1 - European Union Institute for Security Studies

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La politica di sicurezza
e difesa dell’UE
I primi cinque anni (1999-2004)
A cura di Nicole Gnesotto
Prefazione di Javier Solana
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Nel gennaio 2002 l’Istituto di Studi per la Sicurezza (ISS) è
diventato un’agenzia autonoma dell’Unione
Europea, con sede a Parigi. Sulla base di un’Azione
Comune del Consiglio UE del 20 luglio 2001, è ora
parte integrante delle nuove strutture che sosterranno l’ulteriore sviluppo della PESC e della PESD. La
missione fondamentale dell’Istituto è di fornire
analisi e raccomandazioni che possano essere utili e
pertinenti per la formulazione della politica europea
di sicurezza e difesa. Nell’adempimento di questa
missione, l’Istituto agisce anche come interfaccia fra
esperti e decision-makers europei a tutti i livelli.
La responsabilità per le opinioni espresse in questo
volume spetta esclusivamente agli autori. Le pubblicazioni dell’Istituto sono accessibili attraverso il sito
Internet: www.iss-eu.org
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La politica di sicurezza e
difesa dell’UE
I primi cinque anni (1999-2004)
A cura di Nicole Gnesotto
Prefazione di Javier Solana
Martti Ahtisaari
Michel Barnier
Carl Bildt
Elmar Brok
& Norbert Gresch
Robert Cooper
Judy Dempsey
Lamberto Dini
Jean-Louis Gergorin
& Jean Bétermier
Philip H. Gordon
Jean-Yves Haine
Gustav Lindstrom
Antonio Missiroli
Alberto Navarro
Martin Ortega
Ferdinando Riccardi
Alexander Rondos
Burkard Schmitt
Rainer Schuwirth
Theo Sommer
Laurent Zecchini
Istituto di studi per la sicurezza
dell’Unione europea
Parigi
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Le foto in copertina sono state concesse a titolo gratuito dal Consiglio Europeo e dalla Libreria
della Commissione Europea.
L’Istituto è un’organizzazione non-profit. Molti degli autori del presente volume hanno devoluto il loro onorario in beneficenza. Eventuali profitti derivanti della vendita di questo volume
saranno egualmente destinati a scopi benefici.
Tutti i contributi sono stati tradotti del francese o dell’inglese dal servizio linguistico del Consiglio
Europeo e successivamente rivisti da Antonio Missiroli.
Istituto di studi per la sicurezza
dell’Unione europea
Parigi
Direttrice: Nicole Gnesotto
© UE Istituto di studi per la sicurezza, 2004. Tutti i diritti sono riservati. Qualsiasi ristampa o
riproduzione - anche parziale - è consentita soltanto con l’esplicita autorizzazione dell’Istituto.
ISBN 92-9198-061-7
Stampa: Corlet Imprimeur, Condé-sur-Noireau (Francia)
Progetto grafico: Claire Mabille, Parigi (Francia)
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Indice
Prefazione Javier Solana
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Introduzione Nicole Gnesotto
Cinque anni di PESD: bilancio e prospettive
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Cinque anni di PESD (1999-2004): un bilancio
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1. Jean-Yves Haine
37
PESD: una prospettiva storica
2. Antonio Missiroli
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Come funziona la PESD
3. Martin Ortega
79
Oltre Petersberg: le missioni della forza militare dell’UE
4. Burkard Schmitt
97
Capacità europee — quante divisioni?
5. Gustav Lindstrom
119
Sul terreno: le missioni PESD (2003-2004)
6. Jean-Yves Haine
139
La PESD e la NATO
7. Antonio Missiroli
155
Il trattato costituzionale — e oltre
II
Attori e testimoni
165
8. Martti Ahtisaari
167
9. Michel Barnier
177
10. Carl Bildt
183
11. Elmar Brok & Norbert Gresch
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12. Robert Cooper
203
13. Judy Dempsey
209
14. Lamberto Dini
217
15. Jean-Louis Gergorin & Jean Bétermier
223
16. Philip H. Gordon
229
17. Alberto Navarro
235
18. Ferdinando Riccardi
241
19. Alexander Rondos
249
20. Rainer Schuwirth
257
21. Theo Sommer
22. Laurent Zecchini
265
271
Annessi
Cronologia
Bibliografia
Abbreviazioni
Gli autori
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orrei iniziare con un paradosso: di tutte le prerogative degli Stati, la
politica in materia di sicurezza e di difesa costituisce indubbiamente quella che più difficilmente si presta ad un approccio europeo collettivo. E tuttavia, dopo la moneta unica, è in questo settore che l’Unione ha realizzato nell’ultimo quinquennio i progressi più rapidi e più
spettacolari.
Cinque anni fa, al momento in cui ho assunto il mio incarico, nessuno
avrebbe osato scommettere che l’Unione avrebbe presto avuto responsabilità dirette in materia di gestione delle crisi, un Comitato militare, uno Stato
maggiore, operazioni militari condotte sotto la sua responsabilità, un’agenzia per gli armamenti, una clausola di solidarietà in caso di attacco terroristico e - soprattutto - una visione comune delle minacce che dobbiamo
affrontare e delle risposte necessarie, vale a dire una strategia in materia di
sicurezza veramente europea. Tuttavia, queste costituiscono ormai realtà
tangibili in seno all’Unione europea.
Come si spiegano questi progressi? La mia prima risposta presuppone
innanzitutto un chiarimento del vocabolario e delle ambizioni della PESD:
anche se il termine ‘difesa’ è usato molto spesso per descrivere queste nuove
attività dell’Unione, è chiaro che l’obiettivo dei 15 non era la creazione di
una difesa comune, ma piuttosto l’attuazione di una politica efficace di
gestione delle crisi esterne. In questo senso, il dramma del Kosovo ha svolto
un importante ruolo politico nella misura in cui ha segnato l’avvio di una
volontà comune degli europei di agire congiuntamente creando, nell’ambito dell’Unione, tutti gli strumenti necessari alla pacificazione delle crisi.
Tali ambizioni iniziali dell’UE sono definite perfettamente nei cosiddetti
compiti di Petersberg. Abbiamo quindi elaborato degli strumenti, definito
delle capacità, assunto degli impegni per soddisfare gli obiettivi prefissi,
accumulando anche esperienza nelle situazioni reali di crisi - segnatamente
in Bosnia, nell’ex Repubblica jugoslava di Macedonia (FYROM) e nella
Repubblica democratica del Congo (RDC). Sulla base di tali acquis la
PESD ha potuto progredire e ampliare il suo campo d’azione: l’adozione,
nel dicembre 2003, della strategia europea in materia di sicurezza che
avevo presentato ai 25 Capi di Stato e di governo europei rappresenta pertanto la logica conclusione di un’iniziativa collettiva pragmatica, relativamente modesta in origine, ma infine fruttuosa.
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La seconda ragione è estremamente semplice: per parafrasare la classica
distinzione tra le ‘guerre per scelta’ e le ‘guerre per necessità’, direi che la
politica in materia di sicurezza e di difesa dell’Unione non costituisce più
una scelta, ma una necessità. E questo per almeno tre motivi: innanzitutto,
l’aumento delle crisi e delle situazioni di instabilità internazionali che costituiscono il contesto strategico dell’UE, sia nelle sue immediate vicinanze (i
Balcani o il Mediterraneo) sia in zone più lontane, come il Medio Oriente o
l’Afghanistan. Il secondo motivo è direttamente connesso alla globalizzazione: in un mondo globalizzato e caotico non è più possibile, in effetti, separare artificialmente prosperità e sicurezza, se non cullandosi nelle illusioni.
L’importanza economica e commerciale ormai raggiunta dall’Unione a 25
- un quarto del PIL mondiale, 450 milioni di abitanti - e l’integrazione sempre più profonda delle loro economie e del loro sviluppo non consentono più
agli europei di astrarsi tranquillamente dai sussulti del mondo né di sfuggire
alle loro responsabilità politiche nella pacificazione della globalizzazione.
Terzo motivo, infine, è il carattere inevitabile del multilateralismo nella
gestione delle crisi internazionali: dato che nessuna nazione può fare tutto o
risolvere tutto da sola, gli europei che fanno parte dell’Unione devono assumere congiuntamente una parte crescente di responsabilità nella stabilizzazione delle crisi, in modo autonomo - come è avvenuto nel 2003 nel
Congo - oppure in partenariato con l’America quando lo riterranno necessario. Per tutti i suddetti motivi, compresa la costante ‘domanda’ di Europa
da parte dei cittadini europei quando vengono interrogati sulla loro sicurezza futura, la politica di difesa europea non solo è in progressione
costante, ma ha ormai raggiunto la soglia di irreversibilità.
Non bisogna tuttavia fraintendere: la PESD non costituisce un processo
di militarizzazione della costruzione europea. Il mio obiettivo, a capo di
tale avventura, è stato sin dall’inizio la promozione dell’Unione quale
attore politico globale, in grado di mobilitare tutte le risorse disponibili - economiche, commerciali, umanitarie, diplomatiche, e beninteso anche militari - per agire in modo coerente e soprattutto efficace sull’insieme del suo
ambito internazionale. È stato quindi necessario iniziare a costruire ciò che
non esisteva ancora: un minimo di strumenti e di capacità, sia civili che militari, indispensabili per la credibilità internazionale; ed inserire poi tali strumenti militari in un concetto strategico globale, una sorta di filosofia generale dell’azione dell’UE nel mondo. È questo, a mio parere, il vero merito
della strategia europea in materia di sicurezza, la cui elaborazione mi era
stata affidata dal Consiglio europeo di Salonicco. Tale testo, adottato dai 25
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Capi di Stato e di Governo nel dicembre 2003, rappresenta in certo qual
modo la ‘carta d’identità strategica’ dell’Unione europea: un attore di sicurezza globale, altrettanto vigile nei confronti del terrorismo e della proliferazione delle armi di distruzione di massa che nei confronti delle cause più
tradizionali di instabilità - conflitti regionali, fallimento degli Stati, grande
criminalità organizzata - tanto più che tali diverse forme di minaccia si alimentano reciprocamente in numerose regioni del mondo. Un attore di sicurezza responsabile, convinto che la difesa della sua sicurezza e la promozione dei suoi valori presuppongono la realizzazione di tre obiettivi
strategici: far fronte alle varie minacce, creare sicurezza nelle zone limitrofe
dell’Unione e promuovere un ordine internazionale basato su un multilateralismo efficace. Infine, un attore di sicurezza credibile, nel contempo più
attivo nella gestione e soprattutto nella prevenzione delle crisi, più determinato a sviluppare le capacità militari, diplomatiche e industriali necessarie
e più coerente nell’attuazione dei vari strumenti di azione esterna. Inoltre,
al di là di tale visione del mondo e del ruolo dell’Unione nel mondo, la strategia europea in materia di sicurezza ha un’altra virtù, di natura più istituzionale: dato che è un progetto a lungo termine, essa rappresenta anche un
quadro normativo generale per la PESC, in cui devono in futuro inserirsi le
priorità specifiche di ogni presidenza dell’Unione europea. Essa consente
quindi di rafforzare la continuità della politica in materia di sicurezza e di
difesa dell’UE, ben prima che siano attuate le disposizioni previste a tal fine
dal progetto di Costituzione europea.
Non presenterò in questo contesto un bilancio completo di quanto
abbiamo raggiunto, con la mia squadra e grazie alla determinazione degli
Stati membri, dopo il Consiglio europeo di Colonia. La presente pubblicazione dell’Istituto di studi per la sicurezza dell’Unione europea ha lo scopo
di tracciarne il quadro. Per quanto riguarda i cinque anni da me trascorsi a
capo della PESD, vorrei insistere soprattutto su alcuni insegnamenti che
sono, a mio parere, determinanti anche per il futuro del ruolo internazionale dell’Unione:
Q Innanzi tutto, dobbiamo affrontare la complessità. Dalla caduta del
sistema bipolare est-ovest, l’ambiente internazionale è soggetto contemporaneamente a molteplici fattori di crisi e di unificazione. Il mondo è oggi più
complesso ed anche più imprevedibile. Ridurre il sistema internazionale al
confronto binario di un gruppo contro un altro, trattare le crisi del pianeta
sulla base della loro sola dimensione militare o, al contrario, contare soprattutto sul commercio e l’aiuto economico per ridurre le cause di conflitto e
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pacificare il mondo sono tutte vie senza sbocco. Il valore aggiunto dell’Unione risiede precisamente nella sua capacità di coniugare tutti gli aspetti
possibili dell’azione internazionale. In materia di sicurezza, tale principio
di complessità induce ad accordare all’agenda balcanica la stessa importanza dell’agenda anti-terrorismo. All’inizio del mio mandato, nel 1999, il
conflitto nella Bosnia Erzegovina rappresentava il riferimento principale
per la creazione di un ‘obiettivo primario’ di 60.000 uomini e la creazione
delle capacità militari dell’Unione. Cinque anni dopo, le esperienze acquisite in occasione dei vari interventi nelle crisi esterne hanno fornito altri riferimenti militari: il concetto di ‘gruppo tattico’ si è imposto come una necessità
per l’organizzazione delle capacità europee. Deve quindi essere operata una
scelta tra i due tipi di missioni, vale a dire tra forze di mantenimento della
pace, alquanto massicce, statiche e permanenti, e forze d’intervento rapido,
più mobili, leggere e flessibili? I grandi battaglioni di peacekeepers vanno
sostituiti da gruppi d’intervento più rapidi e più mobili? La risposta è evidentemente negativa, se non altro in quanto i due suddetti tipi di forze costituiscono spesso due fasi di un unico intervento militare.
Nel contempo, la minaccia di attentati terroristici ha indotto l’Unione a
definire la sua politica in materia di sicurezza non soltanto come una politica di proiezione di forze su teatri esterni, ma anche come una politica di
protezione dei cittadini all’interno stesso dell’Unione. E anche se la lotta
contro il terrorismo non si vince con mezzi militari, essa costituisce parte
integrante di un approccio politico globale in materia di sicurezza di cui ho
sempre perorato la pertinenza. In altri termini, il compito dei responsabili
della pianificazione della sicurezza è oggi molto più complesso rispetto a
quando la minaccia era imponente, prioritaria e chiaramente individuabile. Ma se la PESD costituisce un mezzo e non un fine, deve consentire di
sviluppare capacità militari e civili con sufficiente rigore e flessibilità per
aumentare, in definitiva, le opzioni politiche a disposizione dei responsabili
europei in ogni tipo di crisi.
Q In secondo luogo, la coerenza è la chiave di ogni successo. Tale imperativo
di coerenza fa parte da tempo dei luoghi comuni retorici dell’Unione europea, e per molti si identifica soprattutto con le questioni istituzionali interne.
Io stesso ho insistito, nella strategia europea in materia di sicurezza, sull’urgenza e la necessità di aumentare la coerenza tra i mezzi civili e militari dell’azione esterna, tra la politica di sviluppo e la politica in materia di sicurezza, tra le azioni della Commissione, del Consiglio e degli Stati membri,
tra la diplomazia e la difesa, tra il ruolo dell’Unione e il ruolo delle altre
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organizzazioni internazionali competenti nei vari conflitti. Lungi da me
quindi l’idea di negare l’importanza di questa sfida istituzionale, alla quale
il progetto di trattato costituzionale cerca di apportare soluzioni. Vorrei tuttavia insistere anche su un altro aspetto della coerenza, vale a dire la sua
dimensione temporale. I cinque anni trascorsi a capo della PESC mi hanno
convinto della necessità di integrare maggiormente il fattore temporale nell’elaborazione delle politiche dell’UE. Cinque anni dopo l’intervento nel
Kosovo, la situazione resta incerta. Un anno dopo l’intervento dell’Unione
nella RDC, la situazione resta estremamente precaria e volatile. Un bilancio analogo può essere fatto sulla stabilizzazione dell’Afghanistan dal 2001,
per non parlare della sfida importante che rappresenta oggi il futuro dell’Irak. In altri termini, la sequenza strettamente militare della gestione di una
crisi non è mai così limitata nel tempo come si crede, e la sequenza di stabilizzazione e di ricostruzione dopo un conflitto non è mai così civile come si
desidera. Poiché le loro risorse militari e finanziarie non sono illimitate, gli
europei devono maggiormente integrare tale dimensione temporale sia
nella pianificazione militare delle loro operazioni, che nell’elaborazione di
soluzioni politiche per ognuno dei conflitti in cui sono implicati.
Q Il terzo insegnamento riguarda la necessità di trovare un giusto equilibrio tra le nazioni e le istituzioni europee. Nel nostro mondo globalizzato le
sovranità nazionali continuano ad essere protagonisti inevitabili. Certamente nessuna crisi regionale, nessuna sfida mondiale può oggi essere
affrontata da una sola nazione. Ciò vale per la potenza americana ed ancor
più per ciascuna delle nazioni europee. Tuttavia, nonostante questa continua erosione della loro capacità di azione individuale, le nazioni contano:
in seno ai 25 le differenze di potenza o di influenza, di eredità storica, di
situazione geografica, contano. Per essere legittima ed efficace, una politica
europea comune in materia di sicurezza e di difesa deve quindi basarsi su
un minimo di realismo. Ignorare le differenze nazionali in nome dell’uguaglianza di principio degli Stati membri (uno Stato equivale ad un veto)
o, al contrario, accentuare tali differenze di potenza in nome di un principio
d’efficacia relativa (la leadership dei ‘grandi’) sono due tentazioni frequenti, ma insufficienti. Più l’Unione si allarga e si diversifica, più occorrerà raddoppiare gli sforzi e la vigilanza affinché la politica in materia di
difesa resti comune ed efficace, egalitaria e differenziata. L’elaborazione
della strategia europea in materia di sicurezza ha sin d’ora consentito di sperimentare nuovi metodi - né maggioritari né intergovernativi - per costruire
un consenso politico in seno all’Unione. Il valore aggiunto delle nuove isti-
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tuzioni previste dal trattato costituzionale è quello di poter contribuire a far
emergere questo interesse generale europeo: grazie alla capacità di ascolto e
di iniziativa, il Ministro degli affari esteri dell’Unione avrà un ruolo fondamentale in materia, analogamente alle disposizioni previste in materia di
flessibilità e cooperazione rafforzata nel settore della difesa.
Q Il quarto insegnamento che vorrei sottolineare riguarda le relazioni
transatlantiche. Non diversamente dall’UE, gli Stati Uniti sono soggetti a
numerosi fattori di evoluzione. La potenza americana nel 2004 è molto
diversa da quella che era nel contesto del 1999, dopo la vittoria nel Kosovo.
Allo stesso modo, l’Alleanza atlantica di oggi non è la NATO di cui ero
Segretario generale cinque anni fa. Se il partenariato transatlantico resta,
in linea di principio, indispensabile e insostituibile, le modalità delle relazioni euroamericane devono adeguarsi all’evoluzione del mondo e dei singoli partner. Ritengo fuori di dubbio che l’America e l’Unione, quando agiscono congiuntamente, costituiscano la più grande forza di pace e di
stabilità internazionale. Ma la forma, il contesto e le norme del loro partenariato strategico non sono fissati una volta per tutte. Adeguare le relazioni
transatlantiche alla crescente complessità del contesto internazionale
dovrebbe costituire, a mio parere, una delle principali priorità di ciascuno
dei due partner. Certamente, di fronte a crisi sempre più complesse e differenziate, l’identità delle analisi e delle risposte, la definizione delle priorità
e del contesto stesso di cooperazione non sono più così immediate e automatiche come all’epoca della guerra fredda unificatrice. Si tratta tuttavia di
ragioni in più per intensificare il dialogo, raffrontare le percezioni e le priorità, definire obiettivi comuni, nel rispetto dell’identità e della specificità dei
due partner.
Vorrei concludere con una prospettiva storica. L’Unione europea è stata
ideata e costruita, cinquanta anni fa, con la principale ambizione politica di
eliminare definitivamente la guerra e la violenza nelle relazioni tra i membri della famiglia europea. è sorta da un profondo trauma dovuto a una
potenza militare eccessiva e incontrollata, Si è sviluppata durante decenni
nella profonda convinzione che i processi d’integrazione multipli tra le varie
nazioni europee fossero la miglior formula possibile per garantire stabilità e
sicurezza ad ognuna di tali nazioni. E tali sforzi sono stati coronati da successo. Oggi, sulla base di questo acquis storico fondamentale, l’Unione vuole
proiettare all’esterno la stabilità pazientemente costruita all’interno,
aggiungendo alle sue competenze tradizionali una politica di sicurezza
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comune. Per tale motivo vuole ora promuovere, nel sistema internazionale,
una strategia europea in materia di sicurezza fondata su valori, norme,
capacità condivisi tra i 25. In nessun caso questa nuova responsabilità dell’Unione la allontana dal progetto europeo iniziale fondato sui valori della
pace, del diritto, della giustizia e della democrazia. Sono convinto del contrario: sono proprio questi valori che l’Unione incarna e cerca di promuovere
nella sua azione internazionale, nei Balcani come in Medio Oriente, in
Africa come nei confronti dell’Iraq. Sviluppare un maggior grado di giustizia
internazionale e di rispetto del diritto; costruire pazientemente le condizioni
minime per il buon governo e la democrazia; favorire il negoziato piuttosto
che il conflitto, ma accettare di intervenire e di obbligare quando la coercizione diventa necessaria: sono questi i principi strategici su cui cinque anni fa
si è fondata la costruzione della PESD. Sono questi i principi che ne guideranno lo sviluppo anche nei prossimi anni.
Javier Solana
Alto Rappresentante per la PESC
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PESD: i primi
cinque anni
Cinque anni di PESD:
bilancio e prospettive
Nicole Gnesotto
A cinque anni dal varo della PESD, l’Unione vanta risultati del
tutto sorprendenti: la legittimità delle sue competenze militari è
ormai solidamente ancorata nei trattati. Le strutture per le decisioni e la condotta delle operazioni sono divenute permanenti e
complete: Comitato politico, Stato maggiore, cellula di pianificazione, agenzia degli armamenti, Comitato militare, Centro di
situazione ecc., con un organico totale di oltre 300 persone al servizio della PESD. Ha definito una strategia europea in materia di
sicurezza, consensualmente fra i 25, mentre cinque anni fa il concetto stesso di sicurezza propriamente europeo era dichiarato tabù.
Il sostegno e le aspettative dell’opinione pubblica europea nei confronti di una difesa comune non hanno smesso di progredire. In
particolare, mentre all’epoca della crisi del Kosovo era assente, ora
l’Unione è incaricata di varie operazioni militari o di polizia nei Balcani, senza parlare del successo della prima operazione esterna
nella Repubblica democratica del Congo (RDC), nell’estate 2003.
Allo stesso tempo, in questi cinque anni di PESD, si è continuato ad avere la netta sensazione di tensioni costanti, di vincoli
politici ricorrenti: i progressi conseguiti in materia di difesa non
hanno impedito lo scoppio di divisioni spettacolari sulla crisi irachena del 2003; la finalità politica ultima di queste reti di integrazione europea in materia di sicurezza e di difesa è oggetto di profonde divergenze; infine, nei confronti degli Stati Uniti,
l’impressione di dejà-vu domina ancora i dibattiti. Il mondo dopo
l’11 settembre è profondamente diverso dal mondo del dopo
Kosovo, l’Iraq non è i Balcani, i 25 hanno dinamiche diverse
rispetto ai 15, e restano le limitazioni che gravano sullo sviluppo
dell’Unione come attore internazionale. Questo è il paradosso che
occorre chiarire.
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Introduzione
Fonti e tendenze
Le tre fonti principali
Perché, dopo cinquant’anni di assenza dell’Europa sotto il profilo
militare, gli Stati membri sono ormai collettivamente impegnati
nella costruzione di una politica di difesa dell’Unione? Sin dall’inizio, in occasione del vertice franco-britannico di Saint-Malo nel
dicembre 1998, due serie di fattori hanno svolto un ruolo determinante per l’evoluzione della PESD: i primi sono esterni alla costruzione europea e riguardano gli eventi (un certo stato di rischio e di
minaccia) e gli sviluppi della politica americana; i secondi sono
direttamente connessi alla dinamica europea. Nel 1999, le crisi balcaniche e l’evoluzione degli Stati Uniti nei confronti della sicurezza
europea costituiscono un fattore esterno d’integrazione potente,
mentre il passaggio all’euro e la necessità di dare credibilità alla
PESC rappresentano la sfida maggiore per i 15. A Saint-Malo, francesi e britannici convengono che l’Unione deve costruire l’elemento militare di cui si era sentita tanto la mancanza al momento
del crollo dell’ex Jugoslavia, per completare la sua gamma di mezzi
d’azione e consolidare un impegno americano ormai incerto nella
gestione delle crisi europee. La PESD nascente è quindi interamente incentrata sulla stabilizzazione delle crisi esterne (i famosi
compiti di Petersberg); il modello dominante è quello della forza di
implementazione (IFOR) schierata dalla NATO in Bosnia dal 1995
(un corpo europeo di 60 000 uomini); l’obiettivo è colmare il vuoto
militare europeo, dare alla politica estera dell’Unione un minimo
di credibilità militare e rafforzare l’Europa per potenziare l’Alleanza atlantica.
Cinque anni dopo, nel 2004, i fattori esterni determinanti sono
rappresentati dalla concomitanza di attentati terroristici, nuovi
orientamenti strategici americani e situazione creata dalla guerra
in Iraq mentre, sul piano interno, al primo posto nell’agenda dei
25 figurano il successo dell’allargamento e la negoziazione di un
nuovo trattato costituzionale. Alle missioni di proiezione della
forza nelle crisi esterne la PESD aggiunge quindi una riflessione
sulla protezione dei cittadini europei (clausola di solidarietà reciproca), cerca un’articolazione con le altre strategie di lotta contro
il terrorismo e contro la proliferazione delle armi di distruzione di
massa (WMD): la relazione con la nuova agenda strategica ameri-
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cana si colloca al centro della politica estera dell’Unione, mentre le
discussioni sul Ministro degli affari esteri, la leadership e la flessibilità in materia di difesa dominano la scena istituzionale interna.
Gli eventi, l’America, l’ambizione europea, sono queste le tre
cause della politica in materia di sicurezza e di difesa dell’Unione.
Se gli eventi si impongono a tutti - che si tratti di crolli di Stati, di
rischi di genocidio o dell’irruzione del terrorismo internazionale
dal 2001 - gli altri due fattori, le relazioni euroamericane e l’integrazione europea, sono variabili in evoluzione costante. Sulla base
della loro eredità storica, dei loro obiettivi europei, del loro atteggiamento nei confronti della NATO e degli Stati Uniti, gli Stati
membri metteranno l’accento sull’una o l’altra di queste motivazioni. Così, mentre i britannici privilegiano l’obiettivo dell’efficacia militare degli europei nella gestione delle crisi e della complementarità con l’Alleanza atlantica, i francesi danno grande risalto
alla credibilità dell’Europa politica e al consolidamento della
potenza globale dell’Unione. I primi insistono sul rafforzamento
delle capacità, i secondi sulla creazione di istituzioni politiche e
militari propriamente europee. Ma queste differenze di accento o
di priorità, fra due paesi che hanno incarnato per decenni i due
estremi delle posizioni europee in materia di PESD, non sono mai
state abbastanza forti da rimettere in discussione il loro interesse
oggettivo al rafforzamento delle competenze militari dell’Unione
stessa. I progressi realizzati in cinque anni in materia di difesa
comune riguardano precisamente la differenza e la complementarità di queste due impostazioni. Saint-Malo appare quale atto fondatore, in quanto sancisce il quadro dell’Unione europea come
contesto più pertinente per la realizzazione simultanea di tre
obiettivi difficilmente conciliabili in altra sede: efficacia militare,
solidarietà transatlantica e crescita della potenza politica dell’Europa.
Le tendenze principali
Sulla base di questo compromesso fondatore, la politica europea in
materia di difesa ha pertanto conosciuto dal 1999 al 2004 un’ascesa
considerevole. Tuttavia, dato che il mondo del 2004 è molto diverso
da quello del 1999, la PESD condotta attualmente a 25 è anch’essa
molto diversa da quella creata cinque anni fa. In sintesi, si possono
delineare otto grandi sviluppi:
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Introduzione
Q dalla teoria alla pratica: il 2003, data delle prime operazioni militari condotte dall’Unione europea, ha segnato una svolta significativa. Non solo sono state rispettate le scadenze (la PESD era stata
dichiarata operativa a Laeken nel 2002), ma si sono anche registrati
successi. Nei Balcani e in Africa, gli europei hanno dimostrato, in
operazioni certamente modeste ma nonostante tutto necessarie,
che la PESD aveva un reale valore aggiunto in materia di stabilizzazione delle crisi o di prevenzione di catastrofi umanitarie.
Q dai Balcani all’Africa: al pari dell’estensione funzionale delle missioni, la PESD ha conosciuto una rapida estensione dell’area geografica in cui opera. Nel giugno 2003 si è svolta in Africa la prima
operazione autonoma dell’Unione, su mandato delle Nazioni
Unite (operazione Artemis nella RDC). Contemporaneamente,
l’UE era ancora notevolmente impegnata nei Balcani, in particolare in Bosnia (operazione di polizia), nella ex Repubblica jugoslava di Macedonia (FYROM) (operazioni Concordia, e in seguito
Proxima), pur preparando la successione all’operazione SFOR in
Bosnia nel secondo semestre del 2004. Questa coincidenza dei due
teatri di operazioni esterne, uno in Europa, l’altro fuori d’Europa,
ha molte implicazioni in termini di capacità militari necessarie
(primato della flessibilità), di organizzazione operativa (nazione
quadro, mezzi della NATO, autonomia) e, in termini politici generali, sulla condivisione dei compiti fra l’Unione e la NATO.
Q dalla proiezione alla protezione: l’estensione delle missioni affidate
all’Unione europea in materia di sicurezza e di difesa è molto significativa. Nel 1999, la difesa europea si fermava là dove iniziava la
difesa dell’integrità territoriale degli Stati membri: la quale restava
di competenza nazionale, o sotto la responsabilità principale della
NATO. Dall’irruzione del terrorismo internazionale, il confine fra
proiezione esterna e protezione esterna è caduto: il Consiglio
europeo di Siviglia, nel 2002, ha sancito un certo ruolo della difesa
europea in materia di lotta al terrorismo. Il progetto di trattato
costituzionale include, dal canto suo, una clausola di reciproca
assistenza che, pur rispettando il primato della NATO e le culture
nazionali dei paesi neutrali, apre la porta a una effettiva solidarietà
fra i 25: gli attentati di Madrid del marzo 2004, d’altronde, hanno
condotto il Consiglio europeo ad adottare una clausola di solidarietà in caso di attacco terroristico contro uno degli Stati membri,
indipendentemente dalla conclusione ufficiale dei negoziati.
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Q dalle capacità militari alle capacità industriali: i Consigli europei di
Helsinki e di Feira avevano permesso di fissare obiettivi di capacità, sia militari che di polizia, per l’attuazione della PESD. La
gestione delle crisi, segnatamente nei Balcani, rappresentava l’urgenza strategica dell’epoca e le carenze dell’Unione al riguardo
erano enormi. Malgrado dichiarazioni ricorrenti sulla necessità di
un mercato europeo degli armamenti, la riorganizzazione delle
capacità militari esistenti, e non la ristrutturazione della base
industriale della difesa, restava la priorità dell’Unione. Solo assai
di recente è stata avviata una seconda tappa, con la creazione di
un’agenzia degli armamenti operativa dal 2004. Questa decisione,
che slega la PESD dalla pressione dell’urgenza e dalla congiuntura
delle crisi per porla dinanzi agli aspetti strutturali, tecnologici,
industriali ed economici della difesa, rappresenta una svolta: per
l’eventuale armonizzazione delle esigenze militari dei 25, il finanziamento dei progetti di ricerca, la riorganizzazione del mercato
europeo della difesa, il mantenimento della competitività e dell’eccellenza europea in settori chiave, le regole del gioco saranno
indubbiamente differenti da quelle stabilite per la gestione politica e militare delle crisi.
Q dall’unanimità alla flessibilità: da 15 a 25, la sfida per l’Unione non
è tanto il numero quanto la diversità degli Stati membri, sia in relazione alle capacità militari che alla tradizione strategica o alle priorità in materia di difesa. Certamente, nessuno in questa fase pensa
di uscire dal quadro intergovernativo in cui si colloca la PESD
dalla sua fondazione: tutte le decisioni - che si tratti di intervento,
istituzioni o capacità collettive - sono prese dai 25 all’unanimità.
Tuttavia, l’aumento degli attori europei e la diversificazione delle
sfide esterne producono un effetto cumulativo e rendono indispensabile l’introduzione di un certo grado di flessibilità nel funzionamento della PESD. I dibattiti del 2003 sullo ‘zoccolo duro’, le
cooperazioni rafforzate o strutturate, le avanguardie e altre invenzioni linguistiche sono soltanto espressione di questa importante
sfida ormai sul tavolo europeo: conciliare diversità e parità degli
Stati, consenso generale e iniziative di alcuni, coesione interna ed
efficacia esterna dell’Unione.
Q dalla coerenza tecnica alla coerenza globale: alle origini della PESD,
la questione jugoslava aveva rivelato agli europei l’urgenza e la
necessità di articolare in modo più efficace gli aspetti civili e mili-
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Introduzione
tari della loro politica di gestione delle crisi: i mezzi di polizia si
dimostravano altrettanto necessari degli spiegamenti militari, e la
ricostruzione implicava anche la capacità dell’Unione di formare,
istruire, ricostruire gli apparati giudiziari o di polizia locali. Il
Consiglio europeo di Feira doveva quindi rafforzare gli strumenti
non militari della gestione europea delle crisi. Cinque anni dopo,
la questione essenziale non è più la coerenza nella gestione di una
crisi, bensì la coerenza globale dei mezzi di azione dell’Unione: fra
sicurezza interna ed esterna, fra gestione delle crisi e smantellamento delle reti terroristiche; fra le politiche di aiuto allo sviluppo
e l’obiettivo di sicurezza, fra gli obiettivi e i mezzi della Commissione e quelli del Consiglio. Questa complessità crescente della
politica di sicurezza dell’Unione è indubbiamente uno dei tratti
salienti dei primi cinque anni di PESD.
Q dalla NATO all’America: nella definizione dei progressi e delle
lentezze della PESD dalla sua fondazione, il fattore Stati Uniti è
senza dubbio il più determinante. Tuttavia, come si vedrà più
avanti, questo fattore è anch’esso in piena evoluzione. Nel 1999,
per gli europei, la questione americana si identificava completamente con la questione del ruolo svolto dalla NATO nella gestione
delle crisi europee, in particolare nei Balcani. La priorità era definire, fra l’Unione e la NATO, una relazione di complementarità,
trasparenza e sinergia che potesse rafforzare il coinvolgimento e
l’interesse degli americani per la sicurezza europea. Nel 2004, la
questione si è sdoppiata: dopo l’11 settembre e l’Iraq, la strategia
americana e la difesa degli interessi nazionali degli Stati Uniti non
passano più necessariamente o, in via prioritaria, tramite la
NATO. Questa autonomia crescente fra la politica americana e la
politica dell’Alleanza non è certamente la cosa più facile da
ammettere per la maggioranza degli europei. Tuttavia è uno dei
principali effetti dell’11 settembre e dell’Iraq che, ormai, costringe
l’Unione a distinguere la relazione con la NATO dalla relazione
con gli Stati Uniti d’America.
Q dalla difesa alla politica: nel 1999, la PESD è stata creata e attuata,
non come politica separata in un quarto pilastro, ma come uno
degli strumenti indispensabili per l’efficacia dell’azione diplomatica dell’Unione. Doveva quindi rappresentare solo uno degli
aspetti della politica di sicurezza comune. Tuttavia, questo principio fondatore non ha impedito il verificarsi di una certa differenziazione nei fatti: i progressi realizzati in materia di difesa
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sono stati molto più rapidi e visibili dei progressi conseguiti nella
politica estera e di sicurezza. Il fascicolo difesa ha anche acquisito
una sorta di autonomia all’interno delle politiche comuni dell’Unione, in particolare nei confronti della politica estera. Solo nel
2003, per scongiurare una crisi politica di vaste proporzioni nata
dalle divergenze euroamericane sull’Iraq, l’Unione antepone l’aspetto politico a quello militare e definisce per la prima volta,
sotto l’impulso personale di Javier Solana, una strategia europea
in materia di sicurezza: partendo da un’analisi comune dello
stato dei rischi e delle minacce, il testo stabilisce gli obiettivi strategici dell’Unione nel mondo, i principi fondatori della sua
azione internazionale e gli strumenti necessari per l’attuazione.
Tornando in qualche modo al punto di partenza, la PESD ridiventa in quest’ottica uno degli strumenti a disposizione di una
politica di sicurezza globale e la condizione preliminare di ogni
azione esterna dell’Unione.
Occorre sottolineare un’ultima evoluzione, indipendente dall’Unione e dalle sue politiche, ma determinante per l’avvenire sia
della difesa sia dell’intera costruzione europea: quella del contesto
internazionale. Fra il mondo del 1999 e quello del 2004, la prima
differenza riguarda l’importanza crescente assunta dalle questioni di sicurezza nelle preoccupazioni interne e internazionali di
tutti i governi, in quanto priorità anche per le opinioni pubbliche
europee. Il terrorismo lo impone. Ciò che all’inizio poteva essere
considerato una questione tecnica, e cioè la forma e i limiti di una
politica europea in materia di sicurezza e di difesa, diventa oramai
una delle sfide politiche principali. La seconda differenza riguarda
la progressiva sensibilizzazione alla portata e agli effetti di ritorno
della globalizzazione. Corollario della globalizzazione economica, la globalizzazione della sicurezza rappresenta infatti una
svolta cruciale nello scenario internazionale dell’Unione in questo
inizio secolo: l’irruzione del terrorismo internazionale è, al
riguardo, solo il sintomo più visibile di un’interazione sempre più
complessa fra le componenti economiche, demografiche e politiche del sistema internazionale. Che lo si voglia o meno, nessuno
Stato membro può ormai sottrarsi a questo doppio vincolo (economico e politico) della mondializzazione, di cui il mito di un’Unione sempre più prospera, in un mondo sempre più pacificato e
civilizzato dopo la caduta dei totalitarismi comunisti, è indubbiamente la prima vittima.
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Vincoli strutturali
Questi differenti sviluppi contribuiscono a fare della difesa europea uno dei successi dell’Unione. Certamente, in rapporto alle
poste in gioco e all’impatto dell’euro e dell’allargamento in termini
di solidarietà economica e di integrazione paneuropea, la politica
di difesa resta di portata limitata. Ciononostante, genera una reale
dinamica politica fra gli Stati membri, così come ha profondamente modificato l’immagine, il funzionamento, gli orientamenti,
in breve: la carta d’identità della costruzione europea nel suo complesso. Tuttavia, questa irruzione dell’Unione nella sfera della
responsabilità militare non è libera da vincoli. Malgrado gli acquis
innegabili realizzati in cinque anni nel settore della difesa, la
potenza politica crescente dell’Unione rimane doppiamente conflittuale. A ogni tappa decisiva, a ogni svolta possibile in materia di
integrazione politica, gli Stati membri sono confrontati sistematicamente agli stessi due dilemmi: come conciliare il mantenimento
di un’Alleanza atlantica retta dagli Stati Uniti e l’imporsi di un’Europa strategica e politica? Come coniugare il rispetto delle sovranità nazionali e l’edificazione di una potenza politica condivisa?
L’America o l’Europa, la nazione o l’integrazione, queste sono in
pratica le questioni fondamentali, e mai risolte, che oppongono i
differenti partner dell’Unione.
Ogni altro ostacolo, ogni altro vincolo risulta secondario
rispetto a questi due dilemmi strutturali: il numero degli Stati
membri, la differenza fra ‘grandi’ e ‘piccoli’, la carenza di capacità
militari, l’insufficienza dei finanziamenti in materia di ricerca o di
materiali comportano certamente rallentamenti nello sviluppo
della PESD e limiti reali. Queste difficoltà sono però insormontabili solo quando interferiscono con gli altri due vincoli principali
rappresentati dalle sovranità nazionali e dall’Alleanza atlantica.
Questi vincoli, d’altronde, sono tutt’altro che nuovi: scandiscono
tutte le metamorfosi della difesa europea sin dalla creazione della
NATO e del mercato comune a sei. Perdurano da allora, in forme e
combinazioni diverse, e possono spiegare tutte le ambiguità dei
successivi trattati di Maastricht, Amsterdam e Nizza nel settore
della politica estera e di sicurezza. Da qui nascono l’impressione di
ripetizione laboriosa degli stessi dibattiti e degli stessi vincoli, e la
strana mescolanza di stasi e di progresso, di avanzamenti e di stagnazione che caratterizza questo settore dell’Unione.
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Il vincolo delle sovranità
Uno dei maggiori ostacoli all’esistenza strategica dell’Unione si
trova all’interno dell’Europa stessa, nelle vecchie nazioni europee
che, storicamente, hanno inventato e poi eretto la sovranità nazionale a principio fondatore dell’ordine politico, e dal quale esitano a
(o si rifiutano di) uscire. Dalle origini della costruzione europea,
l’obiettivo di una integrazione politica dell’Europa non ha smesso
di scontrarsi di fatto con la legittimità e le prerogative esclusive
degli Stati-nazione coinvolti in questa avventura. Mentre gli Stati
membri hanno progressivamente delegato alla Comunità, e poi
all’Unione, sfere sempre più ampie delle loro competenze economiche, commerciali, monetarie, la loro reticenza a condividere in
misura equivalente la loro sovranità politica, diplomatica e militare resta (a parte alcuni dettagli) formidabile. L’Europa politica,
ma ancor più l’Europa militare, è ancora una somma di nazioni
sovrane e desiderose di rimanere tali.
Tre esempi sono, al riguardo, rivelatori. Innanzitutto, il tabù
persistente sul concetto stesso di esercito europeo, e il coro tradizionale di dinieghi ogni volta che questa idea torna a galla in occasione di questo o quel dibattito pubblico. Per motivi molto differenti (preferenze per un’integrazione nell’ambito della NATO,
status di neutralità o di non appartenenza ad alleanze militari,
ossessione della sovranità nazionale in materia diplomatica e militare), tutti i paesi membri si accordano per respingere l’obiettivo di
un ‘esercito comune’ nella sfera dell’irrealismo politico, mentre i
sondaggi di opinione mostrano il contrario: le popolazioni europee appaiono ben lungi dal trovare l’idea assurda, pericolosa e
inaccettabile. Il secondo sintomo riguarda il modo di prendere le
decisioni sui fascicoli inerenti alla PESC e alla difesa, disciplinato
da una regola quasi universale dell’unanimità a 15 (ormai a 25)
Stati membri e quindi la possibilità per ciascuno Stato di utilizzare il proprio diritto di veto su ogni decisione in materia. Infine,
anche l’apparato istituzionale che regola l’implementazione della
PESD testimonia il peso dei vincoli nazionali sull’elaborazione
della difesa europea. La maggiore ossessione di quasi tutti gli Stati
membri è infatti escluderne ogni riferimento, ogni prestito, ogni
concessione al metodo comunitario, in altri termini mantenere la
PESD e la PESC nel loro complesso al di fuori della sfera di competenze della Commissione e del Parlamento europeo.
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Non mancano certo gli argomenti per giustificare il controllo
delle sovranità nazionali su questi fascicoli: le politiche di difesa
possono, in linea di principio, riguardare la vita e la morte di cittadini europei; gli interessi nazionali degli Stati membri non spariscono del tutto nella somma degli interessi collettivi dell’Unione;
e la legittimità democratica resta basata sul quadro politico delle
nazioni. Il trasferimento delle sovranità militari a un’entità europea sovranazionale non è cosi’ facilmente accettabile: nessuno
Stato al mondo accetterebbe che suoi cittadini rischino la vita
dopo una votazione in cui lo stesso si sia trovato in minoranza. Ma
quello che è normale e legittimo per le decisioni di intervento militare lo è, con altrettanta credibilità, per tutti gli altri settori della
politica in materia di sicurezza e di difesa? Sono indispensabili 25
diritti di veto per attuare una politica comune in materia di armamenti e per organizzare un mercato europeo più competitivo? Per
definire una posizione europea sullo status definitivo del Kosovo?
Per trattare la proliferazione delle armi di distruzione di massa? In
realtà, l’insieme dei dibattiti ormai in corso sulla flessibilità in
materia di sicurezza e di difesa, sulla creazione di cooperazioni
strutturate fra alcuni degli Stati membri, compresi il ruolo e il
potere d’iniziativa del futuro Ministro degli affari esteri dell’Unione, testimoniano tutti lo stesso malessere nei confronti dell’unanimità come principio fondatore: il rispetto delle sovranità
nazionali e l’efficacia collettiva dell’Unione sono infatti due obiettivi che non vanno necessariamente di pari passo. Flessibilità, ‘zoccolo duro’, astensione costruttiva, leadership, cooperazione rafforzata, Ministro, sono altrettanti modi con cui gli Stati cercano di
tergiversare, aggirare, adattare il dogma del veto, pur rifiutando in
maniera categorica di compiere il gran passo verso l’integrazione
delle sovranità che rappresenterebbe, in particolare, l’introduzione della votazione a maggioranza nella politica estera dell’Unione.
Questa tensione costante fra il primato delle sovranità nazionali e la crescente necessità di integrazione europea è senza alcun
dubbio il tratto distintivo della politica dell’Unione in materia di
sicurezza. Certamente, per quanto riguarda la difesa, in cinque
anni gli Stati membri hanno compiuto - sotto la guida di Javier
Solana - un lavoro colossale. Nel 1999, nessuno avrebbe ragionevolmente scommesso che l’Unione avrebbe avuto, nel 2005, un
Ministro degli affari esteri, una clausola di solidarietà reciproca, e
una strategia comune in materia di sicurezza. Eppure, in cinque
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anni di elaborazione e attuazione della politica di difesa europea,
il peso e il controllo delle sovranità nazionali su questa politica
‘comune’ dell’Unione sono rimasti pressoché intatti: nessuno dei
fascicoli introdotti uno dopo l’altro nel settore della PESD - obiettivi di capacità, operazioni concrete, strutture militari di pianificazione o di controllo delle operazioni, armamenti - ha dato luogo
a una qualsivoglia integrazione delle sovranità. Né in materia di
difesa, né nei confronti della politica estera: le divisioni profonde
sulla crisi irachena lo testimoniano ampiamente. Dato che ciascuno resta sovrano, l’insieme del processo è dunque ancora reversibile.
Questo è il grande paradosso della difesa europea: dall’origine
della costruzione europea, una certa idea dell’Europa, piuttosto di
matrice francese, ha fatto della politica di difesa la condizione
necessaria e indispensabile per la comparsa di un’Europa politica
e di un ruolo internazionale dell’Unione. Questa visione del ruolo
trainante svolto dalla potenza militare nell’esistenza politica dell’Europa è d’altronde alla base di tutti i dibattiti transatlantici,
delle divergenze franco-britanniche come della diffidenza americana nei confronti della politica di difesa dell’Unione. Assai di
recente, nel marzo 2003, la piccola crisi scaturita dall’idea di uno
Stato maggiore europeo indipendente - proposto allora da Francia, Germania, Belgio e Lussemburgo in piena crisi transatlantica
sull’Iraq (caso Tervuren) - è dipesa da questo postulato di base,
secondo cui la difesa condurrebbe automaticamente a un’Europa
politica. Da un altro punto di vista, tuttavia, più gli Stati europei
introducono una dimensione militare sulle competenze legittime
dell’Unione, più rafforzano il ruolo delle sovranità nazionali nella
costruzione europea; più militarizzano l’Unione, più consolidano
il funzionamento intergovernativo; più forte rendono la difesa,
più sacralizzano il veto. Inoltre, l’entusiasmo di taluni Stati membri nei confronti della PESD dipende a volte da questa garanzia
anticomunitaria che deriverebbe dalla maggiore potenza militare
dell’Unione. Da cinque anni, la lotta di influenza fra Commissione e Consiglio e l’importanza crescente del Consiglio nei confronti della Commissione è solo l’inevitabile risultato istituzionale dell’importanza crescente della difesa e della sicurezza nelle
competenze europee. Le recenti divisioni sull’Iraq, proprio mentre
i progressi in materia di PESD sono più che mai sostanziali, riflette
solo un fatto evidente: la cooperazione militare europea non conduce, di per sè, all’integrazione politica in seno all’Unione.
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Il peso delle sovranità nazionali è davvero un vincolo insormontabile? Non necessariamente. A questa constatazione vanno
infatti apportati due potenti correttivi: il primo deriva dalle
minacce, il secondo dall’evoluzione della nozione stessa di integrazione. Il terrorismo internazionale, scompaginando le carte
tradizionali della prevedibilità e della negoziazione diplomatica,
sta sconvolgendo l’equilibrio tradizionale fra sovranità nazionale
e sovranità condivisa. Da un lato, è innegabile che il nuovo contesto di sicurezza internazionale ridoni agli Stati-nazione una legittimità e un’autonomia maggiori. Dato che la frontiera tra sicurezza interna ed esterna è sempre più indistinta e che ne può
andare della vita o della morte dei cittadini europei, si impone il
rafforzamento dei servizi e degli apparati di sicurezza e controllo
statali. In modo più o meno esplicito, la minaccia terroristica rafforza in effetti il sentimento di appartenenza territoriale delle
popolazioni, così come la protezione dei cittadini mette nuovamente l’interesse nazionale al primo posto fra le priorità dei
governi eletti. La volontà di controllo statale si rivela quindi proporzionale al livello crescente di insicurezza internazionale: tutta
la politica americana, dagli attentati dell’11 settembre, lo dimostra in maniera inequivocabile. Peraltro la globalizzazione della
sicurezza continua tuttora a porre in risalto i limiti inerenti ai soli
quadri nazionali: così come la gestione dell’Iraq non dipende più
dalla sola potenza sovrana dell’America, la lotta al terrorismo non
può essere concepita o vinta su scala puramente nazionale. Quello
che l’ONU e il multilateralismo guadagnano in legittimità internazionale di fronte alla complessità strutturale delle crisi, l’Unione e una certa forma di integrazione lo guadagnano altresì di
fronte alla questione del terrorismo. Che lo vogliano o meno, gli
Stati europei sono pertanto costretti a superare la fase di un’integrazione europea minima, muovendo in particolare verso la condivisione delle informazioni, il controllo dei flussi finanziari attribuiti al terrorismo o alla grande criminalità, l’armonizzazione
dello spazio europeo sotto il profilo giudiziario. Oggi, la minaccia
terroristica introduce pertanto tra il controllo nazionale e l’integrazione europea una dinamica nuova, una specie di astuzia dell’integrazione contro cui le reticenze degli Stati in materia di
sovranità incontreranno sempre maggiori difficoltà ad imporsi.
Il secondo correttivo è insito nell’evoluzione stessa del concetto di integrazione. Se la costruzione di una potenza politica
europea deve scegliere fra questi due estremi - il modello comuni24
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tario o il modello intergovernativo - l’impasse è evidente e lo status
quo giocherà a favore delle nazioni: nelle circostanze attuali, con le
istituzioni europee e i sistemi parlamentari dei 25, è in effetti difficile immaginare che gli Stati decidano di trasferire la loro sovranità militare e democratica a un organo europeo unico. Se, al contrario, si esce dal dilemma fra modello comunitario e
cooperazione fra le nazioni, la costruzione politica europea si inserisce in un’altra dinamica aprendo nuove prospettive. Questi cinque anni di difesa europea indicano infatti la possibilità di una
terza via dell’integrazione, né totalmente comunitaria né rigidamente intergovernativa, la cui concretizzazione più originale è la
funzione di Alto Rappresentante, e presto di Ministro. La strategia
europea in materia di sicurezza, proposta da Javier Solana e accettata da tutti i Capi di Stato nel dicembre 2003, aveva già messo in
atto la capacità dell’Alto Rappresentante di creare consenso, senza
passare attraverso lo schema formale della negoziazione intergovernativa o, al contrario, di un’ipotetica votazione a maggioranza
qualificata. Domani, la funzione di Ministro degli affari esteri dell’Unione, la creazione di un servizio diplomatico dell’Unione
europea, l’istituzione, sotto la guida di Javier Solana, di un’agenzia
per gli armamenti che coinvolga gli Stati e, inevitabilmente, la
Commissione saranno altrettanti strumenti nuovi, capaci di
modificare notevolmente l’equilibrio tradizionale fra sovranità
nazionali e affermazione di un interesse generale europeo in materia di sicurezza.
L’Alleanza atlantica e il ruolo degli Stati Uniti
Accanto alle nazioni, il rapporto con l’Alleanza atlantica rappresenta l’altro grande limite strutturale della PESD. Poiché la NATO
si identifica, nella storia e nella percezione europea, con la protezione americana dell’Europa, gli Stati Uniti svolgono, dall’origine
della PESD, un ruolo del tutto determinante nell’evoluzione e nel
funzionamento di questa politica. Sin dall’inizio, tale ruolo è stato
ambivalente: promotori della PESD quando si tratta di modernizzare le capacità militari europee, i responsabili americani ne hanno
anche molto chiaramente enunciato i limiti, e perfino i pericoli,
quando si tratta di costruire un’identità politica europea. Sì alla
creazione di forze europee efficienti e disponibili, no all’imporsi di
un’Europa strategica autonoma rispetto alla NATO: questo è schematicamente, e prescindendo dalle differenti amministrazioni
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al potere a Washington - il quadro generale in cui si inserisce l’atteggiamento degli Stati Uniti nei confronti della PESD.
Prima di Saint-Malo, le discussioni allora in corso sulla creazione di un’identità europea in seno alla NATO (IESD) tracciavano una chiara linea di demarcazione fra la riorganizzazione
delle capacità militari europee all’interno della NATO (auspicabile) e un’eventuale traduzione politica di tali sviluppi militari
(inaccettabile): da qui il rifiuto costante degli Stati Uniti di prevedere ogni ‘caucus europeo’ in seno alla NATO, o la formulazione
del concetto di ‘forze separabili ma non separate’ per regolamentare le eventuali evoluzioni delle capacità europee. Dopo la creazione della PESD al Consiglio europeo di Colonia, la formula delle
‘tre D’ diventerà la dottrina ufficiale dell’amministrazione americana sul primato della NATO rispetto alla PESD: nessun disgiunzione strategica (decoupling) fra gli Stati Uniti e l’Europa, nessuna
duplicazione fra i mezzi della NATO e quelli dell’Unione, nessuna
discriminazione nei confronti degli alleati europei della NATO
non appartenenti all’Unione, il tutto accompagnato da una rivendicazione, pure costante a Washington, di un diritto di ‘primo
rifiuto’ riservato all’Alleanza atlantica. Sul piano militare, come
sul piano politico, gli Stati Uniti hanno quindi condizionato la
loro accettazione della PESD al non superamento, da parte degli
europei, di una linea rossa molto netta: il rifiuto di tutto ciò che
potrebbe alimentare l’autonomia e, a maggior ragione, l’indipendenza strategica dell’Unione. Più di recente, al culmine della divisione complessiva riguardo alla crisi irachena, il caso Tervuren - in
altri termini, l’idea di uno Stato maggiore propriamente europeo
per la pianificazione e la condotta delle operazioni militari dell’Unione - ha ricordato agli europei che questa linea rossa restava
invalicabile, indipendentemente dalla volontà di emancipazione
degli stessi americani dall’Alleanza.
In modo più o meno convinto, a seconda dei paesi e delle circostanze, gli europei hanno cercato di mantenere lo sviluppo della
PESD all’interno di questi limiti. Così la PESD esclude, sin dall’inizio, ogni missione ai sensi dell’articolo 5, ossia la difesa territoriale dei paesi membri, nella misura in cui questa resta la funzione
primaria della NATO a norma del trattato di Washington. I compiti di Petersberg sono stati quindi definiti in modo tale che, relativamente all’aspetto cruciale della protezione degli europei da
minacce di aggressione esterna, la responsabilità principale della
NATO sia scevra da ambiguità. Analogamente, gli europei hanno
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concluso con la NATO, spesso al prezzo di intensi e difficili negoziati, gli accordi ‘Berlin plus’ che disciplinano le relazioni fra la
NATO e l’Unione per la gestione delle crisi: il subentro dell’Unione
europea all’operazione SFOR della NATO in Bosnia, a decorrere
dal dicembre 2004, avverrà quindi secondo i termini convenuti in
quegli accordi. Gli sviluppi prodotti dall’irruzione del terrorismo
internazionale hanno rappresentato altrettante occasioni per
ricordare la sinergia e complementarità necessarie fra la NATO e
l’UE. In nessun momento quindi, gli europei hanno tentato di
creare un esercito europeo integrato separato dagli Stati Uniti:
l’attaccamento alle sovranità nazionali e l’attaccamento all’Alleanza atlantica si sono rafforzate vicendevolmente, escludendo
qualsiasi idea di integrazione militare propriamente europea.
Le motivazioni addotte a favore della migliore armonia possibile fra la NATO e la difesa europea sono, in effetti, numerose: il
ruolo vitale svolto dalla protezione americana in Europa dal 1949,
il radicamento e la cultura atlantici della maggior parte delle forze
armate dei paesi membri, le competenze militari e il valore
aggiunto acquisiti dalla NATO in oltre cinquant’anni, la comunità di valori fra le democrazie americana ed europea sono altrettanti vantaggi che tutti i partner europei, siano essi formalmente
membri della NATO o meno, desiderano preservare. Proprio per
consolidare l’acquis di un investimento continuo degli Stati Uniti
nella difesa dell’Europa, Francia e Gran Bretagna hanno proposto
la PESD dopo le prime crisi balcaniche degli anni ‘90 a Saint-Malo:
poiché l’impegno americano nelle crisi non vitali per l’America
non era più inevitabilmente garantito, e la NATO non funzionava
più come un contratto di assistenza automatica degli Stati Uniti
nei confronti dell’Europa, gli europei dovevano ormai organizzarsi per assumersi la propria parte di responsabilità nella
gestione delle crisi e mantenere così, se non rafforzare, l’interesse
degli Stati Uniti in seno all’Alleanza. Più Europa avrebbe rafforzato l’Alleanza, così come più Alleanza presupponeva ormai un
consolidamento dell’Europa.
In quale misura questo contratto di base, che ha disciplinato le
relazioni fra l’Alleanza e l’Unione da Saint-Malo, è ancora adatto
alla nuova situazione strategica creata dal terrorismo l’11 settembre 2001 e dall’intervento in Iraq nel marzo 2003? La questione è
aperta. Da parte americana, tre evoluzioni sono sin d’ora percepibili: sul piano geografico, il terrorismo, l’Afghanistan, l’Iraq
hanno spostato la priorità strategica americana verso il sud, mar27
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ginalizzando l’Europa a vantaggio del ‘Grande’ Medio Oriente.
Sul piano politico, la scelta dell’unilateralismo e della massima
libertà di azione per l’America non si conciliano con regole di collettività e di negoziazione permanente che disciplinano al contrario il funzionamento dell’Alleanza; infine, sul piano militare, lo
scarto crescente tra le forze americane ed europee rafforza le
opzioni unilaterali e induce gli Stati Uniti a preferire la condotta di
coalizioni ad hoc piuttosto che di alleanze vere e proprie.
Ciò equivale a dire che la NATO diventa inutile o marginale
nella strategia americana? Certamente no. Ma è chiaro che la
nuova situazione strategica modifica sensibilmente il rapporto
degli Stati Uniti con l’organizzazione atlantica. Si pone infatti la
questione della sua utilità per la sicurezza americana, una volta
inconcepibile: se la difesa dell’America si gioca al sud, su scenari di
intervento/coercizione molto diversi dalle minacce di aggressione
tradizionali, qual è il valore aggiunto della NATO? Se il contratto
atlantico presuppone che gli Stati Uniti garantiscano la sicurezza
dell’Europa, come mantenere la reciprocità di un’utilità dell’Europa per la difesa dell’America? Pur prescindendo dalle diverse
opinioni sugli orientamenti dell’amministrazione repubblicana
in materia militare, queste domande sono legittime. Di qui le trasformazioni, a volte contraddittorie, che gli Stati Uniti sperimentano nell’organizzazione atlantica. Da un lato, cercano la massima
flessibilità nei confronti delle regole collettive della NATO: in
numerosi teatri, Bosnia, Afghanistan, ed evidentemente Iraq, le
forze americane sono così sempre più separate e autonome
rispetto alle forze della NATO. Dall’altro, tentano di utilizzare la
NATO come quadro di una modernizzazione accelerata delle
forze europee sul modello dell’esercito americano: al riguardo è
esemplare il progetto di forza di reazione rapida. Infine, si aspettano dall’Alleanza un ruolo di sostegno politico, di legittimazione
della strategia americana e di appoggio militare per le fasi postbelliche, segnatamente in Afghanistan e, forse, anche in Iraq.
Seguendo ad alta velocità il ritmo degli eventi e dei rischi internazionali, gli sviluppi americani distorcono la percezione tradizionale che gli europei hanno della NATO. Come modernizzare le
capacità europee sul modello delle forze di spedizione americane e
impegnare simultaneamente grossi contingenti di mantenimento
della pace sempre più necessari nelle fasi successive dei conflitti?
Come rendere la NATO idonea ai teatri del sud e preservare il suo
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valore di patto di difesa per l’Europa? Che cosa ne sarà della NATO
se la politica di difesa americana diventerà sempre più autonoma
nei confronti dell’organizzazione? Tanto più che la definizione
stessa di minaccia, che prima vedeva gli europei e gli americani
totalmente associati, è ormai oggetto di dibattiti, persino di divergenze fra gli alleati, come dimostrato ampiamente dalla questione
irachena.
Da due anni, il quadro rassicurante dell’Alleanza e delle regole
che disciplinano le relazioni fra la NATO e la PESD non smette di
complicarsi. Attualmente, la grande questione per la NATO è la
stabilizzazione dell’Afghanistan, e forse domani dell’Iraq. Il riposizionamento delle forze americane in Europa, persino la loro
riduzione nei Balcani, è all’ordine del giorno. La strategia militare
degli Stati Uniti, guida incontestata della NATO in quest’ultimo
mezzo secolo, non gode più dell’unanimità. Nessuno sa quali
saranno gli effetti a termine di questi sviluppi che per il momento
generano nella maggior parte degli europei uno strano miscuglio
di inquietudine e di conservatorismo, nei confronti degli Stati
Uniti come pure della NATO. Ma la PESD, sviluppatasi intenzionalmente all’ombra rassicurante dell’Alleanza, non potrà sottrarsi
a questi cambiamenti.
In cinque anni, sotto la pressione del contesto internazionale e,
segnatamente, degli effetti di ritorno del terrorismo, i due grandi
limiti esterni della PESD - ossia le sovranità nazionali e il contratto
atlantico - hanno subito profonde trasformazioni. Da costanti
strutturali che modellavano la difesa europea, sono divenute
variabili fluttuanti per definizione. L’esito di questa doppia evoluzione è tutt’altro che certo. Ma è senz’altro evidente che la PESD
dovrà, nei prossimi cinque anni, adattarsi ai cambiamenti in atto
per quanto riguarda sia il concetto di sovranità che il ruolo americano nei confronti dell’Europa.
Le sfide per il futuro
Siamo alla fine di un’epoca: l’Europa dei 15, che ha inventato la
PESD, si trasforma ormai in Europa dei 25, lasciando la porta
ampiamente aperta ad altri candidati, a cominciare dalla Turchia.
Una nuova Costituzione dovrebbe sostituirsi ai trattati di Amsterdam e di Nizza. La gestione delle crisi balcaniche, all’origine della
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Introduzione
PESD, deve ormai coesistere con la lotta al terrorismo. Una strategia europea in materia di sicurezza serve in linea di massima da
guida all’azione esterna dell’Unione, ma la questione dell’Iraq,
unita a tutte le divergenze sorte a seguito dell’intervento e a tutte le
incertezze sull’esito della crisi, rappresenta una sfida di portata
senza precedenti per l’insieme delle democrazie occidentali. In questo contesto estremamente incerto, pertanto, gli europei devono
consolidare il complesso delle istituzioni e dei mezzi che permetteranno all’Unione di assumere responsabilità sempre più inevitabili
in materia di sicurezza internazionale. Sin da ora sono percepibili
varie tensioni, la cui risoluzione condiziona l’avvenire del ruolo
politico dell’Unione.
Fra legittimità collettiva ed efficienza di pochi
A 25, e presto a 30, l’Unione costituisce potenzialmente la maggiore
forza d’azione sullo scenario internazionale, ossia un insieme di
quasi mezzo miliardo di cittadini, che rappresentano più di un
quarto del PIL mondiale e che sono animati dagli stessi valori
democratici. Rispetto agli interventi specifici di qualsiasi Stato
considerato singolarmente, un’azione a nome dell’Unione europea
appare quindi un formidabile moltiplicatore di potenza, o di
influenza: per alcuni, l’etichetta europea rappresenta soprattutto
un guadagno in termini di legittimità democratica; per altri, è la
condizione di accesso ad una certa influenza sulle crisi internazionali; per altri ancora, è una garanzia di partecipazione al controllo
collettivo delle crisi. Per motivi assai diversi, ciascuno ha quindi
interesse a che il quadro UE integri o prenda il posto dei quadri
strettamente nazionali, persino delle coalizioni ad hoc tra alcuni
Stati membri. Questo contesto comune comporta tuttavia una
duplice difficoltà. Come conciliare, da una parte, le volontà minimaliste di alcuni con le volontà più interventiste di altri - in altre
parole, come creare un consenso sulla responsabilità collettiva dell’Unione nella gestione di una crisi? E come conciliare, dall’altra, la
parità di tutti nella formulazione della politica estera dell’Unione
con la differenza di risorse e di capacità per l’attuazione delle decisioni? A 25, e presto a 30, le questioni della leadership e della ripartizione degli oneri (‘burden sharing’) diventeranno inevitabilmente
sfide importanti per l’attuazione della sicurezza e della difesa in
seno all’Unione.
