Festival del Cinema di Venezia

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Festival del Cinema di Venezia
ASSOCIAZIONE
RICREATIVA
CULTURALE
e RICREATIVA
DIPENDENTI ENEL
Copia Omaggio
Numero 08 - Giovedì 04 Settembre
A tutto Rock
Al Lido, da ormai qualche giorno, si sentono sul far della sera
delle urla di incitamento; un grido quasi infantile e onomatopeico che assomiglia a Yuppi Du. Un'esclamazione sicuramente di battaglia, come l'eia eia alalà che utilizzavano i
guerrieri greci per darsi coraggio prima del combattimento.
Purtroppo, però, qui non siamo in Ellade o, per il caso dei
musicarelli, in America: sui quotidiani delle ultime settimane
infatti il film che Celentano presentò a Cannes nel 1975, e che
vinse l'anno successivo il Nastro d'Argento alla migliore
musica, viene definito un musicarello. In realtà musicarelli e
Yuppi Du hanno poco in comune.
Il musicarello (definizione introdotta a posteriori) è un sottogenere italiano che nasce negli Anni '50 come unione fra musica
e cinema: questo connubio era già presente in Italia, con
esponenti come Claudio Villa, caratterizzato da una vena
sentimentale e conservatrice, ma, quando giungono
dall'America (sempre con un paio di anni in ritardo) i venti della
ribellione giovanile e del Rock'n'Roll ispirati da Elvis, Marlon
Brando e James Dean, anche la penisola tenta di aggiornarsi.
Nel musicarello si ritrovano la volontà di adeguarsi all'idea di
gioventù rebellious without a cause, del conflitto generazionale fra giovani e matusa, declinati all'italiana: in film come I
Ragazzi del Juke Box (1959) e Urlatori alla Sbarra (1960),
entrambi diretti da Lucio Fulci su soggetto di Piero Vivarelli, e
con Celentano, Mina, Gianni Meccia fra gli interpreti, l'intento è
quello di scimmiottare il personaggio del ribelle americano,
proponendone uno stereotipo - prendiamo Brando ad esempio - con giubbotto di pelle, cappello e broncio perenne.
Tuttavia non c'è una comprensione profonda di questi fenomeni: Rockers, Mods, Beats, Teddy Boys si mescolano senza
troppe sottigliezze a creare un “tipo”.
Il genere poi si diffonde ulteriormente con interpreti come
Gianni Morandi e Rita Pavone, per morire alla fine degli Anni
'60 con la coppia Al Bano e Romina: si ritorna al periodo prerock con il protagonista squattrinato ma in giacca e cravatta
alla conquista della ragazza bella e danarosa, mentre fuori dai
confini nazionali ci si riconosce intorno ad Easy Rider.
Adriano Celentano, dopo il battesimo artistico al Palaghiaccio
di Milano nel '57, prende parte ai primi musicarelli proponendosi come la declinazione italiana e scimmiesca di Jerry
SEGUE
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2
>>> SEGUE
Lewis, come giovane un po'
tocco innamorato di Mina:
qui si inseriscono canzoni
come Il tuo Bacio è come un
Rock, secondo la struttura
del genere, cioè la presenza
di interventi cantati
all'interno di una trama che
segue delle costanti ben
precise, fra cui il conflitto
generazionale, con un vago
senso di rivolta, e la storia
d'amore. Celentano
accumula esperienze come
attore (farà anche una
comparsata ne La Dolce
Vita) fino ad approdare al
progetto di Yuppi Du: il
molleggiato è alla sua
seconda esperienza come
regista e, in questo film,
ricopre anche i ruoli di
sceneggiatore, interprete e
produttore. Si narra la storia
di un gondoliere veneziano,
che decide di risposarsi
dopo la scomparsa della
prima moglie, la quale
rientrerà successivamente
nella sua vita. E ciò che non
fa di Yuppi Du un musicarello è proprio la sua celentanità, che lo allontana dalle
caratteristiche di questo
genere: Celentano infatti nel
'75 aveva già imboccato la
deriva eco-misticoteosofica che sgrosserà
negli anni a venire. Si
toccano (incidentalmente) il
tema dell'ecologia, dei morti
sul lavoro, che uniti alle
canzoni e alle movenze
dell'artista (celebre il ballo
con Charlotte Rampling)
vanno a costituire un'opera
totalmente personale e, in
buona parte, strampalata.
D'altronde non si può
rimproverare a Celentano di
essere se stesso, e il suo
film non manca certo di
spontaneità; ma se invece di
accontentare i fan del
molleggiato si fosse scelto
di presentare un titolo come
Urlatori alla Sbarra, non si
sarebbe fatta più luce su un
genere ancora in ombra per
il pubblico internazionale?
