qualche
altra cosa, oltre? Una domenica, dopo i Vespri, non ho più
potuto resistere e, da solo, ho iniziato a percorrere quella strada che si inerpicava lassù verso l’orizzonte. E così,
meravigliato, ho scoperto che c’era qualcosa al di là del
monte, che il monte non finiva al Termine e che questo
non era che una tappa. Ero là, quasi stordito, quando ricevetti un paio di straordinari schiaffoni:
mia sorella maggiore mi aveva trovato!
Ma io avevo scoperto l’universo.
R. Durante la mia prima infanzia, ho conosciuto tempi ancora più aspri di quelli che già si vivevano normalmente
nelle nostre case delle Ardenne: a otto anni, nel 1914, ho
conosciuto la Prima Guerra mondiale. Questo ha avuto
anche una notevole ripercussione sul mio sviluppo, perché in quegli anni abbiamo tutti imparato a odiare i Tedeschi. Non fu solo il mio caso, bensì quello di tutto il mio
popolo e di tutto l’Occidente. Fu una cosa spaventosa,
perché è questo odio cieco, irragionevole, quasi selvaggio, che ha poi precipitato, nel 1939, l’Europa in una seconda guerra mondiale.
Alla fine di quegli anni di notevoli privazioni, nel marzo del 1918, mi ero
buscato una polmonite doppia, visto
che in inverno vivevo al gelo nella
mia mansarda, poiché tutte la stanze
buone della nostra grande casa erano
state requisite da ufficiali tedeschi di
Guglielmo II. Mio padre, fervente patriota, aveva allestito ad Arlon, piccola
capitale della nostra provincia e snodo
di comunicazione molto importante,
un servizio di informazioni per l’esercito francese. In quanto personalità
politica, poteva recarsi in quella zona.
Aveva installato ad Arlon una rete di
operai ferrovieri che sorvegliavano le
linee verso il fronte. Ha potuto osservare, tra i primissimi, all’inizio del 1916,
che verso Verdun si stava eseguendo
un massiccio trasferimento di unità
militari, di artiglieria, di munizioni, di
rifornimenti.
Così poté intuire che si stava preparando un avvenimento decisivo. Era assolutamente certo di ciò. Iniziò dunque
a raccogliere ulteriori informazioni. Andava di frequente
in quella zona, raggiungeva Liegi, s’incontrava con agenti
francesi in chiese poco illuminate.
È per questo che, dopo la guerra, ha preso la Legione
d’onore, che gli venne annunciata a Bouillon, dopo l’armistizio, dal maresciallo Pétain, il povero Pétain che io
avrei poi conosciuto così bene negli ultimi anni della sua
vita pubblica!
Devo dirla tutta: mi sentivo molto orgoglioso! Appena
l’avevo visto scendere dalla sua auto all’entrata di Bouillon
per proseguire la strada a piedi, mi ero precipitato verso di
lui. La gloria non m’intimidiva, perché già, senza dubbio,
ne sentivo inconsciamente in me un furioso appetito!
D. E quando ha superato questo Termine
quasi mitico?
R. Ero ancora un ragazzino quando mi
sono spinto fuori dalle Ardenne: sono
partito per la Germania. Era il mio primo viaggio alla scoperta degli uomini,
perché in fondo i viaggi sono questo:
scoprire, comprendere, cogliere gli altri.
La mia piccola conca di Bouillon, con i
miei bravi abitanti delle Ardenne, era
un po’ limitata. E qui le dirò forse una
cosa sorprendente: non avevo nulla di
un Belga di quel secolo.
La mia famiglia paterna era originaria di
Solre-le-Château, vicino a Maubeuge,
dove duecentottantotto Degrelle sono
nati nei quattro secoli che hanno preceduto i miei fratelli
e me. Queste terre, annesse dalla Francia nel XVII secolo,
per secoli erano appartenute ai nostri antichi Paesi Bassi.
Dalla parte di mio padre, nato Francese come centinaia
di Degrelle prima di lui, io non ero originario del Belgio
attuale.
La famiglia di mia madre, invece, proveniva da un’antica
regione tedesca sottratta alla grande unità occidentale,
per l’esattezza il Grevenmacher, sulla Modella, di fronte
a Treviri.
Fin da quell’epoca, io, molto più uomo dell’Occidente che
cittadino di un piccolo Paese creato artificialmente nel
1830, tendevo verso orizzonti più vasti, verso un mondo
da scoprire, verso i milioni di uomini che lo abitavano.
Avevo preso a prestito una bicicletta. Avevo quattordici
anni. Era la mia prima avventura, e mi condusse a ovest
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Intervista con Degrelle
della Germania. Poco dopo feci altri viaggi, attraverso le
province renane, dalla Foresta Nera alla Ruhr. Nel contempo, mi spingevo anche in spedizioni attraverso la Francia,
presso parenti, lungo le sponde della Loira e nel Nord. Da
ragazzo avrò percorso diecimila chilometri. La mia grossa
bici pesava venti chili. Le gomme si bucavano quattro o
cinque volte al giorno! Ma io avevo bisogno di vedere altri
esseri umani, di vedere ciò che li rendeva simili o diversi.
Quando, vent’anni dopo, ho voluto con tutte le mie forze
creare l’Europa unita al fianco di Hitler ho corroborato la
sua giusta conclusione con quello slancio che sentivo in
me fin dall’infanzia.
c’erano neppure biblioteche popolari. Eppure Bouillon
era un’antica città dello spirito, che era stata luogo di rifugio e soprattutto un centro di edizione degli Enciclopedisti: nel XVIII secolo vi si stamparono le opere di Voltaire.
Per mesi ho divorato una vecchia edizione dell’Enciclopedia, scovata tra le cose ammassate nella nostra soffitta.
Dai miei, oltre a numerosi autori classici mal editati e
piuttosto indigesti, c’erano due o tre dozzine di volumi di
Giulio Verne, Robinson Crusoe e qualche libro sulla guerra
dei Boeri: ben poca cosa. Ne rileggevo uno o due ogni
settimana. E soprattutto c’erano i cinquanta grossi tomi
del rendiconto analitico delle sedute del Consiglio provinciale del Lussemburgo! Pensi che effetto questo può
fare nelle mani di un ragazzino di dodici anni! Eppure mi
sono sorbito anche quei cinquanta tomi, tanto ero divorato dalla passione di leggere libri!
Andavo a perlustrare le case amiche. Vi scovavo i libri più
diversi. Don Chisciotte, scovato in casa di un funzionario
delle imposte, mi trasportò, carico d’entusiasmo, per alcune settimane, sebbene non arrivassi a immaginarmi
così bene il mio eroe errare tra le pianure tra Le Havre e
Calais! Perché per me la Mancia erano Le Havre e Calais.
Poi sono incappato in Lamartine e Musset. E sul pesante
Paul Bourget. E su René Bazin. E persino su Zola. Su chiunque mi capitasse a tiro!
Ogni giorno, me ne andavo in giro per Bouillon per procurarmi altri giornali che non fossero gli stessi due quotidiani che leggeva mio padre.
Nello stesso periodo venni colto anche dalla passione per
il latino. E questo lo devo proprio ai miei genitori. Dio solo
sa quanto all’inizio lo studio di quella lingua mi disgustasse. Iniziate da pochi mesi le lezioni di letteratura grecolatina, mio padre iniziò a parlarmi a tavola in latino e io
dovevo rispondergli a tono. Talvolta era insopportabile.
Avrei avuto voglia di mandare al diavolo le declinazioni
assieme all’uovo alla coque che mia madre stava servendo. Poi mi ci abituai, mi adattai al sistema di conversazione. In famiglia, questa lingua non bastava più. Quando
i miei zii gesuiti venivano a stare da noi, mio padre con
loro parlava in greco.
Così mio padre mi ha introdotto molto presto, volente
o nolente, a quel potente fondamento che è la cultura
greco-latina.
D. E attraverso l’Europa ha pensato anche al mondo?
R. La mia sete, è vero, non si fermava all’Europa: volevo
conoscere anche gli uomini degli altri mondi. Per esempio, andare in America – cosa che pochissimi ragazzi della
mia età avevano fatto a quell’epoca. E allora, ecco! Colpito dalla persecuzione che stavano subendo i cattolici
messicani, avevo deciso di raggiungerli. Un bel mattino,
m’imbarco ad Amburgo, nel novembre 1929, nella stiva
di una nave cargo, il Rio Panuco. Eravamo sei giovani emigranti, accanto alle macchine, tra l’odore d’olio e il baccano dei pistoni. Prima ho visitato le Antille, in particolare
Cuba. Sono sbarcato in Messico, dove ho trascorso alcuni
mesi. In seguito sono stato in California e in Texas, ho attraversato gli Stati Uniti. In viaggio mi guadagnavo da vivere scrivendo dei reportage. Dopo Chicago e le cascate
del Niagara mi sono spostato in Canada. Poi sono andato
a New York. E infine sono ritornato in Québec. Qualche
anno dopo, sono andato in Africa. E sono stato anche in
Medio Oriente.
Ero ancora studente all’università di Louvain quando
sono tornato nel marzo del 1930 dal mio viaggio negli
Stati Uniti. Tutti i miei amici erano giunti alla stazione,
appollaiati sulle carrozze, per accogliermi. Per loro ero
una sorta di Cristoforo Colombo di Bouillon! Era questa
la piccineria della nostra condizione di piccoli Belgi, ma
anche di piccoli Francesi o piccoli Europei! Non avevamo
una concezione dell’universo. È molto probabile che se,
più tardi, mi sono issato rapidamente al livello dell’Europa e del mondo, è perché la mia natura mi aveva portato,
fin dall’inizio della giovinezza, verso questa conoscenza
diretta.
D. I suoi studi più profondi e seri li ha iniziati a Namur. E a
Namur lei ha anche scoperto molto presto una serie di maestri di pensiero; vorrei che ce ne parlasse un poco.
D. Lei ha anche avuto una vocazione letteraria che si è sviluppata altrettanto presto.
R. Quando me ne stavo scalpitante nella mia piccola vallata di Bouillon, il mio orizzonte era, come ho già detto,
limitato a storie di provincia: gli affari locali, le campagne
elettorali di mio padre: tutto sempre in un ambito ristretto.
R. Sì, è così: ho iniziato a scrivere molto presto. Ho anche
sempre letto, tantissimo. All’inizio, delle letture improbabili, perché in realtà dai miei non c’era una grande scelta
di libri. E a quei tempi, nei nostri paesini sperduti, non
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D. In lei come si è sviluppata questa idea?
Fu allora che andai dai gesuiti. Studiare in uno dei loro
collegi faceva parte delle tradizioni centenarie della razza dei Degrelle: da quando esiste la Compagnia di Gesù,
le abbiamo fornito un po’ di Gesuiti a ogni generazione.
E tutti abbiamo sempre compiuto i nostri studi da loro.
E benedico il Cielo per questo, poiché sulla terra non ci
sono formatori di uomini loro pari.
Arrivato là, mi ritrovai sbalestrato in un mondo totalmente diverso, a contatto con maestri di pensiero eccezionali.
La formazione intellettuale di un Gesuita è straordinaria;
egli segue dei corsi fino all’età di trentatré anni. Nella
Compagnia di Gesù ci sono sempre stati dei preti preparati a ogni missione: dei maestri che ti orientano verso le
arti, o che ti immergono nella filosofia, o che ti rivelano
l’incanto della Storia e della Politica.
È così che, senza indugio, sono stato iniziato alle dottrine
dell’Action française, l’apice della stampa di allora. E queste mi avrebbero segnato profondamente. C’era un professore che tutte le sere, nel cortile della ricreazione, mi
portava l’ultimo numero dell’Action française, magistralmente scritto, splendidamente pensato. Tuttavia, malgrado l’ammirazione che provavo per Maurras, che fu il più
grande pensatore politico del nostro secolo, e l’interesse
con cui leggevo le diatribe e i ritratti di Léon Daudet, violenti e comici – in fondo, il mio stile ne è stato influenzato – notai molto presto ciò che a tutti loro mancava: la
passione sociale.
Utilizzo spesso la parola “passione” perché per me non
c’è vita senza passione. Colui che non ha che un cervello,
strumento alquanto debole, inciamperà sempre sull’essenziale dell’essere umano: il cuore. La maggior parte
delle persone dispone di un cervello poco sviluppato, che
presto si atrofizza. Intellettualmente insignificanti, molti
fra questi possono però avere un cuore commovente.
L’immensa massa umana che nel XX secolo si aspettava
un po’ di giustizia, un po’ di fratellanza, un po’ di rispetto,
si trovava in uno stato di abbandono quasi assoluto. A livello sociale, si finiva nel vuoto delle élite borghesi in cui
tutti sgomitavano.
R. Ciò che mi feriva era l’ingiustizia. Percorrevo i quartieri
operai della valle della Mosa, del Borinage, di Bruxelles,
dei sobborghi fiamminghi. Guardavo quelle città malandate, i loro cieli segnati dai fumi verdi e gialli dei prodotti
chimici. Oggi si parla di inquinamento! Come se l’inquinamento non esistesse già a quell’epoca! Ma quando si
trattava della sola massa operaia, tutti se ne infischiavano
dell’inquinamento! Ci si è accorti che l’inquinamento è orrendo soltanto quando i suoi miasmi pestilenziali e il suo
sudiciume hanno disturbato il naso, il colore e il benessere del mondo borghese. È evidente che se a vent’anni non avessi avuto, piazzate alle mie spalle, le cappe di
piombo del conformismo borghese, fin dall’inizio sarei
stato molto più volentieri socialista piuttosto che un ragazzo, per così dire, di destra. Di fatto, non sono mai stato di destra. Una nazione è un tutto. Sinistra, destra sono
soltanto espedienti divisori.
Per me, la prima missione politica consiste nel rendere
felici le persone. È evidente come allora le persone fossero infelici e che il socialismo – vale a dire una politica
sociale attiva – fosse necessario. Bisognava, soprattutto,
far saltare la dittatura disumana dell’iper-capitalismo, che
trasformava le nazioni in feudi finanziari.
A partire da quell’epoca ho iniziato a farmi inviare dai
Gesuiti dei pacchi di opuscoli sociali. Questi invii scandalizzavano quei buoni padri. Tuttavia erano opuscoli
democratico-cristiani inodori, incolori e insipidi. C’erano
persino delle encicliche papali! Ma il Vaticano è sempre
arrivato troppo tardi. È stato assolutista ai tempi del Liberalismo e liberale al tempo del Socialismo! Ora la Chiesa,
dopo mezzo secolo di comunismo, si è messa a giocare
al Marxismo. Essa scopre imperturbabilmente la vita del
proprio tempo quando il tempo è ormai terminato.
Dunque due grandi obiettivi hanno appassionato la mia
gioventù: da un lato – alla Marras – la costruzione potente e ordinata dello Stato, basata sui princìpi di autorità,
di responsabilità, di competenza e di durata, che più tardi avrebbero costituito lo zoccolo politico del Rexismo;
dall’altro, la passione sociale, la voglia di portare agli uomini la giustizia, di essere tutt’uno con il popolo, in una
fratellanza costante, di considerare ogni lavoratore come
un compagno di vita, di costruire, in opposizione all’individualismo borghese e al totalitarismo marxista, una
società basata sulla comunità e sulla solidarietà tra tutte
le classi, in cui l’equilibrio sociale sarebbe diventato una
realtà, sia organica che naturale.
D. Non ne faceva parte anche lei?
R. Confuso all’inizio tra queste, ho perso vari anni. Sì, ho
perso degli anni. La mia formazione cattolica mi aveva
incatenato alla borghesia. Il mondo borghese era incollato ai suoi soldi, senza neppure comprendere che il suo
semplice interesse materiale era legato alla fioritura della
massa operaia. Quando l’operaio guadagna di più, allora spende di più. Mentre il borghese, quando guadagna
molto si mette a sedere sul suo guadagno e lo rende sterile.
Era indispensabile un’evoluzione radicale.
D. Quando ha iniziato a voler diffondere in pubblico queste
idee?
R. È evidente che sentissi il bisogno di comunicare
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Intervista con Degrelle
all’esterno le idee che mi attraversavano lo spirito. Ed è
per questo che ho scritto i miei primi libri.
Scrivevo già prima di andare al collegio dei Gesuiti.
Mi ricordo di aver scritto, nella mia piccola stanza di studente a Bouillon, il mio primo romanzo con lo stile di
Bazin, cantando la terra e vomitando contro la lebbra
dell’industrializzazione. Si intitolava Il vecchio ponte.
Avevo forse dodici o tredici anni. Di nascosto componevo
poesie, sia in francese che in vallone. Scrivevo racconti.
Li inviavo a una rivista che, se ricordo bene, si chiamava
Notre jeunesse (La nostra gioventù, ndt). La dirigeva il nonno di Jacques Ickx, il grande pilota di automobili. In quei
racconti, erano protagoniste le mie sorelle, ma io mi firmavo Noël d’Auclin: l’Auclin era la grande montagna che
dominava Bouillon e Noël è l’anagramma di Léon.
In famiglia nessuno sospettava nulla, fino al giorno in cui
le mie sorelle vi si sono riconosciute! Non avevo adulato
un granché i miei personaggi! Che gran baccano ne seguì!
Mi sono messo anche a scrivere, ma stavolta con la mia
firma, sul giornale della nostra provincia, che si chiamava
L’Avenir du Luxembourg.
Il mio primo articolo s’intitolava: “Guardando cadere le
foglie”. Era romantico, molto commovente. Era il 1921.
Avevo sedici anni.
bastanza sorprendenti. Il più importante arrivò da Emile
Vandervelde, il presidente dell’Internazionale e il grande
capo dei socialisti belgi. Avevo scritto nei Quaderni della
Gioventù cattolica un lungo articolo in cui spiegavo come
concepivo la conquista apostolica del mondo moderno.
A quell’epoca, la radio, d’importanza capitale ai miei occhi, non godeva per così dire di impatto spirituale. In La
libre Belgique (Il Belgio libero, ndt), il maggiore giornale
cattolico belga, le si dedicava soltanto una piccola rubrica dal titolo “Per gli amanti della radiofonia”. Era fatta da
una quindicina o una ventina di righe. Meno della cronaca per gli allevatori di colombi.
Anche il cinema non interessava che a un pubblico ristretto. Io avevo stabilito tutto un programma di conquista
del mondo moderno attraverso i mezzi moderni. Questa
ventina o trentina di pagine era apparsa su quella rivista.
Quell’estate, ad Arlon, si era svolto il ricevimento per il
principe Leopoldo e per la principessa Astrid, i futuri sovrani belgi, che avevano fatto il loro gioioso ingresso nella nostra provincia. Dato che mio padre, presidente della
deputazione, di tanto in tanto assolveva anche le funzioni di governatore del Lussemburgo, noi e tutte le persone
di Bouillon eravamo andati con un treno speciale a questi
festeggiamenti. Usciti dalla stazione, mentre avanzavamo tra la folla nella via principale che conduce al palazzo
del governatore, ecco che d’improvviso vedo per terra,
calpestato da tutti, un numero del giornale Le peuple
(Il popolo, ndt) dove, in prima pagina, era stampato un
titolo a sensazione (almeno per me!): “Il signor Legrelle
ha ragione!”. Stupore! Raccolgo velocemente il numero.
L’articolo era firmato Emile Vandervelde. Il vecchio capo
marxista non aveva riportato bene il mio cognome. Aveva scritto Legrelle al posto di Degrelle. Mi citava a lungo e
concludeva: “Basta solo cambiare la parola cattolico con
la parola socialista, per tutto il resto è ciò che bisogna dire
ed è ciò che bisogna fare”.
D. E i suoi primi libri?
R. Uno si chiamava pomposamente Sulle rive della Loira
scintillante. Vi esprimevo già molte idee politiche. La mia
brava mamma passò un intero inverno a ricopiare il mio
testo, ornando ogni pagina con miniature, capilettera,
arabeschi.
In seguito mi sono dedicato a un altro libro: Meditazione su Louis Boumal. Louis Boumal era un poeta di Liegi,
morto durante la Prima Guerra mondiale, un poeta incantato, abbastanza dimenticato oggi. Era stato professore
all’Athénée di Bouillon. Solidarietà di campanile! Dunque
gli ho consacrato un libro, un libro in cui Louis Boumal
è diventato un “Léon Degrelle clandestino”. Perché Louis
Boumal lo conoscevo ben poco, ma gli ho fatto dire tutto ciò che pensavo io. Questo libro esiste ancora. È stato
pubblicato tardivamente e ha conosciuto un certo numero di edizioni.
A quell’epoca, badi bene, mi limitavo esclusivamente
all’espressione del mio pensiero attraverso la penna. Io
che avrei fatto in seguito centinaia di riunioni, non mi ero
ancora arrischiato a improvvisare un discorso neppure
una volta.
D. Come le sembrava questo grande capo marxista, totalmente estraneo al suo mondo di allora?
R. Vandervelde era un uomo onestissimo, un socialista
dall’ammirevole rettitudine spirituale, come a quei tempi
ci furono, a sinistra, dei grandi intellettuali sereni e umani,
a loro modo degli apostoli. Inoltre era coraggioso. Contro
il suo interesse elettorale, aveva avuto la forza d’imporre
al Parlamento belga, malgrado l’opposizione scandalosa
dei deputati cattolici sottomessi al ricatto dei voti, la cosiddetta legge dei “due litri”. Strano nome. Questa legge
eliminava radicalmente la vendita di alcol nei caffè e ne
vietata l’acquisto nei negozio in quantità superiori ai due
litri. Essa andava a colpire a morte l’alcolismo popolare
che devastava il Belgio. Però questa stessa legge aveva
anche esasperato, come si può ben immaginare, gli osti,
D. Venivano notati i suoi scritti?
R. I primi segni d’interesse mi arrivarono in circostanze ab27
onnipotenti dispensatori, nei loro bistrò, della manna
elettorale. Con questa legge salvifica Vandervelde urtava
i loro interessi. Tra i cento o duecentomila voti accordati o
negati dai caffè e la salute del popolo, Vandervelde aveva scelto coraggiosamente la soluzione antielettorale: la
salute delle famiglie operaie. Egli è morto da tempo. Ma
per questo atto di coraggio, così raro nella lotta politica,
conservo per lui tutta la mia ammirazione.
Quindi, esser stato individuato da lui mi aveva dato grande soddisfazione.
Dal canto suo, Vandervelde mantenne sempre una
sorta di rimpianto per non
avermi trascinato con sé.
Di recente ho letto su un
libro queste parole del
vecchio capo: “È davvero
un peccato non aver avuto un Degrelle nel partito
socialista!”. È stato senza
dubbio un peccato anche
per me. Ed è certamente
perché i pregiudizi “cattolici” ci rendevano fanatici e
ciechi che io non sono andato a mettermi al servizio
di quel vecchio idealista
così semplicemente aperto verso la gioventù.
Quell’uomo, mentre io non ero altro che un ragazzo sconosciuto, giovanissimo, che scriveva su una rivista modesta che nessun politico di destra si sarebbe mai dato la
pena di sfogliare, mi aveva scoperto perché, intellettualmente curioso, teneva sempre lo spirito all’erta.
Poco dopo, mi individuò un secondo dirigente socialista,
anche lui grande papavero dell’“Internazionale” di cui era
stato il segretario generale durante la Prima Guerra mondiale: Kamiel Huysmans, che sarebbe poi diventato presidente della Camera dei Deputati belgi nel 1936 e infine,
dopo il 1945, Primo ministro socialista.
Dopo aver assistito un giorno a un dibattito in Parlamento, avevo scritto un articolo feroce su di lui. Quello spettacolo mi aveva stupefatto per mediocrità e volgarità.
Al ritorno, avevo disegnato su un giornale studentesco
uno schizzo del presidente di quel serraglio: Kamiel Huysmans. Era un ritratto al vetriolo. L’uomo era vivo, distinto,
ma aveva la parte sinistra della testa come quella di un
uccello da preda mal alimentato, abbellita da un pomo
di Adamo che saliva e scendeva di continuo sotto la cravatta. Al posto di urlare all’oltraggio, Kamiel Huysmans
mi aveva inviato una lettera piena di umorismo. Il mio
ritratto l’aveva molto divertito, mi scrisse. Alla vigilia di
ogni esame universitario, ricevevo da lui qualche parola
di incoraggiamento. Vede? La sinistra non era per forza
fanatica…
Infine, un altro grande uomo, e in tutt’altro campo, si fece
vivo con me: era il cardinale Mercier.
D. Ci può dire come?
R. In quel primo quarto del XX secolo, il cardinale Mercier era l’uomo di Chiesa più famoso dell’universo. Aveva
fronteggiato con grande coraggio civico l’invasore tedesco del 1914-1918.
Uno dei miei giovani
compagni di collegio era
di Malines, la sede arcivescovile. Si era ammalato
gravemente. Il cielo mi
ha dotato di una grande
faccia tosta: avevo scritto
una lettera al cardinale
Mercier, chiedendogli di
andare a far visita al mio
giovane compagno. Sicuramente il cardinale
Mercier doveva essere
ammutolito di fronte alla
mia lettera: ma il fatto
straordinario è che, nonostante fosse un principe
della Chiesa e avesse mille impegni, andò a salutare il
mio compagno. E mi scrisse una lettera affettuosa facendo cenno alle condizioni del mio amico.
Da allora rimanemmo molto legati. La sua morte, nel
1926, fu uno dei veri dolori della mia giovinezza.
Dunque eccoli qui i miei primi grandi contatti: da un lato,
il cardinale Mercier, il grande arcivescovo; dall’altro, il vecchio socialista Vandervelde quasi completamente sordo,
piegato su un apparecchio acustico gigantesco, simile a
un fonografo del 1910, ma che comprendeva tutto più
che bene! E, dopo di lui, Kamiel Huysmans, Mefisto brillante e sarcastico.
Queste sono le mie prime relazioni nel momento in cui,
come un aquilotto, decido di lanciarmi nel cielo offerto ai
miei vent’anni, aperto e magnifico.
Quella tripla scoperta non mi spaesò più del dovuto.
Piuttosto fortificò la mia audacia. I Gesuiti mi presero per
mano, e i miei primi scritti iniziarono a farmi conoscere.
Ed eccomi sbarcare, giovane studente provinciale, all’università di Louvain.
D. Prima di parlare della sua vita universitaria, vorrei che mi
parlasse della faccenda Maurras e del modo in cui lei l’ha
vissuta.
R. Ero ancora al collegio dei Gesuiti di Namur. Fui coinvol28
Intervista con Degrelle
to in una faccenda abbastanza straordinaria. Non solo fui
coinvolto, ma ne fui anche il protagonista principale. Si
tratta della condanna da parte del papa di Charles Maurras, il grande pensatore dei monarchici francesi.
Fu davvero una storia inverosimile.
Tutti noi eravamo molto impressionati da Maurras e dalla
sua scuola, l’Action française. Egli ha segnato profondamente la nostra epoca. Persino un De Gaulle fu intellettualmente e politicamente un suo discepolo. Il meglio
dell’azione gollista fu impregnato dalla dottrina del vecchio teorico dell’Ordine, scrittore coraggioso, sicuro di sé,
la barbetta sempre in battaglia, meravigliosamente sordo, cosa che lo liberava immediatamente dai chiacchieroni e dai noiosi.
In quel momento, i Quaderni della Gioventù cattolica stavano facendo un’inchiesta tra la gioventù del Belgio: “Qual
è il vostro Maestro?”. Per me era Maurras! E visto che lo era
per me, automaticamente doveva esserlo per tutti!
Per settimane ho condotto una campagna accanita, così
bene architettata quanto lo furono più tardi le mie campagne elettorali. Incalzavo tutti i giovani, ovunque li potessi trovare.
Personalmente, sono riuscito in tre mesi a raccogliere il
settanta per cento dei voti che vennero inviati ai Quaderni della Gioventù cattolica. Tutti, evidentemente, sceglievano Maurras! Così Maurras fu nominato maestro di pensiero della gioventù cattolica belga da una maggioranza
schiacciante, che era quasi esclusivamente il risultato della mia azione.
Ecco come io, piccolo ragazzo belga di un collegio di Gesuiti, avevo spinto alla rinfusa nella mischia il cardinal Andrieux, il papa, Maurras, che si presero tutti per il collo,
si ruppero freneticamente le penne e le mitre, e il papa
scocciato che colpisce lo stupefatto Maurras con un sacro
martellamento del suo pastorale.
Il grande scandalo dell’Action française, la grande baraonda politico-religiosa che per anni in seguito avrebbe
portato in Francia ribellioni e divieti ex cathedra, era uscito da una piccola cameretta del collegio dei Gesuiti di
Namur, città vallona, conosciuta prima di allora soltanto
attraverso l’Ode di Boileau a Luigi XIV.
[ Il secondo capitolo nel prossimo numero gennaio-febbraio 2012 ]
D. In cosa questo risultato fu, come ha detto lei, inverosimile?
R. Senta un po’. Appena fu nota questa votazione, ecco che
il giornale La libre Belgique, dove la faceva da padrone un
avvocato chiamato Passelecq – un musone la cui acidità
era in grado di perforare anche i metalli più resistenti –
consacra un articolo scandalizzato a questo referendum
pro-maurrasiano. Secondo colpo di scena: un prelato
francese molto importante, morto sotto ogni punto di
vista rispetto al vivere di oggi, e che rispondeva al nome
di monsignor Andrieux, arcivescovo di Bordeaux, si crede visitato dallo Spirito Santo e invia una lettera pubblica
di congratulazioni a quel Passelecq dal fetore asprigno.
L’Action française si getta nella mischia, s’indigna contro
l’intervento del cardinale avvoltolandolo nel fango con le
colorite e oltraggiose parole di Léon Daudet.
Gran baccano sulla stampa!
Fulmine a ciel sereno finale: il papa in persona rinvia
la palla, con la forza di un colpo di cannone, nella rete
dell’Action française, sotto forma di un messaggio di approvazione nei confronti del cardinale anti-maurrassiano,
seguito da un decreto di scomunica per i recalcitranti.
29
Intervista con Degrelle
secondo capitolo
Traduzione italiana a cura di Monica Mainardi
è mai riuscito a intimidirmi, ma quel Padre astioso arrivò
a farlo.
Mi aveva come ipnotizzato. Restai a bocca aperta e alla
fine fui bocciato! Brutta cosa! Ed ero pure il maggiore
di una famiglia con otto figli! Farmi ritirare al mio primo
anno di filosofia! Non avevo che da fare una cosa: ossia
tentare, coda tra le gambe, di rifarmi all’università di Louvain. Di fronte a un brutto colpo, a una sfida ho sempre
scelto di rispondere sul campo, e a maggior ragione davanti a uno smacco. È proprio quello il momento in cui
bisogna rialzarsi, scattare, muoversi, vincere.
Quel professore mi aveva fregato perché avevo fatto una
cosa che non corrispondeva alle sue convinzioni spirituali. E allora ho voluto e ho realizzato la mia vendetta. Per
otto mesi, mi sono alzato alle quattro e mezzo di mattina.
Ho fatto due anni di università in uno. I miei erano allibiti, perché non solo stavo rifacendo il mio primo anno
di filosofia e lettere, ma parallelamente mi ero messo a
seguire altri corsi che erano – pensi un po’ – di arte e di
archeologia.
Tutte le mattine, quando andavo a mangiare a mezzogiorno e mezzo al ristorante «Le Cornet», tempio di Louvain per le patatine fritte, mi ero già fatto otto ore del
mio programma di studio. Uno dei testi del nostro corso
di latino era un’intera arringa: la “Pro Sestio” di Cicerone!
Questa “Pro Sestio” la sapevo a memoria, la recitavo come
fossi io la persona che, cinquantasei anni prima di Cristo,
fosse stata incaricata di assumersi la difesa dell’accusato!
Ed è accaduto ciò che doveva capitare: a pochi giorni di
distanza l’uno dall’altro, mi sono conquistato due “promozioni con lode”. Mi precipitai in posta. Quel benedetto
Padre Lemaire, l’anti-maurassiano, mi aveva “graziosamente” trattato come uno che studia da pappagallo! Gli
inviai un telegramma: “Promozione con lode, il pappagallo Degrelle”. La mia freccia, conficcata nel suo orgoglio
lardoso, la sentì per lunghissimo tempo.
CAPITOLO SECONDO
Giornalismo e misticismo
Degrelle all’università di Louvain – All’assalto del pubblico universitario – Le funamboliche avventure dell’AvantGarde – Il puledro Degrelle salta gli ostacoli – Redattore
al quotidiano Le Vingtième Siècle – Il vero socialismo – Da
un santo, monsignor Picard – Degrelle e la miseria delle
catapecchie – Per una rivoluzione spirituale – I preti politici, imbonitori della Chiesa – Il popolo senza Fede – Dalla
Fede al Rexismo.
Domanda. Mi dica allora del suo arrivo all’università di
Louvain.
Risposta. Sono giunto a Louvain perché ero stato bocciato al primo anno di filosofia e lettere a Namur, a causa
della mia passione per Maurras.
Come professore a Namur, avevo un certo Padre Lemaire,
dalla pancia gonfia e molle, filosofo patentato, confuso
come tutte le persone che appartengono alla sua corporazione ma che, soprattutto, era un detrattore mordace, costante di Charles Maurras. S’immagini quindi che
affronto, che oltraggio fu per lui quel referendum pro
Maurras che io stavo promuovendo in maniera irriverente proprio mentre seguivo il suo corso, facendolo pressoché sotto il suo naso! Un naso grosso, che si gonfiava di
continuo appena mi vedeva arrivare con le mie schede di
voto pro Maurras. Facendole firmare dai miei compagni
di corso, siglai la mia condanna a morte!
E, infatti, quando giunse l’esame di fine anno, mi fece aprire a malapena la bocca. Ricordo che iniziò a fissarmi con
quei suoi occhi tondi, sporgenti, fuori dalle orbite come
fossero bulbi di tulipani. Il suo ventre tondo e a forma di
pera tradiva la sua collera a stento trattenuta, ed era scosso da una sorta di tremito interiore. Nessuno in vita mia
D. In tutto questo ancora non si vede alcuna azione pubblica. Quando iniziò?
R. È soltanto dopo questo che mi sono lanciato a fondo
nell’apostolato, prima di passare poi, per ragioni che le
chiarirò in seguito, alla politica e all’azione sociale. Ma
prima avevo voluto dimostrare a coloro che avevano creduto di potermi spezzare la schiena che la mia era una
schiena durissima, che non si spezzava e tantomeno si
22
Intervista con Degrelle
piegava.
Una volta fatto ciò, ho condotto una vita universitaria decisamente speciale. Di tanto in tanto, come fanno i gatti
nella stagione degli amori, scomparivo per qualche settimana. Me ne andavo all’Avana, o a Chicago, o a Montréal.
Ma in ogni caso continuavo sempre a seguire ogni anno
i corsi di due diverse facoltà: diritto, scienze sociali e politiche, arte e archeologia. E per un anno anche un corso
di filosofia tomista, un indirizzo dell’università di Louvain.
Ovviamente tra alti e bassi, ma sempre affamato di conoscenza, lo spirito avido di afferrare tutto ciò che poteva
essere un nutrimento intellettuale, un arricchimento.
Già allora sapevo che non avrei mai indossato quella sorta di travestimento che sono le toghe da avvocato o da
giudice. Quello che m’interessava era piuttosto raggiungere il massimo di conoscenza possibile.
Nel frattempo, iniziai ad andare all’assalto del pubblico,
del primo pubblico che potevo avere: quello degli altri
studenti.
Durante il mio primo anno, si può dire tranquillamente
che nessuno mi aveva mai visto: sgobbavo troppo. Ma
già al secondo anno giunse l’occasione giusta per balzar
fuori. La conquista della vita esige che non si esiti mai
quando appare il bersaglio giusto. Le persone che non si
comportano così sono quelle che esitano nel momento
in cui il destino arriva d’improvviso. Quando arriva il momento, paf! si salta sulla preda. E si vince, perché l’audace
ha il vantaggio di essere saltato per primo. E l’imprevedibilità di quell’apparizione fa sì che egli ne esca vincitore.
numero una gran quantità di acquirenti avrei quindi dovuto pubblicare sempre qualcosa di assolutamente sensazionale.
La gente si sarebbe gettata sul giornale solo se fosse stata
attratta da qualcosa di davvero impressionante. E in fondo questa è la sola vera legge della stampa. Un giornale
ha successo soltanto se suscita un vero interesse. Potete
investire milioni nei giornali: se la vostra pubblicazione è
illeggibile, nessuno la acquisterà, neppure se vi metterete a suonare la grancassa.
Invece, se il vostro giornale è appassionante, la gente lo
acquisterà, anche se è all’inizio diffidente e persino se vi
detestano.
Così era necessario che uscissi ogni settimana con qualcosa di straordinario sul mio Avant-Garde. Scrivevo il
giornale pressoché da solo, la sera, nella baraonda del
bar. Ordinavo quello che si chiamava uno “stivale”, ossia
un bicchiere che conteneva due litri di birra. Mi bevevo
allegramente i miei due litri di birra, scrivendo un ricco
numero del giornale. Ogni settimana – conditio sine qua
non della vendita del numero successivo – m’inventavo di
sana pianta uno scherzo che cercavo di rendere sempre
più interessante.
D. Che genere di scherzi?
R. Ne ho fatti di così divertenti e stravaganti che nel 1930
sono stati raccolti in un volume, apparso per le Edizioni
Rex, con il titolo Les grandes farces de Louvain (le grandi burle di Louvain), libro diventato pressoché ufficiale, visto che ne curò la prefazione il segretario generale
dell’università, il professor Léon van der Essen, uno storico di grande fama che sarebbe poi diventato, proprio
lui, quel mio prefatore, presidente della Commissione sui
crimini di guerra nel 1945. Una bella sfortuna per lui allora, e quell’uomo eccellente, un amico della vita, si sarebbe trovato davanti al dilemma: dare le dimissioni o farmi
fucilare!
Lo scherzo che batté tutti i record fu il mio “caso Dumas”.
Il nome di un simile autore poteva attirare di primo acchito il pubblico, perché Dumas è conosciuto in tutto il
mondo. Persino negli Stati Uniti, nel Canada e in Giappone si sa chi sia Alessandro Dumas. Quindi, che un Dumas
si mettesse a collaborare con il mio Avant-Garde non poteva che suscitare una grandissima attenzione nel pubblico. Dunque, avevo messo coraggiosamente come firma “Alessandro Dumas, nipote” al romanzo a puntate che
pubblicavo ogni settimana. S’intitolava, macabramente,
La barba insanguinata. Sfortunatamente, lo scrivevo sempre alla fine del mio “stivale” di birra, cosa che rendeva il
romanzo quasi incomprensibile. Al capitolo in cui ero così
allegramente arrivato, i personaggi principali di questo
D. Lei su che cosa è saltato?
R. Fino ad allora a Louvain era esistito un settimanale studentesco che si intitolava L’Avant-Garde. Ma quel giornale era scomparso. Nel corso dell’anno precedente, i suoi
giovani redattori avevano pubblicato sette numeri in tutto. Per farla breve, gli abbonati erano stati danneggiati, e
non solo: non era neppure stato pagato lo stampatore.
Quindi, il giornale non era più uscito. Un mese dopo il ritorno all’università, del giornale non c’era notizia.
“Tutti si tirano indietro per la fifa, mi dissi; allora ci tenterò
io”.
E così ho rilanciato quel foglio che tutti credevano ormai
morto.
Per me fu una grande scuola di giornalismo. Mentre soppesavo ogni mio articolo, seduto a un tavolino del bar,
continuavo a ripetermi: “Nessuno si abbonerà più!”. Tutti
coloro che avevano versato in anticipo il loro abbonamento l’anno precedente, per poi ricevere solo sette numeri, non avrebbero certo avuto voglia di farsi abbindolare per una seconda volta! Finanziariamente, non avevo
alcun margine di manovra possibile! Per ottenere a ogni
23
romanzo di Alessandro Dumas nipote se ne andavano a
zonzo tra le fogne della città di Louvain: vi avevano scoperto il cranio di Dario all’età di dodici anni, e poi il cranio
di questo stesso Dario all’età di 57 anni. Era abbastanza
sconcertante.
Tutte le scartoffie giudiziarie erano talmente precise che
quel processo, assolutamente così incredibile, si tenne
davvero; e, nel giorno e all’ora fissati, tremila studenti,
facendo un incredibile baccano, attraversarono la città e
invasero in massa il tribunale.
Nel frattempo, avevo richiamato l’attenzione della stampa di tutto il Paese, scrivendo ai direttori dei vari giornali
con tono dimesso: “Ma che cosa accade mai! Adesso non
si accetta neppure più l’umorismo di uno studente? Perché mai si stanno immischiando in questa vicenda i vari
Torrès e gli altri agitatori stranieri? Sono grotteschi!”. Stimolata dalla vicenda, tutta la stampa si precipitò a Louvain, come accade quando avviene un grande incidente
ferroviario o un chiacchierato divorzio di attrice.
“Ma è vero? Non sarà un altro scherzo?”, si chiedevano i
giornalisti!
D. La storia stava diventando senza via di uscita?
R. Per provocare un ritorno d’interesse per quel romanzo strampalato, m’immaginai una protesta della famiglia
Dumas.
Quest’ultima, mi ero detto, non poteva essere scomparsa nel nulla dopo la sepoltura del suo prolifico fondatore. Partendo da questa supposizione, m’inviai una bella
lettera di protesta degli eredi. In questa lettera, a giusto
titolo indignata, direi quasi vendicativa, i Dumas si scagliavano contro la patetica letteratura che io avevo addossato a quell’Alessandro Dumas nipote, che era, come
essi affermavano, assolutamente inesistente.
Bene, in quel modo mi ero fatto una lettera che faceva
davvero sensazione.
D. Ma non stava rischiando di incorrere in una condanna
per oltraggio alla corte?
R. “Verrai sicuramente condannato per oltraggio alla corte”, mi aveva detto il mio buon maestro, monsignor Picard,
che avevo messo brevemente al corrente di quell’inganno, prima di andarmi a sedere sul banco degli imputati.
Certo, lo rischiavo, ma il processo si stava facendo! Ben
tre giudici! Nientemeno! Con i tocchi da magistrato calzati sulle loro calvizie, ben stretti sulle loro teste! Per tre ore
si susseguirono dibattiti accaniti, omerici. Io difendevo la
libertà di stampa, il diritto all’ironia studentesca, con la
stessa energia che un ciclista al Tour de France, in piedi
sui pedali, impiega per scalare il Tourmalet.
Al termine del dibattimento, visto che il caso era complicato, i giudici dichiararono che la sentenza sarebbe stata
emessa dopo otto giorni. Noi uscimmo dall’aula del tribunale tra un fantastico baccano, circondati da tutta la
stampa.
Feci pubblicare un po’ dappertutto i resoconti del dibattimento. Ma i magistrati? Che condanna mi sarebbe giunta
mai dall’ira cremisi di quei vecchi pontefici di giustizia,
coinvolti solennemente in una simile farsa?
E invece no. Incassarono perfettamente l’oltraggio. Qualche ora dopo, avevo pubblicato un numero speciale
dell’Avant-Garde, che venne comprato da migliaia di curiosi, in cui spiegavo, tra le altre cose, ai degni arbitri del
Diritto e della Legge, che lo Stato belga non era stato per
niente maltrattato, anzi, aveva fatto un gran bell’affare,
visto che aveva beneficiato della spesa, generosamente
sostenuta da noi studenti, di 2,45 franchi in timbri fiscali!
I giudici, non potendo fare altra cosa, decisero di schierarsi dalla parte della risata, come stavano facendo ormai tutti! E qualche tempo dopo fui persino sul punto di
diventare il loro “superiore”, visto che, esattamente dieci
D. E poi?
R. All’Avant-Garde c’eravamo già inventati tante di quelle
cose che ormai mi dicevo: questa volta le persone non ci
cascheranno più! Diranno che la lettera degli eredi Dumas è una fandonia!
Così, mi sono immaginato un processo in piena regola,
fatto partire per l’appunto dalla famiglia Dumas. Per la
circostanza, mi sono inventato due rami di discendenti:
uno viveva a Parigi, a rue Carprentas, l’altro nell’Anjou. E
perché no?, mi dicevo.