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Fra sicurezza globale e frammentazione delle risorse
Sotto la direzione di Javier Solana, l’UE ha elaborato una visione
strategica comune che tratta la sicurezza come concetto globale,
ben oltre le dimensioni puramente tecniche e militari. La strategia
europea in materia di sicurezza non potrebbe in effetti essere associata a una dottrina d’intervento: nel contesto della globalizzazione, le minacce e le sfide capaci di influenzare la sicurezza dell’Unione derivano da un intreccio complesso di fattori economici,
sociali, politici, ideologici, la cui considerazione comporta l’obbligo di mobilitare simultaneamente l’insieme delle risorse disponibili. Ciò è particolarmente vero per il terrorismo internazionale,
per la lotta contro la proliferazione, come per la gestione dei conflitti politici tradizionali, in Medio Oriente o in Africa. Ora, più
diventa pressante l’esigenza di coerenza, più la frammentazione dei
mezzi e delle politiche dell’UE appare un ostacolo importante: fra
gli Stati membri, la Presidenza, la Commissione, il Consiglio, le
strutture di Bruxelles, i rappresentanti sul campo, i militari, la
gestione dello stesso identico problema è spesso devoluto a una
decina di attori, ognuno con una propria posizione. E l’efficacia
collettiva dell’Unione è messa a repentaglio non tanto dal numero
di attori coinvolti quanto dal loro differenziale di obiettivi, di interessi, di politica. L’Unione necessita quindi non tanto di risorse
supplementari quanto di un principio di autorità unico per definire una politica, fissare obiettivi comuni, assicurarsi che tutti
cooperino per la loro attuazione. Tanto più che fra gli Stati membri, la questione della leadership politica si pone anche, e forse
soprattutto, al cuore dell’Unione stessa.
Fra Sud ed Est
Il principale effetto dell’allargamento è lo spostamento ad est della
frontiera esterna dell’Unione, che rende sempre più importante la
definizione di una Ostpolitik comune, con il suo aspetto geografico
(per quanto riguarda Russia, Bielorussia, Ucraina, Caucaso), ma
anche con il suo aspetto tematico per quanto riguarda gestione
delle frontiere, visti, migrazioni, minoranze e tutti i potenziali focolai di crisi nell’Europa più ampliata (‘wider Europe’). Inoltre, la maggioranza dei nuovi paesi membri considera la Russia una questione
prioritaria per la politica di sicurezza dell’Unione. Contemporaneamente, la nuova agenda strategica sposta da est a sud l’intera
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Introduzione
equazione di sicurezza globale, in particolare il terrorismo, i rischi
di proliferazione nucleare, i maggiori conflitti regionali come l’Iraq
o il conflitto israelo-palestinese, la dipendenza energetica dell’Unione, il divario di sviluppo fra le due sponde del Mediterraneo. La
prossima decisione del Consiglio europeo sulla candidatura della
Turchia, prima della fine del 2004, accentuerà d’altronde questo
dualismo delle preoccupazioni strategiche europee. Come gestire
questa tensione fra la politica di vicinato a est e la gestione delle crisi
a sud? Come definire le priorità politiche e secondo quale calendario? Secondo quali criteri e in funzione di quale visione strategica
comune gestire risorse finanziarie tutt’altro che illimitate? Queste
sfide continueranno a gravare sull’attuazione di una politica estera
comune a 25: anche qui la responsabilità del Ministro degli affari
esteri sarà determinante per garantire un minimo di coerenza strategica in seno all’Unione.
Fra sicurezza interna e sicurezza esterna
La particolarità della lotta al terrorismo è che si gioca su tutti i
fronti: all’interno degli Stati membri per l’individuazione e lo
smantellamento delle reti, la protezione dei cittadini e dei siti sensibili, il soccorso alle eventuali vittime; all’esterno, con un’azione
determinata a favore della risoluzione delle crisi capaci di alimentare frustrazioni e violenze di ogni genere. Fra i classici conflitti
regionali, le attività della grande criminalità organizzata e il terrorismo, forme diverse di intreccio rendono sempre più permeabili e
artificiali le frontiere tradizionali tra le politiche in materia di
difesa e le politiche in materia di sicurezza. Come convincere i cittadini europei che la stabilizzazione delle crisi esterne si ripercuote
necessariamente sulla loro protezione all’interno delle frontiere
dell’Unione? Come garantire il livello di coordinamento necessario
fra le attività delle istituzioni civile e quelle demandate agli organi
militari, fra le prerogative nazionali degli Stati e il grado di azione
necessaria a livello di Unione? Come sviluppare la PESD rafforzando nel contempo i mezzi di una politica di difesa interna (‘homeland defense’) a livello di Unione? Queste sfide sono ormai sul tavolo
di tutti i responsabili europei e finiscono per rafforzare l’urgenza di
una maggiore coerenza delle politiche dell’Unione, di una sinergia
dei mezzi e degli obiettivi, di una catena unificata per la concezione,
la direzione e l’attuazione della politica in materia di sicurezza dell’Unione.
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Fra Alleanza e influenza
Un’Unione forte e coerente è necessaria per la credibilità della
potenza americana così come l’America è indispensabile per l’efficacia della potenza europea: né l’UE né gli Stati Uniti hanno alcun’altra alternativa all’esistenza di un solido partenariato strategico
euroamericano. Ma, nel nuovo contesto internazionale successivo
alla guerra fredda, è più facile enunciare questo principio che non
metterlo in pratica. Se gli Stati Uniti sono una delle componenti
maggiori che determineranno l’avvenire della costruzione europea,
come costruire allora una politica estera europea solidale, ma non
necessariamente simile a quella di Washington? Come influenzare
(se necessario) la politica americana, sapendo che gli Stati Uniti
non considerano più l’Alleanza atlantica il vettore obbligato della
loro relazione con gli alleati europei? In un certo modo, la maggior
parte delle recenti iniziative intraprese dall’Unione sulla scena
internazionale (strategia europea in materia di sicurezza, strategia
di lotta contro la proliferazione, politica nei confronti dell’Iran,
dialogo con il mondo arabo) possono essere lette come un tentativo europeo comune di rispondere alla doppia sfida dell’influenza
e della differenza. In futuro, una delle sfide principali della PESC
sarà l’integrazione dell’America in quanto soggetto nella PESC e la
costruzione di una politica comune nei confronti dell’America:
come gli Stati Uniti non possono reggere il mondo da soli, così le
nazioni europee possono esercitare una certa influenza solo unite,
al di là dell’ambizione nazionale di ciascuna.
Fra difesa e politica
Che si tratti di uno Stato considerato individualmente, o del quadro collettivo dell’Unione europea, le migliori capacità di questo
mondo non servono a nulla se manca la volontà politica di agire e
di influire sulla scena internazionale. Se la costituzione di capacità
militari può effettivamente essere oggetto di negoziati tecnici fra
25 o 30 partner, nella creazione di una volontà politica comune, di
una visione strategica identica, di un senso comune delle responsabilità e dei doveri dell’Unione, si colloca in una dimensione completamente diversa. Come dimostrato dalla crisi irachena, non esiste alcuna relazione di causa-effetto fra la creazione di strumenti,
istituzioni, capacità militari da un lato, e la creazione di una politica estera comune dall’altro. Fra una progressiva capacità di
azione militare dell’Unione, necessaria e peraltro molto riuscita in
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Introduzione
questa fase, e la costruzione di una reale politica estera dell’Unione,
paradossalmente dimenticata da cinque anni, la differenza è
enorme. Tuttavia, è in questa gamma di mezzi non militari di intervento esterno - ossia aiuti allo sviluppo, accordi commerciali, dialoghi politici con tutte le regioni del mondo, aiuti umanitari - che
risiede il valore aggiunto dell’Unione a 25. Se, come afferma a giusto titolo la strategia europea in materia di sicurezza, alla maggior
parte delle crisi non possono essere applicate soluzioni puramente
militari, allora occorre ridare il giusto valore alla PESD: mezzo e
non fine, strumento al servizio di una politica e non sostituto della
politica stessa.
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PESD: i primi
cinque anni
I
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Cinque anni di PESD
(1999-2004):
un bilancio
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PESD: i primi
cinque anni
PESD: una prospettiva storica
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Civile per natura, il processo d’integrazione europea portò, fra gli
Stati membri d’Europa, alla creazione di una ‘comunità di sicurezza’ (security community) in cui l’uso della forza come strumento
per risolvere i conflitti è superato.1 Dopo l’insuccesso della CED
nell’agosto 1954, le questioni legate alla difesa diventarono sostanzialmente tabù per gli europei e la NATO divenne l’unica organizzazione responsabile della sicurezza europea.
Dopo uno status quo durato oltre cinquant’anni, vari fattori
possono spiegare il progressivo emergere di una vera e propria
politica in materia di sicurezza e di difesa nell’Unione. Il primo
cambiamento è di tipo sistemico. Con la fine della guerra fredda,
l’Europa ha perso in parte la sua importanza strategica per gli Stati
Uniti. Restava la garanzia di sicurezza offerta da Washington, ma
la fine della minaccia sovietica ha significato in definitiva anche la
fine della dipendenza europea nel settore della sicurezza e della
difesa.2 Inoltre, le forze armate in Europa occidentale erano costituite a scopo di difesa collettiva e territoriale. Con la caduta del
muro di Berlino, la sicurezza collettiva e l’intervento all’estero
sono diventati i nuovi principi della difesa europea.
Il secondo fattore è da ricondurre alla particolare dinamica del
processo d’integrazione. Quando l’integrazione economica è arrivata ormai a buon punto, il versante politico del processo europeo
è diventato il passo logico successivo sulla via dell’integrazione.
Naturalmente, questi due aspetti sono sempre stati legati. L’unione monetaria fu soprattutto un’impresa politica. Eppure, nel
settore della politica estera, si ebbero effetti di ricaduta limitati.3
Le prime iniziative degli anni settanta furono assai irrilevanti; solo
il trattato di Maastricht rappresentò un primo passo avanti, seppur modesto. La politica estera non è tuttavia un settore in cui la
logica dell’integrazione subentra facilmente alla logica dell’azione
collettiva. La natura intergovernativa della cooperazione nel settore della politica estera ha continuato a governare il gioco. Questa realtà di fondo è all’origine della creazione nell’UE di un
1. Espressione coniata da Karl
Deutsch, in ‘Political Community
at the International Level: Problems of Definition and Measurement’, Foreign Policy Analysis Series,
Princeton University, n. 2, settembre 1953, pp. 1-25, e successivamente sviluppata in Karl Deutsch
et al., Political Community and the
North Atlantic Area: International Organization in the light of Historical Experience (Princeton, NJ: Princeton
University Press, 1957).
2. Al riguardo si rinvia, fra altro, a
Christopher Layne, ‘Continental
Divide: Time to Disengage in Europe’, The National Interest, n. 13,
autunno 1988, pp. 13-27. Alcuni
hanno preannunciato il ritorno
dell’anarchia in Europa; v. John J.
Mearsheimer, ‘Back to the Future:
Instability in Europe after the Cold
War’ , International Security, vol. 15,
n. 1, estate 1990, pp. 5-56, et contra Robert O. Keohane, Joseph S.
Nye e Stanley Hoffmann, After the
Cold War, International Institutions
and State Strategies in Europe, 19891991 (Cambridge, Mass.: Harvard University Press, 1993).
3. Questa dinamica è stata descritta per la prima volta da Ernst
B. Haas, The uniting of Europe: political, social, and economic forces, 19501957 (Stanford, Calif.: Stanford
University Press, 1968).
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secondo pilastro dedicato alla politica estera comune, anche se a
Maastricht i temi della sicurezza furono rinviati sine die.
In terzo luogo, proprio lo sviluppo dell’Unione ha reso ancor
più manifesto il divario esistente fra la grandezza economica dell’Europa e il suo limitato peso politico dopo la fine della guerra
fredda. Con uno scetticismo crescente quanto alla tenuta e alla
portata del coinvolgimento americano negli affari europei, tale
squilibrio non poteva protrarsi in eterno. Sembrò estremamente
singolare che l’Unione potesse far sentire la sua voce nei consessi
economici internazionali ma restasse in silenzio nelle discussioni
sulla sicurezza internazionale.
Alla fine, furono eventi esterni ad imporsi con tutta la loro
forza. Il fattore trainante alla base degli sviluppi nel settore della
sicurezza in seno all’Unione è stata infatti la necessità di far fronte
alle sfide poste dalle guerre nei Balcani, che minacciavano la logica
e la credibilità dell’intero processo d’integrazione. Come si vedrà,
le crisi in Bosnia dimostrarono innanzi tutto che i valori dell’Europa dovevano essere difesi e promossi attivamente nei paesi
vicini, in cui si stava consumando una catastrofe umana ritrasmessa dagli schermi televisivi europei. L’impatto della tragedia
balcanica fu assolutamente decisivo nel convertire l’opinione pubblica in tutta Europa ad un approccio più coordinato fra i governi.
Parve assurdo, se non scandaloso, moltiplicare le direttive europee
su tutti gli aspetti della vita economica quotidiana d’Europa e
ignorare al tempo stesso le atrocità commesse a Sarajevo. In altri
termini, i conflitti nei Balcani costrinsero l’Europa a riscoprire ‘la
necessità della geopoliticà.4 La crisi fu inoltre decisiva nel riunire i
governi europei. Le divergenze iniziali e il conseguente inasprimento del conflitto dimostrarono l’inefficacia dell’alternativa
puramente nazionale. Né la Francia, né il Regno Unito, né la Germania, agendo singolarmente, avrebbero potuto fronteggiare la
crisi in modo efficace. L’azione collettiva, anche con l’intervento di
altri partner come Russia e Stati Uniti, diventò la condizione del
successo. In base all’approccio coordinato adottato dal Gruppo di
contatto (Regno Unito, Francia, Germania, Italia, Russia e Stati
Uniti), l’europeizzazione di questa indispensabile azione collettiva diventò per l’Unione il fulcro delle discussioni istituzionali.
C’era infine una particolare volontà europea di trarre insegnamento dagli errori passati che era indissociabile dal progetto europeo. Da ogni sconfitta erano nate nuove ambizioni: il trattato di
Roma del 1957 fu in parte una reazione al naufragio della CED; il
4. Espressione tratta dall’opera di
Robert Kagan, Of Paradise and Power (New York: Vintage Books,
2003) p. 25.
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sistema monetario europeo fu una conseguenza delle crisi petrolifere degli anni settanta. Dopo la Bosnia e il Kosovo si è cominciato
a riconoscere l’inadeguatezza militare dell’UE e si è varato il processo di Saint-Malo; dopo la crisi irachena è nata una vera e propria
strategia europea in materia di sicurezza. Qui risiede il paradosso
ma anche la forza di questo processo: imparare dalle esperienze
può essere un modo frustrante di procedere, ma i progressi compiuti negli ultimi cinque anni sono stati nondimeno notevoli. In
generale, si può dire che lo sviluppo della PESD abbia attraversato
due diverse fasi: la prima è stata una risposta ad una sfida essenzialmente europea sotto il profilo della sicurezza; la seconda è
stata la conseguenza del contesto internazionale venutosi a creare
dopo l’11 settembre.
I retroscena della PESD: responsabilità nella gestione delle
crisi
Il quadro della sicurezza alla fine della guerra fredda
La fine della guerra fredda segnò la vittoria della strategia dissuasiva dell’Alleanza occidentale nei confronti dell’Est, ma implicò
anche la necessità di ridefinire l’impegno statunitense a favore dell’Europa. Dopo quarant’anni di protezione americana, l’emancipazione europea era inevitabile. Il problema era come esercitare le
responsabilità che incombevano all’Europa senza indebolire il partenariato atlantico. La gestione della riunificazione tedesca fornì
una prima risposta a tale questione essenziale. La soluzione di integrare la Germania riunificata nella NATO, caldeggiata da Washington e alla fine accettata (contro ogni previsione) da Mosca,
consentì non solo di mantenere la coesione fra tedeschi e americani
ma anche di consolidare il monopolio della NATO sui temi della
sicurezza in Europa.5 In un contesto a un tempo inatteso (la scomparsa della minaccia ad Est) e conosciuto (il permanere della
NATO ad Ovest) le discussioni sulla sicurezza europea erano
ancora caratterizzate da divergenze d’ordine storico tra i principali membri dell’Unione, mentre venivano compiuti parallelamente i primi passi verso la moneta unica. Questa ambivalenza fu
constatata al vertice di Maastricht nel dicembre 1991. Da un lato,
paesi come il Regno Unito, favorevoli alla preminenza dell’Alleanza, pur riconoscendo la necessità di un coordinamento più
stretto nel settore della politica estera, si opposero ad un trasferi-
5. Si veda il capitolo 6, dedicato a
PESD e NATO.
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mento all’Unione di competenze in materia di sicurezza. Dall’altro la Francia, rinnovando l’auspicio di stringere relazioni più
strette con la Germania, propose di elevare la sua collaborazione
militare con Bonn al livello europeo. L’istituzione dell’Eurocorpo
fu una prima mossa per rilanciare l’idea della difesa europea, ma
incontrò sin dall’inizio grosse difficoltà politiche.6 Gli altri paesi
europei continuavano ad essere divisi sui fronti tradizionali, fra
‘atlanticisti’ ed ‘europeisti’. Se è vero che il vertice di Maastricht
decise la creazione del secondo pilastro, la PESC, l’aspetto ‘difesa’
fu rinviato sine die.7
All’inizio degli anni novanta il panorama della sicurezza in
Europa mostrava quindi una situazione alquanto schizofrenica.
Da un lato, l’Unione stava cominciando a muovere i primi passi
sulla scena internazionale come entità politica, senza tuttavia disporre di una propria capacità di difesa; dall’altro, la NATO rimaneva il principale strumento di sicurezza in Europa, ma con una
nuova finalità politica nei confronti dei suoi precedenti nemici ad
Est. Queste mutate circostanze impedirono la rinazionalizzazione
degli strumenti di difesa in Europa, salvarono la parte essenziale
delle relazioni transatlantiche e preservarono l’influenza americana in Europa, lasciando tuttavia irrisolte una serie di contraddizioni. Da parte dell’Europa, il concetto di identità europea di
difesa cozzava contro le riduzioni di bilancio e i dividendi della
pace richiesti dall’opinione pubblica. Oltreoceano, la fine della
guerra fredda comportò la ridefinizione del ruolo svolto dall’America in Europa e del posto occupato dall’Europa nella strategia
americana, che a sua volta implicò la revisione della missione e del
partenariato NATO. I limiti di questa architettura ibrida emersero
chiaramente con l’inasprimento delle tensioni nei Balcani.
6. ‘Sulla questione del comando e
del controllo dell’Eurocorpo si
trattava di sapere se fosse un complotto francese per attirare la Germania fuori dalla NATO o un
complotto tedesco per attirare la
Francia nella NATO’. George
Stein, ‘The Eurocorps and Future
European Security Architecture’,
European Security, vol. 2, n. 2, estate
1993, pp. 214-15; e Jean-Yves
Haine, L’Eurocorps et les identités européennes de défense: du gage francoallemand à la promesse européenne
(Paris : Centre d’Etudes de la Défense, gennaio 2001).
La tragedia in Bosnia
Dopo il primo scontro militare in Slovenia nel luglio 1991, l’Unione europea, ansiosa di mettere in pratica la sua nuova politica
estera comune, inviò una troika UE a negoziare un cessate il fuoco.
Questa ‘forza di reazione diplomatica rapida’, come la definì l’allora ministro degli esteri italiano Gianni de Michelis, dimostrò che
i Balcani, contrariamente al Golfo Persico, erano responsabilità
europea.8 La missione Carrington, dopo un parziale successo,
lasciò rapidamente il posto all’inviato delle Nazioni Unite Cyrus
Vance, che riuscì a negoziare un cessate il fuoco essenziale per lo
7. Vedasi l’articolo J.4 del trattato
di Maastricht.
8. Vedasi al riguardo James Gow,
Triumph of the Lack of Will: International Diplomacy and the Yugoslav War
(New York: Columbia University
Press, 1997), pp. 48-50.
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spiegamento dei ‘caschi blu’ dell’ONU incaricati del mantenimento della pace. Il loro mandato limitato e ambiguo risultò, tuttavia, manifestamente inadeguato fintantoché la pace non fu
ristabilita. Non si poteva mantenere una pace che non esisteva o
imporne una senza farsi coinvolgere nel conflitto. Questo garbuglio tipico della sicurezza collettiva condusse alla paralisi delle istituzioni internazionali, le quali si limitarono a seguire il conflitto
senza apportarvi una soluzione. I limiti del diritto internazionale
per quanto attiene alle guerre civili, l’inadeguatezza dei tradizionali strumenti di mantenimento della pace, e lo scoppio di una
violenza reale in Europa dopo quarant’anni di scontri politici ma
pacifici, sono tutti fattori che contribuirono a rendere l’Europa
incapace di valutare l’entità del conflitto.
In questa prima fase delle ostilità, il problema non riguardava
tanto le capacità militari: gli europei avrebbero potuto intervenire
in modo decisivo per fermare il massacro. La principale fonte di
disaccordo concerneva piuttosto l’adeguatezza e gli obiettivi dell’intervento militare. In breve, le divisioni erano politiche. La Germania insisteva, per motivi storici, nel voler riconoscere la sovranità della Slovenia e della Croazia, ma mancava al tempo stesso
della capacità per garantire queste nuove frontiere internazionali.
La Francia, dal canto suo, non voleva riconoscere mutamenti alle
frontiere che fossero stati indotti con la forza, mentre il Regno
Unito era riluttante ad intervenire in un conflitto che non presentava alcun interesse strategico palese.9 Il minimo comune denominatore era pertanto la gestione dell’aspetto umanitario del conflitto. La presenza delle forze europee sotto mandato ONU ebbe
notevoli ripercussioni positive sotto il profilo umanitario, ma
complicò ulteriormente l’intervento militare, esponendo a rappresaglie le truppe impegnate sul campo. Gli europei non furono
pertanto in grado di porre fine al conflitto, anche quando gli
orrori della pulizia etnica e l’intollerabilità dei campi di concentramento inficiarono i valori fondamentali della costruzione
europea.
Il sostegno di Washington divenne una condizione necessaria
per attuare una politica più interventista e affrontare emergenze
umanitarie sempre più gravi. Gli Stati Uniti si mostrarono però
estremamente riluttanti ad intervenire. Ritenevano che la dissoluzione della Jugoslavia fosse insensata e irresponsabile e che la complessa mescolanza etnica vanificasse qualsiasi intervento. In mancanza di precisi interessi strategici, Washington rifiutò di entrare
9.Sulla posizione della Germania,
si vedano Carl C. Hodge, ‘Botching the Balkans: Germany’s Recognition of Slovenia and Croatia’, Ethics and International Affairs,
vol. 12, 1998, pp. 1-18; e Harald
Müller, ‘Military Intervention for
European Security: The German
Debate’, in Lawrence Freedman,
Military Intervention in European Conflicts (Oxford: Blackwell, 1994) pp.
139 ss. Sulla Francia e il Regno
Unito, cfr. Thierry Tardy, La France
et la gestion des conflits yougoslaves
(1991-1995) : enjeux et leçons d’une
opération de maintien de la paix de
l’ONU (Bruxelles: Bruylant, 1999)
e Jane M. O. Sharp, Bankrupt in the
Balkans: British Policy in Bosnia (London: Institute for Public Policy Research, 1992).
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nel conflitto.10 Dopo tutto, era giunto ‘il momento dell’Europa’.
Mentre gli europei tentavano di trovare una soluzione di pace che
fosse attuabile, la retorica di Washington alimentò nei bosniaci la
speranza di un intervento militare che gli Stati Uniti volevano a
tutti i costi evitare e che l’Europa rifiutava, fintantoché le sue forze
rischiavano di essere prese in ostaggio. In questo clima ambiguo,
fra ambivalenza americana e impotenza europea, Slobodan Milosevic portò avanti impunemente i suoi piani di distruzione che
culminarono a Srebrenica, il peggior massacro che l’Europa abbia
conosciuto dopo la seconda guerra mondiale.11
Gli insegnamenti tratti dalla tragedia in Bosnia furono pesanti
per l’intera comunità internazionale, ma soprattutto per l’Europa, che meglio simboleggiava le contraddizioni emerse in
Bosnia. Il primo di questi insegnamenti era di ordine etico: con il
ritorno della barbarie nel continente europeo, il fallimento degli
europei, che pur presenti rimasero passivi, inflisse un duro colpo
al cuore del progetto europeo fondato su valori democratici che
venivano calpestati alle porte stesse dell’Europa. Poiché i partner
europei non erano riusciti a definire una strategia comune, l’ex
Jugoslavia avrebbe dovuto rappresentare un tema democratico e
morale sufficientemente serio per consentire loro di accantonare
gli specifici interessi nazionali e le rispettive inibizioni e carenze
istituzionali. Ne risentì la credibilità stessa degli sforzi comuni
europei e il messaggio inviato al mondo esterno divenne visibilmente meno pertinente, specie per i paesi d’Europa orientale che si
erano appena affrancati dal giogo del comunismo e guardavano
nuovamente alla loro sicurezza.12 Il primo imperativo di qualsiasi
iniziativa europea in materia di difesa è evitare che si ripeta un
simile massacro in Europa. Se l’Unione è disposta a tollerare altri
crimini di guerra, le sue stesse fondamenta saranno irrimediabilmente danneggiate.
Il secondo insegnamento concerne l’uso effettivo della forza, e
qui è bene sottolineare vari fattori. Il primo è la palese inadeguatezza delle istituzioni per la difesa fondate su un sistema di difesa
territoriale.13 Considerati gli impedimenti istituzionali o i retaggi
del passato che riducevano il margine di manovra di alcuni Stati
membri, e al di là dell’inerzia frutto di quarant’anni di confronto
dissuasivo, la necessità di essere in grado di proiettare unità operative equipaggiate con armi leggere era in contrasto con il fatto che
le forze in Europa erano legate ad aree specifiche: e il loro numero
non faceva altro che rispecchiare la loro relativa inefficacia. La
10. Al riguardo si veda Warren
Zimmerman, Origins of a Catastrophe (New York: Times Book,
1999), pp. 215 ss.
11. Per una precisa ricostruzione
del massacro di Srebrenica, vedansi David Rhode, Endgame. The
betrayal and fall of Srebrenica: Europe’s worst massacre since World War II
(Boulder, Colo.: Westview Press,
1997) e Jan Willem Honig e Norbeth Both, Srebrenica: record of a war
crime (New York: Penguin Books,
1997).
12. ‘La conclusione che la regione
poté trarre dalla guerra in Jugoslavia non fu tanto che l’Occidente
fosse screditato quanto che gli approcci istituzionali proposti dai
paesi occidentali fossero pura futilità. Coloro che ancora s’interrogano sul perché l’adesione alla
NATO divenne una tale fissazione
per i paesi dell’Est europeo dovrebbero ripercorrere gli annali
della saga jugoslava.’ Jonathan
Eyal, ‘NATO’s enlargement: anatomy of a decision’, International
Affairs, vol. 73, n. 4, ottobre 1997,
pp. 700-1.
13. Frédéric Bozo, ‘Organisations
de sécurité et insécurité en Europe’, Politique Etrangère, n. 2,
estate 1993, pp. 447-58 e Catherine Guicherd, ‘L’Heure de l’Europe : Premières leçons du conflit
yougoslave’, Les Cahiers du Crest,
marzo 1993.
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definizione da parte dell’UEO dei ‘compiti di Petersberg’ rappresentò un primo segnale del nuovo contesto strategico, ma la riorganizzazione delle forze militari - avviata dall’UEO nel giugno
1992 e dalla NATO nel dicembre dello stesso anno, al fine di porre
l’accento sulla proiezione delle forze e la gestione delle crisi in teatri remoti – è proceduta con lentezza. Il secondo fattore è a un
tempo specifico (la necessità di disporre dei mezzi per l’esecuzione
delle attività di ristabilimento e mantenimento della pace codificate a Petersberg) e più generale: la necessità di acquisire e sviluppare una cultura strategica, e di dotarsi di un’organizzazione
capace di anticipare gli eventi. Senza una minaccia credibile di
ricorso alla forza, non si poteva garantire una sicurezza collettiva
efficace.
Il terzo insegnamento è per certi versi paradossale. Il ritorno
della guerra in Europa dimostrò il divario esistente fra la realtà
della potenza effettiva di alcuni grandi paesi europei e il quadro
decisionale della Comunità europea. I rischi sotto il profilo della
sicurezza conseguenti dalla dissoluzione della Jugoslavia non
erano d’ordine strategico. Mentre la sicurezza europea fu una questione di necessità durante la guerra fredda, ora diventava una
questione di scelta volontaria. Prendere atto di questa realtà
sarebbe diventato un presupposto necessario per qualsiasi politica europea comune di difesa e, al tempo stesso, ne avrebbe fissato
i limiti. Inoltre, la decisione ultima di ricorrere alla forza armata e
di accettarne i rischi connessi è essenzialmente una prerogativa
nazionale. In tempi di crisi, le istituzioni internazionali contano
meno, il potere sovrano di più. La rinnovata importanza della
sovranità nazionale segnò i limiti delle modifiche istituzionali
varate a Maastricht.14 Parallelamente, nessuno Stato membro
poteva sperare di fronteggiare da solo questo tipo di conflitto: era
necessaria una risposta collettiva. Si dovettero pertanto incentrare
gli sforzi sulla cooperazione nel settore della politica estera, ma
tenendo conto delle prerogative nazionali.
L’ultimo insegnamento riguardava le relazioni transatlantiche. Il conflitto in Bosnia aveva evidenziato quanto importante
ma anche quanto fragile fosse tale partenariato. Senza il coinvolgimento degli Stati Uniti e senza l’intervento della NATO, Milosevic non avrebbe mai firmato gli accordi di pace di Dayton. Inoltre,
il coinvolgimento tardivo degli Stati Uniti nel conflitto fu innanzi
tutto indicativo degli imperativi strategici e delle incertezze politiche specificamente americani.
14. Vedansi al riguardo Philip H.
Gordon, ‘Europe’s Uncommon
Foreign Policy’, International Security, vol. 22, n. 3, inverno 1997/98,
pp. 74-100; e Philip Zelikow, ‘The
Masque of Institutions’, Survival,
vol. 38, n. 1, primavera 1996,
pp. 6-18.
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Il dissenso transatlantico fu tale da indebolire la stessa
NATO.15 Inoltre, la ripartizione degli sforzi durante l’intervento
militare, per cui le forze di terra europee erano esposte ai rischi
maggiori e gli aerei americani operavano da distanza di sicurezza,
non era favorevole agli europei. Lo squilibrio dei rischi e le divergenze strategiche suggerirono una riforma dell’Alleanza atlantica
che tenesse conto di questa specificità e identità dell’Europa.16 La
diversità europea veniva insomma riconosciuta all’interno dell’Alleanza. Ma la sua efficacia dipendeva dal miglioramento delle
capacità.
Il conflitto del Kosovo
Il conflitto in Kosovo confermò le carenze militari dell’Europa e le
ambiguità della posizione internazionale dell’America. Pur non
essendoci stato all’interno dell’amministrazione statunitense
alcun disaccordo sul ricorso alla NATO per risolvere la crisi, nella
primavera del 1999 la Casa Bianca prese la decisione strategica di
lanciare ‘attacchi’ politici per forzare Milosevic a negoziare. Questa
strategia di ‘coercizione’ militare, ossia l’uso della forza per finalità
politiche anziché militari, comportava attacchi aerei lanciati da
un’altitudine tale che il rischio per le forze NATO fosse minimo.
Tuttavia questo tipo di strategia ha possibilità di successo solo se
l’avversario considera che le questioni in causa hanno un interesse
soltanto secondario. Il Kosovo tuttavia aveva una rilevanza cruciale
per Milosevic,17 e questo errore iniziale compiuto dagli Stati Uniti
nella valutazione della situazione, benché poi gradualmente corretto, ebbe conseguenze importanti.
Il conflitto che avrebbe dovuto essere breve, cosi’, si protrasse e
diede origine a profonde tensioni all’interno dell’Alleanza, poiché
mise gli Europei in una situazione di ambiguità: da un lato l’inadeguatezza dei mezzi di cui disponevano li rendeva vassalli dell’azione degli Stati Uniti; dall’altro, il controllo politico consensuale
all’interno della NATO conferiva loro un diritto di controllo sulla
quasi totalità dei bersagli selezionati da Washington per gli attacchi aerei. Benché agli alleati europei sia ascrivibile solo il 40% circa
degli attacchi aerei, la crisi latente all’interno dell’Alleanza derivò
dal fatto che pur avendo gli americani grande superiorità tecnologica sul piano aeronautico, erano necessari negoziati politici per
ottenere l’approvazione della maggior parte delle sortite effettuate (807 su 976) contro bersagli aggiuntivi a quelli inizialmente
15. Stando ad uno dei più accesi
critici della politica estera statunitense nei confronti della Bosnia,
‘dopo tre anni e centinaia di migliaia di morti, il successore di G.
Bush ha dovuto rendersi conto di
cosa fosse in gioco in Bosnia: l’Alleanza atlantica’. Mark Danner,
‘Operation Storm’, New York
Review of Books, 22 ottobre 1998,
pp. 76-7.
16. Cfr. al riguardo il capitolo dedicato a PESD e NATO.
17. Ivo H. Daalder and Michael E.
O’Hanlon, Winning Ugly : NATO’s
War to Save Kosovo (Washington
DC.: The Brookings Institution,
2000), e Layne Christopher,
‘Blunder in the Balkans’, Policy
Analysis, n. 345, 20 maggio 1999,
pp. 1-19.
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individuati.18 In mancanza di uno sforzo dell’Europa per migliorare le proprie capacità militari, la sua l’influenza sulla strategia
statunitense sarebbe rimasta minima, e la sua responsabilità limitata. Per evitare il disaccoppiamento (decoupling) strategico di
un’Europa che, dal punto di vista tecnologico, seguiva a distanza,
si rendeva indispensabile compiere uno sforzo inteso a migliorarne la capacità militare: ma proprio così facendo si sarebbero
suscitati i timori del disaccoppiamento politico insito in un’Europa più autonoma. In altre parole, fare la guerra al fianco degli
americani era diventata impresa ardua. Eppure l’armonia della
NATO andava mantenuta: l’unità dell’Alleanza era una condizione preliminare per il suo successo in Kosovo.19 L’autonomia
europea, dunque, non doveva essere sinonimo di emancipazione
quanto di miglioramento dei mezzi d’azione europei all’interno
dell’Alleanza. Fu principalmente su questa base che si fondò l’iniziativa concertata a Saint-Malo tra Tony Blair e Jacques Chirac.
Nel dicembre 1998 la Dichiarazione di Saint-Malo, evento fondatore della PESD, rappresentò il punto di convergenza di due
evoluzioni. Da un lato la posizione francese nei confronti della
NATO era sostanzialmente cambiata dopo la Bosnia. La stretta
cooperazione con le truppe britanniche nel teatro bosniaco aveva
alimentato una solidarietà di fatto tra le gerarchie militari. Il presidente francese, particolarmente sensibile agli affari militari,
diede avvio a un notevole ravvicinamento alla NATO.20 Dall’altro,
quest’iniziativa ben collimava con il nuovo approccio dei britannici. Londra era consapevole che l’operazione di riequilibrio dell’Alleanza Atlantica, la cosiddetta ‘identità’ europea di sicurezza e
di difesa del gennaio 1994, era destinata a restare limitata fintantoché il Congresso americano l’avesse considerata come una semplice manovra per ridurre il coinvolgimento degli Stati Uniti in
Europa. Quale parte di una più ampia politica europea, la strategia
del governo Blair ritenne che solo attraverso l’Unione si potevano
potenziare i mezzi militari europei. Anche prima della drammatica dimostrazione offerta dal Kosovo, il primo ministro britannico era giunto alla conclusione che il persistere di tale disequilibrio avrebbe messo in pericolo il fondamento stesso del
partenariato atlantico. Si trattava di stabilire basi più equilibrate,
e di conseguenza più solide, per l’alleanza il cui salvataggio passava per l’Europa. Agli occhi della Gran Bretagna la difesa europea
aveva ora acquisito un indubbio valore aggiunto. Londra, discostandosi in modo spettacolare dalle politiche fino ad allora
18. Cifre tratte da John E. Peters et
al., European Contributions to Operation Allied Force (Santa Monica,
Calif.: RAND Corporation, 2001)
p. 25.
19. Come riferisce un ufficiale
serbo: ‘Non avremmo mai immaginato che la NATO sarebbe rimasta unita nel corso di 10 settimane
di bombardamenti e di uccisioni
di civili innocenti. Ci sbagliavamo’. Citazione di Stephen T.
Hosmer, The Conflict over Kosovo :
Why Milosevic Decided to Settle When
He Did (Santa Monica, Calif.:
RAND Corporation, 2001), p. 41.
20. Sulla posizione francese, vedasi Robert P. Grant, ‘France’s
New Relationship with NATO’,
Survival, vol. 38, n. 1, estate 1996,
pp. 58-80 e Anand Menon, ‘From
Independence to Cooperation:
France, NATO and European Security’, International Affairs, vol. 71,
n. 1, gennaio 1995, pp. 19-34.
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seguite, riconsiderò la sua posizione di veto sulla responsabilità
dell’Europa per la propria sicurezza. Se la ricerca di influenza era
un leitmotiv ricorrente a Londra, la scelta dell’Europa quale strumento per raggiungerla fu una vera e propria rivoluzione diplomatica.
La terminologia impiegata nella dichiarazione di Saint-Malo,
che faceva riferimento a una ‘capacità di condurre azioni in modo
autonomo’, rappresentò un compromesso tra questi due sviluppi:
non solo costituisce il giro di boa nell’approccio di Londra, ma
anche una concessione di Parigi alla legittimità atlantica.21 Per gli
uni, l’Europa diventava lo strumento per esercitare la propria
influenza, per gli altri l’Alleanza rappresentava il contesto designato dell’autonomia europea. Nello spazio tra i mezzi e il fine, tra
l’autonomia affermata e la garantita conformità con l’Alleanza
Atlantica, la PESD trovò una nicchia, fragile ma reale, di intesa. Il
nucleo del compromesso stava nello sforzo compiuto per migliorare le capacità militari degli Europei e nella loro volontà di farsi
carico di operazioni di gestione delle crisi nel quadro dei compiti
di Petersberg.
21. Nella dichiarazione di SaintMalo si legge che l’Unione deve
avere la capacità di condurre azioni
in modo autonomo, potendo contare su forze militari credibili, i
mezzi per decidere di farle intervenire e la disponibilità a farlo, al
fine di rispondere alle crisi internazionali. I firmatari di questa dichiarazione proseguono affermando che, nel rafforzare la
solidarietà tra gli Stati membri
dell’Unione europea affinché
l’Europa possa far sentire la sua
voce sulla sc ena mondiale, agendo
in conformità dei rispettivi obblighi
con la NATO, infondono nel contempo vitalità a un’Alleanza atlantica rimodernata, fondamento
della difesa collettiva dei suoi
membri (il corsivo non figura nel
testo originario). Per un’analisi efficace della dichiarazione vedasi
Jolyon Howorth, ‘Britain, France
and the European Defence Initiative’, Survival, vol. 42, n. 2, estate
2000, pp. 33-55.
L’attuazione della dichiarazione di Saint-Malo
Il conflitto in Kosovo spianò la strada ad una rapida europeizzazione della Dichiarazione di Saint-Malo. La presidenza tedesca si
adoperò per trasformare questa iniziativa bilaterale in una realtà
europea e per cambiare l’identità europea di sicurezza e difesa in
una politica di sicurezza e di difesa europea. Al Consiglio europeo
di Colonia, del giugno 1999, gli Stati membri affermarono: ‘siamo
determinati a far sì che l’Unione europea svolga appieno il suo
ruolo sulla scena internazionale. A tale scopo, intendiamo fornire
all’Unione europea i mezzi e le capacità necessari perché possa
assumere le proprie responsabilità per quanto riguarda una politica europea comune in materia di sicurezza e di difesa ... l’Unione
deve avere la capacità di condurre azioni in modo autonomo,
potendo contare su forze militari credibili, sui mezzi per decidere di
farle intervenire e sulla disponibilità a farlo, al fine di rispondere
alle crisi internazionali senza pregiudizio per le azioni della
NATO.22 Per raggiungere questo obiettivo furono apportati
alcuni cambiamenti istituzionali specifici: la nomina di Javier
Solana ad Alto Rappresentante per la PESC; la creazione di un
Comitato politico e di sicurezza (CPS), composto di ambasciatori
22. Consiglio europeo di Helsinki,
Allegato I, in Maartje Rutten
(racc.), ‘From St-Malo to Nice.
European defence: core documents’, Chaillot Paper 47 (Parigi:
Istituto di studi per la sicurezzadell’UEO, maggio 2001), pp. 9192.
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di ciascuno Stato membro che si riuniscono bisettimanalmente a
Bruxelles; la creazione di un Comitato militare, ufficialmente
costituito dai Capi di Stato maggiore della difesa degli Stati membri (nella pratica, dai loro Rappresentanti militari) a cui spetta il
compito di fornire consulenze e raccomandazioni al CPS e al Consiglio europeo; la creazione di uno Stato maggiore, che offre le sue
conoscenze specialistiche nel settore della PESD (soprattutto
sulla conduzione delle operazioni di gestione militare delle crisi da
parte dell’Unione) e assicura il tempestivo allarme, la valutazione
della situazione e la pianificazione strategica nell’ambito dei compiti di Petersberg. Questi mutamenti istituzionali non causarono
alcuna difficoltà anche se, nel milieu europea di Bruxelles, la presenza di uomini in uniforme era davvero una novità.
La parte essenziale della dichiarazione di Saint-Malo trattava,
tuttavia, delle capacità e al riguardo i progressi si rivelarono più
ardui. Nel dicembre 1999, ad un anno appena dall’incontro in Bretagna, al vertice di Helsinki fu fissato nei dettagli l’obiettivo primario (headline goal) con il quale ci si prefiggeva di mettere a disposizione dell’Unione una forza capace di svolgere l’insieme dei
compiti di Petersberg, compresi i più ambiziosi, in operazioni a
livello di corpi d’armata, ossia 50 000-60 000 uomini. Gli Stati
membri si impegnavano a schierare, entro il 2003, forze ‘militarmente autonome e provviste delle opportune capacità di
comando, controllo e informazione, nonché della logistica, di
altre unità di supporto bellico e, all’occorrenza, anche di elementi
di supporto aereo e navale. Gli Stati membri dovranno essere in
grado di organizzare uno schieramento completo a questo livello
nell’arco di 60 giorni, e in tale contesto dovranno poter fornire formazioni più ridotte, disposte a mobilitarsi in tempi brevissimi per
situazioni di rapido intervento. Gli Stati membri devono poter
sostenere questo schieramento per almeno un anno.’ Le missioni
assegnate a questa forza di reazione rapida coincidono con i compiti definiti dall’UEO a Petersberg nel 1992 e incorporati nell’articolo 17 (2) del TUE, e cioè: ‘le missioni umanitarie e di soccorso, le
attività di mantenimento della pace e le missioni di unità di combattimento nella gestione delle crisi, ivi comprese le missioni tese
al ristabilimento della pace’.
La definizione contenuta nel trattato fu tuttavia oggetto, in
seguito, di varie interpretazioni. A Colonia, nel 1999, il Consiglio
aveva dichiarato che i compiti in questione erano attinenti
all’’intero ambito della prevenzione dei conflitti e delle attività di
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gestione delle crisi’. A Helsinki, per poter svolgere gli stessi compiti, si dedicò particolare attenzione ai mezzi necessari ad una
gestione efficace delle crisi, vale a dire: schierabilità, sostenibilità,
interoperabilità, flessibilità, mobilità, sopravvivenza, comando e
controllo. Nel dicembre 2001, a Laeken, ove la PESD fu dichiarata
operativa, l’accento fu posto sullo sviluppo di mezzi e capacità che
avrebbero consentito all’Unione di ‘svolgere progressivamente
operazioni sempre più complesse.’ Saranno infatti le capacità
militari dell’Unione a determinare nella pratica la portata delle
missioni.
Il primo aspetto di quest’impresa riguardava il rafforzamento
della componente civile delle forze europee, vale a dire quelle
impiegate nelle missioni di polizia. Con l’esperienza della Bosnia,
e in particolare dell’amministrazione civile di Mostar da parte dell’UEO, la Forza multinazionale di protezione (FMP) in Albania e
l’Elemento multinazionale di consulenza in materia di polizia
(MAPE) dell’operazione Alba, sempre in Albania, l’Unione aveva
acquisito notevoli conoscenze nella gestione civile delle crisi. Era
pertanto logico incorporare e sviluppare questo acquis operativo
nella PESD. Il Consiglio europeo di Santa Maria da Feira, del giugno 2000, individuò quattro settori prioritari in cui l’Unione
intendeva acquisire capacità concrete: polizia, rafforzamento
dello stato di diritto, amministrazione civile e protezione civile.
Gli Stati membri si impegnarono a fornire forze di polizia per missioni internazionali; furono compiuti rapidi progressi e i contributi degli Stati membri oltrepassarono l’entità richiesta. Nel gennaio 2003, in Bosnia-Erzegovina, l’UE ha potuto cosi’ subentrare
alla Forza di polizia internazionale (IPTF) delle Nazioni Unite. Il 3
ottobre 2003, nella riunione dei ministri della difesa dell’Unione
europea a Roma, la Francia ha addirittura proposto di costituire
una polizia militare europea. L’idea, scaturita dai successi riportati nei Balcani dalle unità multinazionali specializzate (MSU),
consiste nel creare una sorta di gendarmerie europea da impiegare
nelle operazioni di sostegno della pace,23 visto che l’Unione ha
ormai sviluppato un reale know-how e un approccio specifico alle
operazioni di mantenimento della pace, il che rappresenta un
effettivo valore aggiunto per la sicurezza internazionale.
La seconda parte del processo innescato a Saint-Malo si è rivelata di più difficile realizzazione. Per conseguire l’obiettivo primario di Helsinki gli Stati membri dell’UE dovevano impegnarsi a
mettere a disposizione forze che sarebbero state iscritte in un cata-
23. In una relazione pubblicata
nella primavera del 2003 l’ex generale Morillon fu tra i primi a proporre di sviluppare questa capacità europea. Cfr. Dana Spinant,
‘French general calls for EU to develop ‘eurozone for defence’, European Voice, vol. 9, n. 12, 27 marzo
2003.
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logo: se fornire il numero di truppe richiesto non pose difficoltà,
fu invece necessario ovviare a carenze qualitative. Nel novembre
2000 la Conferenza sull’impegno di capacità stilò un catalogo
delle forze che gli Stati membri avevano convenuto di impegnare
per realizzare l’obiettivo primario. Lo staff militare concluse che, a
quella data, il numero di truppe previsto era stato raggiunto,
ponendo tuttavia in rilievo carenze in termini di trasporto aereo
strategico, comandi operativi schierabili e C3I. Nel novembre, per
colmare queste carenze, 2001 fu varato il piano d’azione europeo
sulle capacità (ECAP). Le attività previste dal piano, avviate nel febbraio 2002, hanno comportato la creazione di una serie di gruppi
guidati da uno o due Stati membri responsabili del coordinamento dei lavori. Da allora si è tenuta un’altra conferenza sull’impegno di capacità, nel maggio 2003, per chiedere maggiori impegni nazionali o varare programmi specifici intesi a colmare le
carenze. Di conseguenza, sono stati costituiti alcuni gruppi specifici che, sotto la supervisione di un paese, devono sviluppare programmi ad hoc per affrontarle.24
In un periodo assai breve, dunque, ciò che prima era un tabù è
diventato realtà. I militari sono entrati a far parte del paesaggio
quotidiano a Bruxelles, e la bandiera dell’Unione europea sventola
nei Balcani. Le missioni di mantenimento della pace sono per lo
più svolte da militari europei benché la NATO resti il quadro istituzionale privilegiato. L’Unione ha però avviato varie operazioni
autonome: una missione di polizia in Bosnia, una missione di
mantenimento della pace nell’ex Repubblica jugoslava di Macedonia e, soprattutto, un’operazione ‘ponte’ con le Nazioni Unite
nella Repubblica democratica del Congo.25
La PESD dopo il 2001: una strategia europea in materia di
sicurezza
L’handicap fondamentale del processo innescato a Saint-Malo
riguardava la definizione stessa di obiettivo primario. Concepito
sulla scorta dell’esperienza in Bosnia e, di conseguenza, con un
taglio rispondente a un imperativo strategico degli anni novanta,
lo strumento militare che ci si era prefissati appare al tempo stesso
troppo ambizioso per la gestione della crisi balcanica, e mal congegnato per far fronte alle crescenti richieste strategiche del XXI
24. Su questo aspetto inerente alle
capacità si veda Burkard Schmitt
nella presente raccolta.
25. Per maggiori particolari su
queste operazioni si veda Gustav
Lindstrom nella presente raccolta.
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secolo.26 Ciò che serviva era un quadro che delineasse gli obiettivi
strategici dell’Unione in un contesto internazionale profondamente mutato dopo gli attentati dell’11 settembre.
Il contesto internazionale dopo l’11 settembre
Gli attentati contro il World Trade Centre e contro il Pentagono
hanno rappresentato un cambio epocale per l’America. Per l’amministrazione Bush il terrorismo internazionale è diventato il nuovo
paradigma della politica internazionale, mettendo di fatto fine
all’era post guerra fredda. L’11 settembre ha segnato senza dubbio
un momento storico, un periodo di ‘cambiamenti tettonici’, come
affermato da Condoleezza Rice, simile all’insorgere della sfida
sovietica alla fine degli anni quaranta.
Il presidente George W. Bush, al pari di Harry S Truman, ha
avviato un’analisi globale della minaccia del terrorismo internazionale ma, a differenza del suo predecessore, ha privilegiato un
approccio unilaterale alla nuova sfida lanciata da questo terrorismo. In sintesi, l’America era in guerra. L’Europa non era indifferente a questa nuova minaccia giacché i membri dell’Unione
hanno ben coscienza del terrorismo. Il fenomeno dell’iperterrorismo è tuttavia molto diverso dal terrorismo classico dei gruppi che
agivano in Europa (quali l’ETA, l’IRA, Action Directe o la Rote
Armee Fraktion) e che, volendo convincere la popolazione, dovevano limitarsi nell’uso della violenza. Come sostenne un esperto,
quei terroristi volevano molti spettatori ma pochi morti.27 Anche
gli attentati di Madrid dell’11 marzo scorso hanno dimostrato
invece che l’iperterrorismo è pronto a ricorrere a una violenza
inaudita e vuole arrecare il massimo danno possibile. È mosso
dalla convinzione di essere in una situazione di guerra assoluta,
tanto più se combattuta in nome di un’autorità divina. L’estremismo religioso rafforza una visione rigorosamente manichea in cui
il nemico è demonizzato e giustifica qualsiasi livello di violenza a
cui si debba giungere per distruggerlo. Questa radicalizzazione,
unita alla natura non-statale della minaccia, rende certe strategie
terroristiche essenzialmente impermeabili a qualsiasi deterrente.
Dopo gli eventi dell’11 settembre 2001, il Consiglio europeo
straordinario del 21 settembre successivo dichiarò di essere determinato a combattere il terrorismo in tutte le sue forme e ‘che la
lotta al terrorismo costituirà più che mai un obiettivo prioritario
per l’Unione europea’. La PESD non poteva ignorare questo nuovo
26. ‘La mancanza di una visione
strategica comune dell’Europa risulta anche troppo evidente dall’interpretazione e attuazione dei
compiti di Petersberg ... L’attuale
formulazione dell’UE (ossia i
compiti di Petersberg) non fornisce neppure un indicazione di
massima sulla scena mondiale
nella quale le forze europee potrebbero essere chiamate ad operare.’, François Heisbourg, ‘Europe’s Strategic Ambitions: The
Limits of Ambiguity’, Survival,
vol. 42, n. 2, estate 2000, p. 8.
27. Citato in Harald Müller, ‘Terrorism, proliferation: a European
Assessment’, Chaillot Paper 58
(Parigi, Istituto di studi per la sicurezza dell’UE, marzo 2003), p. 22.
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contesto strategico. Al Consiglio europeo di Siviglia, nel giugno
2002, si decise di intensificare l’azione dell’Unione contro il terrorismo mediante un approccio coordinato e interdisciplinare che
abbracciasse ‘tutte le politiche dell’Unione, segnatamente sviluppando la politica estera e di sicurezza comune (PESC) e rendendo
operativa la politica europea in materia di sicurezza e di difesa
(PESD).’ Si rammentò che la ‘PESC, compresa la PESD, può svolgere un ruolo importante nel contrastare tale minaccia alla nostra
sicurezza’. Furono così ampliati i compiti di Petersberg e, inoltre,
il Consiglio adottò una serie di decisioni quadro relative a: mandato d’arresto europeo, squadre investigative comuni, riciclaggio
di denaro e applicazione di misure specifiche di cooperazione di
polizia e giudiziaria per la lotta al terrorismo. A questo riguardo fu
organizzata un’effettiva cooperazione tra Stati Uniti e Europa, che
avrebbe dato risultati soddisfacenti, come dimostrano gli arresti
di membri di cellule di al Qaeda effettuati in alcuni paesi europei.
Dopo gli attentati terroristici di Madrid dell’11 marzo 2004, la
dichiarazione del Consiglio del 25 marzo 2004 ha previsto alcune
misure importanti. La prima è la creazione della figura di un coordinatore antiterrorismo il quale coordinerà i lavori del Consiglio e
manterrà la supervisione di tutti gli strumenti di cui dispone l’Unione. La seconda coincide con l’impegno assunto dagli Stati
membri dell’Unione di approvare la clausola di solidarietà di cui
all’art. I-42 del progetto di trattato costituzionale (ora art. I-43
TCUE).28
Dopo l’operazione Enduring Freedom in Afghanistan la politica
estera di Washington ha conosciuto una svolta decisiva. La fiducia
assoluta nella potenza statunitense, la fede in un effetto democratico a cascata e la certezza della soluzione militare condussero
l’amministrazione Bush a estendere la reazione iniziale dall’Afghanistan all’Iraq. L’interpretazione globale che questa amministrazione dà della minaccia e la sua prospettiva ideologica nel
rispondervi - ossia la strategia della guerra preventiva da essa avallata e il cambio di regime che intendeva realizzare - crearono
grandi difficoltà con l’Europa quando l’Iraq divenne l’obiettivo
successivo. Senza entrare nei dettagli di questa crisi, va però osservato che il periodo antecedente la guerra vide una delle più profonde crisi della NATO dall’epoca di Suez. Ma il divario non si
limitava alle relazioni transatlantiche. Incise anche profondamente sull’Europa proprio nel momento in cui i delegati degli
Stati membri discutevano il progetto di una nuova costituzione, il
28. L’articolo 42, nella versione
provvisoria, recita: ‘L’Unione e gli
Stati membri agiscono congiuntamente in uno spirito di solidarietà
qualora uno Stato membro sia
oggetto di un attacco terroristico
o sia vittima di una calamità naturale o provocata dall’uomo. L’Unione mobilita tutti gli strumenti
di cui dispone, inclusi i mezzi militari messi a sua disposizione dagli
Stati membri, per: a) prevenire la
minaccia terroristica sul territorio
degli Stati membri; proteggere le
istituzioni democratiche e la popolazione civile da un eventuale
attacco terroristico; prestare assistenza a uno Stato membro sul
suo territorio, su richiesta delle sue
autorità politiche, in caso di attacco terroristico; b) prestare assistenza a uno Stato membro sul
suo territorio, su richiesta delle sue
autorità politiche, in caso di calamità naturale o provocata dall’uomo. Citato in Antonio Missiroli (racc.), ‘From Copenhagen to
Brussels. European defence: core
documents, vol. IV’, Chaillot Paper
67 (Parigi, Istituto di studi per la
sicurezza dell’UE, dicembre
2003), p. 404, e ora incorporato
nell’art. I-43 TCUE.
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cui scopo era portare maggior coerenza negli affari europei, tra cui
la politica estera. Sull’Iraq, la posizione europea diventò trascurabile: se avesse elaborato una definizione propria di ‘violazione
materiale’ della risoluzione 1441 del Consiglio di sicurezza dell’ONU, specificato le condizioni in cui si poteva ricorrere alla forza
e stabilito un calendario preciso per l’azione, l’Unione sarebbe
stata in grado di anticipare gli eventi e rafforzare la sua posizione a
Washington. Invece i ministri degli esteri dell’UE decisero di mettere la questione Iraq formalmente nelle mani dell’ONU, senza
affrontarne gli aspetti strategici coinvolti. Così facendo, di fatto
lasciarono mano libera ai membri europei permanenti del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, Francia e Gran Bretagna,
ossia i due paesi che mostravano i contrasti più forti rispetto agli
Stati Uniti. Non fu quindi una sorpresa che Londra e Parigi decidessero di focalizzarsi sulla legittimità dell’ONU, ignorando il
contesto europeo. Data questa configurazione, l’Unione ebbe un
peso irrilevante nella vicenda. Va tuttavia sottolineata la capacità
dell’UE di risollevarsi dalle divisioni interne, anche in questo caso.
In particolare, dopo l’Iraq l’Unione ha compiuto almeno due
grandi passi avanti.
Il primo è consistito nell’adozione di un piano d’azione
comune che stabiliva una chiara strategia europea contro la proliferazione. Nel giugno 2003 il Consiglio ha fissato i principi di base
contro la proliferazione delle armi di distruzione di massa, riconoscendo l’esigenza di adottare un approccio estensivo e attribuendo
alle misure preventive politiche e diplomatiche (oltre che al ricorso
alle organizzazioni internazionali competenti) il ruolo di ‘prima
linea’ di difesa.29 Al riguardo, l’Unione appoggia l’istituzione di
ulteriori strumenti di verifica internazionali nell’ambito del
sistema dell’AIEA e, se necessario, il ricorso a ispezioni non di routine, il rafforzamento delle politiche di controllo delle esportazioni, e il perseguimento della conclusione di un accordo internazionale sul divieto di produzione di materiale fissile per armi
nucleari. L’Unione ha chiesto un partenariato più forte con gli
Stati Uniti e la Russia. Ma, ancora più importante, riconosce che in
caso di fallimento delle misure politiche e diplomatiche potrebbero risultare necessarie misure coercitive, incluso, in ultima analisi, il ricorso alla forza in conformità con la Carta delle Nazioni
Unite. L’Unione sembra anche disposta ad applicare ai partner
economici norme di condizionalità più rigorose per il nucleare e la
proliferazione delle armi di distruzione di massa. Una dimostra-
29. La dichiarazione aggiungeva
che: ‘In caso di fallimento di tali
misure (ivi compreso il dialogo
politico e la pressione diplomatica), si potrebbero prevedere misure coercitive a norma del capitolo VII della Carta delle Nazioni
Unite e del diritto internazionale
(sanzioni selettive o globali, intercettazioni di spedizioni e, se del
caso, uso della forza). Il Consiglio
di sicurezza delle Nazioni Unite
dovrebbe svolgere al riguardo un
ruolo centrale.’ Citazione da
Antonio Missiroli, op. cit. alla
nota 28, p. 107.
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zione evidente del nuovo impegno dell’Europa nella politica di
non proliferazione prese forma nella sua posizione più decisa sul
programma nucleare iraniano. Resta da vedere, ovviamente, se
l’accordo raggiunto nell’ottobre 2003 porterà dei frutti, ma l’ostentazione di unità tra i ‘Tre Grandi’ era immensamente diversa
dai loro attuali disaccordi sull’Iraq.30 Nel Consiglio europeo del
dicembre 2003, l’Unione ha avallato questo nuovo attivismo in una
strategia globale contro la proliferazione delle armi di distruzione di
massa, riconosciuta come minaccia globale che richiede un approccio globale. L’intenzione dichiarata è di rendere il multilateralismo
più efficace operando attivamente per il carattere universale dei
principali trattati, accordi e strumenti di verifica sul disarmo e la
non proliferazione; promuovere il ruolo del Consiglio di sicurezza
dell’ONU su questi aspetti; rafforzare il sostegno politico, finanziario e tecnico dei regimi di verifica, e anche le politiche per il controllo
delle esportazioni; promuovere la sicurezza di materiali sensibili dal
punto di vista della proliferazione e rafforzare l’individuazione, il
controllo e l’intercettazione dei traffici illegali.
Il secondo passo avanti è consistito nell’adozione del documento di Solana che delinea una vera e propria strategia in materia di sicurezza per l’Europa. La crisi irachena ha dato origine alla
consapevolezza comune tra i responsabili dell’Europa della necessità di una filosofia strategica sulle questioni legate alla sicurezza
internazionale. Uno dei motivi principali alla base delle profonde
divisioni dell’UE sulla questione irachena era stata la mancanza di
una prospettiva strategica. La maggioranza degli Stati membri
aveva invece affrontato la questione con un’ottica politica interna per alcuni, esterna per altri - che aveva condotto ad una
politica puramente reattiva. Si riconobbe anche a livello generale
che un’Europa divisa è impotente. Al contempo un’Europa allargata di 450 milioni di cittadini non può sfuggire ai suoi obblighi e
responsabilità nel mondo. Questa fu la premessa del documento
di Solana, ‘Un’Europa sicura in un mondo migliore’, inizialmente
elaborato per il vertice di Salonicco di giugno, poi avallato dall’Unione — con alcune modifiche — nel dicembre 2003.
30. Su questo punto vedasi Christopher de Bellaigue, ‘Big Deal in
Iran’, The New York Review of Books,
26 febbraio 2004, pp. 30-3; Gary
Milhollin, ‘The Mullahs and the
Bomb’, The New York Times, 23 ottobre 2003, e Steven Everts, ‘The
EU Must Be Tougher And More
Creative On Iran’, CER Bulletin, numero 32, ottobre/novembre
2003.
La strategia europea in materia di sicurezza
Per definizione, un documento strategico è sempre evolutivo. Delinea una visione più che fissare interessi immutabili, traccia un’impostazione più che definire le politiche. Ciò è ancor più vero nel
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contesto di un’organizzazione comprendente 25 Stati indipendenti. Il documento è pertanto storico. Occorre comunque rilevarne varie caratteristiche significative.
In primo luogo, si tratta di un documento elaborato sotto lo
sprone della minaccia, dimensione mai affrontata prima in
quanto tale dall’Unione. Il documento identifica cinque minacce
principali: terrorismo internazionale, proliferazione delle armi di
distruzione di massa, conflitti regionali, Stati falliti e criminalità
organizzata. In un simile contesto l’Unione ha ammesso che la
forma tradizionale di difesa, la barriera territoriale dell’epoca della
guerra fredda, appartiene al passato. La prima linea di difesa si colloca ormai altrove. Se questa analisi può suonare familiare, vista la
strategia di sicurezza nazionale adottata dagli Stati Uniti nel settembre 2002, il messaggio europeo (inviato anche a Washington)
presenta importanti sfumature. Innanzi tutto, l’Europa è in pace e
non in guerra. Anche se la possibilità di un attentato di al Qaeda
contro il territorio dell’Unione viene debitamente sottolineata, il
documento non rappresenta una chiamata alle armi né un appello
alla difesa della/e madrepatria/e. In secondo luogo, se le minacce
sono simili sotto il profilo della sicurezza, non lo è la loro gestione.
Affrontare tali minacce non significa per l’Unione limitarsi alla
forza militare: pur non escludendola, l’Unione intende adottare
un approccio più ampio, combinando i fattori politici con quelli
economici, il civile con il militare. Quanto al terrorismo, l’unica
soluzione efficace deve essere globale. Per contrastare la proliferazione delle armi di distruzione di massa, poi, il rafforzamento dei
sistemi internazionali e la progressiva condizionalità restano gli
strumenti più adeguati. Senza escludere il ricorso alla forza, l’Unione respinge inequivocabilmente una strategia incentrata sull’attacco preventivo. Infine, pur riconoscendo che gli Stati ‘falliti’
o ‘in fallimento’ - l’espressione ‘Stati canaglia’ (rogue States) non fa
parte delle categorie linguistiche dell’UE - costituiscono una fonte
maggiore di instabilità, l’UE caldeggia l’estensione del buon
governo piuttosto che il cambio di regime. Da un’analoga analisi
del panorama successivo all’11 settembre emerge una strategia
più diversificata e completa. In breve, secondo l’Unione il mondo
oggi è sì più pericoloso, ma è anche decisamente più complesso.