Marco Capitanio
Back in the USSR
Incontro con Michal Rosa, regista di Scratch: una storia d'amore sotto
lo spettro dell'Unione Sovietica
Scratch è un dramma
asciutto, ma non intimista,
con una magnifica prova
attoriale - Jadwiga
Jankwoska Cieslak ha vinto
la palma d'oro a Cannes
come migliore attrice nel
1982 – che può ricordare, ma
solo per il contesto, Le Vite
Degli Altri. Incontriamo il
regista, Michal Rosa, in
passato candidato all'Oscar
per il miglior cortometraggio,
il quale ci spiega che questa
storia nasce dieci anni fa e ha
poco a che fare con la
politica, anche se in Polonia
sta suscitando qualche
polemica perché rievoca un
passato scomodo.
Scratch ha un tema
politico, ma non è un film
politico, la storia è
raccontata da una
prospettiva personale...
È un film su una coppia che
dopo aver trascorso
trent'anni insieme viene
messa in discussione da un
atto di disonestà, che si rivela
essere una sorta di peccato
originale. La ragione è
politica, la polizia polacca era
supportata dai servizi
segreti, ma il film si sposta
sulla contemporaneità.
Pensa che in Polonia il
tema dei servizi segreti
darà luogo a polemiche?
Il film sarà in programmazione in Polonia tra
due setttimane, ma una parte
del film verrà tagliata da
quella che è la copia attuale.
In Polonia, come in tutti i
paesi post-comunisti, forse
anche nell'Italia del
dopoguerra, la situazione era
simile. È accaduto che dopo
un evento così traumatico,
tutti hanno ricacciato la
polvere sotto il tappeto,
volendo dimenticare. Dopo
un po', però, generalmente in
maniera del tutto inaspettata,
questo passato torna e getta
un'ombra sul presente. Così,
qualsiasi atto di disonestà
porta con sé non un costo
politico, ma una pena
personale, che nel film si
traduce nella reazione al
fatto di essere stati traditi da
chi si credeva di conoscere
meglio. Il tema principale del
film è “l'arte” di bilanciare e
controllarsi, che segue alla
rabbia della protagonista. Da
un lato trent'anni di vita felice
insieme, dall'altro qualcosa
che si suppone amore
tradito. Ognuno di noi
dovrebbe ricordarsi che ogni
cosa che ha fatto in passato
acquista poi un significato
per il futuro.
Lei paragona i suoi
personaggi a quelli della
tragedia greca, perché?
Perché quello che accade
non dipende dai personaggi,
il mondo che hanno
conosciuto ormai è
disintegrato, e non importa
come decidano di agire. È
una sorta di Destino che li va
a trovare, e loro sono senza
aiuto, e non c'è soluzione
positiva. Da un lato, è una
vergogna per il protagonista
rispolverare il proprio
passato ed essere umiliato
dalla propria moglie;
dall'altro, c'è un elemento di
contrasto con la tragedia
classica ed è che in questo
film non c'è catarsi. Qui non ci
può essere il modo di
osservare tipico della
tragedia, perché il conflitto
tra i personaggi è insolubile,
come nella tragedia. Vivo
tutto l'anno con i miei
personaggi, do loro il tempo
di spiegarsi, di difendere le
loro ragioni, ed ora mi chiedo
cosa avrei fatto fossi stato nei
loro panni.
Da dove è nata l'idea per il
soggetto?
Dieci anni fa qualcuno mi ha
raccontato una storia
scovata nell'archivio della
Stasi, che coinvolgeva un
politico della Repubblica
Democratica tedesca, ma è
stato solo un punto di
partenza, uno spunto per
scrivere la mia storia.
Quando ho scritto il soggetto
in Polonia l'argomento servizi
segreti sovietici era tabù, ora
invece comincia ad esserci
una discussione politica .
Piera Boccacciaro
Generazioni contraddette
Intervista a Barmak Akram, regista di Kabuli Kid
L'originale opera di Barmak
Akram ci porta a conoscere
una Kabul dove tradizione e
rinnovamento si contaminano.
In questa intervista abbiamo
avuto l'occasione di
approfondire con il regista
alcune peculiarità dei tratti
culturali del mondo afgano
contemporaneo.
Iniziamo da alcuni aspetti
interculturali: Khaled vive a
metà tra la vecchia e la
nuova generazione del suo
tempo, nella Kabul posttalebana. Quali sono le più
probabili resistenze della
cultura precedente e le
infiltrazioni di quella nuova?