Uno degli avvocati più in vista del tribunale parigino
dell’epoca era il senatore di sinistra Henry Torrès. Architettai il tutto come se questo grande avvocato avesse fatto partire da Parigi tutto quel procedimento giudiziario.
Feci stampare una falsa carta da lettere intestata Torrès.
Con una lettera firmata di suo pugno – o meglio, ero io
che l’avevo firmata – quel principe del foro parigino incaricava un avvocato belga di rappresentarlo nel processo.
Quest’avvocato era un deputato democratico-cristiano
fondamentalmente imbecille. Fu entusiasta del fatto che
una simile pubblicità fosse stata offerta alla sua vanità.
In seguito feci affidare a un ufficiale giudiziario di Louvain, sempre con richiesta “ufficiale” di Torrès, il compito
di recapitarci le citazioni in giudizio. L’onesto scribacchino venne scrupolosamente a recapitarle al mio piccolo
appartamento. Tutti i miei amici si erano nascosti sotto il
letto per non perdersi neppure un attimo di quel divertimento.
24
Intervista con Degrelle
anni più tardi, mi si propose di assumere l’incarico di ministro della Giustizia!
Nel frattempo, grazie ad Alessandro Dumas nipote, alla
sua pseudo-famiglia, grazie al Torrès fantasma e a quei
tre giudici che erano molto più reali, il mio giornale studentesco era stato definitivamente lanciato; la tiratura
aveva raggiunto le diecimila copie; stampavamo il nostro
foglio a Bruxelles, come i grandi giornali, sulla rotativa di
un quotidiano.
Alla fine dell’anno universitario, avevamo avuto così tante
entrate che potemmo rimborsare tutti gli abbonamenti
agli audaci sottoscrittori e ci offrimmo un banchetto incredibile, che durò cinquantuno ore, non una di meno.
E lanciai un libro dal titolo significativo: La belle vie à Louvain (la bella vita a Louvain). E la vita, per noi, allora, era
veramente bella!
“Carta bianca!”, fu la sua risposta.
Presi la palla al balzo, e mi guadagnai la possibilità di
esporre le mie concezioni sociali a un vasto pubblico.
D. Come ha iniziato?
R. Avevo già osservato la miseria in cui vivevano le famiglie dei lavoratori nei quartieri operai, e in particolare nei
quartieri di Liegi, quindi decisi di prolungare quell’esame sul campo per qualche mese, per poi metterlo sul
Vingtième Siècle. Non mi feci sfuggire nessuna periferia
proletaria di Bruxelles, di Liegi, di Mons, di Charleroi, di
Gand. Quando fui pronto, lanciai dal Vingtième Siècle un
reportage sulle catapecchie: era come gettare un sasso
duro come il quarzo al centro di quello stagno immobile,
composto dai politici privi di interesse per le tematiche
sociali.
Il primo giorno, il direttore del Vingtième Siècle aveva
messo la prima parte del mio articolo – abbastanza inquietato dal tono violento – in un angolo in basso della
prima pagina, le parti essenziali sbalestrate in un luogo più lontano, nella confusione delle pagine interne. Il
giorno dopo, il mio reportage aveva già conquistato due
colonne in prima pagina. E così fino alla fine della serie.
Delle foto tremende rafforzavano la veridicità delle mie
affermazioni.
L’impatto fu notevole. I miei testi, raccolti in un volume
nel 1930, ottennero la prefazione del ministro del Lavoro
in persona, un tale Heyman, un brav’uomo in bombetta, che però aveva tanta incisività quanto un passerotto
senza ali.
In effetti, noi, i futuri Rexisti, eravamo molto più vicini ai
temi sociali di quei mammalucchi del Partito Socialista,
imborghesiti, burocratizzati da tempo, che non sentivano
più la pancia del popolo, quasi tutti corrotti e che avevano ormai perso la fede nella propria causa.
E più ancora di loro, noi schifavamo i cosiddetti cristiani
democratici, baciapile, bigotti, pieni d’ipocrisia, sempre
pronti a mollare, a tradire e ad appiattirsi davanti ai capi
marxisti, per far sì che questi tollerassero, più o meno, la
loro pavida e muta presenza all’interno del campo della
sinistra!
Caporioni del mondo dirigente operaio e crumiri blateratori della Democrazia cristiana non erano altro che la
caricatura di quel socialismo purificatore e sano che il popolo aveva sognato.
Noi saremmo ben presto diventati, noi, giovani rivoluzionari dell’Europa che stava nascendo, gli alfieri del vero
socialismo, riconciliando l’indispensabile ordine tra Stato e giustizia sociale, nella perfetta collaborazione tra le
classi che erano state invece messe l’una contro l’altra
in maniera artificiale e criminale dal marxismo e anche
D. L’Avant-Garde segnò l’inizio della sua azione politica?
R. L’Avant-Garde fu una scuola in cui sono stato l’allievo e
nel contempo l’insegnante. A furia di essere vivace, diretto, pieno d’immaginazione, avevo ormai imparato come
si può assicurare il successo a un giornale, e anche come
si possono guadagnare dei soldi con la stampa, invece di
perderli.
Ho pubblicizzato le edizioni dei miei primi libri grazie al
supporto gratuito di questo settimanale, che assicurava
loro una diffusione di un certo peso. E diffusione implica
ripercussioni.
Da quel momento hanno iniziato a giungermi vari inviti
dall’esterno. Quando ho pubblicato il mio piccolo libro
Jeunes plumes et vieilles barbes (giovani scrittori e barbe
antiche), sono stato invitato al Vingtième Siècle, che era,
prima del 1940, il secondo giornale cattolico del Belgio.
Là regnava un gigante bonario, l’abate Wallez. Si aveva a
che fare anche con le sete violette di un prelato dal naso
avvampato dai vini di Borgogna, che era un grande giornalista e si chiamava monsignor Schrygens.
Lui aveva letto il mio libro e gli aveva dedicato una critica letteraria: “Promette bene – scriveva – questo giovane
puledro di strada, che scalpita, che vuol saltare gli ostacoli”. Il suddetto puledro li aveva interessati.
Mi avevano dunque invitato a Bruxelles. L’abate Wallez, il
direttore, mi disse: “Lei è ancora uno studente, per questo non la faremo venire qui in redazione da noi e non le
faremo perdere il contatto con la vita studentesca. Continui pure i suoi studi come più le aggrada. Nel frattempo,
però, le offriamo un posto da redattore, ma lei potrà scrivere per il Vingtième direttamente da Louvain”.
Una soluzione perfetta, che mi assicurava, a soli vent’anni, una tribuna di primo piano.
“Di che cosa potrò scrivere?”.
25
dall’ipercapitalismo.
colla come pece alla loro pelle.
Non è che non si debba lottare con tutte le proprie forze
per riportare la giustizia sociale al popolo, che gli è stata
tolta da tempo. Ma che non sia soltanto in nome di una
bistecca!
Quando avevo vent’anni, era già tutto evidente: molti
operai vivevano estraniati da qualsiasi vita spirituale. Vivevano al di fuori della religione, perché la religione era
collegata a ogni tipo e forma di dominazione capitalista.
Ed era davvero così. La Chiesa che c’era prima del 1940
era troppo spesso la Chiesa dei ricchi. Inoltre, in numerosi
Paesi, Belgio in testa, un partito cattolico, generalmente
poco allettante, si faceva coinvolgere in sordidi scandali
finanziari, sotto la copertura di ostensori e di pianete.
Nessun laico, nessun cristiano spezzava queste catene
d’ignominia. In qualsiasi luogo del Belgio in cui si andasse
a cercare degli operai, questi dicevano: “E il vostro partito
cattolico? È quella la religione?”.
Questo conflitto mi tormentava. La religione doveva tornare pura, liberarsi dai suoi compromessi, ritornare alla
sua missione strettamente divina. Spettava ai laici cristiani rimboccarsi le maniche per occuparsi di ciò che è temporale. La Chiesa non doveva a nessun costo infangare la
sua azione spirituale nelle lotte sordide dei partiti e delle
associazioni sindacali.
L’opposizione delle masse operaie a una Chiesa che svalutava la sua vocazione spirituale, e che si rinnegava a
furia di travestirsi sotto orpelli demagogici, mi faceva
soffrire talmente tanto che da allora, per quanto giovane
fossi, ho iniziato un’azione apostolica diretta, viva, presso
le masse popolari.
D. A che cosa mirava, al momento di questa sua prima
“azione di sfondamento”?
R. Le mie imprese nella stampa, come si è già visto, si
erano evolute più che bene. Avevo a disposizione un
settimanale, l’Avant-Garde. Utilizzavo ampiamente i Cahiers de la Jeunesse catholique belge (quaderni della gioventù cattolica belga). Il Vingtième Siècle mi aveva offerto
un’ampia tribuna. Fu allora che monsignor Picard, il capo
dell’Azione cattolica, mi offrì di trasferirmi da lui, a Louvain, per “vivacizzare” le sue pubblicazioni.
Da allora, pur continuando a studiare, vissi a casa sua.
Monsignor Picard, che è morto nel 1945, è stato il prete più straordinario che io abbia mai conosciuto. Era un
santo. E, per me, l’essenziale della vita di un prete era essere, per l’appunto, portatore di santità. Egli deve essere
esclusivamente un araldo di vita spirituale. Sulla terra ci
sono già abbastanza laici cristiani perché pure i sacerdoti
debbano schierarsi negli affari temporali. Un prete che è
scombussolato di continuo da problemi di natura politica, di sindacalismo, di aborto, di pederastia e da cento
altre storie simili, per me non è altro che un imbonitore di
chiesa, non certo un prete.
Un prete? È fatto per condurre l’umanità in cielo, non per
ospitare cento villosi scioperanti che urlano sotto il pulpito dal quale predica.
Monsignor Picard, invece, era il perfetto santo. Gli servivo
messa ogni mattina alle sei, perché spesso, la notte, facevamo tardi insieme lavorando, oppure tornavamo sfiniti,
in terza classe, da una conferenza da una parte o dall’altra del Paese. Ma a quelle conferenze ci ascoltava sempre
lo stesso pubblico di borghesi e classe media, educato,
benpensante, bigotto. Io mi tormentavo: va bene questa
brava gente, ma dov’è il popolo? Come si fa a raggiungerlo? Come – mi ripetevo ogni giorno – come riportare gli
uomini a una grande fede, elementare ed essenziale, che
parta dalle radici più profonde dell’essere? Come fare per
buttar giù quelle tremende barriere che sono state issate
tra il popolo e la Fede?
D. Per lei chi era Dio? E che cosa ne pensava del clero?
R. Gliene ho già accennato in parte, parlandole della mia
fede durante l’infanzia. Per me, Dio è tutto. Le Chiese, i
vari cleri, non sono altro che anelli di trasmissione. Non
sono l’essenziale, ma l’essenziale aiutano a raggiungerlo.
Ciò che conta è giungere al cuore dell’uomo, teso naturalmente verso ciò che è spirituale. Che sia per mezzo di
una religione o di un’altra. Fossi stato russo, avrei amato
Dio secondo il rito ortodosso. Fossi stato arabo, per raggiungerlo avrei seguito la via dell’Islam. E l’Induismo, se
fossi vissuto a Calcutta. L’importante è Dio. È l’amore di
Dio. È l’amore degli uomini attraverso Dio. Il resto, vescovi, popi, mullah, bonzi, non sono altro che gradini, spesso
traballanti, indispensabili a un popolo che non può non
avere delle basi da cui partire né delle guide.
Se un uomo si dona a Dio con tutta la forza del suo cuore,
le svolte e i meandri che si scoprono attraverso l’intrico
dei vari riti non sono altro che ulteriori contributi.
Da bambino, quando al catechismo mi avevano detto
D. Che mezzi ha utilizzato?
R. È un problema che si pone ancora di più oggi, e la cui
soluzione mi pare ancora più incerta, rispetto ai tempi
della semplice irreligiosità; ora che un clero traumatizzato gioca, per riconquistare le masse operaie, a una demagogia che si dice emancipatrice e che invece non fa altro
che soffocare e asfissiare ancora di più le folle sguazzanti
nel costoso immondezzaio di un materialismo che s’in26
Intervista con Degrelle
che il cattolicesimo era l’unica via ammissibile verso Dio,
ero rimasto meravigliato. Questo monopolio di salvezza
cristiana mi era parso abusivo. Perché un bambino nato
sulle rive del Gange, o dello Yang Tse Kiang, o del fiume
Congo, doveva essere spiritualmente perso? Il cielo gli
era vietato? Solo perché il curato di Bouillon non aveva
esercitato il suo ministero nei deserti polverosi o nelle savane tropicali?
Questa scomunica dei quattro quinti dell’umanità mi
aveva scioccato. Dio è il Dio di tutti gli uomini, del negretto della foresta equatoriale, dell’indiano che contempla la
sua mucca, dell’abitante della Nuova Caledonia tra le sue
mangrovie. Secondo il catechismo che ci insegnavano, si
sarebbero dovute negare prospettive celesti a tutti coloro che non erano strettamente cattolici, e questo in virtù
di interpretazioni dottrinarie che quei popoli lontani non
avevano avuto né l’occasione né la possibilità di analizzare, di raffrontare.
E questo valeva persino per i bambini! Se morivano senza aver ricevuto sulle loro testoline pelate qualche goccia di acqua battesimale, dovevano andarsene per forza
al limbo? Lontani dalla presenza di quel Dio che li aveva
creati, esattamente come aveva fatto con noi, che invece
eravamo stati unti in tempo dal curato della nostra parrocchia?
e potenza, e che il caso, se talvolta ho potuto creare felici
combinazioni, non ha certo potuto creare questa fantastica armonia, dove persino la più piccola zanzara è un
capolavoro.
Ma Dio non è solo potenza, Egli è anche, e soprattutto,
Amore. Lì è il grande mistero, nei cuori. Noi vogliamo
amare, vogliamo essere amati. Tutto il nostro essere è
teso, anche sul piano umano, verso colui che riceverà la
parte più profonda di noi. Il vero dramma è non vedere
dove c’è l’Amore, è errare tra le ombre, è non aver ricevuto quella meravigliosa illuminazione. Dio è questa illuminazione, che ci attraversa e ci scuote in tutto il nostro
intimo, che ci riempie e ci conquista.
Al non credente questa compenetrazione appare come
isteria e stupidaggine, perché non la comprende. È come
l’uomo che nell’oscurità non ha trovato l’interruttore elettrico che gli darà la luce.
Molti, nel profondo del loro essere, vorrebbero credere
che questa luce esiste davvero, che Dio esiste, un Dio di
cui non hanno sentito la chiamata, forse talvolta perché
non gli hanno chiesto semplicemente: se esisti, o Dio, illuminami!
Quest’appello l’hanno lanciato in molti, da san Paolo a
Pascal, da Pasteur a Léon Bloy. E hanno ricevuto risposta. Molti altri non hanno chiesto nulla, e sono restati, le
braccia a ciondoloni, al di fuori del sacro, sulla soglia della
vera vita.
È quest’amore di Dio, questo mistero di Dio, questa grazia
di Dio, il suo richiamo compassionevole agli uomini che
guidavano la mia azione. Questa fede io la possedevo,
il mio cuore era tutto un ardore, grazie alla gioia che mi
dava. E io volevo donare anche agli altri quella mia felicità.
D. Ma tutto questo non le impediva di fare ardentemente
propaganda per quella Chiesa…
R. Non è esattamente così. Le folle io le volevo condurre
a Dio, non a un marchingegno religioso di cui conoscevo
bene, e da vicino, le imperfezioni e le necessità.
Avevo sotto gli occhi lo spettacolo del cardinale di Malines, per il quale un non credente era un mostro. Per me,
un non credente era un fratello. L’apostolato, così come
lo concepivo io, era all’opposto di quella mentalità da Inquisizione. Non si trattava di innalzare delle barriere tra i
credenti e coloro che non hanno ricevuto l’illuminazione
divina, o per i quali la chiamata di Dio è un fantasma o,
meglio, un non senso.
Per un credente, un non credente non può essere un reprobo. La grazia è un dono. Si può non riceverla. Certo,
molti uomini che non hanno ricevuto la sua luce avrebbero potuto avere l’umiltà di chiederla. Dio è alla portata
di tutti.
Egli è l’Onnipotente. Tutta la natura grida la sua esistenza:
le migliaia di specie viventi, l’uccello che canta, solitario,
le farfalle dagli splendidi colori, il corpo dell’uomo, la meraviglia dell’occhio che afferra l’universo, la complessità
del cervello con i suoi milioni d’intrecci cognitivi, la prodigiosa organizzazione dei cieli coperti di stelle, il respiro
rigeneratore dei mari, tutti ci dice che il mondo è ordine
D. Come si accordava con l’esistenza di altre religioni?
R. Questo è un altro problema. Un essere superiore potrebbe giungere da solo, forse, alla compenetrazione spirituale e anche mistica.
Ma la massa ha bisogno di essere condotta, orientata, inquadrata. Per questo motivo il Cristo ha portato, al prezzo
della sua tremenda agonia, il cristianesimo all’umanità.
Questo però non ha impedito alla Chiesa, che è in mano
a uomini, di essere spesso fallace. Più di una volta, il Papato è stato una taverna di briganti, con scandali incredibili. Ma, nell’insieme, la grande istituzione della Chiesa
cattolica ha permesso a milioni di esseri umani, incapaci di raggiungere Dio da soli, di avere una vita spirituale
davvero emancipatrice.
Anche le altre religioni hanno avuto i loro guai. La Chiesa
ortodossa ha avuto i suoi eccessi, l’Islam le sue dispute
feroci. Lo stesso Lutero, il denunciatore degli scandali di
27
Roma, rapì una ragazza, che per giunta era pure una religiosa. Il lato umano incombe sul prete esattamente come
su ciascuno di noi. Fa colare la sua patina collosa sul divino. Ma il motore delle religioni, anche se c’è qualcuno che
ha sbagliato, è necessario per poter arrivare alla fine della
via spirituale; grazie a lui si elevano verso le vette milioni
di esseri umani che altrimenti sarebbero restati nelle fosse, fin dai primi metri.
Questa Chiesa terrena, inoltre, può correggere i suoi errori, rettificare i suoi passi falsi, dominare le sue debolezze,
essere sempre più degna della sua missione. Numerosissimi preti sono delle guide degne di ammirazione. I conventi sono grandi laghi umani in cui il cielo si riflette, e da
dove si irradiano le onde luminose e piene di nutrimento
spirituale della preghiera e della carità. Nel corso di venti secoli di espansione, il cristianesimo ha avuto migliaia
di santi e di mistici, proiettati, corpo e anima, nel dono
spirituale. Ce ne sono stati in ogni epoca. Loro sapevano
tutto. E infine, grazie a loro, e grazie a Dio che sostiene i
più deboli, duemila anni di clero cattolico sono serviti a
realizzare un’organizzazione efficace per i credenti e sono
diventati un centro di ripetuti appelli spirituali per i non
credenti.
A ogni modo, i rappresentanti delle Chiese non sono altro che strumenti di Dio, ognuno sorveglia la propria coscienza, pastori imperfetti che conducono, con un certo
ordine e un po’ di coesione, delle greggi che non arriverebbero da nessuna parte, se restassero sparpagliate.
te zone ombrose, bisogna avanzare in punta di piedi, sapere che si potrebbe avere a che fare con una coscienza
molto più elevata della propria. Che grande gioia, poi, se
si riesce, attraverso la propria convinzione, a far passare
questa gioia anche nel cuore degli altri!
Questo era, a ventun anni, il mio stato d’animo a proposito di Dio, a proposito della Chiesa, a proposito dell’uomofratello, credente o non credente che sia.
Lei ha voluto che mi lasciassi andare in questa introspezione. Risponderle era delicato. L’ho fatto. Il cuore di colui
che sogna di essere un conquistatore di anime vale veramente soltanto se sa aprirsi. Lei ha appena visto il mio,
messo a nudo come su un tavolo operatorio.
D. È vero, è raro che un uomo parli di Dio con la sincerità
che lei ha mostrato ora. Ma questa sua fede come si è tradotta nelle sue azioni?
R. Che un giovane ragazzo osasse fare il predicatore non
era proprio senza rischi. Mi ricordo i miei primi tentativi.
Ero andato a parlare della Settimana Santa a Seraing, un
grande centro industriale della periferia di Liegi, che già
allora era uno dei più potenti bastioni del comunismo. Un
prete non avrebbe potuto facilmente andare a parlare di
Cristo laggiù, in pubblico, davanti alle masse operaie. Io
organizzai una settimana della Passione. Per sei giorni di
seguito, ho spiegato, in piazza, il sacrificio del Cristo sulla
Croce. Ebbene! La folla, che all’inizio era beffarda e tuttavia sempre più numerosa, mi aveva ascoltato. Avevo persino fatto piangere, sì, piangere quel pubblico che si era
come paralizzato. Quella era la prova che tutto era possibile, che la sensibilità religiosa del popolo esisteva ancora, ed esisteva pure il suo bisogno di superare le nebbie e
le ombre dell’incertezza…
Da allora, lo ripeto sempre anche a tutti i giovani di oggi:
tutto è sempre possibile. Non ci sono ostacoli per colui
che ha fede, che arde grazie ad essa, e che farà ardere
anche gli altri grazie ad essa.
A quell’epoca, vedendo quel tipo di ribellione perfettamente normale nel popolo, mi ero detto che era necessario liberare quello stesso popolo dall’egoismo e dal materialismo, non certo ostinandosi a promettere più di Marx,
di Engels e di Lenin, ma cercando di ridipingere a nuovo
ogni cuore trascurato, logorato, sporcato, cercando di ricomporre una vera comunità umana, giusta, fraterna, e di
rianimare in essa le più alte vibrazioni dell’anima.
È così che stavo arrivando a creare il Rexismo.
D. E i non credenti?
R. Bisogna finirla con la messa all’indice dei non credenti.
Milioni di uomini, di donne, che non hanno incontrato Dio
conducono vite degne di ammirazione, spesso più meritorie di quelle di noi credenti, perché la loro esistenza è
limitata nel tempo, non hanno la convinzione, o l’illusione, di una contropartita ultraterrena. La loro rettitudine
di vita è spogliata da qualsivoglia compensazione. E da
qualsiasi miraggio. Di fronte a essi, dovremmo percepire
l’inferiorità del nostro dono.
Non s’immagina neppure le volte in cui ho provato ammirazione, in cui mi sono profondamente commosso vedendo, sul fronte dell’Est, tanti miei giovani camerati non
credenti delle Waffen SS andare, il cuore sicuro, l’occhio
luminoso, verso la morte, ossia verso quel sacrificio al di
là del quale la loro vita ardente non sarebbe più stata nulla… Quel loro immolarsi per il loro ideale umano era totale, irreversibile. E vi andavano incontro senza tremare…
Un’anima è un giardino inviolabile. Bisogna avvicinarsi
con tenerezza, e non come soldati di una fede la cui intransigenza potrebbe ferire e diventerebbe allora un non
senso e una profanazione. Se essa vi invita tra le sue cela-
[ Il terzo capitolo sarà pubblicato nel prossimo numero
della Rivista, marzo-aprile 2012 ]
28
ANTEPRIMA
IL MITO DEL XX SECOLO
312 pagine
- IL SECONDO E IL TERZO LIBRO A CONCLUDERE l’OPERA DI ROSENBERG Prefazione di Luca Leonello Rimbotti
USCITA FINE GENNAIO - FEBBRAIO 2012
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Intervista con Degrelle
terzo capitolo
Traduzione italiana a cura di Monica Mainardi
D. Immagino si riferisca alla questione fiamminga che avvelena il Belgio da più di un secolo…
R. «Essa per me era innanzitutto una questione di giustizia. In fondo, tutto nella mia vita, dalla mia infanzia e soprattutto dalla mia giovinezza, è sempre stato incentrato
su un desiderio di giustizia. La questione fiamminga era
sorta da enormi ingiustizie commesse contro un popolo
di valore nel Belgio fittizio nato dopo il 1830.
Gli stranieri non conoscono bene questo problema. E
inoltre per loro non rappresenta altro che un problema
molto limitato geograficamente. I Belgi stessi si sono talmente azzuffati nel corso di questo conflitto che spesso
ormai non riescono a giudicarlo con lucidità. Tuttavia, è
evidente che in un Paese come il Belgio, in cui più della
metà è fiamminga, è assolutamente inammissibile che
milioni di abitanti siano limitati e sottoposti ad angherie
nell’ambito della loro lingua e della loro cultura. Eppure questa era la regola dopo la rivoluzione del 1830, che
aveva stupidamente tagliato in due i grandi Paesi Bassi
del passato per poter così creare a sud un Belgio finto,
raccorciato di metà, in cui i Fiamminghi, per odio verso
gli Olandesi, i compatrioti del nord brutalmente ripudiati,
per cento anni sono stati trattati come comparse inferiori,
la cui lingua veniva disprezzata, considerandola riservata
solo ai contadini e alla servitù».
CAPITOLO TERZO
I Fiamminghi e il caso tedesco
Il problema fiammingo, problema di giustizia – La guerra
delle due nazionalità – Gli odi della Prima guerra mondiale – La biblioteca di Louvain, schiaffo morale (o affronto) per gli intellettuali tedeschi – Il «Furore teutonico» di
settantadue metri – Il primo libro a grande tiratura internazionale di Léon Degrelle – Di là delle inimicizie della
Prima guerra mondiale – Addio a un mondo meschino.
Domanda. Léon Degrelle, com’è avvenuta la sua trasformazione da animatore con impulsi mistici a protagonista
della politica?
Risposta. «Fino a quel momento, come lei stesso ha potuto constatare, la mia azione si limitava ad avere come
obiettivo una rinascita spirituale. Dal punto di vista della
politica, le mie proposte non superavano mai lo stadio
dell’analisi e della riflessione.
All’azione pubblica, all’azione pratica non sono passato
così in fretta, a differenza di quanto si potrebbe credere.
Ci sono giunto perché non era più possibile un rinnovamento spirituale, se prima non veniva fatta una grande
pulizia a livello politico.
È indubbio che nella dottrina di Maurras avevo scoperto i
grandi fondamenti dello Stato, che deve essere ordinato,
duraturo, competente, responsabile. Ma nel contempo
avevo anche visto, al di là del maurassismo, la necessità
di condurre una grande azione sociale, che non poteva
essere distinta da quella politica: le due devono infatti
compenetrarsi.
Inoltre, fin dalla mia prima attività all’università ero rimasto impressionato da un fenomeno che in quel momento
era ormai evidente, sotto molteplici aspetti, in vari Paesi
in cui la questione del regionalismo era diventata importante: ossia, il risveglio dei popoli che erano stati colpiti
nella loro cultura e nella loro dignità».
D. Come e quando ha preso coscienza di tutto ciò?
R. «Alcune reazioni anti-fiamminghe mi avevano sorpreso già quando frequentavo il collegio dei Gesuiti. Ma l’ho
scoperto soprattutto all’università di Louvain. Gli studenti
fiamminghi dovevano seguire numerosi corsi in francese.
Noi, studenti di Diritto, comprendemmo che sarebbero
dovuti passare almeno centoventi anni prima che, nella nostra facoltà, l’insegnamento in francese e quello in
fiammingo potessero essere posti sullo stesso livello!
La cadenza prevista era questa: centoventi anni prima
che i nostri compagni fiamminghi potessero avere la possibilità di studiare il Codice nella loro lingua natale! E inoltre, anche se avessero voluto diversamente, tutto sarebbe stato inutile, perché allora il Codice in fiammingo non
esisteva neppure! C’era solo in francese. Per patrocinare
una causa, un avvocato fiammingo doveva consultare un
codice redatto in una lingua che non era la sua.
Tutta questa vicenda era costellata di scandalose ingiustizie. Dei Fiamminghi erano stati condannati perché non
30
Intervista con Degrelle
avevano compreso delle parole durante i dibattimenti
giudiziari cui erano stati sottoposti. E la stessa ingiustizia
era stata mostrata anche nell’esercito, durante la guerra del 1914-1918. L’immensa maggioranza dei soldati
dell’esercito era fiamminga. E per una ragione inammissibile: il reclutamento era limitato, e la chiamata alle armi si
faceva per estrazione a sorte; estrarre un «buon numero»
significava che si era esentati dal servizio. Ma c’era di peggio: se si era estratto un biglietto «cattivo», i ricchi potevano permettersi di pagare un sostituto con duemila franchi. E dato che i Fiamminghi erano la parte sicuramente
più povera della nazione, ecco là! Per duemila franchi, il
giovane borghese presuntuoso inviava un Fiammingo in
caserma, o meglio in trincea, al suo posto!
Per questo, quando è scoppiata la guerra nel 1914, l’84%
dei soldati belgi era composto da Fiamminghi. Di contro,
quasi tutti questi soldati erano comandati da ufficiali di
lingua francese, cosa che causava inimmaginabili complicazioni: nei momenti decisivi, le truppe spesso non comprendevano gli ordini che si davano loro.
Si aggiunga poi il fatto che persecuzioni davvero orribili avevano colpito duramente le loro sensibilità: in piena
guerra, si era arrivati al punto di far togliere le pietre tombali dei soldati caduti che riportavano iscrizioni in fiammingo, spezzandole e utilizzandone i pezzi per realizzare
delle strade utili sul fronte di guerra.
La gioventù fiamminga si ribellava contro questi atti grezzi e insensibili, contro queste ingiustizie e contro questi
oltraggi».
chi è di lingua fiamminga ma anche per gli autonomisti
fiamminghi, ndt]. Poiché i Fiamminghi più attivi venivano
chiamati Flamingant, quel termine era solitamente utilizzato con una connotazione decisamente spregiativa.
Quel libro fece parlare molto di sé, perché era sincero.
Un nazionalista fiammingo che vent’anni dopo divenne
ministro [socialista, ndr] belga degli Interni, Alphonse
Vranckx, un mese dopo mi portò un altro libro come risposta. Lo pubblicai subito.
All’interno della mia rivista Avant-Garde, avevo creato
una piccola redazione che si occupava di editare libri. In
seguito, arrivò un Fiammingo di lingua francese, che si
chiamava Dautrécourt, che mi affidò un terzo libro, che
pubblicai come già avevo fatto con gli altri. Da quel momento, i contatti vennero stabiliti con franchezza e onestà.
Decidemmo che fosse utile fare una riunione informativa settimanale tra i dirigenti fiamminghi e quelli valloni.
Come prima cosa feci adottare una risoluzione.
Negli scontri, la cosa che tutti ambivano era quella di fare
lo «scalpo» all’avversario. Ovviamente non gli si levava il
cuoio capelluto come facevano i pellerossa, ma gli si toglieva il copricapo. I Valloni portavano la «toque», un copricapo tondo; i Fiamminghi avevano invece la «flatte»,
un copricapo largo, rosso e appiattito. La massima aspirazione era strappare l’uno all’altro la «flatte» e la «toque» e
poi appenderle come trofei, come veri scalpi ai muri della
propria cameretta da studente. Alcuni ne avevano appese a dozzine. Così feci decidere, sia ai Fiamminghi che ai
Valloni, che a ogni riunione avrebbero portato i cappelli
rubati sia in un campo che nell’altro.
Presi poi un’altra decisione: avrei assistito a tutte le riunioni fiamminghe, anche a quelle più estremiste. Arrivavo sempre indossando la mia «toque» vallone. Ero presente a tutte le riunioni degli autonomisti fiamminghi. E
talvolta era anche abbastanza compromettente, quando
questi, terminata la riunione, uscivano in corteo sventolando grandi bandiere olandesi! Infatti, ormai, non si
trattava più della semplice bandiera delle Fiandre, ma
della bandiera di un Paese che era diventato straniero.
E loro miravano al separatismo. Così come a uno Stato
olandese-fiammingo. Questo era il piano dei Fiamminghi
più intransigenti. Nel 1930, si tenne in Olanda un grande
congresso pan-olandese: in totale naturalezza, presi parte a quelle assemblee che erano presiedute da imponenti curati batavi che alle tre del mattino fumavano ancora
sigari simili a sottomarini davanti a cinquecento ballerini
e ballerine.
Questa presa di posizione a favore della giustizia fiamminga, qualunque fossero gli eccessi (e non erano pochi
tra questi perseguitati e reietti), non mi ha mai abbandonato per tutta la vita».
D. Ma come reagivano i Fiamminghi?
D. Ma lei, che era un giovane Vallone, che possibilità poteva avere di cambiare quella situazione?
R. «Quando sono arrivato all’università di Louvain, mi
sono trovato di fronte a uno spettacolo sconvolgente:
una metà dell’università era in guerra con l’altra metà. Ed
era guerra aperta! La sera, gli studenti si scontravano in
ogni dove. A colpi di sassi e mattoni! Dal 1919 Louvain era
un cantiere: si stava ricostruendo la città. Interi quartieri
erano pieni di materiali di costruzione: indi, c’erano infinite munizioni da utilizzare in quegli scontri!
Mi sono detto: Non è più possibile tutto ciò, non si può
pensare che un Paese sia forte, ordinato politicamente e
socialmente giusto se poi è incapace di rispettare culturalmente una delle sue due comunità.
Ma era molto complicato cambiare quel modo di essere,
quei costumi, quelle abitudini, perché quegli odi erano
ormai diventati ciechi, come accade a ogni rancore che si
trascina per troppi anni.
Ho deciso di vuotare il sacco.
Ho scritto un piccolo libro, pubblicato nel 1928 per le
edizioni Avant-Garde di Louvain e che s’intitolava Les
Flamingants [Flamingant è il termine usato per definire
31
R. «I Fiamminghi avevano visto che potevano contare anche su altre persone, che non fossero unicamente fiamminghe, per sostenere la loro causa.
Così come avrei difeso la causa degli Irlandesi e come
oggi difendo la causa dei Palestinesi, allora difendevo la
causa fiamminga con tutte le mie forze; e solo perché era
giusta. Quelle persone avevano ragione. Avevano un sacrosanto diritto di vivere nel loro Paese secondo la loro
cultura, di fiorire e svilupparsi pienamente.
Dio solo sa quanto la mia lotta
fosse totalmente disinteressata! E i Fiamminghi non l’hanno mai dimenticato. Quando,
anni dopo, creai Rex, migliaia
di ragazzi fiamminghi che mi
avevano conosciuto a Louvain, che avevano visto i miei
sforzi e la mia sincerità al servizio della loro causa, mi hanno sostenuto immediatamente. Anche sul fronte dell’Est,
numerosissimi volontari fiamminghi mi hanno seguito con
la stessa fede dei primi compagni all’Università».
con quel senso di cieco e ostile rifiuto.
Ma, durante i miei lunghi viaggi in bicicletta, avevo visto
più da vicino la Germania, avevo constatato che in ogni
caso in quella terra vivevano milioni di brave persone,
che non avevano nulla a che spartire con un pericoloso
antropofago ed erano invece totalmente simili a onesti
Belgi o a onesti Francesi.
Questi odi anti-tedeschi, fomentati senza posa, mi apparvero ben presto disumani e assolutamente incomprensibili».
D. Nei fatti come si traducevano?
R. «A titolo d’esempio, le citerò
un incidente selvaggiamente
anti-tedesco capitato a Louvain, mentre ero studente universitario. Tra i grandi disastri
che avevano colpito il Belgio
durante la Prima guerra mondiale, uno di quelli che aveva
attirato maggiormente l’attenzione internazionale era stato l’incendio della biblioteca
dell’università di Louvain.
Louvain possedeva una delle
più antiche università del mondo. Quando vi frequentavo i
corsi, stava per raggiungere i
cinquecento anni. Dieci giorni
dopo la battaglia dell’agosto
1914, la biblioteca e le vie confinanti erano state incendiate,
come risposta a uno scontro
in cui quindici soldati tedeschi
erano stati uccisi, senza che si fosse mai saputo il colpevole. La risposta non era tardata a venire: la biblioteca
dell’università di Louvain era stata data alle fiamme, e
con essa tutto il contenuto.
Risultato: appena la guerra terminò, vennero create delle
commissioni per andare a saccheggiare, nell’ex Impero
del Kaiser, le biblioteche più famose, riportando così a
Louvain un copioso bottino riparatore.
In tutte le grandi università tedesche, sono stati confiscati i più antichi manoscritti, gli incunaboli più preziosi; la
nuova biblioteca di Louvain era stata rinnovata grazie a
questi furti. Di fatto, era diventata la vera biblioteca della
Germania. Nessun vero studioso tedesco poteva scrivere
un lavoro serio sul passato della propria nazione senza
venire a lavorare all’università di Louvain.
E così, in tutti i locali della città, ci si accaniva contro i visitatori d’oltre-Reno, ricordando loro di continuo l’incendio
D. A Louvain lei ha affrontato
un altro problema particolarmente delicato per il Belgio,
vale a dire il problema tedesco…
R. «Mentre ero ossessionato
dai grandi problemi nazionali,
hanno iniziato a impadronirsi
del mio spirito temi come la
restaurazione dello Stato, l’ordine politico, la giustizia sociale, il risveglio fiammingo, il problema europeo e, ovviamente, il problema tedesco.
Come tutti i giovani della mia età, ero rimasto impressionato dalle campagne scatenate che erano state condotte
contro la Germania dopo la Prima guerra mondiale. Persino a casa le vedevo; mio padre aveva appeso sull’esterno
della finestra del suo ufficio un volantino che riportava
queste parole: “Niente dai Tedeschi, nulla ai Tedeschi!”.
Uno dei nostri cugini, che era curato nel villaggio di Auby,
aveva scritto un’opera intitolata Les Peaux-Grises en Belgique [Letteralmente: «I pelle grigia in Belgio», ndt],
come se i soldati tedeschi avessero compiuto gli stessi
orrori e massacri che al cinema si imputano agli Irochesi
o ai Sioux! In Belgio, si distribuiva questo testo delirante
di mio cugino a tutti i visitatori stranieri. Eravamo arrivati
fino a quel punto. Fin da bambini, eravamo stati allevati
32
Intervista con Degrelle
della biblioteca compiuto dai loro soldati nel 1914. Ogni
libro sottratto dalle università tedesche portava la seguente dicitura: «Consegnato dalla Germania come riparazione per l’incendio della biblioteca di Louvain». Lungo
la scala principale della biblioteca era inciso sul marmo lo
stesso aggressivo proclama. In qualsiasi zona dell’edificio
si circolasse, si veniva assaliti da simili evocazioni. Ed ecco
allora che, dieci anni dopo la fine della guerra del 19141918, si stava per mettere lungo il cornicione un’iscrizione gigantesca, intagliata nella pietra: “Furore teutonico
diruta, dono americano restituta”, opera di uno scultore
assolutamente mediocre che si chiamava Pierre de Soete».
vole successo. In poche settimane mi ha fatto conoscere
all’estero, sebbene, mentre lo scrivevo, non avessi assolutamente pensato a una ripercussione internazionale tale
da raggiungere tutte le università del mondo. Ma l’università di Louvain ne aveva acquistato un numero considerevole di copie, dodicimila esemplari, che subito inviò
un po’ ovunque. Dal punto di vista di un giovane scrittore che vede la propria opera diffondersi un po’ ovunque,
era un risultato assolutamente confortante. Ma per me,
in verità, ciò che era davvero interessante in questa categorica presa di posizione era che l’avevo fatta finita una
volta per tutte con i miserabili rancori che avvelenavano
meschinamente gli Europei, e in particolare i Francesi e i
Belgi. Anche la Germania era Europa.
Avevo lanciato definitivamente il mio sguardo e il mio
spirito di là del mio piccolo Paese, di là delle vecchie inimicizie della Prima guerra mondiale, compromettendomi pubblicamente pur di raggiungere il fine di eliminarle
definitivamente».
D. Traduco liberamente: «Distrutta dal furore teutonico,
restaurata grazie ai doni americani»…
R. «Mettetevi nei panni degli intellettuali tedeschi sottoposti a tutte queste umiliazioni, vari lustri dopo che
quei fatti erano accaduti… Una biblioteca universitaria,
che simboleggiava la fioritura dello spirito, la serenità, la
saggezza, avrebbe dovuto fin dal primo giorno esimersi da manifestazioni oltraggiose come queste. E invece
si andava ad aggravare la situazione, piantando in cima
all’edificio quella gigantesca iscrizione in latino, che insultava gli intellettuali tedeschi e, tanto per non farsi mancare nulla, piattamente servile e redatto con un linguaggio
incomprensibile ai più.
Tra l’altro, i giornali scrissero “Furore teutonica”, ignorando che il “furor” latino è un sostantivo neutro. Per quanto
riguarda poi quel maccheronico “dono americano restituta”, era un vero tripudio di mediocrità letteraria. Il rettore dell’università di Louvain, il signor Ladeuze, uomo
sensato e riflessivo, ordinò fortunatamente di realizzare
un’altra balaustra, altrettanto imponente, ma che non
portasse incisa quell’iscrizione aggressiva e buffona».
[ Il quarto capitolo sarà pubblicato nel prossimo numero
della Rivista, marzo-aprile 2012 ]
D. Che ruolo ha avuto Degrelle in tutto questo?
R. «Fino a quel momento, non avevo fatto nulla. Assistevo allo spettacolo. E presto quello spettacolo fu davvero
completo: una mattina, un esaltato si issò sui tetti dell’università armato di piccone; e iniziò ad abbattere i settantadue metri di nuova balaustra che erano stati messi al
posto di quel celebre “Furore teutonico”.
Allora, indignato dalla provocazione di quel cretino che
veniva acclamato dalla stampa, ho scritto in ventiquattro ore un opuscolo che ho intitolato come l’iscrizione:
Furore teutonico. In nome della libertà di pensiero, della dignità intellettuale, e innanzitutto in nome del buon
senso politico, dicevo che bisognava finirla con quelle
manifestazioni stravaganti piene di odio.
Quel libretto era pieno di vitalità e ottenne un considere33
Intervista con Degrelle
quarto capitolo
Traduzione italiana a cura di Monica Mainardi
il direttore delle Edizioni REX.
Non sono io ad aver inventato la parola “Rex” che oggi
si trova scritta in ogni dizionario del mondo. Questo termine proveniva da Christus-Rex. Le edizioni REX erano
le edizioni dell’Associazione della Gioventù belga, ossia
dell’Azione cattolica di allora. Era una piccola azienda alquanto esile che di tanto in tanto pubblicava un libro, o
qualche giornaletto. Che si vendevano, visto che l’Associazione contava almeno centomila membri. Ma era un
affare che non aveva una vera importanza e soprattutto
mancava di nerbo.
Il signor Picard mi chiese di assumerne la direzione quando ero ancora studente. Lo feci e immediatamente passai
a un’azione decisamente diretta. Questa è sempre stata
la mia regola di vita da giornalista e da scrittore: vendere
della carta stampata con grandi tirature, rendendo a ogni
costo il testo interessante.
L’ho già spiegato parlando del mio primo settimanale,
L’Avant-Garde. È necessario che il pubblico venga attratto.
Iniziai con degli opuscoli. Finanziariamente, non avevo
fondi per realizzare un giornale né una rivista. Tra l’altro
non credo molto nell’efficacia delle riviste, a meno che
non raggiungano una diffusione davvero grande. Ciò che
amavo fare era lanciare dei documenti che potessero fare
scalpore. Attendevo con impazienza gli avvenimenti rilevanti. L’avvenimento giungeva? Allora mi preparavo un
litro di caffè e mi mettevo nel solaio della casa del signor
Picard; in una sola notte, scrivevo un opuscolo di trentadue pagine. All’alba, correvo in tipografia e la sera le rotative era in piena azione. Ho sempre stampato, al primo
colpo, centomila copie. Senza grandi tirature l’azione è
vana».
CAPITOLO QUARTO
Come Degrelle lanciò REX
Degrelle, studente, diventa editore – Lancio del giornale
Rex – Incollato all’evento – La prima tiratura di 100.000
copie – Degrelle forma migliaia di propagandisti – Il «Rexappeal» - La squadra dei motociclisti – L’edizione di massa, un buon affare – La rivista Soirées – Il settimanale Rex:
350.000 copie di tiratura – Il grande scandalo di Vlan – I
colpi di Jarnac dei banchieri.
Domanda. A quell’epoca lei militava ancora nell’Azione
cattolica. Pensava di fare una carriera politica in quello
che era il Partito Cattolico? Vorrei anche che mi spiegasse
come mai si è trovato a capo delle Edizioni Rex, in seno
all’Azione cattolica.