In secondo luogo, la strategia si fonda sull’acquis dell’Unione e
sulla sua identità nella politica di sicurezza. La sostengono tre
pilastri (estendere la zona di sicurezza intorno all’Europa, rafforzare l’ordine internazionale, e contrastare le minacce citate) e due
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concetti-chiave: ‘impegno preventivo’ e ‘multilateralismo efficace’. Il primo fa riferimento all’approccio dell’Unione alla stabilità e al consolidamento dello Stato, approccio infinitamente più
completo del metodo militare prediletto da Washington. Comprende la polizia (l’Unione dispone di una riserva di 5000 operatori di polizia che potrebbero essere schierati), funzionari dell’amministrazione civile e della protezione civile, autorità e operatori
del sistema giudiziario incaricati del rafforzamento dello stato di
diritto. L’estensione attuale di questo approccio specifico a paesi
limitrofi come la Moldova, l’Ucraina e la Bielorussia richiede che si
definisca un nuovo partenariato strategico con la Russia, paese
che resta un protagonista indispensabile nella regione (come
dimostrato anche dal conflitto in Kosovo). Il presidente della
Commissione europea, Romano Prodi, ha definito il ruolo di
un’Unione che offre ai suoi vicini ‘tutto tranne le istituzioni’. L’obiettivo è promuovere l’emergere di una ‘cerchia di amici’ intorno
all’Europa orientale e al Mediterraneo, legati da valori condivisi,
mercati e frontiere aperti e una più stretta cooperazione in settori
quali ricerca, trasporti, energia, prevenzione dei conflitti e rispetto
della legge.31 Questa strategia di ‘impegno preventivo’ racchiude
lo stile europeo di affrontare l’instabilità, stile del quale fanno
parte il rapido spiegamento di truppe, l’assistenza umanitaria, le
operazioni di polizia, il rafforzamento dello stato di diritto e gli
aiuti economici. In questo risiedono il valore aggiunto dell’Unione e il suo know-how specifico, assente invece dall’arsenale americano nel quale, come disse Condoleezza Rice, i soldati
dell’82esima aviotrasportata non hanno il compito di accompagnare i bambini a scuola. Le truppe europee lo fanno: nella debolezza degli Stati Uniti sta la forza dell’Europa.
Il secondo concetto, ossia il ‘multilateralismo efficace’, incorpora l’essenza stessa della cultura di sicurezza dell’Unione, fondata sul diritto. La strategia europea in materia di sicurezza sottolinea che ‘il quadro fondamentale in cui si collocano le relazioni
internazionali è la Carta delle Nazioni Unite. Rafforzare le
Nazioni Unite e dotarle dei mezzi necessari perché esse assolvano
alle loro responsabilità e agiscano con efficacia rappresenta una
priorità dell’Europa.’ Poiché ha sofferto più di ogni altro continente dei tentativi di dominazione di un protagonista sugli altri,
l’Unione è affezionata al nucleo stesso dei valori fondamentali
della Carta delle Nazioni Unite, che si fondano sulla sovranità dei
suoi membri e la legittimità dell’azione collettiva. Poiché il senso
31. Cfr. ‘Europa ampliata — Prossimità: Un nuovo contesto per le
relazioni con i nostri vicini orientali e meridionali’, comunicazione
della Commissione COM(2003),
104 final, Bruxelles, 11 marzo
2003.
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ultimo delle norme e delle regole internazionali risiede nella definizione di ciò che è o non è permesso sulla scena internazionale,
l’Unione ribadisce, e ne fa una questione di principio, che il Consiglio di sicurezza dell’ONU deve restare il foro preposto a legittimare l’uso della forza. Ma riconosce anche che le regole vanno
applicate: ‘Noi desideriamo che le organizzazioni, i meccanismi e i
trattati internazionali siano in grado di far fronte alle minacce che
incombono sulla pace e la sicurezza internazionali e dobbiamo
quindi essere pronti ad entrare in azione quando le norme da essi
sancite sono infrante.’ La capacità di ‘far fronte’ implica che, in
situazioni di emergenza, l’immediatezza dell’azione non sempre è
compatibile con un’applicazione formale del diritto internazionale pubblico. Il precedente del Kosovo e la guerra ‘preventiva’ in
Iraq sono i taciti riferimenti a ciò che è permesso e ciò che non lo è.
Chiaramente, l’immagine associata a Venere di un’Europa kantiana ha ceduto il passo a una concezione più realistica degli interessi dell’Unione in termini di sicurezza. Entrambi i concetti,
impegno ‘preventivo’ e multilateralismo ‘efficace’, sono per loro
stessa natura evasivi e assumeranno un significato più preciso solo
in situazioni concrete. Ciononostante rappresentano un discostamento significativo da un’Unione attore soltanto civile: l’uso della
forza, foss’anche quale ultima risorsa, è giustificato in specifiche
circostanze. Questo messaggio, ossia di un ‘potere di persuasione
rinforzato’, dovrebbe essere accolto con favore da Washington.32
Conclusioni
Condividere responsabilità a un livello più globale, rendere il multilateralismo più efficace, e assumersi un impegno preventivo: tre
obiettivi ambiziosi che resteranno disattesi se persisterà l’attuale
divario tra fini e mezzi. Essi necessitano di forze rapidamente schierabili e sostenibili, e richiedono un uso più efficace e coerente degli
strumenti dell’Unione. La credibilità della strategia europea si fonderà in ultima istanza sulla sua capacità di soddisfare queste ambizioni.
Per citare il titolo del resoconto di Escott Reid sulla nascita dell’Alleanza Atlantica,33 ‘timore e speranza’ sono da sempre intimamente associati nella politica europea in materia di sicurezza e di
difesa. Dopo il 2003, però, la retorica si è ovviamente acquietata
cedendo il passo a un nuovo pragmatismo che consente maggior
ottimismo. La difesa è ora uno dei settori più promettenti di
32. Su questo aspetto, vedasi
Jean-Yves Haine, ‘The EU Soft Power: Not Hard Enough?’, Georgetown Journal of International Affairs,
vol. V, n. 1, inverno 2003/primavera 2004, pp. 69-77 e François
Heisbourg, ‘EU Security Strategy
is not a strategy’, in A European Way
of War (London: Centre for European Reform, 2004).
33. Escott Reid, Time of Fear and
Hope, The Making of the North Atlantic Treaty, 1947-1949 (Toronto:
McClelland and Stewart, 1977).
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cooperazione fra europei.
In un futuro prossimo è presumibile un aumento delle operazioni PESD in due diversi teatri. Il primo, i Balcani, è dettato dalla
necessità. La sfida immediata al riguardo sarà il passaggio di consegne nell’operazione NATO in Bosnia. Se la tragedia di Sarajevo è
stata il motore principale della PESD, la ricostruzione pacifica del
paese ne attesterà la credibilità. Il secondo teatro è frutto invece di
una scelta. Alla luce del successo dell’operazione Artemis è probabile che l’Unione diventi un protagonista più responsabile e autonomo in Africa, ma anche in altre parti del mondo. Un raggio di
azione più ampio per la PESD sarà anche un segno tangibile della
sua maturità.
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PESD: i primi
cinque anni
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Deve esserci stata una ragione per l’apparizione relativamente tardiva della politica europea di sicurezza e di difesa (PESD) sullo
schermo radar dell’Unione. In effetti, dopo il fallimento della
Comunità europea di difesa all’inizio degli anni ’50, per molto
tempo l’opzione ‘difesa’ è scomparsa dal programma dell’integrazione europea. Mentre i sei membri fondatori decidevano di
seguire un percorso differente, vale a dire il mercato comune e la
CEE, la NATO è diventata il principale attore e garante in materia
di politica di sicurezza e difesa, con l’Unione dell’Europa Occidentale (UEO) collocata in un ruolo marginale. Questi due ‘contenitori’ separati esistono da decenni, nonostante spostamenti occasionali come il ritiro della Francia dal comando militare integrato
dell’Alleanza nel 1966, l’adesione del Regno Unito alla Comunità
nel 1973 e le successive ondate di allargamenti in entrambe le organizzazioni. Tentativi ricorrenti di rivitalizzare l’UEO si sono scontrati con l’ostacolo politico rappresentato da questa netta e, in definitiva, efficace divisione dei compiti e delle aspettative.
Di conseguenza, alla fine della guerra fredda, gli Stati membri
della neonata Unione europea (UE) avevano ancora opinioni e
visioni molto diverse, e talvolta contrastanti, in materia di ‘difesa’.
Per alcuni di questi, i cosiddetti ‘atlantisti’ guidati dal Regno
Unito, la difesa era esclusivamente di competenza della NATO: in
questo quadro, tuttavia, c’era spazio per un ‘pilastro europeo’ più
forte da costruire in cooperazione, non in competizione, con gli
Stati Uniti. Per altri paesi dell’UE, invece, l’integrazione europea,
soprattutto in quanto solidamente inserita nel progetto di
un’’unione’ politica, doveva includere anche una componente di
difesa: all’interno di questo fronte ‘europeista’, tradizionalmente
guidato dalla Francia, si potevano tuttavia rilevare divergenze
riguardo al grado di autonomia dalla NATO di tale componente.
Infine, dalla metà degli anni ’90, è entrato a far parte dell’Unione
anche un gruppo abbastanza consistente di paesi ‘non alleati’, i
quali concepivano la difesa come una prerogativa puramente
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nazionale, che doveva restare al di fuori di entrambe le organizzazioni.
Questa è stata a lungo la principale linea di divisione tra gli
europei, ed anche la principale ragione della scomparsa della
‘difesa’ dal programma della CE/UE. E tuttavia non è stata la sola.
Un’ulteriore fonte di divergenze è stata, ad esempio, l’effettiva propensione degli Stati membri ad ‘integrare’ la politica estera e di
difesa, cioè ad incorporarla in una struttura sovranazionale/federalista: a tale riguardo la Francia e il Regno Unito si sono trovati
per lungo tempo sulla stessa sponda, all’occorrenza insieme a
paesi ‘non alleati’, nella loro opposizione al voto a maggioranza
qualificata e/o all’attribuzione di un ruolo diretto alla Commissione ed al Parlamento europeo in questo settore.
Analogamente, la Francia e il Regno Unito si trovavano molto
vicine, nella gamma di posizioni assunte dai paesi europei, in termini di disponibilità ad agire militarmente e ad accettare perdite
di vite umane per ragioni non inerenti alla difesa del territorio
nazionale. Questi paesi più ‘estroversi’ (fra cui si potevano annoverare i paesi non alleati nel caso di operazioni dei ‘caschi blu’ sotto
il mandato delle Nazioni Unite) erano tuttavia minoritari rispetto
alla vasta maggioranza di paesi piuttosto ‘introversi’, sebbene il
grado di impegno potenziale variasse in base alla natura di ciascuna crisi ed al luogo in cui insorgeva.
A volte, tali spaccature potevano manifestarsi anche all’interno
dello stesso paese e delle sue strutture politiche e burocratiche. La
maggior parte dei ministeri degli esteri, ad esempio, era ‘socializzata’ nella sfera della CE/EU ed era principalmente integrazionista, mentre la maggior parte dei ministeri della difesa era ‘socializzata’ nella sfera della NATO e era principalmente atlantista. La
Repubblica federale di Germania, l’Italia e in misura minore i Paesi
Bassi possono essere considerati esempi tipici: e gli orientamenti
generali della loro politica estera riflettevano appunto la volontà
di conciliare queste due culture distinte senza opporle l’una all’altra. Di conseguenza, i due ‘contenitori’ dovevano rimanere separati.
Un’altra importante divisione riguarda i paesi ‘con’ e quelli
‘senza’. Quelli che sono potenze nucleari (Francia e Regno Unito)
e quelli che non lo sono. Quelli che sono membri permanenti del
Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite (di nuovo Francia e
Regno Unito), con l’influenza che questo comporta nella gestione
delle questioni strategiche, e quelli che non lo sono. Quelli dotati
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di un’importante industria nazionale della difesa (essenzialmente
i paesi più grandi e la Svezia) e quelli che ne sono privi e, pertanto,
dipendono dalle importazioni dall’estero per gli approvvigionamenti in materia di difesa.
Nel tempo, queste divergenze interne hanno creato approcci e
interessi differenti, che hanno a lungo impedito di superare la
separazione tra questi due ‘contenitori’. Hanno parimenti
influenzato la nascita istituzionale e i primi passi concreti della
politica estera e di sicurezza comune (PESC) nei primi anni ‘90, e
condizionato l’avvio della PESD alla fine del decennio. In larga
misura, la stessa linea di divisione si è formata nella maggior parte
dei paesi che hanno aderito di recente sia all’Unione che all’Alleanza. I due ‘contenitori’, in altre parole, sono ancora in vita e
attivi in Europa centrale e orientale. Tuttavia la loro separazione
sembra ora molto meno rigida e, specialmente negli Stati membri
di più antica data, ha prodotto una certa convergenza su obiettivi
politici comuni ed una sensibile diminuzione delle divergenze
strategiche, di cui la PESD è al tempo stesso causa ed effetto.
Le differenze, comunque, esistono ancora e ne influenzano il
campo di applicazione e il modus operandi. La PESD è una politica
puramente intergovernativa basata sul consenso: è necessaria l’unanimità, non ci sono margini di nessun tipo per il voto a maggioranza qualificata, gli Stati membri non possono essere messi in
minoranza né costretti a schierare le proprie forze o a finanziare le
operazioni contro la loro volontà. Se non c’è consenso, non c’è
politica comune. Se nessuno Stato vuole contribuire con mezzi e
capacità, né si offre di farlo, non c’è nessuna operazione comune.
Restrizioni particolari si applicano in tutti i settori collegati, e l’unica forma di flessibilità - per difetto, per così dire - consiste nella
possibilità di astenersi da una votazione, di non partecipare ad
una operazione e di non finanziarla. Un paese, la Danimarca, ha
persino negoziato ed ottenuto una clausola esplicita di ‘partecipazione’ (piuttosto che di ‘non partecipazione’), tramite la quale è
automaticamente esentato dal partecipare all’attuazione della
PESD a meno che non decida diversamente. Per di più le disposizioni relative alla PESD non sono giuridicamente vincolanti né
sono saldamente ancorate ai trattati esistenti. Non c’è un acquis in
materia. Quasi tutte le risorse necessarie restano sotto il controllo
e l’autorità degli Stati membri. Non c’è ‘integrazione’ militare,
ancor meno che nella NATO, e neanche un Consiglio dei ministri
della difesa. Le decisioni in materia sono prese dai ministri degli
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esteri, mentre la Commissione svolge soltanto un ruolo minore
per quanto riguarda la componente civile della PESD.
Con tali e tanti vincoli, è sorprendente constatare quanti progressi abbia fatto la PESD in soli cinque anni, anche in presenza di
divisioni politiche ricorrenti tra i 15/25. Ma in che cosa consiste
questa politica, e come riesce a funzionare?
PESD, PESC e gestione delle crisi
Dalla sua creazione, nel giugno 1999, l’acronimo PESD comprende
sia una politica particolare che una serie di istituzioni specifiche.
La politica europea in materia di sicurezza e di difesa coincide
essenzialmente con ‘la gestione delle crisi’ come sancito all’articolo 17, paragrafo 2, e all’articolo 25 della versione consolidata del
TUE, al fine anche di superare anche i tranelli semantici e le incomprensioni politiche che il termine ‘difesa comune europea’, derivante dal linguaggio dell’UEO, tendeva a creare. In effetti anche la
PESD includeva originariamente il termine ‘comune’ (PCESD),
ma questo è stato abbandonato in seguito per ragioni analoghe. In
ogni caso la ‘gestione delle crisi’ dell’UE non si limita alla dimensione militare ma include anche una dimensione specificamente
civile. Infatti la PESD, avviata formalmente nel gennaio 2003, si è
tradotta in una serie di operazioni di gestione di crisi che vanno
dall’EUPM in Bosnia-Erzegovina (civile) a Artemis nella Repubblica democratica del Congo (militare), e da Concordia nell’ex
Repubblica jugoslava di Macedonia (militare) a Proxima, che ne
costituisce la prosecuzione civile. Dal canto loro, le operazioni
militari possono essere svolte con o senza il supporto della NATO
(è il caso, rispettivamente, di Concordia e di Artemis) nel quadro
degli accordi ‘Berlin plus’. Infine, quando l’UE assumerà il
comando dalla SFOR guidata dalla NATO in Bosnia-Erzegovina,
condurrà contemporaneamente una operazione militare e civile
nello stesso paese.
LA PESD rimane tuttavia parte integrante della PESC. A sua
volta la PESC è un elemento centrale ma non l’unico dell’‘azione
esterna’ europea, il cui campo di applicazione funzionale e il cui
quadro istituzionale sono più ampi. È anche dotata di un apparato più vasto, che comprende organismi, programmi e strumenti
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appartenenti per la maggior parte al primo ‘pilastro’ dell’UE (dalla
DG Relazioni esterne alla DG commercio estero, e altre agenzie) e
gestiti dalla Commissione europea. Infine, così come l’’azione
esterna’ dell’UE in generale non è limitata ai o dai mezzi e dalle
procedure della PESC, la ‘gestione delle crisi’ dell’UE non è effettuata soltanto tramite gli strumenti PESD. Quando si tratta di
affrontare crisi internazionali concrete, possono essere ugualmente coinvolti altrepolitiche comuni, comprendenti commercio, aiuti, assistenza, trasporti e comunicazioni, misure politiche e
finanziarie (positive e/o negative), le quali non rientrano nella
competenza della PESC/PESD. In altre parole, la suddivisione
delle politiche dell’UE in ‘pilastri’ separati è tuttora valida in termini strettamente istituzionali, ma nella pratica è sempre più
messa in dubbio, o soltanto meno rilevante, sollevando così questioni spinose di coerenza, compatibilità e coordinamento tra
pilastri.
Le principali decisioni politiche riguardo alla PESD sono prese
al più alto livello del Consiglio, che si tratti del Consiglio ‘Affari
generali e relazioni esterne’ dei ministri degli esteri dell’UE o,
quando opportuno e necessario, del Consiglio europeo stesso.
Infatti, le decisioni che comportano misure riguardanti il primo o
persino il terzo ‘pilastro’, di competenza dei ministri delle finanze
(ECOFIN) o dei ministri della giustizia e degli affari interni (GAI)
dell’UE, vengono formalmente concordate e adottate a livello di
Capi di Stato e di Governo. In generale, le decisioni in materia di
gestione delle crisi implicano spesso l’uso di programmi dell’UE
come l’ECHO, nel settore umanitario, e di quelli ora raggruppati
in EuropeAid, senza contare le azioni di natura commerciale (per
es. l’accordo di Cotonou per i paesi ACP, finanziato principalmente attraverso il Fondo europeo di sviluppo). Tuttavia esse possono anche comportare il blocco di beni, l’imposizione di sanzioni, misure specifiche di controllo delle frontiere o di difesa
civile, che richiedono tutte il coinvolgimento di altre formazioni
del Consiglio e, infine, l’avallo del Consiglio europeo. A tutt’oggi,
tuttavia, non vi è ancora alcuna formazione specifica del Consiglio
per i ministri della difesa dell’UE, che possono riunirsi soltanto in
maniera informale, cioè senza prendere decisioni, o congiuntamente al Consiglio ‘Affari generali e relazioni esterne’, che resta il
principale organo decisionale per la PESD (cfr. figura 1).
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NATO
BERLIN
PLUS
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PESC
(secondo pilastro)
DG
RELAZIONI
ESTERNE
(primo pilastro)
ECHO
FES (ACP)
EUROPEAID
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CPS
S
DG
COMMERCIO
ESTERO
(primo pilastro)
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Consiglio
o “Affarii generali
e relazionii esterne””
PESD
D
ECOFIN
ECOFIN N
CGAI
GAII
.. ... .. .
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Come funziona la PESD
Figura 1: Pilastri e politiche dell’UE
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Ciò detto, l’esecuzione dei cosiddetti ‘compiti di Petersberg’
che costituiscono l’essenza della PESD - originariamente formulati in ambito UEO nel giugno 1992 e in seguito incorporati nell’art. 17 TUE ad Amsterdam su proposta di Svezia e Finlandia,1
paesi non alleati - è affidata ad una serie distinta di organi che
sono, per molti aspetti, ‘separabili ma non separati’ dal resto delle
istituzioni dell’UE.
L’Alto Rappresentante
In primo luogo, c’è l’Alto Rappresentante (AR) per la PESC, posizione attualmente occupata da Javier Solana. Inizialmente proposta dalla Francia, questa nuova funzione è stata creata con il trattato di Amsterdam, nel giugno 1997, e sostanzialmente aggiunta a
quella di Segretario generale (SG) del Consiglio già prevista nel
trattato di Maastricht. Fino ad allora l’SG era un alto funzionario
dell’UE che coordinava le varie attività del Segretariato del Consiglio, fornendo assistenza alla presidenza a rotazione dell’Unione
nello svolgimento quotidiano dei lavori. In base al trattato di
Amsterdam, la presidenza è ‘assistita’ dall’SG il quale, inoltre, ‘esercita le funzioni di Alto Rappresentante’ per la PESC (art. 18 (3) del
TUE). Tale assistenza si applica alle ‘questioni rientranti nel campo
della politica estera e di sicurezza comune, in particolare contribuendo alla formulazione, preparazione e attuazione delle decisioni politiche e conducendo all’occorrenza, [...] un dialogo politico con terzi’ (art. 26 TUE).
Tuttavia, tra il giugno 1997 e l’entrata in vigore del trattato
modificato nel maggio 1999, l’intero contesto è cambiato.2. Fino
ad allora, infatti, la descrizione delle mansioni era tale per cui si
riteneva comunemente che un diplomatico di alto livello di uno
degli Stati membri più grandi - un nome citato frequentemente
era, per esempio, quello di Sir (ora Lord) David Hannay - avrebbe
assunto le funzioni dall’SG uscente Jurgen Trumpf. Tuttavia la
piccola rivoluzione generata dalla dichiarazione franco-britannica di Saint-Malo del dicembre 1998 e, con quella, dallo shock
della guerra in Kosovo nella primavera del 1999 (entrambi determinanti per la nascita della PESD), hanno reso questa nomina
immediatamente molto più rilevante dal punto di vista politico.
In questo nuovo contesto, in cui la competenza della PESC si
1. Si veda il contributo di Martin
Ortega alla presente raccolta.
2. Si veda il contributo di Jean-Yves
Haine alla presente raccolta (capitolo 1).
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ampliava con la nascita della PESD e cresceva notevolmente la
richiesta di un ruolo più attivo dell’UE nelle crisi internazionali, il
Consiglio europeo riunito a Colonia ha deciso di associare l’avvio
della nuova politica a una rivalorizzazione esplicita e visibile della
funzione dell’AR. È così che Javier Solana, ex ministro degli esteri
spagnolo e Segretario generale uscente della NATO (il suo mandato giungeva a scadenza nel giro di pochi mesi) è stato nominato
SG/AR per la PESC a partire dall’autunno successivo.
Come sopra indicato, tuttavia, il nuovo trattato non si dilungava troppo sulle funzioni ed attribuzioni dell’SG/AR. Pertanto,
nel bene o nel male, spettava al primo titolare della funzione interpretare e delineare il nuovo ruolo. Il modo in cui Solana ha deciso
di procedere ha decisamente rafforzato il ruolo di ‘AR’ a scapito di
quello di ‘SG’. Per la funzione più spiccatamente burocratica il
Consiglio europeo ha deciso di nominare un vice-SG nella persona
dell’ex Rappresentante permanente francese presso l’UE, Pierre de
Boissieu. Il vertice di Colonia si è pertanto concluso con una nuova
divisione de facto delle due funzioni che il nuovo trattato aveva
appena cercato, almeno in parte, di riunire. Inoltre, Solana è stato
chiamato a conciliare il suo ruolo di AR con quello di Segretario
generale dell’UEO, quest’ultimo su nomina del Consiglio UEO del
novembre 1999. Tale unione di funzioni in una sola persona (o
‘doppio cappello’ interorganizzativo) era intesa a facilitare la parziale integrazione nell’UE di talune istanze e funzioni dell’UEO,
come deciso proprio a Colonia.
L’attività di Solana doveva essere sostenuta dalla creazione di
una cellula di programmazione politica e tempestivo allarme
(CPPTA), prevista in una dichiarazione acclusa al trattato di
Amsterdam. Tuttavia, ancora una volta, il nuovo contesto in cui
l’AR si è trovato ad operare ha comportato una parziale trasformazione dell’originaria CPPTA. La cellula è stata in seguito denominata semplicemente ‘unità politica’ e, a sua volta, ha finito per
assomigliare sempre più ad un gabinetto allargato. In altre parole,
piuttosto che riflettere sul futuro della PESC, l’unità politica composta principalmente di funzionari distaccati dagli Stati
membri - ha finito per occuparsi prevalentemente del quotidiano.
Infine, conformemente al trattato di Amsterdam (art. 18 (5)
TUE), l’AR può nominare un ‘rappresentante speciale con un
mandato per problemi politici specifici’. Di recente Solana si è
avvalso sempre più spesso di questa possibilità, in particolare per
le crisi subregionali. Il mandato di tali ‘rappresentanti speciali’
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tende comunque a variare sensibilmente in termini di durata, portata e risorse. È ovviamente più importante ovunque l’UE gestisca
grandi programmi e eventualmente anche operazioni, come nei
Balcani occidentali. In aree come il Medio Oriente, l’Afghanistan o
il Caucaso meridionale il mandato è, invece, principalmente politico, paragonabile a quello di una sorta di ambasciatore itinerante.
In taluni casi è a rotazione su base annuale, mentre in altri non ha
una scadenza formale.
Nel complesso, tuttavia, è chiaro che a cinque anni dalla creazione il ruolo dell’AR si è notevolmente modificato. Se è rimasto
minimo nei settori in cui non c’è consenso (o c’è addirittura un dissenso manifesto) tra gli Stati membri, in altri ha ampliato il suo
campo di applicazione e la sua visibilità. A titolo di esempio si possono citare il Medio Oriente, in cui Javier Solana è stato prima una
presenza tangibile al tavolo dei negoziati (2000) e poi un membro
accettato del ‘Quartetto’, e i Balcani, ove è riuscito ad agire da
mediatore in un paio di occasioni. L’AR ha parimenti ottenuto un
certo grado di iniziativa autonoma nella elaborazione di politiche
comuni, soprattutto con la strategia europea in materia di sicurezza (2003). Si potrebbe persino sostenere che l’interpretazione
concretadata al ruolo dell’AR dal suo primo titolare ha iniziato ad
erodere le rigide barriere intergovernative originariamente imposte alla sua azione. Infatti, cercando di formulare ed esprimere la
posizione comune dell’UE su talune questioni di politica estera, il
‘Sig. PESC’, come i media hanno finito per chiamarlo, è talvolta
riuscito a dar voce a un’UE che è più di una semplice somma delle
sue parti.
Gli organi della PESD
Parallelamente all’AR, negli anni successivi, sono stati creati altri
organi e posti per far fronte all’aumento del carico di lavoro collegato all’elaborazione e all’attuazione delle politiche che la PESD, in
particolare, ha imposto al Segretariato del Consiglio. Questa
espansione è iniziata quando il Consiglio europeo di Helsinki del
dicembre 1999 ha messo a punto le proposte già delineate a Colonia, decidendo di dare vita a tre nuovi organi: il Comitato politico e
di sicurezza (CPS), il Comitato militare e lo Stato maggiore dell’UE.
Questi nuovi organi sono entrati in funzione, sebbene a titolo
‘provvisorio’, nel marzo 2000.
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Il CPS (in francese l’acronimo, molto usato, è COPS) è composto di rappresentanti nazionali ‘a livello di alti funzionari/ambasciatori’, più un rappresentante della Commissione europea, che è
‘pienamente associata’ ai lavori della PESC. Il CPS ‘controlla la
situazione internazionale nei settori che rientrano nella politica
estera e di sicurezza comune e contribuisce a definire le politiche
formulando pareri per il Consiglio’. Inoltre, sia pure ‘sotto la
responsabilità del Consiglio, esercita il controllo politico e la direzione strategica delle operazioni di gestione delle crisi’. Questa
almeno è la descrizione delle mansioni che figura nel nuovo trattato approvato al Consiglio europeo di Nizza del dicembre 2000
(attualmente all’art. 25 della versione consolidata del TUE,
entrata in vigore nel febbraio 2003). Tuttavia il CPS ha iniziato ad
operare su una base giuridica a pieno titolo già all’inizio del 2001,
a seguito di una semplice decisione del Consiglio. Sostituisce in
larga misura il Comitato politico (COPO), creato dal trattato di
Maastricht (articolo J.15) e composto dai Direttori politici dei
ministeri degli affari esteri degli Stati membri, che si riuniva mensilmente a Bruxelles. Il CPS è invece un organo permanente con
una competenza politica leggermente più ristretta. Svolge un
ruolo importante nella preparazione delle decisioni ma non nel processo decisionale vero e proprio: per le decisioni politiche/strategiche
dipende in effetti dal Consiglio ‘Affari generali e relazioni esterne’,
mentre per gli aspetti amministrativi e finanziari della
PESC/PESD l’istanza principale resta il COREPER. Ciò significa
che ogni Stato membro ha almeno due delegazioni distinte a
livello di ambasciatori presso l’UE, giacché il COREPER, a sua
volta, ha almeno due grandi sottogruppi, con prerogative che non
sono sempre chiaramente distinte.
Il Comitato militare è composto dei Capi di Stato maggiore
della difesa di tutti gli Stati membri dell’UE o, se del caso, dei loro
delegati militari. Offre consulenze tecniche e formula raccomandazioni al CPS, assicurando la direzione militare dello Stato maggiore. Il suo Presidente (il primo a esercitare tale funzione è stato il
generale finlandese Gustav Hägglund, a cui è succeduto l’italiano
Gaetano Mosca Moschini) è eletto su base triennale e partecipa
alle sessioni del Consiglio quando si devono prendere decisioni
con implicazioni in materia di difesa. Una particolarità del Comitato Militare UE è che taluni suoi membri siedono anche nel
Comitato militare della NATO, e pertanto hanno de facto un
‘doppio cappello’. Ciò non vale comunque per tutti i membri del68
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l’Alleanza appartenenti all’UE, mentre i rappresentanti militari di
taluni paesi non alleati sono distaccati anche presso gli organi dell’Alleanza stessa.
Da parte sua lo Stato maggiore (Military Staff in inglese) fornisce consulenza e sostegno in campo militare alla PESD, compresa
la condotta delle operazioni di gestione delle crisi: ciò comporta il
tempestivo allarme, la valutazione della situazione e la pianificazione strategica, nonchè l’identificazione delle forze europee
nazionali e multinazionali per eventuali operazioni. Comprende
attualmente circa 70 ufficiali (per la maggior parte distaccati) ed è
considerato parte del Segretariato del Consiglio. Il suo primo
direttore è stato il generale tedesco Rainer Schuwirth, a cui è di
recente succeduto il francese Jean-Paul Perruche.
Gli organi specificamente militari sono anche chiamati a
cooperare con il Quartiere Generale Supremo delle Potenze
Alleate in Europa (SHAPE) della NATO in base a modalità (‘Berlin
plus’) che erano ancora in corso di negoziato nella fase iniziale
della PESD. È interessante notare altresì che, contrariamente al
CPS, Il Comitato Militare e lo Stato Maggiore UE non figurano nel
trattato di Nizza e pertanto non sono fondati su questo. Ciò è
dovuto principalmente alla riluttanza di taluni Stati membri, specialmente quelli non alleati, a menzionare questi organi nel TUE.
Va detto tuttavia che la PESD ha progredito in primo luogo grazie
a decisioni intergovernative, e che la ‘codificazione’ c’è stata soltanto in seguito (e non sempre). L’unica eccezione è la creazione
del posto di AR, che ha preceduto piuttosto che seguito l’attuazione della PESD.
Infine, è stato creato anche un centro di situazione in seno al
Segretariato del Consiglio per assicurare la funzione di ‘controllo’
assegnata ai nuovi organi politico-militari. Inoltre, la precedente
unità PESC del Segretariato generale del Consiglio si è sviluppata
in una Direzione generale specifica (DG E), ha esteso il suo settore
di competenza anche alle questioni ‘politico-militari’ ed è stata
ristrutturata per integrare nuovi funzionari provenienti dall’UEO, dalla NATO e dei ministeri nazionali con un’esperienza
pertinente. Attualmente la DG E comprende tre grandi sottodirezioni: a) allargamento, sviluppo e affari economici multilaterali;
b) PESC e affari regionali; e c) PESD e operazioni (sia militari che
civili). Più recentemente, è stata creata anche una unità di polizia
ed è stato istituito un Comitato a fini consultivi per gli aspetti
civili della gestione delle crisi. Nel complesso, comunque, poco più
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di 200 persone sono assegnate alla PESC a Bruxelles, numero esiguo se lo si paragona a quello del personale assegnato a questo settore nei ministeri nazionali o nelle DG competenti della Commissione. Un ultimo elemento, anche se non meno importante: due ex
organi dell’UEO, il centro satellitare (CS) con base a Madrid e l’Istituto di studi per la sicurezza con base a Parigi, sono stati inseriti
nelle strutture della PESD come ‘agenzie autonome’ del Consiglio
con un bilancio e uno statuto specifici.
Modalità operative e campo di applicazione
A cinque anni dal suo inizio, la PESD è ancora una politica in via di
elaborazione e un work in progress per quanto riguarda tanto le procedure e le risorse interne quanto gli obiettivi finali. In parte, ciò è
dovuto alla natura stessa di questa politica: le situazioni di crisi non
sono mai identiche l’una all’altra e richiedono, pertanto, un alto
grado di flessibilità e adattabilità. Inoltre, la maggior parte delle
capacità da mobilitare appartiene agli Stati membri: ci vuole una
speciale combinazione di volontà e abilità nel metterle a disposizione dell’Unione, visto soprattutto che niente li obbliga a farlo dal
punto di vista giuridico. In parte, tuttavia, il carattere evolutivo
della PESD è dovuto anche al fatto che è abbastanza recente se paragonata ad altre politiche comuni dell’UE (o della stessa NATO). Va
ricordare che: a) le operazioni dirette dall’UE sono iniziate soltanto
nel gennaio 2003, su scala ridotta e con una durata limitata; b) la
politica dell’UE in materia di formazione e di esercitazioni è, nella
migliore delle ipotesi, solo agli inizi; c) le procedure non sono state
ancora completamente testate; e d) le valutazioni delle esperienze e
lezioni acquisite sono appena iniziate. È pertanto estremamente
difficile redigere uno schema affidabile per l’avvio e la condotta di
una operazione ‘tipo’ della PESD.
Alla luce dell’esperienza limitata acquisita finora, tuttavia, è
possibile affermare che la valutazione iniziale della fattibilità di
una operazione di gestione delle crisi diretta dall’UE è attuata ad
un livello molto informale, ancora più se e quando si tratti di un’operazione esclusivamente militare e si svolga nell’‘area’ della
NATO. In quest’ultimo caso le due organizzazioni conducono
colloqui, a livello politico e militare, per fissare i parametri principali dell’operazione e la eventuale ripartizione dei compiti e delle
responsabilità. Nel caso di un’operazione autonoma dell’UE, è
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probabile che si svolgano analoghi colloqui informali con lo Stato
membro che è pronto ad offrire il suo quartier generale e ad assumere così la funzione di ‘nazione quadro’, mentre la costituzione
della forza propriamente detta (cioè l’identificazione e l’impegno
degli elementi specifici della forza nazionale per il ‘pacchetto’
finale) è svolta in cooperazione con il Comitato Militare e lo Stato
Maggiore UE. Nel caso di un’operazione esclusivamente civile il
metodo è abbastanza simile, solo più centralizzato negli organi
dell’UE e con un ruolo più rilevante della Commissione europea.
In questa fase ‘a monte’, si prevede che l’AR e il CPS intervengano
rispettivamente in qualità di facilitatore (o persino iniziatore) e di
‘camera di compensazione’.
Dopo che la tipologia prevedibile, gli obiettivi desiderati e i
mezzi disponibili dell’operazione sono stati valutati e concordati
(con il supporto burocratico del Segretariato del Consiglio e il
sostegno finanziario e amministrativo del COREPER), il Consiglio ‘Affari generali e relazioni esterne’ elabora e mette a punto una
‘azione comune’. Il sistema di voto per la PESC/PESD è tale per cui
le decisioni sono prese per consenso: ciò significa che si applica la
regola dell’unanimità sebbene, dopo il trattato di Amsterdam, gli
Stati membri abbiano anche la possibilità di astenersi. L’astensione deve essere ‘motivata’ in una dichiarazione formale: lo Stato
membro o gli Stati membri in questione non sono così obbligati
ad applicare la decisione e a finanziarne l’esecuzione, ma soltanto
ad accettare che questa ‘impegna l’Unione’. Questa ‘astensione
motivata’ blocca la decisione soltanto se nel Consiglio il numero
degli Stati membri che la sceglie è superiore ad un terzo dei voti
secondo la ponderazione (art. 23 (1) TUE).
Infine, in un protocollo speciale accluso al trattato di Amsterdam, la Danimarca ha ottenuto, come già sopra riportato, un’esenzione automatica da tutti gli obblighi in materia di difesa. Tale
esenzione non si applica tuttavia alla gestione civile delle crisi e ad
altre decisioni di natura puramente istituzionale o procedurale
(incluse le nomine). L’esenzione della Danimarca è combinata con
il diritto di ‘partecipazione’ se questo Stato dovesse decidere in tal
senso.
Qualunque cosa si possa pensare dell’opportunità del voto a
maggioranza qualificata nel settore più generale della PESC, è
comunque un fatto che, fin dalla firma del trattato di Maastricht,
le decisioni ‘che hanno implicazioni in materia di difesa’ hanno
sempre costituito un settore in cui è necessaria l’unanimità: gli
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Stati membri non possono essere messi in minoranza (ancor
meno essere obbligati ad usare la forza) contro la loro volontà. Pertanto ‘l’astensione motivata’ costituisce verosimilmente il meccanismo più flessibile che possa essere applicato alle decisioni della
PESD, sebbene l’esenzione finanziaria automatica che ne consegue possa aprire la strada ad un comportamento di voto dettato da
puri calcoli di bilancio. Ciò detto, si può anche affermare che l’intera fase informale ‘a monte’ sopra descritta è tale per cui è estremamente improbabile che uno Stato membro decida di bloccare la
decisione in sede di Consiglio ‘Affari generali e relazioni esterne’,
cioè quando l’azione comune è già stata oggetto di tutti i negoziati
preliminari. Questo spiegherebbe in parte perché, finora, non
siano mai stati usati né veti formali né astensioni motivate.
Tuttavia, un aspetto della PESD che la contraddistingue dalla
PESC in generale è che le nuove disposizioni del trattato sulla
‘cooperazione rafforzata’ nell’ambito del secondo pilastro dell’UE, approvate a Nizza ed entrate in vigore nel febbraio 2003, non
si applicano a ‘questioni aventi implicazioni militari o nel settore
della difesa’ (art. 27 B della versione consolidata del TUE). Tale
limitazione è dovuta essenzialmente a riserve dell’ultima ora sulla
portata della ‘cooperazione rafforzata’ in materia di politica di
difesa in generale. Si può o meno ritenere che ciò rappresenti una
restrizione importante alla gestione militare delle crisi. Ma la
verità è che gli attuali orientamenti riguardo alla preparazione e
condotta delle operazioni dirette dall’UE, come spiegato nella
relazione della Presidenza sulla PESD presentata nel dicembre
2000 a Nizza, comportano già disposizioni relativamente flessibili. La fase di realizzazione ‘a valle’, in altri termini, lascia ampio
spazio alle coalizioni di volontari per eseguire missioni a nome
dell’intera UE e sotto il suo ‘controllo strategico’.
In primo luogo, come già accennato, non vi è alcun obbligo di
partecipazione ad operazioni comuni. In secondo luogo, tutti i
paesi partecipanti formano un ‘comitato di contributori’ che
diventa l’organo di riferimento per gli aspetti pratici dell’operazione in corso e comprende, ove opportuno, anche i ‘paesi terzi’
non membri che vi forniscono un ‘notevole’ contributo militare
(quale che sia la natura di tale contributo). Il Consiglio europeo di
Nizza del dicembre 2000 ha approvato disposizioni generali a tal
fine, tra cui procedure di consultazione nella fase preoperativa.
Altre procedure più specifiche riservate, rispettivamente, a Russia,
Canada e Ucraina, sono state approvate nel giugno 2002 dal Con72
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siglio europeo di Siviglia, e prevedono fra l’altro la loro partecipazione su un piede di parità alla ‘gestione quotidiana’ delle operazioni. Vi è anche la possibilità, sia per gli Stati membri che per
quelli non membri, di ritirarsi da una missione o di inserirvisil una
volta conclusa la fase iniziale sul terreno.
Ciascuna operazione, inoltre, dispone di una propria copertura finanziaria garantita da un meccanismo specifico, di norma
incluso nell’azione comune. Le modalità variano a seconda che si
tratti di un’operazione militare o civile. Di fatto, l’art. 28 TUE prevede che, mentre le spese ‘amministrative’ sono a carico del bilancio comune dell’UE, le spese ‘operative’ derivanti da operazioni
militari siano a carico degli Stati membri secondo un criterio di
ripartizione basato sul prodotto nazionale lordo, a meno che il
Consiglio, deliberando all’unanimità, non stabilisca altrimenti. In
pratica, ciò significa che le operazioni civili possono essere finanziate essenzialmente dal bilancio dell’UE (con una certa flessibilità quanto alla linea cui imputare le spese), mentre le operazioni
militari sono finanziate principalmente dai paesi partecipanti,
siano essi membri o non membri, secondo il principio ‘costs lie
where they fall’ (ciascuno si fa carico delle proprie spese), che di
solito applica la NATO. Le indennità giornaliere del personale
nazionale distaccato nel quadro dell’operazione sono normalmente a carico delle singole amministrazioni.3
Tuttavia, l’esperienza acquisita con le prime operazioni dirette
dall’UE nel 2003-2004 e la necessità di adottare norme più conformi alle tradizioni e prassi dell’UE sembrano condurre ad una
revisione parziale di tali disposizioni iniziali. Di conseguenza, è
stato proposto di rafforzare il principio del finanziamento diretto
dell’UE (‘quanto più possibile’) per le operazioni civili di gestione
delle crisi, promuovendo al contempo una migliore ‘ripartizione
degli oneri’ per quelle militari, ad es. attraverso un fondo iniziale
comune destinato al materiale tecnico e regimi di ripartizione dei
costi per i paesi ‘terzi’ partecipanti. Più recentemente è stato delineato un meccanismo ad hoc denominato ‘Athena’ per rispondere
alle esigenze specifiche delle missioni militari.
Durante l’intera fase di realizzazione ‘a valle’, il controllo operativo e la gestione tattica sul campo spettano al capomissione
competente (civile o militare), spesso affiancato da un ‘rappresentante speciale’. Essi devono rispondere all’Alto Rappresentante,
mentre il CPS esercita il ‘controllo strategico’ attraverso la sorveglianza e il feedback politico.
3. Si veda il contributo di Gustav
Lindstrom alla presente raccolta.
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Tuttavia, la gestione UE delle crisi non si limita alla pianificazione e alla condotta delle operazioni sul campo. Né la stessa
PESD, del resto, è intesa soltanto a fronteggiare situazioni critiche
a livello internazionale. La PESD è volta anche ad individuare e
possibilmente a far fronte a carenze di capacità (di qualsiasi tipo)
che possono ripercuotersi negativamente sulla gestione delle crisi,
nonché a promuovere una ‘base industriale e tecnologica di difesa
europea forte e competitiva’, come emerge dalla dichiarazione
franco-britannica di Saint-Malo risalente al 1998, e tutt’ora accettata. È singolare che tale impegno non sia stato incorporato nel
trattato di Nizza e che le sole disposizioni relative all’industria
europea per la difesa ancorate nel trattato rientrino nel primo pilastro (art. 296 TCE) e abbiano vocazione restrittiva. Per di più, tutti
i principali sviluppi politici nel settore hanno avuto luogo finora
al di fuori del quadro istituzionale specifico dell’UE.4 Eppure, la
decisione presa dall’Unione alla fine del 2003 di creare ‘un’Agenzia
nel settore dello sviluppo delle capacità di difesa, della ricerca, dell’acquisizione e degli armamenti’ nell’ambito dell’UE può contribuire a riorganizzare e a riunire sotto la sua egida tutte le azioni e i
programmi pertinenti attualmente in corso.
Infine, la PESD mira anche a definire principi e orientamenti
comuni per politiche che incidono e impegnano (sul piano politico più che giuridico) sia l’UE nel suo insieme che i singoli Stati
membri, all’esterno come all’interno. Ciò si è verificato da ultimo
con la strategia UE contro la proliferazione delle armi di distruzione di massa e la strategia europea in materia di sicurezza,
approvate entrambe dal Consiglio europeo nel dicembre 2003.
I prossimi cinque anni
Se questo è il modo in cui opera la PESD a cinque anni dal suo avvio,
quali saranno le sfide cui verosimilmente sarà confrontata nei cinque anni a venire? Come si è visto, questa politica è ancora in fieri e
soggetta a continui adattamenti e modifiche. È pertanto estremamente azzardato tentare di anticipare la sua evoluzione a medio
termine. Detto ciò, già si profilano all’orizzonte almeno quattro
importanti sfide istituzionali.
La prima riguarda l’allargamento dell’Unione. Con l’adesione
nel 2004 di dieci nuovi partner e forse di altri due o tre entro il
2007-09, tutti gli organi della PESD saranno messi seriamente alla
4. Si veda il contributo di Burkard
Schmitt alla presente raccolta.
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prova. L’aspetto numerico è importante e la gestione di crisi internazionali a 25 e più può rivelarsi un’impresa davvero ardua. Persino la formazione delle decisioni può diventare molto più complessa: non a caso, nel periodo precedente l’attuale allargamento,
il CPS ha deciso di istituire una sorta di sottocomitato informale
composto di delegati, il cosiddetto ‘Gruppo Nikolaidis’, inaugurato all’inizio del 2003 durante la presidenza greca dell’UE sul
modello del Gruppo Antici presso il COREPER. Ad esso compete
la stesura preliminare degli ordini del giorno delle riunioni e l’analisi dei settori di convergenza e/o divergenza fra gli Stati membri.
Inoltre, così come l’opera di ‘socializzazione’ dei nuovi partner è
iniziata ben prima della loro effettiva adesione (ossia, subito dopo
la firma, nell’aprile 2003, dei rispettivi trattati), il conseguimento
di un approccio comune alla definizione delle politiche potrebbe
ancora richiedere tempo e imbattersi in una serie di ostacoli lungo
il cammino.
Questo è tanto più vero se si considera che nell’Unione a 25 esistono differenze in termini di dimensioni, capacità, interessi e percezioni di politica estera. Molto più della stessa PESC - per la quale,
in ultima analisi, efficacia e credibilità dipendono da un consenso
quanto più ampio possibile su decisioni e obiettivi di politica
estera comune - la PESD fa affidamento sulle risorse che gli Stati
membri vogliono e possono destinare e impegnare. È difficile
negare, inoltre, che nel settore sussistono fra i partner dell’UE
importanti squilibri, che non sono ovviamente imputabili all’allargamento, ma ne sono di fatto accentuati. In altri termini, sebbene tutti gli Stati membri siano formalmente uguali in fatto di
rappresentanza e potere decisionale, alcuni sono ‘più uguali’ di
altri in termini di capacità, siano esse militari (forze, equipaggiamento, base industriale), commerciali, civili o diplomatiche, che
possono essere richieste per l’attuazione di una PESD efficace.
Non è solo un problema di estensione geografica, popolazione o
PIL: alcuni Stati membri più grandi potrebbero fare molto di più
considerate le loro dimensioni mentre, in proporzione, altri Stati
più piccoli fanno moltissimo. È chiaro tuttavia che il raggiungimento di un compromesso accettabile e praticabile fra i diritti di
tutti e i mezzi di alcuni è un requisito essenziale per una PESD che
funzioni a 25 e più, specie se gli interessi operativi e strategici sono
destinati a crescere.
Una seconda sfida importante riguarda la coerenza politica e
istituzionale. Anche questo non è un aspetto nuovo. Tuttavia i
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recenti sviluppi politici, in particolare per quanto riguarda la lotta
contro il terrorismo, e il contemporaneo ritardo nell’attuazione di
riforme istituzionali decisive hanno aggravato ulteriormente la
situazione. È probabile, infatti, che nei prossimi anni continuerà
ad applicarsi il ‘duplice’ (o addirittura ‘triplice’) sistema dell’azione esterna dell’Unione, suddiviso com’è fra i vari ‘pilastri’ dell’UE. Questo si verifica sul piano sia orizzontale che verticale, a
livello sia politico che burocratico: Consiglio verso Commissione,
Unione europea verso Stati membri, e talvolta persino all’interno
di ciascuno di essi. Se è vero che la strategia europea in materia di
sicurezza, approvata nel dicembre 2003, ha consentito di raggiungere un’ampia convergenza sugli obiettivi della PESC/PESD (e,
più in generale, dell’‘azione esterna’ dell’UE), la recente inclusione
della lotta contro il terrorismo nel mandato del SG/AR, (a prescindere da quanto ciò sia auspicabile e voluto) accresce indiscutibilmente la complessità e la frammentarietà della ‘gestione delle crisi’
dell’UE, sia internamente che esternamente. Le aspettative e le esigenze sono aumentate e occorre dar loro risposte adeguate. Le istituzioni e i leader dell’UE sono pertanto sollecitati a reagire a questa situazione, trascendendo le attuali disposizioni giuridiche e
realtà politiche o burocratiche.
Una terza sfida importante per la PESD riguarda la sua responsabilità e trasparenza. Spesso trascurato nei dibattiti pubblici, il
tema è nondimeno importante. Rispetto ad altre politiche comuni
dell’UE, la PESD sembra risentire in modo particolare di una
scarsa accountability. Da un lato, i parlamenti nazionali sono investiti da ampie competenze in materia di controllo democratico
della PESD, ma dispongono di mezzi limitati per la supervisione
delle decisioni intergovernative. D’altro lato, il Parlamento europeo dispone di pochi poteri formali in questo settore, ma ha
accesso alle informazioni e conoscenze specialistiche pertinenti,
ed è inoltre competente per l’esame dell’attuazione da parte della
Commissione delle attività riguardanti il settore PESD. Infine,
l’Assemblea dell’UEO - che trova tuttora fondamento nell’omonimo trattato e ha sede a Parigi, dove funge da organo interparlamentare consultivo specializzato in questioni di difesa europea - si
trova ora in un vuoto istituzionale e politico: è effettivamente sede
di discussione su temi connessi alla PESD (e alla NATO), ma è
priva di poteri e assomiglia sempre più a un curioso vestigio
lasciato nel parziale passaggio di consegne dall’UEO all’UE.
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Di conseguenza, la PESD si trova in una sorta di zona grigia
parlamentare che difficilmente può rafforzare la sua più generale
legittimità. Inoltre, la sua trasparenza e accessibilità per i cittadini
dell’UE sono naturalmente limitate dal suo carattere riservato,
specie per quanto attiene alle questioni militari, sfuggendo cosi’ ai
criteri normalmente applicati per valutare altre politiche dell’UE.
Nel corso della Convenzione, il presidente Valery Giscard d’Estaing aveva proposto la creazione di un ‘Congresso’ europeo, da
convocarew almeno una volta all’anno e composto da parlamentari europei e nazionali, una delle cui attribuzioni sarebbe stata
appunto quella di sottoporre a scrutinio (se non proprio a controllo) le politiche comuni a base intergovernativa: ma la proposta, com’è noto, non è stata accettata. Per i prossimi anni tuttavia
si potrebbero, e probabilmente si dovrebbero, prevedere soluzioni
pragmatiche quali, ad esempio, la tenuta regolare di sedute congiunte di rappresentanti parlamentari nazionali e membri del Parlamento europeo – soprattutto ora che a Strasburgo è stata istituzionalizzata una sottoCommissione sicurezza e difesa – e
l’audizione di responsabili PESD nei parlamenti nazionali. Sembra però difficile ovviare del tutto all’attuale divario fra i dibattiti
politici a livello nazionale ed europeo e fra le rispettive competenze
parlamentari, anch’esse molto diverse da paese a paese.
Infine, una sfida particolare per i prossimi cinque anni sarà
rappresentata dal Trattato costituzionale. Paradossalmente, infatti,
la PESD opererà in un contesto giuridico (Nizza) che potrebbe
essere notevolmente modificato dal nuovo trattato. Ovviamente,
tale paradosso non riguarda solo la PESD. A questa però si applicano, alcune delle più importanti novità contenute nel progetto di
trattato costituzionale, che vanno dalla creazione di un ‘ministro
degli affari esteri’ dell’Unione alla clausola di solidarietà contro gli
attacchi terroristici, fino all’attuazione di una ‘cooperazione
strutturata permanente’ in materia di difesa.5 Pertanto, da un lato,
le attuali disposizioni istituzionali possono di fatto essere indebolite o delegittimate dalla contemporanea esistenza virtuale di
nuove disposizioni. D’altro lato, queste devono sottostare ad un
lungo e rischioso processo di ratifica che può, a sua volta, compromettere la loro effettiva entrata in vigore. Sarebbe insomma
opportuno consolidare e attuare alcune riforme già concordate, a
prescindere da quanto potrebbe accadere durante il processo di
ratifica - mentre la PESD rimarrà verosimilmente una politica in
costante evoluzione e adattamento.
5. Si veda l’altro mio contributo
alla presente raccolta.
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Come funziona la PESD
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PESD: i primi
cinque anni
Oltre Petersberg: le missioni
della forza militare dell’UE
Martin Ortega
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Nel corso di cinque, intensi anni l’UE ha progressivamente creato
una dimensione militare. Fino a poco tempo fa, tuttavia, non ci si è
chiesti troppo quali siano le missioni cui è destinata la forza europea. Il processo di creazione di una dimensione militare dell’UE a
partire dal vertice di Colonia del giugno 1999 può essere pertanto
suddiviso in due periodi: la fase della creazione delle capacità (fino
alla metà del 2002), e la successiva definizione delle finalità di tali
capacità militari.
La sequenza logica di queste due fasi potrebbe apparire invertita, ma questo ‘ordine inverso’ è il risultato dell’accordo raggiunto nel 1999 nelle fasi iniziali del processo. Il Regno Unito, uno
dei soggetti chiave di qualsiasi sviluppo militare europeo, ha insistito sulla necessità di seguire un approccio pragmatico e di dedicarsi innanzitutto alla creazione delle capacità. Questa impostazione, accettata dagli altri membri dell’UE, si è poi dimostrata
molto utile, in quanto ha temporaneamente evitato di affrontare
le questioni ‘filosofiche’ sulle missioni e sulle finalità della forza
europea, in particolare quelle relative alla sua ragion d’essere
rispetto alla NATO. Pertanto la finalità della forza europea può
ora essere definita in modo dinamico, tenendo conto delle esigenze passate e recenti, nonché delle eventuali esigenze future. Se
nel 1999 il dibattito su una forza militare europea avesse preso
avvio dalle missioni e dalle finalità, con ogni probabilità si sarebbe
rivelato sterile, o perlomeno molto più arduo.
A partire dal Consiglio europeo di Colonia e fino alla metà del
2002 si è ovviato alla mancanza di una decisione in merito alle
finalità della forza facendo ricorso alla dichiarazione di Petersberg
dell’UEO del giugno 1992, il cui testo era stato inserito nel trattato
sull’Unione europea firmato ad Amsterdam nel 1997. Tutti i
membri dell’UE avevano accolto questa descrizione preliminare
delle missioni della forza dell’UE in quanto basata su una ‘ambiguità costruttiva’, accettabile tanto per i governi ‘atlanticisti’, che
per gli ‘autonomisti pro-europei’ e i non alleati. Dal giugno 2002 i
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seguenti elementi hanno contribuito a una migliore definizione
delle missioni: 1) la dichiarazione sul terrorismo e la PESD del
Consiglio europeo di Siviglia; 2) il dibattito svoltosi in seno alla
Convenzione, che ha introdotto nel progetto di costituzione una
nuova definizione delle missioni; 3) la strategia europea in materia
di sicurezza del dicembre 2003; e 4) varie operazioni dell’UE sul
terreno, che hanno contribuito a meglio comprendere gli aspetti
pratici delle missioni. In mancanza di un trattato costituzionale
europeo, nessun testo giuridico autorevole attualmente in vigore
riporta finora una descrizione formale delle missioni della forza
dell’UE. Tuttavia numerosi elementi aiutano a capire quale potrà
essere.
Missioni durante la fase di creazione delle capacità: i compiti di Petersberg1
Le missioni assegnate alla forza militare dell’UE sono attualmente
descritte all’articolo 17 (2) del TUE. Occorre ricordare che tale articolo costituirà la descrizione giuridica delle missioni fino all’entrata in vigore del futuro trattato costituzionale, al termine del suo
processo di ratifica.
Articolo 17 (2) del trattato sull’Unione Europea
Le questioni cui si riferisce il presente articolo includono le missioni umanitarie e di soccorso, le attività di mantenimento della
pace e le missioni di unità di combattimento nella gestione di crisi,
ivi comprese le missioni tese al ristabilimento della pace.
La parte di testo da ‘umanitarie’ fino a ‘ristabilimento della
pace’ è ripresa dalla dichiarazione di Petersberg dell’UEO del giugno 1992. Nel 1997 i 15 membri dell’UE, nel negoziare il trattato
di Amsterdam, decisero di mantenere la formulazione adottata a
Petersberg dai nove Stati dell’UEO invece di elaborare una nuova
descrizione, essendovi consenso su un testo che consentiva varie
interpretazioni. I tre tipi di missioni contemplate a Petersberg
coprono un’intera gamma di possibili misure militari, dalle più
blande alle più vigorose. Per qualche tempo gli Stati membri dell’UE hanno discusso sull’opportunità di concentrarsi sulla parte
‘inferiore’ o ‘superiore’ della gamma di missioni di Petersberg, ma
l’obiettivo primario di Helsinki ha chiarito che le capacità che l’UE
1. La costruzione di capacità è un
processo costante e continuo,
come dimostrato dal nuovo
obiettivo primario 2010 adottato
nel giugno 2004 dal Consiglio europeo (si veda il capitolo di Burkard Schmitt in questo volume).
Dal Consiglio Europeo di Colonia
del 1999 fino alla metà del 2002,
tuttavia, gli Stati membri hanno
messo l'accento solo sulle capacità da costruire, lasciando da
parte la definizione delle missioni.
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avrebbe dovuto acquisire sarebbero state le ‘capacità adeguate ...
atte a consentirle di affrontare l’insieme dei compiti di Petersberg’.
D’altronde era per tutti evidente che la difesa territoriale era
esclusa da tali compiti.
Dal vertice di Colonia del giugno 1999 fino alla metà del 2002
vari Consigli europei hanno contribuito a delineare la dimensione
militare dell’UE, ma nessuno ha osato andare al di là della descrizione delle missioni contemplate dal testo dell’art. 17. Nei Consigli europei di Helsinki, Feira, Nizza e Laeken i governi degli Stati
membri hanno continuato a pianificare una forza di reazione
rapida per la gestione delle crisi e hanno introdotto le necessarie
modifiche istituzionali (in particolare la creazione del Comitato
politico e di sicurezza e dello Stato maggiore dell’UE) senza
impantanarsi in infiniti dibattiti sulla riforma del trattato.2 Le
conclusioni dei Consigli europei definiscono la natura e la dimensione della forza, stabiliscono il metodo per l’adozione delle decisioni relative al suo impiego ed alla partecipazione degli Stati
membri e di Stati terzi ed assicurano la cooperazione UE-NATO. È
certamente vero che i dettagli tecnici definiti, quali la capacità di
proiezione, la sostenibilità, l’interoperabilità, la flessibilità della
forza ed i suoi requisiti operativi, indicano con buona approssimazione il tipo di forza che l’UE sta istituendo e, di conseguenza, i
tipi di operazioni che sarebbe in grado di eseguire. Per quanto
riguarda l’uso della forza, tuttavia, le varie conclusioni della Presidenza continuano a ripetere la parola chiave ‘Petersberg’ e ne ribadiscono il contenuto definito dall’art. 17 del TUE. Nella Conferenza sull’impegno di capacità tenutasi a Bruxelles il 20 novembre
2000, i 15 hanno deciso di non sviluppare il possibile contenuto
dei compiti di Petersberg, nonostante le richieste formulate dalla
parte militare. All’epoca si riteneva sufficiente prendere in considerazione tre scenari che si rifacevano in ampia misura alle missioni illustrative dell’UEO stabilite dalla NATO nel 1998. In
grandi linee tali missioni riguardavano: 1) l’evacuazione di alcune
centinaia di cittadini europei da un’area di crisi situata molto lontano da Bruxelles; 2) un’operazione di prevenzione dei conflitti in
seguito ad un aumento della tensione alla frontiera fra due Stati;
3) l’imposizione di una zona demilitarizzata per separare due
fazioni in guerra in una regione dell’Europa sudorientale. È evidente che i militari responsabili della pianificazione avevano in
mente i possibili scenari di un’operazione di sostegno della pace
nei Balcani e dell’evacuazione di civili dall’Africa subsahariana.
2. L’unica eccezione è stata l’articolo 25 del TUE che istituisce il
Comitato politico e di sicurezza,
introdotto dal trattato di Nizza
del dicembre 2000.
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Per completare la definizione delle missioni della forza militare
dell’UE nel periodo in questione (dal vertice di Colonia del giugno
1999 fino alla metà del 2002), occorre prendere in considerazione
altri due elementi. Da un lato, i principi dichiarati cui si ispira la
PESC, enumerati dall’art. 11 (1) del trattato, formano la struttura
‘costituzionale’ che qualsiasi operazione militare dell’UE
dovrebbe rispettare. Tra gli obiettivi della PESC, l’art. 11 cita tra
l’altro il ‘mantenimento della pace e il rafforzamento della sicurezza internazionale, conformemente ai principi della Carta delle
Nazioni Unite’, e lo ‘sviluppo e consolidamento della democrazia
e dello Stato di diritto, nonché [il] rispetto dei diritti dell’uomo e
delle libertà fondamentali’. Dall’altro, la natura stessa della PESC
fornisce un’indicazione autorevole del modo in cui si dovrebbe
impiegare la forza dell’UE. In tutti i documenti relativi alla PESD
viene detto chiaramente che la capacità di gestione militare delle
crisi dell’UE dovrebbe fungere da sostegno alla PESC. Quindi l’uso
della forza dell’UE secondo modalità contrarie allo spirito della
PESC in generale, e alla sua attuazione nel caso di una regione particolare, era impensabile. Ad esempio, era impossibile concepire
un’operazione militare che non fosse coerente con i principi del
partenariato euromediterraneo.
Il dibattito sulle missioni militari dell’UE dal 2002
La lotta contro il terrorismo internazionale
Benché gli Stati membri dell’UE non fossero inclini ad aprire un
dibattito sulle finalità della forza militare dell’UE, gli attentati terroristici dell’11 settembre 2001 contro gli Stati Uniti e le loro conseguenze hanno fatto sì che venisse avviato nella prima metà del
2002. In seguito all’azione militare in Afghanistan la presidenza
spagnola ha insistito per introdurre la lotta contro il terrorismo nel
trattato sull’Unione europea, insieme ad altri compiti di Petersberg. Il governo di Madrid era particolarmente sensibile, infatti,
alla collaborazione internazionale nella lotta contro ogni tipo di
terrorismo. Secondo gli spagnoli l’inserimento di questo nuovo
compito sarebbe stato, in particolare per il governo degli Stati
Uniti, un segnale simbolico ma forte della serietà dell’impegno
europeo in tale lotta. Altri Stati membri dell’UE, tuttavia, non
erano persuasi che l’inserimento di questo nuovo compito fosse la
mossa giusta, per ragioni sia pratiche (la forza dell’UE non era
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ancora preparata a dare un utile contributo alla lotta contro il terrorismo), sia giuridiche (all’epoca non era prevista alcuna riforma
del trattato). Si trovò quindi una soluzione intermedia, con l’adozione di una dichiarazione solenne al Consiglio europeo di Siviglia
del giugno 2002. Tale dichiarazione, che citiamo poco oltre, sottolineava la determinazione dell’UE nella lotta contro il terrorismo, e
stabiliva che in tale lotta si sarebbero potuti usare mezzi sia della
PESC che della PESD.
Dichiarazione del Consiglio europeo sul contributo della PESC, compresa la
PESD, alla lotta contro il terrorismo (Siviglia, giugno 2002)
1. Il Consiglio europeo ribadisce che il terrorismo rappresenta
una vera sfida per l’Europa e per il mondo e costituisce una minaccia per la nostra sicurezza e la nostra stabilità. In tale ottica il Consiglio europeo straordinario del 21 settembre 2001 ha deciso di
intensificare l’azione dell’Unione contro il terrorismo mediante
un approccio coordinato e interdisciplinare che abbracci tutte le
politiche dell’Unione, segnatamente sviluppando la politica estera
e di sicurezza comune (PESC) e rendendo operativa la politica
europea in materia di sicurezza e di difesa (PESD).
2. Il Consiglio europeo ha preso atto degli importanti risultati
conseguiti nell’attuazione del piano d’azione per la lotta contro il
terrorismo e ribadisce che quest’ultima resterà un obiettivo prioritario dell’Unione europea e uno dei pilastri fondamentali della sua
politica di relazioni esterne. La solidarietà e la cooperazione internazionale costituiscono strumenti essenziali per combattere tale
flagello. L’Unione continuerà a mantenere il coordinamento più
stretto possibile con gli Stati Uniti e gli altri partner. L’Unione si
adopererà per contribuire ulteriormente agli sforzi internazionali
in questo settore, sia sul piano interno che nelle sue relazioni con i
paesi terzi e le organizzazioni internazionali quali l’ONU, la NATO
e l’OSCE.