In effetti l'Afghanistan si trova
dopo gli anni della Grande
Guerra sotto l'influenza di
diversi paesi stranieri: prima i
russi che ci hanno trasmesso
la loro cultura, ed il
comunismo, poi gli Stati Uniti,
insieme al Pakistan,
intermediario che ha iniziato ad
agire per fermare i russi, fornito
le loro armi per battere il
Comunismo. Oggi anche la
cultura talebana è da
distruggere e siamo giunti alla
globalizzazione, l'era della
Coca Cola e del Rock'n’roll.
L'Afghanistan è un crocevia di
popoli, è il centro dell'Asia. La
Cina, l'Europa, etc. Ha avuto
molte influenze nefaste ma ha
cercato di prendere il meglio da
ogni cultura.
Dal film emergono alcuni
elementi multiculturali:
l'impotenza in una famiglia
equivale a una vergogna, lo
spinello viene associato al
mondo americano. Come
mai?
Si, si tratta di un simbolo
americano. È un'allusione
ironica. Prima dell'arrivo degli
americani si diceva che
l'Afghanistan produceva il 50%
dell'oppio nel mondo, dopo
l'arrivo degli americani oggi
sembra che la percentuale sia
salita al 90%. È una
contraddizione. Ci sono
sempre queste contraddizioni
quando un popolo invade un
altro popolo, per esempio in
ogni nazione che è stata
occupata dai soldati è
aumentata la prostituzione.
Un altro dato culturale:
Khaled sembra essere
uscito dal bigottismo
religioso talebano. Però si
contraddice spesso
comportandosi secondo
criteri conservatori.
La contraddizione del
personaggio mostra uno
spaccato della cultura
afghana: lui dice alla moglie di
mettere il velo, ma critica chi
lo mette. Si potrebbe pensare
che Khaled sia contro la
cultura afghana, ma in realtà
l'essere contraddittori fa parte
della natura umana.
È chiaro il dato che riguarda
la preferenza di un figlio
maschio nel nucleo
famigliare. Ma cosa
significa nella cultura
afghana attuale accettare
un figlio orfano?
Come in tutti i paesi gli orfani
da un lato sono emarginati,
dall'altro non si può fare loro
del male, e quindi vengono
infine accettati dalla società. È
sicuramente il padre che
decide di prendere un orfano
in famiglia: anche se la
società si è evoluta un po', è
ancora fortemente
patriarcale.
Perché la moglie di Khaled
cerca di adottare il bambino
di nascosto?
Nel film non si sa chi è la
donna che ha abbandonato il
bambino nel taxi. Si possono
fare diverse supposizioni: si
può immaginare che Khaled
abbia avuto una relazione
nascosta dalla quale ha avuto
un bambino, per esempio. La
moglie di Khaled è in una
situazione molto delicata,
perché non ha dato figli
maschi a suo marito. Sono i
figli che rendono la donna
forte nella famiglia, se non si
hanno figli, l'usanza molto
spesso è di prendere un'altra
moglie.
La madre del bambino è
l'unica col volto coperto.
Perché è l'unico per-
3
sonaggio "spersonalizzato"? Il suo è un ruolo
simbolico?
Ho voluto mostrare la vera
condizione femminile in
Afghanistan. Una donna
senza viso è una donna senza
identità, una persona che
quasi non esiste. È importante
m o s t r a r e q u e s t o
personaggio. I personaggi
veramente importanti nel film
sono la donna ed il bambino,
non il protagonista.
Caratteristica dominante è
la fedeltà del contesto:
Kabul viene raccontata
sotto tutti gli aspetti della
cultura e civiltà. Perché
questa scelta?
Volevo che tutta la storia si
sviluppasse in un contesto
pienamente verosimile. Ho
voluto mostrare la realtà
dell'Afghanistan di oggi.
Come dice il titolo, io volevo
raccontare Kabul innanzitutto,
e poi la storia del bambino.
Nonostante il difficile
momento di rinascita il
ritratto delle persone non è
quello classico del dolore:
Kabul sorride, ironizza,
respira rinnovamento. È la
reale condizione di adesso?
Gli abitanti di Kabul oggi
sorridono perché sono
sopravvissuti a molti momenti
difficili. Ridono molto di più dei
francesi e degli italiani. Un
afghano ride mentre la sua
casa brucia: se gli chiedete
perché sta ridendo vi
risponderà che in casa non
aveva mica dell'oro!
Danilo Catania
Massimiliano Monti
4Identità lontane
Intervista al regista e con gli attori
protagonisti del film turco “Iki Çizgi“
Quando le esistenze non si
toccano, non si compenetrano, nascono trame
umane che nascondono
rabbia, frustrazione,
dubbio. Paura. E la drammatizzazione di questo
genere di conflitto, silente e
spesso furioso, è stata negli
anni oggetto di molto
cinema. Iki Ç izgi porta sullo
schermo una storia di
questo tipo. Ne abbiamo
parlato col regista Selim
Evci e i protagonisti Gulcin
Santircioglu e Kaan Keskin.