Risposta. «La verità è che all’inizio non pensavo affatto a
una carriera politica. Proprio no, nonostante avessi sempre detto, fin dai tempi del collegio, che sarei diventato
primo ministro. A mia insaputa la politica stava operando
in me, e immergeva le sue radici sempre più profondamente nella mia interiorità.
A vent’anni, come già le ho detto e ora glielo ripeto, volevo votarmi totalmente a una vita di apostolato.
Ma la mia condizione era tuttavia già allora abbastanza
complicata, perché la mia vita apostolica era mescolata –
lo volessi o meno – con un certo numero di posizioni extrareligiose. Eppure, ero deciso a non confondere le due
lotte, quella spirituale e quella temporale. E se un giorno
avessi rischiato di vedere la loro sovrapposizione, ero determinato a fare una scelta tra l’una e l’altra: una avrebbe
escluso l’altra.
Inoltre, la giustizia sociale viveva in me perché in me viveva la passione per la giustizia in generale e lo slancio
verso il senso di fratellanza che il Cristo ha trasmesso agli
uomini.
Nel frattempo, e un po’ più prosaicamente, ero diventato
D. Centomila copie! Ma bisogna anche venderle…
R. «Ovviamente. Per questo fin dall’inizio ho creato a tal
fine le mie prime squadre di propaganda. Il mio ragionamento era il seguente: bisogna innanzitutto basarsi
sulla vendita diretta. La vendita in libreria è interessante,
perché si riesce a raggiungere un po’ tutto il genere di
pubblico, ma le percentuali che vi vengono sottratte da
questo tipo di vendita sono l’altra faccia della medaglia
di una simile scelta. E il distributore vi dà questa misera
metà molto più tardi – sei mesi, se non nove mesi dopo
– rendendovi le copie invendute in condizioni tremende,
spesso rovinate o sporche, e quindi non più utilizzabili.
Per questi motivi, è un’operazione poco conveniente e
28
Intervista con Degrelle
direi quasi detestabile in alcuni frangenti.
Per reggere il colpo di tanto in tanto era necessario disporre di fondi finanziari considerevoli di cui io non disponevo, e che non aveva neppure il signor Picard.
Così, iniziai a fare dei giri tra i grandi collegi, e a parlare
in tutti gli edifici in cui stavano ragazzi e ragazze. Era la
prima volta che un giovane gagliardo e dinamico appariva nei pensionati femminili del Sacro-Cuore e in altre
simili istituzioni di prestigio. Avevo vent’anni, mi chiamavano “il bel Léon”. Commuovevo, provocavo la gioia,
entusiasmavo. Così, rapidamente, mi conquistai migliaia
di discepoli, giovani adolescenti pieni di ardore, e anche
giovani ragazze, le più belle e le più vibranti tra tutte le
giovani ragazze del Belgio.
Con questi ragazzi e queste ragazze avrei ben presto abbattuto le marce barriere del conservatorismo. È a quel
tempo che nacque l’espressione “Rex-appeal”.
Quindi, scrivevo il mio opuscolo restando sempre incollato all’evento. E quasi contemporaneamente, lanciavo
verso tutti quei collegi una squadra di quattordici motociclisti».
notevoli sconti. Chi ne acquistava almeno diecimila in un
colpo solo, li pagava cinquanta centesimi. Però il pagamento era fatto in contanti, cosa che mi permetteva, nonostante la mia grande generosità in materia di sconto,
un forte margine beneficiario, che era incassabile nella
stessa settimana di uscita dell’opuscolo. Dunque, ogni
volta l’operazione si dimostrava redditizia e permetteva
altre iniziative.
Ho sempre gestito così i miei affari, mirando bene e colpendo forte, e regolando i conti con grande rapidità.
Alcuni si sono permessi l’ardire di affermare che avevo
gettato verso il fallimento le edizioni del signor Picard. In
realtà il signor Picard non perse neppure un centesimo
per tutto il tempo in cui ho gestito le sue edizioni. In seguito, gliele ho comprate, pagando senza battere ciglio le
tre rate scaglionate che gli avevo sottoscritto.
Una volta divenuto proprietario delle Edizioni REX, non ho
mai avuto tracolli economici. Certo, ho dovuto affrontare
dei tremendi colpi bassi da parte dell’alta finanza allorché
la misi alle corde con le mie denunce pubbliche riguardanti i suoi atti di brigantaggio politico-finanziario e la
sua dittatura occulta all’interno dello Stato. Essa controllava i crediti dei miei stampatori, cosa che mi obbligava
– nei momenti più delicati – a prendere accordi con loro
solo all’ultimo momento. Però tutti, alla fine, incassarono
interamente la cifra totale delle loro fatture, compresi gli
interessi in caso di ritardo.
La verità dà fastidio. Ma la verità è che, in una Paese in cui
l’editoria ha sempre vegetato, io riuscii a fare delle Edizioni REX uno straordinario centro di diffusione delle idee.
Maneggiavo milioni. E guadagnavo milioni. Sono ancora
in attesa di un mio emulatore che, a soli vent’anni, riesca
a fare altrettanto».
D. Dei motociclisti?
R. «Sì, fin dalle prime settimane della mia partenza come
editore, avevo comprato quattordici moto. Non le avevo
pagate moltissimo. Avevo fatto un accordo con l’officina Gillet, che suppongo oggi non esista più. Mi avevano
venduto quattordici moto e io, al posto di dar loro del
denaro che non possedevo, misi sulle mie pubblicazioni
delle inserzioni pubblicitarie dell’officina che avessero un
valore corrispondente. Così, quei mezzi di locomozione
rapidi e scoppiettanti non mi costarono nulla.
Per quanto concerne invece i miei quattordici motociclisti – tutti dei propagandisti scatenati, tenaci, infaticabili che stremavo a tal punto che alla fine del lancio di
un opuscolo li si recuperava quasi morti – erano pagati
unicamente a commissione. Quindi, neppure loro mi costavano, direttamente.
Era giunto l’evento? Venivano convocati a Louvain nel
momento stesso in cui davo il mio testo alla stamperia.
Con gran fragore, sfrecciavano su tutte le strade. Io stesso correvo a fare propaganda nei collegi o nei pensionati
più importanti; e in men che non si dica, le mie centomila
copie venivano finite».
D. Ha anche lanciato un settimanale?
R. «Avevo convinto il signor Picard a creare il grande settimanale moderno che sognavo fin dai giorni in cui tracciavo, sui Cahiers de la Jeunesse catolique (Quaderni della gioventù cattolica, ndt), il piano della conquista del mondo
contemporaneo che aveva così tanto impressionato l’ex
ministro socialista Vandervelde. Così, con alcuni cattolici
di fama, ho creato Soirées. Era il grande settimanale della
radio, dei viaggi, del cinema. Ogni numero aveva dalle 80
alle 120 pagine, cosa davvero notevole per quell’epoca.
In copertina mettevo sempre l’immagine di qualche magnifica attrice.
Ancora oggi rivedo il cardinale Van Roey, un assoluto
brontolone, diventare, con il suo naso arricciato, più sgradevole della porta di una cella, più rosso della sua cintura
scarlatta, nel momento in cui scopriva che in primo piano
sulla rivista c’era immancabilmente la dea della settimana: “Ma perché – diceva – perché si ostina sempre a met-
D. Finanziariamente come riusciva a gestire tutto questo?
R. «Quei centomila opuscoli venduti in quel modo allora
mi costavano a esemplare solo venticinque centesimi di
stampa tipografica. E venivano venduti a un franco. I primi piccoli gruppi di propagandisti e le scuole ricevevano
29
tere una donna in copertina?”.
Gli avevo risposto, ironico, ma assumendo un’aria piena
di pia confusione:
“Eminenza! Se mettessi il vostro volto in copertina venderei ventimila copie in meno rispetto a quante ne vendo se
metto invece una bella ragazza”.
E poi, mio Dio! Che peccato c’era mai nel fatto che una
ragazza fosse bella! Il vero oltraggio verso il Creatore e
il suo buongusto sarebbe stato se fosse stata brutta! La
mia rivista Soirées fece rapidamente furore grazie al fatto
di essere innovativa, per il suo senso della vita, per la sua
scoppiettante giovinezza. Portava, per la prima volta in
Europa, il programma
completo della radio,
riunito e commentato in un supplemento
di trentadue pagine,
rilegato a parte. In
seguito si è copiata
questa formula un po’
dappertutto, ma noi
fummo i primi a pensarla e a realizzarla.
Dato che l’Azione cattolica disponeva di
un certo numero di
ore alla radio, mi ero
fatto anche assegnare una chiacchierata
letteraria settimanale.
A quell’epoca la radio era ancora ai suoi esordi. Ma rapidamente mi permise di costruirmi un pubblico ancora
più vasto.
Ero spesso colpito, sentendo persone che mi dicevano:
“Sì, sono un operaio. Quando esco dalla fabbrica, corro
velocemente a casa per ascoltarla”.
Questa grande rivista ho potuto lanciarla in parte anche
grazie a questi contatti radiofonici. Soirées è diventata
quasi subito un ottimo affare. Non un affare enorme, ovviamente, ma a ogni numero riusciva a guadagnare da
dieci a dodicimila franchi. E se si pensa che a quell’epoca
un biglietto ferroviario di andata e ritorno Bruxelles-Londra costava 84 franchi, si intuisce che era in ogni caso una
cifra considerevole.
Avevo subito attratto il mio pubblico con un’inchiesta
provocante e facile: “Che cosa sognano le ragazze?”. Le
ragazze sognano molto, sognavano in passato e sognano
ancora oggi! La stampa dedicata agli affari di cuore nasce
proprio per questo. Quella mia domanda un po’ all’acqua
di rose mi valse centinaia di risposte e di visite: le belle ragazze sognatrici arrivavano a frotte nel mio ufficio! E subito le convertivo facendole diventare strumenti di propaganda. Così la rivista venne lanciato in un battibaleno.
Bene. Avevo avviato una rivista da “grande pubblico”,
una rivista molto moderna, che i cattolici non avevano
fino a quel momento mai immaginato. Ma, ufficialmente,
era sempre l’Azione cattolica che la deteneva. Io non ero
certo il proprietario. Come non lo ero della Edizioni REX.
Ne sarei diventato il vero padrone solo qualche mese più
tardi».
D. E il suo settimanale Rex?
R. «Rex l’ho lanciato come strumento di pubblicità. All’inizio era un puro e semplice catalogo commentato dei nostri libri, pubblicato
al fine di fare aumentare le vendite dei
nostri volumi. Quel
giornale era stato
presentato in maniera così viva che il primo numero raggiunse le 43mila copie
vendute, una cifra
davvero sconcertante per un catalogo a
pagamento, diffuso
in un Paese così piccolo.
Secondo il piano
originario, quel Rex
doveva uscire ogni mese. Ma quando vidi quel successo,
decisi di editarlo ogni quindici giorni e in seguito ogni
settimana, dandogli una portata intellettuale di carattere universale. In breve tempo sono arrivato a centomila
copie, centomila copie vendute, e, più tardi, a diverse centinaia di migliaia di copie, cosa che equivarrebbe a vendere due milioni e mezzo di numeri in una Francia con 50
milioni di abitanti.
Un numero di Rex era l’equivalente, in carta, di un quotidiano di grande formato di allora, ripiegato in due. Un po’
come il Minute e il Rivarol di oggi. La questione, ancora
una volta, era rendere il numero estremamente dinamico.
Io stesso scrivevo tantissimo: testi mordaci, che suscitavano nel pubblico indignazione, gioia e qualsiasi altro
sentimento. L’importante era che il giornale fosse vivo,
esplosivo.
Oltre ai miei articoli, inserivo testi di tutti i più grandi
nomi del mondo della letteratura o della filosofia. Partivo da una considerazione molto semplice: dopo cinque
o sei anni nessuno si ricorda più di un testo, e spesso se
lo è scordato anche colui che l’ha scritto. Così, cercavo
in tutte le riviste che avevano almeno cinque o sei anni i
pezzi più interessanti dei grandi scrittori in voga, da Gide
30
Intervista con Degrelle
a Panaït Istrati, da Père de Sertillanges a Mauriac, a altre
persone di quella portata. Ripulivo i loro scritti, li tagliavo
in paragrafi, chiari, presentati bene, con capolettera rossi
e titoli incisivi. Alla fine tutto ciò veniva a costarmi una
dozzina di franchi ad articolo, perché questa era la cifra
fissata dalla Società dei diritti d’autore per la riproduzione di vecchi testi.
Tutti si chiedevano: “Ma quello scavezzacollo di Degrelle
come ha potuto scovare dei collaboratori così importanti?”.
Esattamente come le ho detto, e quasi gratuitamente.
Ed era un cosa talmente imprevedibile e valorizzata talmente bene che, alla fine, ho ricevuto da questi grandi
personaggi dei veri e autentici scritti, e gratuitamente!
Mauriac, ad esempio, si produsse in un magnifico “Messaggio ai Giovani di Rex”, un grande pezzo solenne come
un salmo, che decantava la gloria del giovane Rexismo».
R. «Tra le altre cose mi ero messo a denunciare il “Boerenbond”. Questa parola fiamminga significa “Lega dei
contadini”. Era la più grossa organizzazione religioso-finanziaria delle Fiandre, un’organizzazione teoricamente
perfetta, che aveva come missione ufficiale e assolutamente lodevole quella di venire in aiuto ai contadini, ma
che in realtà aveva costruito sopra questo pio progetto
una gigantesca organizzazione bancaria che prosciugava
i risparmi dei contadini cristiani.
Aveva fatto scomparire centinaia di milioni di franchi
attraverso speculazioni: era una cosa vergognosa. Ma la
Chiesa di allora riscuoteva la sua parte su tutto. Il curato
era una specie di agente più o meno discreto della banca
nella sua parrocchia. I vescovi intascavano le commissioni più importanti perché dominavano i decani e i curati. E
l’arcivescovo arraffava, benedicente e zitto zitto, i suoi sei
bei milioni l’anno, dato che copriva gli affari di tutti!
Nel momento in cui sono saltato con il mio manganello
su questi bastardi, mi sono visto ergersi contro il cardinale Van Roey, che brandiva la sua croce. La situazione era
quasi comica perché proprio poco prima questi mi aveva
fatto la prefazione di un libro, una Storia della guerra scolastica, un’opera che aveva degli sponsor originali, dato
che la copertina indicava, oltre al mio nome, “Prefazione
del cardinale Van Roey”, arcivescovo di Malines, e, a seguire, “Illustrazioni di Hergé”, il prode Hergé, Remy Georges,
grande amico, il padre di Titntin, diventato universalmente noto indossando i miei stessi pantaloni.
Dopo che la mia campagna su Vlan era partita, il cardinale, all’inizio ancora con una certa discrezione, mi destinò
alle fiamme divoranti dell’Inferno dove bruciano - e a ragione – gli anti-plutocrati.
Ma soprattutto la mia offensiva andò a provocare i furori
e le contromisure dei tirapiedi dell’Alta Finanza che io stavo smascherando. Ero ingenuo, ignoravo il fatto che tutti
i miei bravi stampatori lavoravano solo grazie ai crediti
delle banche. Avevo sempre portato loro i miei manoscritti con la più perfetta innocenza; li pagavo nei termini
stabiliti e non pensavo ad altro.
Stavo per lanciarmi con un’altra innovazione: vent’anni
prima dei grandi editori europei, avevo inventato il libro
tascabile. Perché è chiaro che la mia “Collection nationale” altro non era che una collezione di libri tascabili, creata
vent’anni prima.
Ma era un libro tascabile per abbonamento, con quattro
volumi al mese.
I migliori scrittori belgi non erano mai stati pubblicati in
più di duemila copie, o millecinquecento, o ancora meno,
e spesso avevano persino dovuto pagare loro stessi le
spese di pubblicazione.
Io dicevo loro: “Acquisto i vostri diritti, per una sola tiratura, su quello o quell’altro libro che avete già pubblicato. E
D. Come è passato da questa stampa letteraria e popolare a una stampa dichiaratamente politica?
R. «Tramite l’Azione cattolica disponevo di Soirées e poi di
Rex. Ed ecco che in seguito decisi di creare Vlan, che già
dal titolo prometteva belle zuffe! E infatti queste esplosero fin dal primo numero.
Secondo i miei piani, Vlan doveva essere un giornale rivoluzionario, totalmente politico. Avevo visto come dappertutto erano stati commessi degli scandali cosiddetti
“cattolici”, come tutta una serie di ministri cosiddetti “cattolici” e dei grandi dirigenti del partito “cattolico” si erano immersi fino alle orecchie nella politica collegata alla
finanza. Ed erano rimasti invischiati, sprofondati, erano
sprofondati in essa. Avevo sentito centinaia di volte montare l’indignazione delle masse. Questo utilizzo della religione a fini politico-finanziari era intollerabile. Ho deciso
di colpire l’obiettivo: “Se siamo sinceri, se vogliamo essere
veri credenti e non degli ipocriti, allora bisogna far scoppiare l’ascesso per far uscire quel pus infetto”.
Allora, con quel mio bisturi nuovissimo, sono entrato
direttamente in quelle piaghe purulente, con brutalità,
senza esitazioni.
Ho iniziato a sventrare su Vlan gli pseudo-cattolici. Sì! Era
questione di sincerità! Ah! Ma allora che gran baccano!
Militavo ancora in seno all’Azione cattolica. E attaccavo i
grandi capi, gli onnipotenti farisei! Ma è proprio in quanto cattolico che dovevo dare un calcio nel sedere a quelle
persone, che dovevo eliminarli come pezzi di carne putrefatta!
Quelle persone, purtroppo, dominavano il Paese. E quelle persone finanziavano generosamente tutto il mondo,
compresa la santa Chiesa».
D. Hanno reagito?
31
pago in anticipo”.
Pagavo poco, ma la proposta complessiva che facevo
rappresentava per loro una vera fortuna inaspettata. Da
parte mia, visto che poi stampavo quel libro in un’unica
tiratura da 25mila copie, quei diritti non rappresentavano
certo in proporzione un costo immenso.
Un altro notevole vantaggio era il fatto che vendevo la
maggior parte di quei libri in anticipo, ai miei abbonati.
Andava così: a tutte
le persone che avevo
contattato nel Paese,
spedivo un piccolo
blocchetto di quattro
sottoscrizioni: chi mi
inviava questi quattro abbonamenti otteneva gratuitamente il quinto, che era
collegato alla matrice
madre. Questo abbonamento omaggio
non mi costava che
un po’ di carta in più,
quindi infinitamente
meno delle commissioni delle librerie. Così, nel giro di qualche mese, arrivai a
23.500 abbonamenti.
Soirées, Rex, Vlan, i libri, gli opuscoli, la “Collection nationale” rappresentavano già una cifra d’affari di diversi milioni. Un somma per niente male in un periodo, com’era
quello tra le due guerre, in cui mille franchi rappresentavano una miniera d’oro.
Una parte del denaro si raccoglieva rapidamente, un’altra – quella delle librerie – si faceva attendere per mesi
durante i quali solo le mie cambiali agli stampatori mi
permettevano di lavorare con comodo.
Improvvisamente, ecco abbattersi su di me la catastrofe,
come un camino che vi piomba addosso per strada».
cattolica, visto che ero entrato in pieno conflitto con numerosi tra i suoi potenti protettori. Monsignor Picard era
al di sopra di tutti questi compromessi, puro come san Michele. Ma la grande struttura temporale della Chiesa era,
a quel tempo, tutta collegata al “Partito cattolico”, che ormai era diventato strumento servile dei grandi banchieri.
Tutti i politici “cattolici” erano scelti uno a uno dall’alto clero. Per la maggior parte del tempo erano esseri mediocri,
vale a dire malleabili
e sottomessi come
sagrestani all’autorità arcivescovile. La
Chiesa ha sempre
scelto dei politici
scialbi, quelli che poteva dominare più
facilmente, ma che
anche altri, come per
esempio i potentati
ipercapitalisti, potevano corrompere e
addomesticare, proprio a causa di questa loro debolezza di
carattere.
E così eccomi spalle al muro. L’Azione cattolica, decisa
a riportarmi alla ragione, mi attacca, mi minaccia. I miei
stampatori vengono costretti dalle banche a non accettare più le mie cambiali. Che fare? Me ne sono andato
dall’Azione cattolica. Affettuosamente, per me monsignor Picard è rimasto per tutto il tempo il più ammirevole
tra gli amici. Ma strapazzavano anche lui. Era necessario
che me ne andassi da casa sua, dove ero ormai diventato
troppo ingombrante.
È pressoché nello stesso tempo che ho acquistato da lui
le Edizioni REX».
D. Come ci siete riuscito, viste le difficoltà finanziarie del
momento?
D. Come si è manifestata la controffensiva di cui avete accennato?
R. «Ve lo spiego.
Avevo fatto delle Edizioni REX la mia fortezza. Ma monsignor Picard vedeva che le nostra casa editrice era in gran
pericolo, perché causa l’intervento dei banchieri tutti i
nostri stampatori si rifiutavano di stampare qualsivoglia
cosa, a meno che non ci fosse un pagamento in contanti. Costernato e meno combattivo di me, mi dice: “Senti,
Léon, non c’è più modo di continuare. Sono più forti di te.
Bisogna abbandonare la casa editrice”.
Mi sono ribellato: “Monsignore! Non crede più che si possa lottare? Ebbene, io invece ci credo e non mollo. Se volete, mi addosserò io tutti i rischi, le acquisto tutta l’azienda. La pagherò in tre, sei e nove mesi”.
R. «Una mattina, un lunedì, vidi il postino portarmi in ufficio una serie di lettere raccomandate, tutte identiche,
inviatemi da ciascuno dei miei stampatori.
Avrebbero dovuto spezzarmi in due. Tutti mi facevano
sapere, in maniera molto compita, che non potevano più
farmi credito. Anche se avevo sempre pagato i miei lavori
entro sei o nove mesi, il tempo che serve a qualsiasi editore per recuperare dalle librerie tutti gli incassi e le rese.
Ero fritto. Non avevo più la possibilità di stampare nessuno dei miei giornali per la settimana seguente.
Inoltre, stavo andando incontro alla rottura con l’Azione
32
Intervista con Degrelle
Il caso era per così dire disperato. I banchieri ormai mi
credevano morto. Ma si sbagliavano. Io non muoio così
facilmente. E lo si è visto anche durante la guerra. E dopo
la guerra. Mio nonno, nei suoi ultimi tre giorni di agonia,
aveva ripetuto, testardo, aggrappato alle sue lenzuola:
“Non voglio morire”. Perché gli uomini capitolano davanti
alla morte da secoli ? Perché sono fifoni! Io sono per lo
sciopero della morte. E così non ho accettato di schiattare quando lo pretendevano i banchieri».
migliaia di giovani – perché erano soprattutto i giovani
che avevo infiammato e coinvolto in tutto il Paese - ed
essere minacciato di annientamento in maniera radicale
e immediata!
A dire il vero non so bene come accade, ma il pericolo
o la sfida, al posto di abbattermi, per me si sono sempre rivelati degli ottimi stimolanti. In quel momento mi
sento magnificamente in forma, la mente lucida, il corpo
potente, la volontà dura come una putrella di acciaio. La
tengo in pugno! Tanto peggio per l’avversario che la dovrà prendere in pieno volto!
Immediatamente lanciai un tonante appello attraverso il
Paese a tutti i miei ragazzi, a tutti i miei giovani: “Ognuno
raccolga del denaro, tra le famiglie e tra gli amici”!
In qualche giorno ho raccolto quello che mi sarebbe bastato ad andare avanti per altre due o tre settimane.
Poi, colpo su colpo, arrivarono i miracoli.
D. Come è riuscito a uscirne fuori?
R. «Lo ammetto, non era una cosa tanto semplice. Avevo
sul collo il fiato degli stampatori, che mendicavano i loro
pagamenti. Non sapevo come avrei potuto far uscire, la
settimana seguente, i miei giornali. Dovevo traslocare,
poiché la gerarchia ecclesiastica mi imponeva di trovar
casa da un’altra parte, non importa come. Insomma, ero
davanti al baratro.
Avere tra le proprie mani tutta una serie di mezzi d’azione, creati duramente pezzo a pezzo e che possono essere
annientati da un momento all’altro, avere a disposizione
[ Il quinto capitolo sarà pubblicato nel prossimo numero
della Rivista, luglio-agosto 2012 ]
Portale della Casa editrice Thule Italia: http://thule-italia.org/ThuleItaliaEditrice/
33
Intervista con Degrelle
quinto e sesto capitolo
Traduzione italiana a cura di Monica Mainardi
CAPITOLO QUINTO
erano radunate là circa centomila persone. Il bisogno di
credere, la sete di meraviglioso restano immutati in ogni
tempo.
Già nella prima settimana avevo pubblicato il primo testo
del dottor Maistriau. Poi, con il perdurare del fenomeno,
ne arrivò un secondo, e infine un terzo, che raccoglieva
anche quelli precedenti. Sono giunto a vendere settecentomila libri. Sì, settecentomila! Sono cifre pressoché
incredibili. In Belgio non ci sono mai state opere che abbiano raggiunto tirature simili!
Questo successo aveva riscosso un certo effetto tra i miei
stampatori, terrorizzati dai loro finanziatori.
E proprio allora, un’altra vicenda straordinaria! La morte
di re Alberto.
Re Alberto era molto popolare in Belgio, le sue gesta nella
Prima guerra mondiale gli avevano dato una fama quasi
sacrale.
Me lo ricorderò sempre: era un’alba di domenica; quel
giorno del 1934 dovevo tenere tre comizi: uno a Charleroi, uno a Namur e uno a Liegi.
Pur essendo poco più che un debuttante, parlavo già
molto. All’inizio ai giovani. Poi si erano aggiunti anche i
genitori. Attorno ai miei palchi si poteva notare sempre
gran movimento. Migliaia di persone.
A un passaggio a livello, vicino a una città che si chiama
Gembloux, là dove fu combattuta, nel maggio 1940, una
grande battaglia tra carri armati francesi e tedeschi, trovai
abbassata la sbarra. Solitamente, quel passaggio a livello
restava bloccato per una ventina di minuti. Così decisi di
andarmene nel piccolo bar lì vicino, e lì mi incappo in sette od otto tipi che se ne stanno in totale silenzio, con le
teste abbandonate tra le mani, disperati e lugubri. Chiedo subito loro:
“Che cosa è mai accaduto?”.
Uno tra loro mi risponde, con tono tetro, nel suo pesante
accento vallone: “c’est Albére qui est mooort” (“Alberto è
morto” qui la grafia corrisponde alla pronuncia vallone,
ndt.).
Albére era il re Alberto che, effettivamente, era morto
qualche ora prima, precipitato da un picco roccioso a
Marche-les-Dames, nella valle della Mosa.
Questa reazione, questo strazio popolare osservato in
prima persona, mi colpì molto. Alle quattro di quel pomeriggio, mentre mi stavo dirigendo, al termine del mio
secondo comizio, da Namur a Liegi, mi fermai ai piedi di
quella rupe fatale. Ai piedi della collina, là dove il re era
morto, si ammassavano migliaia e migliaia di persone.
I tre miracoli di Rex
Le apparizioni di Beauraing – Un re che muore al momento giusto – Come Degrelle fece scrivere in tre giorni un
libro su Alberto I – La sua tecnica di lancio di massa – Il
terzo miracolo: il farmacista d’Orroir – Il vino della Borgogna e la busta – Il caso? Il destino? – La fede nella vittoria
– Incontro con stampatori creditori – Degrelle la spunta
sui banchieri.
D. Lei sostiene che l’abbiano salvata tre miracoli. Ma che
miracoli?
R. «Non fraintendiamo. Sant’Antonio e santa Rita non
c’entrano. I due miracoli più straordinari, nel senso più
stretto della parola, furono le apparizioni di Beauraing e
la morte del re Alberto I del Belgio.
Una mattina, quando lessi sul giornale La Libre Belgique
che a Beauraing, una piccola cittadina delle mie natali
Ardenne, a quaranta chilometri da Bouillon, alcuni bambini dicevano di aver visto la Vergine, restai molto impressionato. Spesso la gente ride di queste storie, ma non io:
noi ancora non conosciamo pressoché nulla a proposito
delle forze spirituali. In ogni caso, la sera stessa, partii per
andarmene là e rendermi conto di persona. Avevo a mia
disposizione un’auto da corsa, acquistata d’occasione.
Una lunga freccia argentata che nel silenzio della notte
faceva un fantastico baccano. Anche questo gran rumore rappresentava una propaganda eccellente. Alle tre del
mattino, svegliavo mezzo Belgio.
Così arrivai a Beauraing. I bambini presunti veggenti se
ne stavano accanto a un medico. Mi aveva scosso parlare con loro e vederli cadere in ginocchio, come fulminati,
nel momento in cui affermavano di aver visto l’apparizione. Chiesi al loro medico, il dottor Maistriau, se poteva
scrivermi un piccolo libro raccontando ciò che i bambini
dicevano di aver visto, relazionando i fatti, e, per quanto
possibile, analizzandoli.
Io stesso ho assistito di persona a questi avvenimenti – la
cosa durò tra le due e le tre settimane. Lo spettacolo era
inaudito. Negli ultimi giorni, migliaia di automobili dovevano fermarsi in mezzo ai prati e si era obbligati a procedere a piedi perché era tutto bloccato già a dieci o dodici
chilometri dal villaggio e non si poteva più avanzare; si
34
Intervista con Degrelle
Più tardi, quando rientrai in piena notte a Louvain, avevo
già preso la mia decisione».
R. «Sì. Ho beneficiato di un terzo “miracolo”.
Ecco che entra in scena un bravo farmacista di un paesino
fiammingo vicino a Courtrai, che si chiama Orroir.
Ricevevo da ogni parte lettere di persone che seguivano
le mie campagne con passione o con preoccupazione. La
mia lotta contro i “marci”, come li chiamavo, già iniziava
a scuotere molto i Belgi. Su Rex a tutti questi miei fedeli
dicevo:
“Ascoltate bene, i marci del mondo politico-finanziario
vogliono la mia pelle, e forse riusciranno a strangolarmi,
se voi non farete blocco insieme a me!”.
Tutte queste brave persone hanno cercato di aiutarmi,
per quanto fosse loro possibile. Ed è così che un farmacista che non conoscevo assolutamente mi ha teso la
mano:
“Vedo che lei ha una vita difficile, mi scrisse. Ebbene! Se
lei può venire a casa mia, cercherò di aiutarla”.
La domenica dopo, dato che dovevo parlare nel Tournaisis, mi sono deciso a spingermi fino al paesino di Orroir.
Arrivo nel villaggio. Il farmacista aveva preparato una
buona bottiglia di vino della Borgogna. Era sempre così!
Svuotammo lentamente la bottiglia. Non mi azzardavo a
parlare, a fare il primo passo. Pensavo in silenzio, abbastanza inquieto:
“Che cosa accadrà ora?”.
E poi, alla fine, ecco che quel brav’uomo si anima:
“Vede questa grossa busta? Sono alcuni titoli della Banca
nazionale: glieli regalo”.
Il giorno dopo, avrei dovuto pagare una serie di cambiali
scadute, centrotrentaquattromila franchi, se ben ricordo. Senza quel versamento, non avrei potuto pubblicare
nulla quella settimana, perché i miei stampatori, sotto la
pressione delle banche, esigevano di essere pagati prima
dell’uscita di altri giornali o di altri libri. Il bravo farmacista
mi aveva dato la sua busta. Glielo devo confessare: non
ho neppure osato aprirla davanti a lui. Salgo in macchina;
e intanto mi ripetevo: “Che cosa ci sarà mai nella busta?”.
Uno dei miei cognati, che stava al volante, mi guardava,
con l’espressione ansiosa.
Fuori dal paesino, ci siamo fermati. Apro: i titoli equivalevano esattamente ai centotrentaquattromila franchi di
cui avevo bisogno il giorno dopo, se non volevo chiudere
tutto.
Allora, che cosa sono mai simili benedizioni? Un caso?
Davvero solo un caso? O il destino? O Dio? O immense
forze sconosciute? Tutto è possibile. Ma questo ti rinfranca immediatamente. E diventi sicuro di te. Ero certo che
avrebbero potuto farmi qualsiasi cosa per contrastarmi,
ma io avrei fatto crollare qualsiasi muraglia. Avrei vinto!
Glielo dico in confidenza: mai, in nessun momento, neppure per un secondo, ho dubitato del mio successo. Per
me è sempre stato una certezza. Anzi, di più: una palese
evidenza. La vittoria la vedevo davanti a me così chiara-
D. Che decisione?
R. «Mi sono rivolto a un grande scrittore belga che si chiamava Pierre Nothomb, una sorta di Barrès belga, pomposo, abbastanza sornione, e che aveva conosciuto il re
molto bene.
“Pierre, ho bisogno immediatamente di un libro su re Alberto. Tu hai scritto molto su di lui, sei perfettamente in
grado di prendere degli estratti dai tuoi scritti, e sarai anche pronto a fare le dovute aggiunte. Ti dò diecimila franchi e tu mi prepari il libro in tre giorni. I miei motociclisti
saranno alla tua porta per tutto il tempo, per portare di
volta in volta i capitoli dallo stampatore”.
Fatto l’accordo, corro in tipografia e mi metto subito al
lavoro per dare un sostegno ai compositori.
Le moto giungevano tra grandi scoppiettii. Già la sera
stessa stavamo iniziando a mettere in pagina i primi capitoli; i fogli si stampavano di volta in volta. E, nel contempo, avevo già pagato delle sfavillanti inserzioni pubblicitarie, da mettere sui grandi giornali della sera e del
mattino successivo, che annunciavano la sottoscrizione
per quel libro. In due giorni, avevo già ricevuto i prepagamenti per diecimila copie. Tutti i costi di stampa sarebbero stati coperti ancor prima che i libri fossero stati caricati
sui camion per la distribuzione.
Per una buona riuscita tutto ruota sempre attorno a un
atteggiamento energico e pronto. Il libro era ben fatto,
realizzato da uno scrittore di razza. Si presentava benissimo. E, soprattutto, era illustrato, perché non solo lanciavo un testo di prim’ordine, ma volevo inserire nell’opera,
cosa sconcertante per quell’epoca, trentadue pagine di
fotografie in eliotipia, che illustravano tutto il funerale.
Per questo motivo avevo posto quattro fotografi lungo
il percorso funebre; mentre i motociclisti correvano verso la tipografia con le foto. La notte stessa, queste erano
state stampate, rilegate e aggiunte al libro. Il re del Belgio venne seppellito di giovedì: la sera del giorno dopo,
il mio libro era in vendita ovunque, offrendo, alla fine del
volume, pubblicate splendidamente, le trentadue pagine
di fotografie. Esse attraevano il pubblico più rapidamente
di qualsivoglia rivista illustrata.
Anche in quel caso i miei stampatori, che avevano dovuto
realizzare una grandissima tiratura ed erano stati pagati
immediatamente, non avevano avuto nulla da obiettare.
Anche loro amano guadagnare. E il dinamismo che si era
respirato in quei giorni li aveva in ogni caso lanciati in piena azione».
D. Ci sono stati altri miracoli?
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mente, tanto quanto si vede un viso, o il mare, o il sole.
È questa stessa fede che, nei peggiori pericoli del fronte
dell’Est, e della caccia all’uomo che ho dovuto sopportare nel corso del mio esilio, mi ha sempre fatto trionfare
sopra ogni cosa. La báraka (grazia, benedizione, in arabo,
ndt)? Il destino? Creda, è qualcosa di molto più profondo
di tutto questo».
no mi fermerà. In questo caso, ve la sbroglierete da soli
con i vostri banchieri. Fino a questo momento, voi avete guadagnato bene con me. E vi voglio bene. Dunque,
siate cortesi: prendete questi miei ottocentomila franchi
e passate un colpo di spugna su quello che sarà rimasto
senza benzina”.
Erano abbastanza costernati. Li avevo colpiti, li avevo
fatti ridere. Si divise il gruzzolo da buoni amici. Due anni
dopo, vincevo la mia battaglia elettorale del 1936. I soldi
arrivavano da ogni parte; allora, lietissimo, ho inviato a
tutti quei miei bravi stampatori la somma che mi avevano
congelato. E in più ho dato loro anche gli interessi. Ci si
riunì ancora una volta, per una bevuta insieme. Avevano
tutti votato Rex. Il colpo basso dei banchieri si concludeva così nell’euforia generale».
D. E tutti questi miracoli sono riusciti a toglierla d’impiccio?
R. «Quando fu necessario dare il gran colpo finale, mio
padre, che era la tenerezza in persona, venne a Bruxelles
per ipotecare a mio favore un grande bene che gli apparteneva, ossia l’edificio delle poste di Bouillon. Pensare
che da noi, nella nostra famiglia, un’ipoteca era una cosa
che spaventava e scandalizzava! Mio padre, quando era
giovane sposo, si era arrischiato a fare un’ipoteca quando aveva comprato una trattoria a Bouillon. Ebbene! Mio
nonno si considerò per quel motivo pressoché disonorato, e il giorno stesso era andato dal notaio per rimborsare
tutto.
E da allora nessuno aveva più parlato in famiglia di una
simile operazione così spaventosa! Una delle mie sorelle
aveva sposato trent’anni dopo un ragazzo meraviglioso
il cui padre aveva negoziato un’ipoteca molto banale nel
momento in cui stava edificando a Bruxelles una fabbrica
importante. Per questo solo motivo mio padre era stato
quasi sul punto di opporsi al matrimonio. Può ben capire
allora che cosa possa aver rappresentato per il mio buon
padre arrivare a un simile impegno finanziario: per lui era
un sacrificio straordinario, un ingresso nella vita moderna
che gli sarebbe parso del tutto inimmaginabile, se non
avesse avuto quell’amore, quell’amore senza limiti, per
quel suo diavolo di figlio!
Ma anche lui aveva fede in me. Mi ha portato in una grande busta ottocento biglietti da mille franchi, perfettamente nuovi, larghi, puliti, lisci come fette di prosciutto
di York».
CAPITOLO SESTO
La conquista delle folle
La ricetta per coinvolgere senza denaro milioni di persone – Analisi dell’eloquenza – Conquista da parte di
Degrelle delle masse operaie al soldo dei marxisti – Che
cos’è un capo di popolo – Crollo dei Socialisti prima del
1940 – L’orticello della borghesia – Come si attirano centinaia di migliaia di ascoltatori? – Prenderli là dove sono
– Le contraddizioni nelle «Case del popolo» – La storia di
un prete spretato – I grandi comizi a pagamento – Il Primo maggio scippato ai socialisti.
D. Aveva salvato le sue pubblicazioni, la sua casa editrice. Ma com’è riuscito, in soli due anni, a creare un partito
politico in grado di portarla alla vittoria nelle elezioni del
1936?
R. «Nell’immediato, ero salvo, finanziariamente.
Ma ero salvo in modo molto relativo. Avevo salvato i miei
giornali. Ero riuscito a tamponare il buco di due milioni di
franchi che le banche avevano creato sotto i miei piedi.
Ero sfuggito dallo strangolamento che mi avevano preparato. Ma, alla fin fine, da qui ad arrivare a essere la guida di un intero Paese ce ne passava. E molto.
Spesso i giovani mi chiedono: “ Ma come ci è riuscito?”,
dato che in due anni sono riuscito a portare dietro di me
un milione di uomini e di donne. Come si riesce a farsi
seguire da un milione di esseri umani?
Lei l’ha visto, ero riuscito a non morire. Ora, mi accingevo
a giungere al potere in soli due anni! E ovviamente senza
un soldo. Creando con la sola forza delle mie mani le risorse che necessitavo, stavo per mobilitare un intero Paese. Come si riesce a farlo? Qual è la ricetta?
D. Che cosa ha fatto di questo suo prosciutto di York?
R. «Le cambiali che venivano o che stavano venendo in
scadenza raggiungevano i due milioni di franchi. Così ho
riunito i miei stampatori:
“Come me, e anche meglio di me, sapete bene – ho detto
loro senza tanti giri di parole – perché siamo giunti a questo punto, e conoscete bene i motivi che vi hanno obbligato a minare le mie possibilità di stampa. Ve lo dico con
franchezza: continuerò a farlo, a qualsiasi costo. In questa
busta ho ottocentomila franchi. Se li volete, sono vostri.
Se non li volete, me ne servirò per la mia attività, perché
ciò che sto facendo conta più di ogni altra cosa, e nessu36
Intervista con Degrelle
Ciò che serve, innanzitutto, ciò che è indispensabile, ciò
che spazza via tutti gli ostacoli come un vero tornado, è
una formidabile fede. Se non siete assolutamente sicuri
di possedere in voi stessi quelle forze enormi e misteriose
che ti permettono di andare all’arrembaggio delle persone, allora è anche inutile partire all’attacco.
E poi bisogna poter contare su un infaticabile vigore fisico. Un povero e piccolo ometto non riuscirà mai a far
fronte a questo lavoro da giganti. Bisogna passare intere
settimane senza quasi dormire. Bisogna avere il cervello sempre libero e fresco, senza mai sentire mal di testa;
bisogna avere una robustezza tale che vi permetta di affrontare sei, otto, dieci incontri con dibattito in un solo
giorno, essere capaci di scrivere di getto – anche dopo
otto ore di combattimento, e ovviamente senza aver il
tempo di rileggere neppure una sola riga – otto o dieci
pagine dell’articolo di fondo del quotidiano che è in attesa del tuo ultimo articolo per andare in stampa.
Oltre a questo, a mio parere due cose sono essenziali in
qualsivoglia azione di conquista delle folle: bisogna essere buoni scrittori ed essere grandi oratori.
È impossibile conquistare la gente se non si possiedono
questi due doni, e all’ennesima potenza.
Scrittore lo sono sempre stato. E scrittore di generi diversi: sono stato un polemista, sono stato un memorialista.
Per le edizioni Flammarion, nel 1951, ho persino pubblicato un romanzo, La grande bagarre (Il gran tafferuglio,
ndt), sotto lo pseudonimo di Jean Doutreligne. E per me,
in quel momento economicamente difficile, fu una magnifica benedizione, perché Flammarion, che mi amava
molto, mi spedì, nel giorno stesso dell’uscita del libro,
l’ammontare dei diritti d’autore delle prime 20.000 copie.
Ma innanzitutto, e soprattutto, ero stato un poeta. Ho
scritto una semidozzina di raccolte di poesie. Alla fin fine,
l’intera mia creazione era fondamentalmente poetica.
Credo che il dono della poesia sia indispensabile in politica. Un conquistatore di popoli deve essere un incantatore. Bisogna incantare le folle così come s’incanta una
donna. Ci si muove nello stesso ordine d’idee. Si tratta di
un immenso atto di seduzione. La folla si dona perché la
seduzione ha liberato in lei lo slancio del dono. Ho sempre
provato, in tutto il mio essere, la stessa vibrante proiezione ogni volta che mi rivolgevo al pubblico nel corso dei
miei grandi comizi. Quando iniziavo, non sapevo neppure ciò che stavo per dire. Porto dentro di me tutta la mia
verità. Porto in me tutta la mia dottrina. Davanti a me c’è
spesso una folla enorme: non la vedo neppure, i potenti
riflettori mi accecano, non distinguo che una massa umana enorme e totalmente nera. Chi sono? Giovani? Vecchi?
Operai? Contadini? Ricchi? Poveri? Mistero totale. Inutile
quindi prepararsi con una frase roboante e a effetto. Su
di essa si potrebbe solo correre il rischio di incespicare.
Quindi, bisogna immediatamente improvvisare».
D. Ma creare come?
R. «Non mi mettevo a pianificare, facevo dei larghi giri
sopra il pubblico, come da noi, a Bouillon, li facevano i
“predatori di galline”, gli sparvieri che cercano la preda
dall’alto del cielo. D’improvviso, sentivo che il momento
era giunto! E bam! Mi gettavo in mezzo alla sala, afferravo
tra i miei artigli la preda ansimante. La preda ansimante
era il pubblico.
È un fenomeno straordinario questa compenetrazione
improvvisa tra due grandi correnti, da un lato chi trasmette, dall’altro chi riceve, questi due fluidi che zampillano,
captano, si uniscono, ripartono!