3. La politica estera e di sicurezza comune, compresa la politica
europea in materia di sicurezza e di difesa, può svolgere un ruolo
importante nel contrastare tale minaccia alla nostra sicurezza e nel
promuovere la pace e la stabilità. Si sta mettendo in atto una più
stretta cooperazione tra gli Stati membri per tener conto della
situazione internazionale creatasi a seguito degli attentati terroristici dell’11 settembre.
4. Il Consiglio europeo si rallegra dei progressi compiuti dopo
l’11 settembre per quanto concerne l’integrazione della lotta con83
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tro il terrorismo in tutti gli aspetti della politica di relazioni esterne
dell’Unione. La lotta contro il terrorismo richiede un approccio
globale per rafforzare la coalizione internazionale e prevenire e stabilizzare i conflitti regionali.
Tali principi sono stati ribaditi in varie occasioni e, in particolare, dalla dichiarazione del Consiglio europeo del 25 marzo 2004
dopo gli attentati terroristici di Madrid dell’11 marzo 2004. Gli
stessi principi hanno portato all’adozione di una ‘ clausola di solidarietà’ nel progetto di trattato costituzionale, su cui ci soffermeremo in seguito. Tuttavia, se si può trarre una lezione dal dibattito
svoltosi sulle missioni durante la presidenza spagnola, è che è
stato messo esplicitamente in evidenza il carattere obsoleto del
quadro di Petersberg.
Verso una costituzione europea
L’adozione della dichiarazione di Siviglia sul terrorismo nel giugno
2002 non è stata che un piccolo passo nella nuova definizione delle
missioni della forza UE. Solo nei mesi successivi si è dato avvio ad
una profonda riforma del testo di Petersberg, con la discussione di
un progetto di trattato costituzionale nell’ambito della Convenzione europea. La Convenzione ha deciso di creare un gruppo incaricato di trattare le questioni attinenti alla difesa. Tale gruppo ha
iniziato i suoi lavori nel settembre 2002.3
La relazione del gruppo (dicembre 2002) è stata seguita dal
testo finale di un progetto di trattato costituzionale adottato dalla
Convenzione (luglio 2003), che ha portato alla Conferenza intergovernativa (ottobre-dicembre 2003). I testi emersi da tale conferenza contengono quattro questioni importanti per la definizione
delle missioni militari dell’UE: a) una descrizione generale della
PESD; b) una clausola di difesa collettiva; c) una clausola di solidarietà in caso di attentati terroristici; d) l’elenco degli obiettivi e
dei principi della PESC. La versione finale del Trattato – adottato
dal Consiglio Europeo di Bruxelles del 18-19 giugno 2004, dopo
una discreta opera di redazione e mediazione da parte della presidenza irlandese, e firmato ufficialmente a Roma il 29 ottobre
seguente – ha sostanzialmente confermato i testi elaborati dalla
CIG a fine 2003, modificando solo marginalmente la numerazione degli articoli.
3. La Convenzione, la cui prima
sessione plenaria ha avuto luogo il
26 febbraio 2002, ha istituito, fra
l’altro, i gruppi ‘Azione esterna’ e
‘Difesa’. Il mandato del gruppo
‘Difesa’ del 10 settembre 2002
comprendeva il seguente quesito:
‘Quali compiti, oltre a quelli di Petersberg, dovrebbero essere previsti per l’Unione in materia di difesa?’
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a) Innanzitutto, nel progetto di articolo relativo alla PESD figura
una nuova definizione delle missioni della forza militare dell’UE.
Articolo I-40, paragrafo 1 del progetto di trattato costituzionale4
Disposizioni particolari relative alla politica di sicurezza e di difesa comune
‘La politica di sicurezza e di difesa comune costituisce parte integrante della politica estera e di sicurezza comune. Assicura che
l’Unione disponga di una capacità operativa ricorrendo a mezzi
civili e militari. L’Unione può avvalersi di tali mezzi in missioni al
suo esterno per garantire il mantenimento della pace, la prevenzione dei conflitti e il rafforzamento della sicurezza internazionale, conformemente ai principi della Carta delle Nazioni Unite.
L’esecuzione di tali compiti si basa sulle capacità fornite dagli Stati
membri’.
Si può affermare che una siffatta descrizione delle missioni
della forza dell’UE è adeguata per tre ragioni: impiega termini sufficientemente ampi (mantenimento della pace, prevenzione dei
conflitti e rafforzamento della sicurezza internazionale) da comprendere tutte le possibili operazioni; non fa riferimento ad
alcuna zona geografica particolare, e pone l’accento sul rispetto
dei principi della Carta delle Nazioni Unite.
La descrizione generale su riportata – ora all’art. I-41 del Trattato Costituzionale (TCUE)5 – è ulteriormente sviluppata in un
altro articolo che si ispira, migliorandolo, al testo di Petersberg:
Articolo III-210 (ex art. 17 TUE) del progetto di trattato costituzionale [ora
art. III-309 TCUE]
‘Le missioni di cui all’articolo I-40, paragrafo 1 nelle quali l’Unione
può ricorrere a mezzi civili e militari comprendono le azioni congiunte in materia di disarmo, le missioni umanitarie e di soccorso,
le missioni di consulenza e assistenza in materia militare, le missioni di prevenzione dei conflitti e di mantenimento della pace e le
missioni di unità di combattimento per la gestione delle crisi, ivi
comprese le missioni tese al ristabilimento della pace e le operazioni di stabilizzazione al termine dei conflitti. Tutte queste missioni possono contribuire alla lotta contro il terrorismo, anche tramite il sostegno a Stati terzi per combattere il terrorismo sul loro
territorio’.
4. Salvo se altrimenti indicato, nel
presente capitolo tutti gli articoli
del progetto di trattato costituzionale sono tratti dal documento
della Conferenza intergovernativa
CIG 50/03, del 25 novembre
2003, intitolato ‘Progetto di trattato che istituisce una costituzione per l’Europa (previe modifiche redazionali e giuridiche del
gruppo degli esperti giuridici della
CIG)’.
5. La versione finale del TCUE si
può consultare sul sito http://
europa.eu.int/constitution/
index_en.htm.
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b) In secondo luogo, l’introduzione di una clausola di assistenza
militare in caso di attacco o aggressione armati contro gli Stati
membri dell’UE potrebbe comportare in futuro un altro tipo di
missione per la forza dell’UE. La clausola di difesa collettiva è stata
redatta nei termini seguenti all’inizio del dicembre 2003, nelle
ultime fasi della Conferenza intergovernativa:
Articolo I-40 (7) - Cooperazione più stretta in materia di difesa reciproca6
[ora art. I-41 TCUE]
‘Qualora uno Stato membro subisca un’aggressione armata nel
suo territorio, gli altri Stati membri sono tenuti a prestargli aiuto e
assistenza con tutti i mezzi in loro possesso, in conformità delle
disposizioni dell’articolo 51 della Carta delle Nazioni Unite. Ciò
non pregiudica il carattere specifico della politica di sicurezza e di
difesa di taluni Stati membri. Gli impegni e la cooperazione in
questo settore rimangono conformi agli impegni assunti
nell’ambito della NATO, che resta, per gli Stati che ne sono
membri, il fondamento della loro difesa collettiva e l’istanza
di attuazione della stessa’.
Dato l’alto grado di integrazione politica ed economica raggiunto nell’Unione europea, è comprensibile che gli Stati membri
siano pronti, se necessario, a difendere altri membri in caso di
attacco armato contro il loro territorio. Tuttavia, dal testo citato,
non risulta chiaro cosa ci si attenda specificamente dai singoli
Stati in caso di aggressione armata. Né viene indicato il ruolo
(eventuale) della forza militare dell’UE in un simile caso.
6. Il testo è ripreso dal documento
CIG 60/03 ADD 1 del 9 dicembre
2003. Tale formulazione, proposta dalla presidenza italiana all’inizio del dicembre 2003 e accettata in linea di massima dagli altri
membri dell’UE, rappresenta un
discostamento dal precedente testo dell’articolo I-40, paragrafo 7
di cui al documento CIG 50/03
del 25 novembre 2003, che limitava la difesa collettiva agli Stati
membri dell’UE partecipanti ad
una ‘cooperazione strutturata’. Il
testo sopra citato non è stato formalmente adottato e resta da stabilire se sia coerente con il progetto di articolo I-40, paragrafo 2.
c) In terzo luogo il progetto di trattato costituzionale prevede
anche una clausola di solidarietà in caso di attacchi terroristici e di
calamità naturali o provocate dall’uomo:
Articolo I-42: Clausola di solidarietà [ora art. I-43 TCUE]
‘L’Unione e gli Stati membri agiscono congiuntamente in uno spirito di solidarietà qualora uno Stato membro sia oggetto di un
attacco terroristico o sia vittima di una calamità naturale o provocata dall’uomo. L’Unione mobilita tutti gli strumenti di cui dispone, inclusi i mezzi militari messi a sua disposizione dagli Stati
membri, per:
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a) — prevenire la minaccia terroristica sul territorio degli Stati
membri;
— proteggere le istituzioni democratiche e la popolazione
civile da un eventuale attacco terroristico;
— prestare assistenza a uno Stato membro sul suo territorio,
su richiesta delle sue autorità politiche, in caso di attacco terroristico;
b) — prestare assistenza a uno Stato membro sul suo territorio,
su richiesta delle sue autorità politiche, in caso di calamità naturale
o provocata dall’uomo’.
La clausola di solidarietà è il logico epilogo della dichiarazione di
Siviglia sulla lotta contro il terrorismo e la PESD del giugno 2002, in
quanto prevede l’utilizzazione di ‘tutti gli strumenti ..., inclusi i
mezzi militari’. Pertanto in caso di attacchi terroristici o di calamità
naturali o provocate dall’uomo i singoli Stati membri possono prestare la loro assistenza con mezzi militari. Ma, presumibilmente,
anche la forza militare potrebbe essere utilizzata a tal fine.
d) Infine, gli obiettivi e i principi che guidano l’azione esterna dell’Unione, come definiti nel progetto di trattato costituzionale,
informano e al tempo stesso limitano le eventuali missioni militari
dell’UE. L’UE si impegna esplicitamente a rispettare tali principi. È
importante sottolineare il ruolo essenziale dei principi dell’Unione
nella definizione della PESC e della PESD, in quanto le costituzioni
degli Stati-nazione normalmente non stabiliscono un nesso di
questo genere fra i principi internazionali e l’azione esterna. Nell’introdurre gli obiettivi dell’Unione l’articolo I-3 (4) del progetto di
trattato costituzionale (e ora del TCUE) afferma quanto segue:
‘Nelle relazioni con il resto del mondo l’Unione afferma e promuove i suoi valori e interessi. Contribuisce alla pace, alla sicurezza, allo sviluppo sostenibile della Terra, alla solidarietà e al
rispetto reciproco tra i popoli, al commercio libero ed equo, all’eliminazione della povertà e alla tutela dei diritti umani, in particolare dei diritti del bambino, e alla rigorosa osservanza e allo sviluppo del diritto internazionale, in particolare al rispetto dei
principi della Carta delle Nazioni Unite.’ Questa idea è ampiamente sviluppata all’inizio del titolo V dello stesso progetto, in un
articolo che vale la pena di citare per intero.
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Articolo III-193 (ex art. 3 e art. 11 TUE), ora art. III-292 TCUE
‘1. L’azione dell’Unione sulla scena internazionale si fonda sui
principi che ne hanno informato la creazione, lo sviluppo e l’allargamento e che essa si prefigge di promuovere nel resto del mondo:
democrazia, stato di diritto, universalità e indivisibilità dei diritti
dell’uomo e delle libertà fondamentali, rispetto della dignità
umana, principi di uguaglianza e di solidarietà e rispetto dei principi della Carta delle Nazioni Unite e del diritto internazionale.
L’Unione si adopera per sviluppare relazioni e istituire partenariati con i paesi terzi e con le organizzazioni internazionali,
regionali o mondiali, che condividono i principi di cui al primo
comma. Promuove soluzioni multilaterali ai problemi comuni, in
particolare nell’ambito delle Nazioni Unite.
2. L’Unione definisce e attua politiche comuni e azioni e opera
per assicurare un elevato livello di cooperazione in tutti i settori
delle relazioni internazionali al fine di:
a) salvaguardare i suoi valori, i suoi interessi fondamentali, la
sua sicurezza, la sua indipendenza e la sua integrità;
b) consolidare e sostenere la democrazia, lo stato di diritto, i
diritti dell’uomo e i principi del diritto internazionale;
c) preservare la pace, prevenire i conflitti e rafforzare la sicurezza internazionale, conformemente agli obiettivi e ai principi
della Carta delle Nazioni Unite, nonché ai principi dell’Atto finale
di Helsinki e agli obiettivi della Carta di Parigi, compresi quelli relativi alle frontiere esterne;
d) favorire lo sviluppo sostenibile dei paesi in via di sviluppo sul
piano economico, sociale e ambientale, con l’obiettivo primo di eliminare la povertà;
e) incoraggiare l’integrazione di tutti i paesi nell’economia
mondiale, anche attraverso la progressiva abolizione delle restrizioni agli scambi internazionali;
f)
contribuire alla messa a punto di misure internazionali volte
a preservare e migliorare la qualità dell’ambiente e la gestione
sostenibile delle risorse naturali mondiali, al fine di assicurare lo
sviluppo sostenibile;
g) aiutare le popolazioni, i paesi e le regioni colpiti da calamità
naturali o di origine umana;
promuovere un sistema internazionale basato su una cooperazione multilaterale rafforzata e il buon governo mondiale.
3. Nell’elaborazione e attuazione dell’azione esterna nei vari
settori compresi nel presente titolo e delle altre politiche nei loro
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aspetti esterni, l’Unione rispetta i principi e persegue gli obiettivi di
cui ai paragrafi 1 e 2. L’Unione assicura la coerenza tra i vari settori
dell’azione esterna e tra questi e le altre politiche. Il Consiglio e la
Commissione, assistiti dal ministro degli affari esteri dell’Unione,
garantiscono tale coerenza e cooperano a questo fine’.
Strategia europea in materia di sicurezza
Oltre al trattato costituzionale, attualmente in corso di ratifica, la
strategia europea in materia di sicurezza, elaborata da Javier Solana
e approvata dal Consiglio europeo nel dicembre 2003, è un elemento importante per la comprensione delle finalità e delle missioni della forza militare dell’UE. La strategia europea in materia di
sicurezza traccia un quadro strategico completo, che senza dubbio
ispirerà la formulazione di qualsiasi politica estera e di sicurezza
europea negli anni a venire. Pertanto anche le operazioni militari
specifiche, essendo manifestazioni della PESC, si baseranno sulla
visione generale del ruolo dell’UE nel mondo contenuta nella strategia.
Fra i numerosi riferimenti alla possibile utilizzazione delle
capacità militari dell’UE nella strategia europea in materia di sicurezza, si possono segnalare tre aspetti importanti per quanto
riguarda la definizione delle missioni dell’UE. Innanzitutto tale
strategia sottolinea la necessità di reagire rapidamente alle
minacce potenziali e alle sfide:
‘Il nostro concetto tradizionale di autodifesa - fino alla guerra
fredda compresa - si basava sulla minaccia dell’invasione. Dinanzi
alle nuove minacce la prima linea di difesa sarà spesso all’estero. Le
nuove minacce sono dinamiche. I rischi di proliferazione aumentano nel tempo; se incontrollate, le reti terroristiche si faranno
ancor più pericolose. Il fallimento degli Stati e la criminalità organizzata si diffondono se le si trascura, come abbiamo avuto modo
di vedere in Africa occidentale. Tutto ciò implica che dovremmo
essere pronti ad agire prima che una crisi insorga. La prevenzione
dei conflitti e delle minacce non inizia mai troppo presto’.
La strategia suggerisce altresì che le eventuali missioni non
costituiscono un catalogo chiuso. Per essere pronta a reagire alle
nuove contingenze, l’Unione europea deve seguire un’impostazione flessibile:
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‘Nell’aumentare le capacità nei diversi settori, dovremo considerare una più ampia gamma di missioni, che potrebbero prevedere
azioni congiunte in materia di disarmo, il sostegno ai paesi terzi
nella lotta contro il terrorismo e la riforma del settore della
sicurezza, quest’ultima nel contesto più ampio della costruzione
istituzionale’.
In secondo luogo, la strategia europea in materia di sicurezza
ricorda che le operazioni militari dell’UE saranno di norma effettuate in stretta collaborazione con missioni umanitarie e civili.
‘Contrariamente alla minaccia visibile e imponente della guerra
fredda, nessuna delle nuove minacce è di natura puramente militare, né alcuna di esse può essere affrontata con mezzi solamente
militari. Ciascuna di esse richiede invece una combinazione di strumenti. ... Negli Stati falliti possono essere richiesti strumenti militari per ripristinare l’ordine e aiuti umanitari per affrontare la crisi
immediata. I conflitti regionali richiedono soluzioni politiche, ma
nella fase successiva al conflitto possono essere necessari mezzi
militari ed efficaci operazioni di polizia. Gli strumenti economici
servono nella ricostruzione e la gestione civile delle crisi contribuisce al ripristino dei governi civili. L’Unione europea è particolarmente ben attrezzata per far fronte a queste svariate situazioni’.
Più avanti, tuttavia, lo stesso documento prende atto dell’urgente necessità di una maggiore coerenza e un migliore coordinamento tra gli strumenti civili e militari dell’UE.7
In terzo luogo, la strategia europea in materia di difesa prende
atto del fatto che molte missioni della forza dell’UE saranno effettuate in cooperazione con l’alleanza atlantica:
‘Gli accordi permanenti UE-NATO, in particolare gli accordi ‘Berlin Plus’, aumentano la capacità operativa dell’UE e forniscono il
quadro per il partenariato strategico tra le due organizzazioni nella
gestione delle crisi. Ciò rispecchia la nostra determinazione
comune di raccogliere le sfide del nuovo secolo’.
7. Cfr. anche il documento dell’Unità per la prevenzione dei conflitti
e la gestione delle crisi della Commissione europea dal titolo ‘Civilian instruments for EU crisis management’ (Strumenti civili per la
gestione delle crisi da parte dell’UE). Bruxelles, aprile 2003.
Operazioni militari dell’UE
Infine le operazioni militari dell’UE sul terreno sono senza dubbio
un ulteriore elemento che aiuta a comprendere le finalità della
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forza militare dell’UE. Finora l’UE ha avviato e condotto solo un
numero limitato di operazioni militari e di polizia. Essendo nuova
nel settore, l’UE è ancora impegnata nel processo di apprendimento. Tuttavia le operazioni condotte finora costituiscono precedenti importanti, che danno un’idea del tipo di missioni in cui la
forza militare dell’UE potrebbe essere impegnata in futuro.8
Questioni di merito
In questa sezione saranno esaminate varie questioni di merito fondamentali relative alle missioni che la forza militare dell’UE può
intraprendere: ambito geografico, mandato del Consiglio di sicurezza dell’ONU e, infine, casi in cui la forza militare dell’UE
potrebbe essere preferita ad altre opzioni militari.
Per quanto riguarda l’ambito geografico degli eventuali compiti militari dell’UE, stabilire dei limiti sarebbe fuorviante. Benché
presumibilmente la forza dell’UE sarà utilizzata soprattutto nella
regione europea e nelle sue vicinanze, essa potrebbe condurre operazioni anche in qualsiasi altra parte del mondo. Di fatto, l’operazione Artemis si è svolta nella Repubblica democratica del Congo e,
in passato, forze nazionali di mantenimento della pace di Stati
membri dell’UE sono state presenti in paesi quali Timor Est e El
Salvador. La strategia europea in materia di sicurezza afferma che:
‘In un’epoca di globalizzazione, le minacce lontane devono preoccuparci al pari di quelle vicine. Le attività nucleari in Corea del
Nord, i rischi nucleari in Asia meridionale e la proliferazione in
Medio Oriente sono fonte di uguale preoccupazione per l’Europa.
I terroristi e i criminali sono attualmente in grado di agire su scala
mondiale ... Nel frattempo la comunicazione globale accresce in
Europa la sensibilità per i conflitti regionali o le tragedie umanitarie ovunque nel mondo.’
Per quanto riguarda la Carta dell’ONU, l’UE e gli Stati membri
hanno sempre posto l’accento sulla responsabilità primaria del
Consiglio di sicurezza ai fini della mantenimento della pace e della
sicurezza internazionali. In linea di massima per le operazioni
intraprese dalla forza dell’UE è necessario un mandato del Consiglio di sicurezza dell’ONU. Durante le discussioni sulla nuova
definizione delle missioni svoltesi negli ultimi mesi del 2002 e nel
2003 nell’ambito dei lavori per la costituzione, alcuni Stati membri hanno insistito sulla necessità che di un’autorizzazione
8. Si veda, ad esempio, Fernanda
Faria, ‘Crisis management in subSaharan Africa. The role of the
EU’, Occasional Paper n. 51, Istituto
di studi per la sicurezza dell’UE,
Parigi, aprile 2004.
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preventiva del Consiglio di sicurezza dell’ONU prima di qualsiasi
operazione militare dell’UE. Altri membri, pur concordando in
linea di principio, non ritenevano necessaria una subordinazione
esplicita. Tuttavia non si dovrebbe dare un peso eccessivo alla questione del mandato, questione che in pratica è stata ampiamente
risolta durante la crisi del Kosovo. Infatti, benché tutti gli Stati
membri dell’UE considerino necessario disporre di un mandato
dell’ONU per avallare l’uso della forza armata (esclusa l’autodifesa), tutti hanno convenuto che la situazione che regnava nel
1999 in Kosovo giustificava l’intervento militare senza un mandato preventivo, come é stato riconosciuto dal Consiglio europeo
di Berlino il 25 marzo 1999, allorchè tutti gli Stati membri dell’UE
(anche quelli non appartenenti alla NATO) approvarono l’intervento. D’altro canto vari Stati membri hanno effettuato interventi
unilaterali (ad esempio il Regno Unito in Sierra Leone nel 2000)
che sono stati considerati in generale come umanitari e legittimi
pur non essendo stati condotti sotto il mandato del Consiglio di
sicurezza delle Nazioni Unite.
Ciò significa che, oltre alle operazioni autorizzate dal Consiglio di sicurezza dell’ONU, la forza dell’UE potrebbe anche, se
necessario, intraprendere azioni militari senza un mandato del
Consiglio di sicurezza. Ciò, tuttavia, potrebbe verificarsi solo in un
numero limitato di circostanze: gli interventi umanitari (aspetto
sostanziale) saranno possibili solo in caso di accordo di tutti gli
Stati membri (aspetto politico). Ad esempio, nel caso di una catastrofe umanitaria o di un genocidio imminente, l’UE (e eventualmente altri Stati europei) potrebbero agire anche qualora non
fosse possibile ottenere una risoluzione del Consiglio di sicurezza.
In ogni caso, come sottolineato anche nel TCUE, le operazioni
militari dell’UE devono sempre essere condotte conformemente ai
principi della Carta delle Nazioni Unite. Il carattere multilaterale
di qualsiasi decisione dell’UE circa l’uso della forza e il profondo
impegno degli Stati membri dell’UE nei confronti di principi quali
la soluzione pacifica delle controversie, la democrazia e i diritti
dell’uomo garantiscono che la forza dell’UE non sia mai usata in
modo incompatibile con i principi della Carta delle Nazioni
Unite.9
L’UE si è impegnata a lavorare in stretto coordinamento con le
Nazioni Unite per la prevenzione e la soluzione dei conflitti e il
mantenimento della pace, come dimostrano molti esempi concreti di collaborazione sul terreno, nei Balcani, nell’Africa subsa-
9. Cfr. Martin Ortega, ‘Military intervention and the European
Union’, Chaillot Paper n. 45, marzo
2001, Istituto di studi per la sicurezza dell’UEO, Parigi.
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hariana e altrove. Inoltre il 24 settembre 2003 l’UE e l’ONU hanno
firmato una dichiarazione comune sulla cooperazione nella
gestione delle crisi che prevede l’istituzione di ‘un meccanismo
consultivo comune a livello operativo per esplorare i modi e i
mezzi intesi a migliorare la compatibilità e il coordinamento reciproci’ nei settori della pianificazione, formazione, comunicazione
e delle migliori pratiche.
Infine occorre chiedersi in quali circostanze si preferirebbe la
forza europea ad altre opzioni militari. Se si considera che, da un
lato, i singoli Stati membri dell’UE dispongono di forze nazionali
proprie e che, dall’altro, la NATO è un’alleanza riuscita che gode di
una notevole influenza politica e militare, qual è il valore aggiunto
di una forza dell’UE? In altri termini: in quale situazione di crisi gli
Stati membri dell’UE decideranno di utilizzare la forza UE invece
di altre opzioni? È molto difficile dare una risposta univoca a tale
domanda, perché in ogni caso specifico, prima di decidere sull’uso
della forza dell’UE, gli Stati membri dell’UE terranno conto di una
serie di aspetti politici, strategici, economici e giuridici.
Tuttavia la risposta potrebbe dipendere in gran parte dal concetto di legittimità, da un lato, e dall’altro da ragioni di ordine più
squisitamente pratico. In alcune circostanze la forza europea può
essere utile perché la bandiera dell’UE potrebbe conferire una particolare legittimità a una determinata operazione. Potrebbero
inoltre influire considerazioni di ordine pratico: ad esempio,
quando un’operazione congiunta dell’UE è preferibile per motivi
logistici o economici.
In caso di azione militare, gli Stati membri dell’UE hanno quattro alternative (tutte con o senza mandato del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite): azione individuale, coalizione ad hoc,
operazioni UE e operazioni NATO. Se sono in gioco interessi individuali, è probabile una risposta unilaterale. Ad esempio un nuovo
attacco alle isole Falklands/Malvine (e/o una loro nuova occupazione) o al territorio spagnolo in Africa settentrionale (come
avvenne nel luglio 2002 nell’incidente dell’isola Perejil/Leila) non
porterebbe probabilmente ad una risposta militare automatica
europea (o alleata) per una serie di considerazioni giuridiche e
politiche fatte dagli Stati membri dell’UE (e della NATO). Quindi
l’alternativa più probabile sarebbe un’azione individuale. Invece,
in casi in cui è in gioco l’interesse generale, quali le crisi nei Balcani
o in Medio Oriente, si possono avere scenari differenti, a seconda
del grado di consenso sul conflitto in questione e sulla sua possi93
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bile soluzione. Basandosi sulle recenti esperienze, si possono tuttavia avanzare due ipotesi preliminari. Innanzitutto, in caso di disaccordo politico si tende a preferire le coalizioni ad hoc piuttosto
che i meccanismi istituzionali (che si tratti di UE o di NATO). La
guerra in Iraq è un esempio tipico. In secondo luogo, quando prevale il consenso politico, in particolare perché gli Stati Uniti non si
oppongono a una data operazione, la tendenza sarebbe quella di
utilizzare la forza militare dell’UE, come sembra indicare l’operazione Artemis.
Conclusione: la necessità crea l’organo
Per concludere il presente capitolo, possiamo rifarci alla biologia: la
necessità crea l’organo. La crisi del Kosovo ha spinto il Consiglio
europeo riunitosi a Colonia nel giugno 1999 ad adottare e sviluppare l’iniziativa bilaterale di Saint-Malo e a creare una dimensione
militare dell’UE. Dopo gli attentati terroristici dell’11 settembre
2001, la cooperazione transatlantica e intraeuropea nella lotta al
terrorismo è stata rafforzata e un altro passo in tale direzione è
stato compiuto dopo gli attentati del 11 marzo 2004 a Madrid. A
seguito della crisi in Iraq è stata adottata la strategia europea in
materia di sicurezza e si è raggiunto un accordo definitivo sui
comandi militari della forza europea. Nel frattempo, in sede di
Convenzione e di conferenza intergovernativa, sono state introdotte con discrezione una nuova definizione delle missioni della
forza dell’UE ed una clausola di assistenza collettiva in caso di
attacco armato contro il territorio degli Stati membri dell’UE. La
nuova definizione delle missioni della forza dell’UE contenuta nel
trattato costituzionale a) è molto più chiara del testo di Petersberg; b) comprende nuovi compiti, ad esempio la lotta contro al
terrorismo; e c) apre la strada alla difesa collettiva. Se il progetto
attuale sarà adottato, si avrà una conferma del fatto che, negli
ultimi cinque anni, abbiamo assistito ad un sostanziale ampliamento e approfondimento delle missioni militari dell’UE.
Il consenso fra tutti i membri dell’UE ha reso possibili tali sviluppi ed ha inoltre consentito la condotta delle prime operazioni
di polizia e militari dell’UE sul terreno. Si presume che gli Stati
membri abbiano acconsentito sia ad ampliare che ad approfondire la definizione delle missioni nel progetto di trattato costitu-
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zionale perché lo ritenevano necessario. In altre parole, in tutta
l’Europa si sente la diffusa esigenza di una forza militare dell’UE
che sia in grado di intraprendere vari tipi di missioni per promuovere gli interessi dell’UE, migliorare la sicurezza dei singoli Stati
membri e dell’UE nel suo complesso e realizzare gli obiettivi della
PESC.
Così come sono oggi concepite, le missioni della forza dell’UE
non sono state il risultato di un progetto a lungo termine, ma piuttosto il frutto di vari adeguamenti alle esigenze avvertite dagli
Stati membri dell’UE. Lo stesso schema di adeguamento verrà presumibilmente seguito in futuro. Secondo questo ‘approccio darwiniano’, gli Stati membri dell’UE saranno ansiosi di rinforzare la
loro difesa nazionale qualora ritengano che sia la risposta migliore
alle minacce esterne e alle loro esigenze in materia di sicurezza.
Intensificheranno l’alleanza con gli Stati Uniti, a livello bilaterale
o attraverso la NATO, qualora ritengano che sia il modo migliore
per reagire alle minacce ed ai rischi. Saranno pronti a seguire la
strada europea qualora giungano alla conclusione che è questo il
modo migliore per accrescere la loro sicurezza e rispondere alle
sfide di un mondo complesso. Il futuro è aperto ed è difficile stabilire in quale percentuale verrà fatto ricorso alle suddette tre alternative, in quanto le variabili principali restano imprevedibili. Tuttavia è estremamente probabile che in un futuro prossimo gli Stati
membri dell’UE continuino a trovare un notevole valore aggiunto
nell’opzione militare europea in quanto strumento indispensabile per la realizzazione della loro politica estera comune, che si
basa su una concezione del mondo piuttosto omogenea.
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PESD: i primi
cinque anni
Capacità europee —
quante divisioni?
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L’obiettivo primario di Helsinki
Nel corso degli anni ’90 le guerre nei Balcani hanno dimostrato che
la PESC sarebbe stata credibile solo potendo contare sull’eventuale
ricorso alla forza militare. Al tempo stesso l’esperienza della NATO
in Bosnia, e soprattutto in Kosovo, ha mostrato che le forze armate
europee erano mal preparate alle sfide militari del post guerra
fredda: create per proteggere territori nazionali da un’aggressione
militare su vasta scala, non disponevano né della struttura né dell’equipaggiamento adeguati per operazioni di gestione delle crisi
all’estero. Inoltre, la cooperazione con le truppe americane si era
rivelata sempre più difficile. Negli anni ’90 queste truppe, tradizionalmente organizzate come forze di spedizione, hanno iniziato un
profondo processo di trasformazione per divenire sempre più
mobili, agili e flessibili. Tale processo è stato indotto in buona parte
dall’uso crescente di moderne tecnologie dell’informazione e della
comunicazione a fini militari. La rapidità e la portata di questa
‘rivoluzione negli affari militari’, che non ha avuto equivalenti in
Europa, hanno fatto sorgere seri problemi di interoperabilità, indebolendo il legame transatlantico e la capacità dell’Europa di
influire sulle politiche statunitensi.
Di conseguenza, le capacità militari sono state sin dall’inizio al
centro dello sviluppo della PESD. Gli effetti dirompenti della
debolezza militare dell’Europa sull’alleanza transatlantica sono
stati uno dei principali argomenti che hanno portato il Regno
Unito a superare la sua tradizionale riluttanza nei confronti di un
ruolo dell’UE nel settore della difesa. A questa nuova apertura
hanno fatto riscontro, da parte francese, una maggiore flessibilità
rispetto alla NATO ed il riconoscimento che l’idea di una Europepuissance deve essere corroborata dai mezzi necessari all’azione.
Questa convergenza ha portato alla Dichiarazione franco-britannica di Saint-Malo (3-4 dicembre 1998) in cui si affermava che
l’Unione europea ‘deve avere la capacità di condurre azioni in
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modo autonomo, potendo contare su forze militari credibili, sui
mezzi per decidere di farle intervenire e sulla disponibilità a farlo,
al fine di rispondere alle crisi internazionali ... A tale riguardo l’UE
dovrà poter ricorrere a mezzi militari adeguati (capacità europee
preidentificate nell’ambito del pilastro europeo della NATO, o
mezzi europei nazionali o multinazionali al di fuori della struttura della NATO)’.1
‘Il conflitto in Kosovo ha aperto la strada ad una rapida europeizzazione della dichiarazione di Saint-Malo. La presidenza tedesca si è adoperata con successo per trasformare questa iniziativa
bilaterale in una realtà europea.’2 In occasione del Consiglio europeo tenutosi a Colonia nel giugno 1999, tutti gli Stati membri
hanno deciso di fornire all’Unione europea i mezzi e le capacità
necessari perché possa assumere le proprie responsabilità per
quanto riguarda una politica europea comune in materia di sicurezza e di difesa. Per raggiungere tale obiettivo si sono impegnati a
sviluppare ulteriormente capacità militari europee più efficaci - a
partire da quelle già esistenti a livello nazionale, binazionale e
multinazionale - nonché a rafforzare le proprie capacità a tal fine,
a mantenere uno sforzo di difesa sostenuto e a rafforzare le rispettive capacità nei settori dell’informazione, dei trasporti strategici,
del comando e del controllo.3 Al tempo stesso gli Stati membri
hanno limitato la portata della PESD ai cosiddetti ‘compiti di
Petersberg’ (le missioni umanitarie e di soccorso, le attività di
mantenimento della pace e le missioni di unità di combattimento
nella gestione delle crisi, ivi comprese le missioni tese al ristabilimento della pace), confermando che ‘l’Alleanza resta il fondamento della difesa collettiva dei suoi Stati membri.’4
Sei mesi più tardi, nel dicembre 1999, il Consiglio europeo di
Helsinki ha ribadito la propria determinazione a sviluppare una
capacità decisionale autonoma e, ove non sia impegnata la NATO
nel suo complesso, a lanciare e condurre operazioni militari
dirette dall’UE in risposta a crisi internazionali. Per realizzare tale
obiettivo gli Stati membri si sono prefissi il cosiddetto ‘obiettivo
primario di Helsinki’, vale a dire essere in grado, entro il 2003, di
schierare rapidamente e sostenere forze capaci di svolgere l’insieme dei compiti di Petersberg, compresi i più ambiziosi, in operazioni a livello di corpi d’armata (fino a 15 brigate o 50.00060.000 effettivi). Secondo le conclusioni della Presidenza del
Consiglio europeo di Helsinki, gli ‘Stati membri dovranno essere
1. Maartje Rutten (racc.), ‘From
St-Malo to Nice. European defence: core documents’, Chaillot
Paper 47 (Parigi, Istituto di studi
per la sicurezza dell’UEO, maggio
2001), p. 8.
2. Jean-Yves Haine, PESD: una panoramica, disponibile in rete al seguente indirizzo: http://www.isseu.org/esdp/01-jyh.pdf
3. Op. cit. alla nota 1, p. 41.
4. Trattato di Nizza, articolo 17.
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in grado di organizzare uno schieramento completo a questo
livello nell’arco di 60 giorni, e in tale contesto dovranno poter fornire formazioni più ridotte, disposte a mobilitarsi in tempi brevissimi per situazioni di rapido intervento. Gli Stati membri devono
poter sostenere questo schieramento per almeno un anno, il che
richiederà un ulteriore fondo comune di unità schierabili (e di elementi di sostegno) con disponibilità in tempi meno rapidi per
sostituire le forze iniziali.’5 Hanno inoltre deciso di sviluppare
rapidamente obiettivi di capacità collettive nei settori del controllo e del comando, delle informazioni e dei trasporti strategici.
Al tempo stesso, tuttavia, gli Stati membri hanno precisato che
questo processo non avrebbe implicato la creazione di un esercito
europeo. L’obiettivo era, ed è tuttora, ‘unicamente’ la creazione di
una riserva di unità nazionali cui l’UE in linea di principio può fare
ricorso qualora il Consiglio decida all’unanimità di usare la forza
militare in risposta ad una crisi internazionale. La messa a disposizione di tali mezzi in una situazione di crisi concreta richiede poi
un’ulteriore decisione presa caso per caso a livello nazionale. Pertanto l’obiettivo primario non implica la creazione di una ‘forza
dell’UE’ di natura permanente, né costituisce un impegno vincolante in caso di crisi.
Sulla scorta delle decisioni adottate a Colonia e Helsinki, lo sviluppo della PESD è proseguito sotto le presidenze portoghese e
francese: il 19 e 20 giugno 2000 il Consiglio europeo riunito a
Santa Maria da Feira ha incoraggiato i paesi candidati all’adesione
all’UE e i membri europei della NATO non appartenenti all’UE a
contribuire al miglioramento delle capacità europee e alla
gestione militare delle crisi da parte dell’Unione europea.
L’UE ha inoltre iniziato a precisare la relazione tra la PESD e la
NATO. Uno stretto coordinamento fra le due organizzazioni è
importante per motivi politici, ma anche per evitare un’inutile
duplicazione degli sforzi. Per realizzare tale obiettivo gli Stati
membri hanno tentato in particolare di giungere ad accordi sull’uso delle capacità di pianificazione di comando esistenti nell’ambito della NATO, invece di crearne di nuove. Nel dicembre
2002 è stata finalmente conclusa un’intesa sull’accesso ai mezzi
della NATO da parte dell’UE, i cosiddetti accordi ‘Berlin plus’. Il
miglioramento delle capacità militari rappresentava un altro settore di interesse comune: ancor prima del vertice UE di Helsinki, la
NATO aveva lanciato una sua iniziativa sulle capacità di difesa
5. Consiglio europeo di Helsinki,
Conclusioni della presidenza.
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(DCI). Affinché tali processi rimanessero complementari e sinergici, entrambe le organizzazioni hanno convenuto di istituire
adeguati meccanismi di consultazione e di informazione.
A Feira gli Stati membri si sono infine impegnati a rafforzare,
nel quadro della PESD, le capacità civili di gestione delle crisi da
parte dell’Unione, concordando un piano d’azione nei settori
della cooperazione di polizia, dello stato di diritto, dell’amministrazione civile e della protezione civile. Il piano d’azione prevedeva la creazione, entro il 2003, di un pool di 5000 agenti di polizia, 200 giudici, procuratori ed altri esperti e squadre di
valutazione dispiegabili nell’arco di 3-7 ore, nonché di squadre di
intervento comprendenti fino a 2000 effettivi mobilitabili entro
breve tempo e in grado di fornire assistenza agli operatori umanitari nel quadro di operazioni di emergenza.6 Parallelamente gli
Stati membri hanno continuato a precisare l’obiettivo primario
militare. Sotto la direzione della cosiddetta Task Force ‘Obiettivo
primario’, esperti nazionali di pianificazione della difesa hanno
stilato un elenco generale di capacità, trasformando l’obiettivo
politico stabilito a Helsinki in un catalogo di forze e di capacità
specifiche. L’elenco era basato su quattro scenari fondamentali
(separazione delle parti belligeranti con la forza, prevenzione dei
conflitti, aiuto umanitario, evacuazione dei propri cittadini) e
descriveva 144 capacità ripartite in sette categorie.7 Nell’autunno
2000 tale elenco è stato messo a punto e approvato come catalogo
dell’obiettivo primario di Helsinki.
In base a questi risultati gli Stati membri hanno poi specificato
quali mezzi potevano mettere a disposizione della forza prevista
per l’obiettivo primario. Nella Conferenza sull’impegno di capacità tenutasi a Bruxelles il 20 e 21 novembre 2000 si sono impegnati a fornire su base volontaria contributi nazionali corrispondenti alle capacità di reazione rapida identificate come necessarie
per il raggiungimento dell’obiettivo primario. Tali impegni figurano nel cosiddetto catalogo delle forze di Helsinki (cfr. allegato
1). In termini quantitativi i contributi degli Stati membri costituiscono una riserva di oltre 100.000 uomini e circa 400 aerei da combattimento e 100 navi da guerra. Inoltre i paesi candidati all’adesione all’UE si sono impegnati a fornire le forze e le capacità
elencate nel supplemento del catalogo delle forze di Helsinki (cfr.
allegato 2).8
E tuttavia la conferenza sull’impegno di capacità ha rappresentato ‘solo’ la prima fase di un processo, tuttora in corso, mirante al
6. Consiglio europeo di Feira,
Conclusioni della Presidenza.
7. Comando, controllo, comunicazioni e intelligence (C3I), Informazioni, sorveglianza, acquisizione di obiettivi e ricognizione
(ISTAR), schierabilità e mobilità,
impegno efficace, protezione e capacità di sopravvivenza, sostenibilità e logistica, supporto generale.
8. Cfr. dichiarazione della Conferenza sull’impegno di capacità,
op. cit. alla nota 1, doc. 31.
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rafforzamento delle capacità militari. L’analisi del catalogo delle
forze ha confermato che l’Unione avrebbe soddisfatto gli obiettivi
quantitativi di Helsinki, ma che era urgente apportare miglioramenti qualitativi in termini di disponibilità, mobilità, sostenibilità e interoperabilità. Nel Consiglio europeo di Nizza (7-9 dicembre 2000) gli Stati membri hanno pertanto deciso di istituire un
meccanismo di revisione avente i seguenti quattro obiettivi:
Q valutazione e, se necessario, revisione degli obiettivi dell’UE in
termini di capacità;
Q monitoraggio del catalogo delle forze;
Q identificazione ed armonizzazione dei contributi nazionali;
Q revisione quantitativa e qualitativa dei progressi registrati nella
realizzazione degli impegni precedentemente approvati in termini di interoperabilità e disponibilità.9
Le presidenze successive hanno portato avanti questo lavoro. È
stato istituito il cosiddetto ‘meccanismo di sviluppo delle capacità’ per assicurare il processo di revisione, ma anche per definire e
adeguare i potenziali interfaccia con i meccanismi di pianificazione della NATO. È stata approvata una nuova versione del catalogo dell’obiettivo di Helsinki, e gli Stati membri hanno perfezionato i loro contributi al catalogo. Sono stati ulteriormente
precisati i requisiti relativi alle capacità operative strategiche, e
sono state individuate le lacune negli impegni nazionali.
Il piano d’azione europeo sulle capacità
Per quanto riguarda gli impegni nazionali, l’analisi comparativa del catalogo dell’obiettivo primario e del catalogo delle forze
ha messo in luce notevoli carenze - sia pure estremamente diverse
per importanza, natura ed implicazioni operative - e ha individuato possibili modi per porvi rimedio. Fra le 38 carenze in materia di capacità identificate nel cosiddetto catalogo dei progressi
compiuti verso gli obiettivi di Helsinki, 21 sono state giudicate
‘significative’.
Nella prima conferenza sul miglioramento delle capacità,
tenutasi nel novembre 2001, i ministri della difesa dell’UE hanno
concordato il cosiddetto piano d’azione europeo sulle capacità
(PAEC/ECAP) per ovviare a tali carenze.10 A partire dal marzo
2002, 19 gruppi di esperti nazionali hanno elaborato possibili
soluzioni (cfr. allegato 3). I gruppi PAEC/ECAP, riunitisi separata-
9. Cfr. appendice dell’allegato VI
delle conclusioni della presidenza, op. cit. alla nota 1, doc.
32.
10. Vedere l’allegato I della relazione della Presidenza sulla PESD,
in Maartje Rutten (racc.), ‘From
Nice to Laaken. European Defence: core documents, Volume
II’, Chaillot Paper51 (Parigi: Istituto
di studi per la sicurezza dell’Unione europea, aprile 2002),
doc. 19.
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mente, erano composti ciascuno di almeno una ‘nazione guida’, di
partecipanti attivi, e di osservatori. I lavori dei gruppi erano coordinati dalla Task Force ‘Obiettivo primario’, con il concorso dello
Stato maggiore dell’UE.
Il processo dell’ECAP si è basato su quattro principi fondamentali: 1) miglioramento dell’efficacia e dell’efficienza delle iniziative di difesa europea, rafforzando la cooperazione tra gli Stati
membri o gruppi di Stati membri; 2) approccio dal basso (bottom
up) alla cooperazione europea in materia di difesa, basato su impegni nazionali volontari; 3) coordinamento fra gli Stati membri dell’UE nonché con la NATO; 4) sostegno pubblico grazie alla trasparenza e alla visibilità del PAEC/ECAP.
I gruppi dell’PAEC/ECAP hanno presentato le relazioni finali il
1° marzo 2003, proponendo soluzioni per ovviare alle carenze
identificate. Per una delle categorie è sufficiente che gli Stati membri rivedano i rispettivi contributi ed offrano capacità di cui già
dispongono ma che, per differenti ragioni, non sono state offerte
in precedenza. Una seconda categoria, tuttavia, comprende le
carenze riguardanti capacità che non esistono negli inventari
nazionali: tali carenze possono essere sanate solo se gli Stati membri acquisiscono la capacità richiesta. Alcune di queste carenze
possono essere temporaneamente comate ricorrendo a soluzioni a
breve termine quali il leasing o il miglioramento tecnico. Per varie
altre carenze, comprese quelle concernenti le capacità strategiche,
una soluzione a lungo termine richiede progetti di approvvigionamento su vasta scala. Alcuni di questi progetti sono già in corso,
altri devono ancora partire.
Sulla base di questi risultati gli Stati membri hanno avviato la
seconda fase del processo PAEC/ECAP, intesa ad elaborare misure
specifiche per ovviare alle carenze riscontrate. Nella seconda conferenza sulle capacità del 19 maggio 2003 sono stati istituiti
gruppi di progetto incentrati sull’esecuzione di progetti concreti,
comprese soluzioni in materia di acquisizioni o altre soluzioni
quali il leasing, la multinazionalizzazione e le possibilità di specializzazione dei ruoli.11 Nella seguente tabella figurano gli attuali
gruppi di progetto, ognuno dei quali è sotto la direzione di una
‘nazione guida’.
In base all’approccio dal basso seguito dal PAEC/ECAP, spetta
11. Cfr. dichiarazione sulle capacità militari dell’UE, 19 maggio
2003, p. 4.
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Gruppo di progetto
4
Nazione guida
Rifornimento di carburante aria-aria
(AAR)
Spagna
Ricerca e soccorso in zona di
combattimento (CSAR)
Germania
Comando (HQ)
Regno Unito
Protezione nucleare, biologica e
chimica (NBC)
Italia
Forze per operazioni speciali (SOF)
Portogallo
Difesa antimissili balistici di teatro
(TBMD)
Paesi Bassi
Velivoli non pilotati (UAV)
Francia
Trasporto aereo strategico
Germania
Sistemi spaziali
Francia
Interoperabilità per evacuazioni e
operazioni umanitarie
Belgio
Trasporto strategico via mare
Grecia
Supporto sanitario
Paesi Bassi
Elicotteri d’attacco
Italia
Elicotteri da supporto
Italia
ISTAR/sorveglianza terrestre
Regno Unito
agli stessi Stati membri reperire le capacità militari orientando
opportunamente i lavori dei gruppi di progetto. In passato ciò
aveva portato ad una certa mancanza di guida e di coerenza. Nella
riunione del 17 novembre 2003 il Consiglio dell’UE ha pertanto
convenuto sulla necessità di integrare nel processo metodologie
che consentano di definire gli obiettivi, le scadenze e le procedure
per la stesura delle relazioni. Lo Stato Maggiore è stato pertanto
incaricato di elaborare una ‘tabella di marcia’ per seguire i progressi del PAEC/ECAP. La tabella di marcia è intesa a colmare il
divario tra il carattere volontario dei lavori dei gruppi di progetto
e il fine più generale dell’UE, ossia acquisire le capacità militari
necessarie per realizzare l’obiettivo primario. La tabella di marcia
del PAEC/ECAP, corredata dallo schema per il miglioramento
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delle capacità, verrà presentata durante ogni presidenza quale
parte integrante della relazione unica sui progressi.12
La situazione attuale
Nel corso della seconda conferenza sulle capacità militari, tenutasi
a Bruxelles nel maggio 2003, i ministri della difesa hanno affermato che ‘in base alle forze messe a disposizione del catalogo delle
forze di Helsinki 2003, … [l’UE] dispone ora della capacità operativa
per tutta la gamma dei compiti di Petersberg, anche se con limitazioni e restrizioni dovute alle carenze riconosciute. Tali limitazioni
e/o restrizioni si collocano a livello di tempi di spiegamento, ed è
possibile l’insorgere di un rischio elevato quando la portata e l’intensità sono all’apice, in particolare in caso di operazioni concomitanti.’ 13
In altre parole, se diversi passi avanti sono già stati compiuti,
molto resta ancora da fare, in particolare se l’UE vuole soddisfare
l’ambizione di essere in grado di svolgere i compiti di Petersberg
più impegnativi. Le carenze restanti riguardano una serie di settori-chiave.
Q Schierabilità: Pur disponendo complessivamente di circa
1,8 milioni di persone sotto le armi, per le missioni all’estero gli
Stati membri sono in grado di schierarne solo il 10-15 per cento,
essendo le forze costituite principalmente da militari di leva ed
essendo la loro organizzazione ancora incentrata sulla difesa
territoriale (cfr. allegato 4). La necessità di provvedere a una
rotazione delle forze nel corso delle operazioni (1/3 schierate,
1/3 in addestramento, 1/3 a riposo) può creare difficoltà nella
sostenibilità a lungo termine e/o in caso di operazioni ad alta
intensità.
Q Mobilità: L’Europa manca anche dei mezzi necessari a
trasportare le sue truppe e il relativo equipaggiamento in località distanti. Recentemente si sono registrati miglioramenti
specie per quanto riguarda le capacità di trasporto strategico
via mare, e vari Stati membri hanno dato avvio a programmi di
acquisizione intesi a potenziare le rispettive capacità di
trasporto aereo (A400M). A sanare queste lacune potrebbero
contribuire anche opzioni commerciali, come il leasing o il
noleggio di mezzi. Occorreranno però tempo e ulteriori inves-
12. Cfr. relazione della presidenza
sulla PESD del 12 dicembre 2003.
13. Cfr. la dichiarazione sulle capacità militari dell’UE, del 19
maggio 2003, p. 2.
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timenti per acquisire i mezzi di trasporto che un ruolo globale
dell’UE richiederebbe.
Q Sostenibilità: Per mantenere in funzione le truppe schierate
all’estero è necessario il supporto logistico il quale, in funzione
della distanza di schieramento e della sua durata, può costituire una sfida logistica che necessita di un ampio spettro di
capacità, tra cui il trasporto e il supporto sanitario. A queste
difficoltà si aggiunge il fatto che il numero esiguo di forze
schierabili riduce la capacità dell’UE di sostenere operazioni
militari all’estero (vedi sopra).
Q Impegno efficace: Per rendere efficace l’impegno militare,
specie in un ambiente ostile, è necessaria una vasta gamma di
capacità. Si tratta ad esempio di armi a guida di precisione,
guerra elettronica offensiva, soppressione delle difese aeree
nemiche. Anche in questo caso, alle forze europee manca gran
parte di questi mezzi.
Q C4ISR (comando, controllo, comunicazioni, computer, intelligence,
sorveglianza e ricognizione): La nozione di C4ISR comprende una
vasta gamma di capacità-chiave che consentono di condurre
una guerra moderna, e include gli elementi fondamentali della
‘rivoluzione negli affari militari’. Il settore C4ISR presenta
carenze importanti nella maggior parte degli Stati membri:
certe capacità esistono (in alcuni settori e in gradi diversi) a livello nazionale e/o nell’ambito della NATO, ma non collettivamente nel quadro della PESD. Se l’uso di mezzi nazionali può
creare gravi problemi di interoperabilità, il ricorso alle capacità
della NATO può comportare lunghi negoziati politici che rallenterebbero la capacità di reazione dell’UE nella gestione di
una crisi. Pur non dovendo necessariamente copiare il modello
statunitense di guerra basata sulle reti informatiche (network
centric warfare), per aumentare l’efficacia delle rispettive forze
armate e conseguire un livello minimo di interoperabilità con
le forze USA, gli Stati europei dovranno compiere notevoli
sforzi in questo settore, individualmente e collettivamente.
L’elenco delle carenze europee non è esaustivo, ma dà un’idea
delle sfide che gli Stati membri dovranno affrontare se intendono
attenersi a quanto hanno dichiarato. Molti di essi sono ancora alle
prese con il retaggio della guerra fredda. Le riforme sono state
avviate: è ora semplicemente una questione di tempo. Pur esi-
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stendo la volontà politica, la complessità delle sfide rallenta la
velocità del cambiamento.
La ristrutturazione delle forze armate è quasi inevitabilmente
un processo lento e oneroso, dal momento che richiede investimenti finanziari importanti, si pone in controcorrente rispetto a
tradizioni e mentalità profondamente radicate, e potrebbe sollevare seri problemi sociali ed economici. Al contempo, i materiali
militari sono soggetti a cicli di vita e procedure di approvvigionamento estremamente lunghi. Non sorprende quindi che persistano numerose carenze, anche se in alcuni casi i progetti di
approvvigionamento sono stati avviati ben prima dell’inizio del
processo di Helsinki. Fra il momento in cui insorge un’esigenza in
termini di capacità e quello in cui entra in funzione un sistema
d’arma in grado di soddisfarla, ci vogliono in genere anni, se non
addirittura di decenni.
Lo sviluppo di capacità comuni per la PESD è una sfida ancora
più grande. In primo luogo, perché la difesa e la sicurezza sono
state tradizionalmente escluse dal progetto politico europeo: di
conseguenza, l’UE ha dovuto sviluppare in questo settore strutture, procedure e meccanismi propri partendo da zero. In secondo
luogo, perché la PESD funziona su una base puramente intergovernativa, con 25 Stati sovrani che decidono sempre all’unanimità. Con tali premesse, la procedura decisionale è per definizione
complessa, specie nel settore della difesa, in cui gli Stati membri
sono tradizionalmente più restii a rinunciare alle prerogative
nazionali.
Nel valutare il successo dello sviluppo di capacità all’interno
dell’UE occorre dunque tenere presenti tutte queste esigenze.
Vista la difficoltà del compito, sembra corretto affermare che il
bicchiere è mezzo pieno piuttosto che mezzo vuoto: i risultati cui
si è giunti sono notevoli e i tentativi compiuti per migliorare
ancora sono costanti.
La strada da percorrere: verso l’obiettivo primario 2010
Il Consiglio europeo del dicembre 2003 ha segnato la fine del processo iniziato ad Helsinki, anche se ulteriori lavori saranno necessari per realizzare gli obiettivi europei in termini di forza. Nella
stessa occasione, il Consiglio ha adottato la strategia europea in
materia di sicurezza ‘Un’Europa sicura in un mondo migliore’
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destinata a fornire orientamenti per lo sviluppo futuro della PESC
e della PESD. Presi assieme, questi due elementi disegnano i contorni per la preparazione di un nuovo obiettivo primario 2010.
Per gli anni a venire la sfida consisterà nel completamento del
processo di Helsinki e in uno sviluppo delle capacità europee adeguato al contesto strategico illustrato nella strategia. Mentre il
primo obiettivo primario era stato ampiamente informato alla
guerra in Kosovo, il secondo deve tener conto di nuove minacce
non convenzionali. Finora sono stati presi in considerazione principalmente i requisiti quantitativi in termini di capacità, ma in
futuro l’attenzione dovrà spostarsi sugli aspetti qualitativi, in
modo da migliorare la disponibilità, la schierabilità, la sostenibilità e l’interoperabilità delle forze armate europee. Varie iniziative
sono già in corso e puntano nella direzione in cui avverranno gli
sviluppi futuri.
Il concetto di ‘gruppi tattici’
Una delle principali carenze individuate dal processo dell’obiettivo
primario è la mancanza di forze specializzate ad alta mobilità, con
grado elevato di prontezza e in grado di svolgere missioni su un terreno difficile. A seguito di un’iniziativa franco-britannica, nel febbraio 2004 Francia, Germania e Regno Unito hanno presentato il
cosiddetto concetto dei ‘gruppi tattici’ (battlegroups), inteso a
ovviare alla carenza in questione. Due mesi dopo, nell’aprile 2004, i
ministri della difesa dell’UE hanno approvato la proposta, trasformandola in un’iniziativa europea.
Il concetto prevede che i gruppi tattici, composti di 1.500
uomini e relativi elementi di supporto, possano essere schierati in
15 giorni e che siano in grado di condurre operazioni ad alta intensità, sia come forze autonome sia come forze di intervento iniziale
per le operazioni di più ampia portata.
Per poter essere schierabili in 15 giorni, i gruppi tattici
dovranno essere interamente costituiti, equipaggiati e addestrati
per garantire identici tempi di schierabilità, e gli Stati membri che
mettono a disposizione tali gruppi dovranno anche individuare e
accantonare sufficienti mezzi di trasporto strategico. Le forze in
questione saranno concepite specificamente, anche se non esclusivamente, per essere impiegate in risposta ad una richiesta dell’ONU. L’obiettivo consiste nell’istituire 2 o 3 gruppi tattici ad alta
prontezza entro il 2005 e 7-9 gruppi entro il 2007, che costitui107
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ranno un’opzione concreta e determinante per la reazione rapida
dell’UE, specie per operazioni di gestione delle crisi in Stati in
corso di fallimento. I gruppi tattici possono essere formati da una
sola nazione, da una ‘nazione guida’ assieme ad altre (che contribuirebbero con capacità specialistiche), ovvero con una soluzione
multinazionale, in assenza di paesi in grado di costituire da soli un
gruppo tattico completo. In ogni caso, i gruppi dovrebbero
rispondere al criterio dell’efficacia militare, della schierabilità e
della prontezza.
Il concetto dei gruppi tattici, in caso di realizzazione, migliorerebbe la capacità di reazione rapida dell’UE e colmerebbe una delle
più importanti lacune sotto il profilo delle capacità europee. Al
contempo, il riferimento all’ONU e la menzione esplicita di Stati
in corso di fallimento testimoniano dell’influenza che la nuova
strategia europea in materia di sicurezza comincia ad esercitare
sullo sviluppo di capacità dell’UE.
La cellula di pianificazione
I capi di Stato e di governo di Belgio, Francia, Germania e Lussemburgo, riuniti a Bruxelles il 29 aprile 2003, hanno anche proposto la
creazione di un comando militare autonomo incaricato della pianificazione e della condotta di operazioni dell’UE senza il ricorso a
mezzi della NATO. 14 Alcuni Stati membri hanno criticato la proposta considerandola un doppione inutile e politicamente dannoso delle capacità sia nazionali che della NATO cui l’UE potrebbe
ricorrere, almeno in linea di principio, per lo svolgimento di operazioni. Alla fine di novembre dello stesso anno Francia, Germania
e Regno Unito hanno proposto un compromesso, poi ufficialmente avallato dal Consiglio europeo di dicembre. 15
La nuova proposta prevede l’istituzione di una piccola cellula
dell’UE presso lo SHAPE per migliorare la preparazione di operazioni UE che ricorrano ai mezzi della NATO, in base agli accordi
‘Berlin plus’. In parallelo, saranno definiti accordi di collegamento
tra la NATO e lo Stato Maggiore UE affinché sia garantita trasparenza tra Unione e Alleanza. Inoltre, all’interno dello Stato Maggiore UE sarà creata un’altra cellula con componenti sia civili che
militari che servirà a migliorare le sue capacità sotto il profilo del
tempestivo allarme, della valutazione delle situazioni, e della pianificazione strategica.
L’opzione principale per lo svolgimento di operazioni militari
14. Si veda Antonio Missiroli
(racc.), ‘From Copenhagen to
Brussels, European defence: core
documents, Volume IV’, Chaillot
Paper 67 (Parigi, Istituto di studi
per la sicurezza dell’UE, dicembre
2003) doc. 13.
15. Ibidem, doc. 42.
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autonome dell’UE resterà comunque quella dei comandi nazionali, che, a tal fine, potrebbero assumere carattere multinazionale.
In determinate circostanze, tuttavia, il Consiglio potrebbe decidere di ricorrere alle capacità collettive dello Stato Maggiore,
soprattutto qualora si renda necessaria una reazione di ordine sia
civile che militare e non sia stato individuato alcun comando
nazionale disponibile. In tal caso, la cellula civile-militare sarebbe
incaricata di istituire un centro operativo separato, posto sotto
l’autorità del comandante designato per quella particolare operazione.
Resta da vedere il funzionamento pratico di tali disposizioni le
quali, comunque, dimostrano che le questioni dei rapporti con la
NATO e dell’autonomia continuano ad essere politicamente sensibili.
L’Agenzia europea per la difesa (AED)
La creazione di un’agenzia europea per gli armamenti ha figurato
all’ordine del giorno della difesa europea per oltre un decennio. A
metà degli anni novanta furono istituite, al di fuori dell’UE, l’Organizzazione per gli armamenti dell’Europa occidentale (OAEO) e
l’Organizzazione congiunta per la cooperazione in materia di
armamenti (OCCAR), che costituivano i precursori potenziali di
un’agenzia vera e propria. I lavori della Convenzione europea
hanno impresso nuovo slancio al progetto, spostando il dibattito
verso la creazione di un’agenzia nell’ambito dell’UE. Questo passaggio evolutivo è una logica conseguenza dello stretto nesso esistente tra lo sviluppo di capacità, quale parte della PESD, e gli armamenti.
Nel giugno del 2003 il Consiglio europeo di Salonicco ha incaricato ‘gli appropriati organi del Consiglio di avviare le necessarie
azioni per creare, nel corso del 2004, un’agenzia intergovernativa
nel settore dello sviluppo delle capacità di difesa, della ricerca, dell’acquisizione e degli armamenti.’ Appena qualche settimana
dopo il vertice, il Consiglio ha istituito un Gruppo di preparazione
ad hoc incaricato di elaborare un concetto di base per l’organizzazione e i compiti dell’agenzia. A metà novembre il Gruppo ha presentato i risultati dei suoi lavori in una relazione che il Consiglio
Affari generali e relazioni esterne (CAGRE) ha accolto quale base
per i passi successivi. La relazione indicava per l’Agenzia i compiti
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seguenti: a) sviluppare le capacità di difesa nel settore della
gestione delle crisi, b) promuovere e intensificare la cooperazione
europea in materia di armamenti, c) contribuire a individuare e, se
necessario, attuare politiche e misure volte a rafforzare la base
industriale di difesa europea, e d) promuovere, ove opportuno in
collegamento con la Commissione, una ricerca che miri a soddisfare le future esigenze di capacità in termini di difesa e sicurezza.
Nel febbraio 2004 è stata cosi’ istituita una Squadra per la creazione dell’agenzia (AET) con il compito di predisporre le condizioni per la sua istituzione e futuro funzionamento. In particolare,
l’AET si è occupata degli aspetti finanziari, giuridici e amministrativi dell’agenzia e ne ha precisato i compiti. Sulla base della relazione finale dell’AET, il Gruppo dei Consiglieri per le relazioni
estere e il COREPER hanno elaborato una Azione Comune ‘relativa alla creazione dell’Agenzia europea per la difesa (AED)’ che il
CAGRE ha adottato a metà giugno. Ai sensi di tale documento,
l’Agenzia sarà creata con un personale di 25 membri entro la fine
del 2004, per giungere progressivamente nel corso 2005 alla cifra
totale, inizialmente proposta, di circa 80 persone. Comprenderà
una squadra ad alto livello, una sezione per i servizi amministrativi
e quattro direzioni (capacità, ricerca e tecnologia, armamenti, e
industria/mercato della difesa). Nella fase iniziale l’Agenzia fungerà da punto focale di coordinamento per la rete esistente, che
collega gli organismi competenti in materia di armamenti, e
sosterrà il Consiglio nel processo PAEC/ECAP. Una volta completamente operativa, sarà incaricata in particolare dell’integrazione
tra gli aspetti operativi delle capacità e quelli relativi alla loro
acquisizione e sviluppo. A quello stadio, l’Agenzia incorporerà o
assimilerà i principi e le prassi degli elementi pertinenti facenti
capo a intese preesistenti (OCCAR, LoI, Accordo quadro,
GAEO/OAEO).16
Date le consuete divergenze tra gli Stati membri in materia di
armamenti, la creazione dell’Agenzia in meno di due anni rappresenta un risultato davvero notevolissimo. Ci vorrà tuttavia tempo
prima che l’Agenzia diventi operativa e faccia sentire il suo peso.
Ciò nondimeno, i vantaggi che potrebbe apportare allo sviluppo
di capacità europee sono rilevanti: in particolare, può creare un
legame tra la pianificazione militare e il mondo degli armamenti,
segnatamente la ricerca e l’approvvigionamento per la difesa. Questo aspetto assume grande importanza per l’armonizzazione dei
requisiti in termini di capacità, per promuovere la standardizza-
16. Ibidem, doc. 37.
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zione dei materiali, e per tradurre le esigenze comuni di capacità in
progetti comuni di approvvigionamento. Allo stesso tempo, la
creazione dell’Agenzia offre l’opportunità di razionalizzare le istituzioni europee responsabili degli armamenti, trasformando l’attuale moltitudine di organismi e intese in un complesso più
coerente. Si tratta, in sostanza, di un passo avanti significativo
verso uno sviluppo di capacità più efficiente in termini di costi.