Il film si apre in un teatro.
La coppia, nella rappresentazione, afferma
chiaramente la propria
distanza. Nel resto della
pellicola, invece, due
protagonisti evitano il
confronto dialogico. Nella
finzione si può chiarire
quello che nella realtà
resta inespresso?
Selim Evci: Il primo motivo
per cui ho iniziato il film con
una mise en scene teatrale
è per rimarcare che ciò che
avviene nella realtà è
diverso da ciò che avviene
su un palco. Quella scena
tecnicamente è una
parentesi d’apertura;
quando si chiude, comincia
la vita reale.
Si parla di una coppia
giovane in una Istanbul a
metà tra rinnovamento
culturale e resistenze del
passato. Quali elementi
del nuovo sono filtrati e
quali della tradizione
resistono nella giovane
coppia?
Selim Evci: Nel film c’è
l’elemento di contrasto tra
tradizione e modernità. Ho
messo in scena una
situazione verosimilmente
au milieu dei due estremi. Il
ritmo di vita a Istanbul è
quello della grande città,
che impone l’accettazione
degli elementi di rinnovamento e compromesso
multiculturale nei ritmi
frenetici con cui il pensiero,
le usanze e le mode si
evolvono. La tradizione è
talvolta superata dalle
nuove convenzioni ma non
completamente rigettata
Kaan Keskin: la Turchia è un
paese molto eterogeneo
socialmente, religiosamente, sentimentalmente. Il mio
personaggio presenta tratti
molto sfaccettati e talvolta
connivenze tra vecchio e
nuovo. La modernizzazione
è un corso degli eventi che
sovente si subisce acriticamente e ci si comporta
senza una reale coerenza o
consapevolezza. Per
questo sono portato a dire
che molto più spesso sono
le tendenze e le forme, non
tanto la sostanza degli ideali
della tradizione che cambiano. L’identità nazionale è
una cosa che muta nel
corso di anni, le mode che
cambiano sono più che altro
declinazioni con, talvolta,
piccoli elementi di novità.
La protagonista del film si
esprime con un silenzio
impassibile e contraddistinto da una nonchalance tipicamente femminile.
Che valore hanno i tuoi
silenzi e quale caratteristica del tuo personaggio
ha rappresentato il
maggior elemento di
sfida?
Gulcin Santircioglu: Il ruolo
tradizionale della donna nel
mondo turco è di una
personalità socievole, molto
aperta al dialogo. Il silenzio
del mio personaggio è il suo
essere sovversivo rispetto
alla tradizione. Quindi la
persona accumula conflitti
ed emozioni, rabbia,
contrizione sempre più forti
fino a trascendere nel
conflitto. Per quel che
riguarda il mio personaggio,
la maggior sfida è stata
r a p p r e s e n t a t a
dall’inscenare un processo
di crescita e diversificazione: la Celine dell’inizio
cambia, appena abbandona
Istanbul per il viaggio con
Merc inizia a mutare il suo
comportamento, e alla fine
della storia è completamente diversa.
E per il personaggio maschile?
Kaan Keskin: il mio personaggio è un fotografo di
professione, quindi abituato
a demandare il linguaggio
all’immagine. Non è in
grado di affidare troppo alla
comunicazione le sue
emozioni. Rispetto a Celine
è un personaggio meno
forte, e quindi molto spesso
ripiega la soluzione dei suoi
conflitti nell’introversione.
Ovviamente il fatto che la
donna sia dominante è una
mia visione personale.
Novità per il futuro dopo
questo esordio?
Selim Evci: probabilmente
riprendere il tema del titolo,
che metaforizzava un
viaggio interiore senza serie
incalzante di eventi e che
transitava dalla città al
mondo più ameno della
campagna. Mi piacerebbe
girare un viaggio in senso
contrario, con personaggi
completamente diversi.
Danilo Catania
Massimiliano Monti
Say cheeeese!
Le conseguenze dell'amore per la settima arte lo hanno portato a
diventare il divo del cinema italiano. Nonostante il grande successo
avuto al festival di Cannes, rimane sempre l'amico di famiglia che tutti
vorremmo avere, l'uomo in più che mancava a questa 65. Mostra.
Signore e signori, allo stand Arca CinemaGiovani: Paolo Sorrentino!
5
Fear the peer (to peer)
La pirateria dell’audiovisivo
– ce lo stanno ripetendo a
destra e a manca, anche in
Laguna, tra conferenze,
incontri e ammonimenti
sovrimpressi - va debellata.
Perché è una piaga che
falcidia le disponibilità
economiche dell’industria
cinematografica, perché è
eticamente delittuosa.