Questa doppia proiezione di sensazioni sfugge ancora
all’analisi scientifica. Per lo meno fino a oggi. Non sono
mai riuscito a trovare un medico che mi riuscisse a spiegare questi fenomeni. E tuttavia sono fenomeni di ordine medico e fisico, queste correnti così potenti quanto
sconosciute che passano dall’essere che prende all’essere
che è preso, e che fanno sì che si arda, che fanno sì che si
afferri, che fanno sì che si possieda!
Credo che sia un po’ come capita anche con la televisione.
Si dice spesso: quel tipo lì trasmette! Mentre quell’altro
no! Quello “buca” lo schermo! Ebbene: è perché c’è stato
uno scambio, una compenetrazione, una condivisione!
E allora ecco qui! Bisogna essere un tipo potente, con
un vigore fisico instancabile: bisogna possedere volontà
d’acciaio, essere decisi a passare attraverso ogni cosa, e
sapere che si passerà. Bisogna avere fede!
Ed è necessario incantare!
Questa è la legge del successo politico, la vera, la sola,
quella che fa sì che tu diventi il maestro, il capo, e non colui che ha raccolto, come fosse un’elemosina, il suo gruzzolo di voti.
Ero un ragazzo giovane, un ragazzo assolutamente giovane quando richiamavo, uno a uno, i miei primi ascoltatori. Poi, mi sono ritrovato di fronte a un’intera nazione. E
dopo ancora, mi sarei ritrovato di fronte all’’intera Europa,
a Parigi, a Ginevra, a Berlino, a Vienna. Mi sono sempre
detto: “Mi servono, li voglio prendere”. Li ho conquistati.
Domani, ne sono sicuro, sebbene il mondo sia totalmente cambiato, li conquisterò con la stessa irradiazione, se
gli dei mi apriranno di nuovo le porte della vita! Perché
le forze fisiche e psichiche che nutrono misteriosamente
l’istinto della dominazione non cambiano.
Le tigri balzano sulla preda sempre nella stessa maniera».
D. Lei s’impegnava in maniera particolare nei confronti di
un particolare ambito sociale, oppure no?
37
R. «In questa grande impresa, la cosa che più mi ha appassionato è stata la conquista della classe operaia.
La massa operaia mi ha appassionato perché, per me, essere un capo del popolo – “popolo”, senta che magnifica
parola! – non vuol dire essere il capo di un’amministrazione, di una rete; ma vuol dire essere la guida di milioni di esseri umani, che hanno un cuore, che hanno delle
passioni, che hanno dei bisogni, e ai quali occorre dare la
felicità.
E bisogna dare loro questa felicità con entusiasmo.
È in questo che io sono sempre stato, in fin dei conti, un
totale democratico.
Democratico, democrazia, potenza del popolo, della
massa, questo non vuol dire che ciascuno, grazie al ricatto delle elezioni, potrà prendersi gioco con qualsivoglia
bestialità, o permettersi qualsivoglia elucubrazione, e
che non bisognerà più obbedire! Il vero democratico è
colui che considera un dovere illuminare onestamente
il popolo, colui che gli spiega chiaramente ciò che bisogna fare, colui che chiede e ottiene la sua fiducia, al fine
di realizzare una grande opera, e non certo per essere lo
schiavo, sottomesso umilmente, dei propri elettori.
Un capo democratico è colui che conduce, e non colui
che segue il popolo, ed è colui che lo conduce perché lo
rappresenta, perché ha ricevuto la sua fiducia, perché l’ha
conquistato.
Così ho sempre inteso la democrazia.
Il parlamentarismo – il “cretinismo parlamentare”, come
diceva crudamente Lenin – non è altro che una formula
democratica tra decine di altre, ed è la più debole, instabile, sottomessa alle pressioni degli appetiti elettorali,
destinata all’incompetenza e spesso all’anarchia. Esistono altre formule democratiche, diverse dal semplice raccattare cinquecento deputati; per esempio vi è la formula
autoritaria: la folla rimette liberamente la sua fiducia in
un vero capo, che ne diventa così l’incarnazione e che
potrà, in nome suo e per lei, creare qualcosa di forte e
duraturo, mantenendosi sempre in contatto con essa, e
avendo questo potere per il solo fatto che la fiducia popolare gli è rinnovata costantemente e potentemente.
Questa è la mia concezione del capo, emanazione diretta
della volontà della nazione: il potere del popolo affidato
liberamente al vero capo del popolo.
Tra le due guerre mondiali, nessuno rappresentava più il
popolo all’interno delle cosiddette democrazie occidentali. Né i socialisti, né gli anti-socialisti. I socialisti avevano
perso contatto con le masse operaie in ogni nazione occidentale, e in Francia in particolare, così pure in Belgio.
Se è sorto il gran tumulto dei fascismi è perché i popoli
erano disgustati da un socialismo che, se all’inizio aveva
portato loro qualche beneficio, ora era ormai diventato
un enorme meccanismo conservatore, un funzionalismo
senza cuore né fiamma.
Il popolo è sensibile più di ogni altro al fuoco delle anime.
Spesso, l’elemento sociale meno materialista è il popolo,
proprio perché deve subire un destino meno fortunato.
Questo causa in lui una sorta di recupero interiore: egli
inizia a volere qualcosa che superi la mediocrità quotidiana.
Qualsiasi cosa si riesca a realizzare, esisterà sempre un
certo sottosviluppo popolare. È triste, ma un operaio,
nato in un ambiente poco aperto ai grandi problemi dello spirito e della creazione, non potrà godere facilmente,
né soprattutto rapidamente, della vasta cultura che permette lo sviluppo completo dell’intelligenza. E neppure
riuscirà, immediatamente, a restare incantato entrando
in contatto con le arti che trasfigurano la vita volgare di
ogni giorno. Egli ha dunque bisogno più di ogni altro di
un’esaltazione interiore, dei benefici del dono che si riceve, del dono che si progetta.
Colui che diventa la guida del popolo è colui che ha creato questo dono e che l’ha sublimato».
D. Per lei il socialismo era superato già a quell’epoca?
R. «I socialismi avevano smesso di donare al popolo questa parte di generosità o di sublime che i grandi agitatori
avevano portato alla fine del XIX secolo.
Per quanto riguarda invece il marxismo, materialista a livello di dottrina, disconosciuto innumerevoli volte dagli
stessi fatti, esso ignora completamente la natura intima
dell’uomo; conduce solo a un caporalato economico soffocante, la cui formula è totalmente superata, sotto qualsiasi forma sia stato sperimentato. Gli stessi capi socialisti
l’avevano abbandonato fin da prima della guerra. Henri
de Man, che tra il 1930 e il 1940 fu il solo profondo filosofo della Sinistra – a parte Marcel Déat in Francia, anche se
meno importante – nel 1934 aveva intitolato la sua opera più importante Oltre il Marxismo: cinquecento pagine
pressoché illeggibili, appiccicose come marmellata, ma
che relegavano il marxismo tra la mercanzia da mettere
in saldo.
Dopo quell’epoca, l’Urss, attraverso il suo fallimento economico, virtualmente completa quella sconfitta che poi
conferma definitivamente attraverso la tirannide instupidente che ha generato. Il marxismo ormai è solo una
vuota fissazione d’intellettuali sottosviluppati e di agitatori interessati o arretrati».
D. E la borghesia?
R. «La borghesia non stava meglio. Si lasciava andare in
una passività che era ancora più inammissibile, dato che
essa aveva i mezzi per giungere a qualcosa di superiore e
per farlo risplendere. In essa si era spenta ogni vibrazione
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Intervista con Degrelle
sociale. Considerava l’umanità come suo orticello privato. I borghesi – in particolare, i dirigenti marxisti diventati borghesi – neppure sapevano più che cosa fosse un
operaio, mentre l’operaio, invece, a quei tempi era ancora
un vicino. Ci si conosceva di casa in casa. Ci s’incrociava
per la strada. Eppure il borghese non vedeva nulla, come
fosse cieco.
È evidente che l’era industriale ha ormai separato fisicamente e moralmente le élite dalle folle. Le grandi città
hanno innalzato palizzate quasi insormontabili tra gli uomini di differenti classi sociali, diventati stranieri gli uni
per gli altri.
Quando ero ancora bambino, nel mio piccolo paese natale di Bouillon, noi si partecipava tutti insieme a una vera
comunità. Si era tutti uniti nel fondo della nostra vallata, ci si ritrovava tutti insieme, tutti i bambini nella stessa
scuola, tutti i fedeli nella stessa chiesa. Ora, in una città, e
persino dentro un semplice condominio, le persone non
si conoscono più! Neppure da un appartamento all’altro!
Separazione abominevole, contro natura. L’uomo moderno è composto da sconosciuti.
Tra il 1930 e il 1940, la situazione si stava aggravando, sia
socialmente sia moralmente. Le masse erano abbandonate, fluttuavano verso la deriva. Questo significa che bisognava afferrarle».
R. «Ebbene, mi dissi, ogni giorno cercherò sul giornale del
partito socialista, Le Peuple (Il popolo, ndt), il luogo in cui
si tiene il più grande raduno socialista, e ci andrò anch’io.
Mi feci un abbonamento ferroviario di terza classe. Tutte
le sere, in un luogo o in un altro del Paese, si svolgeva un
grande raduno socialista. L’oratore era immancabilmente
un caporione del partito, un deputato oppure un senatore. Ben presto diventai un personaggio noto. Quando il
presidente dell’assemblea chiedeva: “Ci sono obiezioni?”,
io mi alzavo in piedi, e dicevo gentilmente: “Ci sarei io!
Chiedo la parola!”. In capo a due o tre settimane, il pubblico, vedendomi nella sala, già diceva: “C’est le Léon”! (ossia, “Ecco il leone”, qui si fa un gioco di parole tra “leone” e
il nome di Degrelle, Léon, ndt). Era il leone! Molto rapidamente divenne un vero e proprio rito».
D. E le reazioni socialiste?
R. «Il primo giorno andò abbastanza male. Mi ritrovai in
un gran pandemonio. Ero a Charleroi. Nella sala c’erano
più di duemila persone sovraeccitate, stupefatte nel vedere che un intruso fosse salito sul loro palco. Il giorno
dopo, il partito socialista, molto stupidamente, mi stava
già facendo una gigantesca propaganda, spiegando sulle
prime pagine dei suoi giornali, sotto titoli enormi, come
io fossi stato stritolato. Era quello che aspettavo. Dato che
ero il tipo che era stato stritolato, se avessi tentato di tornare, sarebbero certamente andati tutti a rivedere quello
“stritolamento”! E ovviamente lo feci. E la mia posizione
cambiò rapidamente. Sono abbastanza bravo nel coinvolgere il popolo, con allegria, con umorismo e con emozioni, servendomi di un linguaggio semplice, divertente,
diretto, strizzando in maniera complice l’occhio alla bella
ragazzona che è fuori dai gangheri: tutte cose che quei
grossi papaveri socialisti, imbolsiti e imborghesiti, non
erano più capaci di fare. Uno Spaak, per esempio, che fu
primo ministro, aveva origini borghesi e un borghese era
restato, così ampolloso e solenne. Fisicamente era troppo grasso. E soprattutto non pensava con la pancia del
popolano.
In poche settimane, andavo già alla grande. Il contraddittorio che quasi tutte le sere inscenavo davanti al pubblico
faceva sempre più crescere l’interesse per quelle assemblee socialiste. Il duello oratorio diventava una sorta di
combattimento di boxe, un’esibizione sportiva: si veniva
solo per assistere a questo!
Certo, il rischio di fare più male che bene era reale, perché
in quel modo io ridavo vita a quei vecchi ritrovi socialisti
pieni di naftalina. Ma c’era anche un aspetto positivo: se
fossi riuscito ad avere davvero dei doni per convincere la
gente, se fossi riuscito ad avere più temperamento del
mio avversario, più fiato dell’avversario, e una pellaccia
tanto solida da poter sopportare qualche colpo ben as-
D. Quale fu la tattica per conquistare queste masse che lei
voleva mobilitare?
R. «Per raggiungere queste masse, bisognava innanzitutto eliminare due ostacoli. Queste persone non erano
facilmente convocabili. E, per convocarle, era necessario
spendere molto denaro.
Un raduno costa molto. Bisogna pagare la sala. Bisogna
pagare il riscaldamento. Non avevo mezzi economici.
Inoltre, anche se li avessi avuti, le folle m’ignoravano, non
sarebbero mai venute.
Quindi, ho fatto un calcolo: c’è un solo sistema, ed è andare a cercare la gente là dove si ritrova.
Orbene, la massa operaia, anche se delusa dal socialismo,
abbandonata, scoraggiata, tuttavia continuava a frequentare le assemblee che si tenevano in quegli edifici chiamati “Case del popolo” o “Palazzi del popolo”. Quindi, se la
volevo avvicinare, non mi restava che un’unica possibilità: dovevo andare là. Nessuno c’era mai stato. Chiunque
si fosse avventurato a portarvi la contraddizione avrebbe
rischiato con alte probabilità di farsi spaccare la faccia.
Tuttavia, questo è ciò che decisi di rischiare ed è questo
che ha fatto sì che in poco tempo riuscii ad attrarre a me
una parte considerevole della massa operaia belga».
D. Quale fu la sua tattica?
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sestato (un giorno sono uscito da uno di questi incontri
con una frattura al cranio), allora avrei potuto averla vinta
io, e sarei riuscito a conquistare considerevoli folle di sinistra che in qualsiasi altro modo per me sarebbero rimaste
inaccessibili.
Ed è proprio a questo punto che entra in gioco la storia di
un prete, perché è soprattutto grazie a un prete che io ho
conquistato gran parte della massa operaia belga».
che un brutto corvo. L’avrei catturato, gli avrei fatto la pelle! Qualsiasi cosa gli avessero detto i penitenti, ammesso
e non concesso che fosse davvero la verità – e nessuno
poteva certo saperlo –, il solo pensiero che lui potesse
rivelarlo in pubblico era disgustoso, perché gli avevano
dato la loro fiducia, in quanto lui era un prete, e nessun
pubblico al mondo aveva il diritto di metter il naso in simili confidenze, personali e segrete. Un ex prete che si arricchisce specializzandosi in rivelazioni di questo genere
non era altro che un delinquente, è ovvio.
Quindi, gli sarei saltato addosso, come direbbe lei. L’ho
braccato per tutte le sere. Tutte le sere! Non aveva scampo: appena apriva la sua bocca grassoccia, mi vedeva alzarmi in piedi dalla platea e chiedere la parola. Non c’era
alternativa: o lui o io. Sul campo sarebbe sopravvissuto
solo uno di noi due. Fu una sorta di epopea. Il prete libidinoso non riuscì neppure a giungere alla fine delle sue
ottanta conferenze scandalose perché lo abbattei prima,
mettendolo al tappeto in maniera terribile.
Di solito sono alquanto gentile al naturale, mi piace essere gradevole con le persone, ma quando un tipo si comporta da stronzo, e io lo voglio prendere, allora lo prendo,
e non scappa più.
Poiché quella baraonda aveva scosso tutto il Paese, ero
giunto a raccogliere diverse informazioni molto ben dettagliate sul comportamento di quel prete malizioso. Le
racconterò dei fatti che non sono che piccole storielle, ma
in politica, come un po’ in tutto, spesso è proprio un dettaglio che fa la differenza e permette di vincere. Come in
un combattimento in guerra: un soldato preso dal panico
taglia la corda e provoca la caduta di tutti; oppure uno
coraggioso si lancia l’attacco ed ecco: si ha vinto.
Ebbene, il colpo decisivo fu a Seraing, il grande bastione
rosso.
Erano convenute qualcosa come diecimila persone; era
stato chiamato a raccolta il pubblico delle grandi occasioni, c’erano deputati, senatori e, personaggio sensazionale, il capo del Libero pensiero francese in persona.
Si inizia. Il prete snocciola le sue parole, pesantemente
infami. Il grande vecchio del Libero pensiero parte con il
suo ritornello; il deputato marxista della zona ci aggiunge del suo, e alla fine arriva il mio turno.
Avvio abbastanza tranquillo. Per cinque minuti diverto
il pubblico con parole buffe, per rilassarlo. Dietro di me,
sento il presidente francese del Libero pensiero dire al
suo collega belga: “Quel ragazzo parla molto bene!”. Questo mi dà un coraggio formidabile.
Allora ho messo in azione la mia artiglieria pesante. Ho
iniziato a raccontare, inizialmente con pacatezza, la storia
romantica di un “prete”, come si trattasse di una vicenda edificante: “Che un prete s’innamori di una ragazza, è
umano; e se l’ama davvero, è una cosa che in sé può essere degna di tutto il nostro rispetto. Soprattutto se una
D. Davvero paradossale. Chi era questo prete?
R. «Questo prete si chiamava Moreau. Era un omone rubicondo, non certo un tipo cattivo, che aveva avuto delle
storie d’amore. Capita. Oggi preti simili si sposano, persino con delle duchesse, come ha fatto un ex gesuita a
Madrid che di colpo è diventato duca d’Alba; oppure, in
Belgio, l’abate di Maresdous, che è convolato a nozze con
la madre superiora di un convento vicino. La loro avventura diventa un evento quasi pittoresco, ripreso da tutti i
giornali. E si aprono loro le porte di tutta la stampa specializzata in storie sentimentali.
Ma una generazione fa questa cosa era vista ancora molto male. Questo padre Moreau, che si era tolto gli abiti
talari, e con una donna al suo fianco, si era più o meno
tratto d’impaccio da quella situazione mettendosi al servizio del Libero pensiero (ci si riferisce alle associazioni
del Libero pensiero, molto attive in area francofona al
tempo, che riuniscono laici, razionalisti e radicali, ndt). In
quel tempo, il socialismo era violentemente anticlericale. Davvero una grande stupidaggine, e pure una palese
mancanza di psicologia! Ma quell’anticlericalismo spesso
era una risposta all’antisocialismo di un alto clero ottuso.
Quel prete spretato venne introdotto nelle Case del popolo non perché rappresentasse un qualsivoglia interesse intellettuale, ma solo perché era un prete rinnegato. Il
partito socialista, il Libero pensiero, la massoneria in quei
tempi convivevano negli stessi edifici, in Belgio. Insieme,
avevano organizzato ottanta grandi incontri con questo
prete balordo, su temi come i “segreti della confessione” e
altre allettanti frottole.
A migliaia di operai, e, soprattutto, a migliaia di operaie,
visto che sono le donne quelle che amano di più le storie
perverse e morbose, si promettevano abbondanti confidenze scabrose, che i penitenti avevano fatto o non avevano fatto al curato Moreau durante le loro confessioni.
Egli avrebbe rivelato dei dettagli stuzzicanti.
Con un simile programma di rivelazioni spinte, annunciate con gran fragore, quel prete attirò immediatamente
moltissime persone».
D. Come ha condotto la sua controffensiva?
R. «Presi la mia decisione sul campo: quel prete non era
40
Intervista con Degrelle
ragazza, innamoratasi di un prete, fa quello che ha fatto
l’innamorata di questo prete: in questo caso, come vedrete, la storia può assumere i contorni di un racconto di
fate. Ma devo proprio raccontarvela tutta, perché la storia è bella, e vi commuoverà pure”. Così continuai: “A quel
prete farfallone era stata spostata la parrocchia: per un
intero anno, l’innamorata aveva dovuto vivere nascosta,
in un piccolo bugigattolo della canonica, tra le spazzole
e le scope, sotto la scala! Immaginate un po’! Consumarsi
d’amore tutto il giorno accanto a secchi e stracci, nel buio
di uno sgabuzzino, per poter andare, la notte, nel letto
del prete!”.
La folla vibrava. Affascinata non più così tanto dal curato Moreau, quanto piuttosto da questa eroina misteriosa
dello sgabuzzino per le scope della curia.
Avevo spostato la corrente: il nostro grosso prete, gonfio con una frittella di mele, non aveva più nulla dell’eroe
da romanzo. Mi lanciava occhiate inquiete. Per la folla, il
personaggio romantico era diventato la ragazza, quella
ragazza piena di fuoco che aveva atteso instancabilmente, stremata, intirizzita nel suo nascondiglio, per un anno,
quell’ora notturna per l’incontro!
“E allora – proseguii, alzando il tono della voce – ascoltate bene: questa ragazza davvero formidabile, i capelli
confusi con le ragnatele del suo sgabuzzino sotto la scala, attendeva senza fine, consumata dall’amore; ma se,
mentre l’amante era bloccata nel suo oscuro e angusto
rifugio della canonica tra gli stracci e le scope, se il prete
fosse andato a cercarsi un’altra?... se fosse andato a letto
con un’altra?... allora la bella storia cambierebbe proprio!
Allora si tratterebbe di uno sporco uccellaccio! Sì o no? Eh
sì! Sarebbe proprio un uccellaccio disgustoso!”.
Uccellaccio, uccellaccio! La folla aveva pensato immediatamente al corvo, il corvo gracchiante dell’antico anticlericalismo!
Ancora non era che una semplice supposizione, creata su
un amore anonimo. Ma il dongiovanni del confessionale,
sul quale ormai si erano fissati gli occhi di tutti, iniziò curiosamente a diventare verde d’ira in volto».
Iniziai coraggiosamente la lettura, giunsi sino alla fine.
L’immensa sala tratteneva il fiato, perché avevo mantenuto la suspense. Chi era mai quel prete? Il nostro era ormai
passato dal verde allo scarlatto.
Mi girai di scatto, mi piantai sotto il suo naso: “Prete – gli
gridai addosso – lei sa di chi è questo scritto schifoso? Chi
è l’uomo che ha tradito in modo così sporco e malato l’innamorata che stava sotto la scala? Prete, ce lo dica lei, di
chi è questa calligrafia? Di chi è questa firma? È sua, prete!
Lei si è comportato come il peggiore tra i delinquenti con
quella ragazza, folle di lei e presa in giro da lei! Ed è ancora più disgustoso il fatto che lei ora venga qui a pavoneggiarsi davanti alle tribune del popolo come se fosse
il liberatore morale di questo popolo. Mentre invece lei
non è altro che uno squallido personaggio da farsa!”.
Poi, di colpo, rivolgendomi soltanto alla folla: “Ecco il falso
eroe che vi hanno presentato! Che vi vogliono imporre!
Ecco come ci si prende gioco di voi! Guardatelo là, il vostro finto grande uomo che se la dà a gambe!”.
Sì, stava scappando! Si era alzato dal tavolo di tutta fretta
e stava correndo verso le quinte. Tutta la sala era in piedi,
tra un vocìo gigantesco. Si fece calare rapidamente il sipario. La battaglia con il prete Moreau era finita».
D. Uscì in trionfo da lì?
R. «A differenza di quanto si potrebbe immaginare, no.
Sono curiose le reazioni popolari. Dopo il ko, scendo dal
palco, m’infilo nel sotterraneo che, al di sotto della sala,
conduceva all’esterno. E mi ritrovo tutti là, tutta quella
folla ammassata. Sopra al mio completo nero avevo già
messo il mio cappotto grigio, quel mio vecchio pastrano
grigio che cambiava totalmente il mio aspetto. Mi avvicino a tre megere particolarmente esagitate:
“Ma che cosa si sta attendendo?
- Si attende il leone! Faremo i conti con lui!”.
Una volta fuori, i diecimila spettatori avevano immediatamente compreso che tutta la campagna anticlericale
del loro partito sarebbe stata liquidata. Per questo erano
lì, furiosi. Ho atteso con loro per una mezz’oretta e, visto
che quel benedetto Léon non si faceva vedere, si partì
tutti insieme in corteo cantando L’internazionale fino alla
stazione, dove io, lestamente, mi infilai nello scompartimento del mio treno di ritorno».
D. Lei era così sicuro di quello che stava facendo?
R. «Avanzai fino al bordo palco, proiettandomi letteralmente verso il pubblico: “E se il prete in questione avesse
scritto lettere come quella che vi sto per leggere?...”.
Tenevo in mano una lettera; era stata scritta dal curato
Moreau alla sua seconda conquista; era la lettera più pornografica che avessi mai letto in vita mia.
Oggi le folle sono giunte fino ai massimi limiti del porno; persino i peggiori eccessi diventano insulsi. Ma quel
prete era davvero il precursore di tutto questo! Nella sua
lettera c’era una descrizione anatomica degli attributi dei
due amanti assolutamente prodigiosa.
D. Fu questo successo che la convinse a organizzare autonomamente i suoi comizi?
R. «Sì. A partire da quel giorno, potevo permettermi di organizzare da solo i miei comizi, con la certezza di attrarre
il pubblico. Arrivai così al secondo stadio.
Fino ad allora le mie campagne oratorie – dato che i costi di quelle assemblee li pagavano interamente i socia41
listi! – mi erano venute a costare solo il prezzo del mio
abbonamento ferroviario e lo sfinimento di tutte le notti
a dormire male appoggiato a uno schienale in legno di
terza classe. Dato che tutte le notti mi toccava rientrare
alle due o alle tre del mattino, e spesso superavo la stazione di Louvain perché, stremato dalla stanchezza, mi ero
addormentato. Una notte la superai per ben due volte: la
prima me ne ero accorto risvegliandomi, assolutamente
furioso, a Bruxelles, e la seconda accadde quando tornai
indietro, verso Liegi, perché ero ripiombato nel sonno!
Ora, dopo aver conquistato gran parte del pubblico di sinistra direttamente a casa sua, ero diventato abbastanza
noto per passare direttamente all’assalto delle folle e agire servendomi dei miei soli mezzi.
Ma il vero problema non avevo fatto altro che posticiparlo di un poco: un comizio costa, e costa caro; dunque, chi
avrebbe pagato?».
R. «Vede, da quel momento la mia stampa frutta e fruttano pure i miei comizi. Il loro lavoro congiunto costituisce
un mezzo molto importante per conquistare l’opinione
pubblica. Le persone arrivano non perché le si supplica
di venire, ma perché sono interessate. Se non lo fossero,
non verrebbero di certo. E lo stesso si può dire senza ombra di dubbio dei nostri giornali.
Ogni giorno, eccomi in strada che percorro tutto il Paese.
All’inizio, piccole platee, e ben presto grandi platee. Mi
arrischio a fare il mio primo vero comizio di massa niente
di meno che a Bruxelles. Decido di farlo il 1° maggio, il 1°
maggio del 1935.
Perfetto, mi dico: Primo maggio. E questo le farà già intuire che stavo continuando nella mia linea di conquista
delle masse operaie. Il Primo maggio era la festa sacra dei
marxisti. Ma io non ero disposto ad accettare questo monopolio. Per me è la festa di tutti coloro che fanno parte
del popolo e che vogliono il bene del popolo. Quel giorno là volevo sfidare i signorotti socialisti, e proprio a Bruxelles, dove loro stessi ormai riuscivano a fare solo uno
scarno corteo. Ecco allora che affitto la sala più importante dell’epoca, che si chiamava Cirque Royal. Cinquemila
posti. Era ormai da tantissimo tempo che a Bruxelles non
si riuscivano più a fare comizi politici da cinquemila persone.
E la stessa scelta della sala aveva un senso, visto che era
stato lì che aveva parlato per l’ultima volta il grande capo
del socialismo francese, Jaurès, assassinato l’indomani a
Parigi, il 31 luglio del 1914.
Fin dall’inizio della mia azione politica, ho tenuto molto
a dare un gusto particolare ai miei raduni, perché nei comizi esistono anche dei gusti specifici. Un comizio non
deve mai essere tenuto in una sala squallida, che presto si
riempie di fumo, oppure in cui è impossibile creare un’atmosfera. Subito dopo ho fatto sì che si mettessero delle alte tribune, delle grandi bandiere, degli altoparlanti
e dei gruppi di fan, per dirla come oggi, che lanciavano
potenti slogan. Al Cirque Royal feci persino suonare delle trombe araldiche. Il grande giornale La Libre Belgique,
non molto esperto in campo musicale, nella sua cronaca
del giorno dopo parlerà di trombe d’ebano (qui si tratta di un gioco di parole comprensibile solo dal francese,
dove la tromba araldica si chiama “trompette thébaine” e
la tromba d’ebano “trompette d’ébène”, ndt), come se a
salutare l’arrivo dei nostri oratori fossero stati dei Cafri o
dei Senegalesi.
Dunque, grande comizio al Cirque Royal, assolutamente
strapieno. Io ero ancora molto giovane. Chi mai mi conosceva a Bruxelles? Così, alquanto prudentemente, avevo
spinto prima di me alcuni nomi noti; avevo portato sul
palco Pierre Daye e Pierre Nothomb, due scrittori che
andavano per la maggiore; avevo mobilitato persino un
frate domenicano, così assolutamente teatrale nelle sue
D. Questa ricetta è riuscito a scovarla?
R. «Ecco la prima legge che da quel momento dominerà
per tutta la vita la mia eloquenza politica: pagherà il pubblico.
Prima di me, mai nessun uomo politico in Belgio aveva fatto pagare l’organizzazione dei propri comizi dagli
spettatori. I politici erano già sufficientemente felici se
alcune manciate di persone si degnavano di scomodarsi
per andarli a sentire. Con me, invece, fin dalla prima volta
si sarebbe pagato. Non si sarebbe mai pagato meno di
cinque franchi, e questo valeva per il luogo più modesto.
A quei tempi, cinque franchi era una somma considerevole: quaranta volte più del prezzo di un quotidiano.
Io la spiegavo così questa procedura al pubblico:
“Tutto costa: affittare delle sale, illuminarle, riscaldarle,
organizzare le campagne di propaganda. Se ne vanno via
migliaia di franchi. Dagli altri, certo, tutto è gratuito. Ma in
ogni caso c’è sempre qualcuno che paga! E voi ignorate
chi sia! E questa è una cosa losca. Qui invece siete voi a
farlo, qui è tutto pulito, alla luce del sole”.
Poi aggiungevo, ridacchiando:
“Per vedere un idiota al cinema tutti voi pagate. Allora,
perché non dovreste pagare per vedere me, esattamente
come si fa con l’idiota?”.
Questa formula dei comizi a pagamento la folla la adottò
immediatamente. Ed è così che fino all’ultimo giorno delle mie grandi campagne elettorali era necessario pagare!
I miei innumerevoli comizi, invece di essere un onere finanziario, erano così destinati a diventare una delle maggiori risorse del Movimento Rexista».
D. Nell’organizzazione dei suoi comizi, utilizzava una tattica particolare?
42
Intervista con Degrelle
pesanti vesti nere e bianche».
il movimento rexista si manteneva autonomamente. Tutti
i nostri attivisti – come peraltro io – prestavano gratuitamente la loro opera. Il contrario non sarebbe stato pensabile, sarebbe stata una cosa vergognosa. Ovviamente,
tutti quei camion che dovevano portare i giornali rappresentavano delle grandi somme che gli attivisti dovevano
pagare in contanti. Per farcela, era necessario sudare.
Così, i nostri ragazzi e le nostre ragazze ce la mettevano
tutta, davvero tutta, iper-efficienti. A partire dal pomeriggio del sabato, invadevano le grandi vie, poi i ristoranti, i
caffè, si mettevano agli ingressi dei cinema. Dalle sei del
mattino della domenica, incalzavano i fedeli davanti alle
chiese. E se a mezzogiorno restavano ancora delle copie
invendute, allora era necessario andare a venderle fuori
dalla città. Salivano sulle loro bici e, come truppe gioiose, percorrevano i villaggi dei dintorni, arrivando fino alle
più lontane campagne. Essi conquistarono un pubblico
enorme, che ci leggeva sempre più, che divorava con
passione il giornale più appassionato di tutti, nel quale
rombava e rimbombava come un tuono la grande campagna vendicatrice che avevo intrapreso contro quelli
che avevo definito i “marci”».
D. E che ruolo aveva riservato a se stesso?
R. «Io ho parlato per ultimo.
Bisogna sempre parlare per ultimi. Il pubblico si ricorda
dell’ultimo.
In una sola ora, tanto parlai, avevo conquistato il mio primo grande pubblico.
Allora, a partire da quel momento, tutto si scatenò a raffica.
Pressoché tutti i giorni un comizio, e talvolta persino tre,
quattro o cinque in una sola giornata.
Parlavo ovunque. Il dibattito era sempre molto vivo e acceso. Anche io in passato avevo dovuto chiedere la parola
in casa degli altri e in ogni caso ho sempre continuato ad
andarci; quindi ora, pure loro potevano, se lo volevano,
venire lì sul palco a confrontarsi con me. Anche se, a dire
il vero, erano in pochi che si arrischiavano.
L’agitazione rexista iniziava a diffondersi ovunque; i miei
gruppi di propaganda s’infoltivano. Ormai ne avevo in
tutte le regioni del Paese. Autonomamente, i ragazzi e
le ragazze s’inventarono una sorta di uniforme in velluto
blu, gradevole e di grande effetto. Nel contempo, assieme ai miei comizi crescevano anche le vendite dei miei
giornali.
Il circolo più dinamico era quello di Liegi, che era stato
messo in piedi da un ragazzo molto giovane che si chiamava François Gillisen. Avrebbe rivoluzionato quella città
ardente che, poco dopo, ci avrebbe dato ben tre deputati.
Le nostre campagne di stampa, così come i comizi, stavano dando il via al movimento attraverso tutto il Paese».
D. I “marci” erano i capi degli ambienti politico-finanziari?
R. «Certo. Senza volerlo e montando contro di me le loro
trappole, erano stati loro stessi a lanciarmi tra le braccia
delle folle.
Era stato a causa loro che avevo dovuto separarmi
dall’Azione cattolica, per non comprometterla, per non
farle perdere una parte delle sue risorse.
Ma, felice concomitanza, in quella maniera mi ero ritrovato perfettamente libero di agire. Liberato da qualsiasi
legame, ho potuto lanciarmi a corpo morto in una campagna di una violenza senza precedenti. Mai, mai prima
d’allora, i grandi banchieri e i grandi magnati politicofinanziari erano stati trattati così. Li afferravo per il fondo dei pantaloni, li scuotevo, li ribaltavo, facendoli colare
davanti al mio pubblico, li attaccavo, indegni, al muro. Era
un vero e proprio massacro.
Ed è allora che ho realizzato il mio primo grande colpo a effetto, quello che è stato chiamato il “Colpo di Courtrai”».
D. E tutto questo bastava per finanziare il suo movimento?
R. «Ecco come ce la feci.
La maggior parte dei numeri di Rex, circa centocinquantamila copie – sulle duecentocinquantamila copie di tiratura abituale – veniva venduta dalle nostre sezioni.
Ciascuno dei nostri gruppi acquistava il suo pacco di copie. Non gliele si dava in conto deposito. No. Dovevano
acquistarle e basta. Le cose erano chiare: i numeri erano
acquistati, indi dovevano essere pagati subito. Nessuna
possibilità di rendere l’invenduto.
Di contro, le nostre squadre beneficiavano di sconti. Se
acquistavano molte copie, gli sconti potevano anche diventare notevoli.
Liegi, per esempio, che acquistava sull’unghia diecimila
numeri a settimana, aveva il 50% di sconto. Questo vuol
dire che ben presto tutte le nostre sezioni iniziarono a vivere grazie ai loro sforzi, più copie vendevano, più potevano autofinanziarsi con le percentuali di sconto. Ovunque,
43
Intervista con Degrelle
settimo capitolo
Traduzione italiana a cura di Monica Mainardi
CAPITOLO SETTIMO
In sei mesi la vittoria
o dieci rappresentanti delle associazioni principali, erano tutti
rincitrulliti e pensionati.
Quei congressi non rappresentavano nulla di che, eppure finivano regolarmente sui giornali e la stampa dedicava loro intere
pagine. Vi si pubblicavano tutti gli interventi, che erano stati in
precedenza ciclostilati. Eccomi allora davanti all’edificio dove si
teneva l’assemblea. Vado a fare un piccolo giro d’ispezione nella sala del congresso. Era una sala stretta e lunga, alla fine della
quale stava un palco, una sorta di piccolo salotto sopraelevato.
Dietro, c’era una porta, dalla quale entravano e uscivano le autorità. Nella serratura stava una grande chiave; me la metto in
tasca e la consegno in seguito a uno dei miei ragazzi:
“Non scordatevelo: quando saranno giunti tutti sul palco, voi
chiuderete la porta dietro di voi. E mi riporterete la chiave”.
Così li avrei rinchiusi, e non sarebbero riusciti più a fuggire in
caso di scompiglio; da quel momento in poi, sarebbero stati
miei prigionieri».
L’«assalto di Courtrai» o l’annientamento di un ministro – Compromissione della Chiesa cattolica con i «marci» – La schiavitù
della grande stampa – Degrelle raduna i Belgi nel Palazzo dello
Sport – La fede è più forte del denaro – «Léon, tu verrai condannato» – Partito? No! Movimento? Sì! – Contrattacco dei partiti
politici: cogliere di sorpresa Degrelle con lo scioglimento del
Parlamento – Come, con 10.000 franchi, si riesce a creare un
grande quotidiano – Quattordici incontri al giorno – L’uomo
che sa infiammare le folle – Le 300.000 ramazze di Degrelle.
D. Che cos’è stato l’«assalto di Courtrai»?
R. «Il numero uno dei “marci” che denunciavo con feroce vigore era il capo del Partito cattolico belga, più esattamente il
capo della “Federazione e dei Circoli cattolici belgi”. Si chiamava Segers ed era un ministro: un omuncolo pelato, ipocrita, la
voce acuta, raggrinzito sotto il suo cappello a bombetta.
Come ogni anno, aveva organizzato un congresso del suo Partito cattolico a Courtrai, una grande città fiamminga vicina alla
frontiera francese. Il poveretto aveva scelto male la data, perché era il giorno dei morti, il 2 novembre del 1935. Fu là, e in
quel giorno, che io decisi di farlo a pezzi.
Avevo già assistito da spettatore a qualcuno dei suoi soporiferi
congressi. Personalmente, non ho mai fatto parte del Partito
cattolico. Io ero assolutamente indipendente. La mia tendenza
mi aveva spinto verso quella parte perché ero profondamente
cristiano, ma non avevo nulla a che spartire con quei bonzi che
parevano pietrificati come faraoni mummificati.
Quindi, convoco i miei ragazzi. Ma non le ragazze. Loro, ho preferito lasciarle fuori da questa bagarre; a quel tempo, le loro
graziose gonne avrebbero provocato uno scandalo all’interno
di quell’assemblea! In segreto, mobilito, da varie nostre sezioni, trecento giovani, che si devono radunare il sabato nelle loro
sedi. Bagaglio: una coperta e una pagnotta. Dò ordine a ogni
capo locale di affittare uno o due autobus, a seconda degli
effettivi che devono trasportare. Ma nessuno sapeva dove sarebbero dovuti andare. Il capo della sezione doveva, a mezzogiorno di sabato, aprire una lettera nella quale io avrei indicato
il luogo in cui quella truppa si sarebbe dovuta presentare: a
Courtrai, alle 15,30.
Alle quattro del pomeriggio, la mia piccola truppa d’assalto era
tutta presente».
D. E poi?
R. «Poi, i miei trecento ragazzi mobilitati si mescolarono abilmente tra la gente in sala. Davanti a loro presero posto, compassate, le autorità, il vecchio ministro Segers in testa. Tra vasi
di fiori e piante di palma.
Segers iniziò il suo solito sproloquio, fintamente commosso:
“Che gioia per me, nella mia vecchiaia, vedere qui riunita tanta
bella gioventù!”.
“Ma non ci prenda per i fondelli”, gli replicò un impertinente!
Questa replica rischiava di rompere l’armonia, ed era prematuro farlo. Feci così zittire il disturbatore. Poi, quando Segers ebbe
finito il suo pistolotto, mi alzai. E dissi:
“Vorrei iscrivermi a parlare”.
Il ministro non ebbe nulla da ridire: “Perfetto, d’accordo! Ma dovete capire che prima è necessario permettere agli altri oratori
ufficiali di leggere le loro relazioni”.
Era giusto. Mi risedetti. Per due ore, quei fanfaroni lessero dozzine di pagine. Una noia mortale. Quando alla fine ebbero finito, mi rialzai.
“Ora, chiedo per la seconda volta la parola”.
“E io ve la nego”, rispose il ministro Segers con la sua voce stridula. Con un balzo, saltai sul palco.
Eccomi tra le palme, con alle spalle il ministro Segers che bofonchiava non sapendo più che dire, così come la maggior parte dei membri del governo, che si contorcevano sulle loro sedie
di paglia. E allora iniziò la mia opera di abbattimento. Avevo
finalmente l’occasione di dire tutto ciò che pensavo di loro,
della loro mancanza di autorità, della loro mancanza di spirito
sociale e della loro corruzione.
Quel 2 novembre del 1932, me la presi soprattutto con il ministro, il padrone di quel luogo, il gran visir di quel vecchio partito
cosiddetto cattolico. Certo, ancora oggi esistono dei tipi di cor-
D. Il suo piano qual era?
R. «Da lontano, quei Congressi del partito cattolico parevano
cose straordinarie. Da vicino, però, non erano altro che un
raduno di un centinaio di Matusalemme indolenziti e tremolanti: i senatori e i deputati più importanti, così come gli otto
50
Intervista con Degrelle
ruzione simili a quella che io smascherai allora in Belgio. Anzi,
oggi sono anche più estese, perché le grosse imprese straniere – come per esempio la Lockheed, ma anche le mafie della
droga – si sono messe a loro volta a corrompere. E lo fanno
alla grande, con dei mezzi finanziari infinitamente più corposi
rispetto a quelli di cui disponevano le forze economiche di un
tempo, che erano limitate sia nello spazio sia nella forma delle loro azioni. Basti pensare che un ex primo ministro belga,
come il socialista Paul-Henri Spaak, dopo il 1945 divenne amministratore dell’I.T.T., con uno stipendio stellare, nonostante la
sua totale incompetenza nel campo. Oggi si riesce a “sedurre”
senza fatica, a colpi di milioni di dollari, un principe ereditario
dell’Olanda, così come un pascià orientale, o un primo ministro
italiano o giapponese. Persino il Vaticano è coinvolto in enormi
intrallazzi. Ma, tranne uno e due scandali di cui si percepisce
l’esistenza a causa dell’atto maldestro di qualcuno – e che poi
vengono subito accuratamente occultati – queste compromissioni di massa di solito vengano tenute nascoste con estrema
cura. Rivelarle sarebbe assolutamente disdicevole. Questo brigantaggio internazionale è stato assunto a forma usuale di vita
– e di bella vita – dai politici e dai partiti che stanno al potere da
Parigi a Bonn, da Roma a Kinshasa, da Chicago a Tokyo.
E adesso neppure io sto più in Belgio, e non posso più mettere
a nudo i “marci” – che quindi ora non hanno più fifa di finire in
una retata. Finalmente festeggiano».
questi c’era un certo Philips, senatore cattolico, nominato su
ordine del cardinale in persona. Sì, proprio dal cardinale! Un
cardinale faceva nominare senatore un pescecane della finanza, marcio fino alla punta dei capelli!».
D. Come poteva essere mai possibile un simile abuso d’influenza?
R. «Glielo spiegherò, ma lei ascolti bene. In Belgio esistono dei
senatori cosiddetti cooptati, che sono scelti dallo stesso Senato, e che vengono ripartiti numericamente a seconda dell’importanza dei partiti. I cattolici del Senato avevano designato
come candidato per questo posto Firmin van den Bosch, un
magistrato di fama internazionale, per di più eccellente scrittore cattolico. Ma il cardinale Van Roey aveva annullato all’ultimo
istante questa nomina, per imporre il suo protetto.
Questo Philips era l’uomo di punta di “Boerenbond”, vale a dire
di quel grande organismo bancario delle Fiandre che assicurava ogni anno all’arcivescovado vari milioni di gradite donazioni.
Per sua sfortuna, questo Philips a Courtrai stava proprio davanti a me. Era un orrendo nanerottolo, con la testa da facocero.
Mi ero scagliato contro di lui, gli avevo dato dell’“escremento
vivente”. E lui aveva incassato quella valanga d’insulti, senza
neppure osare di muovere un poco quella sua subdola faccia,
violetta, che proprio al centro del naso aveva un neo rossastro.
E sotto il palco, sempre davanti a me, stava anche l’ex ministro
Berryer, che aveva avuto dei guai bancari a Liegi. Così gli dissi:
“E lei, con quei suoi occhi da rospo”.
Aveva degli occhi enormi, sporgenti, glauchi, pronti a uscire
dalle orbite, simili a ventose vitree. Lo spiaccicai in modo terribile. La carneficina terminò tra urla di acclamazione: tutti i miei
ragazzi, in piedi, gridavano, gesticolavano, poi s’inquadrarono,
facendo passare tra loro, sbeffeggiandoli, quegli eroi ormai caduti che se ne andavano bofonchiando».