Conclusioni
La costituzione dell’Agenzia dimostra che gli Stati membri
saranno in grado di potenziare le rispettive capacità militari solo
migliorando i loro metodi abituali di cooperazione. In questo contesto, fondamentali saranno la multilateralizzazione, la specializzazione dei ruoli, la messa in comune e la cooperazione in materia
di armamenti, soprattutto perché la maggior parte degli Stati
membri continuerà a convivere con forti vincoli di bilancio.
L’insieme dei bilanci per la difesa nell’UE ammonta complessivamente a circa 180 miliardi di euro: l’importo, pur molto inferiore alla corrispondente spesa degli Stati Uniti, resta comunque
ragguardevole. Il problema non è tanto il livello globale di spesa,
quanto il modo in cui gli europei spendono i loro soldi. Il grosso
degli investimenti per la difesa va tuttora al personale e alle infrastrutture, piuttosto che ai nuovi materiali e alla ricerca. Ancora più
grave è la persistente duplicazione degli sforzi tra Stati membri:
nonostante i problemi di bilancio, ciascun paese mantiene le proprie strutture di comando, i propri Stati maggiori, le proprie organizzazioni logistiche, infrastrutture di formazione, agenzie di
approvvigionamento, e cosi’ via. Una situazione simile si giustifica
con difficiltà, dato che la grande maggioranza degli Stati membri
non ha né i mezzi né l’ambizione di avviare operazioni militari
senza i partner. In altre parole, anche nel settore della difesa la
‘sovranità nazionale’ diventa sempre più una chimera. Riconoscerlo e trarne le necessarie conclusioni spianerebbe la strada alla
razionalizzazione delle capacità militari europee – il che permetterebbe a sua volta agli europei di assumersi collettivamente le loro
responsabilità nel mondo.
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Capacità europee – quante divisioni?
Allegato 1: Contributi di forze al Catalogo di Helsinki
(maggio 2002)
Paese
Austria
Belgio
Danimarca
Finlandia
Terrestri
1 mechanised infantry
battalion,
1 light infantry battalion,
1 Nuclear, Biological,
Chemical Defence unit,
1 “humanitarian civilian
assistance package”,
1 Civil-Military
Cooperation (CIMIC)
element,
1 helicopter transport
squadron,
1 transport company,
100 observers/experts.
1 mechanised brigade,
Smaller units
(as part of humanitarian
operation for up to 6
months).
No contribution (opted
out of ESDP at Maastricht
in 1992).
1 mechanised infantry
battalion,
1 engineer battalion,
1 transport company,
1 CIMIC company.
Mechanised, light,
airborne (for a year), and
amphibious brigades
headquarters.
The Eurocorps
headquarters has also been
offered for the force.
Francia
=> Total: 12,000 troops
from a pool of 20,000.
112
Aeree
Navali
24 F-16 fighters,
8 C-130,
2 Airbus transports.
2 frigates,
Mine
countermeasures
(MCM) vessels.
Combined Air Operations
Centre,
75 combat aircraft,
8 air-refuelling aircraft,
3 long-range transports,
24 medium-range
transports,
2 Airborne Warning &
Control System aircraft,
combat search & rescue
(CSAR) helicopters.
1 MCM command
and support ship,
Joint:
15-30
experts/observers.
2 battle groups,
each with one
nuclear attack
submarine (SSN),
4 frigates,
3 support ships,
Maritime patrol
aircraft (1 would
include the nuclear
powered aircraft
carrier Charles de
Gaulle with 22
aircraft aboard).
Mine
countermeasures
vessels.
Joint: Permanent
military operations
headquarters at
Creil if required
(others at
operational and
tactical levels),
Satellite
communications,
Reconnaissance
satellites and
aircraft.
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4
Allegato 1 continua
Germania
Grecia
Irlanda
Italia
Nucleus land component
headquarters,
Armoured, air assault, light
infantry brigade
headquarters,
7 combat battalions.
=> Total: up to 18,000
troops from a pool of
32,000.
1 operational headquarter,
1 mechanised or other
brigade,
1 light infantry battalion,
1 attack and 1 transport
helicopter company.
1 light infantry battalion,
40-strong Army Ranger
Wing Special Forces unit,
Headquarters,
Observer,
Support elements
Nucleus air component
headquarters,
6 combat squadrons with
93 aircraft,
8 surface-to-air missile
(SAM) squadrons,
Air transport, support
elements.
42 fighter aircraft,
4 transport aircraft,
1 Patriot SAM battalion,
1 short-range air defence
(SHORAD) squadron.
=> Total: 850.
1 corps-level headquarters
for six months,
1 division headquarters for
a year,
Airmobile brigade for up to
six months and three other
brigades,
1 railway-engineering
battalion, special forces,
1 CIMIC group,
1 Nuclear, Biological,
Chemical Defence
company.
A Combined Air
Operations Centre (air
component headquarters),
26 Tornado,
AMX combat aircraft,
6 CSAR helicopters,
4 C-130J transport aircraft
(from 2003),
9 tactical transport
aircraft,
2 air refuelling aircraft,
3 maritime patrol aircraft,
2 SHORAD units.
=> Total: 12,500 troops
from a 20,000 pool.
1 reconnaissance company
1 A400M transport aircraft
Maritime
headquarters,
13 combat ships,
support. Joint:
Permanent military
operations
headquarters at
Potsdam if required,
nucleus operational
headquarters.
Escorts,
1 submarine.
A sea- or shorebased maritime
component
headquarters,
1 task group with
one aircraft carrier
(Giuseppe Garibaldi),
1 destroyer,
3 frigates,
4 patrol ships,
1 submarine,
4 MCM ships,
2 amphibious ships,
1 oceanographic
vessel,
8 helicopters.
Lussemburgo
Paesi Bassi
Portogallo
=> Total: 100.
With Germany,
Headquarters I GermanNetherlands Corps,
1 mechanised Brigade,
11th Airmobile Brigade,
1 amphibious battalion.
1 infantry brigade,
including reconnaissance,
armoured, artillery,
engineer, signals, logistics,
military police, and CIMIC
elements,
1 to 2 F-16 fighter
squadrons, transport
aircraft, SAM squadrons.
Squadron with 12 F-16,
4 C-130 transports,
12 C212 tactical
transports, 3 maritime
patrol aircraft,
4 tactical air control
Air defence and
command frigates,
Multipurpose
frigates, Landing
platform dock
Rotterdam.
1 frigate,
1 submarine,
1 survey ship,
1 support ship.
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Capacità europee – quante divisioni?
Allegato 1 continua
Spagna
Svezia
Regno Unito
Division headquarters to
coordinate humanitarian
operations and a brigade
HQ for other operations,
1 brigade, mountain unit,
1 light infantry battalion at
high readiness available as
an immediate reaction
force.
1 Mirage F-1 squadron,
1 F/A-18 squadron each of
12 aircraft,
6 transport aircraft,
2 each surveillance,
electronic warfare, and
strategic transport aircraft
(A400M).
1 mechanised infantry
battalion (including
intelligence, electronic
warfare/signals,
reconnaissance, engineer,
and explosive ordinance
disposal units).
Tactical reconnaissance
element of 4 AJS 37 Viggen
to be replaced in 2004 by
4 JAS 39 Gripen multirole
fighters,
1 airbase unit (225
personnel),
4 C-130 transport aircraft.
Joint: Permanent Joint HQ
(Northwood) if required,
at least one mobile joint
headquarters, including a
Combined Air Operations
Centre (CAOC).
Up to 72 combat aircraft,
including naval fighters,
with 58 associated support
aircraft including 15
tankers, strategic transport
aircraft, and Chinook and
Merlin transport
helicopters. This total
would be available for an
initial six months to cover
initial theatre entry (for a
longer term commitment
the number would reduce).
Either an armoured or a
mechanised brigade, each
of which could be
sustained for at least a
year, or 16 Air Assault
Brigade, which could be
deployed for up to six
months.
Combat support forces
such as artillery, air
defence, and attack
helicopters could also be
deployed, supported by
logistics forces.
=> Total: 12,500.
1 carrier group
including carrier
Principe de Asturias,
2 frigates and
support ships,
1 submarine,
1 MCM ship,
Spanish-Italian
Amphibious Force
(SIAF).
2 corvettes,
1 support ship.
1 aircraft carrier,
2 SSNs,
Up to 4 destroyers
or frigates, and
support vessels.
An amphibious task
group including 1
helicopter carrier
and 3 Commando
Brigade could also
be made available.
The aircraft carrier,
helicopter carrier,
and submarines
could not necessarily
be sustained
continuously for a
whole year.
Fonte: Colin Robinson, Military Reform Project, The European Union's Headline Goal, Current Status, 23
May 2002; http://www.cdi.org/mrp/eu.cfm.
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Burkard Schmitt
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Allegato 2: Contributi volontari all'obiettivo primario-plus
(dati ufficiosi 2001/02)
Paese
Estonia
Lettonia
Lituania
Polonia
Rep. Ceca
Slovacchia
Ungheria
Slovenia
Romania
Bulgaria
Terrestri
Aeree
Navali
1 light infantry battalion (from
2005)
1 military police unit
1 mine-clearing platoon
2 naval vessels
1 infantry battalion
1 military police unit
1 explosive ordnance disposal unit
1 military medical unit
2 training grounds
3 mechanised battalions
1 engineering unit
1 medical support unit
1 framework brigade (rapid
reaction + air cavalry battalion)
1 brigade of highland riflemen
(might include Ukrainian
battalion)
1 military police section
1 mechanised infantry battalion
1 special force company
1 centre for humanitarian & rescue
operations
1 field hospital/medical battalion
1 chemical/
radioactive recon company
1 mechanised company
(+support)
1 military police unit
1 multi-purpose field hospital
1 engineering mine-clearance unit
1 mechanised infantry battalion
1 air-defence unit
Officers/NCOs for command
structures
1 infantry company
1 military police squad
1 medical unit
2 minesweepers
1 fast patrol boat
2 helicopters
2 military cargo
aircraft
2 minesweepers
1 airborne search
& rescue group
1 naval support
group
1 helicopter unit
4 transport
helicopters
1 transport
helicopter/air
force unit
5 infantry battalions
1 infantry company
1 engineering company
1 mountain troop company
1 military police company
1 mine-clearing detachment
1 reconnaissance platoon
1 transport platoon
1 paratroop
company
4 combat aircraft
1 air carrier
6 naval vessels
(incl. 2 rescue
tugs, 1
minesweeper, 1
frigate)
1 mechanised infantry battalion
1 engineering battalion
1 chemical/
radioactivity recon brigade
2 cargo
helicopters
4 combat
helicopters
1 sea-based
rocket launcher
Fonte: Antonio Missiroli (2003), ‘EU Enlargement and CFSP/ESDP’, European Integration, vol. 25, p. 5.
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Capacità europee – quante divisioni?
Allegato 3: Gruppi PAEC/ECAP
Attack Helicopters/Support Helicopters
Nuclear, Biological, and Chemical (NBC) Protection
Unmanned Aerial Vehicles/Surveillance and Target
Acquisition (STA) Units
Medical Role 3/Medical Collective Protection Role 3
Special Operations Forces (SOF)
Carrier Based Air Power
Suppression of Enemy Air Defence (SEAD)
Air-to-Air Refuelling (AAR)
Combat Search and Rescue (CSAR)
Cruise Missiles/Precision Guided Munitions
Theatre Ballistic Missile Defence
Deployable Communication Modules
Headquarters (Operational HQ, Force HQ, Command and
Control HQs)
Theatre Surveillance and Reconnaissance Air Picture
Strategic Intelligence, Surveillance and
reconnaissance/Imagery Collection
Unmanned Aerial Vehicles (HALE, MALE and tactical UAVs)
Early Warning and Distant Detection Strategic Level
Strategic Air Mobility/Outsized Transport Aircraft, General
Cargo Aircraft
Roll-On-Roll-Off Vessels (RO-RO)/General Cargo Shipping
Fonte: Burkard Schmitt: ECAP, online verfügbar unter: http://www.iss-eu.org/esdp/06-bsecap.pdf.
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Burkard Schmitt
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Allegato 4: Forze armate nell'UE
(ottobre 2003)
Paese
Forze Armate Attive
*
Coscritti
Dispiegati
Austria
34,600
17,200
933
Belgio
40,800
-
683
Cipro
10,000
8,700
-
Rep. Ceca
57,050
20,400
1,226
Danimarca
22,880
5,700
1,619
5,510
1,310
3
27,000
18,500
917
Estonia
Finlandia
Francia
259,050
-
34,729
Germania
284,500
94,500
7,186
Grecia
177,600
98,321
3,241
Ungheria
33,400
22,900
1,039
Irlanda
10,460
-
443
200,000
20,100
9,690
Lettonia
4,880
1,600
165
Lituania
12,700
4,700
174
900
-
60
2,140
-
-
53,130
-
5,518
Italy
Lussemburgo
Malta
Paesi Bassi
Polonia
163,000
81,000
3,956
Portogallo
44,900
9,100
1,443
Slovacchia
22,000
3,500
854
6,550
1,200
85
150,700
-
4,158
Slovenia
Spagna
Svezia
Regno Unito
Totale
27,600
12,300
779
212,600
-
48,501
1,863,950
421,031
127,402
*Forze in permanenza schierate all'estero e/o dispiegate in operazioni, per lo più di mantenimento della pace
(le cifre possono includere doppi conteggi, ad esempio nel caso delle forze britanniche di stanza in Germania,
al momento dispiegate in Iraq)
Fonte: The Military Balance 2003G2004 (Oxford: Oxford University Press, 2003).
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Capacità europee – quante divisioni?
Allegato 5: Cooperazione multinazionale fra forze in Europa
Tipo
Dal
Entità
Paesi
Dettagli
British-Dutch Amphibious
Force
1973
5,000
NL, UK
NATO ( and WEU)
French-German Brigade
1989
4,500
FR, GE
Integrated force
GE, BE, NL,
UK
ARRC: certified by
NATO
Multinational Division
Centre
1991
Eurocorps
1992
60,000
GE, BE, SP,
LU, FR
Military staff in
Strasbourg, Article V
and Petersberg
German-Dutch Corps
1993
35,000
GE, NL
NATO, Military staff in
Münster
Euroforce
1995
5,00010,000
Military staff in
SP, FR, IT, PT Florence,
(Associated) Rapid reaction
capabilities
Euromarfor
1995
700
Without military staff,
SP, FR, IT, PT
(Associated) Aero, naval and
amphibious capabilities
French-British Air Group
1995
FR, UK
European Air Group
1998
GE, BE, SP,
IT, UK, FR,
NL
Transport Coordination Cell
2002
GE, BE, SP,
IT, UK, FR,
NL
Permanent cell in NL
German-Polish-Danish
Corps
1999
GE, PL, DK
NATO, HQ in Poland
Multinational Land Force
(MLF)
1998
IT, Slovenia,
Hungary
Highly operative
infantry unit,
Command in Undine,
Italy
Multinational Peace Force
Southeastern Europe
1998
3,000
IT, GR, TK,
Romania,
Bulgaria,
Albania,
Macedonia
Peacekeeping
operations
Czech-Slovak-Polish Brigade
2002
2,481
CZ, Slovakia,
PL
Operational in 2005
Lithuanian-Polish Peace
Force Battalion
(LITPOLBAT)
1999
800
Lithuania, PL
Rotating key staff
positions
Polish-Ukrainian Peace
Force Battalion
(POLUKRBAT)
1999
754
PL, Ukraine
Rotating key staff
positions, active in
KFOR
130
Permanent military staff
at High Wycombe
Permanent military staff
Fonte: Jean-Yves Haine: Force structures, online verfügbar unter: http://www.iss-eu.org/esdp/10-jyhfc.pdf
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PESD: i primi
cinque anni
Sul terreno: le missioni PESD
(2003-2004)
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Gustav Lindstrom
Introduzione
Se si prescinde dalle missioni di monitoraggio e dalle esercitazioni
di gestione delle crisi, il 2003 segna l’anno in cui la PESD è diventata
operativa. E ciò è avvenuto in modo davvero sorprendente, con un
impegno complessivo in quattro operazioni distinte, un numero
che probabilmente pochi responsabili politici avrebbero previsto
all’inizio dell’anno (tabella 1). Nel 2003, oltre 2 000 tra funzionari
di polizia e militari hanno preso parte alle operazioni in BosniaErzegovina, nell’ex Repubblica jugoslava di Macedonia e nella
Repubblica democratica del Congo. In ognuna di queste operazioni, l’UE ha rilevato le responsabilità di forze già presenti sul terreno.
Tabella 1: missioni PESD nel 2003-2004
Nome dell'operazione
Luogo
Tipo di operazione
Missione di polizia dell'Unione
europea (EUPM)
Bosnia-Erzegovina
Missione di polizia
Concordia
Macedonia
Gestione della crisi - militare
Artemis
Repubblica democratica del
Congo
Gestione della crisi - militare
Proxima
Macedonia
Missione di polizia
L’impegno dell’UE in queste operazioni ha seguito un approccio graduale. L’UE ha esordito con una missione di polizia
(EUPM), condotta in un contesto operativo stabile e in collaborazione con vari Stati partecipanti non appartenenti all’UE, alla
quale, mentre era ancora in corso, ha fatto seguito una missione
militare di gestione della crisi nella vicina dell’ex Repubblica
jugoslava di Macedonia, che ha visto un incremento della sfida
operativa. Questa missione, denominata Concordia, si è svolta in
un ambiente meno permissivo e ha comportato il ricorso a mezzi
dell’UE e della NATO sulla base degli accordi ‘Berlin plus’. La missione successiva, Artemis, ha costituito la prima operazione di
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Sul terreno: le missioni PESD (2003-2004)
gestione militare delle crisi veramente autonoma dell’UE, condotta senza l’appoggio dei mezzi della NATO. Nonostante la portata limitata e i pochi paesi UE contributori di truppe effettive, la
missione si è svolta in un ambiente non permissivo. Con Proxima,
la quarta missione PESD effettuata nel 2003, l’UE ha messo in evidenza la sua capacità di adattamento alle esigenze operative sul
terreno. Questa missione ha, in particolare, evidenziato la capacità
dell’UE di modificare i parametri di una missione, passando da
un’operazione militare ad una di polizia.
Il presente capitolo si articola in due parti: la prima esamina in
modo approfondito le quattro missioni PESD finora effettuate, la
seconda le sfide trasversali cui è confrontato lo svolgimento di siffatte missioni. Sarà importante che i responsabili politici dell’UE
affrontino tali sfide, a cominciare dal prossimo rilevamento della
missione SFOR in Bosnia-Erzegovina.
Parte prima: le missioni PESD
EUPM, Missione di polizia dell’Unione europea in BosniaErzegovina (2003-2005)
Istituzione: Decisione del Consiglio dell’UE dell’11 marzo 2002
(Azione comune 2002/210+CFSP).1
Basi:
Approvazione del comitato direttivo del Consiglio per l’attuazione della pace (PIC) e risoluzione n. 1396 del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, del 5 marzo 2002.
Antecedenti
La guerra in Bosnia, scoppiata nel 1992 a seguito del crollo dello
Stato federale jugoslavo, si è conclusa dopo tre anni con la firma
degli accordi di pace di Dayton nel dicembre 1995. A decorrere da
tale momento, il mantenimento della stabilità locale in BosniaErzegovina è stato assicurato dalla Forza di polizia internazionale
delle Nazioni Unite (IPTF). L’Unione europea ha esordito con la
sua prima operazione di gestione civile delle crisi nel contesto della
PESD il 1º gennaio 2003, subentrando all’IPTF e assumendo il
controllo della stabilità locale fino al 31 dicembre 2005. Se la missione è ufficialmente iniziata nel 2003, il gruppo di pianificazione
dell’EUPM aveva già operato nella regione per oltre otto mesi per
pianificare l’avvicendamento con l’IPTF, rimasta schierata nella
regione per sette anni.
1. Azione comune 2002/210/
PESC del Consiglio, dell’11 marzo
2002, relativa alla missione di
polizia dell’Unione europea. Gazzetta ufficiale dell’Unione europea,
13.2.2002.
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Allo stato attuale, 495 funzionari di polizia e altri 59 effettivi
sono incaricati della creazione di capacità locali in materia di
applicazione della legge e di contribuire alla stabilità della regione
mediante attività di inquadramento, sostegno e controllo. L’80%
circa dei funzionari di polizia proviene dagli Stati membri dell’UE,
il 20% dagli altri paesi partecipanti alla missione.
Tabella 2: Organico della Missione di polizia dell'Unione europea
in Bosnia-Erzegovina al mese di gennaio 2004
Unione europea
Stati terzi
Funzionari di
polizia
Civili
Funzionari di
polizia
Civili
Totale
Austria
5
3
8
Belgio
6
5
11
Bulgaria
3
2
5
Canada
7
0
Danimarca
13
0
7
13
Cipro
6
0
Finlandia
13
6
5
18
Repubblica ceca
6
0
Francia
6
85
3
88
Estonia
2
0
2
Germania
76
6
82
Ungheria
5
0
5
Grecia
12
0
12
Islanda
1
1
2
Irlanda
3
3
6
Lettonia
4
0
4
Italia
51
6
57
Lituania
2
0
2
Lussemburgo
2
1
3
Norvegia
6
1
7
Paesi Bassi
32
3
35
Polonia
12
0
12
Portogallo
8
2
10
Romania
9
0
9
Spagna
20
6
26
Russia
3
0
3
Svezia
15
1
16
Slovacchia
6
0
6
Regno Unito
55
9
64
Slovenia
4
0
4
Svizzera
4
0
4
Turchia
14
2
16
Ucraina
5
0
5
Totale
76
4
80
Totale
396
53
Totale
449
Fonte: ‘Weekly Establishment of EUPM Personnel by Countries (Member States)’. La Missione di polizia dell’Unione europea, 30 gennaio 2004. ‘Weekly Establishment of EUPM Personnel by Countries (Non-Member States)’. La Missione di polizia dell'Unione europea, 30 gennaio 2004.
La missione di polizia dell’Unione europea ha il suo comando a
Sarajevo e le operazioni sono dirette dal responsabile di polizia
Kevin Carty. Altre ventiquattro unità di controllo sono affiancate
presso le varie strutture di polizia della Bosnia-Erzegovina. Tutte
le attività EUPM (operazioni, pianificazione e sviluppo, amministrazione e supporto) sono gestite in stretto coordinamento con il
Rappresentante speciale dell’UE e Alto Rappresentante dell’ONU
in Bosnia-Erzegovina, Lord Ashdown.
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Sul terreno: le missioni PESD (2003-2004)
Obiettivi
Questi gli obiettivi specifici dell’EUPM:
Q contribuire all’indipendenza e alla responsabilità della polizia :
S attraverso la sua depoliticizzazione
S rafforzando i poteri dei direttori /capi della polizia
S controllando l’operato di questi funzionari
S promuovendo la trasparenza;
Q lottare contro la criminalità organizzata e la corruzione:
S attraverso l’attuazione di una strategia comune con l’uffiS
S
S
cio dell’Alto Rappresentante
sostenendo la polizia locale nell’ambito delle sue capacità
operative
rafforzando le capacità investigative della polizia locale
sostenendo l’istituzione di un servizio di polizia a livello
statale;
Q garantire la vitalità e sostenibilità finanziaria della polizia
locale:
S contribuendo alla sua efficienza ed efficacia
S procedendo ad una verifica della polizia locale imperniata
sulla disponibilità finanziaria
S sostenendo le misure preparatorie di aumenti salariali per i
funzionari di polizia;
Q creare istituzioni e capacità:
S attraverso lo sviluppo di capacità di gestione
S sorvegliando la creazione di procedure locali di assunzione
S
e promozione
consolidando il Servizio nazionale di frontiera e l’Agenzia
nazionale per la protezione e l’informazione (SIPA).
Per assolvere tali compiti, l’EUPM è impegnata nei sette
seguenti programmi chiave:
1. programma relativo alla polizia criminale: si prefigge il
miglioramento dell’attuale standard di polizia attraverso la
riforma e la ristrutturazione dei servizi locali di polizia. In particolare, mira alla costituzione di una forza di polizia moderna,
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sostenibile, professionale e multietnica, che sia addestrata, ben
equipaggiata e capace di assumersi appieno le sue responsabilità e di far rispettare la legge in assoluta indipendenza;
2. programma relativo alla giustizia penale: si prefigge la costituzione di una polizia giudiziaria moderna, ben equipaggiata,
autonoma, professionale e multietnica. In particolare, la polizia
giudiziaria dovrebbe essere in grado di stabilire relazioni coordinate tra la polizia e la magistratura. Un aspetto di tali relazioni
riguarda la formazione della polizia locale in materia di
redazione e presentazione al pubblico ministero di relazioni in
materia penale;
3. programma relativo agli affari interni: si prefigge l’istituzione
di un sistema trasparente ed affidabile di controllo interno di
tutti i servizi preposti all’applicazione della legge, fondato sulle
migliori prassi internazionali. Prevede, tra l’altro, l’allineamento dei servizi incaricati dell’applicazione della legge alle
norme internazionali in materia di diritti umani e ai principi di
una polizia democratica e l’instaurazione di meccanismi disciplinari volti a rafforzare la fiducia della popolazione;
4. programma relativo all’amministrazione della polizia: si prefigge la creazione di un’amministrazione della polizia che funzioni correttamente e che offra alle forze di polizia il sostegno di
cui hanno bisogno. Obiettivo finale è la costituzione di un’amministrazione di polizia sostenibile e multietnica che rispetti gli
standard europei fondamentali in materia di amministrazione
democratica, credibilità finanziaria e pratiche trasparenti;
5. programma relativo all’ordine pubblico e alla sicurezza: mira
a rafforzare le capacità della polizia di prevenire e affrontare le
escalation di disordini civili;
6. programma relativo al Servizio nazionale di frontiera (SBS):
si prefigge di rafforzare l’SBS e la SIPA quali elementi di un sistema integrato di applicazione della legge che sia responsabile
delle frontiere nazionali e capace di far rispettare la legge nella
sua giurisdizione in completa indipendenza, conformemente
alle norme internazionali in materia di democrazia;
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Sul terreno: le missioni PESD (2003-2004)
7. programma relativo all’Agenzia per la protezione e l’informazione (SIPA): si prefigge lo sviluppo di capacità in seno alla
SIPA, che sarà la principale agenzia a livello statale incaricata di
agevolare la cooperazione e il coordinamento tra i servizi di
polizia.
Finanziamento
L’EUPM dovrebbe durare complessivamente tre anni. In applicazione della relativa azione comune, i costi previsti per l’operazione
comprendono 14 milioni di EUR per i costi di avvio nel 2002 e
1,7 milioni di EUR per i costi di avvio nel 2003, finanziati dal bilancio generale dell’Unione europea (‘bilancio comunitario’).
Tabella 3: costi dell'EUPM nel periodo 2003-2005 (in milioni di EUR)
Finanziamento tramite il bilancio
dell'UE
Avvio 2002
14
Avvio 2003
1,7
Totale
15,7
Costi comuni
Indennità giornaliere
Spese di viaggio
Costi operativi
Personale locale
Personale civile internazionale
Indennità giornaliere
Spese di viaggio
Costi operativi
Totale
Bilancio comunitario
Stati partecipanti
17
1
11
4
5
17
1
11
38
20
18
Fonte: Antonio Missiroli, ‘€uros for ESDP: financing EU operations’, Occasional Paper n°45, Parigi, Istituto di
studi per la sicurezza dell'UE, giugno 2003.
Un importo supplementare di 38 milioni di EUR destinato ad
operazioni annuali è ripartito tra gli Stati membri partecipanti
(circa 18 milioni di EUR) e il bilancio comunitario generale (circa
20 milioni di EUR). L’8 dicembre 2003, il Consiglio ha stanziato
17,5 milioni di EUR per i costi operativi previsti nel 2004, da finanziare tramite il bilancio generale dell’Unione europea.
Concordia (ex Repubblica jugoslava di Ex repubblica jugoslava
di macedonia, 2003)
2. Azione comune 2003/92/PESC
del Consiglio, del 27 gennaio
2003, relativa all’operazione militare dell’Unione europea nell’ex
Repubblica jugoslava di Macedonia. Gazzetta ufficiale dell’Unione europea, 11.2.2003.
Istituzione: Decisione del Consiglio dell’UE del 27 gennaio 2003
(azione comune 2003/92/PESC).2
Basi:
Richiesta del Presidente Trajkovski e risoluzione n. 1317
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del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite.
Antecedenti
Dopo la missione di polizia in Bosnia-Erzegovina, l’UE ha lanciato
la sua prima operazione militare, denominata Concordia. Il
18 marzo 2003, su invito dell’ex Repubblica jugoslava di Ex repubblica jugoslava di macedonia (FYROM), la forza dell’UE ha rilevato
l’operazione della NATO Allied Harmony con l’obiettivo di garantire un contesto di sicurezza al fine di facilitare l’attuazione dell’accordo quadro di Ohrid (l’accordo che ha posto fine al conflitto
scoppiato nel 2001 nell-ex Repubblica jugoslava di Macedonia).
Ventisei paesi, inclusi tutti gli Stati membri dell’UE ad eccezione
dell’Irlanda e della Danimarca, hanno messo a disposizione della
missione circa 350 militari equipaggiati con armi leggere.3 Con la
Francia nel ruolo di nazione quadro, la forza UE ha pattugliato le
regioni macedoni di etnia albanese confinanti con l’Albania, la
Serbia e il Kosovo. Il 30 settembre l’EUROFOR è subentrata alla
Francia nelle responsabilità di nazione quadro. Tale dispositivo è
stato mantenuto fino al termine della missione, il 15 dicembre
2003.
A differenza della missione di polizia in Bosnia-Erzegovina, l’operazione Concordia ha potuto contare non solo sui mezzi degli
Stati membri dell’UE, ma anche sul sostegno alla pianificazione e
Tabella 4: Organico della missione Concordia
nell’ex Repubblica jugoslava di Macedonia, 2003
Unione europea
Stati terzi
Austria
11
Bulgaria
2
Belgio
26
Canada
1
Finlandia
9
Repubblica ceca
2
Francia
145
Estonia
1
Germania
26
Ungheria
2
Grecia
21
Islanda
1
Italia
27
Lettonia
2
Lussemburgo
1
Lituania
1
Paesi Bassi
3
Norvegia
5
Portogallo
6
Polonia
17
Spagna
16
Romania
3
Svezia
14
Slovacchia
1
Regno Unito
3
Slovenia
1
Turchia
10
Totale
49
Totale
308
3. I 13 Stati membri dell’UE partecipanti erano i seguenti: Austria,
Belgio, Finlandia, Francia, Germania, Grecia, Italia, Lussemburgo, Paesi Bassi, Portogallo,
Spagna, Svezia e Regno Unito. I 6
paesi della NATO non appartenenti all’UE: Repubblica ceca, Ungheria, Islanda, Norvegia, Polonia
e Turchia. I 7 paesi non appartenenti né alla NATO né all’UE: Bulgaria, Estonia, Lettonia, Lituania,
Romania, Slovacchia e Slovenia.
Fonte: Dov Lynch, Antonio Missiroli, ‘ESDP operations.’ Istituto di studi per la sicurezza dell’Unione europea, 2003 (www.iss-eu.org).
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Sul terreno: le missioni PESD (2003-2004)
il supporto logistico della NATO, che include gli Stati Uniti.
Pertanto, oltre che prima operazione militare dell’UE, Concordia è
stata anche il primo esempio di attuazione del partenariato strategico UE-NATO , noto come ‘Berlin plus’, un meccanismo di
cooperazione istituito nel 2002.4
La sede del comando dell’operazione Concordia era posta
presso il Quartiere Generale Supremo delle Potenze Alleate in
Europa (SHAPE) in Belgio; tre comandi regionali erano dislocati a
Skopje, Kumanovo e Tetovo. La missione è stata diretta dall’ammiraglio tedesco Rainer Feist (comandante dell’operazione Concordia e D-SACEUR, vicecomandante supremo delle forze alleate
in Europa), dal generale francese Pierre Maral (comandante della
forza fino al 1º ottobre) e poi dal maggiore generale portoghese
Luis Nelson Ferreira Dos Santos (comandante della forza fino al
15 dicembre), che hanno tutti operato in stretto coordinamento
con il Rappresentante speciale dell’UE presso l’ex Repubblica
jugoslava di Macedonia, il belga Alexis Brouhns.
Obiettivi
Sul terreno, i soldati erano organizzati in 22 nuclei di collegamento
con protezione leggera, che si spostavano su veicoli non corazzati,
con compiti di pattugliamento, ricognizione, sorveglianza, resoconto della situazione e collegamento. Il supporto delle truppe era
assicurato da 8 nuclei di collegamento con protezione pesante
dotati di veicoli ruotati corazzati e di elicotteri. L’operazione Concordia ha beneficiato del supporto supplementare fornito da un
distaccamento di elicotteri leggeri da ricognizione ed elicotteri per
l’evacuazione sanitaria (MEDEVAC), da una capacità di EOD per la
bonifica di ordigni esplosivi e da una squadra per l’evacuazione
sanitaria.
4. Gli accordi ‘Berlin plus’, convenuti al vertice NATO di Praga del
2002, prevedono il reciproco sostegno per le missioni ed operazioni della NATO e dell’UE. Trattasi di una formulazione breve che
include una serie completa di accordi tra NATO e UE. I diversi accordi sono stati raggruppati in un
‘accordo quadro’ in data
17 marzo 2003.
Finanziamento
L’operazione Concordia doveva inizialmente durare sei mesi e comportare costi comuni pari a 4,7 milioni di EUR e il finanziamento
delle altre spese ad opera dei paesi partecipanti. Il bilancio previsto
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per i sei mesi è stato successivamente portato a 6,2 milioni di EUR.
Diversamente da quanto avvenuto per l’EUPM, gli Stati partecipanti sono stati invitati a pagare sia i propri costi operativi che una
percentuale dei costi comuni. In particolare, gli Stati membri dell’UE partecipanti hanno sostenuto l’84,5% dei costi comuni, in proporzione al rispettivo PIL, e gli Stati partecipanti non appartenenti
all’UE il 15,5% dei costi comuni.
A seguito di una richiesta delle autorità macedoni, con decisione del 21 luglio 2003 il Consiglio ha prorogato il mandato di
Concordia fino al 31 dicembre 2003. Alla missione ha fatto immediatamente seguito una nuova operazione di polizia dell’UE nella
regione, denominata ‘Proxima’.
Artemis (Repubblica democratica del Congo, 2003)
Istituzione: Decisione del Consiglio dell’UE del 5 giugno 2003 (Azione
comune 2003/423/PESC).5
Basi:
Decisione del Consiglio, del 12 giugno 2003, relativa all’avvio dell’operazione militare dell’Unione europea nella
Repubblica democratica del Congo, e risoluzione n. 1484
del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, del 30 maggio 2003.
Antecedenti
Per verificare le sue capacità militari, nel giugno 2003 l’Unione
europea ha inviato nell’Ituri, una regione instabile del nord-est
della Repubblica democratica del Congo (RDC), circa 2 000 truppe
incaricate del mantenimento della pace. Dal mese di maggio, gli
scontri tra le milizie di etnia Hema e quelle di etnia Lendu hanno
causato una diffusa instabilità, centinaia di morti e migliaia di sfollati. Negli ultimi dieci anni si sono registrati nella regione oltre
50 000 morti e più di 500 000 sfollati. I disordini rischiavano di far
deragliare il processo di pace nel paese e di destabilizzare l’intera
regione. La missione, denominata Artemis, ha rappresentato il
primo spiegamento militare dell’UE al di fuori dell’Europa e senza
5. Azione comune 2003/423/
PESC del Consiglio, del 5 giugno
2003, relativa all’operazione militare dell’Unione europea nella Repubblica democratica del Congo.
Gazzetta ufficiale dell’Unione europea, 11.6.2003.
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l’assistenza della NATO.
Paese
Messa a disposizione
di forze o elementi
della forza
Austria
Messa a disposizione di
personale presso l'OHQ *
e/o l'FHQ *
X
Belgio
X
X
Francia
X
X
Germania
X
X
Grecia
X
X
Ungheria
X
Irlanda
X
Italia
X
Paesi Bassi
X
Portogallo
X
Spagna
X
Svezia
X
X
Regno Unito
X
X
Brasile **
X
X
Canada **
X
Sudafrica **
X
Nota:
* Con OHQ si intende ‘comando operativo’, e con FHQ ‘comando della forza’.
** Questi paesi hanno fornito assistenza fino al 5 luglio 2003.
Fonte: Scheda informativa su Artemis, luglio 2003. Consiglio dell'Unione europea .
Tabella 5 : Paesi contributori all'operazione Artemis nella
Repubblica democratica del Congo
La forza, sotto comando francese, includeva forze o elementi
della forza provenienti da vari paesi europei (tabella 5). La Francia,
con circa 1 700 soldati, ha fornito il grosso delle truppe. La Svezia,
secondo paese contributore per numero di elementi, ne ha forniti
70. Tre paesi non europei - Sudafrica, Brasile e Canada - hanno fornito assistenza temporanea fino al 5 luglio. Riguardo agli elementi
della forza, i contributi spaziavano dalla logistica e supporto
(Regno Unito) alla fornitura di mezzi di trasporto aereo e di assistenza medica (Belgio). Come per le precedenti missioni, la forza
UE ha sostituito truppe già presenti sul terreno. Nel caso di Artemis, l’UE ha risposto alla richiesta rivoltale dal Segretario generale
delle Nazioni Unite di rilevare temporaneamente, fino al 1º settembre, circa 750 soldati uruguaiani incaricati del mantenimento
della pace, in attesa dell’arrivo di una forza ONU più consistente
diretta dal Bangladesh.
L’operazione è stata diretta dal Maggiore Generale francese
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Neveux (Comandante dell’operazione) e dal Brigadiere Generale
francese Thonier (Comandante della forza), che hanno operato in
stretto coordinamento con il Rappresentante speciale dell’UE
nella regione, l’italiano Aldo Ajello. Considerato il ruolo di
nazione quadro della Francia, il comando dell’operazione era insediato presso il Centro di pianificazione e di attuazione delle operazioni (CPCO), nei dintorni di Parigi, mentre il comando operativo era installato a Entebbe (400 persone), in Uganda, con un
avamposto operativo a Bunia.
Obiettivi
Scopo dell’operazione Artemis era la stabilizzazione delle condizioni di sicurezza e il miglioramento della situazione umanitaria a
Bunia, capitale dell’Ituri. In particolare, la risoluzione n. 1484 del
Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite incaricava la forza militare di proteggere i campi profughi, rendere sicuro l’aeroporto di
Bunia e garantire la sicurezza dei civili, del personale ONU e degli
operatori nel campo dell’aiuto umanitario. Artemis si è conclusa
all’inizio di settembre 2003 con il passaggio di consegne ai soldati
di pace dell’ONU, ormai dotati di un mandato più ampio, regole di
ingaggio più decise e una forza più consistente.
Finanziamento
In applicazione dell’azione comune relativa all’operazione, era
stato previsto un importo di riferimento finanziario di 7 milioni di
EUR a titolo di costi comuni. In virtù delle disposizioni finanziarie
dell’operazione, questo importo doveva essere posto a carico degli
Stati membri e gestito mediante un meccanismo finanziario. I costi
relativi al personale e all’equipaggiamento, inclusi quelli derivanti
dal trasporto e dall’alloggio delle forze, dovevano essere assunti
dagli Stati contributori secondo il principio ‘costs lie where they
fall’ (ciascuno si fa carico delle proprie spese).
6. Azione comune 2003/681/
PESC del Consiglio, del 29 settembre 2003, relativa alla missione di
polizia dell’Unione europea nell’ex Repubblica jugoslava di Macedonia (EUPOL Proxima). Gazzetta ufficiale dell’Unione europea,
1.10.2003.
Proxima (Ex Repubblica jugoslava di Macedonia, 2004)
Istituzione: Decisione del Consiglio dell’UE del 29 settembre 2003
(Azione comune del Consiglio 2003/681/PESC).6
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Base:
Risoluzione n. 1371 del Consiglio di sicurezza delle
Nazioni Unite, adottata il 26 settembre 2001.
Antecedenti
Proxima, che fa seguito all’operazione Concordia nell’ex Repubblica
jugoslava di Macedonia (FYROM), costituisce la quarta e più
recente missione PESD dell’UE. Lanciata il 15 dicembre 2003, Proxima non è una missione militare, bensì una missione di polizia
della durata di un anno, nell’ambito della quale 200 esperti UE in
materia di polizia hanno funzioni di controllo, guida e consulenza
della polizia del paese per assisterla nella lotta contro la criminalità
organizzata e per promuovere gli standard europei di polizia.7 In
quanto missione di polizia, Proxima non si svolge più nel quadro
degli accordi ‘Berlin plus’. Il comando di Proxima è a Skopje e le
operazioni sono dirette dal Responsabile principale della polizia,
il belga Bart d’Hooge, in stretto coordinamento con il Rappresentante speciale dell’UE nella regione, Søren Jessen-Petersen. Un’unità centrale, installata presso il Ministero dell’interno, assicura il
coordinamento della missione; altre unità sono distaccate in
affiancamento in altre parti del paese.
Obiettivi
Obiettivo generale di Proxima è mantenere un contesto che faciliti
l’attuazione dell’accordo quadro di Ohrid. In particolare, le forze di
polizia sono incaricate dei seguenti compiti:
S consolidare l’ordine pubblico, inclusa la lotta contro la criminalità organizzata;
S attuare la riforma globale del Ministero dell’interno,
inclusa la polizia;
S favorire la transizione verso una polizia di frontiera e
sostenerne la creazione;
S rafforzare la fiducia della popolazione nei confronti degli
sforzi prodigati dalla polizia locale;
S rafforzare la cooperazione con gli Stati limitrofi in materia
di polizia.
7. Oltre ai contributi forniti dall’UE a 15 membri, gli inviti sono
stati estesi agli Stati membri aderenti dell’epoca, ai paesi candidati
(Bulgaria, Romania e Turchia), ai
membri non europei della NATO e
a partner potenziali quali il Canada, la Russia, l’Ucraina, la Svizzera e gli Stati Uniti.
Finanziamento
Gli Stati membri contributori di funzionari di polizia e di altri
membri del personale sostengono le relative spese, inclusi gli sti-
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pendi, le indennità e le spese di viaggio per e dalla regione. Le altre
spese, finanziate tramite il bilancio comunitario, includono:
S un massimale di 7,3 milioni di EUR per i costi di avvio nel
2003;
S un massimale di 650 000 EUR per le spese di funzionamento nel 2003;
S un massimale 7,056 milioni di EUR per le spese di funzionamento nel 2004.
I funzionari di polizia dell’UE, che indossano le uniformi
nazionali con la fascia dell’UE, sono attualmente spiegati a
Skopje, la capitale, e in zone in cui vivono macedoni di etnia albanese, come Tetovo, Kumanovo, Gostivar e Ohrid.
Parte II: Questioni trasversali
Se le operazioni appena descritte contribuiscono a rafforzare la
fiducia nella PESD, esse hanno altresì messo in evidenza una serie
di problemi da risolvere, precedentemente rimasti nel campo delle
‘ipotesi’. Varie questioni sono trasversali, nella misura in cui riguardano, a diversi livelli, aspetti che interessano tutte le missioni. Tra le
questioni trasversali più rilevanti figurano i vincoli operativi,
finanziari e in materia di pianificazione. Questi aspetti sono analizzati in modo più particolareggiato poco oltre.
Sfide operative
Da quando il Consiglio europeo di Helsinki ha fissato l’obiettivo
primario, si sono moltiplicate le discussioni sulle capacità operative degli elementi di reazione rapida messi a disposizione dagli
Stati membri dell’UE per assolvere i compiti di Petersberg. Con
l’apparizione di nuovi modelli di forze e di date alternative in materia di operatività, le speculazioni si sono intensificate. Gli esempi
spaziano dai gruppi tattici recentemente proposti da Francia, Germania e Regno Unito, agli obiettivi 2010 dell’obiettivo primario. La
prosecuzione dei lavori dei gruppi di progetto ECAP rafforza l’impressione che alcune capacità specializzate non siano attualmente
disponibili.
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1. Capacità di proiezione. Dopo un intero anno di missioni
PESD, alcune di queste preoccupazioni appaiono manifestamente giustificate, specie per quanto riguarda le esigenze relative
alle operazioni ad alta intensità condotte a grande distanza dal
continente europeo. Com’era prevedibile, la missione nella RDC
ha evidenziato i limiti di talune capacità militari. Con un teatro
operativo distante circa 6 500 Km dal’Europa, l’UE ha dovuto far
fronte ad una sfida logistica importante per quanto riguarda i suoi
mezzi di trasporto militare. Così come rilevato dall’allora direttore generale dello Stato maggiore dell’UE, lo spiegamento di
forze a tali distanze e, in particolare, la capacità di sostenerle così
lontano confermano i bisogni esistenti in materia di trasporto.8
Questa sfida è stata aggravata dalla necessità di utilizzare installazioni più solide a Entebbe, distante circa 300 Km da Bunia, per
assicurare un’infrastruttura adeguata in grado di accogliere aerei
da trasporto di grandi dimensioni.
2. Comunicazioni. In quanto operazione autonoma dell’UE
condotta in una zona ad alta intensità, Artemis ha permesso di verificare anche altri limiti. Nel settore dei mezzi di trasmissione e
comunicazione, assicurare un adeguato sistema di C4ISR
(comando, controllo, comunicazioni, computer, intelligence, sorveglianza e ricognizione) ha costituito una vera e propria sfida. La
situazione è stata facilitata dal fatto che il contingente di truppe
maggiore era francese, e poteva quindi contare sugli standard
nazionali per assicurare adeguate comunicazioni. Trovare una
soluzione simile in futuro potrebbe risultare più difficile, soprattutto quando sul terreno fosse coinvolto un numero maggiore di
Stati membri. Va rilevato che la disponibilità di adeguate capacità
di comunicazione è fondamentale per tutte le operazioni, si tratti
di missioni di polizia o di operazioni militari ad alta intensità.
Durante la missione EUPM a Sarajevo, ad esempio, le limitate
capacità di comunicazione si sono rivelate un serio inconveniente.
Nei primi mesi dell’operazione, si sono riscontrate carenze nella
sicurezza delle comunicazioni all’interno della catena di
comando. Ad un certo momento, le comunicazioni nella catena di
comando si sono ridotte ad un collegamento di posta elettronica e
ad una linea GSM.9
8. Cronin, David. ‘Congo Operation underlined airlift shortcomings’, European Voice, 18 settembre 2003.
9. ‘Lessons from the planning of
the EU Police Mission in Bosnia
and Herzegovina (EUPM), autumn 2001- december 2002’,
Consiglio dell’Unione europea,
doc. 11206/03 del 14 luglio 2003.
3. Sostenibilità. Nelle missioni che prevedono un impegno in
contesti non permissivi, la sostenibilità diventa spesso un fattore
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cruciale. Nel caso di Artemis, le capacità UE in materia erano limitate. È questo uno dei principali motivi per cui Artemis doveva
avere breve durata. Occorreva inoltre che l’operazione avesse un
mandato estremamente specifico e che il suo teatro operativo
fosse limitato. I pianificatori dell’UE hanno potuto lanciare l’operazione in quanto era chiaro che la forza dell’UE sarebbe stata
sostituita da un contingente rafforzato della MONUC alla fine
dell’estate. Ciò che resta da sapere è per quanto tempo l’UE possa
sostenere un’operazione a lungo termine in un teatro lontano dall’Europa. La sostenibilità comprende vari aspetti, che vanno da
compiti ‘semplici’, come assicurare un adeguato approvvigionamento di acqua potabile, ad altri più complessi, come disporre di
adeguate capacità di protezione della forza.
L’aspetto positivo è che, col tempo, le sfide operative/militari
dovrebbero diminuire. Nuove piattaforme, quali l’A400M e Galileo, contribuiranno ad attenuare taluni problemi di ordine logistico. Analogamente, le lacune riscontrate in campo militare continueranno ad essere colmate grazie ai lavori dei gruppi dell’ECAP.
Poiché vari Stati membri sono passati ad eserciti professionali, l’eliminazione degli ostacoli giuridici che limitano la disponibilità di
soldati di leva dovrebbe rafforzare le capacità di spiegamento. L’esperienza acquisita con le operazioni attuali e future consentirà
inoltre di attenuare alcuni dei problemi più frequenti, quali l’ostacolo della lingua nelle formazioni multinazionali o le relazioni
con i media.
Sfide finanziarie
Dal momento che l’UE si è impegnata in varie missioni nel 2003, la
questione del finanziamento delle missioni è stata al centro dell’agenda politica.10 Con un modesto bilancio PESC di 52,6 milioni di
EUR per il 2004, ha assunto sempre maggiore importanza la
necessità di istituire un processo razionalizzato. Gli inconvenienti
rilevati nel corso delle prime operazioni PESD possono essere così
sintetizzati:
10. Le spese sono generalmente
classificate come comuni o individuali/nazionali.
1. Meccanismi ad hoc. In particolare, il ricorso a diversi meccanismi di finanziamento ha complicato ‘la condotta efficace
delle operazioni militari PESD, con tutte le relative conseguenze
(duplicazione della gestione, del personale, delle responsabilità).’11 Analogamente non sono stati presi in debita considera-
11. Proposte della Presidenza per
ovviare alle lacune e preparare il finanziamento dei costi comuni
delle future operazioni militari
dell’UE. Consiglio dell’Unione europea doc. 11154/1/03 REV 1
del15 settembre 2003.
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zione dettagli importanti, quali l’adozione di misure finanziarie di
contingenza per far fronte alle controversie che potrebbero essere
proposte al termine di un’operazione dal personale che vi ha partecipato. Poiché ciascun meccanismo di finanziamento si attaglia
ad una particolare missione, non è stata realizzata alcuna economia di scala o sinergia in termini di gestione e di efficacia.
2. Stime dei costi delle missioni. Come rilevato nelle azioni
comuni o nei mandati, i livelli di finanziamento si sono spesso tradotti in belle cifre tonde tendenti a sottostimare i costi reali di
un’operazione. La missione Concordia, ad esempio, ha mostrato
che la fase di spiegamento di un’operazione rappresenta di solito
una parte significativa del suo costo globale. Nel caso dell’EUPM,
le stime dei costi si sono in gran parte basate sui calcoli effettuati
in occasione di brevi missioni esplorative. Tali stime si basavano
sull’esperienza della Forza di polizia internazionale dell’ONU e
non tenevano conto delle implicazioni derivanti dalle differenze
di mandato, dimensioni e organizzazione dell’EUPM. A motivo di
queste ed altre sottostime, è stata lanciata una seconda richiesta di
contributi per portare la prima richiesta al 30% dell’importo di
riferimento.12
3. Coordinamento con paesi terzi. I meccanismi finanziari
utilizzati nel 2003 tendevano ad associare tardivamente i paesi
terzi partecipanti al processo decisionale, complicando la tempestiva copertura dei costi delle missioni. Nel caso dell’operazione
Concordia, il ritardo nel processo di notificazione ha comportato il
ritiro del Canada dalla missione. D’altra parte, date le poche disposizioni esistenti in materia di copertura dei costi di preparazione, la ‘nazione guidà di un’operazione ha spesso finito col farsi
carico della maggior parte di tali costi. Durante l’operazione Concordia, ad esempio, la Francia ha finito col versare 600 000 EUR in
più per coprire i costi legati alla preparazione della missione.13
La questione del finanziamento ha fatto un notevole passo
avanti il 22 settembre 2003, quando il Consiglio ha deciso che l’UE
aveva bisogno di un meccanismo di gestione dei costi comuni delle
operazioni militari, indipendentemente dalla loro portata, complessità o urgenza. Dal 1º marzo 2004 l’UE dispone cosi’ di un
meccanismo permanente di gestione dei costi comuni delle missioni UE. Denominato Athena, faciliterà il finanziamento futuro
12. Ibidem.
13. Ibidem.
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delle missioni rendendo più flessibile e accelerando la gestione del
finanziamento dei costi comuni, indipendentemente dall’urgenza o complessità della missione in causa.
Athena sarà gestito da un comitato speciale composto di un rappresentante di ciascuno Stato membro partecipante (tutti gli Stati
membri dell’UE, ad eccezione della Danimarca). Questo comitato
speciale approverà tutti i bilanci destinati al finanziamento dei
costi comuni di un’operazione. Le sue decisioni saranno vincolanti e richiederanno l’unanimità. Tra i costi comuni a suo carico,
quando sono sostenuti, figurano:
Q i costi incrementali relativi ai comandi rischierabili o fissi assegnati nell’ambito di operazioni condotte dall’UE;
Q i costi di trasporto verso e dal teatro delle operazioni; i costi di
trasporto all’interno della zona delle operazioni, ad eccezione
delle indennità giornaliere;
Q i costi amministrativi, inclusi le comunicazioni, il personale
ingaggiato in loco, la manutenzione, l’informazione pubblica,
la rappresentanza e il ricevimento;
Q i costi di alloggio e di infrastruttura;
Q i costi incrementali per il sostegno alla forza nel suo insieme;
Q i costi incrementali derivanti dal ricorso di mezzi e capacità
comuni della NATO messi a disposizione per un’operazione
diretta dall’UE.
Athena può altresì sostenere altri costi associati ad un’operazione, quali i costi comuni relativi alla fase preparatoria di un’operazione. Le entrate destinate al finanziamento di Athena proverranno essenzialmente dai contributi versati dagli Stati
partecipanti e contributori. Se del caso, potrebbero contribuire al
finanziamento anche Stati terzi. Una parte più esigua delle entrate
proverrà da altre fonti, quali gli interessi. I contributi degli Stati
membri sono calcolati in base al prodotto nazionale lordo.
Pur rappresentando un progresso rispetto al precedente
sistema ad hoc, Athena rischia di presentare alcune lacune. Il processo decisionale basato sull’unanimità applicato in sede di Comitato speciale rischia di rallentare o intralciare il processo di finanziamento nel caso in cui uno Stato partecipante dovesse decidere
di bloccare una decisione. D’altra parte, se il tempo previsto per lo
spiegamento delle truppe è progressivamente ridotto, la richiesta
di contributi in una fase ulteriore dell’operazione rischia di essere
inefficace.14 Quest’ultimo fattore può essere attenuato dal fatto
14 . Le conclusioni del Consiglio
‘Affari generali e relazioni esterne’del 19 novembre 2002 e del 19
maggio 2003 prevedono da 5 a 10
giorni.
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che Athena esige che il comandante della forza presenti stime preventive dei costi della missione .
Sfide in materia di pianificazione
Le fasi di pianificazione che precedono un’operazione sono determinanti per il suo successo. Se è vero che molti tendono ad associare la pianificazione alle esigenze operative (ad esempio, i
comandi), la pianificazione è in realtà un processo evolutivo che
comporta numerose dimensioni. Per avere successo, la pianificazione di una missione esige un’adeguata preparazione in settori
quali gli obiettivi, i bisogni in termini di mezzi, il finanziamento,
l’approvvigionamento, la collaborazione con i paesi terzi, i piani di
contingenza e gli insegnamenti da trarre al termine dell’operazione. La pianificazione di queste categorie è spesso tanto importante quanto la ben più visibile pianificazione operativa. Le operazioni recenti dell’UE hanno messo in evidenza una serie di lacune.
1. Approvvigionamenti. In questo settore, le recenti missioni
dell’UE hanno evidenziato problemi nella definizione di efficaci
procedure di approvvigionamento. In molti casi, procedure di pianificazione migliori avrebbero potuto fare la differenza. Nel corso
dell’EUPM, ad esempio, i ritardi nella costituzione del nucleo di
pianificazione hanno comportato la necessità di modificare l’applicazione delle regole standard di approvvigionamento. In questo caso particolare, la Commissione europea ha adottato una
decisione intesa a semplificare al massimo le procedure, tra l’altro
triplicando i massimali applicabili e più che dimezzando i tempi di
presentazione delle offerte. Le difficoltà sono state ulteriormente
aumentate dal fatto che sono stati distaccati presso l’EUPM due
soli esperti in approvvigionamenti. Uno di essi, arrivato in giugno,
è dovuto partire per un’altra destinazione dopo cinque mesi,
lasciando l’altro a gestire da solo bisogni in approvvigionamenti
del valore di svariati milioni di EUR.15 Dal momento che l’UE continua ad intraprendere missioni, sarà importante assicurare adeguate capacità di approvvigionamento. Il tempestivo distacco di
esperti in materia di approvvigionamento dovrebbe far sì che in
futuro le operazioni non soffrano più di carenze di equipaggiamento o di infrastrutture.
15. ‘Lessons from the planning of
the EU Police Mission in Bosnia
and Herzegovina (EUPM), autumn 2001 - December 2002’,
Consiglio dell’Unione europea,
doc. 11206/03 del 14 luglio 2003.
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2. Sostegno alla pianificazione. Riprendendo l’esempio dell’EUPM, il Segretariato generale ha mostrato di non disporre della
capacità di fornire al nucleo di pianificazione di stanza a Sarajevo
sufficiente appoggio e supporto. Tra le lacune specifiche del
Segretariato vanno annoverate una scarsa capacità di pianificazione in materia di polizia, la mancanza di competenze specifiche,
limitati canali di comunicazioni sicure e scarse risorse in termini
di personale.16 In questo settore, l’istituzione di una cellula di pianificazione dell’UE presso lo Stato maggiore dell’Unione europea
a Bruxelles dovrebbe attenuare i problemi. Riguardo alla pianificazione militare, il distacco di comandi nazionali si è rivelato una
formula di successo. Con la disponibilità di comandi di vari paesi
dell’UE per fini multinazionali (ad esempio, Regno Unito, Germania, Francia, Italia e Grecia), le esigenze in materia di pianificazione militare trovano una copertura soddisfacente.
3. Comunicazioni con l’esterno. Un altro aspetto degno di
attenzione è rappresentato dalle relazioni con i mezzi di comunicazione durante l’esecuzione di una missione dell’UE. Tali relazioni rivestono un’estrema importanza quando l’UE è impegnata
in missioni ad alta intensità suscettibili di rapidi sviluppi. Varie
missioni UE hanno evidenziato la necessità di una partecipazione
alla missione di un numero maggiore di esperti nei mezzi di comunicazione. Nel caso dell’EUPM, la mancanza di una pianificazione
preventiva sulla strategia da adottare nei confronti dei mezzi di
comunicazione ha intralciato all’inizio della missione il compito
dell’ufficio stampa della stessa.17 Per le missioni future, occorre
che questi esperti ricevano un’adeguata formazione in materia di
relazioni con i mezzi di comunicazione e abbiano adeguato
accesso ai responsabili politici a Bruxelles in modo da assicurare
messaggi coerenti ed un adeguato flusso delle informazioni.
16. ‘Lessons from the planning of
the EU Police Mission in Bosnia
and Herzegovina (EUPM), autumn 2001 - December 2002’,
Consiglio dell’Unione europea,
doc. 11206/03 del 14 luglio 2003.
4. Collaborazione con paesi terzi. La sfida legata ad un’integrazione armoniosa dei paesi terzi nelle missioni UE non è una
novità. Poco tempo dopo l’avvio delle prime missioni, EUPM e
Concordia, le prime lezioni tratte hanno mostrato che una significativa lacuna consisteva nella mancanza, nell’azione comune relativa all’EUPM, di orientamenti relativi alla partecipazione dei
paesi terzi alla missione.18 Oltre alla mancanza di orientamenti
17. ‘A review of the 100 days of the
EU Police Mission in Bosnia and
Herzegovina’, Consiglio dell’Unione europea, doc. 11760/03
del 23 luglio 2003.
18. Ibidem.
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iniziali nei documenti di pianificazione, i responsabili politici
hanno rilevato i problemi posti dalle lunghe procedure, come
quelle previste dall’articolo 24.19 Richiedendo due risoluzioni del
Consiglio, i negoziati condotti contemporaneamente con varie
parti possono esigere tempo. L’esperienza ha mostrato che negoziati multipli diretti da processi rigidi non incoraggiano un
approccio UE flessibile, capace di tener conto dei vincoli degli
interlocutori: si vedano ad esempio le esperienze fatte con il
Canada, la Polonia e la Russia.20
5. Collaborazione con le organizzazioni internazionali. Le
sfide illustrate non riguardano solo i paesi terzi. Analoghe preoccupazioni destano le relazioni con le organizzazioni internazionali. Nel caso dell’EUPM, quando il nucleo di pianificazione della
missione si è installato presso il Comando UNMIBH a Sarajevo,
l’aumento del suo organico ha fatto crescere la pressione a livello
di relazioni con l’ONU. Poiché, all’epoca, UE e ONU non avevano
negoziato alcun accordo ufficiale sulla portata delle loro relazioni, non esisteva alcuna piattaforma che permettesse di risolvere
problemi di tale natura. Va rilevato che la dichiarazione comune
sulla cooperazione ONU-UE nella gestione delle crisi, firmata il
24 settembre 2003, rafforza specificamente aspetti della collaborazione tra questi due organismi.21
La standardizzazione di numerose procedure di pianificazione
nel settore finanziario, amministrativo o delle relazioni con i
mezzi di comunicazione dovrebbe consentire nel tempo una più
rapida pianificazione delle future operazioni UE. I miglioramenti
in questi settori sono tanto più necessari in quanto l’Unione rileverà la missione SFOR in Bosnia-Erzegovina. Con un mandato che
dovrebbe avere durata triennale e svolgersi nel quadro degli
accordi ‘Berlin plus’, la missione richiederà un organico significativo: circa 7 000 persone. Tra le sfide attuali vi è la necessità di assicurare un’efficace ripartizione delle responsabilità allorché la
forza UE avrà raggiunto le restanti forze NATO e USA già presenti
sul terreno, nonché di stabilire una catena di comando chiara.
Quando EUFOR – si chiamerà Operazione Althea - diventerà una
realtà alla fine del 2004, rappresenterà un test decisivo per la
PESD.
19. L’art. 24 TUE rappresenta attualmente l’unica base per la negoziazione di accordi tra l’UE e i
paesi terzi.
20. ‘Lessons from the planning of
the EU Police Mission in Bosnia
and Herzegovina (EUPM), autumn 2001 - December 2002’,
Consiglio dell’Unione europea,
doc. 11206/03 del 14 luglio 2003,
p. 9.
21. ‘Dichiarazione comune sulla
cooperazione ONU-UE nella
gestione delle crisi’. New York, settembre 2003.
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PESD: i primi
cinque anni
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Durante la guerra fredda, difesa europea era sinonimo di difesa
atlantica. Gli Stati Uniti rappresentavano la garanzia estrema contro la minaccia sovietica. La NATO, basata sulla difesa collettiva dei
suoi membri e sulla deterrenza nei confronti del nemico comune,
era la pietra angolare della sicurezza europea, anche se alcuni paesi
europei facevano affidamento più sulla loro difesa nazionale che
sulla struttura collettiva. All’ombra di questo apparato l’integrazione europea è andata evolvendo dal mercato comune all’unione
monetaria. La fine della minaccia sovietica ha comportato per la
NATO la perdita della sua ragion d’essere fondamentale, e per l’Unione la necessità di farsi maggiormente carico della sua sicurezza
in un mondo in rapido cambiamento. Tuttavia, anche dopo la
caduta del muro di Berlino l’Alleanza atlantica è rimasta il quadro
fondamentale di sicurezza in Europa. Né gli Stati Uniti, né la maggior parte dei paesi europei erano disposti a porre fine al partenariato atlantico. D’altra parte, se la NATO intendeva rimanere
un’organizzazione di difesa rilevante e credibile, doveva procedere
a delle modifiche fondamentali per tenere conto del nuovo contesto di sicurezza. La modifica delle relazioni UE-NATO, specialmente dopo la guerra in Jugoslavia, era il più importante di questi
cambiamenti necessari.
Prima di passare in rassegna le principali questioni relative alla
PESD e alla NATO, occorre sottolineare che l’Unione e la NATO
sono due istituzioni distinte, con regole, funzioni e, soprattutto,
culture specifiche. La NATO è essenzialmente un’organizzazione
militare il cui compito principale consiste nella condotta delle
operazioni militari decise dai suoi membri. L’Unione è molto più
di questo: nel corso degli anni ha posto in essere un’ampia gamma
di competenze e di politiche comuni, che si estendono dal campo
economico a quello giudiziario. Nelle sue relazioni esterne, l’Unione (Comunità più paesi membri) è il principale contributore
mondiale in materia di aiuti e assistenza economica ai paesi in via
di sviluppo. Da quando, nel 2001, le competenze dell’Unione
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europea occidentale sono state trasferite all’UE, l’Unione è diventata un nuovo attore sulla scena della sicurezza, pur disponendo di
un’ampia serie di strumenti per affrontare le questioni relative alla
sicurezza, dalla gestione delle crisi alla stabilizzazione a lungo termine, dall’intervento armato rapido alle operazioni di polizia.