Perché è, soprattutto quella
telematica, un sinonimo,
spesso, di svilimento della
qualità, di ripiego che lede la
bellezza della fruizione – e
quindi danneggia anche il
pirata, e l’appassionato. E
questi sono i buoni motivi per
smetterla con le copie, con i
download.
Il problema,
però, è che la
discussione sul
tema spesso
prescinde da
alcuni fatti che
non possono
essere trascurati. E, soprattutto, che qualunque politica applicata finora si
è dimostrata fallimentare: lo
sharing (come il tape trading
musicale degli anni ’80) non
decresce, ogni provvedimento teso ad obliterare una
comunità peer to peer viene
aggirato con la creazione di
realtà nuove e più forti, e la
crisi non si placa. Posto che –
ed è chiaramente da dimostrarsi – la crisi sia realmente
generata in primis dalla
pirateria. Prima di cercare
rimedi, però, forse occorrerebbe indagare a fondo le
cause del fenomeno, perché
se ha ragione la nota pubblicità progresso che spesso
vediamo in sala, che accomuna scippi e furti d’auto al
download illegale, vien da
chiedersi come sia possibile
che il 90% della popolazione
sia improvvisamente divenuta moralmente equivoca, se
non platealmente criminale.
C’è la recessione, certo. Ed è
pure vero che, con la certezza
(o quasi) dell’impunità, la
forza dell’etica scema, e si
diventa tutti meno irreprensibili. Per non parlare del mal
comune: perché, in fondo,
scaricano tutti. Uno dei fatti
cruciali, però, è che molto
grande cinema, non dimentichiamolo, è irreperibile. Lo
sottolinea Claudio Masenza
sulle pagine di Ciak, questo
mese: sono tanti i classici
bloccati da questioni di diritti
(per non parlare di tantissime
pellicole internazionali visto
solo ai festival), introvabili
persino in VHS. E se rimane
comprensibile che i produttori
non investano in uscite home
video non remunerative, non
è però assurdo – aggiungo che poi chi il film lo vuole
vedere, se lo scarichi.
Masenza propone il download a prezzo politico, soluzione già più che
accettabile. Si
potrebbe, però,
gettare il sasso
un po’ più in là, e
parlare di
gratuità. Certo,
non ci sarebbero dividendi –
ma ce ne sono ora? – e un
guadagno sicuro lo otterrebbe, guarda un po’, il cinema. E
un lungo discorso andrebbe
fatto anche su tutte quelle
uscite home video sprovviste
di reali punti di forza, motivi
d’interesse – pochi extra,
materiali video di qualità
anonima, ecc. Perché c’è
poco da fare: i costi delle
uscite sono spesso proibitivi,
e forse si potrebbe rifare un
pensierino (solo meditativo,
sia chiaro, magari funzionale
al ridimensionamento)
all’ormai desueto concetto di
liberazione dell’arte. Rimane
il problema del cinema in
sala, e qui si entra in un
discorso senza dubbio più
serio, si tocca una pirateria
decisamente lesiva, miserabile.
In entrambi i casi, comunque, bisogna considerare
l’inevitabilità radicale del
fenomeno del download. Il
web è inarrestabile. E
nessuna tattica di repressione può funzionare, in questo
senso. Sono soldi, tempo,
sforzi spesi male. Si arrendano, i fautori della lotta
senza quartiere. Perché si
tratta di una comunità
globale, fluida, imprendibile,
poderosa nei numeri,
tecnologicamente avanzata
e frequentata da un numero
altissimo di grandi intelligenze. Una lotta contro la
popolazione del web è persa
in partenza – a meno di non
agire nei termini di una zero
tolerance che passa
attraverso oscuramento
delle reti e affini. E, almeno
nei paesi democratici, si
finisce per cozzare contro
inestricabili nodi di (sacrosanti) veti. La soluzione sta
altrove, perché il web (che,
ricordiamolo, riveste
anche un ruolo
positivo,
perché permette a tanto
cinema di
circolare) si
piega in un unico
modo: col web .
Insensibile ai
divieti, ma
estremamente esposta
alla peer
pressure , ai trend, alle
dinamiche dell’orientamento
di massa, la rete si muove
come una marea. E quindi
serve qualcosa di nuovo,
occorre sostituire l’azione
negativa con quella positiva,
agire su chi scarica, creare
un bisogno, un desiderio.
Offrire prodotti che spingano
all’acquisto (questo significa
investire, e magari accettare
un sostanziale ridimensionamento dei guadagni: ma la
crescita indeterminata non
esiste). Il blue ray può
essere una soluzione
parziale, in prospettiva,
come le promozioni (gadget,
prezzi ribassati, collane). Ma
tutto passa, come ha fatto
più volte notare (non unico)
James Cameron, dalle sale,
dalla proposizione di
esperienze uniche – il
regista canadese ha atteso,
per lavorare al suo Avatar, la
disponibilità delle migliori
tecnologie 3D, per offrire
uno spettacolo cui assistere
rigorosamente al cinema.