D. Ma che cosa la spingeva?
R. «Denunciando quei costumi e smascherando in prima persona i corrotti, ho semplicemente detto ciò che nessuno osava dire all’epoca e che oggi si dovrebbe dire con una forza
maggiorata di almeno cento volte, visto che ormai gli scandali
adesso hanno preso una dimensione mondiale. Ma ai giorni
nostri, al posto di usare le ramazze per liberarsi dalla sozzura
si utilizzano delle spazzole per lucidare. Io non riuscivo a sopportare quel sudiciume politico-finanziario: mi faceva andare
il sangue alla testa; così lo feci a pezzi. Ho gridato, urlato, per
tutto il tempo che era necessario, braccando i ladri di Stato,
additando questi malfattori davanti alle loro vittime, e infine
gettandoli nel fango.
Quel giorno, a Courtrai, il 2 novembre del 1935, me la presi dapprima con il ministro Segers, perché era stato ingiusto
nell’avviare l’opera di pulizia iniziando dai pesci piccoli. Era ai
vertici che bisognava mirare e colpire.
Un ometto come quel ministro Segers, di cui stavo annientando la carriera, per cupidigia aveva fiancheggiato tutta una serie di raggiri bancari. Per rimpinguare delle aziende finanziarie
di cui faceva parte, aveva saccheggiato i fondi dalla Cassa di
risparmio, vale a dire i soldi della povera gente. Questi politici, che avevano come missione proprio la difesa della povera
gente, razziavano cinicamente e in segreto i loro risparmi per
favorire i privilegiati che essi proteggevano!
A Courtrai, una volta giunto sul palco, mi lanciai in una spaventosa opera di demolizione.
Allora, Segers e i suoi bonzi cercarono di togliersi di scena e di
andarsene via, ma si scontrarono ahimè con la porta alle loro
spalle, che era stata saggiamente chiusa. Una volta regolato il
conto con Segers, me la presi con gli altri politici-affaristi che
erano proprio di fronte a me, in prima fila tra il pubblico. Tra
D. Immagino che un simile scandalo abbia poi scatenato notevoli reazioni sulla stampa.
R. «Quei vecchi barboni corrotti erano forti. Avevano in mano
la stampa. Quando, l’indomani, ci precipitammo sui giornali del
mattino, non trovammo neppure una riga su quanto era avvenuto il giorno prima. Si parla sempre delle libertà democratiche, e in particolare della libertà di stampa. Una vera panzana! I
grandi giornali sono alla mercé dei loro proprietari. E spesso lo
sono anche oggi. E lo saranno ancora di più in futuro, tenuti al
guinzaglio dai gruppi finanziari, dai grandi mogul del capitale
anonimo, dispensatori di finanziamenti e di budget pubblicitari. Senza di essi, i giornali creperebbero quasi tutti, come dei
pesci che tirano gli ultimi quando li si tira fuori dall’acqua. Basta
una sola parola dei veri padroni e gli articoli vengono cancellati, o trasformati, o sfigurati, o resi vere e proprie caricature.
Neppure una parola, dunque, il 3 novembre 1935, su quel nostro assalto, a parte un breve resoconto, dato come nota di colore – e subito cancellato nella seconda edizione! – scritto dal
giornalista Max Hodrige per le Vingtième Siècle».
D. Quindi, quella vostra trappola non era servita a nulla?
51
R. «In realtà, avevo previsto quell’esito e quindi mi ero preparato.
Le Soir, il più importante giornale belga, aveva un segretario
generale che si chiamava Maurice Gaucher, del quale io avevo
stampato qualche scritto. Su Rex pubblicavo articoli giunti da
ogni parte del mondo. Se qualcuno m’inviava un buon articolo, lo pubblicavo. Quel brav’uomo di Gaucher aveva una gran
voglia di scrivere. Non aveva una penna che infiammava, ma
non era neppure così tremendo, e soprattutto m’interessava
avere un contatto con questo laborioso scrittore. Quindi, avevo
più volte pubblicato dei suoi testi. Ed eravamo entrati in buoni
rapporti.
Così andai a trovarlo: “Mio buon Gaucher, posso dare al tuo
giornale uno scandalo di prim’ordine, e te lo dò in esclusiva. Ma
ho bisogno di due colonne su Le Soir e della mia foto”.
Ho sempre dato molta importanza alle foto: esse avvicinano il
pubblico più di qualsiasi testo scritto. Possedevo un bellissimo
ritratto che era stato realizzato da Alfred Martin, di Liegi; e lo
portai a Gaucher.
“A buon rendere: se tu mi prometti le due colonne e la foto, io
ti dò lo scandalo”.
Accordo fatto.
L’indomani del mio “crimine” a Courtrai, io ero quindi già sicuro
che, grazie a Le Soir, che usciva alle due del pomeriggio, quella
bomba sarebbe esplosa. Alla faccia della stampa benpensante
del mattino, che aveva assolutamente ignorato la notizia».
D. «In men che non si dica, contro-offensiva: sfido il ministro
Segers al Palazzo dello Sport!
Il Palazzo dello Sport a Bruxelles era il tempio della famosa “Sei
giorni”; era lì che si svolgevano i grandi combattimenti mondiali di boxe e le grandi competizioni ciclistiche. Nessuno aveva
mai pensato di farvi svolgere un grande incontro politico. Venticinquemila posti! Noi stavamo per lanciare un nuovo tipo di
competizione.
Un ragazzetto che sfidava un anziano ministro, decorato fino
alle ginocchia: che match! Un chiassoso debuttante che prometteva che avrebbe messo al tappeto quell’assoluto campione! Era proprio quello che serviva per attrarre la folla.
“Che cosa accadrà? – si chiedevano gli abitanti di Bruxelles. –
Questo Degrelle ha lanciato delle accuse terribili contro Segers.
Si azzufferanno, si daranno dei colpi tremendi! Al Palazzo dello
Sport si vedrà un favoloso spettacolo sportivo! Non si può non
andarci!”.
Questa battaglia si sarebbe tenuta poco dopo: l’11 novembre,
ossia nove giorni dopo la lite di Courtrai del 2 novembre».
D. Perché la scelta di questa data?
R. «L’11 novembre era il giorno dell’anniversario dell’Armistizio
che, l’11 novembre 1918, aveva messo fine alla Prima guerra
mondiale. Era il giorno di tutti gli ex combattenti, ma era anche
un giorno di festa, in cui tutti sarebbero stati a casa dal lavoro. Tappezzai la capitale belga con manifesti enormi fin dalle
prime ore di quella mia decisione. Avevo fissato il mio budget:
centomila franchi. Avrei quindi dovuto raccogliere centomila
franchi. Un gran rischio. Rischio del tutto nuovo, visto che nessuno mai prima di allora aveva tentato un’operazione sportiva
di quel genere.
Ma andò anche meglio del previsto: ho speso centomila franchi, ma ne riuscii a raccogliere centosettemila. L’11 novembre
1935, alla sera, una folla immensa si dirigeva verso il Palazzo
dello Sport, trascinata da tutto il battage della stampa avversa
e dalla mia propaganda murale, che aveva tappezzato Bruxelles fin nel più lontano quartiere.
Ancora oggi mi rivedo mentre attendo in una piccola stanzetta, al primo piano, e dove, evitando di pensare a qualsiasi altra
preoccupazione, dicevo il rosario. Era quello il mio sistema: nel
momento in cui bisogna lanciarsi nell’azione, è inutile preparare bei discorsi! Se s’impara qualcosa a memoria, poi è certo
che si finisce per balbettare penosamente, impigliandosi nelle
maglie della paura. Quando è giunto il momento, è solo l’eloquenza della verità che riesce a ergersi. La sola cosa di cui avevo bisogno era allora della grazia di Dio.
Ed è in quel momento che un operaio fiammingo ha socchiuso
la porta, dicendo solo questo:
“La sala è bombata!”.
Un brav’uomo; per lui, bombata era una parola più evocatrice
di zeppa! La sala era bombata! E così sono entrato in quella sala
bombata.
Non era semplice, perché di quell’immenso pubblico che brulicava, almeno i nove decimi erano lì solo per curiosità. I ragazzi
e le ragazze delle mie formazioni rexiste rappresentavano al
massimo il dieci per cento di tutta l’assemblea. Così mi trovavo con venticinquemila persone calcate nell’arena che erano
D. E bastò questo?
R. «Per essere ancor più pronto, avevo anche scovato uno spilungone, che si chiamava Charles d’Ydewalle, che, rubando
quel titolo a un omonimo libro di Victor Hugo, ogni lunedì scriveva la rubrica “Cose viste” su La Nation belge. Pareva un buffo
trampoliere, con un gran naso e la mascella un po’ di sghimbescio. Scriveva con facilità di qualsivoglia cosa. Era il produttore
più prolifico del mio settimanale. Era avaro. Ma lo pagavo bene.
Dunque, mi era fedele. Almeno a quel tempo. Lo è restato fino
a quando il vento della fortuna non è cambiato e non sono più
riuscito a dargli lo stesso denaro che in precedenza. Ma a quel
punto non mi serviva neppure più! Con lui scelsi una strategia
d’imbonimento simile a quella tenuta con Gaucher, che era stato incaricato di dare il gran colpo il primo giorno.
“Charles – gli dissi – per il prossimo lunedì ti posso dare un pezzo per ‘Cose viste’ davvero formidabile. Se vuoi, lo avrai. Devi
solo promettermi il completo silenzio fino al momento in cui
esploderà la bomba”. Lo avevo fatto salire su uno dei nostri autobus. E due giorni dopo, come convenuto, pubblicò un articolo gioiosamente feroce.
Dopo questi due reportage, i vari Segers e la loro cricca di grandi capi politico-finanziari non ebbero più la possibilità di frenare lo scandalo. Tutti i giornali di partito si erano ritrovati giocoforza costretti a pubblicare degli articoli pompieri, in cui mi si
ricopriva di insulti. E questo è esattamente quello che desideravo. Questa reazione furiosa agitò con forza l’opinione pubblica.
Me ne fregavo del fatto che si dicessero cose tremende su di
me, e che per me non avevano poi nulla di così tremendo. Ma
in compenso riuscivano a eccitare il grande pubblico».
D. Quindi, suppongo che questo le permise di reagire.
52
Intervista con Degrelle
venute per veder litigare, come in un combattimento tra leoni,
in primo luogo un anziano ministro e poi, incidentalmente, un
giovanotto, che, non più tardi di un mese prima, nessuno di
loro ancora conosceva».
sta in pista, vale a dire che per sei giorni di seguito questa sala
gigantesca si riempì con folle da venticinquemila a trentamila
persone, mentre dozzine di migliaia di persone erano obbligate a restarsene fuori, davanti agli altoparlanti.
Sei giorni! Una grande città, una capitale paralizzata per sei
sere di seguito dallo stesso giovane ragazzo, completamente
solo sul suo palco! A tal punto che l’ultimo giorno di questa
mia Sei giorni, fin dall’una del pomeriggio non c’era più la possibilità di inserire neppure più una persona all’interno dell’immenso locale, sebbene fossero state persino tolte tutte le sedie
per lasciare più spazio. E durante questa incredibile Sei giorni
il pubblico versò più di ottocentomila franchi per il biglietto
d’ingresso! Lo calcoli pure quanto varrebbero oggi!
Ebbene, questa è la riprova che un giovane uomo, senza denaro, ma sorretto dalla sua fede, che freme per l’impetuosità della
verità, e che sa trasmette la sua dottrina e la sua passione, può
smuovere qualsiasi folla – sia essa amica, neutra o nemica – e
farla sollevare nell’ora cruciale. La prova splendente di tutto ciò
era stata data quell’11 novembre 1935, al Palazzo dello Sport».
D. Come si comportò il ministro Segers?
R. «Non disse niente quell’anziano ometto! Non era lì! Evidentemente non era venuto! Non voleva prestarsi a una simile propaganda a favore del suo persecutore! E non voleva neppure
farsi sbudellare, farsi strappare il pelo come si fa con un vecchio
cavallo tignoso. Ma io non avevo dubitato neppure per un secondo di questo suo forfait, di questa sua fuga. Sapevo bene
che mi sarei ritrovato di punto in bianco davanti a un pubblico
deluso, che non capiva più che cosa fosse venuto a vedere, e
che non provava neppure una gran simpatia nei miei confronti.
Tutto dipendeva quindi dal mio dinamismo.
Avevo fatto innalzare un palco gigantesco, di dodici metri d’altezza. Salii sul podio. Ero appena salito che, patatrac! Una rissa!
Perché i comunisti avevano intuito che se fossi riuscito a parlare
avrei vinto. Mi avevano ascoltato centinaia di volte nelle località
operaie. Avevano visto come avevo messo nel sacco gli agitatori marxisti più famosi, e su tutti la loro cavia vestita da prete, il
curato Moreau. Si dicevano: bisogna assolutamente impedirgli
di cominciare. Ma una rissa avrebbe implicato l’arrivo della polizia, che mi avrebbe fatto scendere dal palco e avrebbe fatto
finire quell’incontro ancor prima che potesse iniziare!».
D. Quale fu l’atteggiamento dell’alto clero belga? Immagino
che il cardinale Van Roey non abbia assistito a tutto questo
senza reagire.
R. «A partire da quel momento, ovviamente, il regime ha iniziato ad agitarsi, e poi a moltiplicare le sue trappole.
All’inizio, ed era pure ovvio, si andava in giro a dire che non
ero altro che un galoppino, quindi uno zero assoluto. Ma passi
pure. Altri aggiungevano dei dettagli inventati: che in passato
ero stato un lottatore oppure che ero stato mozzo in America
del Sud su una nave che trasportava carbone. E altre vaccate
simili. Fino alla mia vittoria del 1936, molti hanno creduto che
l’apparizione del fenomeno Degrelle non sarebbe stato che un
buffo incidente. Cinquant’anni dopo, quell’incidente dura ancora! Io sono ancora qui, vivo e vegeto, e ho ancora tutte le mie
munizioni.
Quelli che avrebbero dovuto reagire immediatamente erano i
gangster del grande capitale, i cosiddetti «banksters», come li
avevo subito soprannominati. Ma non potevano far molto contro la violenza incredibile delle mie defenestrazioni. Io davo
loro dei colpi così forti che se ne fuggivano subito a gambe levate. I partiti e la stampa credevano che fosse ancora sensato
temporeggiare. Non così la pensavano invece i dirigenti politico-finanziari, che scappavano in preda al panico.
Segers era stato messo alle corde, e con gli occhi pesti, dalle
accuse che gli avevo lanciato, e da tutte le prove che avevo
snocciolato al Palazzo dello Sport. E le avevo pure rilanciate: realizzai un opuscolo che vendette centinaia di migliaia di copie.
Gli avevo tolto i pantaloni e lo avevo percosso sul sedere, e alla
fine, con il didietro che bruciava, aveva dovuto rispondermi.
Era ancora il capo del Partito cattolico e per lui continuare a
farsi trattare come un sacco d’immondizia sarebbe significato
il suicidio politico, cosa alla quale non ambiva di certo. Aveva
deciso, o, meglio, gli avevano fatto decidere, di portarmi in tribunale, chiedendomi centinaia di migliaia di franchi in danni e
interessi.
Gli altri “marci” lo seguirono uno dopo l’altro. Ogni giorno mi
cadeva addosso una nuova citazione in giudizio, in cui mi si
chiedevano centomila, duecentomila, o trecentomila franchi. E
D. Come ne è uscito allora da quella situazione?
R. «In un secondo ho visto il rischio che esplodesse la catastrofe. Allora ho gettato via la giacca, mi sono issato dall’esterno
sulla balconata, dove si trovavano i comunisti, e: paf! Paf! Ecco
il combattimento di boxe! Un formidabile combattimento di
boxe! Io sono bello robusto: in pochi minuti avevo messo ko
una mezza dozzina di provocatori; il mio combattimento fisico
si concluse vittoriosamente davanti a una folla assolutamente
stupefatta, che era venuta in quella sala dove solitamente si
facevano combattimenti di boxe, senza immaginarsi neppure
per un secondo che avrebbero assistito a un vero match.
Quelle persone che non avevano mai visto un combattimento
di boxe in vita loro erano restate di stucco, eccitate dall’imprevisto, e scoprivano in me una sorta di lottatore che mai nessuno
avrebbe immaginato in un’assemblea pubblica! Mi acclamavano. Allora sono risalito sulla tribuna, e ho rimesso la giacca. In
due ore, avevo conquistato una mia folla».
D. E in seguito lei è diventato il principale affittuario del Palazzo
dello Sport?
R. «Come si dice sempre in Belgio, l’ho riempito in ogni grande
occasione politica.
Questi spettacoli oratori al Palazzo dello Sport avevano sempre qualcosa di straordinario, direi quasi incantatore. Nessuno,
dopo di me, è mai riuscito a copiarli. Alla fine si giunse persino a
demolirlo, quel Palazzo dello Sport. Là, tenni dozzine di raduni
di massa, che ai giorni nostri non sono neppure immaginabili.
La mia Sei giorni! Perché, come i ciclisti, anch’io ho avuto la mia
Sei giorni nel Palazzo dello sport, anche se poi ero l’unico cicli53
parlo di franchi di allora! In due mesi avevo collezionato un’infinita quantità di citazioni in giudizio, con un totale in richieste
di danni e interessi che raggiungeva i due milioni e centomila
franchi».
R. «Si figuri! Da quel grande incontro al Palazzo dello Sport mi
erano restati solo quei 7.000 franchi! Due milioni e centomila
franchi chiesti a un giovane uomo! Sarebbe stato il mio totale
annientamento. Il Léon sarebbe stato messo in gabbia! (qui è
evidente il gioco di parole, “il Léon” è un mix tra il nome Léon e
la parola “il leone”, ndt). Risento ancora le parole di monsignor
Picard, il mio maestro tanto amato, che un giorno, allorché ci
imbattemmo casualmente faccia a faccia su un treno in un
compartimento di terza, mi disse – proprio come era avvenuto
ai tempi del processo Dumas:
“Léon, un giorno verrai condannato! E a una pena grave!”.
“Monsignore, non sarò condannato, perché ho ragione!...”.
Allora non sapevo ancora – e per mia fortuna! – che la giustizia
ti può tranquillamente condannare anche quando hai ragione!
Noi l’abbiamo compreso in seguito, e dopo la Seconda guerra
mondiale ce l’hanno dimostrato fin troppo bene i nostri boia
del 1945! Ma, nel 1936, la mia fiducia in quelle finte pelli d’ermellino (ossia i giudici dei tribunali, ndt) era ancora assoluta.
Ciò nonostante, monsignor Picard se ne andò via costernato,
scuotendo la testa. Io ero la quercia delle Ardenne che non
può essere sradicata neppure dalla più forte delle tempeste.
Sfidavo tutti gli uragani, sicuro di farcela, mentre le antiche forze corrotte della politica si mobilitavano sempre di più dietro
l’Alta finanza, la Santa Chiesa e il Cardinale».
Bruscamente, la sua augusta carcassa ebbe un sussulto, come
fosse stato risvegliato da un colpo di cannone. Si girò di dieci
gradi sulle sue grosse scarpone e ci sussurrò con aria cupa: “Sto
ardendo per l’entusiasmo”.
Quando riprese la sua postura iniziale, monsignor Picard mi
sussurrò all’orecchio: “E chissà come sarebbe mai stato, se non
stesse ardendo!”.
Quella fu l’unica volta in cui vidi l’“amabile” cardinale “ardere”
un poco. Da neonato, al seno di sua madre, deve aver succhiato
dei cubetti di ghiaccio. Allora, le lascio quindi immaginare! Un
ragazzo come me, indisponente, che cinque anni dopo avrebbe sventrato con gran clamore i suoi venerabili sacrestani della
politica e della finanza! Io per lui non ero altro che una folle
escrescenza all’intermo di quell’ambiente sacro, e dovevo venire estirpato come un’erbaccia diabolica.
Van Roey si mise a inviare ovunque dei messaggi a tutti i suoi
curati affinché essi si mettessero contro di me, affermando che
la mia azione era contraria alla carità cristiana. Era evidente
che la carità cristiana per lui avrebbe dovuto essere carezzare
le schiene dei ladri della politica e della finanza, piuttosto che
colpirli vigorosamente sulle natiche, come invece facevo io con
sacrosanto ardore!
Gli attacchi di Sua Eminenza si moltiplicavano, apparivano su
tutti i giornali. Un vescovo belga, il vescovo di Tournai, un vero
bifolco, ottuso come un ufficiale dell’intendenza delle finanze,
giunse persino al grottesco di condannare e vietare una cena
che avevo previsto per settemila ragazzi! In nome di Dio, noi
non potevamo più mangiare assieme! Era un’idiozia. L’idiozia si
era unita con il fanatismo.
Quando questi onorevoli prelati hanno visto che neppure questo bastava, che bisognava fare di più, hanno deciso di farmi
condannare dal loro partito cattolico, nel gennaio del 1936».
D. Con lui aveva ben poco in comune, se si esclude l’identica
fede.
D. Allora, in quel momento, da cattolico, dove si collocò politicamente?
R. «Bisognava proprio vedere com’era la sua sede arcivescovile di Malines, dove una ventina di scrofolosi (ossia, malati di
scrofolosi, una malattia che causa lesioni eczematose del volto
dando a esso un aspetto che ricorda il muso del maiale. Ovviamente, Degrelle utilizza questo termine come insulto, ndt)
rasentavano i muri con grande fatica, le braccia storte, i piedi
storti e pure lo sguardo storto!
Questo vecchio cardinale dalla fronte bovina per tutta la sua
vita non aveva mai letto un giornale dell’avversario.
Il suo “brio personale” era pari a quello di una tartaruga ultracentenaria.
In occasione del grande congresso della Gioventù belga a
Bruxelles – nel 1930 – quando centomila giovani sovraeccitati
sfilarono per due ore davanti a lui acclamandolo, il cardinale
Van Roey riuscì a mantenere un’espressione del volto costantemente accigliata e gli occhi sempre tristi. Non si era mosso
neppure un muscolo delle sue guance cascanti. Le sue labbra
non si erano spostate nemmeno di un millimetro.
Dietro a lui, monsignor Picard e io eravamo da un lato pieni di
soddisfazione nel vedere tanto ardore tra le fila di quei ragazzi
che manifestavano, dall’altro eravamo sconvolti dal mutismo
scontroso che si leggeva sul volto dell’eminente prelato, che
aveva quel tipico colore rosa che ha una saponetta.
R. «Io non avevo nulla a che spartire con quei marci vegliardi del Partito cattolico. Gliel’ho già detto: non sono mai stato
iscritto a quel baraccone, che mi era sempre apparso tarlato
e irrecuperabile. Io avevo deciso di farlo saltare, di rimpiazzarlo con un’altra organizzazione politica che, quella sì, sarebbe
stata aperta a tutti i cittadini sensati e onesti del Paese, sia che
fossero cattolici sia che non lo fossero.
Quei vecchi, quegli stantii credevano che quelle loro coltellate
mi avrebbero tagliato il collo: invece tutto mi scivolava addosso e mi faceva ridere. I loro gesti, al posto di ferirmi, mi liberavano. Proprio grazie a tutto questo, nel giro di pochi mesi, prima
delle grandi elezioni del 1936, riuscii a creare un Rex a livello
nazionale, al di sopra e al di fuori dei diktat e degli schemi della Chiesa politica dei vecchi partiti. Rex sarebbe stato aperto a
tutti i Belgi.
In questo modo, noi siamo diventati il Movimento Rexista. E
non il “partito” rexista. Non ho mai concepito la parola “partito”.
Partito rappresenta qualcosa di separato. Significa separarsi da
una parte della gente. Movimento, invece, è un qualcosa che
avanza, che va avanti».
D. In caso in condanna, sarebbe stato in grado di pagare ciò
che le si chiedeva?
D. E voi avanzavate?
54
Intervista con Degrelle
R. «I partiti, i banchieri, i vescovi politici avevano dovuto constatare che, malgrado tutti i loro colpi bassi, il Movimento Rexista si espandeva sempre più e diventava sempre più potente. Sei mesi prima non eravamo pressoché nulla per il grande
pubblico: ora rappresentavamo per loro un pericolo così grande che lo stesso governo decise di prendersela con noi; e non
in maniera schietta – non era certo il suo modo di fare – ma
subdolamente, cercando di spezzare il nostro slancio tramite
lo scioglimento anticipato del Parlamento belga, per far sì che
noi non avessimo il tempo necessario per far fronte a questa
nuova situazione».
miei collaboratori ricevevano come pagamento dei loro servizi
delle partite di pasta italiana, che venivano date ai nostri giornali in cambio di inserzioni pubblicitarie! Rientravano a casa
portando con sé con allegria quei pittoreschi pacchetti alimentari che le giovani mogli o le madri guardavano, con l’aria un
po’ preoccupata, piombare sulle loro tavole!
Però era necessario qualcosa di più che un po’ di maccheroni.
E tutta l’organizzazione centrale doveva girare alla perfezione.
Fortunatamente, le mie conferenze e i miei incontri ci facevano
incassare bene. E anche i giornali, con le loro grosse tirature.
Tutto era al servizio della causa. E per favore non mi si venga a
parlare, come talvolta è stato fatto, di finanziamenti misteriosi,
per esempio da parte di Mussolini. Io neppure lo conoscevo
Mussolini. Come capo di Rex non ho mai ricevuto uno stipendio, esattamente come non ho mai avuto un soldo, a titolo di
risarcimento, per tutte le mie camicie macchiate, strappate, private dei colletti, come spesso accadeva alla fine dei miei incontri! Ho tenuto gratuitamente migliaia d’incontri che riuscivano
a raccogliere somme considerevoli. Nel corso di quella battaglia elettorale del 1936, tutte le nostre risorse economiche ce le
siamo procurate con le nostre stesse mani. E solamente con le
nostre. Qualsiasi altra affermazione è una menzogna. Noi eravamo davvero dei rivoluzionari allo stato puro, che utilizzavano
tutte le loro forze in maniera assolutamente disinteressata».
D. Politicamente, in Belgio che cosa implica a livello di tempi
uno scioglimento del genere?
R. «Uno scioglimento in Belgio significa che nel giro di quaranta giorni tutto il Paese deve tornare alle urne e che bisogna preparare migliaia di candidati, se si vuol lottare su tutti i fronti.
Noi non eravamo altro che dei giovani ragazzi sostenuti da
magnifiche giovani ragazze, ma queste ultime non potevano
neppure votare. A quel tempo i maschi avevano il monopolio
elettorale!
Come riusciranno a farcela questi giovani? Pensavano le vecchie volpi della politica. Come riusciranno in così poco tempo
a crearsi un circuito elettorale? Prima dovrebbero scovare, e
poi far conoscere alla gente, più di trecento candidati, tra deputati e senatori, più di seicento supplenti parlamentari, cui si
dovevano poi aggiungere migliaia di candidati per i Consigli
provinciali.
Non ce la faranno mai! Esclamavano, sogghignando con le loro
bocche ammuffite.
Così decretarono lo scioglimento anticipato del Parlamento
belga».
D. Nel corso di questa campagna del 1936, avete avuto a che
fare con dei duri avversari! E giungevano da tutte le parti!
R. «Era necessario tener testa a tutti gli attacchi. E che attacchi! Non deve scordare che all’inizio del 1936, per smuovere
un intero Paese, io avevo a disposizione solo il mio settimanale
Rex, fuso con Vlan! E i nostri nemici avevano individuato subito
questa nostra debolezza. Il mio settimanale usciva in edicola il
venerdì mattina, e io dovevo portare i testi degli articoli in tipografia due giorni prima. Se per caso veniva lanciato un forte
attacco contro di me su qualche giornale il giovedì, quando le
rotative erano già in moto ed era quindi impossibile cambiare
anche una sola parola, bisognava aspettare un’intera settimana
per poter replicare!
Un giorno arrivai in ufficio scoraggiato. Così ho riunito tutta la
mia squadra e ho annunciato:
“Facciamo un quotidiano!”.
“Come lo chiameremo?”, chiese il mio più caro collaboratore,
Victor Mathys.
Lanciai il titolo: Le Pays réel (“Il Paese reale”, ndt).
Avrebbe rappresentato la patria che si ribella a tutti gli usurpatori politici, ai banchieri, ai venduti, ai corrotti.
Un altro aggiunse, tanto per capire meglio: “Ma con che soldi?”.
Risposta: “Sono pieno di soldi, ho diecimila franchi”.
Avevo 10.000 franchi, un regalo del conte Xavier de Grunne,
un paladino dal cuore intrepido. Quella fu l’unica sovvenzione
finanziaria che ho mai ricevuto prima di conquistare la mia vittoria del 1936».
D. Potevate affrontare questa cosa?
R. «Ho affrontato quella trappola. Per quanto potesse inizialmente sembrare impossibile, riuscii a battere un vero e proprio
record, arrivando a creare in tutto il Belgio delle liste complete
di candidati, e questo nonostante il fatto che noi responsabili
di Rex fossimo quasi tutti ineleggibili, dato che non avevamo
l’età per essere eletti (che allora era dai 25 anni in su, ndr.).
Le cito un caso curioso: quello del mio deputato Philippe Behaegel, che a Renaix riuscì a superare persino il ministro della Giustizia, il socialista Soudan. Compiva 25 anni proprio nel
giorno delle elezioni! Era un ragazzo delizioso. Lo chiamavamo
“le chou” (ossia, “il bigné”, è un modo di dire come il nostro “essere come un babà”, ndt).
Ed eccomi dunque costretto, in quell’aprile del 1936, a improvvisare nel giro di poche settimane delle liste di candidati in tutto il Paese. E questo andava ad aggiungersi al mio lavoro con i
giornali, con i miei vari incontri che necessitavano di avere una
cadenza ancor più pressante, e con tutta l’organizzazione pratica che bisognava creare prima che giungesse il giorno delle
elezioni! Nel mio ufficio centrale disponevo di 234 collaboratori fissi, poiché un’organizzazione solida, completa, precisa
è la base fondamentale di qualsivoglia tentativo di conquista
dell’opinione pubblica. E tutti questi dovevano pur vivere, anche se noi esistevamo da poco. Talvolta, alla fine del mese, i
D. Ma si poteva davvero far partire un quotidiano con 10.000
franchi?
R. «Quella somma non pagava neppure la metà del prezzo del55
cesso in Francia con il titolo appunto di J’attendrai, ndt).
Io arrivavo totalmente a pezzi, non ne potevo più, ma poi quel
canto così gradevole mi faceva riprendere».
la tiratura del primo numero! Eppure quel quotidiano in quello
stesso anno è riuscito a raggiungere una tiratura di 250.000 copie, controllata tutte le sere da un notaio. A quel tempo, infatti,
non esisteva ancora un ufficio per il controllo delle tirature che
potesse poi informare gli inserzionisti pubblicitari dei giornali.
Era giunto il momento di avere una simile arma. Lei non può
neppure immaginarsi quante infamità e quante menzogne mi
riuscivano a gettare addosso già a quell’epoca. Mi ricordo per
esempio di un giorno in cui me ne stavo andando da solo, su
un tram extraurbano, a un incontro nel Borinage (una zona della Vallonia, ndt). Che cosa vedo sul giornale, sparato in prima
pagina? Un titolone enorme: “Degrelle ha tradito sua moglie la
mattina del suo matrimonio”. Come modo per attrarre l’attenzione era ben violento! Ed era pure stupido, perché, se poi si
leggeva l’articolo, si capiva immediatamente che invece si parlava dell’errore che era stato fatto sul testo della nostra partecipazione di nozze. Ma molti si sarebbero limitati a vedere quel
titolone sbattuto su migliaia di copie in edicola!
Un gruppo di operai seduto su quel tram stava guardando stupefatto quel titolo gigantesco sul giornale tenuto in mano da
uno di loro. Stavano tutti in silenzio, sopraffatti da quell’enormità. D’improvviso un operaio sollevò la testa, dichiarando:
“Niente da dire, quel tipo là è proprio tosto!”. Era rimasto sbalordito da quell’impresa! Tradire la moglie nella mattina stessa
in cui la si deve sposare: bisognava proprio saperci fare! Allora
mi feci riconoscere, io, l’eroe di quell’operazione extraconiugale. Mi fecero grandi feste.
Dopo che riuscii ad avere il mio quotidiano, sono riuscito ad affrontare ogni mattina tutti quegli assalitori, mettendoli alle corde, colpendoli con diretti spietati. Contemporaneamente, sono
anche riuscito ad accrescere il numero dei miei incontri con il
pubblico. Sono riuscito a farne quattordici in un solo giorno.
Era l’ultimo giorno della campagna elettorale: ho parlato dalle
sette del mattino fino alle tre del mattino del giorno seguente.
Quattordici incontri con dibattito!».
D. E i suoi «luogotenenti»? Mentre la aspettavano, «scaldavano» la sala e il pubblico? E non potevano rimpiazzarla di tanto
in tanto?
R. «L’eloquenza non la si può delegare. Così come non si può
farlo con la capacità di infiammare le folle. Si è spesso detto:
“Degrelle era un uomo solo”. Ma tutti gli uomini che cambiano
il mondo, che riescono a sollevare i popoli, sono degli uomini
soli. Colui che guida un popolo riesce a trascinare vaste masse
solo nella misura in cui riesce a coinvolgerle facendole pensare
esclusivamente a lui, alla sua fede, alla sua passione.
La vita superiore dell’universo, quella che gli dà un senso, una
grandezza profonda, è quella che plasma l’uomo solo, completamente dedito alla sua missione. Per fortuna, sì, per fortuna,
che appaiono, di tanto in tanto, degli uomini fuoriclasse che
sanno cambiare la vita dei popoli, che riescono a trasformare
delle masse indistinte di esseri umani, facendole diventare una
società che ha un vero valore! Ed è una cosa talmente straordinaria il fatto che riesca ad apparire di tanto in tanto un uomo
simile, che l’unica cosa da fare è ringraziare gli dèi! Spesso la
Storia non è altro che un grande vuoto, in cui non c’è nessuno,
e dove le folle annaspano, isolate nella loro naturale mediocrità.
Un’epoca vale soltanto nella misura in cui qualcuno riesce a
sollevarla al di sopra della banalità, creando l’eccezionalità, facendo sì che milioni di primati umani smettano di camminare
a quattro zampe».
D. E come si concluse questa maratona elettorale?
R. «Arrivò il fatidico 24 maggio del 1936.
Avevo fustigato, con la mia frusta piombata, tutti i marci del
mio Paese. A ogni colpo avevano urlato. Ma avevo lottato fino
alla fine. Ero sicuro del mio operato.
Al Journal di Parigi, tre giorni prima, avevo dato il mio pronostico: 21 deputati. L’ex ministro socialista Camille Huyssmans,
presidente del Parlamento, era stato altrettanto chiaro: Degrelle non avrà neppure un deputato.
Conoscevo il mio Paese, l’avevo toccato con tutto il mio corpo:
e il 24 maggio 1936 fu la grande vittoria, Rex aveva vinto! Sei
mesi dopo l’“assalto di Courtrai”, centinaia di migliaia di Belgi
si erano messi in moto dietro le mie ramazze e irrompevano
come un turbine nell’arena politica.
Il colpo di scena finale era stata la sentenza Segers, la cui ripercussione fu immensa. Si ricorda quel vecchio ministro spennacchiato che avevo smascherato a Courtrai, che avevo sfidato al
Palazzo dello Sport, e che pretendeva da me 300.000 cucuzze?...
il 10 maggio 1936, quindi due settimane prima delle elezioni,
giunse improvvisamente il verdetto: avevo vinto! Non solo ero
stato assolto, ma quel vecchio marcio di Segers era stato pure
condannato a pagare le spese processuali!
L’effetto fu gigantesco. Fino a quel momento, migliaia, centinaia di migliaia di persone avevano nutrito dei dubbi. E poi, una
mattina, un fulmine a ciel sereno aveva scosso il cielo: ecco che
cos’era stato! Persino i tribunali mi davano ragione!
D. Il dibattito per lei rappresentava un handicap?
R. «Incontro con dibattito voleva dire che se l’incontro precedente era burrascoso e si prolungava, allora quello successivo
scivolava di un’ora, talvolta di due. Il 23 maggio del 1936, alle
sette del mattino, ad Alost, la gente era già tutta nel teatro, stipatissima, come tre preti chiusi nello stesso confessionale. Ma
persino alle tre del mattino della notte successiva – ed eravamo a Renaix – nella grande piazza mi attendeva un’immensa
folla, che non aspettava altro che la infuocassi per l’ennesima
volta! A Ostenda, a metà strada, un tipo si era incatenato a una
colonna del Palazzo dello Sport, non c’era modo per convincerlo a farlo desistere, sbraitava, urlava. Abbiamo dovuto aspettare per mezz’ora l’arrivo di un fabbro che riuscisse a segare le
catene!
Questo voleva dire che per gli ultimi incontri l’orario diventava
assolutamente imprevedibile. Ma la folla attendeva senza problemi, gioiosamente, e cantavano “J’attendrai le jour et la nuit,
j’attendrai toujours, mon amour!” (“Attenderò il giorno e la notte, ti attenderò sempre, mio amore”, si tratta delle parole della
canzone J’attendrai, versione francese di Tornerai, composta
nel 1936 dal compositore e direttore d’orchestra Dino Olivieri
su testo di Nino Rastelli che è diventata poi un motivo di suc56
Fu da lì che partì lo scatto finale. Quelli che, solo il giorno prima, ancora esitavano, ora non esitavano più: avevo la vittoria
in pugno».
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Altre Voci
Altre Voci
Intervista con Degrelle
ottavo e nono capitolo
Traduzione italiana a cura di Monica Mainardi
CAPITOLO OTTAVO
Nel pantano parlamentare
cento deputati belgi. Belgi, Francesi o Irochesi: la sostanza non cambia. Pietosa mediocrità. Atmosfera spesso meschina. E innumerevoli cavi con troppe connessioni».
La mediocrità parlamentare – Le medaglie d’oro da deputati al collo di prostitute – La carta da lettera gratuita – I Codici rivenduti – Il Parlamento, tappa provvisoria
– Quali deputati reclutare? – Le vane precauzioni – La
nullità delle Camere dei deputati – I giri diabolici dei
parlamentari di professione – Il dibattito bocciato sul
brigantaggio politico-finanziario – Di fronte ai partiti
buffoni.
D. Sembra non aver alcuna considerazione per coloro
che, in ogni caso, sono stati legittimamente eletti dal popolo…
R. «Mi ricordo della medaglia da deputato. In Belgio,
ognuno, appena veniva eletto, riceveva una grande medaglia d’oro: proprio come fosse un campione olimpico.
Dei deputati ne facevano un vero e proprio commercio.
La vendevano e poi dicevano che l’avevano persa; così
ne richiedevano un’altra, e pure questa la vendevano. La
cosa andò avanti a tal punto che l’ufficio dovette decidere che, se si volevano nuove medaglie in sostituzione, era
necessario pagarle.
Ho conosciuto un caso straordinario: un deputato aveva
dato la sua medaglia d’oro come pagamento a un bordello. Da allora, la maitresse se ne andava in giro per la sua
“casa” con addosso, quale unico “abito”, la medaglia d’oro
del deputato belga in mezzo ai seni cascanti.
Era gratis anche la carta da lettera, incisa con lo stemma
della Camera dei Deputati: ed era davvero splendida. I
deputati ne portavano via in quantità enormi, dandola
poi alle mogli che la utilizzavano per coprire i vasi di marmellata. Per questo fu necessario limitare la distribuzione
della carta a 500 fogli al mese.
I Codici? I deputati li vendevano, a tal punto che l’ufficio
della Camera dovette decidere di contrassegnare ognuno
di questi grossi volumi con il nome dell’eletto, in maniera
tale che quel traffico fosse meno facilitato».
D. La vittoria del 24 maggio 1936 le diede false speranze? I suoi eletti come li giudicava? Poteva contare su reali attitudini politiche da parte di parlamentari così alle
prime armi?
R. «Eccomi allora in quel 24 maggio 1936: tra le mani ho
un grande trionfo politico che sfavilla come uno splendido mazzo di fiori! Ma ho anche ventuno deputati e undici senatori sul groppone, e questo era un fatto molto
più grave.
In fondo, io sono sempre stato fondamentalmente un
antiparlamentare. Già gliel’ho detto: non è la sola forma
valida di rappresentanza, anche se non è neppure la più
detestabile. Ma per me un solo uomo è perfettamente in
grado di rappresentare il popolo, e pure molto meglio di
una schiera di centinaia di deputati o di senatori tonti, e
spesso proprio stupidi.
Il reclutamento dei parlamentari è sempre stato qualcosa di squallido.
Per essere nominato guardia campestre bisogna fare –
e passare – un esame. Per essere deputato, vale a dire
diventare colui che crea le leggi ed è responsabile della
vita di un intero Paese, invece non ti viene richiesto nulla. L’ultimo dei sottosviluppati, quello a cui non affideresti neppure il compito di spazzar via gli escrementi degli
animali, può andarsene in giro per il Parlamento, da vero
fanfarone, se solo un partito decide di metterlo in pista.
Il più delle volte si elegge un tizio perché fa piacere alle
persone di un paesino o di una regione, o perché per
anni ha fatto piccoli favori, o perché è ben posizionato
nel settore sindacale, o perché è appoggiato da gruppi
finanziari. Può essere un imbecille, può essere un pigro
di prim’ordine. Per anni ho rimirato lo spettacolo di due-
D. Non ha mai pensato di riformare questi discutibili costumi, di riportare un giorno questi parlamentari a una
concezione più nobile della loro missione?
R. «Non ho mai visto far nulla di grande in un Parlamento,
ed è per questo che non volevo stare al gioco. Avevo sognato di mandarvi un bel gruppo di pugili, di scaricatori.
Avevo persino desiderato di mandarvi un negro, preferibilmente antropofago, così che si potesse sbranare uno
o due colleghi al giorno. E in questo modo la questione
parlamentare sarebbe stata regolata efficacemente nel
giro di pochi mesi.
Questa folla anonima, costosa, rumorosa, incompetente,
inutile, non mi tentava proprio. Ciò che ricercavo davvero
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Intervista con Degrelle
era l’adesione in massa del popolo. Diciamola tutta, anche se peccherò d’immodestia: cercavo la sua adesione
personale, perché sentivo, nel più profondo del mio essere, che, una volta conquistata questa massa di persone,
io sarei stato in grado di rappresentare le aspettative del
popolo molto più realmente di un conglomerato fittizio
e pietoso qual era quel Parlamento di paccottiglia, eletto
non importa come».
In ogni caso non era una cosa splendida. Quindi insisto:
“Non è stato condannato anche per altro, vero?”.
“Si, invece; sono stato condannato ventotto volte”. Stupore! “Ventotto volte?...”.
“Sì ventotto – replica lui – Non riesco proprio a reggere
gli sbirri!”.
Era anche simpatico, ma Rex non raccoglieva eletti per
andare a pestare i poliziotti!
“Immagino che lei non voglia compromettere Rex a causa dei suoi problemi personali, concorda con me?”.
Da buon bonaccione, mi firmò immediatamente una lettera di dimissioni. Tre giorni dopo, venni a sapere che il
brav’uomo era stato eletto trionfalmente con duemila
voti di preferenza! E certo non era stato a letto con duemila ragazze del suo paese. Oltre al fatto che allora le ragazze nemmeno votavano. In ogni caso duemila elettori
avevano dato la loro preferenza proprio a quel simpatico
toro riproduttore!
Dal canto mio, ho subito inviato alle autorità la sua lettera
di dimissioni, ma l’eletto, tronfio per il successo, me ne
aveva inviata un’altra, il mattino stesso della sua vittoria,
per dirmi che le sue dimissioni non valevano più e che
intendeva restare consigliere».
D. E i suoi eletti? Come considerava il loro ruolo in Parlamento?
R. «Come una tappa assolutamente provvisoria, come un
mezzo per attirare politicamente l’attenzione del Belgio;
e provocare qualche elezione a cascata, creando dei sommovimenti che scuotessero sempre più l’opinione pubblica, era una cosa più o meno ammissibile. Ma nulla più
di questo.