Queste differenze sono essenziali per comprendere le questioni e i
dibattiti scaturiti di recente. Tuttavia non si deve dimenticare che
i membri europei che fanno parte della NATO e i partner dell’UE
sono all’incirca gli stessi. Per quanto riguarda le due organizzazioni, pertanto, non si dovrebbe dare un’importanza eccessiva alle
controversie ed ai malintesi. Il più delle volte è la politica statunitense ad essere in gioco, non quella della NATO. Specialmente
dopo l’11 settembre, le relazioni UE-NATO si iscrivono nel quadro
di un dibattito transatlantico più ampio, che nel 2003 è stato
segnato da una profonda divergenza sulla guerra in Iraq.
Entrambe le organizzazioni ne hanno sofferto: la NATO si è spaccata sugli aiuti alla Turchia; l’Unione, dal canto suo, si è divisa
sulla guerra in Iraq. Eppure, come vedremo, in questi tempi di crisi
le due organizzazioni hanno messo a punto le loro relazioni firmando gli accordi ‘Berlin plus’.
La questione della difesa e della sicurezza europea è sempre
stata oggetto di contenzioso nei dibattiti sia transatlantici che
europei. Da Saint-Malo in poi, il nocciolo delle relazioni EUNATO è consistito nel grado di autonomia europea da un lato e,
dall’altro, nel primato atlantico. Nell’ultimo decennio tali questioni hanno trovato varie risposte, trasformandosi in un dibattito più ampio sul ruolo degli Stati Uniti in Europa e sull’evolvere
della natura della sicurezza internazionale. Il presente capitolo
esaminerà innanzitutto i mutamenti della struttura della NATO;
quindi si soffermerà sulle attuali relazioni tra la PESD e la NATO;
infine, delineerà le questioni ed i problemi irrisolti per quanto
concerne l’interazione fra le due organizzazioni.
La dimensione europea della NATO
Dopo il 1989 non era ben chiaro se l’Alleanza atlantica potesse
sopravvivere alla scomparsa della minaccia sovietica, considerata la
sua ragione d’essere principale e il cemento che teneva uniti i suoi
membri. Il primo adattamento riguardò l’unificazione della Germania. Non era affatto ovvio che la Germania potesse essere riuni140
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ficata e continuare rimanere all’interno della NATO: una Germania all’interno della NATO con uno status analogo a quello della
Francia, una Germania con una parte orientale neutrale, una Germania appartenente sia al patto di Varsavia che alla NATO, l’implosione dell’Alleanza o un disimpegno americano dall’Europa
erano all’epoca opzioni prese seriamente in considerazione da
esperti e funzionari. L’integrazione della Germania unificata nella
NATO, opzione attivamente auspicata da Washington e accettata,
contro ogni aspettativa, da Mosca, consentì di consolidare il monopolio atlantico sulle questioni relative alla sicurezza europea.1 La
riunificazione del continente europeo implicava una trasformazione della NATO, iniziata a livello politico nel 1992 con l’apertura delle sue istituzioni ai paesi dell’Europa orientale attraverso il
Consiglio di cooperazione nord-atlantica e, a livello militare, con
l’adozione dell’iniziativa del partneriato per la pace. La firma di un
nuovo atto fondatore con la Russia e di una carta con l’Ucraina,
che hanno consentito, prima nel 1997 e poi nel 2004, l’allargamento dell’alleanza stessa, hanno segnato la fine di tale processo.
L’aspetto più importante di queste trasformazioni riguardava
le relazioni tra la NATO e l’UEO, e poi, a partire dal 2001, con l’Unione europea. All’inizio degli anni ’90 il panorama della sicurezza
europea appariva per certi versi schizofrenico. Da un lato l’Unione, quale entità politica, aveva mosso a Maastricht i primi passi
verso una politica estera e di sicurezza comune ma non disponeva
di una sua capacità di difesa; dall’altro la NATO rimaneva lo strumento di sicurezza fondamentale in Europa, ma aveva ora una
nuova vocazione politica nei confronti dei suoi ex nemici ad est. I
limiti di questa architettura ibrida divennero evidenti ai primi
segni di tensione nei Balcani. La NATO intervenne tardivamente
nel conflitto. Riluttante a dispiegare la NATO in Bosnia, Washington finì con l’accettarne il coinvolgimento quando venne
messa in gioco la credibilità dell’Alleanza. Inoltre la divisione dei
compiti durante l’intervento militare, con le forze di terra europee
che correvano la maggior parte dei rischi mentre l’aviazione statunitense operava da un’altitudine di sicurezza, era sfavorevole per
gli europei. Questo disequilibrio in termini di rischi e questa divergenza strategica suggeriscono una riforma dell’Alleanza atlantica
che tenesse conto della specificità europea.
L’amministrazione Clinton, determinata a mantenere a livelli
minimi il coinvolgimento statunitense nei Balcani conformemente alla dottrina delle ‘zero vittime’, ma in generale favorevole
1. Su questo episodio cruciale, si
vedano fra l’altro William C.
Wohlforth (racc.), Witnesses to the
End of the Cold War (Baltimore,
Md.: The Johns Hopkins University Press, 1996); Karl Kaiser,
Deutschlands Vereinigung: Die internationalen Aspekte (Bergisch Gladbach: Bastei-Lübbe, 1991; Elizabeth Pond, Beyond the Wall,
Germany’s Road to Unification (Washington, DC: The Brookings Institution, 1993); Philip Zelikow e
Condoleezza Rice, Germany Unified and Europe Transformed
(Cambridge, Mass.: Harvard University Press, 1995).
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agli sforzi di integrazione europea, abbracciò l’idea di una identità
europea di sicurezza e di difesa specifica (IESD) all’interno dell’Alleanza. In seguito alla crisi in Bosnia, gli Stati Uniti riconobbero
che in Europa avrebbero potuto scoppiare crisi in cui Washington
non desiderava intervenire. Nel vertice NATO tenutosi a Bruxelles
nel gennaio 1994 fu raggiunto un compromesso, in base al quale
l’UEO poteva agire autonomamente, ma facendo ricorso a mezzi e
capacità della NATO. La soluzione proposta, messa a punto nel
vertice ministeriale di Berlino del giugno 1996, era incentrata sul
concetto di forze ‘separabili ma non separate’ che l’UEO poteva
usare per le sue operazioni. Il concetto di Gruppi operativi interforze multinazionali rappresentava uno strumento che consentiva all’UEO di diventare rapidamente operativa senza una duplicazione di comandi e personale. Con l’accordo di Berlino l’identità
europea all’interno dell’Alleanza, riconosciuta per la prima volta
nel nuovo concetto strategico approvato dalla NATO nel 1991,
assunse carattere operativo. Erano state poste le condizioni che
conferivano all’UEO un vero e proprio ruolo di difesa, mettendola
in grado di svolgere perlomeno alcuni dei compiti di Petersberg
definiti nel 1992. In poche parole, la NATO era sempre più ‘europeizzata’.2 Ma in Europa la faccia europea della medaglia atlantica
continuava ad essere oggetto di dibattito: le ambiguità circa la
legittimità dell’UEO, le incertezze sul ruolo dell’Unione in materia
di difesa e la controversia sull’appartenenza all’una o all’altra
organizzazione e sulle loro rispettive funzioni furono elementi
che contribuirono ad una relativa paralisi, da cui si uscì finalmente a Saint-Malo.
Com’è stato osservato in un precedente capitolo, la dichiarazione di Saint-Malo è stato l’atto fondatore della PESD. La sua
importanza risiede tra l’altro nel fatto che grazie ad essa l’Unione è
divenuta l’istituzione legittimamente preposta alla difesa europea. Mettendo l’accento sulla capacità di azione autonoma dell’Europa grazie a strutture adeguate ad essa proprie ‘ove la NATO
non sia impegnata nel suo complesso’, e pur riconoscendo che tale
sforzo doveva essere condotto ‘senza inutili duplicazioni’, la
dichiarazione di Saint-Malo diede nuovo slancio al dibattito sul
grado di autonomia europea all’interno, ma anche all’esterno dell’Alleanza.3 Tale dichiarazione colse di sorpresa i responsabili statunitensi e Washington cominciò a preoccuparsi sempre più del
possibile indebolimento dell’Alleanza, tanto più che la Gran Bretagna, dopo esservisi opposta per dieci anni, aveva cambiato idea
2. L’espressione è di Philip H. Gordon, ‘The Western European
Union and NATO’s ‘Europeanisation’ , in Philip H. Gordon (racc.),
NATO’s Transformation (Lanham,
Md.: Rowman & Littlefield,
1997), pp. 257-70.
3. Le citazioni sono tratte dalla Dichiarazione di Saint-Malo.
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sulla fusione dell’UEO nell’Unione. L’amministrazione Clinton
appoggiò questa evoluzione verso una difesa europea, ma con
molte riserve, che furono riassunte dal segretario di Stato Madeleine Albright nella formula detta delle ‘3 D’: nessun disaccoppiamento (decoupling), nessuna discriminazione, nessuna duplicazione. Il primo elemento era essenzialmente politico, perché la
capacità dell’Europa di assolvere i compiti di Petersberg era militarmente limitata e quindi, in pratica, il rischio di un disaccoppiamento strategico fra l’Europa e Washington nel settore della sicurezza era limitato. Il secondo riguardava i membri europei della
NATO non appartenenti all’Unione europea, soprattutto perché a
Saint-Malo era stata promossa la possibilità di un’azione autonoma, vale a dire fuori della NATO. La questione fondamentale
era se e a quali condizioni tali paesi potessero prendere parte alle
discussioni e alle decisioni concernenti operazioni PESD. A tale
proposito il vertice europeo di Colonia del giugno 1999 assunse
toni più cauti della dichiarazione di Maastricht: pur ribadendo la
possibilità di partecipare ‘pienamente e su un piano di parità’ alle
operazioni dell’UE, sottolineava anche il principio dell’‘autonomia dei processi decisionali dell’UE’.4 Come vedremo nella prossima sezione, questo elemento di non discriminazione acquisì
un’importanza cruciale nel caso della Turchia. Rimaneva infine la
questione della non duplicazione. Washington desiderava incoraggiare la migliore utilizzazione possibile dei bilanci, in progressiva diminuzione, stanziati dai paesi europei per la difesa promuovendo investimenti in capacità di cui la NATO era priva,
piuttosto che in prodotti che l’Alleanza era in grado di fornire. Ciò
presupponeva implicitamente la supremazia della NATO.
Nonostante queste riserve il processo negoziale tra Bruxelles e
Washington si rivelò globalmente costruttivo. Gli Stati Uniti giudicarono che un’Europa con una maggiore responsabilità nelle
operazioni di mantenimento della pace, in particolare nei Balcani,
e con una capacità di azione rafforzata5 fosse nel loro interesse. In
realtà, Washington era impegnata in un’altra iniziativa lanciata
poco dopo il vertice di Bruxelles del 1994: l’allargamento dell’Alleanza ad est. Si trattava di un’iniziativa essenzialmente americana, che suscitava entusiasmo minore in alcuni membri europei
della NATO. Negli Stati Uniti il processo di allargamento della
NATO diede vita ad un intenso dibattito sull’Alleanza, la sua
natura, il suo ruolo e il suo futuro. Il processo di allargamento, che
ebbe origine in uno studio della RAND Corporation successiva-
4. Le citazioni sono tratte dalle
conclusioni della presidenza,
Consiglio europeo di Colonia, 3 e
4 giugno 1999. A Maastricht è
stato convenuto che i membri non
appartenenti all’UE ‘della NATO
sono invitati ad acquisire lo status
di membri associati dell’UEO in
modo tale da poter partecipare
pienamente alle attività dell’UEO
stessa.’
5. Kori Schake, ‘Managing Divergence’, in Charles Grant, Kori
Schake e Dimitry Danilov, ‘The
EU’s Rapid Reaction Capability’,
CEPS-IISS, ESF Working Paper, ottobre 2001, pp. 12-18.
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mente avallato dalla Casa Bianca, trasformò essenzialmente la
NATO da un’organizzazione di difesa collettiva in un’istituzione
di sicurezza collettiva fondata su valori democratici comuni.6
Questo processo non fece diminuire il sostegno americano a
favore di una maggiore autonomia europea, ma nella seconda
metà degli anni ’90 collocò la Russia al centro dell’attività diplomatica dell’amministrazione statunitense.7
Nel vertice di Washington del 1999 la NATO allargata avrebbe
dovuto celebrare il suo cinquantesimo anniversario assieme ad
una famiglia atlantica allargata ma, al tempo stesso, il conflitto in
Kosovo non induceva ai festeggiamenti. Quello che avrebbe
dovuto essere un sogno wilsoniano quasi si trasformò per la
NATO in un incubo. Alla fine la NATO ebbe la meglio contro
Milosevic, ma la coesione dell’Alleanza ne uscì seriamente provata.
La strategia della diplomazia coercitiva suscitò gravi tensioni
all’interno dell’Alleanza, mettendo i paesi europei in una situazione ambigua: da un lato l’inadeguatezza tecnologica dei loro
mezzi li rendeva dipendenti dalle iniziative degli Stati Uniti; dall’altra il controllo politico consensuale vigente nell’Alleanza conferiva loro un diritto di supervisione sugli obiettivi, scelti per lo più
dai responsabili della pianificazione del comando statunitense in
Europa. Mentre gli alleati europei effettuavano solo circa il 40%
degli attacchi aerei, la crisi latente nell’Alleanza nasceva dal fatto
che, a fronte della grande superiorità tecnologica americana nei
cieli, erano necessari negoziati politici per autorizzare la maggior
parte delle sortite (807 su 976) contro i bersagli effettuate oltre a
quelle inizialmente pianificate.8 Nei media americani si moltiplicarono le discussioni sulla ‘guerra di comitato’ (war by committee),
termine che si riferiva alle eccessive restrizioni alla libertà di manovra americana, ma che era di fatto pienamente conforme ai principi fondamentali dell’organizzazione atlantica. I responsabili del
Pentagono, ma anche consulenti della cerchia del candidato alla
presidenza Bush, ribadirono il valore fondamentale della NATO.
La conclusione cui giunsero non si prestava ad ambiguità: il
Kosovo era la prima guerra della NATO e avrebbe anche dovuto
essere l’ultima.9 Il principale cambiamento della politica statunitense rispetto alla NATO non fu dovuto né agli accordi istituzionali relativi all’IESD, né al suo allargamento alla Polonia, alla
Repubblica ceca e all’Ungheria, bensì alle operazioni militari in
Kosovo. A tale riguardo il conflitto in Kosovo segnò un punto
decisivo nella storia della NATO, significativo quanto gli attacchi
6. Per una sintesi dello studio della
RAND, si veda Ronald Asmus,
Richard Kugler e Stephen Larrabee, ‘Building a New NATO’, Foreign Affairs, vol. 72, n. 4, settembre-ottobre 1993, pp. 28-40. Per
una descrizione dettagliata di tale
processo, si vedano fra gli altri James M. Goldgeier, Not Whether but
When: The U.S. Decision to Enlarge
NATO (Washington, DC: The
Brookings Institution, 1999); Ronald D. Asmus, Opening NATO’s
Door: How the Alliance Remade Itself
For a New Era (New York: Columbia
University Press, 2002); e JeanYves Haine, Les Etats-Unis ont-ils besoin d’alliés ? (Paris: Payot, 2004).
7. A tale riguardo si veda Strobe
Talbott, The Russian Hand, A Memoir of Presidential Diplomacy (New
York: Random House, 2002).
8. Le cifre citate sono tratte da
John E. Peters et al., European Contributions to Operation Allied Force
(Santa Monica, Calif.: RAND Corporation, 2001), p. 25.
9. A tale proposito si veda Wesley
Clark, Waging Modern War: Bosnia,
Kosovo and the Future of Combat (Oxford: PublicAffairs Ltd, 2001); Ivo
H. Daalder and Michael E. O’Hanlon, Winning Ugly : NATO’s
War to Save Kosovo (Washington,
DC: Brookings Institution Press,
2000); e Jean-Yves Haine, ‘L’Alliance superflue ?’, Esprit, agostosettembre 2003, p. 5-21.
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terroristici dell’11 settembre 2001 contro il World Trade Center ed
il Pentagono. Alla fine del 1999, l’europeizzazione della NATO era
ormai accettata e, fino a quel momento, gradita, ma dal punto di
vista di Washington l’Alleanza aveva perso parte del suo valore
aggiunto. Ciò portò ad un cambiamento dell’equazione transatlantica: le iniziative e gli adeguamenti nel dibattito sulla difesa
europea emanavano in primo luogo dall’Unione.
La dimensione atlantica della PESD
Come abbiamo sottolineato nella panoramica storica, il Kosovo fu
un segnale d’allarme per gli europei. Se non si fossero impegnati a
migliorare le loro capacità militari, la loro influenza e la loro
responsabilità avrebbero continuato ad essere limitate. Al tempo
stesso l’unità della NATO si era rivelata un fattore essenziale nella
vittoria contro Milosevic. Quindi autonomia europea non era sinonimo di alienazione, ma di responsabilità. La crisi del Kosovo fornì
pertanto un’ulteriore giustificazione all’elaborazione di una PESD
così come concepita a Saint-Malo. Nell’aprile 1999 il vertice della
NATO prese atto di questo nuovo sviluppo e modificò le decisioni
di Berlino del 1996 in modo da tener conto della nuova volontà
espressa dall’Unione, che subentrava all’UEO, di diventare un
attore autonomo nello svolgimento dei compiti di Petersberg. In
particolare si convenne di prendere disposizioni per ‘un sicuro
accesso dell’UE alle capacità di pianificazione della NATO al fine di
contribuire alla pianificazione militare delle operazioni dirette dall’Unione europea’ e venne riconosciuto il principio della ‘presunzione di disponibilità per l’UE di capacità e risorse comuni della
NATO previamente individuate, da impiegare in operazioni
dirette dall’UE’. Questi nuovi accordi, i cosiddetti ‘Berlin plus’,
preparano il terreno alla cooperazione fra la NATO e l’UE. Un
mese dopo, a Colonia, l’Unione fece sua la dichiarazione di SaintMalo e nel dicembre 1999 venne definito l’obiettivo primario di
Helsinki.
Per realizzare tale obiettivo vennero create numerose istituzioni. Questa nuova struttura europea portò gli Stati Uniti a
vedere nella PESD una potenziale rivale, che avrebbe finito per
dotarsi di una sua infrastruttura militare. Di fatto a Helsinki
venne ribadito l’impegno dell’Unione ‘per la piena consultazione,
cooperazione e trasparenza tra l’UE e la NATO’. Inoltre fu posto
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l’accento sulla capacità autonoma ‘ove non sia impegnata la
NATO nel suo complesso’ e si ribadì che il processo PESD avrebbe
evitato inutili duplicazioni.10 A Santa Maria da Feira il Consiglio
europeo propose di istituire quattro gruppi di lavoro per migliorare la cooperazione con la NATO sulle questioni relative alla sicurezza, in particolare lo scambio di informazioni e la condivisione
delle capacità, la relazione fra l’obiettivo primario di Helsinki e l’iniziativa sulla capacità di difesa della NATO, le modalità dell’accesso dell’UE ai mezzi della NATO (il nucleo degli accordi ‘Berlin
plus’) e la definizione di accordi permanenti tra le due organizzazioni.
In generale non c’era niente di fondamentalmente nuovo che
potesse sconvolgere Washington. Eppure nel 2000 l’amministrazione americana cominciò a concentrare la sua attenzione su due
questioni la cui soluzione avrebbe richiesto sforzi da entrambe le
parti. La prima era la questione del primato della NATO o di
un’autonomia dell’UE. Gli Stati Uniti all’epoca precisarono che
non avrebbero consentito un’infrastruttura di pianificazione
separata all’interno dell’UE: in qualità di coordinatore il vicecomandante supremo delle forze alleate in Europa (D-SACEUR) si
sarebbe occupato delle operazioni decise dall’UE, anche qualora
non utilizzassero mezzi della NATO. Nel dicembre 2000 il Segretario della difesa statunitense William Cohen formulò un monito
che sembrò irrigidire la posizione americana: ‘Se le capacità identificate come necessarie non saranno soddisfatte ... se i nostri
comandi saranno in competizione ... la NATO potrebbe diventare
un relitto del passato.’11 A Nizza, tuttavia, il Consiglio operò una
netta distinzione tra le operazioni autonome il cui comando strategico sarebbe stato fornito da un paese europeo e le operazioni
che si sarebbero servite di mezzi e capacità della NATO e di cui
sarebbe stato responsabile il D-SACEUR. Washington avrebbe
preferito che fosse la NATO, e non l’Europa, a fare questa distinzione, in modo da preservare il primato dell’Alleanza che avrebbe
delegato all’Unione le operazioni in cui la NATO decidesse di non
impegnarsi. Per gli Stati Uniti la responsabilità della pianificazione avrebbe dovuto essere in funzione della natura dell’operazione e, di conseguenza, si sarebbe dovuto procedere innanzi tutto
ad una pianificazione congiunta, decidendo in seguito quale organizzazione - NATO o UE - sarebbe stata responsabile dell’operazione. Dal punto di vista europeo, tuttavia, tale distinzione rientrava chiaramente nelle competenze dell’Unione qualora essa
10. Citazioni tratte dal Consiglio
europeo di Helsinki, conclusioni
della presidenza.
11. Segretario Cohen, 5 dicembre
2000, citato da Robert Hunter,
The European Security and Defense Policy, NATO’s Companion or Competitor (Santa Monica, Calif.: RAND
Corporation, 2002), p. 106.
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decidesse di agire autonomamente. La definizione dell’autonomia dell’Unione non poteva essere appannaggio di un’altra organizzazione. A monte di questo dibattito vi era la questione del
diritto di primo rifiuto della NATO, si trattava cioè di stabilire in
quali circostanze avrebbe deciso che l’Alleanza non si sarebbe
impegnata nel suo complesso in un’operazione specifica. Tale
diritto non è mai stato esplicitamente riconosciuto e continua ad
essere una questione controversa.
Il secondo punto riguardava i membri europei della NATO non
appartenenti all’UE e la questione della discriminazione. Tale
aspetto di per sé non preoccupava l’America, ma era legato al problema della Turchia. Dato che gli accordi ‘Berlin plus’ erano stati
congelati fino a che non si fosse trovato un accordo generale, di
fatto tale questione paralizzò la normalizzazione definitiva delle
relazioni tra l’Unione e la NATO. Per la Turchia la difficoltà risiedeva nella formulazione scelta a Colonia, secondo cui l’Unione
avrebbe preso le disposizioni necessarie per assicurare che tutti i
partecipanti alle operazioni dirette dall’UE godessero di pari
diritti nella conduzione delle stesse, ‘fatto salvo il principio dell’autonomia dei processi decisionali dell’UE, segnatamente il
diritto del Consiglio di discutere e decidere politiche e questioni di
principio’. In parole semplici tutti i partecipanti godevano degli
stessi diritti, ma sarebbero diventati partecipanti solo su decisione
del Consiglio. A Helsinki venne ribadito il principio della necessità
del dialogo, della consultazione e della cooperazione con i membri
europei della NATO non appartenenti all’UE. A Santa Maria da
Feira, nel giugno 2000, vennero definite le modalità di tale consultazione. Nei periodi non di crisi avrebbero avuto luogo riunioni
periodiche dei 15 membri dell’Unione e dei 15 paesi interessati,
vale a dire i paesi europei della NATO non appartenenti all’UE e i
candidati all’adesione, in formazione 15 + 15, e in tale quadro si
sarebbero tenute almeno due riunioni dei membri europei della
NATO non appartenenti all’UE in formazione 15 + 6. Nei periodi
di crisi venivano distinte due fasi: la fase preoperativa, coincidente
con il periodo che precede la decisione del Consiglio, in cui il dialogo e la consultazione sarebbero stati intensificati a tutti i livelli,
incluso il livello ministeriale. Nel caso in cui venisse presa in considerazione un’opzione che prevedeva l’utilizzazione dei mezzi e
delle capacità della NATO, sarebbe stata riservata particolare
attenzione alla consultazione con i sei membri europei della
NATO non appartenenti all’UE. Durante la fase operativa questi
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ultimi, se lo desideravano, avrebbero potuto partecipare all’operazione nel caso in cui essa utilizzasse mezzi e capacità della NATO.
In caso contrario sarebbero stati invitati a partecipare all’operazione su decisione del Consiglio. Tali disposizioni, confermate a
Nizza, ribadivano il controllo dell’UE sulla PESD, consentendo al
tempo stesso la partecipazione dei membri europei della NATO
non appartenenti all’UE. Poiché la domanda di adesione della
Turchia all’Unione era stata accolta in linea di principio a Helsinki, queste disposizioni avrebbero dovuto costituire una garanzia adeguata per la Turchia. Tuttavia nella riunione ministeriale
della NATO del 14 e 15 dicembre 2000 Ankara, ritenendosi esclusa
dal processo decisionale, dichiarò che avrebbe bloccato gli accordi
‘Berlin plus’.
L’ostacolo della Turchia risultava ancora più pregiudizievole se
si tiene conto del fatto che nell’aprile 2001 erano cominciate le
riunioni ufficiali fra il Consiglio Nord Atlantico (NAC) e il Comitato Politico e di Sicurezza (CPS), e che la NATO e l’Unione avevano realizzato progressi concreti sugli aspetti tecnici del pacchetto ‘Berlin plus’. Sul piano militare le consultazioni tra i
comandi delle due organizzazioni diedero avvio al processo di
identificazione delle capacità della NATO da utilizzare ‘ove non
sia impegnata la NATO nel suo complesso’, per riprendere la formula usata anche a Helsinki, nonchè ai lavori concernenti il meccanismo di accesso alla pianificazione e alle capacità. Nel vertice
atlantico svoltosi a Budapest nel maggio 2001 vennero realizzati
progressi considerevoli, in particolare a livello operativo e per
quanto riguarda il ruolo del D-SACEUR. La missione congiunta
del Segretario generale della NATO, Lord Robertson, e dell’Alto
Rappresentante dell’UE per la PESC, Javier Solana, nell’ex Repubblica jugoslava di Macedonia simboleggia l’atmosfera costruttiva
che regnava fra le due organizzazioni.
Poiché alcuni governi europei desideravano subordinare tutte
le operazioni europee di gestione delle crisi alla conclusione di un
accordo definitivo sul pacchetto ‘Berlin plus’, la PESD di fatto si
trovò a dipendere dall’eccezione turca. In base al principio
secondo cui non si decide nulla finché non si è deciso tutto, tuttavia, non fu possibile pervenire ad un accordo globale. Il testo di
ispirazione britannica approvato ad Ankara nel dicembre 2001 fu
un ulteriore tentativo di uscire dall’impasse. Benché tale documento, su richiesta della Grecia, non menzionasse specificamente
la Turchia, esso confermava che la PESD, a prescindere dal tipo di
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crisi, non si sarebbe rivolta contro un alleato ed avrebbe rispettato
gli obblighi assunti dagli Stati membri dell’Unione nei confronti
dei membri della NATO. L’intensificazione delle consultazioni tra
l’UE e i sei della NATO avrebbe dovuto consentire a tali paesi di
essere ‘associati’ alle decisioni, di divenire ‘interlocutori permanenti’ del CPS e di nominare ‘rappresentanti’ presso il Comitato
militare dell’UE. Il documento specificava inoltre che, per le operazioni dell’UE cui tali paesi erano invitati a partecipare, il Comitato dei contributori sarebbe stato la sede principale per la condotta delle operazioni e che le decisioni sarebbero state adottate
per consenso, anche se il CPS avesse mantenuto, se necessario, il
controllo politico. Infine nel caso di crisi insorte in ‘prossimità
geografica’ di tali paesi e suscettibili di nuocere alla loro ‘sicurezza
nazionale’, il Consiglio europeo si impegnava ad avviare con loro
dialogo e consultazioni e a tener conto delle loro posizioni, pur
rispettando le disposizioni dell’art. 17 TUE.12
Il compromesso proposto ad Ankara fu respinto della Turchia,
i cui esponenti militari ritennero troppo limitate le concessioni.
Tuttavia il testo sarebbe servito di base all’accordo finale firmato il
13 dicembre 2002 da Javier Solana e Lord Robertson.13 Le pressioni americane, la decisione di Copenaghen sull’allargamento e,
soprattutto, l’avvento al potere del partito di Recep Tayyip Erdogan hanno reso possibile, dopo tre anni di negoziati, la ratifica
delle disposizioni di Nizza riguardanti gli accordi ‘Berlin plus’.
L’accordo di Bruxelles del 16 dicembre 2002 ha così aperto la
strada ad un partenariato strategico tra l’UE e la NATO sulla
gestione delle crisi. La messa in atto di accordi permanenti, in
particolare quello sulle informazioni classificate, completata
l’11 marzo 2003, ha consentito all’UE di subentrare nell’operazione ‘Allied Harmony’ nell’ex Repubblica jugoslava di Macedonia
il 31 marzo 2003. La questione della dimensione atlantica della
PESD era finalmente risolta.
12. Sul testo di Ankara, si veda Antonio Missiroli, ‘Turkey and EUNATO Cooperation’, Security Dialogue, volume 33, n. 1, marzo
2002, pp. 9-26
Verso un giusto equilibrio fra la PESD e la NATO
13. L’accordo dettagliato che disciplina tutti gli aspetti della
NATO-PESD è classificato. Per
uno studio dettagliato sulla legittimità degli accordi ‘Berlin plus’, si
veda Martin Reichard, ‘Some Legal Issues Concerning the EUNATO Berlin Plus Agreement’,
Nordic Journal of International Law,
vol. 73, 2004, pp. 37-67.
Il dibattito circa l’autonomia dell’UE e/o il primato della NATO si
è tuttavia riaperto con toni drammatici tra Belgio, Francia, Germania e Lussemburgo nel vertice dell’aprile 2003, in seguito alla proposta di istituire un comando europeo, che avrebbe dovuto aver
sede a Tervuren, nei pressi di Bruxelles, per rendere più efficiente il
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funzionamento della PESD.14 Come già osservato, nel quadro del
pacchetto ‘Berlin plus’ si era convenuto che la condotta delle operazioni europee autonome avrebbe potuto essere affidata a
comandi nazionali. L’idea di istituire a tale riguardo un comando
europeo appariva a Washington un evidente e inutile doppione,
che contrastava con lo spirito degli accordi ‘Berlin plus’ ed avrebbe
rimesso in questione quanto era stato firmato un mese prima.
Benché la scelta del momento in cui tenere il vertice di Bruxelles
fosse stata evidentemente poco felice, anche la reazione di Washington fu eccessiva.
Da un lato la riunione venne definita con toni sprezzanti un
vertice ‘al cioccolato’, dall’altro la proposta di un comando europeo fu considerata come il simbolo della competizione tra l’UE e la
NATO’, e quindi come una gravissima minaccia per la NATO.15
Questa nuova controversia si iscriveva ovviamente in quella più
ampia sull’Iraq, che vedeva contrapposti gli stessi quattro paesi
europei e gli Stati Uniti. Ma le sue ripercussioni avrebbero potuto
indebolire ulteriormente la fiducia che era stata costruita nel
corso dei due anni precedenti fra la PESD e la NATO.
La questione fu tuttavia risolta in modo equilibrato. Grazie ad
un’intensa attività diplomatica britannica intesa a rassicurare
Washington, nel vertice di Napoli della fine di novembre 2003
Parigi, Londra e Berlino conclusero un accordo che apriva la strada
ad una posizione comune europea. La soluzione era dettata da una
logica più politica che militare. Fu convenuto di dotare lo stato
maggiore dell’UE di una piccola squadra di pianificatori. Parallelamente sarebbe stata creata una cellula di pianificazione europea
in seno alla NATO con sede presso SHAPE, a Mons. Sul piano istituzionale gli europei hanno ora tre diverse opzioni d’azione. Possono agire 1) nel quadro di un’operazione della NATO, 2) in collaborazione con l’Alleanza, in virtù degli accordi ‘Berlin plus’ o,
come terza soluzione, 3) possono condurre un’operazione autonoma diretta da una ‘nazione-guida’ con ricorso ad un comando
nazionale, oppure ad un comando europeo. Queste tre opzioni
sono ormai oggetto di un accordo.
Al di là degli accordi istituzionali, il reale fondamento della
cooperazione tra la NATO e l’Unione continuerà ad essere la fiducia. Quando nel maggio 2003 l’Unione lanciò la sua prima operazione militare autonoma nella Repubblica democratica del
Congo, all’interno della NATO qualcuno ritenne che il principio
della consultazione non fosse stato effettivamente rispettato e che
14. Si veda il punto 7 della dichiarazione del vertice del 29 aprile
2003, in Antonio Missiroli (racc.),
‘From Copenhagen to Brussels.
European defence: core documents, Volume IV’, Chaillot Paper
67 (Paris: Istituto di studi per la sicurezza dell’UE, December 2003),
p. 80.
15. A tale proposito, si veda ‘A lull
between the storms’, The Economist, 25 settembre 2003. La reazione americana fu analoga a
quella suscitata agli inizi degli anni
’90 dall’iniziativa per l’Eurocorpo:
eppure proprio tale corpo sta per
assumere il comando dell’ISAF in
Afghanistan.
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l’operazione Artemis fosse più un fatto compiuto che il risultato
di un adeguato processo di consultazione. Anche in questo caso il
senso di frustrazione era connesso più con la controversia sull’Iraq
che con le implicazioni pratiche dell’operazione europea in una
regione in cui, comunque, la NATO non sarebbe intervenuta. Se
manca la fiducia nelle buone intenzioni dei partner, gli accordi
istituzionali non saranno sufficienti per superare le divergenze.
Ciò vale soprattutto per un’organizzazione che ricorre all’uso collettivo della forza.
Un altro elemento essenziale per una buona relazione fra le due
organizzazioni è la rispettiva capacità di agire ed affrontare le
sfide del ventunesimo secolo in materia di sicurezza. Entrambe le
organizzazioni hanno avviato riforme importanti in tal senso.
Per quanto riguarda la NATO il vertice di Praga del novembre
2002 ha proposto la creazione di una ‘forza di risposta NATO’
(NRF) per le missioni più ardue, composta da una componente
aerea in grado di effettuare 200 sortite di combattimento al
giorno, una componente terrestre delle dimensioni di una brigata,
e una componente marittima a livello delle forze navali permanenti della NATO. La forza conterebbe fino a 21 000 effettivi provenienti dal pool di forze europee ad alta prontezza in grado di
combattere assieme, in qualsiasi parte del mondo, con un preavviso di 7-30 giorni. Attualmente, a differenza della proposta originale, sono previste tre forze di reazione con diversi livelli di prontezza che si succederebbero a rotazione. Solo le forze in attesa
sarebbero schierabili. Pertanto l’NRF richiederebbe un totale di
63 000 uomini, vale a dire quasi esattamente lo stesso numero di
effettivi necessario per realizzare l’obiettivo primario di Helsinki.
L’NRF rappresenta un’occasione preziosa per introdurre nelle
forze europee nuovi concetti dottrinali e nuove tecniche. Tuttavia
poiché sia l’NRF che la forza di reazione rapida dell’Unione europea attingono ad uno stesso pool limitato di forze schierabili, è evidente che la maggior parte delle truppe meglio preparate dell’Unione avrà un ‘doppio cappello’. Di conseguenza potrebbero
sorgere controversie sull’organizzazione responsabile della condotta di un’operazione. Se un’operazione fosse prioritaria rispetto
ad un’altra, sorgerebbe il problema di stabilire chi deve condurla,
se la NATO o l’UE. Sussiste quindi, a livello politico, il rischio di
spaccature all’interno dell’Unione sulla priorità da dare ad un’organizzazione rispetto all’altra. Inoltre, se le forze in attesa fossero
poste sotto l’autorità di un comandante interforze della NATO,
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gli europei verrebbero privati delle loro forze più adatte a condurre
azioni indipendenti. Per risolvere questo conflitto potenziale
occorrerebbe che l’NRF rispondesse all’Unione, essendo interamente composta di forze europee.
A livello europeo è stato dato nuovo impulso al potenziamento
delle capacità. In vista della realizzazione del prossimo obiettivo,
l’obiettivo primario 2010, l’accento è ora posto più nettamente
sull’aspetto qualitativo che quantitativo. Grazie ad iniziative quali
il concetto dei ‘gruppi tattici’ (battlegroups), l’instaurazione di una
‘cooperazione strutturata permanente’ ed una maggiore coerenza
nell’uso dei bilanci europei per la difesa grazie all’Agenzia intergovernativa nel settore dello sviluppo delle capacità di difesa, della
ricerca, dell’acquisizione e degli armamenti, ci si è ormai risolutamente indirizzati verso una capacità europea di schieramento
rapido di forze armate in teatri remoti. I responsabili della NATO,
che più volte si erano lamentati della mancanza di iniziative da
parte degli europei per rafforzare le loro capacità, dovrebbero rallegrarsene. La rispondenza fra le riforme riguardanti le capacità
europee e l’NRF è evidente. Tuttavia, non si deve dimenticare che
l’Unione ha sviluppato un approccio globale in tema di sicurezza,
che abbraccia gli aspetti civili delle operazioni di mantenimento
della pace. Questo valore aggiunto dell’UE rispetto alla natura
militare della NATO significa che l’idea di una competizione tra le
due organizzazioni è in ultima analisi fuorviante. Altrettanto
fuorvianti sono le proposte che mirano a ripartire i compiti tra
un’Europa addetta al mantenimento della pace e un’America specializzata in operazioni belliche. La stabilità internazionale ha
bisogno di entrambe.
Infine l’importanza che la NATO continuerà o meno ad avere
in futuro dipende ampiamente dall’atteggiamento degli Stati
Uniti nei confronti dell’Alleanza. Senza entrare nei dettagli dell’evoluzione della politica estera statunitense nel 2003, è evidente
che il nuovo unilateralismo e l’enfasi sulle coalizioni dei volontari,
invece che su alleanze istituzionalizzate quali la NATO, hanno
dimostrato che, agli occhi dell’amministrazione Bush, l’Alleanza e
più in generale l’Europa hanno perso parte della speciale importanza che avevano rivestito negli ultimi cinquant’anni. Benché il
giorno successivo agli attacchi alle torri gemelle ed al Pentagono
Lord Robertson, per la prima volta dalla creazione della NATO,
abbia invocato l’articolo 5, gli Stati Uniti hanno deciso di combattere essenzialmente da soli la loro ‘guerra al terrore’. Dal punto di
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vista dell’Europa è quindi strategicamente corretto e politicamente legittimo rafforzare ed approfondire la sua autonomia in
materia di sicurezza. Ciò non significa la fine della NATO, bensì
una relazione transatlantica migliore, in quanto più equilibrata.16
In fondo, sono gli europei a fornire quasi il 90% delle forze di mantenimento della pace della NATO, dal Kosovo all’Afghanistan.
Da quando la PESD è diventata realtà, le principali divergenze
fra le due organizzazioni si sono incentrate sulle nozioni di autonomia europea e di primato atlantico. Dall’inizio del 2003, tuttavia, il dibattito sul disaccoppiamento ha assunto tutt’altro carattere: non riguarda più il timore che gli europei si ‘disaccoppino’
dalla NATO, quanto la realtà di un’America che si è allontanata
dalla NATO. Resta da vedere se gli Stati Uniti siano pronti ad
impegnarsi in modo più coerente e continuo nel dialogo e nella
collaborazione fra le due sponde dell’Atlantico.
16. Per una riflessione su tale argomento, si veda Rob de Wijk,
‘The reform of ESDP and
EU-NATO Cooperation’, Internationale Spectator, gennaio-marzo
2004, vol. 39, n. 1, pp. 71-82.
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PESD: i primi
cinque anni
Il trattato costituzionale — e oltre
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Adeguamenti e riforme appaiono necessari non solo per l’Unione
europea in generale, ma anche per il settore della PESC/PESD.
Questa necessità emergeva già chiaramente dal testo della cosiddetta ‘Dichiarazione di Laeken’ del dicembre 2001, con la quale si è
dato avvio alla Convenzione sul futuro dell’Europa e alla successiva Conferenza intergovernativa (CIG).
Secondo la dichiarazione, infatti, il cittadino ‘auspica un’Europa più presente nelle questioni di politica estera, di sicurezza e di
difesa, in altri termini, un’azione rinforzata e più coordinata nella
lotta contro i focolai che covano in seno e attorno all’Europa
stessa, nonché nel resto del mondo’. Inoltre, tra le ‘sfide fondamentali’ cui è confrontata l’Unione, si menziona quella che
riguarda la trasformazione dell’‘Unione in un fattore di stabilità e
in un punto di riferimento in un mondo nuovo, multipolare’.
Infine, chiedendosi ‘come possiamo migliorare l’efficienza del
processo decisionale ed il funzionamento delle istituzioni in
un’Unione con circa trenta Stati membri’, il testo solleva anche
altri interrogativi, ad esempio: ‘come dare maggiore coerenza
anche alla politica estera comune? Come potenziare la sinergia fra
l’Alto Rappresentante ed il commissario competente? Come deve
essere ulteriormente estesa la rappresentanza esterna dell’Unione
nei consessi internazionali?1
La Dichiarazione di Laeken ha costituito un menu e un programma di lavoro virtuale per la Convenzione sul futuro dell’Europa che, riunitasi per la prima volta alla fine del febbraio 2002, ha
concluso i suoi lavori verso la metà di luglio 2003. Dopo una fase
iniziale di apertura alla società civile e di definizione di procedure
ed obiettivi, la Convenzione si è suddivisa in una serie di gruppi di
lavoro specializzati, tra i quali figuravano il Gruppo VII ‘Azione
esterna’ (presieduto da Jean-Luc Dehaene) e il Gruppo VIII ‘Difesa’
(presieduto da Michel Barnier). Nonostante alcune inevitabili
duplicazioni, i due gruppi hanno operato in modo indipendente e
1. ‘Dichiarazione di Laeken sul futuro dell’Unione europea’, in
Maartje Rutten (racc.), ‘From
Nice to Laeken - European Defence: Core Documents’, vol. II,
Chaillot Paper 51 (Parigi: Istituto di
studi per la sicurezza dell’UE,
aprile 2002), pp. 112-119.
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tutto sommato efficace, presentando le loro relazioni finali verso
la metà di dicembre 2002.2 La maggior parte delle raccomandazioni contenute in tali relazioni ha trovato eco nel progetto finale
di trattato costituzionale, messo a punto verso la metà di luglio
2003.3
Il progetto di trattato è diventato, a sua volta, oggetto di ulteriori discussioni in sede di CIG, inaugurata dalla Presidenza italiana dell’UE il 4 ottobre 2003. Dopo due mesi di negoziati informali, la CIG non è tuttavia riuscita a pervenire ad una conclusione
consensuale al Consiglio europeo di Bruxelles del dicembre 2003.
Le discussioni sul trattato sono nondimeno riprese nel marzo
2004 e sono giunte a conclusione verso la fine della presidenza di
turno irlandese: al Consiglio Europeo del 18-19 giugno, pochi
giorni dopo le elezioni per il rinnovo del Parlamento europeo, i
capi di Stato e di governo dei 25 paesi membri hanno siglato l’accordo finale sul trattato costituzionale UE. Il testo definitivo, rivisto dagli esperti giuridici, è stato infine sottoscritto solennemente
il 29 ottobre 2004 a Roma, in Campidoglio, nella stessa sala dove
oltre 47 anni prima era stato firmato il Trattato istitutivo della
Comunità economica europea (CEE). Questo saggio si limiterà ad
evidenziare le principali novità istituzionali introdotte dalla Convenzione e dalla CIG nel settore della PESC/PESD e a valutarne le
possibili implicazioni.
Il ‘ministro degli affari esteri dell’Unione’
Sul versante istituzionale, è probabilmente questa la novità più
importante proposta dalla Convenzione europea. L’idea di cercare
di combinare ruoli, attribuzioni e risorse dell’Alto Rappresentante
per la PESC e del Commissario per le relazioni esterne, fino ad
allora proposta soprattutto da esperti ed accademici, era stata in
linea generale accettata dal Gruppo VII, mentre il Gruppo VIII insisteva sulla necessità di centralizzare l’autorità e unificare il
comando nella gestione delle crisi. L’intero dibattito è sfociato nell’articolo I-27 del progetto di trattato costituzionale licenziato
dalla Convenzione, che istituisce la figura di ‘ministro degli affari
esteri dell’Unione’. L’articolo prevede che sia nominato, a maggioranza qualificata, dal Consiglio europeo e che assuma anche la
carica di vicepresidente della Commissione europea. Altri elementi
2. Entrambe le relazioni figurano
in Jean-Yves Haine (racc.), ‘From
Laeken to Copenhagen - European Defence: Core Documents’,
vol. III, Chaillot Paper 57 (Parigi:
Istituto di studi per la sicurezzadell’UE, febbraio 2003), pp. 226264.
3. Per un resoconto completo dei
lavori interni della Convenzione
europea, cfr. Peter Norman, The
Accidental Constitution: The Story of
the European Convention (Bruxelles,
EuroComment, 2003) e Alain
Dauvergne, L’Europe en otage? Histoire secrète de la Convention (Parigi:
Saint-Simon, 2004). Si veda anche il sito www.european-convention.eu.int.
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del suo portafoglio di competenze, ossia coordinamento delle politiche e degli organi esistenti dell’UE, iniziativa politica, attuazione
della gestione delle crisi, rappresentanza esterna, presidenza del
Consiglio dei ministri degli esteri, sono brevemente menzionati in
altri articoli. La CIG ne ha riveduto alcuni aspetti, ma senza modificare sostanzialmente il quadro d’insieme, condensato ora soprattutto negli artt. I-28 e III-296 del trattato (TCUE).4
In generale, più che una ‘fusione’ completa dei due ruoli, gli
articoli tratteggiano un’unione personale: un ‘doppio cappello’,
nel gergo PESD. La mancanza di precisione nella descrizione della
nuova carica risponde a considerazioni di necessità come di
opportunità, dettate dal persistere, tra gli Stati membri, di opinioni divergenti riguardo all’importanza relativa della Commissione e del Consiglio nella gestione della PESC. L’aver mantenuto
una certa dose di imprecisione ha tuttavia contribuito a raggiungere un consenso, lasciando nel contempo aperta la porta a sviluppi futuri non ancora prevedibili. Come nel caso dell’Alto Rappresentante, molto dipenderà dalla persona scelta quale primo
titolare della carica: esperienza, stile e personalità hanno un ruolo
essenziale in queste circostanze.
Nel modellare la funzione di ‘ministro degli affari esteri’ sarà di
fondamentale importanza, ad esempio, il modo in cui questi porterà il ‘doppio cappello’. La duplice responsabilità può comportare da un lato vantaggi notevoli in termini di disponibilità di
risorse (umane e finanziarie) e possibilità di sinergie. Dall’altro,
tuttavia, esiste il problema del carico di lavoro, anche burocratico,
nonchè il rischio che il Consiglio finisca per considerare il ministro soprattutto un commissario, e il resto della Commissione
soprattutto una figura del Consiglio. Oltre a ‘cappelli’ ben confezionati, inoltre, il primo ‘ministro degli affari esteri dell’Unione’
avrà altresì bisogno di un robusto ombrello, in quanto le relazioni
di lavoro e la ripartizione dei compiti con il Presidente del Consiglio europeo, quali previste dalla Convenzione [art.I-21] e poi
riprese nel TCUE [art.I-22], avranno una certa rilevanza per la
natura e l’immagine della carica. Infine, anche il modo in cui sarà
istituito il ‘servizio europeo per l’azione esterna’ - inizialmente
previsto in una dichiarazione allegata al progetto di trattato, poi
inserito invece nell’art. III.296(3) - potrebbe contribuire a far pendere la bilancia a favore di una PESC/PESD più efficace e coerente.
4. In generale, la parte I del progetto di trattato costituzionale definisce gli obiettivi dell’Unione, la
parte III le sue politiche e il suo funzionamento. Tutti gli articoli inerenti alla PESD pubblicati dalla
Convenzione europea e quelli
provvisoriamente rielaborati dalla
CIG tra l’ottobre e il dicembre
2003 figurano in Antonio Missiroli (racc.) ‘From Copenhagen to
Brussels -European Defence: Core
Documents’, vol. IV, Chaillot Paper
67 (Parigi: Istituto di studi per la
sicurezza dell’UE, dicembre
2003). Per il testo finale del TCUE
si veda invece il sito http://europa.eu.int/constitution/index_e
n.htm.
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Difesa reciproca e solidarietà
La Convenzione europea ha altresì introdotto due nuove clausole
intese a rafforzare la coesione interna e la determinazione degli
Stati membri a proseguire l’integrazione.
La prima è il risultato degli sforzi compiuti in precedenza per
inserire una clausola di difesa reciproca nel sistema dell’UE. Fino
al trattato di Amsterdam (1997), tali sforzi si erano tradotti nella
proposta di incorporare gradualmente le disposizioni dell’Unione
dell’Europa Occidentale (UEO) in quelle dell’UE. Tuttavia, quella
proposta era stata alla fine respinta. Questa volta, la Convenzione
ha proposto che una clausola siffatta, riguardante l’eventualità in
cui uno Stato ‘subisca un’aggressione armata nel suo territorio’,
possa essere sottoscritta su base volontaria e rappresenti una
forma specifica di ‘cooperazione più stretta’ aperta a tutti. Pertanto, gli Stati ‘partecipanti’ presterebbero allo Stato aggredito
‘aiuto e assistenza con tutti i mezzi in loro possesso, militari o di
altro tipo’, in conformità dell’articolo 51 della carta delle Nazioni
Unite e in ‘stretta cooperazione’ con la NATO [artt. I-40 (7) e III214].
La nuova clausola suggerita dalla Convenzione ha tuttavia
aperto il campo a vecchi e nuovi timori sulle sue possibili implicazioni strategiche, dal rischio di ‘decoupling’ (tra le due sponde dell’Atlantico e in Europa) allo status dei non alleati, ed è diventato
una parte essenziale della controversia suscitata dall’iniziativa
lanciata da Francia, Germania, Belgio e Lussemburgo, nella primavera del 2003, per creare a Tervuren, nei pressi di Bruxelles, un
comando militare autonomo per le operazioni dell’UE. Tutto ciò
avrebbe condotto successivamente la CIG a riscrivere parzialmente gli articoli in questione, in modo tale che la clausola di
difesa reciproca diventasse vincolante per tutti. Si sono eliminati
così il suo carattere volontario e il formato di ‘cooperazione più
stretta’, prevedendo nel contempo disposizioni specifiche sia per i
membri della NATO che per i paesi non alleati. In certo qual modo
‘neutralizzata’ nel suo impatto, la clausola riveduta è infine rimasta solo nell’articolo I-41 (7) TCUE, come uno degli obiettivi dell’Unione, scomparendo dalla parte III del trattato costituzionale,
ove le politiche sono specificate nel dettaglio. Un protocollo ad hoc
(n.24) annuncia che l’UE e l’UEO stabiliranno accordi per una
‘cooperazione rafforzata’ fra le due organizzazioni – allusione al
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fatto che, con l’entrata in vigore del trattato costituzionale, la vecchia UEO potrebbe essere definitivamente assorbita dall’Unione.
La Convenzione ha introdotto un’altra nuova clausola in base
alla quale l’UE e gli Stati membri ‘agiscono congiuntamente in
uno spirito di solidarietà’ qualora uno Stato membro sia ‘oggetto
di un attacco terroristico o di una calamità naturale o provocata
dall’uomo’. Pertanto, l’Unione ‘mobilita tutti gli strumenti di cui
dispone, inclusi i mezzi militari messi a sua disposizione dagli
Stati membri’ per prevenire la minaccia terroristica e prestare assistenza a uno Stato membro ‘sul suo territorio’. L’attuazione della
nuova clausola sarebbe affidata al Consiglio dei ministri e al
Comitato politico e di sicurezza [articoli I-42 e III-231]. Questa
nuova clausola non ha sollevato controversie di rilievo né all’interno né all’esterno della CIG, forse anche perché la sua portata è
limitata al ‘territorio’ dello Stato membro interessato, ed è ora
incorporata negli artt. I-43 e III-329 (dedicato alla sua messa in
opera) A seguito dell’attentato terroristico di Madrid dell’11
marzo 2004, il Consiglio europeo ha ribadito il suo impegno di
solidarietà reciproca in una dichiarazione comune che riprende
pressoché alla lettera il testo dell’articolo.
Un esame più attento rivela, tuttavia, che entrambi gli articoli
mancano di indicazioni precise riguardo alla loro effettiva attuazione, sul piano istituzionale e soprattutto operativo. Inoltre, la
linea di confine tra difesa reciproca in caso di aggressione armata e
solidarietà reciproca in caso di attacco terroristico può risultare
davvero molto sottile. Ciononostante, le due clausole contengono
impegni importanti da parte degli Stati membri e legittimano
eventuali sviluppi futuri in questi settori.
Una considerazione simile è applicabile alla ‘Agenzia europea
per gli armamenti, la ricerca e le capacità militari’ prevista all’art.
III-212 del progetto di trattato costituzionale licenziato dalla
Convenzione. Presentata nella relazione finale del Gruppo VIII, la
proposta di istituire una ‘Agenzia europea per la difesa’, com’è ora
più brevemente chiamata, era stata già accettata a livello politico:
nel giugno 2003 il Consiglio europeo ha preso la prima decisione
al riguardo e, alcuni mesi dopo, è stata nominata la squadra per la
creazione dell’Agenzia, istituita poi con’azione comune PESC il
12 luglio 2004. In realtà, dunque, l’Agenzia esisterà già molto
prima dell’entrata in vigore del trattato costituzionale, ma il fatto
che i suoi obiettivi generali siano enunciati nel testo [art. III-311]
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contribuisce a legittimarla, tanto più che si tratta di un settore in
cui molti sviluppi hanno avuto luogo al di fuori di qualsiasi contesto istituzionalizzato PESC. Sempre riguardo agli armamenti,
vale la pena sottolineare come l’attuale art. 296 TCE – che permette di escludere le procedure del mercato unico dall’ambito
della difesa – sia stato sostanzialmente trasposto fra le disposizioni comuni [art. III-436] del Titolo VII del TCUE.
Cooperazione rafforzata e strutturata
Ultimo elemento da considerare, ma non per questo meno importante: la Convenzione ha sostanzialmente modificato il trattato di
Nizza introducendo esplicitamente la nozione di ‘cooperazioni
rafforzate’ nel settore della difesa.
Innanzitutto, l’art. I-43 del progetto di trattato costituzionale
ha ridefinisce la portata e le modalità della ‘cooperazione rafforzata’ in generale, ‘nel quadro delle competenze non esclusive dell’Unione’, senza menzionare alcuna delle restrizioni tuttora fissate nell’art. 27 del trattato di Nizza: pertanto, tale cooperazione si
applica in linea di principio anche alla PESC e alla PESD nella loro
integralità, sebbene con procedure specifiche [art. III-325 (2)]. La
‘cooperazione rafforzata’ è aperta in qualunque momento a tutti
gli Stati membri ma solo ‘in ultima istanza’, segnatamente qualora il Consiglio ‘stabilisca che gli obiettivi ricercati da detta
cooperazione non possono essere conseguiti entro un termine
ragionevole dall’Unione nel suo insieme’. Inoltre, deve partecipare
ad essa almeno un terzo degli Stati membri. Infine, gli atti adottati
nel quadro della ‘cooperazione rafforzata’ vincolano solo gli Stati
partecipanti e non possono essere considerati un acquis.
In altre parole, l’art. I-43 permetteva agli Stati membri di
avviare ‘cooperazioni rafforzate’ in qualsiasi settore, sebbene a
determinate condizioni specificate negli artt. da III-322 a III-329
del progetto di trattato Come tale, questa disposizione costituiva
e costituisce altresì un potenziale deterrente istituzionale contro
la stagnazione politica e il boicottaggio insistito di nuove iniziative politiche, specie in assenza di un cambiamento significativo in
direzione del voto a maggioranza nel settore PESC/PESD, che
rimane più l’eccezione che la regola: si veda soprattutto l’art. III300 del nuovo TCUE. Questo approccio è stato mantenuto dalla
CIG, che ha condensato negli artt. I-44 e III-416/423 TCUE le
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procedure generali per poter lanciare prima e gestire poi le ‘cooperazioni rafforzate’ nei settori di competenza non esclusiva dell’Unione, comprese – in linea di principio – la PESC e la PESD, sia pure
a condizioni particolari [artt. 419 (2), 420 (2), 422 (3)].
Inoltre, gli artt. I-40 e III-213 del progetto di trattato costituzionale elaborato dalla Convenzione parlavano di ‘cooperazione
strutturata’ in materia di difesa per gli Stati membri ‘che rispondono a criteri più elevati in termini di capacità militari e desiderano assumere impegni più vincolanti in materia ai fini di missioni più impegnative’. I criteri e gli impegni pertinenti dovevano
figurare in un Protocollo che purtroppo, però, la Convenzione
non ha fornito. Questa omissione, associata al carattere intrinsecamente esclusivo del regime e alle controversie parallele suscitate
dall’iniziativa di Tervuren, ha provocato la reazione negativa di
alcuni Stati membri, sia nel campo degli ‘atlanticisti’ sia in quello
dei non-alleati, che si è tradotta nella parziale riscrittura dell’articolo da parte della CIG.
Di conseguenza, quella che è ora chiamata ‘cooperazione strutturata permanente’ [art. III-312] appare come un impegno assai più
inclusivo e trasparente, in maggiore sintonia con gli sviluppi politici del momento, e legato ad un Protocollo specifico [n.23] contenente i criteri fondamentali della partecipazione, e cioè: conseguire elevate capacità militari operative attraverso pacchetti di
forze nazionali e multinazionali, e contribuire allo sviluppo di
‘programmi comuni o europei di equipaggiamenti di vasta portata’ nel quadro dell’Agenzia per la difesa (incluso il conseguimento di obiettivi concordati riguardanti ‘il livello delle spese per
gli investimenti in materia di equipaggiamenti per la difesa’). Il
primo criterio sarebbe stato successivamente legato al concetto
dei cosiddetti ‘gruppi tattici’, sviluppato all’inizio del 2004, il
secondo all’Agenzia per la difesa e all’obiettivo primario 2010.
Infine, le procedure per l’avvio del regime e la sua apertura a potenziali nuovi aderenti sono state rese più accettabili per tutti gli Stati
membri. Va altresì rilevato che, per quanto riguarda il livello
minimo di partecipanti, non è stata fissata alcuna soglia minima
(a differenza della cooperazione rafforzata), e soprattutto che
tutte le decisioni riguardanti gli Stati ammessi alla cooperazione
strutturata permanente sono prese a maggioranza qualificata, in
evidente deroga al principio generale applicato alla PESC e, in particolare, alla difesa. In altri termini, la ‘cooperazione strutturata
permanente’ appare essenzialmente diversa sia da altre forme pos161
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sibili di ‘cooperazione rafforzata’ - nella misura in cui la sua portata è predeterminata, invece di riferirsi a capacità di attuazione
generali e virtuali - sia da precedenti iniziative nel settore della
PESD, che si basavano quasi esclusivamente su contributi volontari e sulla pressione tra pari. Ora l’impegno è ‘permanente’, ha
carattere ‘strutturato’ e la valutazione delle capacità si basa sulla
certificazione, seguendo l’esempio della NATO. Resta ancora da
chiarire fino a che punto la partecipazione allo schema sia determinata dalla volontà politica e/o dalla capacità funzionale del singolo paese membro. Rispetto ai criteri di convergenza stabiliti per
l’adesione all’unione monetaria nel trattato di Maastricht, ad
esempio, i criteri elencati nel Protocollo sono meno specifici e
lasciano maggiore spazio all’interpretazione. Inoltre, non è chiaro
quale criterio sia il più importante, quantunque si tenda a porre
l’accento (soprattutto da parte britannica, e in misura minore
francese) sull’alta prontezza militare. Tuttavia, ancora una volta,
l’indeterminatezza può essere un vantaggio piuttosto che un
inconveniente, specie se si considera l’imprevedibilità degli scenari
strategici e degli sviluppi politici. È inoltre legittimo chiedersi se
un trattato costituzionale, la cui durata è indeterminata quasi per
natura (l’art. IV-446 TCUE parla di ‘un periodo illimitato’), debba
contenere norme e cifre particolareggiate riguardo all’attuazione
a breve termine di una particolare politica.
Occorre tuttavia rispondere ancora ad una domanda essenziale: qual è l’obiettivo ultimo della ‘cooperazione strutturata permanente’? Con il nuovo articolo, il trattato costituzionale sembra
tendere a due obiettivi fondamentali. Il primo consiste nel generale miglioramento delle attuali capacità militari europee, da perseguire attraverso parametri funzionali espliciti ed incentivi politici impliciti (essere ‘dentro’ o ‘fuori’) stabiliti di comune accordo.
Diversamente dalla NATO, l’UE ha dato prova della sua efficacia
in questo tipo di esercizio, come dimostrano l’unione monetaria e
Schengen. Va nondimeno rilevato che, in questo specifico settore,
la sfida cui sono confrontati gli europei è particolarmente difficile.
Il secondo obiettivo è meno evidente, ma non per questo meno
importante: gli Stati membri che parteciperanno alla ‘cooperazione strutturata permanente’ saranno ovviamente anche i primi
a partecipare a future operazioni militari di rilievo dirette dall’UE.
È possibile, ma non certo, che vadano a costituire una ‘avanguardia’
o un ‘gruppo pioniere’ in senso classico. Ma, in caso di successo,
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diventeranno sicuramente i candidati più credibili (e più interoperabili) per la condotta di operazioni interforze e multinazionali di
gestione delle crisi a nome dell’UE.
Infine, dando seguito ancora una volta ad una proposta della
Convenzione, il nuovo trattato costituzionale contiene una
norma specifica [art. III-310] che rende possibile al Consiglio di
‘affidare la realizzazione di una missione ad un gruppo di Stati
membri che lo desiderano e che dispongono delle capacità necessarie per tale missione’. Si tratta di una forma di flessibilità interna
già messa in pratica dall’Unione in occasione delle sue prime missioni di gestione di crisi, e che corrisponde del resto al modo in cui
tale operazioni vengono condotte anche in altri contesti istituzionali. La formula della ‘coalizione di volontari’ è insomma già largamente praticata dall’UE – come dall’ONU o della stessa NATO –
ma il suo ancoraggio nel trattato contribuisce a rafforzarne la
legittimità. Ciò è tanto più importante in presenza di un tangibile
ampliamento dello spettro di missioni UE previste dal nuovo trattato, il cui art. III-309 (1) esplicita ed estende le tradizionali ‘missioni di Petersberg’ incorporate a suo tempo nel Trattato di
Amsterdam.
I prossimi cinque anni
In generale, se le proposte e le disposizioni emerse dalla Convenzione europea e dalla CIG non hanno forse dato risposta a tutte le
questioni sollevate nella Dichiarazione di Laeken, hanno però certamente modificato il quadro istituzionale in cui opera la PESD
almeno per un aspetto essenziale: il trattato costituzionale contiene indispensabili clausole abilitanti ed elimina quasi tutte le tradizionali disposizioni che nei trattati precedenti imponevano vincoli o limitazioni - e in base alle quali, ad esempio, una nuova
disposizione non poteva applicarsi o riferirsi a ‘questioni aventi
implicazioni militari o nel settore della difesa’. In altri termini, pur
ben lungi dall’essere completi o perfetti, i nuovi articoli creano i
presupposti per una politica comune in materia di sicurezza e di
difesa più flessibile e più efficace.
Nella fase attuale, tuttavia, per la PESD sarà probabilmente
cruciale il modo in cui tali disposizioni abilitanti verranno
attuate. Ciò dipende naturalmente in larga misura dalla ratifica
del trattato costituzionale stesso, con tutte le incognite oggi
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esistenti. Anche nel caso di una ratifica rapida e senza problemi,
alcune disposizioni potrebbero comunque entrare in vigore
immediatamente ed altre (soprattutto quelle relative al sistema di
voto e alla Commissione) molto più tardi, causando in tal modo
scarti e asimmetrie nel sistema. Nel caso di un processo di ratifica
più lungo e difficile, poi, gli squilibri e l’incertezza generale
potrebbero essere ancora maggiori. Infine, come già detto, alcune
disposizioni contenute nel progetto di trattato costituzionale
(Agenzia per la difesa, concetto di ‘gruppi tattici’, clausola di solidarietà contro il terrorismo) vengono già attuate e saranno pertanto operative prima dell’entrata in vigore del trattato e, presumibilmente, indipendentemente da essa. Vale inoltre la pena di
sollevare un’ultima questione: la ratifica e l’entrata in vigore del
trattato costituzionale sono o non sono importanti per la PESD?
Da un lato, infatti, la PESD si è finora sviluppata soprattutto al
di fuori del quadro del trattato UE: rapporti della Presidenza, semplici decisioni del Consiglio e azioni comuni hanno guidato una
politica la cui base ‘costituzionale’ è sempre stata, nel migliore dei
casi, minima. In un certo senso, la PESD è pervenuta a coprire settori che non erano esplicitamente vietati dai trattati, e solo nella
misura in cui non lo erano. In linea di massima, con la parziale
eccezione del ‘ministro degli affari esteri’ e dell’impianto della
‘cooperazione strutturata permanente’, si potrebbe anche continuare così, con l’ulteriore vantaggio di non sollevare delicate e
ancora controverse questioni di finalità e sovranità che potrebbero
ritorcersi contro la PESD stessa.