Perché per salvare il
cinema, bisogna ricreare
uno stimolo primario,
lavorare sulla fascinazione, ricostruire lo stupore
primigenio di questa
forma d’arte.
Diego K. Pierini
6
Teza
Regia: Haile Gerima Anno: 2008 Paese: Etiopia Sezione: Venezia 65
Finalmente, verrebbe da
dire! Finalmente sbarca al
Lido uno di quei film che da
soli bastano per farti
cambiare idea sull'intera
Mostra, che sino a questo
momento non ha di certo
entusiasmato gli amanti del
cinema. E non è un caso
che il pubblico presente in
una Sala Grande semivuota riservi al cineasta etiope
Haile Gerima otto minuti di
applauso continuato, tanto
da far emozionare lo stesso
regista africano.
Compito arduo quello di
Gerima, che porta in
Concorso Teza, raccontando quasi trent'anni di storia
del suo Paese attraverso
l'esperienza personale di
un intellettuale africano
(Aaron Arefe) rientrato in
patria dopo diversi anni
trascorsi lontano dalla sua
terra, dalla sua famiglia.
Dopo gli studi in medicina a
Berlino, dopo essere
entrato nel partito socialista
etiope, ed aver rischiato la
vita per esser stato pestato
da un gruppo di razzisti
tedeschi, Anberber riesce
finalmente a tornare in
Etiopia, dalla sua famiglia,
da sua madre che dopo
tanti anni di attesa, con le
lacrime agli occhi per la
gioia, può riabbracciare il
suo “piccolo”. In patria,
tuttavia, il medico africano
non trova l'ambiente che
Nuit de Chein
Regia: An Qi Ju Anno: 2008 Paese: Francia/Italia/Cina Sezione: Venezia 65
È notte fonda: la città giace in
preda alla guerra, alla
distruzione di identità e di
anime fragili e stanche che
osservano attonite ed inermi
il terrore che le avvince.
Ossorio, il protagonista,
esausto, è di ritorno a casa
con al seguito una moltitudine di profughi e di soldati
vinti nel fisico e nell'animo. È
alla ricerca della sua amata
che aveva lasciato lì tempo
addietro. Subito però viene
spiazzato dalla terribile
realtà che subdolamente lo
attende, pronta a travolgerlo
in un vortice di strane
coincidenze, fatalità, storie
di violenza ed amore, di odio
e repulsione in altalenanti
conati di profonda umanità e
delirante follia.
Solo un volto amico lo
aspetta: una bimba dal viso
sporco di fuliggine dagli
occhi teneri che stringono il
cuore. Un fiore in cambio di
pochi spiccioli. E di rimando
un sorriso pieno di gratitudine.
Tutto è cambiato: una milizia
armata terrorizza il paese,
fazioni rivali si scontrano alla
ricerca di una presunta verità
celata in meandri inaspettati.
Uno, il colpevole, ma sono
tanti a cadere sotto la
macchina implacabile della
morte. Carne al patibolo. E
una notte decisiva ognuno
cerca di salvare la propria
vita, senza speranza.
Tratto dall'omonimo
romanzo del 1943
dell'uruguaiano Juan Carlos
Onetti il regista Werner
Schroeter lo ha portato su
pellicola riconoscendo con
sperava, il suo ritorno infatti
avviene tra gli orrori della
guerra civile e le feroci faide
tribali. Ciò che colpisce chi
guarda è sicuramente
l'impotenza di Anberber,
che assiste con sguardo
dolente alla violenza delle
forze avversarie delle
fazioni militari e ribelli.
Quello di Teza è un progetto che ha impiegato
complessivamente quattro
anni di lavoro, più volte
interrotto per mancanza di
fondi, e che fa sicuramente
riflettere su come si possa
realizzare un ottimo film pur
non avendo una grande
disponibilità economica.
Dato il grande successo di
pubblico e di critica riscontrato qui al Lido, Teza si
candida senza mezzi
termini alla vittoria del
Leone d'Oro. Una piacevole sorpresa.
Michele Montesi
lui una certa comunione
d'intenti. Entrambi, attraverso la fantasmagoria, vanno
alla ricerca di utopie complesse e del desiderio
ardente di malinconia per
indagare la profondità della
nostra anima.
A lui va il merito di aver
portato sul grande schermo
con uno stile anticonvenzionale l'arte, la lirica, ma anche
l'umanità più controcorrente
e marginale in un palcoscenico di ombre metalliche ed
umane, che sgusciano in
un'atmosfera apocalittica
percorsa da tensioni
esistenziali capaci di
trafiggere e atterrire.