Allora su! Ecco i miei deputati che entrano in scena. Anche tra loro c’erano quelli che non erano particolarmente
brillanti. Avevo dovuto scegliere basandomi su ciò che vi
era a disposizione! Innanzitutto avevo scelto brave persone, e devote. Nel mucchio, uno o due tra loro sarebbero
riusciti a farsi eleggere basandosi solo sui propri mezzi,
grazie alle loro doti personali. Ma dubito anche di questo,
a dire il vero. La cosa più probabile è che tra tutti questi
candidati nessuno sarebbe mai stato eletto, senza me al
loro fianco, o sopra di loro. Uno solo tra questi aveva già
tentato di farsi eleggere: era lo scrittore Pierre Daye. E
aveva fallito».
D. Tutto questo era alquanto inquietante, non trova?
R. «Come ha visto, avevo dovuto agire in tutta fretta, utilizzando quello che ero riuscito a reclutare sulla piazza.
Alcuni candidati erano intellettuali di prim’ordine. Pierre
Daye, eletto deputato a Bruxelles, era decisamente colto, aveva relazioni importanti all’estero e sarebbe stato
in grado di poter essere in futuro un ministro degli Affari esteri di notevole caratura. Un altro dei miei deputati,
Gustave Wyns, era un industriale assolutamente perfetto
per fare il ministro dell’Economia. Carlos Leruitte, a Liegi,
conosceva la questione operaia meglio di qualsiasi altra
persona. L’avvocato Ursmar Legros era un eccellente specialista di problemi legati all’agricoltura. Anche lui sarebbe brillato in un governo.
Sempre a Liegi, avevo fatto eleggere un giovane segretario sindacalista socialista che dieci settimane prima di
entrare in Parlamento come deputato rexista esercitava
ancora le sue funzioni lavorative.
Ma, soprattutto, avevo fatto eleggere una serie di eccellenti persone, senza nomi di spicco, dotati delle intenzioni più oneste, ma in compenso anche maldestre di fronte
alla manovra politica, e spesso pure troppo ingenue.
Per conquistare un Parlamento, è necessario avere delle
vecchie volpi, dei trafficoni, degli intrallazzatori, dei ricattatori, e anche un po’ di rude manovalanza. I caporioni
del gioco parlamentare nelle loro tasche hanno sempre
le prebende che oliano gli ingranaggi, che evitano gli scivoloni, che aiutano a rimettere sui giusti binari il carroz-
D. Come li aveva reclutati?
R. «Non può nemmeno immaginare che lavoro sia stato
scovarli tra diverse migliaia di candidati!
Mi rammento ancora un caso emblematico: quello di un
brav’uomo cinquantenne di Entre-Sambre-et-Meuse che
era candidato nella lista rexista del Consiglio provinciale
di Namur. Ero giunto nella sua circoscrizione per sostenerlo, come facevo per tutti. All’arrivo, mi si bisbiglia all’orecchio: “Attenzione, il suo candidato è stato condannato
per aver messo incinta una ragazza!”. Brutta storia! Entro
nella sala. Il presunto padre stava parlando: rubicondo,
maldestro. Più che un playboy sembrava un macellaio. Mi
avvicino a lui, lo prendo da parte e vado direttamente al
sodo.
Gli dico:
“Ma è vero che lei ha messo incinta una ragazza?”.
E lui, nella maniera più naturale possibile, tanto quanto lo
poteva essere il presunto bambino, mi risponde:
“Mah, potrebbe essere vero, e potrebbe anche non esserlo! Anche il deputato cattolico la frequentava. E per questo motivo, non saprei dire chi sia stato dei due”.
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zone del partito. Dirigere un gruppo parlamentare richiede della scienza, delle abitudini, dell’astuzia e soprattutto
del cinismo. È un gioco assolutamente perverso dal quale
sono esclusi in partenza i cuori puri e gli improvvisatori».
D. Si sono temprati poi? Che aria tirava nelle discussioni
parlamentari?
R. «L’atmosfera delle discussioni parlamentari di solito è
demoralizzante. Spesso non si ascolta nulla. La maggior
parte dei deputati presenti scrive lettere, getta dei pezzi
di carta per terra, e in ogni direzione. Se ne vanno dall’aula subito dopo aver presentato all’assise la loro piccola
relazione.
Nelle sedute notturne c’è pressoché il deserto. Ad alcune
discussioni sul bilancio così come a quelle sul Congo, la
colonia belga, spesso non vi era neppure un cane. I neri
allora non votavano, cosa che riduceva drasticamente
l’interesse del dibattito. Eppure il Congo, prima del 1940,
era essenziale per la vita del Belgio.
In una seduta serale, ho visto il ministro delle Colonie,
Gustave Sap, ascoltare pazientemente undici interpellanze fatte da altrettanti deputati. Erano presenti solo loro,
su duecento deputati. Ossia il 5% dell’intera Assemblea.
Ognuno faceva il suo peana sul Congo, raccoglieva le sue
carte e poi scompariva. Quando fu giunto il momento
della replica del ministro, era presente solo lui, davanti a
un’aula vuota come la conchiglia di una cozza.
Questo era il cosiddetto controllo parlamentare! L’esercizio della democrazia! E a Parigi non si faceva certo di
meglio. Tardieu, che aveva dei difetti ma era anche un
Presidente del Consiglio intelligente, mi ha raccontato
come un deputato avesse passato l’intero suo anno parlamentare a scrivere, di proprio pugno, quarantaduemila
lettere di auguri di Buon anno ai quarantaduemila elettori del suo dipartimento. E ovviamente utilizzando la carta
gratuita! E poi andava a svuotare i suoi pacchi di lettere
nella casella postale del Presidente: così aveva pure gratis
la consegna a domicilio delle stesse! Gli elettori, sbalorditi da questa cortese attenzione, ovviamente lo rielessero
religiosamente in massa.
Oggi i deputati intascano degli emolumenti molto più
elevati, dispongono di segretari particolari, e godono,
una volta finita la carriera elettorale, di copiose pensioni.
Ma la farsa resta sempre la stessa».
D. Come sperava di gestire quella lotta con degli eletti
così poco esperti come i suoi?
R. «Fin dal primo giorno avevo preso delle precauzioni.
Per esempio, i miei deputati non potevano viaggiare in
prima classe. Non c’è nulla di più pericoloso che viaggiare in gruppo negli scompartimenti dei deputati. Ai parlamentari sono riservati degli scompartimenti speciali:
quelli che, fino al giorno prima, non erano nessuno, ora
si ritrovano tutti insieme, riuniti in una carrozza di prima
classe.
Prima o poi rischiano di entrare in confidenza. È impossibile non entrare in confidenza se ogni giorno passi delle
ore faccia a faccia con una persona. E a quel punto perdi
inevitabilmente lo spirito combattivo, fai delle concessioni.
Avevo detto ai miei eletti: “Voi viaggerete solo in terza
classe; così sarete in contatto diretto con il popolo”. L’hanno fatto… O meglio: non l’hanno fatto. Ben presto, i cuscini di prima classe hanno tentato i loro posteriori più
delle panche in legno di terza classe. Pure le mogli dei
deputati, di qualsiasi opinione fossero i mariti, andavano
spesso in questi scompartimenti speciali, pur non avendone ovviamente alcun diritto. Cianciavano tra di loro, si
scambiavano ricette a base di capesante e segreti su lavori a maglia, s’invitavano nelle rispettive case. Tre mesi
dopo, le famiglie fraternizzavano.
Questi lussuosi scompartimenti gratuiti fungevano anche da dormitorio per alcuni deputati squattrinati. Ne ho
conosciuto uno che, armato del suo lasciapassare, ogni
sera prendeva l’espresso Bruxelles-Basilea fino alla frontiera del Granducato del Lussemburgo. Là, risaliva sul
treno Basilea-Bruxelles, dove giungeva la mattina, vispo
e pimpante, dopo aver dormito a volontà e senza aver
pagato neppure un soldo.
Avevo inoltre prescritto ai miei deputati di versare ogni
mese il dieci per cento del loro stipendio parlamentare
nelle casse del movimento rexista, al quale dovevano la
loro elezione. Questa cosa è durata due o tre mesi, poi i
versamenti hanno iniziato a non giungere più.
L’ingenuità di alcuni era tale che, nel momento di entrare
nella caverna dei briganti, dovettero chiedere ai vigili, nel
loro primo giorno, quale fosse la strada da prendere per
giungere in Parlamento! Totalmente senza esperienza,
erano stati gettati in una fossa in cui si sbranavano dei
capi di gang scaltri, senza scrupoli, e perfetti conoscitori
del mezzo parlamentare, dei suoi metodi e delle sue trappole mascherate».
D. Lei non aveva voluto partecipare in prima persona alle
elezioni. Quindi, erano i suoi deputati che dovevano difendere le sue idee, e presentare i suoi progetti davanti al
Parlamento. Che cosa ne venne fuori?
R. «Nel 1936, quando i nostri deputati rexisti erano entrati
nel Parlamento belga, ciò che l’opinione pubblica attendeva era lo smantellamento di tutti i brigantaggi che io
avevo smascherato.
Per questo grande smantellamento in Parlamento, avevo scelto un deputato che si chiamava Syndic, Raphaël
Syndic, un ragazzo che aveva gran temperamento. Ave58
Intervista con Degrelle
va scritto per le edizioni REX un libretto che s’intitolava
Gifles (ossia, “Schiaffi”). Erano degli schiaffi ben indirizzati. Aveva una lingua tagliente. Ma era instabile, alquanto stravagante. Per essere ben certo che il suo discorso
fosse convincente e affinché non s’ingarbugliasse tra le
complicazioni finanziarie, gli avevo scritto l’intero testo
del suo discorso. Aveva trascorso un’intera settimana a
creare quella filippica, scritta di mio pugno dalla prima
all’ultima parola, e che rappresentava l’equivalente di un
intero libro. E questo, oltre a tutto il mio lavoro giornaliero ordinario, che era solitamente gravosissimo. Tutto
era stato passato al setaccio e, successivamente, valutato.
Avevo perso intere notti di sonno per costruire questa requisitoria assolutamente incontestabile.
Avrei potuto, e sarebbe stato più semplice e più sicuro,
condurre io stesso la discussione in Parlamento, ma avevo scelto di non presentarmi alle elezioni. In primo luogo,
per dimostrare all’opinione pubblica che non ero affamato di prebende. In secondo luogo, perché sapevo fin troppo bene che il gioco parlamentare era un gioco inutile, e
che per poter possedere l’avvenire era necessario mirare
molto più in alto.
Così avevo dato questo mio discorso a Syndic, e con un
buon anticipo, in modo tale che potesse studiarselo con
calma.
Nel giorno fissato, poco prima delle due di pomeriggio,
avevo preso posto nella tribuna riservata al pubblico. Era
presente tutta la camera dei Deputati. Ma che cosa noto
allora, assolutamente sconvolto? Mancava un solo deputato: il nostro Syndic!
Il presidente della Camera, Camille Huysmans, un Mefistofele magrissimo e diabolico, vide immediatamente,
stupefatto quanto lo ero io, che c’era la possibilità di assestarci un gran bel colpo, che avrebbe fatto fallire il nostro
piano. Secondo l’ordine del giorno c’erano tre altri punti
da trattare prima, ma erano punti secondari. Basandosi su
questo breve lasso di tempo a disposizione, Syndic, con
una leggerezza a dir poco sconcertante, si era trattenuto
per qualche minuto in più nel ristorante del Parlamento.
Syndic, Syndic non era lì in aula! Huysmans trattò in pochi
minuti i tre punti precedenti, poi annunciò:
“La parola al Signor Syndic!”. Sarcastico, attende un secondo, e subito dopo aggiunge:
“Dato che l’oratore è assente, la seduta è tolta!”.
In quel momento Syndic entrò in aula sorridente, con
l’aria di quello che non aveva alcuna idea del disastro
che si era appena consumato. Si era forse reso complice, come alcuni dei nostri collaboratori più fedeli hanno
sempre pensato, di un piano di sabotaggio preparato dai
nostri avversari?... L’unica cosa certa è che un anno dopo,
e in maniera alquanto sporca, passò tra i loro ranghi. Che
Syndic, quel pomeriggio, ci avesse tradito, o avesse soltanto prolungato di dieci minuti il suo pranzo al ristoran-
te, resta comunque il fatto che l’irreparabile era stato fatto. Camille Huysmans si era alzato dalla sua poltrona: alle
due e tredici minuti del pomeriggio, aveva chiuso una
seduta della Camera che si era aperta solo pochi minuti
prima! Una vera barzelletta! Ma l’interpellazione ce l’eravamo giocata! Non c’era più nulla da fare.
Huysmans era stato geniale nel giocarci quel brutto tiro,
aveva mostrato un’abilità davvero satanica. Ma, ai sensi
del regolamento, egli aveva agito nel pieno diritto. Era
Syndic che non era presente».
D. Se l’è presa con lui?
R. «Fino a quel momento Syndic era stato un militante ardente, incisivo, ma anche sempre abbastanza ombroso,
professore di un istituto privato di provincia. Lui mi doveva tutto: la pubblicazione del suo primo libro, la sua prima notorietà, il suo seggio di deputato. Era stato davvero
tutto troppo facile per lui. Ma eccolo lì il tremendo danno: il suo caffè sorseggiato per dieci minuti di troppo o la
sua complicità avevano spazzato via un lavoro immenso
che avrebbe potuto rivelarsi decisivo. Avevo preparato l’assalto con una tale precisione che l’intero testo del
discorso era già stato composto in tipografia per essere
pubblicato in un numero speciale di Pays Réel! Era pronto
pure un montaggio fotografico di Syndic sulla tribuna del
Parlamento!
Quel discorso, rafforzato dalla violenta discussione che
avrebbe provocato, sarebbe finito su tutta la stampa.
Avrebbe avuto enormi ripercussioni sull’intera opinione
pubblica, tutti ne avrebbero parlato. Invece, di fronte al
nemico divertito e alle masse deluse, mi ritrovavo di nuovo assolutamente da solo a proseguire nello sforzo della
mia battaglia».
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solo unendo la giustizia sociale agli imperativi di ordine
nazionale –, noi non potevamo ammettere che milioni di
nostri compatrioti restassero relegati in un rango disumano, mal pagati, con pessime case, avvelenati dai miasmi
pestilenziali delle fabbriche, privi di una giusta assistenza
sociale, e assolutamente non rispettati nella loro dignità
di lavoratori. E tutto questo avveniva solo perché lo esigeva la bulimia di un ipercapitalismo rapace, imbecille e
persino non consapevole dei suoi propri interessi.
Quindi, o questo ipercapitalismo, corruttore politico e
approfittatore sociale, accettava di piegarsi alla legge
dell’interesse superiore della comunità, oppure sarebbe
stato domato e imbrigliato senza pietà. I suoi interessi
non erano ammissibili, se non accettavano di accordarsi
agli interessi di tutti. Dal mio canto, ero pronto, in caso di
vittoria, a domarlo con il pugno di ferro. Nell’attesa, visto
che pensava bene di far orecchie da mercante, la sola via
da intraprendere era quella di imporgli ciò che non voleva concedere. Quindi, nell’immediato, bisognava utilizzare l’arma dello sciopero generale, giusto e necessario in
quel momento specifico.
Rex ha sostenuto quell’azione popolare e l’ha anche esaltata, con tutta la sua forza».
CAPITOLO NONO
La battaglia sociale
Con i lavoratori contro la cecità dell’ipercapitalismo – L’arma indispensabile: lo sciopero – Ostacoli a uno sciopero
generale – Come non perdere? – Le ragazze rexiste, pioniere sociali – La mobilitazione della zuppa – Migliaia di
figli di scioperanti in montagna e al mare – I grandi raduni
popolari – Visite agli industriali – La valigia del barone de
Launoy – Lo sciopero conquistato – Rabbia dei comunisti
– Colpi di fucile a Seraing – Non ci si arrende mai.
D. Lei non era solo un politico: era infatti anche impegnato fortemente in campo sociale. Nel 1936, l’Europa si agitava molto…
R. «È vero. L’Europa del 1936, a livello sociale, era in piena
ebollizione. In Belgio, subito dopo le elezioni del 1936, la
classe operaia viveva in uno stato di grande agitazione.
In parte a causa mia. Avevo smosso le folle in profondità, avevo denunciato le condizioni miserabili in cui erano
costrette a vivere le famiglie operaie, i salari da fame che
esse percepivano. A livello internazionale, il nervosismo
conquistò tutti i popoli nel 1936. In Spagna, Franco e il
governo delle Sinistre a impulso comunista si affrontavano nel sangue. In Francia, il “Fronte Popolare” dell’israelita
marxista Léon Blum aveva conquistato il potere. Nell’estate del 1936, sentivo tutto intorno a me una grande agitazione; percepivo ovunque le trame di Mosca, che bramava di aggravare ulteriormente la situazione, che ricopriva
i nostri Paesi di denaro e di armi e, nel contempo, mandava a Barcellona e a Valencia migliaia di tetri istruttori.
Avevo esteso l’azione rexista nelle zone del Belgio ad alta
densità operaia, in particolare nei bacini rossi di Liegi e
del Borinage, dove la condizione economica dei minatori
era pronta, a livello sociale, a raccogliere la provocazione.
Andavo nelle case dei minatori, scendevo nelle miniere.
Ci sono ancora molte foto in cui mi si vede riunito fraternamente con i minatori».
D. Come ha condotto questa battaglia politica?
R. «Certo non è stato così semplice come magari si potrebbe pensare.
Anche perché, tra le mie centinaia di migliaia di elettori, e
tra i milioni di Belgi che mi seguivano, contavo anche un
notevole numero di borghesi in buona fede e una massa
di fedeli provenienti dalla classe media e che erano, anche loro, vittime di grandi ingiustizie. E per tutti questi,
a quel tempo, uno scioperante era ancora una sorta di
animale mostruoso, che aveva tutti i torti e contro il quale
era tutto permesso. Ma ecco che io, giovane ragazzo di
un ceto “agiato”, come si diceva allora, e pure cattolico –
in un tempo in cui il cattolicesimo ufficiale era, in modo
del tutto ipocrita, asociale –, eccomi dunque lì che facevo
blocco comune con la classe operaia, al fine di sostenere,
attraverso l’arma dello sciopero generale, un movimento
di rivendicazione!
E sì, facevo blocco comune con la classe operaia! È assolutamente vero! Perché aveva tutte le ragioni. Perché la sua
vita, così come le era stata imposta dal capitalismo, era
intollerabile. Era intollerabile che le masse operaie venissero ammassate in tuguri, che s’indebolissero in località
sordide circondati da miasmi chimici, che non avessero
diritto a vere pensioni, non avessero una vera opera assistenziale in caso di malattia, di incidenti, di invalidità. La
civiltà borghese era una civiltà – se si può ancora utilizzare questo termine in simili condizioni – assolutamente
contro-natura, e inoltre era pure incosciente e per nulla
D. Qual era il suo programma sociale?
R. «L’Alta finanza, padrona assoluta della vita industriale
del Paese, si aggrappava ai suoi stupidi metodi fatti di
salari bassi, che implicavano, quale ovvia conseguenza,
la stagnazione economica. Noi, che eravamo sia socialisti
convinti sia patrioti sinceri – perché, a nostro parere, una
comunità formata da tutte le classi poteva essere creata
60
Intervista con Degrelle
intelligente, perché non teneva conto delle realtà economiche fondamentali.
Nel momento in cui mi sono lanciato in questa lotta, l’ho
fatto come un apostolo. Ero convinto che solo questa sollevazione, peraltro pacifica, avrebbe portato alla fine a
dei risultati. I magnati dell’ipercapitalismo di solito sono
alquanto vigliacchi. È necessario che abbiano paura. Solo
nel momento in cui diventano viola come prugne secche
iniziano a mostrarsi ragionevoli».
dagnarsi il pane quotidiano dovevano mettersi al servizio
del Movimento. Quindi facevano – e magari qualcuno
sogghignerà – le cameriere; oggi, più cerimoniosamente, le potrebbero chiamare assistenti nei lavori domestici. Ogni famiglia operaia numerosa, rexista o non rexista,
poteva chiedere al Movimento una di queste ragazze
per avere un aiuto. Così, noi inviavamo ogni giorno nelle
zone operaie centinaia di ragazze della borghesia che lavoravano a servizio nelle case degli operai. Ovviamente
gratis».
D. E come li ha resi viola?
D. Era una tattica? Non era pura demagogia?
R. «Beh, li ho presi per il collo.
Certo, ai giorni nostri, esistono dei grandi proprietari che,
nella società moderna, formano una sorta di aristocrazia
della creazione e dell’azione e che hanno preso coscienza
della loro responsabilità sociale e, ovviamente, anche dei
loro personali interessi – interessi che derivano immancabilmente da uno stato di pace e di collaborazione tra
le classi. Queste élite contribuiscono in maniera notevole
alla prosperità della comunità. Ma per giungere a questa
situazione ce n’è voluto del tempo. Nel 1936, in Europa,
si era ben lontani dal comprendere queste cose. La porta restava sempre chiusa e l’unica soluzione possibile era
quella di sfondarla.
Bisognava ancora conquistare il concetto di sciopero
generale che noi stavamo sostenendo! Allora, era tutta
un’altra storia. Non bastava indire uno sciopero per far sì
che le cose si accomodassero. Mi chiesi quindi: come si
perdono gli scioperi?
Per noi era essenziale non perdere; per me soprattutto:
giovane ragazzo catalogato come “di Destra”, mentre fino
a quel momento tutti gli scioperi erano stati un monopolio assoluto della Sinistra. Perdere in una situazione come
quella sarebbe stato perdere assolutamente la faccia davanti alle masse operaie. I leader marxisti avrebbero potuto gridare: “Ecco, li avete visti all’opera quei bellimbusti
dei vostri salvatori! Non sono capaci di far nulla, quei ragazzetti! Si vince solo con la Sinistra, si vince solo con i
socialisti e i comunisti!”».
R. «Non abbiamo mai agito per “tattica”.
Questa decisione ha avuto notevoli ripercussioni. In entrambi i sensi.
La ragazza abituata a vivere negli agi, la figlia del colonnello, la figlia del magistrato, la figlia del medico, che si
ritrovava a dover prendere alle sei del mattino il piccolo treno dell’alba per andare in un tugurio di Seraing o
di Marcinelle, che doveva pulire i sederi, pulire la casa e
aiutare le donne in tutto e per tutto, quando rientrava a
casa propria diceva: “È tremenda la miseria in cui devono
vivere gli operai! Come si può permettere una simile ingiustizia?”.
Di contro, la moglie dell’operaio, vedendo queste giovani
ragazze così semplici che l’aiutavano spontaneamente in
ogni cosa, diceva a sua volta: “In ogni caso, non tutti i borghesi sono nostri nemici. Tra loro ci sono anche persone
gentili”.
Ed è questa gioventù femminile, così magnificamente
idealista, che io ho mobilitato, fin dall’inizio dello sciopero, per fare la zuppa. Sì, della zuppa! In tutti i quartieri
operai si piazzava un grande pentolone. Un certo numero di nostre donne distribuiva zuppa per tutto il giorno; le
altre andavano in giro nelle case più o meno amiche per
ottenere gratuitamente gli ingredienti che permettevano
di realizzare un bel brodo sostanzioso. Da quel momento
in poi, tutti gli scioperanti che lo necessitavano avevano
di che mangiare, e così potevano reggere il colpo».
D. Come ha fatto quindi a non perdere?
D. Oltre a questo, ha fatto anche altre cose?
R. «Per me, tutto fu ben presto molto chiaro. Bisognava
eliminare due ostacoli: gli scioperi si perdono perché si
ha fame, e gli scioperi si perdono perché non si vuol vedere i propri figli infelici. Quindi, era necessario assicurare
agli scioperanti il cibo, e anche la tranquillità riguardo a
tutto ciò che riguardava i loro marmocchi.
Questo due obiettivi li ho raggiunti nel giro di poche
ore.
Fin dagli inizi, avevamo creato i nostri servizi sociali, vale
a dire che le ragazze rexiste che non lavoravano per gua-
R. «Sì, i bambini rappresentavano il problema principale.
Nei quartieri popolari paralizzati si trovavano migliaia di
marmocchi. Per loro ho improvvisato una cosa che allora
pareva pressoché inimmaginabile. E in ogni caso nessuno ci aveva mai pensato: inviare i figli degli scioperanti in
vacanza.
Prima del 1936, nessun figlio di operaio era mai stato in
vacanza. E neppure i loro genitori. Non esistevano le vacanze operaie. È solo nel 1936 che il “Fronte Popolare”, in
Francia, fece accordare alla classe operaia una vacanza di
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una settimana, imitando così, ma solo lontanamente, Hitler, che, in soli tre anni di potere, aveva beneficiato l’operaio tedesco con una trasformazione sociale senza pari
– costruzione di centinaia di migliaia di alloggi decorosi,
modernizzazione obbligatoria delle fabbriche, vacanze
(da 8 a 21 giorni) pagate, salari incrementati del 20% -; e
che costruiva per il popolo tedesco delle gigantesche stazioni balneari, portava le famiglie dei lavoratori in crociera, a bordo di splendide navi, nelle acque della Norvegia
o alle Canarie.
Così, lanciai un appello alle famiglie rexiste che vivevano
in montagna o sui litorali marini, chiedendo loro di invitare i figli degli scioperanti. Dovevano accogliere i bambini
come membri della loro famiglia e dovevano pagar loro
il viaggio».
che portavano i loro cavalli agli abbeveratoi».
D. E nei confronti degli industriali? Dei grandi proprietari?
Come agiva?
R. «Conducevo ogni giorno un’azione diretta: incontri di
massa, due, tre, quattro grandi incontri ogni pomeriggio
e ogni sera, con diecimila, ventimila lavoratori. Ma, contemporaneamente, e nella stessa regione in cui parlavo
a queste folle, andavo – altra innovazione – anche dagli
industriali per scuoterli.
Spiegavo loro: “Permettetemi di dirvelo, ma ciò che state
facendo non mi pare molto sensato, anche se intendete
tener conto solo dei vostri interessi d’industriali. Ovviamente non vi chiediamo di distruggere la vostra impresa.
Ma questa non è neppure un limone che dà più succo
più la si spreme. A furia di spremere si può spezzare: uno
spremiagrumi non è un maglio. Più l’azienda sarà condotta con fermezza e competenza, più essa andrà meglio e,
nel contempo, più grande sarà la sicurezza di coloro che
lavorano in essa e vi guadagnano il pane. Ma, a furia di
temere davanti alla prospettiva di dover stabilire delle
basi sensate salariali e di opporvi a delle misure sociali
che reputate troppo ardite ma che sono invece giuste e
indispensabili, voi rischiate di far marcire quei limoni dai
quali avreste potuto estrarre, assolutamente per primi, la
vostra parte di succo. È nella misura in cui i vostri operai
potranno guadagnare di più, senza per questo far crollare
l’industria, che voi stessi potrete produrre e guadagnare
di più, perché, direttamente o indirettamente, i lavoratori sono i vostri primi acquirenti; spesso è dal loro morale
che dipendono i ritmi della produzione. Quindi, ciò che
essi chiedono concorda perfettamente con i vostri stessi interessi”. E poi aggiungevo: “Andiamo! Dite di essere
dei patrioti? Ma che cos’è allora la Patria? Sono le persone
che vivono sul suo suolo! Questa gente fa parte dei cittadini al pari di voi. Siete figli della stessa Patria”.
E a quelli che si professavano cristiani: “Dite di essere cristiani? Questi operai allora non sono forse vostri fratelli?
Con loro non potete mettere in pratica la virtù della fratellanza? Che cos’è mai Dio, senza la fratellanza?”.
E ottenni dei risultati assolutamente sconvolgenti, perché tra tutti quegli industriali – eccezion fatta per i grandi
signori del denaro, che cercano, ogni volta che possono,
di condurre l’intera vita economica a loro ed esclusivo
piacimento – vi era un gran numero di bravi industriali,
normali, capaci, recettivi, delle persone che in precedenza avevano percepito solo a malapena la questione sociale e i suoi aspetti umanitari, ma che, una volta che si
era parlato loro a cuore aperto, non si chiudevano affatto,
non restavano arroccati in un conservatorismo inamovibile».
D. Ha funzionato?
R. «Fu un successo assolutamente oltre ogni più rosea
previsione. Io stesso, ogni mattina, ero sul marciapiede
della stazione, a seguire ogni partenza. Bisognava proprio
vederlo quello spettacolo! Le famiglie operaie arrivavano
a centinaia; le madri socialiste o comuniste ci affidavano i
loro marmocchi, sollevando il pungo chiuso come saluto
davanti a quei treni speciali.
E s’immagini poi quelle migliaia e migliaia di bambini che
arrivavano al mare! Non avevano mai visto le onde. Altri
andavano in zone di fiume o in montagna: e non avevano
mai visto dei fiumi, mai visto delle montagne! Conoscevano solo la loro vallata sudicia, la loro cittadella operaia
nera di fumo, con le vie strette, totalmente infangata d’inverno e soffocante e polverosa d’estate, e tutte così lerce
e così simili le une alle altre.
Avevo quindi dato ordine che bisognava far inviare dai
bambini ai genitori una cartolina al giorno, nella quale
essi dovevano spiegare loro come si stavano comportando e come tutto là era bello. Inoltre le cartoline, che riproducevano le immagini dei vari luoghi di vacanza, comprovavano ulteriormente quella bellezza. Erano splendidi
panorami, con barche, pescatori, migliaia di conchiglie
argentee, casse di pesci, i limpidi fiumi delle Ardenne,
le placide mucche con i loro occhi tondi come quelli dei
loro padroni, i tetti violetti di ardesia, gli altopiani che
dolcemente stendevano il loro verde scintillante sotto gli
ampi e tersi cieli. Tutta la strada era al corrente dell’arrivo di quelle missive, osservava le cartoline, ne ascoltava
i racconti, le commentava. Quel grande sogno realizzato
dei bambini faceva miracoli. Andava dritto al cuore della
gente. Per gli scioperanti, uomini e donne, quell’esperienza dei loro figli rappresentava un’avventura straordinaria:
migliaia di questi piccoli se ne stavano comodamente
sotto il sole a osservare i pescatori fiamminghi che scaricavano i pescherecci, oppure i contadini delle Ardenne
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Intervista con Degrelle
D. Alla fine è riuscito a ottenere qualcosa di più che vaghe
promesse?
Cercando di copiarci, o di toglierci la terra sotto ai piedi,
Paul-Henri Spaak, il loro ministro più noto, allora lanciò
persino quello che lui chiamò Socialismo-Nazionale. Socialismo-Nazionale o Nazional-Socialismo: era in fondo la
stessa cosa! Era solo una semplice inversione di parole,
che in fin dei conti non era nemmeno tale, visto che nella grammatica tedesca l’aggettivo qualificativo precede
il sostantivo. E, infatti, la traduzione fedele di “NazionalSocialismo”, quello di Hitler, dovrebbe essere SocialismoNazionale.
Henri de Man, presidente del Partito operaio socialista
belga nel 1936, avrebbe voluto, in accordo con Spaak, realizzare questa mutazione in direzione del Rexismo. Dovette attendere l’invasione tedesca del maggio 1940 per
andare più veloce di noi e per convertirsi al Nazionalsocialismo e, seguace hitleriano conclamato, proclamare lo
scioglimento del Partito Socialista di cui era Presidente! Si
dichiarò persino pronto a costituire con me un governo
iconoclasta, come le racconterò poi in seguito.
Nel 1936, in Belgio, così come in ogni luogo dell’Europa,
questa combinazione [Nazional-Socialismo, ndt] era già
la sola vera formula, quella che poteva riconciliare il popolo con la totalità della nazione. Peccato però che de
Man si arrischiò a farsi coinvolgere completamente da
essa solo dopo che l’onda tedesca era giunta al Belgio e
lo aveva completamente impregnato».
R. «Le racconterò un episodio particolarmente significativo, quello del conte, allora barone, de Launoy. Questo
barone de Launoy era, ed è restato per lungo tempo, la
prima potenza industriale del Belgio. Tra le altre cose, era
il grande signore dell’acciaio. Era più spesso uno squalo,
piuttosto che una pecora. E io non l’avevo mai risparmiato. Ma in questo caso, egli comprese tutto molto in fretta,
perché, indubbiamente, ai suoi occhi anche gli affari sociali rappresentavano pur sempre degli affari, e quindi le
mie argomentazioni a proposito della collaborazione tra
classi nell’abbondanza avevano colpito questo manipolatore intelligente di beni e di esseri umani».
D. Come reagì allora?
R. «Arrivo da lui. Per venti minuti gli elenco tutte le mie
lagnanze. Alla fine lui si rizza dietro alla sua scrivania:
“Perfetto, tutto ciò che ho qui è per voi”.
Apre la sua cassaforte che era nascosta dietro a un quadro d’autore: “Ecco – mi dice – prenda”.
Ma come potevo portar via quella fortuna? I biglietti formavano un mucchio così imponente che pareva un casco
di banane!
“Le vado a cercare una valigia”, riprende de Launoy, tranquillamente; e per qualche minuto abbiamo travasato
quella miniera d’oro. Erano due milioni e quattrocentomila franchi, ed erano franchi pesanti di quell’epoca! Erano
l’equivalente dell’abbonamento per un mese di 120.000
persone a Pays Réel! Due milioni e quattrocentomila franchi! In vita mia non ne avevano mai visti così tanti in una
sola volta! Sono ripartito a piedi per la strada, fino alla stazione, con la mia valigia da multimilionario!
Dopo questo, non c’era più alcun dubbio. Il caso era chiaro: la massa operaia doveva vincere. Mangiava. Non temeva più per i propri figli. I padroni iniziavano a rendersi
conto. In tre settimane ce l’avevamo fatta. Lo sciopero era
finito e avevamo vinto».
D. Torniamo ai comunisti. Come reagivano quando lei andava nelle fabbriche e nelle città operaie?
R. «I comunisti sapevano bene che con noi non avrebbero avuto mai nulla a che spartire. Avevo lanciato una
campagna nazionale: Rex o Mosca. Non avrei mai ammesso, e mai lo ammetterò, il Comunismo. Il Comunismo
uccide la vita delle coscienze, non permette di respirare
a un essere umano. Inoltre, è totalmente fallimentare, a
livello economico. Indubbiamente sarebbe magnifico
se un giorno gli uomini potessero dividersi tutto in parti
uguali, formare un tutt’uno economico, e ci potesse essere un’unica tasca, quella del collettivismo. Ma l’uomo
in realtà sarà sempre attratto dal profitto. Il più povero
dei proletari pensa a guadagnare di più, e non certo a
restare sull’ultimo gradino della scala sociale. E se fa dei
progressi sociali, non pensa più a dividere alcunché. La
formula comunista è psicologicamente errata. E lo è fin
dai suoi albori. Mosca non fu mai in grado d’inventarsene
un’altra. D’altronde, persino in Russia il Comunismo non
è altro che fumisteria. Solo i 750.000 approfittatori della
“Nomenklatura” si dividono le tartine imburrate del Collettivismo.
Resi rabbiosi dal vedere l’influenza che sapevo avere sulle masse operaie, i comunisti avevano deciso di contrastarmi con ogni mezzo, per quanto violenti e sanguinari
D. E i comunisti? Vi hanno lasciato cacciare sul loro territorio?
R. «Non erano affatto entusiasti, come può ben immaginare! Diventavano furibondi non appena sentivano la
mia voce.
I socialisti erano soddisfatti degli accordi finali. Loro erano più moderati e, in ogni caso, non potevano far troppa confusione anche perché l’alta finanza li teneva per
il collo dopo la loro disfatta con la “Banca del Lavoro”, in
cui erano stati inghiottiti centinaia di milioni di risparmi
degli operai.
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fossero.
Il grande colpo avvenne a Seraing.
Le ho già parlato in precedenza di Seraing, quel possente bastione rosso nella regione di Liegi in cui si trovava
un gran numero dei più duri tra gli estremisti di sinistra.
Ma anch’io avevo i miei “duri”, che avevano votato per me
a migliaia, la precedente primavera. Così, avevo nuovamente organizzato un grande raduno a Seraing.
Alla vigilia avevo parlato a Ginevra, perché già in quel
momento mi rivolgevo di frequente a pubblici di altre
nazioni, cosciente di dover creare un’Europa unita.
Era tornato con un piccolo aereo. Scendo dall’apparecchio a Bruxelles, all’una del pomeriggio: “Non c’è niente
da fare – mi dicono – l’incontro di Seraing è stato vietato”.
Dato che Seraing aveva una municipalità rossa, rossa
come il minio, essa aveva, come sempre nel più puro spirito democratico, vietato il mio incontro. Il borgomastro,
per tutelare questo divieto, aveva fatto appello a tutta la
gendarmeria della provincia. Dall’inizio del pomeriggio,
settecento gendarmi sbarravano tutte le vie d’accesso
alla località».
depositi ed ecco che avevano iniziato a spararci contro!
Sempre la mia solita fortuna: nel corso della sparatoria,
tre dirigenti rexisti che erano al mio fianco erano stati colpiti, tra di essi vi era anche il capo di Rex-Liegi, l’avvocato
Gérard Willems. Io invece neppure un graffio. Così ho potuto continuare, facendo quel comizio fino alla fine.
A Bruxelles, nel venire a sapere di questi sanguinosi incidenti, si era diffuso un folle terrore nei ministeri. Il ministro dell’Interno, un tal Bovesse, grosso buffone volgare,
con capelli radi da vecchio tenore obeso – pesava almeno cento chili! – aveva persino telefonato a mia moglie a
Namur: “Se ne vada subito in campagna, Degrelle è stato
ucciso, sta per iniziare la rivoluzione”».
D. E lei in tutto questo?
R. «Con il battello e i nostri tre feriti siamo ridiscesi a Liegi, non senza altri incidenti supplementari: i comunisti si
erano messi sopra i ponti e, al nostro passaggio, gettavano su di noi degli enormi massi. I tetti del battello vennero sfondati. Ma riuscimmo a passare lo stesso. Anche in
quel momento, avevamo tenuto testa ai nostri avversari.
Per me questa fu sempre una legge inesorabile: non ci si
arrende. Né in tempo di pace né in tempo di guerra. Ci si
arrende solo quando si muore, ma mai prima di quel momento. Avevamo dunque dato prova del nostro risoluto
vigore. Ormai, la grande campagna di Rex si estendeva
fino ai confini del Paese e oltre, e scuoteva le masse fin
nella loro più recondita interiorità. L’avevo preparata per
mesi. Ora era in piena effervescenza».
D. Come ha aggirato questo divieto?
R. «Salto sulla mia auto, arrivo a Liegi, noleggio una grande barca. Mi ero detto: “Sull’acqua non potranno mettere
posti di blocco con gendarmi, quindi arriveremo attraverso la Mosa”.
Magnifica, maestosa, la Mosa passa proprio in mezzo a
Seraing, accanto alla piazza principale, là dove avrei dovuto tenere il mio incontro e dove immaginavo la gente
si sarebbe concentrata la sera per vedere, in ogni caso,
che cosa sarebbe accaduto.
In un’ora, faccio mettere dei potenti altoparlanti sulla mia
barca. Vi faccio salire i miei sodali. Al calar della sera, arriviamo nel cuore di Seraing, dopo essere passato sotto
il naso dei settecento gendarmi appostati sulle strade e
all’ingresso della cittadina. Come previsto, sulla piazza
principale c’era una folla immensa.
Immediatamente, dal fiume, iniziai il mio comizio. La mia
voce tonante attraverso gli altoparlanti si espandeva su
tutta la città. E in quel momento si è visto fino a che punto potevano giungere i comunisti».
D. E il governo belga? Come reagiva?
R. «In quel momento, il visconte Terlinden, professore universitario e provetto storico belga che sicuramente non ci
amava, alla domanda fattagli a Roma da Ciano, ministro
degli Esteri di Mussolini, su chi fossimo noi, si dice abbia
risposto così: “Se si votasse ora, Degrelle avrebbe di certo
ottanta eletti”. Vale a dire, avrei quadruplicato il risultato
della votazione della primavera precedente.
Capendolo solo allora, e in ritardo, il governo belga annunciò quindi con clamore che dichiarava guerra a noi
Rexisti, quasi fossimo degli Apache o dei Sepoy [il termine Sepoy designava qualunque militare indigeno dell’India sotto il governo britannico; essi furono protagonisti
dei moti indiani del 1857, detti anche Rivolta dei Sepoy,
contro il potere coloniale britannico in India della Compagnia britannica delle Indie Orientali, ndt]».
D. Ossia?
R. «Nel giro di mezz’ora si erano resi perfettamente conto del fatto che avevo calamitato completamente il loro
pubblico: c’erano dieci o quindicimila persone accalcate lungo il fiume ad ascoltare e che erano pure divertite
dall’avventura di quel vascello fantasma.
Allora i comunisti erano corsi a cercare delle armi nei loro
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Altre Voci
Altre Voci
Intervista con Degrelle
decimo, undicesimo e dodicesimo capitolo
Traduzione italiana a cura di Monica Mainardi
CAPITOLO DECIMO
La guerra contro Degrelle
R. «Nella maniera più assoluta e permanente. La libertà
accordata all’opposizione di sinistra è, a quanto pare, “democrazia”. Ma se si tratta di altri soggetti, non si parla più
di democrazia! Essa non vale più! Il popolo che ha votato
“male”, vale a dire a Destra, o, peggio ancora, se ha votato
“fascista”, allora non viene più considerato un vero popolo! Silenzio! E subito viene messa una museruola sulla
bocca di coloro che non fanno parte dei “veri democratici”. Fu il mio caso allora e lo è tuttora. La loro democrazia
non è altro che una truffa.
Così dunque, all’indomani delle elezioni belghe del 1936,
si violarono a mie spese le leggi e gli accordi belgi collegati alla Convenzione dei Diritti dell’Uomo. Pur essendo
capo di un’importante opposizione, non ho mai potuto
mettermi davanti ai microfoni della radio del mio Paese:
neppure per un solo minuto. E poi parlate di libertà!
I ministri belgi si rendevano perfettamente conto di che
cosa sarebbe accaduto se io avessi potuto disporre del
mio sacrosanto turno ai microfoni, cosa che avrebbero
dovuto normalmente accordarmi. Sapevano che cosa sarebbe successo se, attraverso le onde radio, avessi potuto
raggiungere centinaia di migliaia di compatrioti! Avrei,
come si suol dire, “fatto furore”! Quei servi del regime giudicarono più prudente rompermi il microfono in testa.
Privato, tramite quella misura assolutista “democratica”, di
quel prodigioso strumento di lavoro che è la radio, sarei
rimasto condannato, fino alla Seconda guerra mondiale,
a dover percorrere tutte le sere, da una parte all’altra, le
varie regioni del Belgio; a macinare centinaia di migliaia
di chilometri l’anno, di sera, di notte, per incontrare e arringare diecimila persone in un luogo, cinquemila in un
altro. Era un lavoro sfiancante. Se non fossi stato dotato
di un enorme vigore fisico, un simile dispendio di forze
mi sarebbe stato impossibile. Durante le ultime cinque
settimane della mia campagna elettorale del 1936, avevo dormito due ore a notte, senza mai sentire la benché
minima fatica, non un indolenzimento e tanto meno un
mal di testa. I record che ero riuscito a battere tenevano
perfettamente testa a quelli che si possono conseguire
nella più grande competizione sportiva.
Se, al posto di stremarmi in quel modo da paesino a paesino, avessi potuto disporre dei microfoni della radio
belga, come era democraticamente mio perfetto diritto
in quanto capo di un’opposizione così numericamente
importante, avrei coinvolto un numero di compatrioti
ancora molto più grande; si figuri!
Degrelle vietato alla radio – Il raduno dei 250.000 Rexisti – Possibilità di un colpo di stato militare – Degrelle vi
rinuncia, deciso a trionfare senza ricorrere alla violenza –
Il generale Chardonne pronto all’assalto – Il quiproquo:
Leopoldo III non si sarebbe opposto a un colpo di stato
– Degrelle, a capo del Belgio, avrebbe risparmiato all’Occidente la guerra del 1939? – Gli accordi segreti di Degrelle per raggiungere legalmente il potere – La sfida di
Léon Degrelle al governo e a tutti i partiti – Tre alleanze.
D. Il governo belga come ha condotto quella guerra che
aveva dichiarato al Rexismo?