D’altro lato, tuttavia, le discussioni nella Convenzione e nella
CIG hanno contribuito a far emergere un consenso su opzioni che,
a partire da quel momento, sono state non solo accettate ma anche
gradualmente messe in pratica. L’intero esercizio ‘costituzionale’,
pertanto, si è rivelato utile ed efficace, lanciando nuove iniziative e,
per così dire, legittimandole in anticipo. Sarebbe un grande peccato, per la credibilità dell’UE in generale e per la legittimità della
PESD in particolare, se i considerevoli sforzi compiuti negli ultimi
due anni dovessero essere alla fine vanificati per motivi che, in
fondo, hanno poco a che vedere con il contenuto e la portata del
trattato costituzionale.
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All’inizio degli anni ’90 l’Europa era divisa su come affrontare le
crisi in cui sprofondavano sempre più i Balcani. La riluttanza europea a inviare truppe all’inizio della crisi in Jugoslavia rese indispensabile il coinvolgimento delle Nazioni Unite. L’Europa, che stava
ridefinendo la sua raison d’être del dopo guerra fredda, era incapace
di far fronte a una situazione che vedeva una società jugoslava
troppo debole per impedire una guerra civile tra gruppi etnici scatenata dal governo del paese, e stava a guardare mentre la Federazione jugoslava scivolava verso la sua sanguinosa fine.
Soltanto qualche anno dopo, lo scoppio della guerra in Kosovo
ha mostrato il perdurare della dipendenza dell’Europa dalle capacità militari degli Stati Uniti. Tuttavia, i membri europei della
NATO avevano tratto insegnamento dal loro mancato intervento
rapido in Bosnia e hanno apportato un contributo sostanziale agli
sforzi compiuti in Kosovo.
Ho partecipato allo sforzo internazionale inteso a portare la
pace nella regione in due diverse occasioni, la prima volta alla Conferenza internazionale sull’ex Jugoslavia nel 1992-93 e la seconda
ai negoziati di pace per il Kosovo nel 1999. Come europeo sentivo
molto intensamente la necessità che l’Europa disponesse di una
politica comune e della capacità di agire in caso di conflitto nei
paesi limitrofi.
A cinque anni di distanza dalla guerra in Kosovo, per l’Europa la
sfida dei Balcani è lungi dall’essere conclusa. Lo status irrisolto del
Kosovo, il futuro delle relazioni tra Serbia e Montenegro, e il fatto
che sia il Kosovo che la Bosnia restino soggette al controllo internazionale sono tutti elementi che possono causare una nuova ondata
di instabilità nell’Europa meridionale. Come ha dimostrato la
recente recrudescenza di violenza etnica in Kosovo, la comunità
internazionale stenta a formarsi un’idea chiara su come possano
essere stabilite strutture interne autonome. I Balcani sono diventati un banco di prova per la PESD e uno specchio della capacità
dell’Europa di mettere in pratica i principi e le idee della PESD.
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L’Unione europea è nata come un’iniziativa per la prevenzione
dei conflitti e la gestione delle crisi. Fin dagli anni ’40 sono stati
compiuti sforzi significativi per creare un’infrastruttura di sicurezza, economica e politica duratura nell’Europa occidentale. Le
istituzioni allora create – dall’OCSE al Consiglio d’Europa, dalla
NATO alla Comunità europea del carbone e dell’acciaio, da cui è
derivata l’odierna Unione europea – formano ora un quadro indispensabile per la stabilità.
La decisione presa dal Consiglio europeo a Colonia, nel giugno,
1999 di avviare la politica europea in materia di sicurezza e di
difesa, proprio al termine della campagna del Kosovo, è stata una
risposta diretta al brusco risveglio provocato dai Balcani per l’Europa, gli Stati Uniti e il resto del mondo. Già il trattato di Maastricht aveva riconosciuto l’esigenza di un coordinamento della
politica di sicurezza e di difesa. Tuttavia, considerate le molteplici
sfaccettature delle politiche di difesa nazionali e le differenti
aspettative dei 15 Stati membri, l’avvio della PESD a Colonia è
stato una pietra miliare storica. Nonostante gli ostacoli, l’approccio adottato a Colonia e le successive decisioni prese a Helsinki
hanno stabilmente condotto l’UE sulla strada dell’adozione di
misure concrete per la promozione della stabilità, la prevenzione
dei conflitti e la gestione delle crisi, facendone un attore sempre
più influente e un partner importante per l’ONU, l’OSCE e la
NATO. Nel presiedere il Consiglio europeo di Helsinki, nel dicembre 1999, ho avvertito nei capi di Stato e di governo una determinazione a far nascere qualcosa di concreto. Ma non avrei potuto
immaginare a quali traguardi quelle decisioni avrebbero portato
la PESD nel breve arco di cinque anni.
Per valutare i meriti della PESD, va tenuto presente che una
molteplicità di politiche nazionali diverse in materia di sicurezza e
di difesa ha potuto essere riunita nel quadro di tale politica.
Secondo una delle conclusioni di Colonia, per un’efficace attuazione della politica europea in materia di sicurezza e di difesa è
necessario che i membri europei della NATO e gli Stati membri
neutrali e non alleati godano di pari diritti di partecipazione alle
operazioni dell’UE. Attraverso i cosiddetti accordi ‘Berlin plus’,
che sono diventati materia sensibile e impegnativa per la PESD, le
due strutture di sicurezza europee hanno instaurato un’efficace
cooperazione, di vitale importanza per il successo della conduzione della PESD. Insieme all’Irlanda, alla Svezia e all’Austria, la
Finlandia - che nel corso della sua storia di paese indipendente si è
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basata soltanto sui propri mezzi militari per difendere il suo territorio - si è trovata improvvisamente parte di un nuovo quadro di
politica di difesa e di sicurezza.
Se da un lato gli Stati membri della NATO hanno temuto che la
PESD rappresentasse un dispendioso doppione degli sforzi della
NATO e ne compromettesse le attività essenziali, i paesi non
alleati, in parte, hanno dovuto riconsiderare la politica di neutralità e, come nel caso della Finlandia, rinunciarvi. Le difficoltà che
l’Unione ha incontrato nel convenire le garanzie di difesa reciproca e le altre disposizioni in materia di difesa della proposta di
Costituzione per l’UE sono state un’ulteriore testimonianza della
grande determinazione che sta facendo avanzare la PESD. Come
accade in molti altri settori politici dell’Unione, la PESD ha saputo
abilmente fondere le scelte politiche in materia di difesa e di sicurezza su cui spesso poggia l’esistenza stessa degli Stati.
Eppure, se forze numerose e potenti convergono sulla PESD,
sussistono ancora molti elementi frenanti, ad esempio le diverse
percezioni che gli Stati membri hanno delle minacce esistenti e
possibili. Forse per la molteplicità delle opinioni sull’ampia serie
di questioni che rientrano nel settore della difesa e della sicurezza,
alcuni Stati membri hanno intensificato le richieste di un quadro
di difesa esclusivo che possa agire a nome dell’UE con maggiore
efficacia, forza e capacità. A mio parere, questa evoluzione sarebbe
controproducente per l’idea europea. Dobbiamo consentire a ciascuno Stato membro che si è impegnato ad attuare le disposizioni
del trattato sull’Unione europea di avere voce in capitolo nella
conduzione della PESD. Per riuscire, il processo deve restare
autenticamente paneuropeo. Per ragioni storiche, geografiche ed
economiche, le capacità degli Stati membri sono molto varie, ma
ciascun paese può certamente apportare un contributo prezioso.
Ritengo che le diverse tradizioni dei paesi partecipanti abbiano
dato all’Unione europea la possibilità di diventare un attore globale e un gestore di crisi diverso da quelli già esistenti. I paesi nordici, ad esempio, hanno portato in primo piano gli aspetti civili
della gestione delle crisi quale parte integrante e inscindibile di
una gestione delle crisi coronata da successo, che a mio parere è la
capacità di nicchia che deve essere utilizzata dalla PESD sul piano
operativa.
Fin dai primi tempi della loro adesione all’Unione, la Finlandia
e la Svezia hanno contribuito attivamente allo sviluppo della
PESD. È a partire da una proposta congiunta presentata nel 1996
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da Finlandia e Svezia che i ‘compiti di Petersberg’ sono stati incorporati nel trattato sull’Unione europea, fornendo così un quadro
per le operazioni PESD. In base al mandato conferito dalle decisioni di Colonia, la presidenza finlandese e il Consiglio europeo di
Helsinki hanno dato forma concreta ad alcuni strumenti globali
di gestione delle crisi istituendo le strutture politico-militari e il
meccanismo di gestione civile delle crisi, che sono diventati parte
essenziale di una politica UE di gestione delle crisi coerente e globale. Le decisioni di Helsinki hanno pertanto aperto la via ad un
nuovo approccio per incanalare gli sforzi degli Stati membri in
situazioni di crisi.
Creare la capacità di nicchia
Grazie allo slancio politico, la PESD è diventata operativa ben
prima di quanto molti pensassero. Per il suo carattere innovativo, la
gestione delle crisi da parte dell’UE è in grado di realizzare meglio lo
spiegamento rapido, lo scambio di informazioni, l’interoperabilità
e la sostenibilità nelle operazioni di pace. La concezione degli strumenti di gestione delle crisi dell’Unione è flessibile, in quanto può
ampliare e intensificare un intervento e applicarvi un approccio
globale. Nonostante alcune importanti lacune di capacità militare,
l’Unione è stata in grado di dichiararsi operativa e di svolgere l’intera gamma dei compiti di Petersberg dal 2003, il termine previsto.
E l’anno 2003 ha segnato un passo avanti per la PESD, in quanto
sono state avviate quattro operazioni dell’UE: cinque anni dopo
Colonia, per la prima volta nella sua storia l’Europa si è impegnata
attivamente nel campo della sicurezza, svolgendo compiti che
vanno dalle attività di polizia all’intervento militare.
Se l’Unione può rivendicare i primi successi per la sua capacità
militare di risposta alle crisi, lo stesso non si può ancora dire della
sua capacità di gestione civile delle crisi. L’effettiva creazione di
‘operazioni miste’, che comprendono le componenti civile e militare con l’utilizzo delle risorse sia dell’UE che degli Stati membri, è
un concetto ancora largamente incompleto che richiederà lavoro e
impegno seri per diventare più di una semplice promessa. La
costruzione di uno Stato è un compito disagevole per i militari, ma
fino ad ora, l’Unione non ha ancora reso operativa l’intera gamma
di capacità previste per la gestione civile delle crisi, salvo quelle di
polizia.
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La capacità di offrire una gamma completa e globale di mezzi di
gestione delle crisi è cruciale negli scenari di crisi odierni. Le
recenti esperienze in Iraq, in Afghanistan e nei Balcani mostrano la
necessità di coinvolgere esperti in diritto, amministrazione e protezione civile fin dalle prime fasi di pianificazione. Non esistono
scorciatoie per la costruzione di uno Stato, ma una mobilitazione
troppo lenta degli elementi civili può privare la comunità internazionale di quello spiraglio di opportunità che spesso si apre nelle
fasi immediatamente successive a una situazione di crisi. Un’appropriata pianificazione e strutture di sostegno alle operazioni
devono accompagnare le ambizioni dell’UE e gli impegni del personale di gestione delle crisi in tutti e tre i settori prioritari: stato di
diritto, amministrazione e protezione civile. La condotta professionale delle operazioni civili richiederà risorse di esperti per la
pianificazione strategica e operativa nei tre settori prioritari, nonché per i compiti di sostegno della missione.
L’Unione europea, insieme al resto della comunità internazionale, deve riconoscere l’esistenza di un numero crescente di paesi
incapaci di governare e restii a offrire sicurezza e servizi pubblici di
base ai propri cittadini. Aumentano costantemente i casi in cui
permangono difficoltà negli sforzi volti a istituire governi nazionali e amministrazioni civili locali funzionanti che siano in grado
di garantire almeno i servizi sociali di base e la sicurezza interna.
Gli Stati in corso di fallimento rappresentano una sfida fondamentale. La comunità internazionale deve infine iniziare a riesaminare le sue strategie di costruzione di Stati attraverso lo sviluppo di pacchetti di risposta standardizzati, ampliando la
gamma di strumenti e usando meglio le tecnologie moderne per
contribuire alla vittoria in questa battaglia civile per la pace e la
stabilità.
La saggezza del multilateralismo
Lo sviluppo della PESD coincide con l’evoluzione e la riorganizzazione delle operazioni di pace delle Nazioni Unite avviate nello
scorso decennio. Il contesto del dopo guerra fredda ci ha obbligati
a ridefinire l’offerta e la domanda di pace e di sicurezza. Rispetto
alle Nazioni Unite, l’UE ha fin dall’inizio goduto di numerosi vantaggi in quanto attore politico e gestore delle crisi. Uno dei vantaggi
comprovati in relazione ai paesi limitrofi è stata la prospettiva
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dell’adesione all’UE, che ha contribuito a creare stabilità e incoraggiare il cambiamento democratico. Attraverso i processi di integrazione dell’Unione europea e della NATO, i governi dei paesi dell’Europa centrale hanno avuto modo di suscitare il desiderio di
cambiamento. I progressi conseguiti nel corso dell’ultimo decennio hanno creato prospettive più rosee e offerto esempi positivi ai
paesi dei Balcani alle prese con i processi paralleli di transizione
dalla guerra alla pace e dal sistema comunista all’economia di mercato.
L’UE ha chiarito che non cerca di rendere superflui gli sforzi
messi in atto da altri soggetti nella gestione delle crisi e che, se una
duplicazione degli sforzi rappresenta uno spreco in un mondo di
risorse scarse, una leggera sovrapposizione è forse preferibile a
lacune non colmate nella costruzione della pace e nella gestione
delle crisi. Nondimeno la divisione dei ruoli e la combinazione
delle competenze dei diversi attori lascerebbe libera ciascuna organizzazione di svolgere i compiti per i quali è più adatta.
I 15 Stati membri dell’UE pre-allargamento finanziano più del
40% del bilancio delle Nazioni Unite per il mantenimento della
pace: non sorprende pertanto che essi abbiano ritenuto loro interesse instaurare relazioni di lavoro tra le due organizzazioni. La
dichiarazione comune UE-ONU del settembre 2003 sulla cooperazione nella gestione delle crisi, e le discussioni in corso sull’ulteriore formalizzazione delle loro relazioni in materia rappresentano uno sviluppo positivo nell’instaurazione di una continuità
effettiva di ruoli e responsabilità diverse nella gestione delle crisi.
L’operazione Artemis nella Repubblica democratica del Congo ha
dimostrato la capacità di reazione rapida dell’Europa, e il valore
che puo’ rappresentare per le Nazioni Unite, spesso prive di tale
capacità. Ritengo che la creazione formale di una capacità di reazione rapida dell’UE e del cosiddetto concetto dei ‘gruppi tattici’
entro il 2007 offrirà un mezzo importante per l’azione di mantenimento della pace delle Nazioni Unite, che nei prossimi anni
dovrà fronteggiare un incremento su vasta scala delle operazioni
di mantenimento della pace nel continente africano. In BosniaErzegovina si è registrata inoltre una divisione di ruoli di altro
tipo, in cui l’UE è stata in grado di liberare l’ONU per altre missioni di polizia più urgenti.
L’efficacia del sistema multilaterale dipende dalla volontà politica di cooperare e intervenire. L’Europa deve essere pronta a
riunire la volontà politica di utilizzare le capacità che ha svilup172
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pato. Le prime operazioni dell’UE hanno già mostrato che non
tutti gli Stati membri saranno sempre propensi a impegnarsi nel
quadro dell’UE. Se la decisione sull’impegno deve restare a livello
nazionale, una volta sviluppata la capacità l’UE deve impegnarsi a
utilizzarla per rispondere alle richieste e alle necessità mondiali.
Dovrà intraprendere le operazioni in modo flessibile ed essere in
grado di affrontare esigenze e situazioni impreviste che possono
non adattarsi perfettamente ai calendari prestabiliti. Questo vale
in particolare per le operazioni che potranno dover essere condotte nel continente europeo nell’era del dopo 11 settembre.
Nell’attuale contesto di sicurezza, l’urgente necessità di un
multilateralismo efficace ci viene ricordata fin troppo spesso. Se
alcuni possono sostenere che l’azione unilaterale – nella costruzione di uno Stato o nella guerra aperta – è meno complessa e
lunga, questo approccio diventerà rapidamente un modo di operare costoso e potrà perdere credibilità localmente e globalmente,
elementi cruciali per il successo della riconciliazione. Il passato
recente ci ha mostrato che l’ampia partecipazione e condivisione
degli oneri nelle operazioni di pace sono efficaci. Il solo modo per
evitare di ripetere gli errori e sprecare gli sforzi è lo svolgimento
sistematico all’interno dell’UE di processi di analisi delle esperienze acquisite e il flusso della relativa informazione verso le organizzazioni con cui l’UE coopera nelle operazioni di pace. Inoltre
l’UE dovrebbe focalizzare le attività svolgendo un’analisi dei rischi
al fine di fissare un elenco limitato di priorità sui conflitti da
affrontare più urgentemente, in base a una divisione dei compiti
con l’ONU, l’OSCE e la NATO. Ciascuna organizzazione dovrebbe
concentrarsi su settori nei quali può apportare valore aggiunto
allo sforzo internazionale. Per l’UE potrebbe trattarsi dello sviluppo di attività di cooperazione, mantenimento e costruzione
delle pace.
Dalla teoria alla pratica
La presenza e gli sforzi della comunità internazionale per la costruzione di una pace sostenibile e la ricostruzione degli Stati nei Balcani – o in qualsiasi altra area di crisi – richiedono un impegno a
lungo termine. Abbiamo constatato che, quando la responsabilità
è divisa tra varie organizzazioni, l’efficacia degli sforzi internazionali ne risente. Sia in Kosovo che in Bosnia-Erzegovina, la presenza
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di una moltitudine di amministratori, osservatori e coordinatori di
diverse organizzazioni internazionali ha comportato sia duplicazioni che lacune nella copertura. Nel caso peggiore, le rivalità istituzionali possono danneggiare lo sforzo globale di gestione del
conflitto. È pertanto giunto il momento che l’UE assuma un ruolo
di guida e di unificazione nel settore.
I mutamenti della politica mondiale hanno determinato un
trasferimento di leadership nei Balcani: spetterà all’Unione europea stabilire l’agenda futura. La comune prospettiva europea
aumenta smisuratamente non solo l’influenza dell’UE ma anche
le sue responsabilità nella regione. L’agenda politica dell’UE per
l’integrazione dei paesi balcanici nelle strutture transatlantiche è
di importanza vitale. Sia gli Stati Uniti che la Russia stanno gradualmente riducendo la loro presenza nei Balcani, il che comporterà probabilmente un aumento della quota di oneri UE, presumibilmente con una garanzia di accesso ai mezzi della NATO.
Ritengo necessario rafforzare la competenza politica dell’UE e
la sua capacità di gestire le crisi nei paesi limitrofi. Una capacità di
difesa rafforzata costituisce inoltre un prerequisito per il funzionamento delle relazioni transatlantiche. Dovremmo tuttavia
ricordare che l’ulteriore sviluppo dell’Unione segue gli scopi
comuni degli Stati membri, che non sono ne’ rivolti né perseguiti
contro gli Stati Uniti. L’UE deve riuscire a dimostrare concretamente di voler risolvere i problemi di sicurezza, e di essere in grado
di farlo. Le riforme istituzionali non possono fare molto per la
soluzione dei problemi senza l’autentico desiderio e la volontà
politica degli Stati membri di sviluppare politiche comuni. L’attuale situazione, che vede l’Alto Rappresentante per la PESC
sprovvisto delle risorse necessarie per attuare le politiche approvate dal Consiglio europeo, è semplicemente inaccettabile. Non
possiamo permetterci di aspettare la ratifica della Costituzione:
dovremmo correggere la situazione senza indugio.
Perché l’UE diventi un attore credibile nella politica estera e di
sicurezza è necessaria una struttura decisionale efficace, in cui gli
Stati membri deleghino all’Unione una reale autorità in materia di
politica estera e di sicurezza. È inoltre necessario disporre di forza
militare ed essere pronti ad usarla, ma solo come ultima risorsa e
in base a norme comuni.
La PESD è ancora in via di realizzazione ma l’Unione europea è
gia’ pronta a subentrare nella prima operazione congiunta in
Bosnia-Erzegovina. I paesi balcanici si trovano nelle immediate
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vicinanze dell’UE e i suoi Stati membri hanno a volte forti ma
diversi interessi nella regione. È evidente che il passaggio all’UE
dell’operazione in Bosnia costituirà uno dei più importanti banchi di prova della cooperazione tra l’Europa e gli Stati Uniti. Riconosco anche che gli europei devono addossarsi gran parte degli
oneri. Nonostante ciò, è evidente che per il successo della ricostruzione postbellica nella regione è necessario un forte partenariato e
un impegno comune UE-USA fino a che l’obiettivo dell’operazione non sarà stato completamente raggiunto. L’Unione europea
e gli Stati Uniti devono avere una strategia comune sulle modalità
per il migliore sostegno alla nuova leadership dei governi nella
transizione verso la democrazia e per la ripartizione e l’ordine di
priorità dei fondi dei donatori internazionali. È inoltre indispensabile che quasta strategia comune sia condivisa anche dalla Russia.
L’Unione europea è un nuovo arrivato nelle operazioni di sostegno alla pace. Ma i suoi Stati membri partecipano da decenni
all’intera gamma di operazioni di pacificazione in diverse parti del
mondo. L’Unione non dovrebbe quindi trovare scusanti, ma pretendere professionalità e coerenza per le sue missioni. Dopo tutto,
la delusione degli altri non può gettare la PESD nello sconforto,
ma la frustrazione nelle nostre proprie azioni può avere effetti
dannosi sul futuro del processo. Disponiamo ora dell’esperienza e
degli elementi costitutivi della PESD: dobbiamo cominciare a
combinare attentamente le due cose e mettere in pratica la teoria.
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PESD: i primi
cinque anni
Michel Barnier
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Avvertenza :
Il presente contributo è anteriore alla nomina di Michel Barnier a Ministro
degli Affari esteri della Francia e ripercorre la sua esperienza in qualità di
membro della Commissione europea, di rappresentante della Commissione
alla Convenzione europea e di presidente del Gruppo ‘Difesa’ della
Convenzione stessa.
Gli Europei sono oggi più consapevoli delle minacce che gravano, non solo sul loro continente, ma anche più in generale sulla
pace e la sicurezza nel mondo. Molti hanno compreso infatti i
limiti di risposte puramente nazionali e auspicano che l’Europa si
dia i mezzi per difendere, se necessario, la pace e la democrazia.
Sono pronti a tal fine a contribuire a forme d’intervento diplomatiche e militari che concilino l’efficacia con il rispetto del diritto e
del ruolo delle Nazioni Unite. La Convenzione europea ha preso
atto di questa evoluzione. L’ho constatato nelle riunioni del
Gruppo ‘Difesa’ da me presiedute nell’autunno 2002.
Dopo oltre quindici mesi di lavoro, la Convenzione ha adottato
un progetto di Costituzione per l’Europa le cui disposizioni in
materia di sicurezza e di difesa rispecchiano ampiamente le proposte fatte da questo gruppo. Per concepire queste proposte,
abbiamo esaminato in modo approfondito il nuovo contesto geopolitico internazionale e preso atto dell’obbligo fatto oggi all’Europa di rispondere alle minacce e alle sfide nuove. Con la determinazione manifestata da molti paesi europei, si stanno creando
nuovi equilibri che rendono ora possibile l’instaurazione di una
vera e propria Europa della difesa.
Inizierò col constatare che, nel momento in cui nuove minacce
gravano sulla stabilità internazionale, l’Europa ha un ruolo essenziale da svolgere nel campo della politica estera e non può accontentarsi dello status quo.
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Era di nuove minacce
Ponendo fine alla guerra fredda, la caduta del muro di Berlino ha
spezzato l’equilibrio del terrore che aveva caratterizzato un periodo di
forti tensioni internazionali. Siamo così passati da un ordine mondiale
governato dall’equilibrio precario, ma reale, della dissuasione
nucleare e del potere delle due superpotenze, ad un disordine mondiale
in cui la difesa dei propri interessi da parte della sola ‘iper-potenza’
americana non basta ad assicurare la pace e la stabilità internazionali.\Con il moltiplicarsi degli scontri, le minacce si fanno sempre
più complesse se si considera che in esse confluiscono molteplici
poste in gioco: lotta per il controllo delle risorse naturali, rivendicazioni territoriali, crimini etnici, criminalità organizzata.
La regione dei Balcani, dopo anni di guerra, merita ancora una
grande attenzione. Oltre al continente europeo, l’esempio dell’Africa è indicativo dell’instabilità della situazione internazionale e
della necessità che l’Unione europea possa intervenire, se occorre,
in teatri operativi distanti. Il diffondersi del terrorismo internazionale richiede altresì maggiore vigilanza e politiche di contrasto
concertate contro un fenomeno che non ha frontiere.
Europa, area a rischio
L’Europa non costituisce un’oasi di prosperità e benessere in un
mondo di pericoli. In Europa si susseguono guerre e conflitti: ne è
una conferma la triplice crisi dei Balcani (Bosnia, Kosovo, ex Repubblica jugoslava di Macedonia). Inoltre, se è vero che gli atti terroristici colpiscono spesso l’Europa, e’ anche vero che nascono in
Europa, come si è visto con gli attentati dell’11 settembre 2001 e
dell’11 marzo 2004. Le frontiere europee si sono avvicinate a zone a
rischio, quali i Balcani, il Medio Oriente o il Caucaso. La compenetrazione delle economie e degli interessi fa sì che i conflitti all’esterno del territorio europeo incidano anche sugli interessi europei.
Uno dei fattori di incertezza è costituito dal fatto che l’Europa
non è più al centro delle priorità degli Stati Uniti, che hanno ormai
ritirato dalla NATO il 92% delle loro forze. Il legame transatlantico
sta attraversando un momento di grandi tensioni: la nuova concezione statunitense della NATO sembra oscillare fra l’espressione
fondamentale della solidarietà politica su entrambi i lati dell’Atlantico e un’alleanza modulata in funzione delle priorità statunitensi.
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Responsabilità strategica dell’Europa
L’Europa è una potenza economica di primo piano che, con
25 Stati membri, conta 450 milioni di abitanti e rappresenta da
sola un quarto del PIL mondiale. L’Europa nutre anche ambizioni
politiche, affermate dagli Stati membri da oltre dieci anni con il
trattato di Maastricht. Deve oggi sviluppare una capacità d’influenza politica commisurata alle sue capacità economiche.
L’Unione deve considerarsi una potenza continentale, esistere
come potenza economica globale e affermarsi come attore della
sicurezza. Deve contribuire alla sicurezza delle popolazioni, alla
lotta contro le carestie, le epidemie o le calamità naturali, contro la
criminalità organizzata. Deve partecipare infine attivamente alla
sicurezza strategica, alla lotta contro il terrorismo, la proliferazione delle armi di distruzione di massa e i conflitti interni o regionali. Non si può scegliere di non agire. L’Europa deve contribuire
alla costruzione di un nuovo ordine internazionale fondato sul
diritto e la cooperazione fra i vari ‘poli’ di potenza, vale a dire Stati
Uniti, Europa e Asia, con l’emergere della Cina. È importante
capire che la ‘multipolarità’ non è uno slogan o un programma
politico, bensì un dato di fatto, una realtà che bisogna imparare a
gestire con concetti di oggi e non come si usava in passato. L’Europa ha un ruolo essenziale da svolgere nello sviluppo di nuovi
sistemi di regolazione.
Come agire, con quali strumenti? Oltre ai progressi già compiuti in cinque anni, il progetto di Costituzione per l’Europa rinsalda il quadro giuridico e politico necessario per sviluppare l’Europa della difesa, in termini di capacità militari e di
organizzazione istituzionale.
Esigenza di una politica di difesa più credibile
Prima constatazione: le missioni assunte dalle forze armate degli
Stati membri dell’Unione europea sono essenzialmente operazioni
di gestione delle crisi in teatri esterni. È necessario che le missioni di
mantenimento e ristabilimento della pace, note con il nome di
‘compiti di Petersberg’, includano anche la lotta contro il terrorismo.
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Seconda constatazione: l’Unione europea non possiede una reale
capacità politica di reazione in caso di aggressione esterna contro
uno o più Stati membri. Se è vero che la risposta militare spetta
innanzi tutto alla NATO, vi è tuttavia un notevole divario tra le
capacità di questa organizzazione e la portata delle competenze e
dei mezzi di cui dispone l’Unione.
Terza constatazione: queste misure non sortiranno alcun effetto se
gli europei rinunciano a rafforzare decisamente le loro capacità
militari, che si discostano sempre più da quelle statunitensi, specie
nel settore della ricerca e dello sviluppo, ove lo scarto è di 1 a 5. Le
ricadute positive della ricerca militare sulle industrie civili sono
tali, del resto, che il ritardo in materia di investimenti in questo settore penalizza pesantemente l’intera economia.
A questo riguardo, gli orientamenti presi di recente da alcuni
paesi europei nel campo del materiale militare vanno indubbiamente in senso contrario. Allorché la ricerca aeronautica militare
costituisce un settore d’eccellenza tecnologica e scientifica, v’è il
rischio che questa sfugga in ampia misura all’Europa.
Ultima constatazione: non tutti gli Stati membri dell’Unione, attuali
o futuri, condividono le stesse ambizioni in materia di difesa e di
sicurezza europee. La volontà politica varia fortemente fra gli Stati
membri, siano essi paesi associati fin dall’inizio alla NATO e al
legame transatlantico, o paesi che vantano una lunga tradizione di
neutralità.
Contesto politico favorevole
Lo sviluppo di una politica di difesa europea appare come una prospettiva a termine nei trattati di Maastricht, Amsterdam e Nizza.
Ciò non toglie che numerosi Stati membri sono anche membri
della NATO, e che le questioni di sicurezza e di difesa fanno ovviamente parte della loro politica estera. Alcuni, come la Francia e il
Regno Unito, hanno inoltre capacità d’intervento e interessi globali. L’Unione non può sviluppare una vera e propria politica estera
senza dotarsi di capacità d’intervento nel settore militare. Per tale
motivo, nella veste di presidente del Gruppo ‘Difesa’ della Convenzione, ho preso atto dell’evoluzione positiva constatata dopo l’incontro di Saint-Malo tra la Francia e il Regno Unito. Questa dina180
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mica, proseguita dall’Unione, ha permesso di istituire vere e proprie strutture politico-militari presso il Consiglio dei ministri dell’Unione, con uno Stato Maggiore, un Comitato militare e un
Comitato politico e di sicurezza. Gli Stati membri hanno concordato seri obiettivi di capacità (l’‘obiettivo primario di Helsinki’) per
le missioni di gestione delle crisi.
Da allora, la dichiarazione franco-tedesca del 22 gennaio 2003
e la successiva dichiarazione franco-britannica del 4 febbraio 2003
a Le Touquet hanno confermato, nonostante il contemporaneo
inasprimento della crisi irachena, che vi è un’autentica volontà
politica da parte degli Stati maggiormente impegnati. Visto il contesto favorevole, l’obiettivo delle mie proposte, incorporate nella
Convenzione, era quello di potenziare la capacità decisionale e
d’intervento europea in materia di sicurezza e di difesa, nel
rispetto degli impegni assunti nel quadro dell’Alleanza Atlantica.
Il progetto di Costituzione procede alla modernizzazione delle
disposizioni relative alla gestione delle crisi al di fuori del territorio europeo, con l’aggiornamento dei compiti di Petersberg (mantenimento e ristabilimento della pace) per includervi, in particolare, la
lotta contro il terrorismo e il miglioramento delle modalità di gestione
delle crisi.
In caso di attacco sul territorio di uno Stato membro, l’Unione
dovrà poter rispondere in modo adeguato: da qui la mia proposta
di introdurre una clausola di solidarietà per consentire agli Stati
membri di prevenire, in particolare, le minacce terroristiche e, se
del caso, poter rispondere a un eventuale attacco. Per coloro che
vogliono e possono andare oltre, la solidarietà potrà spingersi fino
alla difesa collettiva, già prevista dal trattato dell’Unione dell’Europa occidentale (UEO).
Il rafforzamento delle capacità militari dell’Unione è un presupposto indispensabile per conseguire una politica estera credibile e influente. La creazione di un’Agenzia europea per gli armamenti, la ricerca e le capacità militari consentirà agli Stati membri di
portare avanti fra loro programmi di cooperazione e contribuirà
ad assicurare il rispetto degli impegni di capacità. Questa iniziativa è diventata in poco tempo tanto necessaria da essere adottata
dal Consiglio europeo, riunito a Salonicco nel giugno 2003, ancor
prima della ratifica del Trattato costituzionale.
Infine, queste proposte riservano una parte importante al concetto di flessibilità, poiché non tutti gli Stati membri hanno la
volontà e la capacità di cooperare in questo settore. Il progetto di
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Costituzione consente pertanto, per le missioni più impegnative,
una cooperazione strutturata fra gli Stati membri che hanno la volontà
e le capacità richieste. Associata al protocollo negoziato nell’autunno 2003 nell’ambito della conferenza intergovernativa, questa
forma di cooperazione ristretta, soggetta a criteri di capacità, apre
nuove prospettive per l’Europa della difesa.
L’insieme di queste proposte è stato accolto positivamente dai
rappresentanti dei governi degli Stati membri incaricati di mettere
a punto il progetto di Costituzione. La riunione del Consiglio
europeo del dicembre 2003 a Bruxelles non è pervenuta di fatto ad
un accordo sulla Costituzione, ma la dinamica impressa alle questioni di difesa ha condotto ad ulteriori progressi, con la decisione
di istituire nuove strutture militari operative in seno all’Unione. È
senz’altro un segnale molto positivo e la riprova che la strada tracciata dalla Convenzione è quella giusta. È possibile trovare la via da
seguire su temi difficili quando esiste una volontà politica sufficiente.
È così che riusciremo a costruire un’Europa politica, in cui gli
Stati membri si convincano che devono agire insieme perché è nel
loro interesse.
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Cinque anni non sono molti quando si tratta di sviluppi politici
impotranti quali l’emergere di una politica europea comune in
materia di sicurezza e di difesa. Se si considera l’evoluzione delle
politiche di sicurezza di altri Stati, compresi quelli più grandi, i
tempi per vedere i frutti dei cambiamenti qualitativi sono in genere
molto più lunghi.
In questo contesto, l’evoluzione della politica europea di sicurezza e di difesa durante lo scorso anno può essere senz’altro considerata un risultato eccezionale. Questa politica, pressoché insignificante all’inizio, comincia a prendere forma. Conseguire
questo risultato nell’ambito di un dialogo tra 15 Stati-nazione che
si affannano a salvaguardare gli aspetti fondamentali della loro
indipendenza in questi settori, è un risultato tutt’altro che trascurabile.
Gli ultimi cinque anni possono essere visti in questa prospettiva. Da un altro punto di vista, se si raffrontano questi sviluppi
con i mutamenti osservabili nel più ampio contesto strategico che
influenza l’Europa, e che l’Europa ha ogni interesse a cercare di
influenzare, si possono invece trarre conclusioni alquanto diverse.
Dopo il crollo dell’impero sovietico, l’Europa è infine emersa
dalla lunga notte buia iniziata nell’estate del 1914 e, finalmente,
l’intero continente ha potuto uscire dalle tenebre di Hitler e Stalin.
Di fronte a questa situazione radicalmente nuova, la necessaria
soluzione strategica è consistita nel costruire, passo per passo, una
federazione di Stati-nazione che comprendesse tutta l’Europa ad
ovest della Russia, dall’Artico al Mediterraneo, e finisse per comprendere anche il Bosforo. Senza più nemici dichiarati da dissuadere con strumenti militari, l’Europa ha dovuto fare i conti con la
propria storia di conflitti e rivalità, un nemico che poteva e può
vincere solo attraverso il lento processo di costruzione di strutture
di integrazione che avvicinino gradualmente le nazioni e i popoli
d’Europa. Nel corso dell’ultimo decennio questo è stato di gran
lunga il più importante contributo dell’UE alla pace e alla stabilità
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in una parte del mondo che per quasi mezzo secolo è stata una polveriera sul punto di esplodere e che, durante il mezzo secolo precedente, aveva trascinato la maggior parte del mondo in due conflitti militari devastanti. L’allargamento del 1995 ha più o meno
completato il processo di allargamento nell’Europa occidentale,
mentre quello del 2004 ha incorporato l’intera regione del Mar
Baltico e dell’Europa centrale.
Parallelamente al processo di allargamento, lo sviluppo della
PESD era inteso a contribuire alla risoluzione dei conflitti, alla stabilità e alla pace in aree più ampie intorno o alla periferia dell’Unione in espansione. L’attenzione si è incentrata in particolare sui
Balcani, dilaniati dai conflitti. Nei prossimi anni il processo di
allargamento avanzerà con sempre maggiore decisione verso il
mosaico di Stati dell’ex impero ottomano, poiché l’UE conta già
tra i suoi membri la Grecia e una Cipro divisa, e dovrà di conseguenza affrontare problemi ancor più complessi.
Si dice talvolta che il successo della PESD va misurato in funzione dei successi conseguiti nella regione dei Balcani. Sebbene
questa visione dei compiti della PESD sia troppo limitata, dato
che gli obiettivi fissati nel quadro della strategia europea in materia di sicurezza sono molto più ambiziosi, è vero nondimeno che
una politica che si rivelasse un fallimento in tale regione avrebbe
difficilmente successo altrove. Peraltro, è proprio in questa
regione che sono state condotte le prime rudimentali missioni
operative della PESD. Negli anni 90 abbiamo assistito a un susseguirsi di guerre nella regione, che hanno evidenziato dolorosamente le carenze non solo dell’Europa ma anche dell’intero
sistema internazionale. Dalla breve guerra in Slovenia nel 1991 al
conflitto aperto nell’ex Repubblica jugoslava di Macedonia nel
2001, i cannoni hanno tuonato, le case sono state incendiate e in
tutta la regione milioni di persone sono state costrette a fuggire.
Tra la retorica e la realtà di questi conflitti e gli sforzi per risolverli vi sono divergenze notevoli. Secondo la filosofia imperante,
tutto ciò è dovuto a un fallimento dell’Europa, che solo l’intervento degli Stati Uniti poteva rimediare. La realtà è ben più complessa. Se da un lato è incontestabile che europei e americani
hanno entrambi fallito, dall’altro si può sostenere che l’approccio
europeo, consistente nel ricercare soluzioni politiche a lungo termine alle complesse problematiche della regione, è stato più adeguato di quello degli Stati Uniti, piu’ basato su azioni rapide di
taglio militare. Tuttavia, la lezione fondamentale dei Balcani è che
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questo tipo di problemi non può essere risolto se vi è dissonanza in
seno alla comunità internazionale, in particolare fra le due sponde
dell’Atlantico.
Nel 1992-94 gli Stati Uniti hanno di fatto bloccato gli sforzi
politici volti a trovare una soluzione di compromesso al conflitto
bosniaco, rendendo pressoché vani i tentativi compiuti in quegli
anni dall’Unione europea e dalle Nazioni Unite. Solo quando
anche gli Stati Uniti, nell’estate del 1995, si sono trovati sull’orlo
dell’abisso, hanno improvvisamente aderito ai principi di compromesso che fino ad allora avevano respinto, facilitando in tal
modo una soluzione non migliore di quella che si sarebbe potuta
trovare alcuni anni prima. Non è stato tanto l’intervento militare
quanto piuttosto il compromesso politico a mettere fine alla
guerra in Bosnia.
La lezione fondamentale della Bosnia è stata dimenticata
quando, un paio d’anni più tardi, si è trattato di gestire la questione del Kosovo. Un compromesso per risolvere il grande problema in sospeso della regione non si è ancora materializzato. Cinque anni dopo una guerra di tre mesi conclusisi senza una pace, la
provincia ribolle di insoddisfazione, frustrazione e animosità, e né
l’Unione europea né gli Stati Uniti si sono mostrati ansiosi di
affrontare le questioni politiche fondamentali che sono alla radice
del conflitto.
Dopo la fine del conflitto del Kosovo, gran parte dei dibattiti in
Europa era incentrata sul divario tra la forza aerea europea e quella
statunitense. Gli Stati Uniti avevano dimostrato di poter inviare,
con un unico volo diretto, bombardieri Stealth dal Missouri a Belgrado per bombardare edifici (anche se non sempre quelli giusti),
mentre gli europei avevano difficoltà a trovare aerei e munizioni di
qualche utilità per la campagna. Ma questa non è stata la lezione
più importante del Kosovo. Le successive analisi hanno mostrato
che la campagna aerea è stata pressoché inutile nell’arrestare il
conflitto etnico in Kosovo. Si potrebbe anzi sostenere che abbia
peggiorato la situazione sul terreno. Tutto sommato, probabilmente, sono stati l’intervento politico della Russia e il rinvio della
questione alle Nazioni Unite a spianare la strada alla fine del conflitto. La guerra ha comunque costretto la Serbia a ritirarsi dal
Kosovo, e si è convenuto di mettere la provincia sotto l’amministrazione delle Nazioni Unite, mentre l’Unione europea si è
assunta la responsabilità della sua ricostruzione e sviluppo economici. In definitiva, ciò è equivalso a nascondere i problemi spinosi
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sotto il tappeto, proclamando nel contempo una vittoria a breve
termine.
Se oggi si può trarre una lezione dal Kosovo, tenendo conto dell’esperienza acquisita con la Bosnia, è che la risoluzione dei conflitti va sempre vista come un processo principalmente politico
consistente essenzialmente nel forgiare i necessari compromessi
tra le varie parti in conflitto. Nel caso della Bosnia, c’è voluto
troppo tempo perché anche gli Stati Uniti se ne rendessero conto.
Mentre per quanto riguarda il Kosovo, né l’Unione europea né gli
USA sembrano ancora esserne pienamente convinti.
Dopo il Kosovo, non c’è voluto molto perché la Serbia meridionale e l’ex Repubblica jugoslava di Macedonia si trovassero in linea
di tiro. Si potrebbe qui sostenere che si è fatto troppo poco per evitare questi conflitti, e che, in un primo tempo, gli sforzi volti a
sedarli sul nascere sono stati poco convincenti. Di fronte alla prospettiva di una nuova catastrofe regionale, l’UE e la NATO (e
quindi gli Stati Uniti) sono riuscite ad elaborare una strategia
comune che è sfociata in una soluzione ragionevole per la Serbia
meridionale e nell’accordo di Ohrid per l’ex Repubblica jugoslava
di Macedonia. Ma questi successi relativi sono il frutto di una
gestione dei conflitti reattiva più che di una determinazione
attiva.
Il problema fondamentale nella regione rimane il conflitto tra
le forze di integrazione e le forze di disintegrazione, conflitto che
si manifesta più brutalmente in Kosovo che altrove. L’azione dell’Occidente ha consentito a oltre un milione di albanesi fuggiti
durante il conflitto di ritornare nel loro paese, ma non ha potuto
evitare la fuga o l’espulsione di quasi 250.000 persone appartenenti a minoranze dopo che le Nazioni Unite e la NATO hanno
assunto il controllo. Se prima del 1999 gli albanesi erano una
minoranza repressa in Serbia, da allora i serbi e altri sono diventati
una minoranza repressa in Kosovo. Sebbene l’esperienza della
Bosnia sia stata un relativo successo, anche se tardivo, non si può
dire altrettanto per il Kosovo. Non abbiamo messo fine alle epurazioni etniche: abbiamo semplicemente invertito i ruoli in un conflitto centenario per la supremazia nella regione. Non abbiamo
risolto il conflitto, lo abbiamo nascosto sotto il tappeto nella speranza che scompaia da solo. I violenti scontri dello scorso marzo
ne sono la prova. Ben 28 dei 32 siti del patrimonio artistico (chiese
e monasteri ortodossi) che le truppe internazionali della KFOR
dovevano proteggere sono stati parzialmente o completamente
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distrutti nel giro di poche ore. A ciò si aggiunge l’aspetto economico della questione: la disoccupazione nel Kosovo, difficile
com’è da misurare, è probabilmente superiore al 50%, e ai giovani
non rimane molta scelta se non dedicarsi ad altri tipi di attività.
Mentre le pressioni indipendentiste si fanno sempre più forti, e le
politiche si muovono in tale direzione più per deriva che per scelta,
dovremmo essere consapevoli dei rischi che comporta la creazione
di uno Stato votato al fallimento. In tal caso, il fallimento sarà
nostro quanto loro.
Uno degli insegnamenti fondamentali dei Balcani è che per
conseguire risultati l’Unione europea e gli Stati Uniti devono mettersi d’accordo. Un’altra lezione da trarre è che è preferibile che l’Unione europea cerchi di assumere un ruolo guida nei necessari processi politici. Invece, durante i primi cinque anni della PESD, gli
sforzi sembrano essere stati incentrati più sullo sviluppo di strumenti militari e di altro tipo per il controllo dei conflitti che sullo
sviluppo degli strumenti politici necessari per la loro reale soluzione. Sebbene il Consiglio europeo di Salonicco abbia dichiarato
che tutti i paesi della regione hanno la possibilità di entrare a far
parte dell’Unione europea, è molto meno chiaro come si debba
costruire la strada, lunga e insidiosa, che porta all’adesione. Nella
mia veste di inviato speciale del Segretario generale delle Nazioni
Unite per i Balcani ho cercato di risvegliare l’interesse in un dialogo sulle modalità per far avanzare la questione del Kosovo verso
una qualche forma di stabilità in grado di autosostenersi: ma ho
riscontrato poco interesse, a Bruxelles come a Washington. Un
giorno, forse, si dovrà pagare il prezzo di tale disinteresse.
I vari problemi cui siamo confrontati nei Balcani non sono
molto diversi da quelli che incontriamo in altre parti dell’ex
impero ottomano. Nel valutare le lezioni da trarre dagli ultimi cinque anni, non si può evitare di citare il doloroso insuccesso dei tentativi di riunificazione pacifica di Cipro. In quel caso, tutti gli strumenti dell’Unione europea, in armonia con gli Stati Uniti, e il
ricorso all’autorità e alle competenze delle Nazioni Unite, avrebbero dovuto assicurare il successo. Invece, il fallimento è un dato di
fatto da cui bisogna trarre insegnamenti. La riunificazione di
Cipro è fallita perché non si è riusciti ad adottare un insieme sufficientemente equilibrato di incentivi e disincentivi per le due parti
dell’isola. Se per la parte settentrionale di Cipro sotto controllo
turco, e per la stessa Turchia, è stato messo a punto un pacchetto
sostanziale di incentivi e disincentivi, non si è proposto nulla di
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simile per la parte dell’isola sotto controllo greco. Le forze nazionaliste militanti tra la popolazione greca hanno così potuto attaccare in tutta sicurezza qualsiasi compromesso insito necessariamente in qualsiasi sforzo di risoluzione di un conflitto di questo
tipo, senza temere che il rifiuto di accettare una soluzione caldeggiata sia dal Segretario Generale delle Nazioni Unite sia dall’Unione europea avesse per loro conseguenze negative.
Oggi il futuro del conflitto cipriota è estremamente incerto.
Finora non si è fatto fronte al doloroso fallimento della riunificazione e alle sue conseguenze, e non vi è stata una reale riflessione
su come risolvere il problema. Probabilmente assisteremo ad una
graduale normalizzazione delle relazioni con la parte turca di
Cipro, che di recente si è dimostrata più favorevole all’integrazione: ma resta da vedere se tale evoluzione sarà accettata come la
conseguenza logica del rifiuto di compromessi della parte greca, e
soprattutto se l’Unione ha importato un fallimento che potrebbe
affliggerla per anni.
I fallimenti in Kosovo e a Cipro potrebbero avere ripercussioni
sull’intera regione compresa tra Bihac a nord-ovest e Bassora a
sud-est. La questione relativa allo status delle regioni curde dell’Iraq settentrionale non è stata ancora completamente risolta nel
quadro del futuro assetto costituzionale del paese, ma dovrà
esserlo affinché l’Iraq possa sopravvivere all’anno critico che sarà il
2005. Non sarebbe saggio ignorare che ciò che si fa in Kosovo si
ripercuoterà, a termine, sia sull’ex Repubblica jugoslava di Macedonia sia sulla Bosnia. Nelle regioni in cui la storia si declina al presente i ricordi spesso vivono a lungo.
In questi anni l’attenzione dell’UE si è rivolta principalmente
alla creazione di strutture istituzionali e alla gestione delle prime
operazioni di portata limitata. Non stupisce peraltro che il primo
Alto Rappresentante/Segretario Generale abbia dovuto consacrare molte delle sue energie proprio al consolidamento della sua
funzione e a farla accettare sia dagli Stati membri che dal mondo
esterno. Ma gli eventi di questi anni mostrano chiaramente che
occorre prestare molta più attenzione alla soluzione politica attiva
dei conflitti, se vogliamo evitare altri insuccessi nei paesi vicini
all’UE. È certamente necessario sviluppare ampiamente sia le istituzioni che gli strumenti. Ma l’hardware delle istituzioni e degli
strumenti sarà inefficace se manca il software di politiche adeguate, ed è proprio da questo aspetto che, a mio avviso, scaturiscono le maggiori preoccupazioni per il futuro. Nell’intera regione
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dell’ex Impero ottomano covano problemi solo in parte risolti.
Alla periferia della Russia, che è anche la periferia dell’Unione,
saremo confrontati a sfide in Moldavia e nella regione del Caucaso, dietro alle quali giacciono ovviamente tutte le questioni irrisolte dell’antica ‘mezzaluna fertile’ della Mesopotamia e della
Palestina.
La strategia europea in materia di sicurezza si è incentrata su
una serie di cosiddette nuove minacce per la sicurezza, e ha cercato
di sviluppare un approccio più coerente per farvi fronte. Nel portare avanti questo processo non bisogna però trascurare i numerosi e annosi problemi nelle regioni situate alla periferia dell’Europa. Se non riusciremo in quelle regioni, difficilmente saremo
presi sul serio altrove. Per evitare che ciò succeda sarà necessaria
una maggiore attenzione alle questioni politiche. Abbiamo visto
la versione ‘beta’ del software PESD. Come c’era da aspettarsi, ci
sono errori e carenze da rimediare. Se non lo faremo, l’hardware
non produrrà i risultati sperati.
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cinque anni
Elmar Brok e
Norbert Gresch
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Il periodo trascorso dagli albori della PESD, in occasione dei vertici
del Consiglio europeo di Colonia e di Helsinki nel 1999, fino alle
prime operazioni di stabilizzazione in regioni di crisi - nei Balcani e
in Africa, nel 2003/2004 - coincide quasi esattamente con la quinta
legislatura del Parlamento europeo (PE).
A cinque anni dal il coinvolgimento del Parlamento in questo
nuovo settore, la presenza di uniformi militari nei corridoi delle
istituzioni europee a Bruxelles crea ancora una strana impressione, anziché essere considerata normale. Tuttavia, l’incertezza
dei primi anni, che rifletteva la cultura politica prevalente, ha
lasciato il passo ad un approccio sempre più sicuro nell’affrontare
la dimensione inerente alla politica di sicurezza dell’Unione. L’UE
non è la NATO, e Bruxelles non è il Pentagono. Inizia tuttavia ad
apparire piu’ chiaro quale ruolo, con le conseguenti competenze
globali, l’UE può potenzialmente svolgere sulla scena internazionale all’orizzonte 2010, con una strategia propria in materia di
politica di sicurezza, e capacità militari proprie. Sta emergendo
un’Unione interessata soprattutto alla prevenzione dei conflitti e
alle soluzioni negoziate, ma anche in grado di risolvere i conflitti
con mezzi militari, se autorizzata dall’ONU.
Il PE ha adottato due relazioni fondamentali che definiscono
la sua posizione sullo sviluppo della PESD, e ha cercato di garantire che questa politica abbia la legittimità democratica necessaria.
La relazione di Catherine Lalumière, adottata alla fine del
2000,1 si prefiggeva innanzitutto di ottenere un consenso sul fatto
che le questioni militari dovessero in futuro essere oggetto di
dibattito parlamentare, e che il Parlamento europeo (PE) dovesse
sostenere l’obiettivo primario di Helsinki di creare una forza di
reazione rapida di 60.000 uomini.
Tale consenso non poteva essere dato per scontato. Il ricorso
alla forza militare è questione assai sensibile per taluni gruppi
politici: in primo luogo, perché l’allargamento dell’Unione alle
non-alleate Austria, Finlandia e Svezia ha complicato il dibattito;
1. Relazione Lalumière del 21 novembre 2000, sull’Istituzione di
una politica europea comune di
sicurezza e difesa dopo Colonia ed
Helsinki, A5-0339/2000.
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poi perché, se la guerra in Kosovo aveva contribuito alla nascita
della PESD, non si poteva tuttavia ritenere che avesse fornito una
guida per il futuro uso della forza militare, vista l’assenza di un
mandato dell’ONU.
Nel contesto di questi sforzi per raggiungere un consenso sulla
PESD in sede di PE nel 1999/2000, occorre anche rocrdare che proprio in quel periodo Javier Solana ha assunto le nuove funzioni di
Alto Rappresentante per la politica estera e di sicurezza comune
(PESC), mentre Chris Patten è diventato il Commissario competente delle relazioni esterne.
Mentre Javier Solana gestiva la creazione delle nuove strutture
istituzionali di sicurezza (Comitato politico e di sicurezza, Comitato militare, Stato Maggiore militare, unità politica, Centro di
situazione dell’UE), Chris Patten introduceva ampie riforme in
seno alla Commissione per ristrutturarne gli strumenti di politica
esterna, misure di esecuzione sollecitate da tempo dal PE alla luce
dell’esperienza maturata con la ricostruzione in Bosnia-Erzegovina (programmi di aiuto più dettagliatamente strutturati sotto il
profilo del bilancio, creazione di un’Agenzia per la ricostruzione,
istituzione di EuropeAid, creazione del meccanismo di reazione
rapida per sveltire i finanziamenti, introduzione della condizionalità negli accordi di associazione e di cooperazione con i paesi dei
Balcani).
In quel periodo, anche grazie agli intensi scambi di vedute tra
Patten e Solana in sede di PE, la ‘prevenzione dei conflitti’ è evoluta
da concetto puramente teorico ad un approccio della politica
estera e di sicurezza europea orientato all’azione.
Se si considerano oggi i vari strumenti vigenti nell’UE in materia di prevenzione dei conflitti, gestione civile delle crisi, ricostruzione e consolidamento della nazione, è fin troppo facile dimenticare che tali strumenti sono stati creati solamente alla luce
dell’esperienza maturata dopo gli accordi di Dayton nella ricostruzione della Bosnia-Erzegovina e sulla base di un’interazione
conflittuale/costruttiva tra Parlamento e Commissione. Occorre
ora renderli più efficaci, snelli e coerenti.
Solo il parallelismo tra lo sviluppo di strumenti civili per la prevenzione dei conflitti e la gestione delle crisi, da una parte, e l’obiettivo di stabilire una forza militare di reazione rapida cui ricorrere nelle operazioni di tipo Petersberg, dall’altra, ha fornito la
base necessaria per ottenere in seno al PE un ampio consenso sulla
relazione Lalumière.
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In quella relazione il PE ha affermato chiaramente che la PESD
è soggetta al primato della PESC, ma anche che il Parlamento non
esclude il ricorso alla forza militare nella gestione delle crisi internazionali quando tutti gli strumenti diplomatici sono stati esauriti e quando esiste un mandato specifico del Consiglio di sicurezza dell’ONU. Sulla base di tali principi, il Parlamento ha
proseguito segnalando le carenze del materiale militare degli Stati
membri dell’UE emerse nella guerra in Kosovo, e la mancanza di
interoperabilità delle forze europee fra di loro e con quelle degli
Stati Uniti.
Nella relazione di Philippe Morillon adottata nel marzo 2003,
che si proponeva già di integrare le nuove prospettive nella mutata
situazione in materia di sicurezza successiva all’11 settembre
2001, si è dovuto affrontare la questione della capacità dell’Europa di agire come parte di una coalizione militare con gli Stati
Uniti sulla base dell’esperienza in Afghanistan, e la guerra in Iraq
ne ha fortemente influenzato l’elaborazione.
Nella relazione il Parlamento ribadisce la posizione che ‘solo
un’Unione che disponga di una vasta gamma di strumenti di prevenzione e gestione delle crisi - nonché di obiettivi e interessi di
politica estera chiaramente definiti, comprese capacità militari
efficaci e in grado di garantire l’interoperabilità - potrà diventare
un protagonista indipendente nelle questioni mondiali, e continuerà ad essere un interlocutore affidabile nelle relazioni transatlantiche’.2
L’obiettivo politico della relazione consisteva nel mantenere il
consenso sulla PESD ottenuto fino ad allora in Parlamento, a
fronte delle profonde divisioni tra Stati membri sulla guerra preventiva che gli Stati Uniti avevano mosso contro l’Iraq.
La relazione doveva quindi anche influenzare il dibattito che si
teneva contemporaneamente nel gruppo ‘Difesa ‘ della Convenzione europea presieduto da Barnier, e sosteneva le proposte di
adeguare i compiti di Petersberg alle nuove minacce (quali gli Stati
in corso di fallimento e la proliferazione di armi di distruzione di
massa), di creare un’Agenzia europea per gli armamenti, consentire una cooperazione rafforzata tra Stati membri nel settore della
politica di sicurezza e di difesa, inserire una clausola di solidarietà
per proteggere la popolazione civile in caso di attentato terroristico, e istituire la funzione di ministro degli affari esteri europeo.
Tuttavia, il principale messaggio della relazione Morillon è che
se l’Europa vuole essere considerata un protagonista credibile
2. Relazione Morillon del 27
marzo 2003 sulla nuova architettura europea di sicurezza e difesa priorità e lacune, A5-0111/2003.
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sulla scena internazionale ed essere trattata come partner paritario dagli Stati Uniti, le occorrono capacità militari moderne che ne
sostengano la capacità di far parte di una coalizione in sede NATO
nel settore delle operazioni belliche, e assicurino che il ruolo degli
europei non si riduca allo svolgimento di operazioni di mantenimento della pace o di ricostruzione.
Tali capacità non si ottengono a costo zero. Tuttavia, come il
Consiglio dei ministri UE, neanche il Parlamento è riuscito ad
accordarsi su una percentuale del PIL, e si è riferito piuttosto a
finanziamenti ‘adeguati’ delle spese militari. E’ emerso comunque
un consenso sul fatto che ancor più importante è la razionalizzazione degli approvvigionamenti, grazie ad una maggior cooperazione tra Stati e alla messa in comune multinazionale delle forze
armate. Gli Stati membri dell’UE hanno collettivamente il
secondo maggior bilancio militare nel mondo (ca. 160 miliardi di
euro) dopo gli Stati Uniti. Se i fondi fossero spesi in modo efficiente e lungimirante, e se gli Stati membri evitassero doppioni e
abbandonassero concezioni obsolete delle forze armate, questa
somma sarebbe sufficiente sia per la difesa territoriale della popolazione europea, sia per stabilire una forza europea d’intervento
efficiente, interoperabile e standardizzata per la gestione internazionale delle crisi.
Tuttavia le recenti minacce terroristiche e l’avvicinamento
oggettivo delle regioni in stato di crisi e conflitto alle frontiere
esterne dell’Unione allargata indicano che il dividendo di pace
auspicato alla fine della guerra fredda si è volatilizzato da tempo, e
che la politica di difesa dell’Europa richiede circa il 2% del PIL per
disporre di una solida base finanziaria.
Forse uno dei più importanti momenti nello sviluppo della
PESD è stato l’accordo ‘Berlin plus’, raggiunto tra l’UE e la NATO
nel dicembre 2002, che garantisce all’UE l’accesso all’infrastruttura di pianificazione e comando della NATO presso SHAPE. Interessante, in proposito, l’aneddoto sulla corrispondenza tra la commissione per gli affari esteri del Parlamento europeo e il
vicecomandante supremo delle forze alleate in Europa DSACEUR, Ammiraglio Rainer Feist, nell’agosto 2003. La lettera di
risposta di quest’ultimo era intestata ‘Comando operativo dell’UE’ - SHAPE, Mons, il che metteva in evidenza il suo ruolo di
comandante delle operazioni militari dell’UE nell’ex Repubblica
jugoslava di Macedonia.
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In seguito all’esperienza positiva dell’operazione Concordia,
diffidenze e sospetti tra NATO e UE sembrano essere stati gradualmente eliminati e sostituiti da normali relazioni di lavoro. Le
riunioni comuni dei comitati militari delle due organizzazioni
contribuiscono a questo clima, come pure gli scambi di ufficiali
tra i rispettivi stati maggiori.
Per quanto riguarda le capacità di pianificazione e comando, è
importante non perdere di vista la differenza di dimensioni delle
due organizzazioni: circa 3.000 ufficiali sono impiegati presso
SHAPE a Mons, in Belgio, mentre un organico di circa 200 persone
svolge funzioni di comando e pianificazione presso lo Stato Maggiore UE che ha sede nell’edificio Kortenberg a Bruxelles. In una
riunione comune tra la commissione affari esteri del Parlamento
europeo e tre comitati dell’Assemblea parlamentare della NATO,
tenutasi a Bruxelles il 17 febbraio 2004, il DSACEUR e il Generale
Herreweghe dello Stato Maggiore UE hanno potuto dichiarare
che i militari sono pronti a collaborare strettamente e che 50 anni
di pratica comune NATO stanno dando forma alle loro relazioni
di lavoro. Qualsiasi ammodernamento delle forze armate europee
contribuisce anch’esso a sviluppare la PESD e, nello stesso tempo,
a rafforzare il pilastro europeo presso la NATO. Inoltre, la complementarietà fra NATO e UE nella gestione internazionale delle crisi
sta diventando sempre più definita, soprattutto nei Balcani, dove
finora il lavoro è stato ripartito nel seguente modo: la NATO provvede alla sicurezza con mezzi militari (SFOR, KFOR) e l’UE organizza la ricostruzione civile, assume funzioni di polizia, e spiana la
strada allo sviluppo politico ed economico. La sostituzione della
SFOR con una EUFOR a partire dal 2005 non è che la logica conseguenza per l’UE, che viene cosi’ a concentrare tutti gli strumenti
di prevenzione dei conflitti e di gestione delle crisi nella regione
che geograficamente più vicina e politicamente più importante.
Ciò non solo rappresenta un passo importante verso la maturità
della PESD, ma contribuirà anche a formare il futuro dell’UE relativamente al suo ruolo globale sulla scena internazionale.
Il secondo teatro che fornisce un esempio positivo di collaborazione complementare tra NATO e UE è l’Afghanistan.3 Con la trasformazione dell’ISAF (Forza internazionale di assistenza alla
sicurezza) in un’operazione NATO sotto comando europeo, che
comprende soldati per la maggior parte europei, e con l’UE come
maggior contributore nella ricostruzione economica e statuale, il
3. Cfr. Brok/Gresch, ‘Afghanistan:
Lehren für ein komplementäres
Zusammenwirken von NATO und
EU im internationalen Krisenmanagement – Der ISAF-Einsatz der
Bundeswehr aus europäischer
Sicht’ (Afghanistan: lezioni di cooperazione complementare tra
NATO e UE nella gestione internazionale delle crisi – operazioni dell’ISAF effettuate dalla Bundeswehr viste da una prospettiva
europea): German Defense Mirror,
2004.
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ruolo complementare di rafforzamento reciproco della NATO e
dell’UE appare con chiarezza.
Anche in Iraq è sempre più evidente che la guerra è più di qualche tiro isolato: senza missioni militari di stabilizzazione e ricostruzione della nazione si rischia di non raggiungere l’obiettivo
politico per il quale è stata fatta la guerra.
Se le operazioni sul modello ‘Berlin plus’ sono l’opzione più
probabile per le azioni future - anche perché la Gran Bretagna è
favorevole, come recentemente confermato dal ministro della
difesa Geoff Hoon in un intervento davanti alla commissione
affari esteri del PE4 - operazioni dell’UE condotte autonomamente, come Artemis nell’estate 2003 nella Repubblica democratica del Congo, restano alternative del tutto valide.
Con l’operazione Artemis, nella regione dell’Ituri, l’UE ha dimostrato di essere assolutamente in grado di condurre operazioni
militari di gestione delle crisi in modo autonomo, su richiesta dell’ONU, operando da comandi nazionali organizzati su base multilaterale: nel caso specifico, la Francia è stata la ‘nazione guida’. L’obiettivo era lanciare un segnale politico: l’Africa non può più
essere lasciata a se stessa come ‘continente dimenticato’, e in
futuro deve essere nuovamente inclusa nella sfera di competenza
della politica europea. L’operazione di polizia programmata a
Kinshasa intende lanciare un ulteriore segnale: gli Stati in corso di
fallimento e il terrorismo in Africa sono rilevanti anche per la sicurezza dell’Europa.
Già in precedenza il Parlamento europeo aveva sottolineato
l’importanza per la PESD di un’industria europea degli armamenti razionalizzata e competitiva. La comunicazione presentata
nel 2003 dalla Commissione - ‘Difesa europea - questioni industriali e di mercato’5 - rimandava ad un’iniziativa del PE.6 Nella
relazione in materia del dicembre 20037 il Parlamento sosteneva
l’istituzione di un’ Agenzia europea per gli armamenti e chiedeva
che si stabilisse gradualmente un mercato europeo degli armamenti. Secondo il Parlamento, sarebbe una buona occasione per
migliorare l’equipaggiamento militare delle forze europee per
operazioni di crisi. Occorre standardizzare i materiali e le procedure in modo da ridurre i costi e consentire maggiore interoperabilità tra le forze. A fronte di bilanci pubblici ristretti, occorre proseguire il dibattito già iniziato sulla specializzazione dei ruoli e la
messa in comune delle risorse nel settore militare, estendendolo
4. Geoffrey Hoon dinanzi alla
commissione per gli Affari esteri
del Parlamento europeo il
30 marzo 2004 a Strasburgo.