Plot debole, a tratti confuso e
poco lineare, dal ritmo
incerto, poco coinvolgente,
lascia lo spettatore ai
margini della narrazione.
Vero punto di forza, d’altro
canto, le intense tinte noir
enfatizzate da musica lirica
capace di generare autentica tensione.
Paola Tarasco
7
Verso Est
Regia: Laura Angiulli Anno: 2008 Paese: Italia Sezione: Orizzonti
La regista Laura Angiulli ci
guida in un viaggio Verso Est.
Un est poco distante eppure
lontanissimo da noi, dove
violenza e crudeltà hanno
lasciato un segno indelebile.
Al centro del lungometraggio
vi è la Bosnia, la cui storia
recente è rievocata in una
serie di suggestioni in cui
presente e passato si
sovrappongono.
Il racconto per immagini si
sviluppa attorno ai tre luoghi
simbolo del conflitto:
Sarajevo, Mostar e
Srebrenica. La capitale
bosniaca, il cui nome resta
associato al più lungo
assedio della storia bellica
moderna, inaugura il
percorso: restano negli occhi
le spettacolari immagini delle
fiamme che avvolgono la
Biblioteca nazionale, nelle
quali sembra che sia l'edificio
stesso a parlarci di un trauma
che nemmeno la ricostruzione può cancellare. Così
come non si dimenticano i
frammenti del Ponte di
Mostar che precipitano nella
Neretva sotto le cannonate
croate. Quello che vediamo
non è più lo Stari Most voluto
da Solimano il Magnifico nel
XVI secolo, quello che Erri
De Luca definisce “un'opera
cordiale, fatta per congiungere”, ma il Ponte ricostruito per
volontà della comunità
internazionale. A coronamento di un'escalation emotiva,
l'attenzione si sposta infine
su Srebrenica. A parlare sono
soprattutto i volti delle donne
che hanno perso mariti e figli
a causa di una pratica
Il primo giorno d’inverno
Regia: Mirko Locatelli Anno: 2008 Paese: Italia Sezione: Orizzonti
L’ a d o l e s c e n z a c o m e
passaggio critico. Di
questo, stando alle note del
regista Mirko Locatelli,
dovrebbe parlarci Il primo
giorno d’inverno . E il
discorso si articola su scene
seppia che ripropongono,
per gran parte della durata,
una snervante sequenza
immutabile che ritrae la
consuetudine muta e
solitaria del protagonista
Va l e r i o , a d o l e s c e n t e
incapace di trovare un
punto di contatto con i suoi
pari. Il piglio della regia è
schiettamente autoriale:
largo uso dell’inquadratura
fissa, frequente richiamo al
valore introspettivo degli
specchi, costruzione
dell’immagine fortemente
significante, ricerca
costante dell’espressione
fisica degli attori, specie per
quanto riguarda l’interprete
principale Michele Cova,
sommesso e impacciato.
Quello che ci investe, in
sala, è un panorama di
silente afflizione. Afflizione
fin troppo tangibile, verrebbe da sottolineare perché
l’intenzione espressiva è
gestita male, e si fa noia
depressiva, quasi mortale,
quando, dopo sessanta
minuti di pellicola, tutto ciò
che è stato proposto è una
ripetizione delle stesse
quattro scene, con pochissime variazioni, ma con
l’aggiunta di un urticante
violino monocorde che fa
inumana nota con il nome di
“pulizia etnica”. Sulla scena
irrompe un'unica protagonista: la morte, evidente nelle
immagini delle fosse comuni,
attuale negli occhi e nei gesti
delle donne di Srebrenica.
Il compito di trasmettere un
carico emotivo tanto pesante
è affidato, in particolare, a
Hatidza Mehmedović, che
nel massacro del 1995 ha
perso i due figli, il marito, i
fratelli e il padre.
Drammaticamente commovente il finale, con i bambini
che cantano una amara
“canzone della felicità”
mentre uno di loro scoppia in
lacrime. Si chiude così un
documentario che ha il suo
principale punto di forza nella
capacità evocativa delle
immagini, che suscita
emozioni ma non racconta, e
che risulta quindi piuttosto
arduo da comprendere per
chi non possiede un'adeguata conoscenza delle
vicende balcaniche.
Valentina Pacitti
tanto cinema off, ma più che
nobilitare, ammorba.
Una corsa lemme in
motorino, ostinati esercizi
ginnici, il freddo allenamento in piscina, una famiglia
mesta in cui si parla poco e
si dice ancora di meno.