R. «Non si era mai visto in Belgio, e in nessun’altra parte
d’Europa, un intero governo che dichiarava pubblicamente la guerra, e all’interno del proprio stesso Paese,
a un movimento politico legale che non più tardi di sei
mesi prima era stato il vincitore alle elezioni.
“Ci siamo sbagliati, lo ammetto, di fronte al pericolo rexista”, dichiarò alla radio il ministro belga Spaak; “oggi il
governo se ne rende pienamente conto e lancia il guanto di sfida. Unanime, inizierà a lottare”.
Io avevo convocato a Bruxelles centomila persone per
un gigantesco raduno. Sentivamo che le folle erano frementi. Ero il solo in grado di smuoverle e di trascinarle. E
fu proprio allora che il governo “unanime” decise di sbarrarci la strada.
Primo attacco governativo: interdizione alla radio. In
Belgio, le ore alla radio si suddividevano a seconda
dell’importanza dei partiti. Al giorno d’oggi si trova perfettamente naturale che il grugno sgradevole di un comunista come Marchais appaia continuamente alla televisione francese. È giusto! È democratico!
Ma nessuna lega cosiddetta democratica ha mai protestato, in Belgio o altrove, contro la mia eliminazione
totale dalla radio prima della guerra, e neppure contro
quelle inaudite leggi speciali che, dopo il 1945, mi hanno
vietato di rimettere piede nel mio Paese, impedendomi
di farvi giungere un qualsiasi mio scritto e non permettendomi di dirvi più neppure una parola!».
D. Lei venne escluso dalla radio nel 1936?
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Intervista con Degrelle
Che i miei discorsi potessero venire trasmessi, durante
le grandi occasioni, all’intera nazione all’ascolto sarebbe
stata sì o no una cosa democratica? Centinaia di migliaia di cittadini avevano votato per la mia causa. Eppure,
lasciarmi parlare era considerato intollerabile! E quindi:
vietato il microfono della radio a Degrelle! E tutto, assolutamente tutto, riservato unicamente ai signori del regime
al potere!
Libertà d’espressione?... Libertà di parola?... Non si trattava più di libertà, ma di privilegi da conservare in via
esclusiva!
Ed è così che nel 1936 i vecchi partiti belgi ormai con le
spalle al muro chiusero imperativamente la bocca a tutti
coloro che non accettavano la loro corruzione o la loro
subdola imbecillità.
Inoltre, il governo si apprestava ad accanirsi anche contro
i miei grandi raduni, per soffocarli. E, ovviamente, sempre
molto “democraticamente”!».
a Bruxelles tremila gendarmi: vale a dire era stata radunata l’intera gendarmeria del Belgio. Era uno spettacolo
incredibile. La capitale si era trasformata in una città assediata. Tutte le vie di accesso a Bruxelles erano state tagliate, invalicabili. Il colmo era però che quasi tutti i gendarmi
erano Rexisti; lo era almeno il novanta per cento di loro,
esattamente come accadeva anche con l’esercito. E in Accademia militare, avevamo il consenso totale e assoluto.
Ricevetti allora una lettera del generale Chardonne, che
era il grande e glorioso capo della divisione dei Cacciatori
delle Ardenne: il militare più popolare di tutto il Belgio.
Il generale Chardonne mi scriveva: “Sono a vostra completa disposizione: una sola vostra parola e i miei treni
speciali giungeranno a Bruxelles per sostenervi”. Quindi,
quel giorno avrei potuto prendere il potere. Nessun gendarme avrebbe potuto resistere davanti ai Cacciatori di
Chardonne.
Trent’anni dopo, una volta che Chardonne era ormai
morto, si è tentato di negare questa sua offerta, perché
dava fastidio. Ma accadde esattamente così come vi ho
appena detto, e il dono di Chardonne fu così totale che
anche nel 1944, lui, anziano generale provetto dell’esercito belga, fece il grande gesto di arruolarsi incondizionatamente nella mia Brigata volontaria Waffen SS che dal
1941 lottava contro i Sovietici sul fronte dell’Est.
Quella domenica a Bruxelles, c’erano per le strade anche
dozzine di migliaia di ex combattenti, ansiosi di spalleggiarci. In una sola ora avremmo potuto ribaltare l’intera
capitale».
D. In quale occasione? E in che modo?
R. «Qualche giorno dopo avermi tagliato ogni possibile
accesso alla radio, ecco che il governo belga spinge il
fanatismo fino a lanciare il divieto sul mio “Incontro dei
Duecentocinquantamila”, visto che è così che fu immediatamente chiamato il grande raduno che Rex aveva
preparato a Bruxelles per il 25 ottobre 1936. La Sinistra
non aveva mai potuto neppure immaginare una concentrazione di suoi fedelissimi di simili proporzioni. Al posto
dei centomila spettatori previsti in un primo momento,
stavano giungendo da tutto il Paese, e in perfetta legalità, qualcosa come duecentocinquantamila Rexisti. I ministri belgi, terrorizzati, ricorsero a una misura tipicamente
dittatoriale: il divieto».
D. E lei ha detto di no?
R. «Ho detto di no perché – e ci tengo a ribadirlo – volevo
vincere nell’assoluta legalità e con il libero consenso del
popolo. Ero sicuro di riuscire a convincerlo e di giungere
al potere sostenuto da esso. Perché mai dovevo ricorrere
alla forza fisica quando disponevo della forza più grande
di tutte, ossia la forza della convinzione?
Il tempo mi sarebbe in seguito mancato unicamente per
il fatto che la Seconda guerra mondiale avrebbe fatto
rombare i suoi tuoni di tempesta nel cielo dell’Europa,
compromettendo tutto. Ma in quell’ottobre del 1936, la
conquista pacifica del mio Paese mi sembrava un obiettivo ancora realizzabile.
Il ricorso alla forza fisica può rappresentare solo l’ultima
tra le scelte. Io volevo tentare ogni strada per evitarlo».
D. Che cosa ha fatto lei?
R. «Che cosa ho fatto? L’ho accettato. Eh sì! Ho tollerato il
divieto. Come potrà immaginare, non faceva molto parte
del mio temperamento. Ciò nonostante, ho annullato il
raduno, affinché fosse stabilito con la massima chiarezza
che io volevo giungere al potere nella pace. Ho detto a
tutti: “Non voglio prendere il potere nel caos e tra i disordini; io prenderò il potere perché sarà il popolo a darmelo. Per ottenerlo, non intendo lanciare le forze armate
contro una parte del mio Paese”».
D. Le forze armate erano state mobilitate?
D. Bene! Rifiutò il sostegno del generale Chardonne. E
poi?
R. «Ovviamente. Eppure non si era registrato alcun atto
provocatorio, da nessuna parte. Si trattava solo di persone pacifiche che stavano andando a fare una riunione.
Per sbarrar loro la strada, il governo belga aveva radunato
R. «La cosa più incredibile di tutto l’affare del Raduno dei
Duecentocinquantamila, nel quale il generale Chardonne
avrebbe potuto assicurare una conclusione a mio favore
51
tramite il suo intervento, è che, a mia totale insaputa, lo
stesso re Leopoldo III era d’accordo nel non reprimere
una nostra eventuale buona riuscita! Il sovrano in persona raccontò in seguito allo scrittore Pierre Daye come
aveva deciso di non permettere che la forza pubblica ci
sbarrasse il cammino per mezzo delle armi.
“Se Degrelle avesse preso d’assalto i ministeri, spiegò il re,
avrei dato l’ordine di non resistere. Avrei subito pregato il
signor Degrelle e il signor Van Zeeland di formare insieme
un governo di transizione, incaricato di far nuovamente
votare i Belgi, quaranta giorni dopo”.
Avrebbe deciso l’elettorato. Nel corso di una simile campagna, avrei finalmente avuto ufficialmente a disposizione, in quanto semi-detentore del potere governativo, le
gigantesche possibilità di propaganda della radio, e così
avrei mobilitato l’intera nazione. Un’enorme ondata elettorale mi avrebbe senza dubbio sostenuto e portato al
potere. Avrei potuto diventare, in maniera del tutto pacifica, l’uomo forte del Belgio nel giro di quei quaranta
giorni».
cattatori internazionali e dei più vili guerrafondai, pronti
a rovesciare l’intero mondo per puro interesse, per ambizione politica, o anche per odio razziale, e talvolta semplicemente perché la loro stupidità li teneva strettamente
legati al passato.
A trent’anni che cosa conta davvero? Il futuro! Io volevo
che quel futuro per tutti noi, giovani ragazzi d’Europa,
fosse un campo d’azione unito e fecondo, e non un cimitero in cui i vecchi, rimuginando sulle loro fissazioni, ci
avrebbero seppellito».
D. Non si è mai pentito del fatto di non aver permesso
che il generale Chardonne s’impadronisse di Bruxelles a
suo favore?
R. «Quante persone mi hanno rimproverato del fatto di
non averne approfittato! Lucien Rebatet, che era uno dei
più meravigliosi polemisti di Francia, mi ha sempre ripetuto: “Ma perché, buon Dio, non ha preso il potere quel
giorno: le era stato offerto tutto!”.
Ma è più facile rifare la storia a tavolino, piuttosto che
forgiarla sul campo. Retrospettivamente, io mi dico: cedere alla tentazione della forza, sì, avrei potuto farlo, è
ovvio. Ma il mio piano politico era un altro. Nell’autunno
del 1936, l’Europa non era ancora entrata nel delirio e io
pensavo di poter vincere per tempo in Belgio, senza far
ricorso a un rovesciamento di quel genere. La prova di
ciò stava proprio nella grande paura che il governo belga
aveva avuto vedendomi trionfare rapidamente nella legalità. Una paura così clamorosa che aveva persino spinto questo governo, che si proclamava tanto democratico,
a violare le stesse norme democratiche, nella speranza di
poter frenare il mio slancio.
Inoltre, senza che l’opinione pubblica belga l’avesse mai
sospettato, il 25 ottobre 1936 avevo già in mano delle
carte fondamentali che mi avrebbero consentito di accedere in breve tempo al potere senza fare alcun ricorso
allo scontro pubblico. Per raggiungere quest’obiettivo
nella pace e nella legittimità, avevo preparato con cura
e in silenzio dei rapporti di collaborazione che, procurandomi ulteriori grandi sostegni popolari, mi avrebbero assicurato un prossimo arrivo alla testa di un governo forte,
senza sgradevoli rischi di frattura».
D. In quel caso, quale sarebbe stata la sua azione a livello
internazionale?
R. «Domanda di grandissima importanza. Sì, che cosa
avrei fatto? Che cosa sarebbe accaduto? Avrei lottato
senza posa – perché da questo dipendeva la pace in Europa – perché si giungesse a un riavvicinamento francotedesco. Ogni giorno avrei arringato dai microfoni della radio belga il popolo francese. Si tratta di un popolo
acuto, è sensibile alla parola, all’argomentazione diretta.
Avrei mirato a convincere i Francesi che il loro maggior
interesse stava in un lavoro di squadra franco-tedesco, e
non in un complotto suicida – che diventava suicida per
tutti quanti – sotto l’occhio cinico dei Soviet, pronti a divorarci uno dopo l’altro una volta che ci fossimo attaccati
e sbranati a vicenda.
Chi lo sa se in questo modo si sarebbe potuta evitare la
guerra civile dell’Occidente scoppiata poi nel 1939? Allora avevo trent’anni, un’età in cui si è in grado di prendere
il destino per le corna. Inoltre, nel luglio 1936, Hitler e io
avevamo avuto, nella Cancelleria di Berlino, un lungo colloquio segreto a questo preciso proposito. Il Führer aveva
capito il mio piano di riavvicinamento europeo. Tra lui e
me era nata una grande corrente di simpatia, e, soprattutto, di comprensione. Forse, più di chiunque altro sul
continente avevo l’opportunità di stabilire un dialogo
proficuo. E, vincendo in Belgio, mi sarei subito lanciato
nella lotta per la pace.
Nessun ostacolo mi avrebbe scoraggiato e, tanto meno,
mi avrebbe fermato. In ogni caso, solo uno sforzo simile
poteva ancora salvare l’Europa, zeppa di menzogne, folle
di cieco furore, esposta alle provocazioni dei peggiori ri-
D. In che cosa consistevano, come aveva concepito e
come aveva messo in atto questi “avvicinamenti” ai quali
sta alludendo?
R. «Il primo fu quello che ci valse l’alleanza con i nazionalisti fiamminghi. Lo si sa: fin dai tempi del collegio e
dell’università, io avevo difeso la causa fiamminga. Perché? Perché era una causa giusta e coincideva con l’interesse della nazione. I Fiamminghi erano stati molto sensi52
Intervista con Degrelle
bili a questo mio atteggiamento. Or dunque, un gruppo
parlamentare numericamente importante raggruppava i
deputati nazionalisti delle Fiandre. Si chiamava VNV: “Vlaamsche Nationalist Verbond”, ossia, “Lega dei Nazionalisti Fiamminghi”. I suoi deputati avevano dimostrato nei
nostri confronti una leale amicizia. Io avevo scelto come
capo dei miei senatori un celebre scrittore fiammingo
dell’epoca. Si chiamava Paul de Mont. Era un grande mutilato della guerra 1914-1918, vale a dire un nazionalista
fiammingo che, dal punto di vista “belga”, era assolutamente irreprensibile. Aveva perso entrambe le gambe al
fronte.
Altri scrittori fiamminghi, famosi quanto o più di lui, come
Timmermans, Waelschap, Claes, erano miei amici: avevo
pubblicato delle splendide traduzioni delle loro opere
nella “Collezione Fiamminga” delle mie Edizioni REX. E un
quadro del più grande pittore delle Fiandre, Servaes, stava alle spalle della scrivania del mio ufficio.
Paul de Mont, che avevo incaricato di fare delle negoziazioni con il partito nazionalista fiammingo, era giunto a
concludere segretamente un accordo decisivo. Quell’alleanza era stata stabilita nell’ottobre del 1936, vale a dire
nello stesso momento in cui avevo rinunciato a cedere
alla tentazione dell’uso della forza. Quindi, se non avessi
ceduto a quella via tanto più facile e comoda, se fossi riuscito a mantenermi fermo nella mia politica mirante ad
arrivare al potere in modo pacifico, sapevo che sarei riuscito ad avere a mia disposizione questa potente alleanza
fiamminga nel momento delle ultime manovre».
stanche e sfiancate, ma anche ansiose di rinnovamento,
erano il ministro Gustave Sap, nelle Fiandre, e il conte
d’Aspremont-Linden, in Vallonia».
D. Chi era il ministro Sap?
R. «Il ministro Sap era il proprietario onnipossente della grande stampa fiamminga, raggruppata attorno allo
Standaard, vale a dire un uomo che teneva in mano degli
immensi mezzi di propaganda, che godeva di una notevolissima influenza, sia come uomo politico sia come creatore d’opinione. Era un tipo bello tosto. Era uno che azzannava i polpacci degli avversari con immenso piacere.
A differenza di tanti altri, non era mai stato invischiato
in traffici politico-finanziari. Nel corso di tutte le mie lotte contro i capi corrotti del suo stesso partito, mi aveva
alimentato abbondantemente con documenti sensazionali. In punta di piedi, veniva nel mio ufficio a fornirmi
informazioni. In questo modo mi aveva aiutato molto nel
riempire d’esplosivo le poltrone su cui sedevano i suoi
principali colleghi. Si rallegrava nel vedere poi saltare in
aria quei corrotti, anche perché pensava di aggiudicarsene in seguito il posto.
Era un complottista nato. La sua stretta collaborazione
con me è sempre stata ignota a tutti. Ci vedevamo a casa
sua, a Malines, o nel suo castello fantasma delle Fiandre
occidentali.
Una volta insediato nel principale posto di comando delle Fiandre, mi aveva dato la sua parola che al momento
decisivo avrebbe diretto dalla mia parte tutto l’elettorato
fiammingo che controllava. Era un grande specialista di
problematiche economiche, e nel nostro staff sarebbe
stato un ministro delle Finanze molto competente. Non
era un oratore, e non cercava neppure di attrarre a sé
l’adesione focosa delle folle. Come ministro, mi sarebbe
stato d’aiuto. Anche se all’inizio sarebbe riuscito ad aggiudicarsi il massimo dei vantaggi politici, non mi avrebbe mai intralciato la strada. Sarebbe stato il mio dottor
Schacht, intelligente, opportunista, e sarcastico; esattamente come lo fu molto utilmente il “mago delle Finanze”
del Terzo Reich».
D. Ha firmato altri accordi?
R. «Era la maggioranza assoluta, raccolta nella più piena
legalità, quella che mi sforzavo di ottenere grazie ad altri
ravvicinamenti che mi ero assicurato con discrezione e in
prima persona.
Miravano a provocare delle massicce adesioni in seno
allo stesso partito cattolico, quel vecchio partito cattolico che avevo ridotto a pezzi, e del quale avevo gettato
nella spazzatura, come fossero rifiuti maleodoranti, i capi
politici più corrotti. Avevo realizzato quest’opera di pulizia con un certo dispiacere, perché quel partito cattolico
raccoglieva attorno a sé un vasto corpo elettorale onesto
e in buona fede. E aveva ancora un numero notevole di
militanti assolutamente decenti. Quelle masse popolari
e quei dirigenti locali erano perfettamente recuperabili. Erano rimasti disgustati dai soprusi rivelati loro dagli
scandali inerenti ai principali truffatori del loro partito, e,
nel contempo, erano impressionati, tentati dal Rexismo.
Un’abile manovra poteva farli aderire al nostro movimento.
Le due personalità di maggior spicco che avevano conservato un profondo ascendente su queste truppe ormai
D. E dal lato vallone?
R. «Dal lato vallone, il conte d’Aspremont-Linden, di cui
mi ero assicurato la collaborazione con la medesima discrezione, era diventato, dopo la disfatta del suo partito nel maggio 1936, il grande capo morale della Destra
conservatrice. Era ricco, regnava su dei possedimenti di
notevoli dimensioni, osservava dall’alto in basso, quasi
con arroganza, le gang politico-finanziarie. Amante della bella vita, poco abituato al lavoro, più vicino a Epicuro
che a Titano, avrebbe portato nella nostra squadra brio e
53
umorismo. Senza esagerate ambizioni personali, avrebbe
potuto condurre a noi le grandi formazioni dell’elettorato
cattolico vallone di cui allora egli rappresentava l’ultima
risorsa. Era solito ricevermi in maniera regale nel suo castello di Condroz, dove talvolta giungevano degli strani
suoni di spari da un castellano suo vicino che si allenava
alla rivoluzione per puro piacere personale».
R. «In Belgio, come nella maggior parte dei Paesi cosiddetti democratici, il referendum non è previsto ufficialmente
dalla legge. Ed è un grande peccato, perché esso dà al popolo, su dei punti precisi, facili da afferrare e da comprendere, la facoltà di esprimere la propria opinione. Ciò nonostante, esistevano alcuni mezzi per rimediare a questa
carenza: per esempio, convertendo un’elezione parziale
in una sorta di consultazione della nazione. Quando un
deputato ha dato le dimissioni, oppure è morto, bisogna
insediare il suo supplente o, in assenza di questi, si deve
procedere a una nuova elezione.
Così ho fatto dare improvvisamente le dimissioni a un
deputato rexista di Bruxelles e ai suoi due supplenti. In
questa maniera ho creato un vuoto: un vuoto assoluto.
Bisognava assolutamente – piacesse o no al regime –
chiamare, entro quaranta giorni, l’elettorato della capitale a un’elezione legislativa.
Quell’elezione sarebbe stata la mia elezione test, visto
che mi sarei presentato io come candidato».
D. Quel fiammingo e quel vallone le avrebbero permesso
di ottenere la maggioranza?
R. «Queste due persone ci avrebbero fatto raggiungere
senza violenza alcuna la maggioranza assoluta nel Parlamento belga. Tutti i mercoledì, pranzavamo insieme,
in maniera molto cordiale, in alcuni antichi ristoranti di
pesce. Eravamo giunti ad alcune conclusioni politiche, al
punto che Sap e d’Aspremont-Linden si erano impegnati
a non entrare a far parte di nessun governo, a meno che
non fosse stato insieme a me. Gli accordi erano stati così
completi ed esaustivi che il ministro Sap – che pur essendo pieno di milioni, non avrebbe mai mollato un soldo
senza tremendi strazi – mi aveva chiesto di dargli centomila franchi per aiutarlo, diceva, in quella campagna elettorale. Glieli ho consegnati, in sterline, nell’ufficio dell’avvocato di Bruxelles Georges Dubois-Clavier. Al cambio
del giorno, quell’importo in sterline rappresentava persino un po’ più della somma fissata: 102.000 franchi. Devo
dire che fu molto sensibile a quel piccolo supplemento».
D. La battaglia elettorale del maggio 1936 era ancora
molto fresca nei ricordi…
R. «Erano passati solo dieci mesi dalla mia vittoria elettorale del maggio 1936, ed ecco che, nel mese di aprile del
1937, la capitale sarebbe tornata alle urne, e a causa mia.
Per il Rexismo o contro il Rexismo! Perché Bruxelles è il
cuore, è il polso, è la voce dell’intero Paese. Il suo voto
avrebbe rappresentato il voto di tutto il Belgio. Degrelle
avrebbe vinto? Degrelle non avrebbe vinto? Vincere non
voleva dire riportare necessariamente la maggioranza
assoluta. Se, semplicemente, avessi ottenuto una clamorosa vittoria, le mie alleanze sarebbero riuscite a giocare
il loro ruolo, e il potere, assicuratomi da quei legami tessuti segretamente, sarebbe giunto nelle mie mani nella
maniera più naturale possibile all’indomani di quell’elezione».
D. Eccola quindi forte di questo sostegno segreto di importanti alleati politici. Che cosa è accaduto poi?
R. «In questo modo – pubblicamente con i Nazionalisti
fiamminghi, e segretamente con i due ultimi dirigenti integri della Destra – mi ero assicurato delle adesioni
d’importanza capitale. E così ero pronto a sferrare il colpo
finale. Perché mai, quindi, avrei dovuto rischiare di gettare il Paese in una lotta fratricida, come accadeva in quel
tempo in Spagna, se potevo trionfare senza disordini e
senza scontri?
I vecchi partiti s’immaginavano, chi più e chi meno, e con
grande senso di angoscia, fino a che punto di potenza
ero ormai giunto. Ed è proprio perché sentivo di avere
quell’asso nella manica – nonostante la feroce campagna
che l’intero regime stava conducendo contro di me – che
nella primavera del 1937 decisi di liberare i miei cani, di
sfidare il regime, provocando, con un colpo di scena, una
sorta di referendum nazionale. Referendum vuol dire
consultazione popolare. Quindi, è democrazia. Quindi, è
legalità».
D. Immagino che la reazione dei suoi avversari di fronte
a questa sfida – diciamo pure di fronte a questa provocazione – sia stata più che vivace. Che cosa accadde?
R. «Per l’intero regime fu subito chiaro che si trattava di
una questione di vita o di morte. Avevano capito il mio
gioco: se io avessi vinto, loro avrebbero perso. Se avessi
trionfato, tutto il sistema si sarebbe ritrovato a pezzi.
Questo provocò il loro panico e l’incredibile decisione
sorta da questo panico stesso.
Alla fine di febbraio del 1937, si assistette a una stupefacente unità d’intenti del Parlamento belga. Su proposta
dei deputati comunisti, tutti i partiti si compattarono sulla
candidatura unica del Primo ministro. La loro fifa era così
grande che ai loro occhi soltanto il capo di quel governo
D. Un referendum? Per fare che cosa? A che cosa mirava?
54
Intervista con Degrelle
di coalizione a tre partiti, uniti l’uno all’altro dalla paura,
poteva essere considerato un candidato presentabile in
grado di contrapporsi a me! In quel modo ammettevano,
dunque, implicitamente che per sbarrare la strada a un
giovane uomo che l’anno precedente era ancora pressoché uno sconosciuto a Bruxelles, e salvarsi così la pelle,
essi non avevano ormai altra strada che contrapporgli un
unico candidato: il Primo ministro in persona, sostenuto
dalla totalità di tutti i politici di ogni colore!
Era finito il tempo in cui a ogni partito corrispondeva un
proprio candidato. Per esempio uno Spaak per il partito
socialista. O un De Man, che ne era il presidente. No! Solo
il Primo ministro poteva essere ancora posto sulla barricata della “democrazia”, come una sorta di Golia rappresentante tutti i partiti, scudo di tutti i politici; comunisti
compresi!
Quel Primo ministro si chiamava Paul Van Zeeland. Era
il classico tipo di professore universitario, con lo spirito
confuso, rigido come una lamiera arrugginita. Nessuno
ancora sapeva bene perché si trovasse da un anno alla
testa del governo, né quale tendenza rappresentasse, e,
tanto meno, quali interessi tutelasse. Eppure dovevano
essercene…
Subito si scatenò la grande battaglia. Una battaglia spietata. L’intera Bruxelles era stata mobilitata. Tutto il regime
politico si era levato contro di me, tutte le forze finanziarie ricoprivano d’oro Van Zeeland, dandogli dozzine di
milioni.
Alla fine, si sarebbe visto persino la Chiesa colpirmi sulle
tibie con i suoi bastoni pastorali».
CAPITOLO UNDICESIMO
Il Plebiscito perso
I mucchi di milioni del Grande capitalismo – M. Solvay, il
magnate della soda – L’accoppiamento del Primo ministro Van Zeeland con l’Alta finanza – Il Palazzo dello Sport,
cittadella di Degrelle – I mercenari comunisti – Panico del
governo belga di fronte a una possibile vittoria di Degrelle – Il ricorso al cardinale: il colpo sferrato dal bastone pastorale, estrema arma elettorale – Interdizione religiosa di
votare per Degrelle, per non incorrere in peccato mortale
– L’ignominia del tranello – Il tentativo disperato per salvare l’onore – Una grande occasione perduta.
D. Perché lei sostiene che le forze del denaro spendevano
senza freni per assicurare l’elezione del suo avversario? Il
Primo ministro belga Van Zeeland aveva qualcosa a che
fare con l’Alta finanza?
R. «Nel marzo 1937, in Belgio, il Grande capitalismo era
consapevole del fatto che stava ormai giocando la sua
ultima carta e che, se io ne fossi uscito vincitore, gli avrei
bloccato le gengive con un possente morso, e i miei speroni lo avrebbero lavorato ai fianchi per tutto il tempo
necessario; e che, una volta domato, sarebbe stato fermamente sottomesso, come tutti, all’interesse supremo
della nazione.
Ma piuttosto che vedere la loro onnipotenza messa al
passo e bloccata la loro dittatura politico-finanziaria, i
“gangster bancari” preferirono mettere sul banco tutto il
loro potere economico: dalle “Forze del denaro” stavano
per essere versati diciotto milioni al Comitato elettorale
di Van Zeeland. Diciotto milioni di quell’epoca è una cifra
che non è molto lontana da un milione di dollari di oggi
[l’intervista a Degrelle è del 1976, ndt]! A quel tempo era
una somma – al servizio di un unico candidato – assolutamente inimmaginabile! E in ogni caso era una somma
contro la quale noi non potevamo opporre nulla di simile,
né da lontano né – tanto meno – da vicino.
Quella lotta fu, in taluni momenti, grottesca e atroce, perché ovunque, malgrado la nostra fede e il nostro impeto, ci continuavamo a rompere il naso, e i pugni, contro
quella muraglia di denaro. E senza mai riuscire neppure
a farla vacillare.
Tanto per farle un semplice esempio, nel giro di qualche
giorno divenne impossibile poter affittare un qualsivoglia pannello per affissioni nell’intera Bruxelles. La prima
settimana, per prenotare un pannello, bisognava già pagare diecimila franchi, dandone sul posto la metà, che
doveva essere una banconota – corrispondente a quella
cifra – tagliata in due. Nel portafoglio così ti restava solo
l’altra metà della banconota, che la società pubblicitaria
55
si prendeva poi una volta che era stata effettuata l’affissione. Ma nel giro di otto giorni era scomparsa pure quella possibilità. Tutti i pannelli d’affissione erano stati presi
dalla mafia di Van Zeeland. Non c’era modo per affittarne neppure uno. Eravamo quindi costretti a mettere dei
grandi manifesti su dei camion e a farli circolare là dove
potevamo».
mesi più tardi, Van Zeeland, nonostante le sue dozzine di
milioni ricevuti dall’Alta finanza, si sarebbe sbriciolato in
aria come un fuoco d’artificio.
Ma, invece, noi non sapevano nulla.
Van Zeeland, piagnucolando di continuo, e presentandosi sempre al grande pubblico con le tasche vuote, osò
persino giocare al ruolo, in piena Camera dei deputati,
del pellicano condannato a lacerarsi il torace per nutrire i
suoi pulcini [ci si riferisce qui alla leggenda che i pellicani
si lacerino il torace per nutrire i pulcini con il proprio sangue, cosa che ha fatto diventare questi animali “emblema di carità”, ndt]. Come dar da mangiare in altro modo a
quelle povere creature?...
“Dio provvederà”, ebbe persino l’ardire di dichiarare frignando! E invece, questo padre lacrimoso non aveva affatto atteso che Dio assicurasse acqua pura e cibo alla sua
progenitura! Lui stesso se ne era incaricato, e ben oltre lo
stretto indispensabile, e lo si sarebbe visto in seguito! Ma
alla vigilia di quell’elezione-referendum, noi ignoravamo
tutti i brigantaggi bancari che gli avevano riempito ampiamente le tasche. Van Zeeland – che in seguito divenne
van Zeeland, con la “v” nobiliare, e che si farà persino nominare visconte – apparteneva alla mafia dell’Alta finanza.
Era stato uno dei suoi grandi approfittatori mimetizzati.
Così accadeva che toccava ai suoi colleghi versare a suo
favore quei milioni che derivavano dai lavaggi del cervello, mentre Van Zeeland continuava a giocare al ruolo
del puro, del disinteressato, quasi del povero; e così finiva
per essere acclamato da tutti i sempliciotti, sostenuto nel
contempo anche dai più spietati agitatori politici».
D. Chi è che stava pagando?
R. «Uno dei più grossi uomini d’affari belga fece una donazione di sei milioni a Van Zeeland, a lui soltanto. Peraltro lo fece utilizzando una sorta di prudenza comica, perché nella stessa settimana in cui donò i sei milioni a quel
candidato che si proclamava antifascista, ne versò altri
sei alla Gioventù hitleriana in Germania, ossia a un’organizzazione estremamente fascista. Si trattava di uno studiatissimo atto di compensazione! Quel corruttore s’immaginava che noi dovevamo avere delle conoscenze tra i
Tedeschi, e che così, nel caso in cui il suo puledro belga si
fosse rotto la zampa nel corso della gara, lui sarebbe comunque riuscito a proteggersi, nel caso la parte avversa
fosse riuscita a vincere!
Eppure, quel finanziatore aveva preso il più grosso degli
abbagli. Noi non avevamo nulla a che vedere con i Tedeschi. Da loro non avevamo mai ricevuto neppure un pfennig, né una qualsivoglia indicazione politica. A dire il vero,
nel 1937 i Tedeschi s’interessavano ben poco al Belgio. In
compenso, le fabbriche tedesche di quel finanziere poco
parsimonioso incassavano milioni di marchi in benefici.
Egli non aveva per niente voglia di comprometterle, ricoprendo d’oro Van Zeeland in maniera troppo imprudente.
Grazie a quegli altri sei milioni versati ai giovani ragazzi di
Hitler, egli credeva di sdoganarsi, facendosi passare come
uno di coloro che controllavano i rubinetti nazionalsocialisti attraverso i quali derivavano poi i suoi sontuosi dividendi. Eccola qui, la finanza politica internazionale in
tutto il suo cinismo!
E tutta la gentaglia dorata dell’Alta finanza mostrava uno
zelo altrettanto tremendo».
D. Visto che Van Zeeland non era un grande oratore pubblico, lei non aveva almeno un notevole vantaggio su di
lui? Lei aveva doti oratorie, i suoi raduni, le sue doti da
capo…
R. «Io m’impegnavo, ogni sera riuscivo a radunare diecimila, ventimila persone. Ma tutte le volte, all’ingresso dei
miei raduni – la mia sola arma di fronte a quegli esborsi di milioni –, c’erano i comunisti, che brandivano delle corde in cima alle quali erano attaccate delle palle di
piombo. Quelle palle di piombo andavano a colpire le
teste di coloro che entravano. Ogni sera, portavamo nella
nostra sede centrale cinquanta o sessanta feriti. Questa
era la libertà democratica! Questa era la libertà elettorale
allorché l’Alta finanza, per difendere la sua truffa elettorale, decise di dare il denaro che avrebbe finanziato i delinquenti filo-moscoviti.
Così, per non farci massacrare tutti, non restò più altra
possibilità che replicare con le stesse argomentazioni.
Feci arruolare come servizio d’ordine gli uomini più solidi e impressionanti del quartiere popolare di “Marolles”,
a Bruxelles. Erano chiamati i “veuchters” [i “paludosi”, ndt]
D. Lei sospettava queste collusioni tra Van Zeeland e l’Alta
finanza?
R. «Mi ponevo di continuo la domanda: perché questi filibustieri stanno così appiccicati a Van Zeeland? Era strano.
Lui giocava al ruolo del tecnico compassato e integerrimo. Ma se non era imbrigliato dalla finanza-politica, perché essa investiva così a fondo su di lui?
Di contro, se era invece collegato e legato a essa, come
e perché poteva esserlo? Era un mistero profondo. Se a
quel tempo avessimo potuto scoprirlo e svelarlo, se avessimo saputo ciò che saremmo riusciti a sapere solo sei
56
Intervista con Degrelle
e solitamente il loro compito era quello di disfarsi dei sobillatori nelle sale da ballo. Uno di loro, originario di Payottenland, e soprannominato “Lange Rie”, era alto due
metri, andava in giro con gli zoccoli, un cane nero sotto
il braccio e seminava il terrore. Feci ricorso a questi specialisti. Cento franchi a ciascuno di loro a ogni raduno per
pestare i nostri aggressori. Nel giro di una settimana, con
i denti maciullati come fossero ghiaia fine e il deretano
ammaccato, quei tipacci marxisti – che facevano da giannizzeri per il signor Van Zeeland – erano stati liquidati,
oppure se ne stavano sdraiati dentro a un letto d’ospedale».
D. Si è parlato molto dell’intervento del cardinale Van
Roey. Come spiega quel colpo che le assegnò con il suo
bastone pastorale?
R. «Il cardinale Van Roey, come ho già spiegato in precedenza, era un prelato del Medioevo, un omuncolo elementare, un troglodita con la sottana, buono solo per
essere rinchiuso in un Museo Grévin della preistoria. Puzzava molto e non diceva mai nulla.
In tempi più consoni a lui avrebbe massacrato gli infedeli
a colpi d’ascia e con un entusiasmo senza ritegno. Sarebbe stato lieto di far salire su un rogo preparato per bene
sulla piazza dell’arcivescovado di Malines quel Savonarola che io rappresentavo ai suoi occhi da inquisitore.
Il ministro [cattolico, nda] dell’Interno, du Bus de Wernaffe, detto ironicamente anche “Gugus de Wernaffe”, fu
incaricato dai suoi colleghi in ansia di andare a trovare
il cardinale a Malines, con l’obiettivo di ottenere il suo
intervento in extremis. Du Bus-Gugus era un rigoroso
baciapile, dal volto segnato e gonfio. Era assolutamente
indubbio che lo Spirito Santo con lui non era stato troppo
clemente. Era astioso e subdolo, come tutti i segnati da
Dio. Il giovedì sera, venne catapultato a Malines dal governo. Il venerdì mattina, vi fece ritorno per ottenere che
il cardinale, fino ad allora ancora reticente, intervenisse
nella campagna elettorale».
D. Come reagiva la popolazione?
R. «Ogni giorno, l’atmosfera della campagna elettorale diventava sempre più tesa. Eravamo schiacciati da quel denaro. Ma nonostante tutto continuavamo a lottare, radunando folle immense nei nostri incontri e guadagnando
sempre più favori. L’ultimo giovedì prima delle elezioni,
il governo dovette constatare che le previsioni realizzate
dai suoi servizi informativi m’indicavano come il possibile vincitore. Avevo occupato e riempito il Palazzo dello
sport quasi tutte le sere. Il risultato non si sarebbe di certo
fatto attendere, e sarebbe stato notevole.
Non era servito a nulla che tutti i partiti si fossero coalizzati contro di me, che avessero messo in prima fila il capo
del governo in persona e che avessero potuto disporre
solo loro dei microfoni radiofonici per l’intera durata della
campagna elettorale! Avevano mantenuto il monopolio
assoluto di quei microfoni, con un totale disprezzo dei
diritti sacrosanti del loro avversario. Durante quelle dieci
settimane non mi fu permesso neppure una volta, e per
nemmeno un secondo, di far sentire la mia voce al pubblico della radio!
Inoltre, Van Zeeland si era assicurato, come abbiamo già
visto, l’esclusiva dei pannelli d’affissione elettorale, acquistata a peso d’oro. I milioni dell’Alta finanza erano stati
sparsi in abbondanza. I comunisti cercavano di terrorizzare il pubblico dei nostri raduni. Tutto, assolutamente
tutto era stato tentato, pur di distruggermi.
Eppure il mio piano stava trionfando lo stesso. Il governo nascondeva a fatica il suo panico. Quella domenica
11 aprile 1937, il mio successo sarebbe stato tale che la
mia vittoria, completata dalle alleanze che avevo accuratamente preparato, avrebbe fatto scomparire quell’intero
baraccone. Questa era dunque la situazione sul campo di
battaglia, a due giorni dal voto.
Ed è allora che scoppiò, proprio all’ultimo minuto, la grande impresa del cardinale Van Roey; giusto nel momento
il cui il regime politico vide che stava andando alle corde
ed era destinato a uscire di scena da sconfitto».
D. In quel momento lei iniziò a sospettare e a temere di
venir condannato?
R. «Fino a quel momento, quel tipo d’intervento sarebbe
parso a tutti veramente impensabile. Io stesso, il mercoledì, al Palazzo dello Sport, durante un incontro su “Rex e
i valori spirituali”, avevo detto: “Allora! Noi siamo due candidati politici che si fronteggiano, in un confronto strettamente parlamentare. Van Zeeland dice di essere cattolico. Ancor meglio: ciò vuol dire che a livello religioso
siamo entrambi sullo stesso piano. D’altronde, in questa
elezione i princìpi religiosi non sono posti in causa in alcun modo. La religione non ha nulla a che vedere in questa lotta politica personale. Perché mai Malines dovrebbe
invischiarsi in questa vicenda? Malines non dirà nulla”.
Per tutti questa era una cosa di assoluta evidenza.
Ma du Bas incalzava da due giorni il cardinale con un argomento assolutamente positivo: “Se non interverrete,
Degrelle vincerà!”.
L’Eminenza osservava il suo bastone pastorale, molto
tentato.
Ma in ogni caso sarebbe stato un atto eccessivamente
forte. Colpire con quel bastone pastorale un candidato
politico alla vigilia di un’elezione! Un arcivescovo che interveniva in piena campagna elettorale, falsando così la
volontà popolare! Impedire che centinaia di migliaia di
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elettori potessero votare liberamente!
Al giorno d’oggi, parrebbe assolutamente impensabile che, per esempio, un cardinale di Parigi condanni un
candidato alla vigilia delle elezioni presidenziali e vieti ai
cittadini di votare per Giscard d’Estaing o per Mitterrand,
“sotto pena di incorrere in peccato mortale”.
Tuttavia in Belgio, il 9 aprile 1937, accadde proprio così:
quel venerdì il cardinale mi colpì in pieno con il suo bastone pastorale.
Il ministro Gugus de Warnaffe e lui avevano calibrato quel
colpo con astuzia diabolica. Davvero diabolici, quei due
santi uomini! Pieni della più pia ipocrisia!».
fronte all’immenso lerciume dei miei avversari!
Io, da cattolico, non potevo in tutta coscienza rivoltarmi
contro l’autorità della Chiesa, anche se questa aveva appena agito in maniera così disgustosa.
Paul de Mont, il nostro grande leader fiammingo, mi aveva detto, soffocando l’indignazione, nel momento stesso
in cui eravamo giunti a conoscenza del testo del cardinale: “Léon, bisogna mollare! Al Palazzo dello Sport, bisogna
dichiarare che ti ritiri, che ti rifiuti di continuare a prender parte a una campagna elettorale che è stata completamente falsata!”. Era una cosa logica, ma era anche
irrealizzabile. Non potevo obbligare migliaia di migliaia
di Rexisti non credenti a capitolare davanti agli anatemi
intollerabili di un cardinale politicizzato. Quindi sarei restato sulla barricata, nonostante tutto; una barricata che
veniva sfondata mortalmente a colpi di bastone pastorale! Quello sarebbe diventato l’estremo, disperato tentativo per aver salvo l’onore!
Grazie a quell’anatema episcopale, come potrà ben immaginare, Van Zeeland riuscì a vincere.
Eppure la sua vittoria fu relativa. Nonostante tutto, io riuscii infatti a ottenere ventimila voti in più di quelli che Rex
aveva conquistato non più tardi di un anno prima, il 24
maggio del 1936. Avevo incrementato il nostro risultato
del quaranta per cento: 70.000 voti al posto dei 50.000
dell’anno precedente. Visto a sé stante, era un risultato
interessante. Ma il nostro obiettivo non era stato raggiunto. Van Zeeland aveva avuto la maggioranza dei voti; restava aggrappato al potere. Noi avevamo fatto dei passi
in avanti, ma poi avevamo dovuto retrocedere perché ci
avevano sbarrato la strada».
D. Come hanno proceduto?
R. «Vedrà. Erano stati conclusi degli accordi con i servizi delle poste belghe, che avevano ottenuto il beneplacido da tutti i partiti: il venerdì, a partire dalle cinque di
sera, si sarebbe cessato di distribuire qualsiasi volantino
e dépliant di propaganda elettorale. Alle 17 in punto, la
propaganda si sarebbe fermata. Ma non era stato previsto nulla per la stampa.
Dunque: alle 17 precise, il cardinale fece uscire, tra un gran
clamore della stampa, il suo documento. A un movimento come il nostro, che possedeva solo un quotidiano, diventava dunque automaticamente impossibile replicare
con efficacia. Di contro, i cinquantadue giornali di regime
pubblicarono immediatamente, a titoli cubitali e in prima
pagina, con edizioni speciali che vennero sparse in tutte
le edicole grazie alle loro camionette, quella condanna ex
cathedra dell’arcivescovo. Sommersero l’elettorato sotto
milioni di copie di giornali.
Quella condanna era totale.
In primo luogo: divieto di votare per me. In secondo luogo: divieto di votare scheda bianca. Ai cattolici di Bruxelles non era stato permesso neppure il diritto di astenersi!
Se non volevano cadere in peccato mortale, dovevano
votare obbligatoriamente per l’altro!
Difficile immaginare una pressione sulle coscienze più
scandalosa di questa, e un annientamento della libertà
elettorale più scandaloso di questo! Al giorno d’oggi una
simile ingerenza ecclesiastica non sarebbe ammessa: causerebbe indignazione, scandalo e, senza dubbio, avrebbe
anche conseguenze giudiziarie. Ma nel 1936, questi usi
clerical-politici esistevano ancora, e io ne divenni la vittima pubblica, uscendone con le ossa rotte».
D. E i suoi alleati?
R. «I due leader cattolici, quello delle Fiandre, Gustave
Sap, e quello dei Valloni, il conte d’Aspremont-Linden
erano fondamentalmente, da veri politici professionisti,
degli opportunisti. Prima di ogni cosa pensavano, così
come fanno tutti i loro simili, ai portafogli ministeriali.
E quei portafogli ministeriali non li avrei avuti a disposizione io: sarebbe stato Van Zeeland a distribuirli! Per quei
due nostri alleati segreti della vigilia si trattava quindi di
cambiare le vesti con celerità e gran scioltezza, e di salire
anche loro sul carro del vincitore.
Per Van Zeeland era assolutamente indifferente avere
quei due lì nel suo nuovo governo, piuttosto che altri!
Tutti non erano altro che semplici comparse! E facendoli
rientrare nella sua scuderia, sarebbe riuscito a toglier loro
dalla testa l’idea di potersi riavvicinare a noi.
Noi, dal canto nostro, li avevamo utilizzati senza farci
troppe illusioni. Ci avrebbero aperto le porte che davano
accesso al controllo parlamentare maggioritario, e fornito un trampolino di lancio in più verso la conquista della
D. Quale fu la sua reazione?
R. «Quella sera stessa, volli in ogni caso fare l’ultimo grande raduno a Bruxelles. Visto che si era alla vigilia di san
Léon, centinaia di bambini erano giunti in corteo fino al
palco, portando ciascuno dei fiori. Pensi: tanta purezza di
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Intervista con Degrelle
CAPITOLO DODICESIMO
Lo scandalo della Banca Nazionale
maggioranza popolare in senso stretto. Ma, nel contempo, eravamo consapevoli della natura di quella lebbra
che rode tutti i vari partiti. Per questo Rex li voleva liquidare tutti: fossero rossi, gialli o blu. Erano tutti simili l’uno
all’altro: erano dei centri di intrighi, di colpi bassi a livello
personale, d’instabilità, d’incompetenza; erano luoghi caotici in cui dominavano la divisione, le rivalità, i mercanteggiamenti e la corruzione. Noi li avremmo gettati tutti
nelle cloache della Senna, il fiume fangoso di Bruxelles,
e poi li avremmo sostituiti con un potere diretto, forte e
incrollabile, supervisionato direttamente dalla comunità
popolare. Van Zeeland gettò verso Sap e d’AspremontLinden – che avevano fatto di tutto per poterlo rovesciare
– la sua canna da pesca con l’allettante esca di due portafogli ministeriali, ed entrambi si diressero, rapidi come
alborelle, verso quel verme democratico che si contorceva attorno all’amo.
Era una cosa normale. I politici lavorano solo sull’immediato. E l’immediato non ero più io.
Perdere una battaglia, come diceva De Gaulle, non significa aver perso una guerra. Senza indugi, saremmo ripartiti
all’attacco. Ma il cielo dell’Europa si stava annuvolando.
Eravamo consapevoli dell’importanza della nostra sconfitta: avevamo perso una grande occasione per vincere in
maniera pacifica e celere».
La «cassa» del signor Van Zeeland – Dei morti che non
morivano – Silenzio totale della stampa democratica –
Degrelle fa scoppiare lo scandalo nell’edificio stesso della Banca Nazionale – Migliaia di scope rexiste resistono
all’assalto – Conferma ufficiale di quell’atto di brigantaggio – Cinque complici di Van Zeeland si suicidano – Il
Primo ministro salta in aria per sempre – Un raduno di
65.000 Rexisti – Tutto ridiventava possibile.
D. Ecco allora il signor Van Zeeland nuovamente capo del
governo belga. L’ha battuto. Com’è riuscito ad abbatterlo
a sua volta, e in quello stesso anno?
R. «Quello stesso anno accadde una cosa che ci rimise rapidamente in sella: la caduta di Van Zeeland, di quell’uomo che, la sera dell’elezione dell’11 aprile 1937, era riuscito a sbarrarmi la strada grazie al bastone pastorale del
cardinale.
Io avevo ormai intuito che egli doveva essere l’alleato
numero uno dei poteri forti del denaro, vista l’immensa
munificenza con cui l’avevano sostenuto. Van Zeeland
era da poco stato eletto che io potei subito aggredirlo. Se
questo scandalo fosse scoppiato solo qualche mese prima, Van Zeeland non sarebbe mai stato eletto; anzi: non
sarebbe mai neppure stato candidato.
Mi ascolti quindi bene. Quell’uomo in precedenza era stato governatore della Banca Nazionale. Là, aveva inventato un trattamento biologico mirabolante: manteneva in
vita i morti. Per migliaia di anni i più grandi medici avevano tentato invano di giungere a questo risultato: ma Van
Zeeland c’era riuscito. I suoi morti non morivano. O, per lo
meno, non del tutto. Quando un pezzo grosso della sua
Banca Nazionale moriva, Van Zeeland lo manteneva semplicemente in vita. Non certo mettendolo in una cella frigorifera, ma mantenendolo in vita nella contabilità, cosa
che era molto più importante. Come se nulla di macabro
fosse mai avvenuto, il cadavere continuava, alla fine di
ogni mese, a figurare sulla lista degli emolumenti.
E chi si metteva questi emolumenti in tasca? La vedova
sconsolata? Assolutamente no! A intascarsi quel denaro
erano lo stesso Van Zeeland e i suoi complici principali! In
quella maniera essi avevano creato quella cosa che chiamavano splendidamente “la cassa”. Ogni mese, si versavano nella cassa i preziosi stipendi dei cari estinti, che poi
venivano divisi in maniera fraterna.
Era in ogni caso qualcosa di un po’ troppo forte: dei signori che beneficiavano di enormi stipendi, i più alti di
tutto il Paese, che si erano per di più convertiti in necrofagi! Alla fine di ogni mese, mangiavano sul morto come
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piatto supplementare.
Io incappo in questa vicenda. In breve tempo, scopro l’ingranaggio che sta dietro a questo saccheggio. Denuncio
lo scandalo – che lo ammetterà, era ben poco consueto
– sul mio giornale, Le Pays réel, che viene subito ripreso
dall’altro grande giornale rexista fiammingo che si chiamava De Nieuwe Staat (Il nuovo Stato). E via! Ogni giorno,
mettevo sulla prima pagina della mia stampa nuove rivelazioni. Le ripercussioni? Nulla! In quell’istante ho visto
applicare con una raffinata ipocrisia il nuovo metodo che
era stato inventato contro di me. E che dura ancora oggi,
dopo decine di anni: ogni volta che io facevo rivelazioni
sgradite, l’avversario si ritraeva e stava zitto.
In questo si mise in luce la farsa della libertà di stampa. Se
tutti i giornali roboantemente democratici stanno zitti,
ciò vuol dire che c’è qualcuno che comanda al di sopra di
loro, e che dà ordini affinché i giornali si tacciano. Silenzio assoluto! Neppure un riga, per quanto piccola potesse
essere!
Così accadde per le mie prime rivelazioni, nell’estate del
1937, sull’affare dei cadaveri d’oro del signor Van Zeeland».
R. «In quella maniera ho riunito trenta militanti sicuri e
discreti che erano possessori, ciascuno di loro, di trenta
azioni. Io stesso ne avevo acquisito trenta. E quando è arrivato il giorno dell’assemblea generale, noi eravamo là,
nella Banca Nazionale, e formavamo un blocco impressionante di trentun persone in quella scarna assemblea
composta di nababbi e di rimbambiti.
Vi siamo rimasti un’intera settimana, signori assoluti della
baracca, facendo scoppiare un orribile scandalo. Un giorno, parlai per otto ore ininterrotte.
Ovviamente, la stampa cosiddetta “libera” aveva, fin dal
primo giorno, messo una sorta di coperchio piombato
sull’intero rendiconto. Per far sì che le mie rivelazioni divenissero davvero pubbliche, ho mobilitato, attraverso le
colonne del mio Pays réel, i nostri sodali: “Venite tutti sotto i balconi della Banca Nazionale”. Avevo fatto arrivare
nelle vicinanze dei camion pieni di scope. E diverse migliaia di nostri manifestanti si erano così subito “armati”
con questi strumenti vendicatori!
Spalancai così le porte-finestre dei balconi, al piano in cui
stava la Banca Nazionale. Arringai la folla con forza. Per
due ore, fu il caos nella piazza e nelle vie circostanti. Lo
scandalo pubblico era stato così rumoroso, aveva smosso
così tante persone – tra manifestanti, polizia e semplici
passanti – che la stampa, stavolta, non poté non parlarne, perché tutta la bagarre si era svolta sotto agli occhi
della popolazione, nel centro della capitale, tra la sbirraglia giunta da ogni luogo e le nostre migliaia di “pulitori”,
magnificamente rumorosi! Lo stesso silenzio era stato
spazzato via. Spazzato via: era questa la parola più giusta,
perché noi avevamo utilizzato, nel corso di una baraonda
rumorosissima, diverse migliaia di scope, simbolo stesso
del Rexismo!».
D. Eppure, scorrendo la stampa dell’epoca, pare proprio che alla fin fine lei sia riuscito a spezzare quel muro
d’omertà.
R. «Non c’era che un mezzo: portare lo scandalo tra i beneficiari della “cassa”, nelle loro stesse dimore, all’interno
della stessa Banca Nazionale.
Ma come entrarci? I covi dei grandi signori della Finanza sono fortificati con grandissima cura! Per assistere a
un’assemblea generale della Banca Nazionale bisognava
possedere almeno trenta azioni. E chi possedeva trenta
azioni, se non dei ricchi borghesi e dei sicari delle gang
finanziarie?
Quelle azioni costavano diverse migliaia di franchi ciascuna. Dove trovare il denaro per acquistarle?
Eppure era necessario avventarsi su quel luogo. Iniziai un
tour del Belgio, per mettere all’opera i miei dirigenti principali: “Devi sbrogliartela a ogni costo, devi convincere un
certo numero di amici ad acquistare una o più di queste
azioni affinché si possa alla fine raggiungere il numero di
trenta; e le dovrai avere a tua disposizione nel momento
in cui ti chiamerò”. Parlai a ognuno di loro in questo modo,
e separatamente, senza che potesse sospettare che stavo
facendo questo stesso appello a degli altri.
“Trenta azioni! Arrangiati come meglio credi, poi le potrai rivendere, ma è necessario che tu ne abbia trenta nel
giorno in cui io ti farò cenno!”».
D. E il pubblico belga?
R. «Avevamo ragione o no? Il pubblico s’infervorava.
Qualche giorno dopo, lo stesso ministro delle Finanze,
Henri de Man, dovette riconoscere, con una dichiarazione pubblica, che era tutto assolutamente vero: la storia
della cassa e del denaro dei morti intascato da Van Zeeland e dal suo gruppo!
In poche ore, quella rivelazione assunse proporzioni sensazionali.
Di fronte a quei gangster bancari onnipotenti, io dovevo
essere senza pietà. Immersi la testa di tutti quei ladri fino
al fondo della loro vasca pestilenziale, fino a quando anche l’ultima bolla d’aria putrida non fosse più salita verso
la superficie. Sentendosi ormai persi, cinque dei sei colpevoli si suicidarono, ivi compreso Franck, l’ex padrone
supremo della Banca Nazionale.
Visto che questi era un ministro dello Stato, gli vennero
buffamente accordati persino dei funerali ufficiali. Miglia-
D. Ha funzionato?
60
Intervista con Degrelle
ia di Rexisti non vollero perdersi quella festa, e seguirono il corteo funebre con entusiasmo. La banda militare
preposta al servizio funebre aveva intonato, beffarda, un
motivetto alla moda: On n’a jamais vu ça [“Non si è mai
visto una cosa simile”, ndt]; e, al ritorno, suonò, con ancor più successo, Tout va très bien, madame la marquise
[“Tutto va bene, madama la marchesa”, ndt], che venne
cantata con gioia da tutti i nostri camerati.
Così, senza eccessiva gloria, morì e venne seppellita la
cassa».
si poteva neppure astenere! Sennò, si sarebbe finiti a bruciare all’inferno!
Degli scandali simili, seguiti da conclusioni fino a tal punto stupefacenti, ovviamente non possono non impressionare le persone per bene. Le si era raggirate, truffate! Per
molti di loro era ormai diventato chiarissimo! Per noi, fu
così il successo un po’ ovunque.
Spinto da questa fama rinnovata, il 12 luglio 1938 ho organizzato il più grande dei miei raduni, alle porte di Bruxelles: a Lombeek, dove il Consiglio comunale era interamente rexista. Parlai davanti a più di sessantacinquemila
persone, tutte paganti. Sessantacinquemila persone per
i giornali “democratici”, che cercarono subito di abbassarne il numero, facendo la classica confusione tipica dei bugiardi di professione – perché la Compagnia delle ferrovie
pubblicò un comunicato in cui stabiliva di aver venduto
sessantacinquemila biglietti ai nostri sessantacinquemila
congressisti. Ma poi c’erano anche le migliaia di Rexisti
giunti con auto e autobus!
Quella folla enorme sfilò, entusiasta, attraverso la cittadina. Avevo ripreso tra le mie mani le folle. Ora tutto ridiventava possibile».
D. E il signor Van Zeeland?
R. «Van Zeeland, saltato in aria a causa di quell’esplosione,
si abbatté con fragore sulle aiuole del Potere. Era finito.
Non era più Primo ministro e non lo sarebbe mai più diventato.
Ma, infine, s’immagini la meraviglia: quel saccheggiatore
sempre pronto alla lacrima, i cui cinque complici si erano
ammazzati, era stato il grande eroe della democrazia non
più tardi di sei mesi prima! Era stato l’eletto tra gli eletti!
Imposto dal cardinale Van Roey a centinaia di migliaia di
elettori, sotto la minaccia del peccato mortale! Era quello
per il quale si doveva votare in piena coscienza! E non ci
61
Thule Soci
Céline secondo Céline
Thule Soci
Intervista con Degrelle
tredicesimo capitolo
Traduzione italiana a cura di Monica Mainardi
CAPITOLO TREDICESIMO
Degrelle e la neutralità
puntito, dai piccoli occhi resi taglienti dall’avversione, e
gli faceva contorcere quel suo esile corpo.
Fin dal marzo del 1933, e questo non bisogna mai scordarlo, le organizzazione ebraiche più rappresentative, a
Londra come negli Stati Uniti, avevano richiamato l’intero
universo alla guerra santa contro Hitler, e questo ancor
prima che fosse stato espulso anche un solo ebreo dal
Reich.
Inoltre, fino al luglio del 1936, la Spagna repubblicana del
“Frente popular” era stata squassata dall’odio marxista,
che non pensava ad altro che ad annientare tutto ciò che
vi era di borghese o di clericale, e a bruciare tutto ciò che
poteva evocare la Chiesa o la vita spirituale.
A livello sociale, il “Frente popular” aveva perso da tempo. Al proletariato non aveva portato nulla di sostanziale,
né materialmente, né socialmente. Nonostante cinque
anni di marxismo, l’operaio spagnolo era rimasto incollato alla sua miseria. Un operaio tipografico come Carrillo,
il futuro capo comunista, a vent’anni guadagnava, per
sua stessa ammissione, due pesetas al giorno. Ovunque,
e immancabilmente sempre, il marxismo era crollato
economicamente nel completo insuccesso. Da nessuna
parte la sua prassi era riuscita a spuntarla. Né prima della
Seconda Guerra mondiale, né dopo. I suoi fallimenti continui e a valanga avrebbero portato, tra il 1930 e il 1940,
a quell’inevitabile malcontento delle folle che l’avrebbe
poi spinto a ricercare nuove formule, in cui l’ordine, l’autorità, la durata, il pugno saldo nel comando e il fervore
patriottico non sarebbero più stati inconciliabili con dei
forti obiettivi sociali».
La grande zuffa tra democrazie e fascismi – Il Fronte Popolare del signor Blum – Il «Frente popular» – Il fallimento democratico – I furori bellicisti – La neutralità belga
– Degrelle e la Francia – Indipendenza di Rex – La propaganda per la chiamata alle armi – Le rotative di Hitler
– Gli storici della menzogna.
D. Al di là di questi problemi di politica interna, come ha
reagito di fronte alla grande agitazione europea che, a
partire dal 1937, sarebbe andata a ribaltare tutti i fondamenti della politica internazionale?
R. «All’inizio il Rexismo – e questo con il senno di poi potrebbe apparire strano – non aveva preso alcuna posizione in materia di politica estera. Ma questo dimostra più
che bene che a quel tempo non ci si preoccupava molto
dei problemi mondiali. Ciascuno limitava le proprie azioni alle frontiere e agli interessi del suo piccolo territorio.
Quando si rileggono i programmi pubblicati nel corso
della nostra grande campagna del 1936 e i resoconti
delle nostre adunate, ci si accorge che non ci si occupò
mai della politica internazionale. Quel problema non veniva affrontato perché per il grande pubblico esso non
esisteva. Con i suoi vicini il Belgio non aveva che relazioni prive di storia.
Ma, a partire dall’estate del 1936, ecco che si sollevò
un’immensa agitazione, che diveniva ogni giorno sempre più potente. Essa era fomentata innanzitutto dal
“Fronte popolare”, capeggiato da un israelita marxista,
Léon Blum, che, al pari di tutti i suoi correligionari, provava un odio assolutamente viscerale nei confronti del
regime hitleriano.
Da tempo, in lui non agiva più la politica, ma esclusivamente, e ciecamente, la razza, a tal punto che nel 1932
egli aveva annunciato la caduta di Hitler, considerandola
come un fatto scontato, e questo solo pochi mesi prima
dell’ascesa al potere del suo nemico numero uno, avvenuta il 30 gennaio del 1933.
Eppure quell’uomo era intelligente; ma il solo sentir nominare il nome di Hitler gli sfigurava quel suo volto ap-
D. La sua posizione in questo conflitto?
R. «Questo grande conflitto tra Fascismo e Democrazia dopo il 1945 è stato camuffato, dandogli appellativi
oltraggiosamente falsi. Perché, in realtà, i vecchi regimi
sclerotizzati dell’anteguerra non erano assolutamente democrazie. Tutti erano imborghesiti e al contempo
anarchici, e andavano a urtarsi con vigore con le giovani
forze nazionali e sociali che erano sorte all’interno di ogni
singolo Paese.
I partiti detti abusivamente “democratici”, invischiati
ovunque in scandali e affetti da sterilità senile, pretendevano di silurare i nuovi regimi, che erano invece stati
eletti democraticamente dalla volontà del popolo.
42
Intervista con Degrelle
Per restare aggrappati alle loro convinzioni, svuotate
ormai di ogni senso e che le masse non volevano più,
avevano scelto di ricorrere a qualsivoglia campagna di
menzogne, di provocazioni e persino agli orrori di una
guerra civile europea. Lo si sarebbe visto perfettamente
nel 1939.
Per noi fu subito chiara una cosa: se fosse dovuto scoppiare un grande conflitto franco-anglo-tedesco, esso
sarebbe partito dal Belgio, la terra che ha conosciuto i
maggiori scontri militari dell’Occidente. Se i vari “Fronti
popolari”, le formazioni antifasciste, i movimenti filo-sionisti avessero deciso di spingere in avanti le loro pedine
belliciste, sarebbe stato sul nostro Paese che la morte si
sarebbe innanzitutto gettata. Se, invece, la Germania hitleriana avesse scelto di far fronte a questa situazione, sarebbe stato nuovamente su di noi che la sua risposta – o
la guerra preventiva – si sarebbe abbattuta.
Il 4 agosto 1936, anniversario della Prima Guerra mondiale, avevo scritto: “Tutti voi 4 agosto del mondo: vi maledico!”. Basta guerre sulla nostra terra patria! E soprattutto basta a quelle guerre combattute per tenere in pista i
vecchi ronzini spompati delle democrazie in fallimento.
Non vogliamo più veder morire la nostra gioventù tra lo
sterco delle loro stremate cavalcature! Neutralità! Neutralità! Non bisogna mettere neppure un dito nel folle ingranaggio di una guerra “inutile e imbecille”, come l’avrebbe
definita poi lo stesso capo socialista belga Spaak, dopo la
disfatta del giugno 1940».
sformazione della politica internazionale del Belgio».
D. Come definiva questo suo neutralismo? Qual era il suo
atteggiamento nei confronti della Francia?
D. Parlando di bellicisti, lei sembra scordare quello principale: Adolf Hitler.
R. «Per i bellicisti del Belgio chi rappresentava più di tutti
un ostacolo ai loro intrighi? Era Rex, ovviamente. E, più in
particolare, ero io.
Se fossi giunto al potere, mi sarei servito, e ne ero ben deciso, della radio e di tutto il suo potere declinato al massimo. Tutti i giorni avrei combattuto i fomentatori della
guerra, mi sarei accanito soprattutto sul pubblico francese, al fine di spezzare il piano omicida degli pseudodemocratici che, per salvare i loro partiti corrotti, rifiutati
dalle masse, erano pronti a far saltare la tranquillità europea.
Vedendo il pericolo di una guerra accrescersi immensamente a partire dall’autunno del 1936, noi Rexisti abbiamo deciso di diventare la forza di punta che allora condusse il Belgio a una politica di neutralità rigorosa, una
posizione che, nel giro di pochi mesi, si tramutò in politica di Stato.
Il re del Belgio, e persino alcuni socialisti-nazionali come
Spaak, giunsero allora a raccomandare e a esaltare, proprio come lo facevamo noi, questa presa di posizione.
Ovviamente, tutto ciò rappresentava una completa tra-
R. «Hitler aveva riunito – da Saarbrücken a Vienna – tutti
i Tedeschi. E allora?... Se essi erano d’accordo – e lo erano
– perché mai questa cosa ci doveva interessare? Era evidente che Hitler non volesse una guerra all’Ovest. Quello
spazio, inassimilabile per sua stessa essenza, per lui non
ricopriva alcun interesse. Non sarebbe mai riuscito a tramutare un Francese in un Tedesco, e questo lo sapeva
bene.
Invece, egli era completamente orientato verso Est. Verso
il comunismo da eliminare. Verso le terre fertili da conquistare e da dissodare, riportando in Europa duecento
milioni di Russi che dal 1917 erano stati schiacciati dai
Soviet.
Se si era così convinti che il capo democraticamente eletto della Germania avesse dei pruriti miranti all’espansione, allora era proprio verso Est che bisognava orientarlo!
E persino spingerlo! Al posto di provocarlo con violenza,
di continuo, nel nome di un Occidente che, politicamente
ed economicamente non lo attraeva in alcun modo, e al
quale aveva chiaramente rinunciato, lasciando ai vincitori
del 1918 i loro grassi bottini, che si trattasse dell’Alsazia-
D. In che senso una trasformazione? Il Belgio non era neutrale?
R. «Fino ad allora il Belgio era stato legato militarmente
alla Francia. I deputati rexisti votarono per l’annullamento dell’accordo militare franco-belga. Nessuno di noi, e
tanto meno io, era spinto da una qualsivoglia animosità
contro ciò che è francese. Io appartengo, e lo si sa bene,
a una famiglia che è da secoli francese. La mia cultura è
francese. Ho un temperamento francese. Ma ciò nonostante non intendevo spingere il mio Paese nella follia di
una guerra cosiddetta “democratica” solo per i begli occhi di qualche politico bellicista più o meno francese (e la
maggior parte delle volte era più “meno” che “più”).
La politica bellicista di Blum e di alcuni politici francesi
che lo fiancheggiavano era davvero conforme agli interessi francesi? Numerosi appelli alla chiamata alle armi
dell’Occidente erano giunti di recente dalla Polonia. Ma
la loro guerra era davvero indispensabile alla regione
della Beauce o a quella della Provenza? Non si rischiava,
invece, di mettere in pericolo di morte quella meraviglia
millenaria che era la Francia? E con essa, l’intera Europa!
Se fossi stato un francese, io avrei combattuto da Parigi
contro questa guerra altrettanto duramente di quanto lo
feci da Bruxelles. Essa rappresentava per tutti noi, uomini
Europei, un male assoluto».
43
Lorena, di Eupen-Malmédy o del Trentino. E noi Rexisti,
opponendoci ai bellicisti, non agivamo quindi spinti dalla
francofobia. Però non volevamo la guerra, non volevamo
la guerra in Occidente; in primo luogo perché ci pareva
un’aberrazione suicida, e, in seconda istanza, perché per
il Belgio, che è situato proprio in mezzo al campo di battaglia, questa guerra avrebbe potuto essere molto più
catastrofica rispetto a quanto lo sarebbe stata negli altri
Paesi.
È sul suo territorio che tutti avrebbero inviato le loro forze
militari. Sarebbe stato il Belgio che avrebbe pagato più di
tutti il conto più salato.
Noi da una guerra non avevamo nulla da guadagnare.
Ma avevamo solo tutto da perdere. I Tedeschi potevano
guadagnarci qualcosa. I Francesi potevano guadagnarci
qualcosa. Invece, i Belgi non potevano guadagnare nulla;
potevano solo farsi massacrare. Se ne sarebbero usciti con
gli occhi pesti, il Paese saccheggiato, i portafogli svuotati.
Dunque, il maggior interesse del Belgio era quello di fare
qualsiasi cosa al fine di mantenere la pace.
Se qualcun altro aveva deciso di rompersi le ossa, ebbene! se le andasse a rompere da un’altra parte, e non nel
Paese che in passato avevano sempre scelto di preferenza! Si togliessero da soli le castagne dal fuoco, se ne avevano così tanta voglia!
Questa fu la nostra politica internazionale a partire dal
1936: né con gli uni né con gli altri, né contro gli uni né
contro gli altri. Nemmeno uno dei nostri ragazzi sarebbe
caduto in una guerra di falliti e di astiosi, una guerra in
cui il nostro popolo non poteva trovare che sofferenze e
lapidi tombali.
Per noi, tutto si collegava in questa visione: amore per il
nostro suolo patrio, protezione dei nostri concittadini e
salvezza dell’Europa».
Ma certo non in maniera più rude di quanto l’avevano
fatto i re cattolici in Spagna, o San Luigi in Francia! O gli
Inglesi nel corso di ben tre secoli! O gli Zar, i grandi alleati
del 1914! O i Polacchi, satelliti dei Francesi fino al 1939,
che hanno espulso il doppio del numero di Ebrei cacciati
da Hitler!».
D. Qual era la posizione del Rexismo rispetto al fenomeno
hitleriano?
R. «Nel 1936, il fenomeno hitleriano per noi non era altro
che un semplice soggetto di osservazione, ovviamente
importante, poiché Hitler era riuscito, in pochi anni, a riconciliare – attraverso una vera collaborazione sociale –
le forze operaie e le altre forze nazionaliste.
Prima di lui, la Germania – e di conseguenza l’intera Europa – era minacciata dall’esistenza nel suo stesso seno di
sei milioni di comunisti, che rappresentavano un pericolo
politico e sociale costante fin dal tempo dei moti dell’inverno 1918-1919 che avevano rischiato di sovietizzare la
Repubblica tedesca, ai tempi di Liebknecht e di Rosa Luxemburg.
Attraverso il semplice strumento del suffragio universale
– dunque in maniera assolutamente democratica –, Hitler era diventato il vero capo del suo popolo. Di fronte
alle colossali ingiustizie del Trattato di Versailles, di fronte
agli enormi problemi economici e sociali, egli aveva, in
poco tempo, forgiato delle soluzioni grandiose, mentre le
democrazie occidentali pascolavano miseramente tra gli
scioperi, i disordini e l’improduttività, che demoralizzavano il loro proletariato.
Hitler aveva compiuto ciò che nessun uomo di Stato europeo era mai stato in grado di realizzare, né al suo tempo, né dopo di lui: aveva rimesso al lavoro l’intera massa
dei disoccupati tedeschi, che non erano due o tre milioni
come capita oggigiorno nei sistemi democratici, ma superavano i sei milioni.
Prima ancora che in Germania venisse ristabilita, nel 1935,
un’industria di guerra, egli aveva creato milioni di nuovi
posti di lavoro, su cantieri che erano pieni di vita.
La natalità tedesca era aumentata del 50% – 1.800.000
bambini nascevano in Germania ogni anno, contro i
630.000 della Francia –, cosa che provava che la vita nel
Reich era diventata confortevole e che le famiglie affrontavano il futuro con fiducia e con gioia.
Vennero costruite un milione e mezzo di case per gli operai. Le fabbriche erano diventate pulite, luminose, dotate
di ristoranti, di spazi per lo sport e di piscine. I lavoratori
tedeschi godevano di nuovi e notevoli benefici sociali.
La “Volkswagen”, la prima auto popolare d’Europa, era a
disposizione degli operai al prezzo di cinque marchi alla
settimana; e grandi e nuovissime autostrade permettevano a tutti di solcare le strade di quel loro Paese.
D. Però i neutralisti belgi furono accusati di fare il gioco
di Hitler…
R. «Questa politica di neutralità, lo si può chiaramente intuire, non piaceva affatto a tutti coloro che in Occidente
volevano assolutamente aggredire la Germania di Hitler.
In prima fila c’erano i politici trombati, che non avevano più alcuna possibilità di risalire la china del fosso in
cui erano sprofondati a causa dei loro fallimenti politici;
l’unica loro opportunità era quella di un grande conflitto
esterno. Caso tipico: l’ex ministro Reynaud, in Francia. Un
altro caso: Churchill, in Inghilterra.
Altri fomentatori: i marxisti, spaventati dai successi in
campo sociale del Terzo Reich.
In terzo luogo – perché mai aver tanta paura a ricordarlo? – le migliaia di Ebrei che Hitler, rammentando la loro
propensione millenaria alla bulimia, aveva spinto al di là
delle frontiere; senza tanti complimenti, è indubbio.
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Intervista con Degrelle
Il capitalismo non schiacciava più le messe operaie. Esso
lavora a pieno rendimento – e con profitto –, ma era stato
messo al servizio dell’intera comunità. Il popolo era ben
pagato ed era rispettato. Dunque, era interessante seguire quell’esperienza. Noi l’osservavamo senza però mai
farci incantare stupidamente; ma anche senza chiudere
altrettanto stupidamente gli occhi davanti a quei fatti
nuovi e a quegli avvenimenti».
chiamava Willoquet. Certo, oggi in Belgio ci sono più professori di storia – o forse sarebbe meglio dire di “storie”
– che frequentatori di bar. Ma l’uomo delle rotative, colui
che ha creato questa leggenda delle rotative, pontifica in
un’università. Quindi, ci si dovrebbe attendere che sia un
po’ più serio.
“Degrelle”, aveva dichiarato davanti alle telecamere della
trasmissione Dossier Noirs (Dossier neri, ndt) “ha ottenuto
delle rotative dai Tedeschi”.
Delle rotative!».
D. E nei confronti di Mussolini e del fascismo italiano?
R. «Studiavamo con interesse anche il caso Mussolini.
L’uomo era un capo politico popolare, aveva polso ed era
riuscito a fare di quaranta milioni d’italiani, talvolta un po’
troppo frivoli, un grande popolo ordinato. Churchill stesso, mentre fumava il suo sigaro, soleva dire senza giri di
parole: “Se fossi italiano, sarei fascista”.
Il vecchio mentore britannico sir Austin Chamberlain non
era meno categorico: “Avremmo bisogno di prendere
qualche lezione da Mussolini”.
Ma per i bellicisti qualsiasi esame obiettivo della situazione in quel Paese dal nuovo regime, così come qualsiasi
propensione alla neutralità, erano considerati dei crimini.
Fin dal 1937, noi Rexisti ci siamo visti attaccati da furibonde campagne contro di noi. Bisogna rileggere la stampa
del tempo. Bisogna vedere come veniva trattato chi rifiutava di accettare una guerra civile che avrebbe finito per
strangolare tutti! Su tutti i muri del Belgio la propaganda
marxista si accaniva a riempire tutti i tabelloni pubblicitari con manifesti in cui la mia testa era coperta da un
elmetto a punta [era la foggia degli elmetti dell’esercito
tedesco/prussiano e dell’esercito imperiale guglielmino,
ndt]! Non avevo che otto anni al tempo della Prima Guerra mondiale, eppure mi mettevano in testa quell’elmetto
a punta! Per loro eravamo Crucchi! Eravamo pagati dai
Crucchi! Eravamo venduti ai Crucchi!».
D. Quindi lei nega ufficialmente questa vicenda?
R. «Certo. Perché questa storia è pazzesca.
E, a dare ascolto a questo storico-detective, non si tratterebbe neppure di una sola rotativa! Ma di varie rotative, al
plurale, che avremmo ricevuto dal generoso Hitler!
Il cosiddetto professore, se fosse stato consapevole dei
suoi doveri di storico, avrebbe dovuto innanzitutto darsi
la pena di studiare il caso per bene. Per esempio, avrebbe
dovuto sapere e dire – informazione facilissima da trovare – la marca di queste supposte rotative-regalo! Il loro
codice numerico identificativo. In che data ci sarebbero
state recapitate. E in quale modo. Con quali documenti di
registrazione alla dogana erano giunte. E da quale ditta
erano state installate. L’arrivo di una serie di macchinari
dall’estero era una cosa complicata. Le rotative di allora
pesavano migliaia di chili: non si trasportavano e non si
installavano con facilità come fossero macchine per cucire! Quindi: dove erano state montate? A Bruxelles? Oppure in un altro luogo? E in che via? Chi le aveva mai viste?
Che cosa ne era stato poi di loro? Perché simili macchine,
che allora erano lunghe dai dieci ai dodici metri, ed erano
più grosse della locomotiva di un treno, non potevano
certo essere state dissolte come una zolletta di zucchero
dentro a una tazza di tè. Quindi dovrebbero ancora esistere da qualche parte! Non possono aver preso il volo.
E io non ho certo portato via quei “giocattolini” nello zaino che avevo con me quando salii su quell’aereo che l’8
maggio 1945 mi permise di raggiungere la Spagna alla
fine della Seconda guerra mondiale. E allora: dove sarebbero ora le rotative di Hitler?
Prima di lanciarsi in affermazioni categoriche di tal fatta,
uno storico dovrebbe innanzitutto verificare ogni singola
cosa con estrema attenzione e oculatezza. Delle rotative,
e lo percepisce anche un orbo, non sono come dei topolini che si possono nascondere nel granaio del vicino. La
semplice responsabilità professorale, il rispetto più elementare dovuto agli studenti che frequentavano il suo
corso avrebbero dovuto obbligare questo professore a
impegnarsi in questo campo, facendo almeno un minimo di investigazione seria. Davanti a quale serietà ci si è
invece imbattuti?
D. Si è anche detto e scritto che aveva ricevuto delle rotative dai Tedeschi per stampare i suoi giornali…
R. «Sono contento che lei abbia ritirato fuori questa storia. Era un esempio tipico di quelle voci.
Dopo essere venuti i possesso di tutti gli archivi di guerra
del Terzo Reich, e dopo averli spulciati in qualsiasi maniera, coloro che andavano a stanare ogni covo nazista
avevano alla fine dovuto constatare, con loro sommo dispiacere, che quei covi erano vuoti e che né io né alcun
altro membro di Rex avevamo mai ricevuto nemmeno un
solo pfennig dalla Germania.
Così, non potendo lanciarmi addosso dei marchi, ecco
che hanno deciso di colpirmi con la storia delle rotative.
E colui che mi ha tirato sui polpacci questi immensi macchinari era, come lei saprà, un professore di storia, che si
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Se avesse esaminato accuratamente la situazione, sarebbe immediatamente venuto a sapere che né io né nessun altro membro di Rex abbiamo mai posseduto delle
rotative, né una, né molte, né tedesche, né belghe, né di
qualsiasi altra provenienza; e che non abbiamo neppure mai posseduto una nostra stamperia, per piccola che
potesse essere, perché abbiamo sempre stampato tutti i
nostri libri, opuscoli e giornali in stamperie professionali, dove qualsiasi persona poteva vedere tutto, e poteva
controllare anche l’arrivo di macchinari, a maggior ragione se parliamo di simili “giganteschi mostri”!
E allora! Qual era il marchio di fabbrica di queste rotative? Il loro numero di serie? La data di consegna? Il luogo
d’installazione? Ma ovviamente nessuno si è preoccupato di verificare tutto questo, perché… perché quelle rotative non sono mai esistite! Nulla, non è mai esistito nulla;
nemmeno un bullone!
Ma la calunnia ormai era stata lanciata. E a confermarlo
era stato niente di meno che un “professore di storia”. Tutto ciò può portar discredito a Degrelle? Allora è perfetto!
E così ecco che gli si lancia addosso senza batter ciglio
questo gruppo di “rotative” dietro cui si cela l’immagine
di Hitler!
Quando si tratta di cose che mi riguardano, è ovvio che
nessuno si dia la pena di verificare. Tutto diventa assolutamente naturale. Prima di arrischiarsi a lanciare un’affermazione, un professore universitario è tenuto a inforcare
i suoi occhiali sul naso, a consultare gli archivi e a fare accurate e approfondite ricerche. Ma se la cosa riguarda la
mia persona, allora niente di tutto ciò è valido. E il calunniatore imbocca direttamente il tunnel.
E oggi possiamo vedere bene fino a che punto siamo arrivati. Lo storico non si pone più neppure le domande più
elementari. L’accusatore si è limitato a leggere da qualche parte delle stupide balle. E dico stupide perché, in
ogni caso, se avesse cercato risposta a degli interrogativi
elementari – che lui stesso si è di certo posto – si sarebbe
immediatamente reso conto che tutta quella storia delle
rotative non erano altro che parole lanciate al vento.
Il caso di simili divagazioni fatte dagli intellettuali di oggi
varrebbe la pena di essere studiato con molta attenzione.
Come può giungere un intellettuale a soffocare, nel preciso momento in cui l’argomento riguarda noi e la nostra
storia, quello spirito di onestà che sta alla base stessa di
qualsivoglia insegnamento? Come può abbandonare,
senza nemmeno più rendersene conto, qualsiasi deontologia? Il caso di quel professore non è certo isolato. Contro di me tutto è lecito: stupidaggini, calunnie, persino
quando queste arrivano ad apparire come veri e propri
giochi di magia, come è il caso di queste rotative che non
sono mai esistite.
Ma Degrelle è lontano! Non potrà mai rispondere. Delle
leggi speciali gli chiudono il becco. E allora ci si lancia su
di lui, e si inventa qualsiasi cosa!
E poi? Dove ci porteranno mai tutte queste fanfaronate?».
D. Non le hanno rinfacciato solo di aver ricevuto delle rotative, ma anche della carta tedesca…
R. «Quella carta tedesca mancava sulla lista dei regali per
le mie nozze hitleriane!
I miei giornali divoravano carta? Certo: migliaia di tonnellate di carta!
Francamente, e lo si può capire con facilità, avevo ben altre gatte da pelare, piuttosto che occuparmi dell’approvvigionamento delle imprese private che stampavano le
mie pubblicazioni. Chi si occupava di questa operazione
era uno dei nostri deputati. Egli si procurava carta un po’
ovunque. Spesso gli stock delle fabbriche belghe non erano sufficienti. Così doveva andare a cercare carta da altre
parti. Quello della carta è un mercato mondiale. La nostra
stampa nel 1936 ne divorava 25 tonnellate a settimana.
Essa giungeva da vari Paesi, specialmente dall’Olanda;
quindi, è assolutamente possibile che in alcuni momenti
i nostri fornitori abbiano inviato per qualche giorno alla
società industriale che stampava le nostre pubblicazioni della carta che era stata fabbricata in Germania. Ma
a quel tempo io ignoravo assolutamente simili dettagli
materiali.
Queste bobine di carta giungevano in treno o su camion
direttamente a Bruxelles alla stamperia dell’Echo de la
Bourse, sulle cui rotative giravano, contemporaneamente ai nostri giornali, dieci altre pubblicazioni, non rexiste
e anche anti-rexiste. Allora quelle bobine erano intercambiabili. Venivano scaricate sotto agli occhi di tutti.
Ognuno poteva controllare, persino passando lungo la
strada, il loro marchio di fabbrica e la loro etichettatura.
Se abbiamo fatto uso di carta tedesca, il suo quantitativo non supera, secondo verifiche fatte successivamente,
i cinque-sei giorni di utilizzo! Un topolino rispetto a un
elefante. E questa è tutta la verità sulla storia mirabolante
delle bobine di carta, che rafforzava e completava l’altrettanto fantasiosa storia delle rotative; e che, come essa,
dopo essere scesa in terra cadendo dalla luna, ora se ne è
tornata sulla luna».
D. Resta comunque il fatto che, due mesi dopo la sua
vittoria elettorale del 1936, lei incontrò Hitler. Perché
quell’incontro? Che cosa l’aveva spinta e una simile decisione?
R. «Quando incontrai Hitler nell’estate del 1936 avevo,
come potrà immaginare, ben altri problemi da trattare,
piuttosto che l’eventualità della spedizione di una serie
di bobine di carta per i miei giornali.
46
Intervista con Degrelle
Hitler e io ci mettemmo a esaminare per un paio di ore
la situazione europea; e, in maniera particolare, ci focalizzammo sul problema spinoso riguardante la regione
di Eupen-Malmédy, che il Belgio, dopo la Prima guerra
mondiale, aveva strappato alla Germania.
Ma chi potrebbe mai mettersi a pensare che Hitler abbia in quell’occasione dedicato anche un solo minuto di
quel nostro incontro a dei volgari problemi di stampa? E
io stesso, come avrei mai potuto, trovandomi di fronte a
un uomo che era uno dei capi di Stato più importanti del
mondo di allora, mettermi a parlare con infima grettezza
di un simile argomento?... Sarebbe stato come barattare,
al pari del racconto biblico, la mia fresca vittoria con un
povero piatto di lenticchie.
E poi, siamo seri! Se davvero avessi voluto ottenere da
Hitler un aiuto materiale, quello che mi avrebbe interessato non sarebbe di certo stato ottenere qualche rotolo
di carta: avrei chiesto dieci o venti milioni di marchi.
Bisogna essere assolutamente ignoranti, sia psicologicamente sia politicamente, per andare a immaginarsi che
simili incontri potessero essere dedicati per risolvere
questioni pratiche di così poco conto.
Quindi, è assolutamente evidente che durante l’incontro
tra me e Hitler non una sola parola andò a toccare simili
questioni. Noi stavamo valutando il peso dell’universo e il
suo destino. Non eravamo due mercanti di carta.
Quel giorno, lui e io ci siamo penetrati psichicamente l’un
l’altro; e per sempre. Questo ha rappresentato quel mio
incontro».
accorti del fatto che si trattava di un soggetto immenso.
Delle dottrine rivoluzionarie si andavano a scontrare
l’una contro l’altra come in una sorta di capovolgimento
cosmico di costellazioni. Milioni di esseri umani si affrontavano gli uni contro gli altri. Milioni di giovani uomini
perivano, raggiungendo i massimi vertici dell’eroismo e
del sacrificio. Un nuovo universo stava per nascere.
Per giungere alla comprensione di questo immenso
dramma, si sarebbe dovuto scrutarlo attraverso l’angoscia e la grandezza. La Grandezza! Ma quei specialisti della mediocrità non hanno compreso nulla! La Storia aveva
gettato dei leoni nell’arena del secolo. E loro invece si
sono limitati a pensare alla pulce che quelle fiere belve
potevano avere in mezzo alle loro criniere fatte di sole!
Snidare quella pulce, che stupidaggine! Per loro, la ricerca
di quella pulce ha dominato al di sopra di tutti i personaggi e di tutti i fatti.
Ecco, la Storia della Seconda guerra mondiale oggi è esattamente questa dissezione applicata di ditteri».
D. Prova dell’amarezza?
R. «Sono sempre esistiti quelli che sanno pensare solo in
piccolo; manipolatori che non sanno staccarsi dai propri
microscopi. Già nel 1936, e nel 1937, iniziavamo a sentire
le loro punzecchiature. Tutti i forgiatori di nuove epoche
sono costretti a sopportarne di simili.
Ma presto o tardi il tempo riequilibra tutto. E giungerà
anche il nostro, che ristabilirà le dovute e giuste proporzioni.
E i nani torneranno a essere nani».
D. Lo scrittore e deputato belga Pierre Daye ha raccontato spesso che Hitler, dopo la sua partenza, avrebbe detto,
parlando di lei: «Non ho mai visto simili doni in un ragazzo di quell’età!». È esatto?
R. «Sarebbe tracotante da parte mia commentare quella
riflessione; lo capisce bene pure lei. Essa venne riferita a
Pierre Daye da Ribbentrop, dopo che questi si era accomiatato dal Führer, al termine del nostro incontro, per rientrare nella sua villa a Dalhelm, dove lo attendeva quel
deputato belga. Che le posso dire di più? A quel tempo
non si registravano le dichiarazioni sulle audiocassette!».
D. Quindi il suo incontro non aveva altra ragione che il
contenzioso belga-tedesco, o il problema delle regioni
«riannesse» e, più in generale, la situazione europea?
R. «Dare al nostro incontro altre letture può derivare solo
da chi ha una visione da bottegaio.
Quello che mi ha sempre maggiormente stupito degli
storici dell’odio è la loro assoluta mediocrità. Si sono trovati di fronte a una delle più straordinarie epoche della
Storia dell’uomo. E neppure per un solo momento si sono
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