Repeat. E si va avanti così,
sorta di prologo alienante
ed infinito: se è vero che
Locatelli, si nota, conosce a
fondo il disagio dell’adolescenza, e che
l’incomunicabilità è oggetto
interessante, resta da
chiedersi perché lasciarla
assurgere a mezzo espressivo, con tutti i paradossi
che questo comporta.
Perché il discorso è un po’
questo: come ritratto
realistico ed efficace della
violenza, ad esempio, un
cazzottone sui denti va
benissimo. Però di solito
non fa granché piacere.
Anzi.
Diego K. Pierini
8
I Basilischi
Regia: Lina Wertmüller Anno: 1963 Paese: Italia Sezione: Questi Fantasmi
In un'amara e grottesca
narrazione della vita di alcuni
amici del Sud, viene
mostrato uno spaccato della
società paesana pugliese,
raccontando le vicende di
una gioventù pigra e
annoiata.
Al suo esordio come regista,
Lina Wertmüller presenta I
Basilischi (meritandosi la
Vela d'Argento al Festival di
Locarno) con l'intenzione di
raccontare la “gioventù
sfaticata”: tutti ragazzi, in
genere figli di persone
agiate, che studiano
all'Università con scarso
impegno - bisogna dire quasi a rinviare l'ingresso nel
mondo del lavoro, confinati
in un borgo rurale e nelle
Giovedì
Programma 04diSettembre
Accrediti Cinema
SALA GRANDE
11.00
L’Exil et le Royaume di Andrei Schtakleff e Jonathan Le
Fourn
14.00
Il primo giorno d’inverno di Mirko Locatelli
16.00
Gabbia (Inland) di Tariq Teguila
PALABIENNALE
08.30
Rachel Getting Married di Jonathan Demme
11.00
Les Plages d’Agnès di Agnès Varda
13.15
The Sky Crawlers di Mamoru Oshii
15.45
L’Exil et le Royaume di Andrei Schtakleff e Jonathan Le
Fourn
18.15
Il primo giorno d’inverno di Mirko Locatelli
PALALIDO
18.30
Venkovsky Ucitel di Bohdan Siàma
20.45
L’apprenti di Samuel Collardy
“consuetudini”.
Un ritratto, insomma, della
vita provinciale, quasi
documentaristico, in cui la
Wertmüller dedica una
speciale attenzione alle
atmosfere (soporifere nella
perfetta rappresentazione
della controra) e alle scene
corali, piuttosto che
all'evoluzione dei personaggi.
Unici momenti di novità, che
portano alla rottura della
monotonia, sono: la
partenza di uno studentello
per Roma, stimolata
dall'arrivo dei parenti dalla
capitale, cittadini fino
all'osso, che discutono con i
paesani di fascismo e
comunismo, del desiderio di
progresso sociale o della
nostalgia del “pugno duro” e
la famosa scena davanti al
portone di casa, in cui la
romana “Cicci” detta gambe-
lunghe lascia il marito,
esasperata dalla vita di
provincia, episodio di
autentico richiamo al cinema
della capitale.
Un film curioso e ironico,
meritevole di una certa
attenzione e di un certo
rispetto, anche nell'interpretazione degli attori,
in maggioranza non
professionisti, che,
nonostante le intuibili
caratteristiche linguistiche
non proprio orecchiabili,
riescono a imporsi sullo
schermo.
Il risultato, tuttavia, è
comunque l'evocazione di
una Puglia rurale e feudale,
depressa nelle sue
ambizioni soffocate e nelle
sue speranze deluse, una
rappresentazione della
provincia annoiata e
impigrita, che trattiene e
intrappola nella sua rete
dolce-amara i giovani, che li
costringe a convivere nel
limbo della consuetudine.
Simone Russo
SALA PERLA
11.45
Una semana solos di Celina Murgia
14.30
Huanggua di Zhou Yaowu
16.45
Il colore della Bassa di Giuseppe Morandi e
Gianfranco Azzali
Managua boxing di Frediana Fornari
Un canto lontano di Alberto Momo
Alba di Giorgia Farina
21.00
Beyond Tracks di Aku Louhimies
Residentity di Francesco Fei
Paracity di Enda Hughes
Borderline Metropolis di Paolo Scarfò
Trancity di Asif Kapadia
The Bear’s Walk di Hugo Vieira da Silva
Dionisocity. An Archeologist’s Sunday di Guo Xiaolu
Pokrajina St.2 di Vinko Moderndorfer
SALA VOLPI
09.00
La circostanza di Ermanno Olmi
11.15
Lunga vita alla Signora! di Ermanno Olmi
13.30
La leggenda del santo bevitore di Ermanno Olmi
16.15
I recuperanti di Ermanno Olmi
20.00
Broken Lines di Sallie Aprahamian
22.30
Il segreto del bosco vecchio di Ermanno Olmi