5. Comunicazione della Commissione dell’11 marzo 2003 ‘Difesa
europea - questioni industriali e di
mercato - verso una politica comunitaria in materia di attrezzature militari’ (COM(2003) 113).
6. Risoluzione del 10 aprile 2002
sulle industrie europee della difesa, P5 TA(2002) 0172.
7. Relazione Queiró del 6 novembre 2003 ‘Difesa europea - Questioni industriali e di mercato Verso una politica comunitaria in
materia di attrezzature militari’
A5-0370/2003.
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ad altre forze di sicurezza quali polizia, forze paramilitari e polizia
di frontiera.
Uno dei compiti della PESD nei prossimi cinque anni comprenderà non solo l’ottimizzazione delle capacità militari e l’aumento del numero dei soldati schierabili nelle operazioni di crisi in ambito NATO, tale numero è attualmente solo di 55.000, su un
totale di 1,4 milioni di soldati europei - ma anche il rafforzamento
dell’interconnessione tra capacità militari e civili. L’Europa
potrebbe assumere il ruolo di guida in questo settore, come gli
Stati Uniti lo hanno nella guerra basata sulle reti di informazione
(network-centric warfare).
Una componente civile è già stata incorporata nel concetto originario della PESD, per quanto riguarda i settori del mantenimento dell’ordine, dello stato di diritto, dell’ammodernamento
dell’amministrazione e della protezione civile. Non a caso le prime
operazioni PESD (in Bosnia-Erzegovina e l’ex Repubblica jugoslava di Macedonia) sono state missioni di polizia.
Tuttavia, in seguito all’11 settembre 2001 e sulla base della strategia europea in materia di sicurezza elaborata in seguito alla
guerra in Iraq - che identifica cinque minacce di fondo: terrorismo,
proliferazione illegale delle armi di distruzione di massa, conflitti
regionali, fallimento dello Stato e criminalità organizzata - occorrerà in futuro ristrutturare radicalmente l’intero settore della sicurezza e i relativi protagonisti (militari, polizia, polizia di frontiera,
difesa civile, servizi d’informazione, unità paramilitari).
Gli attentati di Madrid dell’11 marzo 2004 hanno mostrato
che la sicurezza dei nostri cittadini non va difesa solo nell’Hindu
Kush, ma nelle nostre stesse città. Il collegamento si chiude nel
momento in cui la minaccia terroristica è importata dai campi
d’addestramento degli Stati in corso di fallimento all’interno delle
nostre città.
La strategia europea in materia di sicurezza, presentata da
Javier Solana e adottata dai capi di Stato e di governo dell’UE nel
dicembre 2003, ha messo in evidenza questo collegamento. Tale
strategia è probabilmente il più importante documento dell’UE in
materia di politica estera, di sicurezza e di difesa da Helsinki 1999.
Insieme alle proposte presentate dalla Convenzione europea
sugli aspetti istituzionali, essa fornisce una buona base per muovere la volontà politica necessaria a tradurre i concetti politici in
azione concreta. L’iniziativa anglo-francese sull’istituzione di
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‘gruppi tattici’ multinazionali di 1.500 uomini ciascuno costituisce un passo in questa direzione, volto a far sì che l’UE disponga
della capacità di reagire alle crisi per essere un protagonista internazionale credibile.
La questione della dimensione parlamentare della PESD, naturalmente, riveste particolare importanza per il PE. Anche dopo l’adozione della nuova Costituzione, il Parlamento formalmente
avrà soltanto diritto ad essere informato e consultato sugli sviluppi di base, e disporrà inoltre di competenze in materia di bilancio per l’elemento civile della PESD, ad esempio gli stanziamenti
per i costi comuni delle missioni di polizia.
Non è una situazione soddisfacente, tanto più che le decisioni
sull’approvvigionamento degli armamenti delle forze armate e
sull’invio di soldati ad operazioni europee rientrano nella competenza dei parlamenti nazionali. Tale competenza condivisa tra i
parlamenti nazionali e il PE - che è competente in particolare per
tutti i programmi di spesa a carico del bilancio comunitario e per
il bilancio PESC - comporta un rischio di inadeguatezza del controllo parlamentare.
Il PE ha cercato di ridurre al minimo tale rischio chiedendo sollecitamente di essere informato a norma dell’art. 21 del TUE, e rendendo la sua commissione per gli affari esteri, che è competente
sulla PESD, un punto di contatto parlamentare centrale tra il
Consiglio, la Commissione e i militari. E’ necessario che il Parlamento sviluppi una propria competenza nelle questioni di politica
in materia di sicurezza. Nella prossima legislatura la sua commissione affari esteri sarà pertanto affiancata da una sottocommissione per la sicurezza e la difesa.
Tradizionalmente, la commissione affari esteri è tenuta regolarmente al corrente dalla Commissione (Patten, 22 volte) e dalla
Presidenza (ministro degli esteri, 19 volte, ministro degli affari
europei, 14 volte). Dal 2000 - sotto presidenza francese - anche i
ministri della difesa hanno tenuto informato il Parlamento (per
un totale di 9 volte). L’Alto Rappresentante Javier Solana si è presentato in 10 occasioni alla commissione e ha spesso parlato e
risposto a interrogazioni in plenaria nei periodi di crisi (Medio
Oriente, Iran, Iraq, terrorismo: 11 volte). Sul fronte militare, le
informazioni sono state fornite dal presidente del Comitato militare dell’UE, Generale Hägglund, dal capo di Stato Maggiore,
Generale Schuwirth, e dal suo vice, Generale Herreweghe, e da
parte NATO dal Segretario generale (Lord Robertson e Jaap de
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Hoop Scheffer) e dal vicecomandante supremo delle forze alleate
in Europa (DSACEUR), Ammiraglio Feist.
L’istituzione, nel dicembre 2001, di una delegazione permanente
per le relazioni con l’Assemblea parlamentare della NATO si è rivelata particolarmente utile.8 Il PE, che è membro associato dell’Assemblea, partecipa con 10 membri alle sessioni primaverili e autunnali, e in febbraio la commissione affari esteri invita tre commissioni
dell’Assemblea parlamentare della NATO a una riunione comune a
Bruxelles per uno scambio di vedute sulle questioni relative alla
PESD. L’attività di questa delegazione, considerata molto produttiva anche dai gruppi politici, ha portato nel Parlamento europeo
un soffio di cultura della sicurezza che andrebbe senz’altro rafforzato dalla nuova sottocommissione per la sicurezza e la difesa.
Uno sviluppo interessante recente è che il Consiglio - che per
lungo tempo si poteva considerare, metaforicamente parlando,
più una misteriosa ‘scatola nera’ che un partner politico per il Parlamento nel settore della PESC - si sta aprendo sempre più al PE. Il
direttore generale Robert Cooper e il personale competente nelle
operazioni PESD (capi delle operazioni e rappresentanti speciali)
mostrano sempre maggior disponibilità nei confronti della commissione.
Inoltre, dall’esercizio 2003, gli uffici delle commissioni affari
esteri e bilancio ricevono regolarmente informazioni sul finanziamento della PESC. All’origine di questa tendenza sta la questione
dei costi comuni per la missione di polizia nell’ex Repubblica
jugoslava di Macedonia, quando il Parlamento ha collegato la liberazione dei fondi ad una propria maggiore informazione preliminare su future operazioni. E’ un punto importante, in quanto permette al PE di formulare un’opinione su progetti di missioni
PESD in base a informazioni solide e autorevoli, dato che non è
ufficialmente consultato dal Consiglio sulle azioni comuni situazione che ha ripetutamente criticato.
L’istituzione di un comitato speciale per l’accesso del Parlamento alle informazioni riservate conformemente all’accordo
interistituzionale tra il Consiglio e il Parlamento del 20 novembre 20029 completa il miglioramento dell’accesso del Parlamento
all’informazione.
Il comitato speciale comprende il presidente della commissione affari esteri e 4 altri membri. Si riunisce circa ogni sei settimane con l’Alto Rappresentante o il suo delegato per discutere di
informazioni riservate.
8. Precedentemente, il PE è stato
rappresentato solo su base ad hoc
alle Assemblee parlamentari
NATO, con 3 membri.
9. Accordo interistituzionale del
20 novembre 2002 tra il Parlamento europeo e il Consiglio relativo all’accesso da parte del Parlamento europeo alle informazioni
sensibili del Consiglio nel settore
della politica di sicurezza e di difesa Gazzetta ufficiale dell’UE n. C
298 del 30/11/2002 pag.1 -3.
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La PESD ha bisogno di un’ampia legittimazione parlamentare.
Le operazioni belliche non possono essere condotte contro il
volere della popolazione. Occorre fornire ragioni plausibili per
spendere soldi in armi, e le misure di sicurezza devono essere commisurate alla necessità di protezione della popolazione. E’ compito dei parlamenti condurre questo dibattito.
Il PE vede pertanto in modo assai critico l’istituzione di un
bilancio aggiuntivo per il finanziamento dei costi comuni delle
missioni militari dell’UE da parte degli Stati membri. Il fondo
‘Athena’ non è soggetto a scrutinio parlamentare, né da parte dei
parlamenti nazionali, né del PE. Vari meccanismi finanziari di
questo tipo per i costi comuni delle operazioni civili e militari non
promuovono certo la coerenza e la trasparenza della gestione
europea delle crisi.
Subito dopo gli eventi dell’11 settembre 2001, la commissione
affari esteri del PE ha invitato i rappresentanti delle commissioni
affari esteri e difesa dei parlamenti nazionali a partecipare ad una
riunione comune con Javier Solana e Chris Patten (e Louis Michel
a nome della presidenza belga), per discutere la posizione europea
sugli attentati a New York e a Washington. Con il parere comune
del PE e dei parlamenti nazionali in tasca, la Troika si è recata il
giorno dopo a Washington. Il weekend successivo, in un vertice
straordinario del Consiglio europeo tenutosi a Bruxelles il 21 settembre, è stata rilasciata una dichiarazione comune del Consiglio,
della Commissione e del Parlamento sulla lotta al terrorismo
internazionale 10. Da allora, la commissione affari esteri del PE ha
invitato le commissioni affari esteri e la difesa dei parlamenti
nazionali a partecipare almeno due volte all’anno a riunioni
comuni a Bruxelles per discutere le questioni attuali relative a
PESC e PESD con Patten, Solana, la Presidenza e/o alti ufficiali in
servizio presso l’UE o la NATO. Questa prassi si è rivelata preziosa:
dovrebbe essere rafforzata nella prossima legislatura con riunioni
trimestrali tra il PE e i parlamenti nazionali, insieme ad una
riunione annuale tra la commissione affari esteri e l’Assemblea
parlamentare della NATO.
La politica estera e di sicurezza è l’ultimo grande ‘cantiere’ nella
costruzione dell’Unione europea. Javier Solana scrive che un’Unione a 25 Stati con oltre 450 milioni di cittadini che producono
un quarto del prodotto mondiale lordo ha una responsabilità in
materia di sicurezza globale. Innanzitutto, comunque, questo
significa che deve anche assumersi la responsabilità di proteggere
10. Cfr. relazione annuale Brok
dell’11 settembre 2002 sulla politica estera e di sicurezza comune,
A5-0296/2002.
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la propria popolazione. Se è vero che il terrorismo internazionale
ha sbiadito la linea di separazione tra interno ed esterno, ciò si
ripercuote necessariamente nell’orientamento della PESD.
Per il Parlamento europeo, come per l’Unione, è fondamentale
mantenere e rafforzare il consenso sulla PESD raggiunto finora in
seguito all’allargamento del 1° maggio 2004, e far sì che entro il
2010 il cantiere sia diventato un edificio solido.
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PESD: i primi
cinque anni
Robert Cooper
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Per la PESD, cinque anni sono pochi: i tempi di pianificazione nel
settore della difesa si misurano abitualmente in decenni. Il periodo
è tanto più breve se si considera che la PESD è partita da zero e che
tutto è stato deciso prima a 15, poi a 25. Inoltre, nessuno Stato
membro ha posto la PESD al centro della propria politica di sicurezza o di difesa, almeno per il momento. La NATO costituisce
verosimilmente, per gli Stati membri che fanno parte della sua
struttura militare, la priorità essenziale sul piano internazionale.
Così, sebbene la PESD rappresenti per numerosi Stati membri un
elemento importante della visione a lungo termine dell’Unione
europea, questa politica ha occupato all’inizio un posto marginale
nella mente di alcuni ministri della difesa e pianificatori del settore.
Inoltre la PESD, contrariamente alla NATO, non è stata creata per
affrontare una minaccia specifica e tangibile: ciò avrebbe avuto un
effetto galvanizzante. La PESD appartiene invece al mondo del
dopo guerra fredda, in cui le forze devono essere create in previsione di possibili rischi, anziché di minacce concrete. Nel lungo
periodo ciò potrebbe costituire una forza ma, per un’organizzazione che comincia dal nulla, non è un vantaggio.
Oltre a queste difficoltà strutturali, la PESD ha dovuto fare i
conti con una serie di problemi congiunturali. È nata, ad esempio,
in un periodo difficile per le relazioni UE-Turchia. Solo una volta
risolti questi problemi è stato possibile instaurare solide relazioni
tra l’UE e la NATO. Ciò era essenziale per il proseguimento della
PESD, dato che gli accordi ‘Berlin plus’ sono uno dei suoi fondamenti. Inoltre, in questi primi cinque anni di PESD si sono alternati, come di consueto, periodi di alti e bassi nelle relazioni transatlantiche, tra cui un periodo particolarmente difficile legato alla
guerra in Iraq. Ciò ha comportato a sua volta potenziali problemi
per la PESD, per la quale un certo appoggio degli Stati Uniti rappresenta una necessità.
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La terza serie di difficoltà cui è stata confrontata la PESD
deriva dalla stessa natura dell’Unione. L’UE non è mai stata concepita come un’organizzazione di politica estera nel senso tradizionale del termine. Sebbene i suoi obiettivi siano sempre stati politici, l’UE è stata creata per mettere da parte la politica estera
comunemente intesa, nel senso di alleanze e conflitti. Mentre
quasi tutte le associazioni durevoli di Stati si prefiggevano quale
obiettivo principale la politica estera o militare, l’UE pone deliberatamente l’accento su temi di politica interna. Anche la politica
commerciale comune, per certi versi, non è altro che la conseguenza esterna del mercato unico all’interno. L’Unione ha svolto
un ruolo strategico di vitale importanza nello stabilire un nuovo
tipo di relazioni fra gli Stati d’Europa, ma nelle sue relazioni
esterne ha spesso dimostrato scarso interesse strategico. Ad esempio, la politica nei riguardi della Jugoslavia è consistita per anni in
contingenti tariffari e aiuti a progetti in loco, lasciando l’Europa del
tutto impreparata dinanzi alle crisi politiche degli anni Novanta.
La ‘cooperazione politica europea’ è esistita fianco a fianco con la
politica comunitaria, sebbene sia spesso sembrata solo lontanamente connessa a quest’ultima (tranne nei pochi casi in cui gli
Stati membri hanno imposto sanzioni) e abbia sempre avuto un’esistenza relativamente scialba. L’apparato comunitario a Bruxelles si è caratterizzato per una cultura strategica scarsa, se non addirittura nulla.
Considerato il contesto poco promettente in cui è sorta, la
PESD ha compiuto progressi sorprendenti. Con la creazione del
posto di Alto Rappresentante per la PESC, la politica estera ha
acquistato maggior risalto (sebbene non in modo sufficiente,
secondo alcuni). Con l’Alto Rappresentante è sorta l’Unità politica che, a sua volta, ha dato origine al Centro di situazione e alla
collaborazione in materia di intelligence. È aumentato il personale
sia militare sia civile, di modo che, rispetto a cinque anni prima,
presso il Segretariato del Consiglio vi sono probabilmente circa
200 persone in più che si occupano di temi militari e di sicurezza.
Sono stati inoltre istituiti il Comitato politico e di sicurezza e i
relativi comitati di sostegno. Tutto ciò ha richiesto sforzi organizzativi e personale supplementare da parte dei singoli Stati membri
dell’UE (per non parlare della Commissione).
Sorprendente è stato inoltre il modo in cui l’UE, una volta raggiunta una base di intesa con la NATO, e’ stata in grado di conclu-
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dere nell’arco di poche settimane sette accordi separati con l’Alleanza per consentire la messa in atto degli accordi di ‘Berlin plus’.
La negoziazione di accordi tra due organizzazioni multilaterali
composte, rispettivamente, di 19 e 15 membri, e ciascuna dotata di
personale proprio, è un processo che di norma richiede vari anni.
Le relazioni tra l’UE e la NATO non procedono ancora in modo
ottimale: e non c’è da stupirsi, dato che entrambe le organizzazioni sono in fase di transizione. Si osservano tuttavia notevoli
progressi, in particolare nella prospettiva dell’operazione in
Bosnia. Come sempre, la pratica si sta rivelando più facile della
teoria.
Nei due anni e mezzo dalla conclusione dell’accordo, l’UE ha
avviato due operazioni militari e due civili (queste tuttora in
corso). Altre iniziative sono in via di realizzazione. Questo livello
di attività è impressionante se si considerano il poco tempo trascorso dalla creazione della PESD e le limitate risorse disponibili.
Ciascuna di queste operazioni ha avuto un valore specifico e da
ciascuna si possono trarre insegnamenti. L’operazione Concordia
nella FYROM, preparata in breve tempo durante la negoziazione
degli accordi ‘Berlin plus’, ha permesso di trarre una serie di insegnamenti riguardo alla collaborazione con la NATO e al coordinamento nell’UE. Alcuni di questi insegnamenti dovrebbero essere
utili nel quadro dell’operazione in Bosnia. Nell’operazione Artemis siamo stati in grado di rispondere con sorprendente celerità
ad una richiesta delle Nazioni Unite. Abbiamo appreso molte cose
sui vantaggi e gli inconvenienti di operazioni autonome che si
avvalgono di un comando UE nazionale (sarebbe interessante
sapere se un’operazione ‘Berlin plus’ può essere organizzata con
altrettanta rapidità), come pure alcune cose sull’impatto politico
di una presenza militare dell’Unione sul campo.
Entrambe le operazioni militari si sono contraddistinte per un
aspetto piuttosto inusuale: si sono entrambe concluse. Succede
spesso che operazioni nei Balcani o altrove, concepite per brevi
spiegamenti, si protraggano di fatto per anni: non sempre è facile
concludere le operazioni. Artemis è l’unica operazione militare di
cui abbia esperienza diretta che si è conclusa esattamente nei
tempi previsti.
Anche le due operazioni di polizia hanno portato un bagaglio
di insegnamenti positivi e negativi. Sono ammirato dall’accento
posto dall’EUPM sulla qualità: il rigore con cui sono stati scelti gli
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ufficiali di polizia in base a descrizioni specifiche delle mansioni
supera di gran lunga quello usato abitualmente per le missioni di
polizia dell’ONU. Questa operazione, cui partecipano all’incirca
500 ufficiali di polizia per una durata di tre anni, è un esempio evidente di ciò che l’UE può fare, e che probabilmente nessuno Stato
membro potrebbe sostenere da solo. Sia l’EUPM in Bosnia che l’operazione Proxima nella FYROM hanno inoltre dimostrato la difficoltà di operare secondo meccanismi (riguardo agli approvvigionamenti, ad esempio) non progettati originariamente per la
gestione delle crisi.
Alcuni sono ancora del parere che le operazioni civili preparate
dall’UE costituiscano un doppione rispetto ai lavori già compiuti
dalla Commissione. Senza entrare nel merito della questione,
ritengo utile almeno sottolineare che le missioni avviate dal Consiglio, con il ricorso a personale proveniente direttamente dagli
Stati membri, producono, in collaborazione con la Commissione,
un grado più elevato di coinvolgimento e di titolarità di quanto
non facciano i programmi più indipendenti organizzati dalla sola
Commissione. Sembrano inoltre avere un impatto maggiore sul
campo.
Con la strategia europea in materia di sicurezza (chi avrebbe
mai pensato, prima della PESD, che sarebbe esistito un simile
documento?) l’UE si è impegnata ad essere più attiva, più capace e
più coerente. Ma come si misura l’Unione con queste prove?
Se pensiamo agli ultimi cinque anni, e soprattutto agli ultimi
due e mezzo, le attività svolte sono sorprendenti, non tanto per
quantità ma piuttosto per qualità. È indubbio che l’UE sia diventata un’organizzazione più politica e, in un certo senso, più seria.
Una politica estera più consapevole deve poter contare, come
ultima ratio, sul possibile ricorso alla forza. Quando un paese o
un’organizzazione intende schierare delle forze, il clima cambia,
non vi è più spazio per l’ambiguità, le decisioni toccano i massimi
livelli: i rischi, i costi e gli impegni assumono una portata diversa
rispetto ad altre azioni, quali formulare dichiarazioni o fornire
assistenza. Diverso, in senso positivo o negativo, è anche il corrispondente impatto sul terreno, dove le forze sono schierate. Il processo che integra la dimensione della forza nella politica estera dell’UE è appena iniziato, ma i suoi effetti sono già visibili. In settori
come la non proliferazione, l’Unione è più attiva di prima: in sede
ONU, la sua posizione ha un peso maggiore. Tuttavia c’è ancora
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del cammino da fare, e il punto d’arrivo dell’UE dipenderà dalle
sue capacità. I progressi in questo settore sono meno evidenti.
Diversi elementi importanti dell’obiettivo primario devono
ancora essere realizzati, e non vi sono piani precisi al riguardo. Si
sta tuttavia progredendo nel concepire e nell’equipaggiare forze di
spiegamento rapido, in particolare attraverso il concetto di
‘gruppi tattici’, una serie di pacchetti di forze di piccole dimensioni con lo scopo principale di essere schierabili in poco tempo
nel quadro, ad esempio, di missioni di mantenimento della pace.
La creazione di un’agenzia nel settore delle capacità è un altro progresso importante, ma anche questo rappresenta piu’ una promessa che un risultato. Il conseguimento di risultati in questo
campo costituirà la prova cruciale per la PESD.
Non meno importanti di quelle militari, sono le capacità diplomatiche. Al riguardo, il riferimento nella Costituzione a un servizio per l’azione esterna ha suscitato grande interesse. Ancora una
volta, rimane da vedere fino a che punto questo progetto sarà realizzato, e in quanto tempo. Solo in un contesto di politica estera
più unificata è possibile dare una direzione e un senso alla PESD.
Anche in fatto di coerenza vi è ancora molto da fare tra Consiglio, Commissione e Stati membri. Alcune risposte potrebbero
trovarsi nel trattato costituzionale. La creazione di un’unità di pianificazione civile-militare è pure un progetto potenzialmente
importante. Resta, come sempre, da vedere in quale misura le promesse saranno mantenute.
La strada è quindi ancora lunga. Dobbiamo tuttavia essere
orgogliosi di questi primi passi. Tutto considerato, sarebbe difficile immaginare un inizio migliore.
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PESD: i primi
cinque anni
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Alla fine degli anni Ottanta, nonostante l’implosione incombente
dei Balcani e il crollo del sistema comunista in Unione Sovietica, gli
ambasciatori dell’Unione europea evitavano di nominare la
‘difesa’. Era sufficiente un accenno a questa parola perché alcuni
ambasciatori abbandonassero la riunione. Il termine era tabù, e
rientrava in un linguaggio che apparteneva alle capitali, non al
gergo di Bruxelles.
Da allora la politica di sicurezza e di difesa dell’Unione europea
ha fatto molta strada, e le parole difesa e sicurezza sono entrate nel
suo gergo. Dopo aver iniziato a costruire da zero le istituzioni per
la difesa dopo il vertice di Nizza del dicembre 2000, l’UE dispone
attualmente di circa 200 ufficiali e altro personale militare presso
lo Stato Maggiore di Bruxelles. Ha avuto il benestare degli Stati
membri anche per istituire l’unità di pianificazione nella capitale
belga, ed è impegnata a dar corpo alla nuova Agenzia per la difesa.
Questa avrà il non facile compito di tentare di coordinare la spesa
e di produrre effettive capacità europee che siano interoperabili: in
altri termini, si incaricherà di eliminare i doppioni.
Le ambizioni di difesa dell’Europa sono visibili anche sul
campo: la missione di polizia dell’UE in Bosnia-Erzegovina, una
piccola missione militare nell’ex Repubblica jugoslava di Macedonia, l’operazione Artemis dell’estate scorsa nella Repubblica democratica del Congo e, alla fine di quest’anno, il subentro alla consistente missione NATO in Bosnia. I diplomatici UE sostengono
che questi esempi dimostrano che la politica di sicurezza e di
difesa europea sta prendendo forma.
Questo breve articolo non si propone tuttavia di celebrare tutti
questi progressi, bensì di rilevare le contraddizioni e le tensioni
emerse dai tentativi di far progredire una politica di sicurezza e di
difesa per l’Europa. In effetti, la strategia europea in materia di
sicurezza di Javier Solana avrà un impatto duraturo soltanto se gli
Stati membri si metteranno d’accordo su ciò che intendono per
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sicurezza, per difesa e, soprattutto, sul significato dell’UE quale
‘attore globale’.
A questo riguardo, il nuovo trattato costituzionale per l’Europa - una volta ratificato - potrebbe essere di estrema importanza
per la difesa. Gli Stati membri si sono già accordati sul ricorso alla
‘cooperazione rafforzata’ in materia di difesa, il che significa che
un gruppo di paesi potrà mettersi alla guida di alcune iniziative,
come avvenuto con l’unione monetaria e il sistema Schengen.
Anche la guerra in Iraq ha contribuito a che l’attenzione dell’UE si
concentrasse quanto meno sulle questioni di difesa. I sondaggi
dell’Eurobarometro rivelano puntualmente che i cittadini dell’Unione vogliono un’identità più forte dell’UE in questo settore, non
completamente dipendente dagli Stati Uniti, anche se non in competizione. I problemi nascono quando si prospetta una spesa maggiore per la difesa: la risposta di solito è no.
Curiosamente, nonostante questo, nel campo della sicurezza e
della difesa sono stati compiuti progressi molto maggiori che
nella politica estera dell’UE. La Commissione, braccio esecutivo
dell’Unione europea (per alcuni settori), e il Consiglio, rappresentante gli Stati membri, si sono più volte scontrati o hanno assunto
posizioni difensive per i rispettivi ‘feudi’ riguardo alla Russia, alla
Cina, all’Europa allargata o addirittura a Galileo, il sistema di navigazione satellitare dell’UE. Entrambe le istituzioni sprecano
tempo e risorse nell’elaborazione di relazioni e documenti strategici separati su questioni che dovrebbero essere comuni. Ne consegue che le decisioni sono ritardate o annacquate per raggiungere il
consenso. Se le cariche di Javier Solana e di Chris Patten, Commissario per le relazioni esterne uscente, saranno fuse, il processo
decisionale potrebbe davvero essere accelerato, e le incessanti dispute si attenuerebbero. Di fatto, indipendentemente da quanto
accade in Iraq o dall’eventuale rielezione di George W. Bush in
autunno, la politica estera dell’Unione resterà debole fino a
quando i governi nazionali non accorderanno poteri reali al
futuro ministro degli esteri dell’Unione - ammettendo che la
Costituzione sia ratificata.
L’impulso decisivo alla creazione di una politica di difesa e di
sicurezza forte per l’Europa è venuto da Tony Blair, primo ministro britannico, e Jacques Chirac, presidente francese. Nel loro storico incontro di Saint Malo, nel dicembre del 1998, hanno illustrato l’esigenza che l’Europa si dotasse di una ‘forza di reazione
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rapida’ propria. La terribile impotenza di cui aveva dato prova
l’Europa nei Balcani ha rafforzato il convincimento di Londra e
Parigi: l’UE doveva disporre di una capacità di difesa propria.
Appoggiata dagli Stati membri, l’UE ha quindi convenuto di
costituire una forza di 60.000 uomini schierabile in 60 giorni, decisione accolta in quel momento come una panacea per tutte le
debolezze dell’Europa in materia di sicurezza e di difesa. Gli sviluppi degli ultimi anni hanno dimostrato quanto fossero irrealistici questi obiettivi. Per l’UE non si trattava, ad esempio, di poter
schierare soltanto 60.000 uomini, ma almeno 180.000, vista la
necessità di rotazione delle truppe. Basti pensare alle difficoltà
incontrate dagli Stati Uniti nel cercare di assicurare una rotazione
ogni tre mesi, o persino ogni sei, di ogni singolo uomo schierato in
Iraq. Le truppe devono poter contare su altre forze per il vettovagliamento, la protezione, il trasporto, l’assistenza sanitaria, e per
assicurare loro il riposo.
Uno dei problemi principali che continua ad assillare la PESD
è inoltre la carenza grave di capacità, per non parlare del numero di
truppe ben addestrate necessarie per le missioni militari o di mantenimento della pace. L’Europa manca di capacità soprattutto
quanto a trasporto aereo strategico, comunicazioni e logistica. Per
esempio, quando la Germania ha acconsentito ad inviare truppe
in Afghanistan nel quadro della Forza internazionale di assistenza
alla sicurezza (ISAF), appoggiata dall’ONU e passata sotto il
comando NATO lo scorso agosto, non disponeva neppure del
necessario trasporto aereo: le truppe sono state quindi trasportate
in treno dalla Turchia, e il loro arrivo è stato ritardato dalle condizioni meteorologiche avverse. In altre parole, fra gli ostacoli maggiori alla politica di sicurezza e di difesa dell’Europa sono da annoverare aspettative irrealisticamente elevate, inesperienza e, nella
maggior parte dei casi, la mancata ristrutturazione delle forze
armate dai tempi della guerra fredda.
Dopo anni di trattative gli europei disporranno entro la fine di
questo decennio dell’aereo da trasporto militare A440M. Nel frattempo dovranno continuare a noleggiare mezzi NATO o a fare
affidamento su altri. Se l’UE intende davvero diventare un attore
globale, deve porsi come priorità assoluta la ristrutturazione dell’industria della difesa e delle forze armate europee, pena un valore
limitato della PESD.
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Dalla parte opposta di Bruxelles, al quartier generale della
NATO, i diplomatici che pensano che la carenza di capacità dell’UE sia un vantaggio per l’alleanza militare guidata dagli Stati
Uniti non hanno in realtà molto da rallegrarsi. Tutto sommato
l’Alleanza atlantica continua a considerare la futura politica di
sicurezza e di difesa dell’Europa come una concorrente o una
minaccia. Eppure, le capacità di difesa dell’UE e della NATO sono
esattamente le due facce della stessa medaglia. Dopo i due recenti
allargamenti dell’Alleanza e dell’Unione, 19 dei 25 Stati membri di
quest’ultima sono ora membri della NATO e 19 dei 26 paesi della
NATO sono membri dell’UE. Il miglioramento della capacità da
un lato incide sul miglioramento dal lato opposto.
Un’altra fonte di costante preoccupazione per la PESD è l’ambiguità tra Londra e Parigi sul ruolo preciso della politica di sicurezza e di difesa. L’incontro di Saint-Malo è stato in questo senso
significativo poiché ha dimostrato che le due più importanti
potenze militari europee potevano lavorare insieme per sviluppare
una politica di difesa europea. Ciò nonostante, non appena i due
leader furono rientrati nelle capitali, l’amministrazione Clinton
dell’epoca telefonò a Blair per avere ragguagli sulla funzione precisa della PESD. Madeleine Albright, allora segretario di Stato, si
pronunciava contro qualsiasi doppione di mezzi o qualsiasi politica di difesa dell’UE realmente indipendente. Qualsiasi progetto
europeo in materia di difesa non doveva essere in competizione
con la NATO.
Questo è uno dei motivi per cui alcuni Stati membri, guidati
dalla Gran Bretagna, hanno insistito affinché la PESD facesse
ricorso ai mezzi NATO, qualora l’Alleanza non intendesse condurre una missione, e le ambizioni di difesa dell’Europa non fossero percepite come concorrenti rispetto alla NATO. Tuttavia,
non si trattava soltanto di garantire l’accesso a capacità più che
necessarie, ma anche di mantenere, da parte NATO, un certo controllo sulle missioni che l’UE avrebbe scelto di effettuare nel quadro degli accordi noti sotto il nome di ‘Berlin plus’. Dopo tutto,
secondo queste modalità, la NATO avrebbe provveduto alla pianificazione nella persona del vicecomandante di SHAPE.
L’UE ha appoggiato gli accordi ‘Berlin plus’, e se la Grecia e la
Turchia non si fossero scontrate a lungo e aspramente sul ruolo di
Ankara nel permettere all’UE di accedere ai mezzi NATO, la PESD
avrebbe potuto decollare in tempi più brevi. La Turchia obiettava
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essenzialmente che, come tutti i membri NATO, ha diritto di veto
e minacciava di servirsene se, nel caso in cui l’UE intendesse accedere ai mezzi suddetti, non avesse potuto far valere la sua opinione
sull’utilizzo dei mezzi stessi. La controversia è stata finalmente
risolta nel 2002 e, in tal modo, si è spianata la via alla collaborazione tra l’Unione e l’Alleanza.
L’atteggiamento degli Stati Uniti nei confronti della difesa
europea è in parte mutat,o anche se la loro posizione è stata in
generale incoerente, soprattutto perché la NATO è diventata il
pomo della discordia tra il Pentagono e il Dipartimento di Stato
da quando, all’inizio del 2001, l’amministrazione Bush si è insediata alla Casa Bianca. Il problema nasce dal fatto che questa
amministrazione non sa decidere se sostenere una politica di
difesa europea più incisiva e forte o, al contrario, una politica
debole. Dopo tutto, gli Stati Uniti hanno insistito affinché l’Europa, nella ripartizione degli oneri, si facesse carico di più compiti,
in particolare nei Balcani. Eppure, ancora di recente, quando l’UE
ha compiuto un grosso sforzo per subentrare alla missione condotta dalla NATO in Bosnia Erzegovina, il Pentagono si è tirato
indietro. Da un lato, il Dipartimento della Difesa intende mantenere il controllo politico sulla NATO. Dall’altro, optando per un
sistema di coalizioni di volontari, ha indebolito il significato
stesso della NATO in quanto organizzazione di difesa collettiva.
Questa posizione oscillante si è ripercossa sulla politica di
difesa dell’UE e, segnatamente, sulle modalità di cooperazione
futura tra Gran Bretagna e Francia. Per quanto riguarda la politica
di difesa europea, più gli Stati Uniti useranno la NATO in modo
puramente strumentale, più i membri dell’Alleanza saranno propensi a indirizzare le loro risorse verso l’UE. Attualmente, l’Unione
e l’Alleanza sono confrontate a una situazione curiosa: i paesi
membri di entrambe le organizzazioni sono invitati a contribuire
ad entrambe.
Sotto il profilo ideologico la Gran Bretagna continua a vedere
nella PESD un modo per migliorare le capacità militari dell’Europa: il che, logicamente, rafforzerebbe il legame transatlantico.
La Francia ritiene tuttavia che, a lungo termine, l’Europa debba e
possa avere la propria capacità di difesa indipendente.
L’operazione Artemis, condotta lo scorso anno dall’UE sotto
comando francese nella Repubblica democratica del Congo, ha in
effetti dimostrato che gli europei sono in grado di condurre
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missioni simili, rapidamente, e senza ricorrere a mezzi NATO. Gli
Stati Uniti erano tutt’altro che entusiasti all’idea di un’Unione che
agisce in maniera indipendente ma, d’altra parte, non intendevano in alcun modo intervenire nella RDC. Da questa operazione
è emerso che la ripartizione degli oneri è possibile e, data l’esperienza francese e britannica in Africa, gli Stati Uniti hanno
ammesso che la presenza NATO in quella particolare regione africana non era veramente giustificata.
Dopo l’operazione nella RDC, Londra e Parigi hanno cooperato più intensamente sulla difesa europea. Il concetto elaborato
più di recente è quello dei ‘gruppi tattici’, consistenti in piccole
unità da combattimento estremamente mobili e flessibili, che
possono essere schierate nell’arco di pochi giorni e addestrate a
compiere missioni speciali. Alcuni Stati membri dell’UE si sono
detti pronti a partecipare a questi ‘gruppi tattici’, i quali opererebbero con mandato ONU.
Il concetto di ‘gruppi tattici’ mostra a che punto Londra e
Parigi si siano allontanate dall’idea di una forza di 60.000 uomini,
onerosa da inquadrare, a cui l’UE aveva attribuito tanta importanza nel 2001-02. Quest’idea è stata discretamente abbandonata
dal momento in cui Javier Solana, influenzato dal nuovo pensiero
emergente a Londra e Parigi, si è concentrato su unità e capacità
più ridotte. In particolare la Gran Bretagna, quasi in un ritorno
allo spirito di Saint-Malo, ha convenuto al vertice UE del dicembre
scorso che l’Unione dovrebbe avere la propria unità di pianificazione indipendente. Washington è stata – per usare un eufemismo
– piuttosto sorpresa dalla decisione di Blair.
Dopo cinque anni di PESD, dunque, l’Europa considera con un
occhio critico i progressi compiuti e le sfide future. In primo
luogo, oggi è d’accordo sul fatto che la difesa dell’UE avrà un successo e un’influenza limitati se le forze armate europee non
saranno ristrutturate. Gli europei, all’interno sia dell’UE sia della
NATO, convengono che l’Unione e l’Alleanza hanno solo una
limitata capacità di agire fuori d’Europa. Se davvero si intende
aderire alla dottrina Solana, allora è venuto il momento di spiegare
ai cittadini che l’UE deve avere mezzi e capacità per intervenire – ad
esempio nel Darfur, in Sudan, ove centinaia di migliaia di persone
hanno perso la loro casa e sono vittime della violenza etnica e delle
lotte di potere per il petrolio.
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In secondo luogo, la realizzazione concreta continua ad essere
un punto debole dell’UE. Uno degli aspetti della PESD consiste
nel provvedere alla sicurezza, come indica il nome stesso di questa
politica. In questo settore l’UE ha avviato, un anno fa in Bosnia, la
sua prima missione di questo tipo allo scopo di formare le forze di
polizia di quel paese. Tuttavia, a tutt’oggi, solo il 75 % circa delle
forze di polizia impegnate è stato schierato: per di più, gli Stati
membri non si sono ancora accordati sul ruolo e il mandato degli
operatori di polizia. Una delle ragioni è che le forze di polizia europee dipendono in alcuni casi dal ministero dell’interno, in altri dal
ministero della difesa. Inoltre, alcune sono armate, altre no. Queste differenze rendono molto difficili il coordinamento e l’interoperabilità, e dimostrano altresì che l’UE deve disporre di un centro
di formazione di polizia più articolato e specializzato se intende
occuparsi, dopo una guerra o un conflitto, della costruzione di
istituzioni.
Ciò mi conduce all’altro punto che desideravo sollevare: l’UE è
pronta a criticare gli Stati Uniti per gli insuccessi nella costruzione
di istituzioni, ma nei periodi post-conflitto neppure il suo operato
è stato poi così eccellente. Senza dubbio, il processo di allargamento dell’UE ai paesi dell’Europa centrale e orientale costituisce
un immenso successo da questo punto di vista, attribuibile a questi stessi paesi con l’aiuto dell’UE. È pur vero che questi paesi emergevano da mezzo secolo di regimi monopartitici, con società civili
e istituzioni indipendenti deboli: ma, a differenza dei Balcani, non
uscivano da una guerra. La PESC e la PESD hanno dato prova di
estrema lentezza nell’affrontare l’aspetto della costruzione di istituzioni, per la quale il bilancio PESC è senz’altro troppo esiguo. Se
nei Balcani l’UE ha giustamente privilegiato, dopo la guerra, la
ricostruzione delle infrastrutture (infatti, sono ben visibili e fanno
una buona pubblicità al donatore), ciò non può sostituirsi alla
costruzione delle istituzioni, come dimostrato non solo dai Balcani ma anche dall’Afghanistan.
Ecco perché la strategia Solana in materia di sicurezza è davvero molto importante. Intervenire in un conflitto, come suggerito dalla strategia, è senz’altro lodevole, ma se l’UE non è poi
pronta a restare nella regione e a mantenere la rotta nella costruzione di una polizia e di una magistratura imparziali, la filosofia
della prevenzione dei conflitti e della gestione delle crisi è desti-
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nata all’insuccesso. E gli sforzi che l’UE avrà compiuto per creare
un precedente con la combinazione di strumenti hard e soft, ossia la
difesa e la diplomazia, risulteranno vani.
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PESD: i primi
cinque anni
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La politica in materia di sicurezza e di difesa arricchisce l’Unione
europea di nuovi obiettivi, sebbene la definizione delle basi concettuali e degli strumenti operativi sia lungi dall’essere completata. Il
processo continua all’ombra di due gravi crisi, in Afghanistan e in
Iraq, che, malgrado la loro distanza dai confini dell’Europa, preannunciano nuove minacce. Nel contempo, i sondaggi di opinione in
tutti i paesi europei confermano che questo è il banco di prova per
dare una nuova legittimità all’Unione europea e per formare un
consenso tra i suoi cittadini sui suoi obiettivi e le sue ambizioni.
Gli sviluppi internazionali hanno già permesso di ridurre notevolmente i notevoli divari che esistevano una volta all’interno dell’Unione fra posizioni e culture politiche, fra paesi nucleari e paesi
non nucleari, fra paesi neutrali e membri di un’alleanza militare, e
fra paesi con un esercito di leva e quelli con un esercito professionale. La convergenza tra le due maggiori potenze, Francia e Regno
Unito, ha impresso nuovo slancio al cambiamento già in atto fin
dal trattato di Amsterdam, cambiamento che faceva presagire un
punto di arrivo quasi inevitabile: l’integrazione dei meccanismi di
difesa contro le nuove minacce, in contrasto con le evidenti limitazioni e la crescente inadeguatezza di soluzioni puramente nazionali.
La valutazione dei progressi finora compiuti riguarda vari
aspetti dell’azione comune per la difesa di valori condivisi, incentrata sul primato della democrazia e sull’economia di mercato. La
Costituzione europea non è la meta del viaggio, ma rappresenta
indubbiamente un’importante fase intermedia, la conclusione di
un lungo sforzo che ha consentito di ridurre le differenze tra posizioni fondamentalmente divergenti. Tenuto conto delle differenze che permangono nelle concezioni dei singoli Stati membri e
nei mezzi a loro disposizione, è essenziale - nel settore della sicurezza e della difesa - migliorare la capacità decisionale dell’Unione
europea (il modo in cui opera il Consiglio), la sua credibilità (l’Agenzia europea per la difesa) e la sua flessibilità (cooperazione
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rafforzata), tramite soluzioni istituzionali rimaste finora incomplete, in particolare nel recente trattato di Nizza.
Valutando l’intero processo, emergono gli aspetti di natura
istituzionale e la volontà politica degli Stati membri di fare un
salto qualitativo mettendo in comune prerogative di sovranità
considerate, più di tutte le altre, di pertinenza esclusiva dello Stato
nazionale. A mio parere, tuttavia, due fattori essenziali saranno
determinanti per il successo o il fallimento di questo elemento
chiave del processo di integrazione: la coesione all’interno dell’Unione e la solidarietà transatlantica.
La difesa europea è progredita in un contesto di minacce (terrorismo, proliferazione delle armi di distruzione di massa, disgregazione degli Stati multietnici) nuovo rispetto al periodo della
Guerra Fredda, quando la sicurezza era essenzialmente basata
sulla tradizionale salvaguardia della sovranità e dei confini nazionali degli Stati membri.
Il terrorismo, che pure alcuni paesi europei hanno conosciuto
e combattuto quale fenomeno puramente nazionale, ha acquisito
una dimensione globale e un sostegno popolare in non poche
parti del mondo, ed è ora capace di perpetrare uccisioni di massa,
dispone di molte risorse, e ha una sua chiara visione politica.
Anche quando il terrorismo rimane nell’ambito dei confini geografici e politici consueti, è inutile chiedersi per chi suona la campana – suona per tutti noi. Il terrorismo minaccia le società aperte,
come quelle dell’Europa, che per di più hanno creato vaste aree per
la libera circolazione delle persone e delle merci. L’Unione ha
meno possibilità di altri paesi, certamente meno degli Stati Uniti,
di chiudersi in se stessa e di ridurre l’esposizione a rischi i cui centri nevralgici si trovano appena oltre i suoi confini, in un concatenarsi di crisi che si estendono dal Golfo sino alle propaggini occidentali del Mediterraneo.
La guerra dell’11 settembre 2001 e dell’11 marzo 2004 è contemporaneamente antioccidentale e interislamica. L’intenzione
non è solo quella di infliggere un colpo al modello democratico,
ma anche di spezzarne i legami con una parte del mondo arabo.
Tra gli obiettivi figurano la proliferazione nucleare e il controllo
delle risorse petrolifere. L’Islam, una religione originaria del
deserto alimentata da tempeste e miraggi improvvisi, è utilizzata
come fulcro.
Più vicino a noi, nei Balcani, esiste una combinazione di combattenti indipendentisti fanatici e di criminali incalliti. E se segui218
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tassimo a dividere ancora una volta gli Stati, tutte le regioni
potrebbero essere ridisegnate - l’ex Repubblica jugoslava di Macedonia, per esempio, dove i differenti gruppi etnici convivono in
modo precario, o la Bosnia, una federazione dotata di poca
coesione - con scambi di territori come avvenuto nelle guerre balcaniche all’inizio del XX secolo. L’assenza di una prospettiva
chiara e percorribile - che può essere solo l’integrazione regionale,
l’ancoraggio all’Unione europea, e l’europeizzazione dei Balcani riaprirebbe la strada ai nazionalismi antagonisti e ostili alla
NATO, che vorrebbero infatti costringerla a ritirarsi.
L’Unione europea è in grado di difendersi, se necessario con la
guerra, nel caso estremo con una guerra preventiva. Questa strategia deve guidare la ristrutturazione delle forze militari e delle decisioni concernenti il personale e le armi necessari. Ma non esiste
alcuna giustificazione alla teorizzazione sistematica della guerra
preventiva e del suo corollario, l’esportazione della democrazia
con la forza. Anche in caso di ricorso a mezzi militari, non possiamo ignorare i criteri ricordati recentemente dal Cancelliere
Schröder: proporzionalità, legittimità e multilateralismo.
L’Unione europea e i singoli Stati membri non possono trovare
una soluzione alle nuove minacce in accordi di pace distinti. Né
una memoria estremamente viva delle guerre, della repulsione per
una tradizione imperiale che ha seminato tanto lutto e oppressione può giustificare una mancata accettazione di responsabilità
del proprio ruolo. Consolidare le radici della democrazia è la
migliore garanzia di sicurezza. Il tentativo andrebbe fatto anche se
la pianta dovrà crescere in terreni molto diversi, in società che
vedono nel Corano la fonte del diritto, considerano i suoi sacerdoti alla stregua di giudici, e non si sviluppano secondo i principi
dell’economia di mercato. Sarebbe però irrazionale pensare che
basti imporre un’occupazione straniera per far uscire dalle urne
una democrazia rappresentativa.
Il problema alla base del mondo musulmano è la modernità,
che né il socialismo dei colonnelli di Nasser, né il riformismo autoritario dello Scià di Persia, né la ricchezza degli sceicchi dell’Arabia
saudita sono riusciti a risolvere. Creare le condizioni di uno sviluppo autonomo della democrazia richiede la rinascita di un multilateralismo in grado di riconciliare la supremazia innegabile dell’America con la riaffermazione di un ruolo efficace e
indipendente per l’Europa.
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Non sarebbe politicamente vantaggioso per la sicurezza europea smantellare la rete di patti, protocolli e accordi che hanno progressivamente permesso di trasferire nell’ambito sovranazionale
poteri e responsabilità che gli Stati membri hanno riconosciuto di
non poter più esercitare efficacemente a livello nazionale. Il tessuto creato in questo modo, sebbene ancora fragile, è tuttavia in
grado di stabilire le regole di un futuro ordine mondiale. Una
parte consiste nell’attività costituente dell’Unione europea, che
influenzerà necessariamente gli equilibri internazionali.
Senza una Costituzione, l’Europa non diventerà mai un attore
politico a livello globale. Resterà un insieme confuso di paesi differenti per ricchezza, dimensioni e immagine. Per contro, la Costituzione è una risposta alle limitazioni della sovranità nazionale ed
esprime le esigenze di un mondo che è profondamente cambiato.
La nuova Costituzione permetterà all’Unione di agire nel settore
della sicurezza e della difesa, in un quadro istituzionale unitario, e
consentirà ai paesi che lo desiderano di intervenire immediatamente - tramite la cooperazione strutturata, che invece il trattato
di Nizza vieta in modo esplicito.
Soprattutto dopo i tragici eventi dell’11 marzo 2004 a Madrid,
i paesi europei sono riusciti a mobilitare il loro impegno comune
nella lotta contro il terrorismo, tramite la ricerca dei canali di
finanziamento, lo scambio di intelligence e una sorveglianza più
efficace che, senza sacrificare le libertà individuali, si basa su un’unica strategia politica e militare comprendente tutti i paesi a
rischio. Con recriminazioni reciproche o accuse di disertare la
causa rivolte a singoli paesi non si otterrà nulla, ma ciò non accadrà se gli europei riusciranno a dare nuova legittimità alla loro
azione comune.
Questo è allora il secondo requisito della sicurezza europea:
l’Unione e gli Stati Uniti non devono allontanarsi, ma avvicinarsi,
per combattere il nemico comune in un quadro di legittimità
internazionale. Da parte europea, non più controversie interne
miopi e limitate; da parte americana, un ritorno progressivo, già in
atto, a relazioni più strette con l’Unione e la rinuncia a posizioni
estremistiche di un’ideologia conservatrice in favore di un pragmatismo più conforme alla tradizione del paese. Ciò per due
motivi: in primo luogo, il rischio dell’isolamento internazionale,
che alla fine avrà ripercussioni negative; in secondo luogo, il costo
in termini di vite umane e di risorse finanziarie derivante da occupazioni di durata indefinita. In uno scenario segnato dalla
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rinascita del ruolo delle Nazioni Unite, insieme all’Unione europea, c’è un’alternativa all’abisso che si apre dinanzi ai due partner
occidentali: la strada della legittimità internazionale in luogo di
costituzioni imposte.
La chiave della sicurezza europea è pertanto l’abbandono delle
‘coalizioni di volontari’ e il ritorno al primato delle istituzioni,
condizione per la vittoria contro un nemico comune e per la crescita della democrazia, soprattutto nel mondo arabo e musulmano. Lasciamo che l’America e l’Europa inizino a ragionare di
nuovo insieme, e la sconfitta strategica del terrorismo sarà
segnata. È l’Occidente che deve innanzi tutto ripristinare la sua
natura, riscoprire il potere combinato della forza e della ragione,
senza nulla togliere al ruolo preponderante dell’unica superpotenza rimasta – in una strategia senza recriminazioni sul passato o
dubbi sul futuro.
In assenza di un tale cambiamento di rotta, se la volontà e l’intelligenza politica dell’Occidente non riusciranno a superare il primato degli egoismi nazionali, nessun ordine istituzionale - né tantomeno la nuova Costituzione dell’Unione europea - potranno
portare pace e stabilità, o rimuovere gli unilateralismi arroganti
che ci impediscono di convergere verso una strategia lucida e condivisa.
L’Iraq ha dimostrato che il potere di agire non coincide necessariamente con la forza di persuasione, e che i costi dell’unilateralismo derivano dall’impossibilità di raggiungere un consenso. Gli
Stati Uniti devono sostenere il rafforzamento militare dell’UE, e
l’Europa deve riconoscere la sterilità di un’opposizione innaturale. Da parte sua, l’Alleanza deve essere in grado di intervenire con
una vasta gamma di azioni militari, e deve diventare la sede di elaborazione di una strategia comune. Tutto sommato, il divario tra
il documento dell’amministrazione americana (strategia nazionale di sicurezza) del settembre 2002 e quello approvato dal Consiglio europeo nel mese di dicembre (strategia europea in materia
di sicurezza) non è impossibile da colmare. Al pari dell’Unione,
l’Alleanza dovrebbe forse aumentare la sua flessibilità mediante
strumenti quali l’astensione, la clausola di non partecipazionel e
persino coalizioni specifiche, ma sempre in scenari che si collochino all’interno del suo quadro istituzionale.
La democrazia deve difendere i suoi valori con tutti i mezzi a
disposizione, compreso quello più estremo (e intrinsecamente
contro natura) della guerra, qualora non ne esistano altri. Deve
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però difendere se stessa preservando il suo carattere, e non deve
rinunciare ai diritti e alla loro tutela, soprattutto ora che questi
sono parte integrante di una Costituzione europea. Siamo obbligati a garantire che i mezzi siano proporzionati ai fini, e i risultati
ai motivi dell’azione. Le nuove minacce sono dirette verso un
sistema di garanzie condivise, la vera religione secolare dell’Occidente, una cultura democratica unica; e l’Unione non può agire in
virtù di un mandato permanente conferito alla sovranità egemonica di un altro paese.
Per concludere, è necessario disporre di più Europa e di un
Occidente unito. Questa è l’unica strada che la sicurezza e la difesa
europee possono seguire nel nuovo secolo.
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cinque anni
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Fare un bilancio degli ultimi cinque anni dal punto di vista di un
industriale europeo del settore difesa significa innanzi tutto riconoscere, sul piano istituzionale, l’affermarsi dell’idea di politica
europea di sicurezza e di difesa. Ma significa anche valutare il cammino che resta da compiere per dotare l’Unione europea delle capacità necessarie a garantirle l’autonomia strategica. La ragion d’essere dell’industria di difesa sta nel fornire alle forze armate
nazionali, nel caso concreto quelle dei membri dell’Unione, i mezzi
materiali e tecnici necessari per garantire la libertà delle loro scelte
politiche, la tutela dei cittadini e dei loro interessi.
Risultati incontestabili
Poste di fronte alla duplice sfida rappresentata dai tagli ai bilanci
per la difesa (in seguito alla fine della guerra fredda) e dall’aumento
costante del costo dei nuovi sistemi, le industrie europee di difesa
hanno da tempo scommesso sull’Europa. I dirigenti, consapevoli
delle loro responsabilità per la difesa e la sicurezza dei loro paesi, e
convinti che sia inconcepibile un’Europa della difesa priva di una
solida base industriale e tecnologica, hanno deciso di lavorare
insieme. È quanto avviene in particolare nel settore dell’aeronautica e dei missili, dell’industria spaziale e delle tecnologie dell’informazione. Le misure dirette a coordinare lo sforzo di difesa degli
Stati membri dell’Unione sono quindi particolarmente benvenute.
Il vertice franco-britannico tenuto a Saint-Malo nel 1998 e il
Consiglio europeo di Colonia del 1999 hanno dato il via all’Europa della difesa e l’hanno proiettata al centro del dibattito politico europeo. Questa evoluzione positiva risponde alle intime
aspettative dei popoli europei, preoccupati delle minacce alla pace
e alla sicurezza nel mondo, ma al tempo stesso desiderosi che l’UE
assuma un ruolo più attivo in campo internazionale. Per convincersene, basta vedere i risultati dei recenti sondaggi, di Eurobaro223
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metro o di quello svolto dall’IPSOS per conto dell’EADS presso le
cinque principali potenze militari europee: da quest’ultimo test
risulta che il 78% degli interrogati ritiene che l’Europa debba
essere in grado di agire autonomamente, senza il sostegno degli
Stati Uniti.
Le decisioni prese in occasione dei Consigli europei di Colonia
e di Helsinki, e delle successive conferenze intergovernative,
hanno senz’altro contribuito a gettare luce sul futuro, individuando le capacità militari necessarie per permettere all’Unione di
partecipare alla gestione delle crisi che possono minare la sua sicurezza o compromettere i suoi interessi - posto comunque che la
difesa comune contro un rischio serio spetta pur sempre, per
coloro che ne sono membri, all’Alleanza atlantica a titolo dell’articolo 5 del trattato che la istituisce. Infine, con l’adozione nel
dicembre 2003 della Strategia europea in materia di sicurezza proposta da Solana, Alto rappresentante per la politica estera e di sicurezza comune (PESC), è stata definita una piattaforma politica
comune.
La politica europea in materia di sicurezza e di difesa (PESD) è
praticamente operativa, anche se non dispone ancora di tutte le
capacità che ritiene necessarie. L’UE ha così compiuto le sue prime
missioni militari nell’ex Repubblica jugoslava di Macedonia e
nella Repubblica democratica del Congo. A livello di programmi,
il recente lancio dell’aereo da trasporto strategico A400M, della
cui decisione è bene sottolineare il significato, potrebbe far supporre che lo sviluppo delle strutture indispensabili alla costituzione della base industriale e tecnologica comune proceda di pari
passo. Non si può tuttavia non constatare il persistere della sfasatura creatasi tra il quadro istituzionale e le industrie di difesa che
hanno deciso di raggrupparsi in una prospettiva europea.
Il fatto che siano state designate alcune nazioni ‘pilota’ per sviluppare nuovi sistemi - iniziativa adottata all’interno del processo
di acquisizione delle capacità - è una prima forma di ripartizione
dei compiti e, non essendo stati definiti dei programmi europei
basati su specifiche operative comuni, prelude ad un’armonizzazione degli sforzi per evitare sovrapposizioni inutili. Ma, per
quanto positiva, questa iniziativa non è all’altezza delle intenzioni
dichiarate.
Gli industriali europei degli armamenti - in particolare quelli
dell’industria aeronautica e spaziale, dei missili e delle tecnologie
dell’informazione - hanno consuetudini cooperative che risal224
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gono a una quarantina di anni fa. È quindi abbastanza naturale
che alcuni di essi abbiano iniziato negli anni ’90 ad effettuare in un
contesto europeo le ristrutturazioni imposte dai tagli ai bilanci
per la difesa. Questa nuova realtà li ha indotti a modificare profondamente i loro rapporti di cooperazione, dando vita a società
comuni che non fossero semplici società di programma. Era del
resto una strada obbligata, dato che le industrie americane erano
confluite nei cinque giganti. Poiché l’industria degli armamenti è
esposta e sottoposta al potere politico più di qualsiasi altra attività, l’operazione non poteva avvenire senza il coinvolgimento
degli Stati. Ecco quindi che nel luglio 1998 Germania, Spagna,
Francia, Italia, Regno Unito e la Svezia hanno convenuto - attraverso il cosiddetto accordo LoI (Lettera di Intenti), lanciato dagli
industriali - di agevolare i loro scambi nel settore degli armamenti.
Benché sia evidente che tale accordo, oggetto del trattato di Farnborough nel luglio 2000, rappresenta un passo importante verso il
consolidamento delle industrie europee di difesa - le imprese di
questi paesi rappresentano il 90% delle capacità europee del settore - pur tuttavia esso non è sufficiente, di per sé, a creare le condizioni necessarie alla realizzazione di una vera e propria industria
europea di difesa.
Un cammino è ancora lungo
È giunto quindi il momento di inserire questo grande progetto nel
quadro strutturale dell’Unione europea, con l’ambizione di sviluppare una base industriale e tecnologica comune. La decisione del
Consiglio europeo del novembre 2003, confermando la decisione
di Salonicco e istituendo, senza attendere l’adozione di una Costituzione, l’Agenzia per gli armamenti, la ricerca e le capacità, è pertanto particolarmente opportuna. Ma non tutti gli Stati membri
hanno la stessa visione, anche se si spera che i governi trovino un’intesa su un progetto concreto e ambizioso, che vada ben oltre l’ideazione di un nuovo organismo che non farebbe che accrescere la
complessità delle strutture esistenti. Questa agenzia dovrebbe
essere in grado, a termine, di riprendere nel settore degli armamenti
- compreso quello della ricerca - le competenze attribuite al Gruppo
per gli armamenti dell’Europa occidentale (GAEO), all’Organismo
congiunto per la cooperazione in materia di armamenti (OCCAR),
e alla LoI. È lecito supporre che il trasferimento del GAEO presso
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l’Agenzia, quindi presso l’Unione europea, gli conferirebbe maggior peso politico e gli permetterebbe di beneficiare di finanziamenti pluriennali, il che è sempre una garanzia di efficienza
quando si tratta di ricerca. Ma non sarà probabilmente possibile
operare una riorganizzazione così profonda prima che siano trascorsi molti anni, in parte a causa degli statuti di queste diverse
organizzazioni - l’OCCAR e la LoI, ad esempio, sono materia di
trattati internazionali - ma anche perché esse potrebbero prestarsi
a cooperazioni rafforzate, qualora si rivelasse necessario.
Quanto agli armamenti - termine da considerare nella sua accezione più ampia - si dovrebbe dare precedenza alle attività di
‘Ricerca e Tecnologia di Difesa’ (R&T), per evitare che il divario fra
gli investimenti dell’Europa e quelli degli Stati Uniti, il cui rapporto è attualmente di 1 a 5, non porti ad uno stato di dipendenza
difficilmente accettabile. Non potendo aumentare le risorse
finanziare in maniera significativa, bisognerebbe poter cumulare
senza attendere oltre gli sforzi degli Stati membri più di quanto
non avvenga oggi presso il GAEO, con la volontà di intensificare la
cooperazione con la Commissione europea. Quest’ultima infatti,
che è già responsabile del programma quadro di ricerca e sviluppo,
registra un rapido incremento delle sue attività nel settore della
sicurezza dovuto alla crescita del pericolo del terrorismo.
Sarebbe opportuno sostenere gli sforzi di R&T attraverso iniziative esplorative o dimostrative aperte al maggior numero di
partner, con la volontà di offrire prospettive di cooperazione ai
paesi più piccoli. Il lavoro in comune, molto a monte, favorisce
infatti una dinamica che permette di sfruttare tutte le competenze
esistenti in seno all’UE e di operare scelte condivise. Inoltre, procedere in questo modo potrebbe stimolare l’emergere nell’Unione di
poli di eccellenza, che messi in rete costituirebbero linfa per le
nostre industrie.
Quanto alle industrie di difesa, i consolidamenti sono lungi
dall’essere compiuti. È il caso in particolare dei sistemi terrestri e
navali, per i quali è più che necessario effettuare rapidamente raggruppamenti in un quadro europeo.
Più in generale, il successo delle operazioni di consolidamento
fra società transeuropee in grado di rispondere alle esigenze degli
Stati membri presuppone che siano soddisfatte alcune condizioni, tra le quali citeremo :
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a) la garanzia di approvvigionamento per gli Stati membri;
b) la creazione di un opportuno quadro giuridico per il trasferimento di tecnologia e di materiali nell’UE;
c) la libertà di esportare nel rispetto del codice di condotta dell’UE del 1998 e nello spirito degli accordi Debré-Schmidt;
d) la definizione di procedure di concertazione per evitare che
all’Unione sfuggano certe capacità industriali risultanti da
consolidamenti o razionalizzazioni effettuati in un’ottica
europea;
e) l’accettazione di società uniche che raggruppino le capacità
industriali nei settori in cui il mercato europeo è troppo
ristretto;
f) la necessità, nell’aggiudicazione degli appalti, di considerare
le società transeuropee sullo stesso piano delle società che
hanno conservato un’identità nazionale ;
g) l’adozione di procedure vincolanti che dissuadano gli Stati
partecipanti dall’escludersi unilateralmente da programmi
svolti in cooperazione oltre una determinata fase di avanzamento.
Si noti che il principio delle prime tre condizioni è stato accolto
dalla LoI ma che, a sei anni dalla sua adozione, i provvedimenti
amministrativi per disciplinare gli scambi interni (anche in uno
stesso gruppo industriale europeo) devono ancora essere armonizzati.
Ovviamente, è auspicabile che si crei un grande mercato europeo degli armamenti. Tuttavia, non sarebbe realistico aspettarsi
delle misure che impongono una preferenza europea. Se gli Stati
non saranno più allo stesso tempo giudici e parti in determinate
attività, sarà più semplice sbloccare i mercati europei della difesa.
Da questo punto di vista, bisogna dare atto di apertura al Regno
Unito, che per i suoi programmi nazionali riguardanti i materiali
sta applicando sistematicamente la competizione: ad esempio,
l’EADS è stata scelta per il contratto Skynet 5, che procurerà al
ministero della difesa britannico delle prestazioni di servizi per le
sue telecomunicazioni spaziali sicure, come pure, nel caso del consorzio Air Tanker, per il rifornimento in volo della Royal Air Force.
Analogamente, Thalès parteciperà presso BAe Systems alla costruzione delle due portaerei britanniche.
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L’aspirazione legittima di creare un’industria europea di difesa
vera e propria in grado di sostenere la PESD non porterà all’edificazione di una ‘fortezza Europa’, come si sostiene troppo spesso
oltre Atlantico. Anzi, la costituzione di grandi gruppi europei farà
si’ che essi siano in condizioni di cooperare meglio con i loro omologhi americani, soprattutto nei settori per i quali non è più possibile mantenere una sana concorrenza su basi nazionali. Il mercato
europeo degli armamenti è molto più accessibile di quanto non sia
il mercato americano: l’apertura di quest’ultimo consentirebbe di
creare gradualmente i presupposti per una vera e propria cooperazione transatlantica, agevolando al tempo stesso le condizioni di
interoperabilità delle forze.
È indubbio che l’affermarsi dell’idea di difesa incide sul dibattito politico nell’Unione europea. In seguito ai lavori sulla difesa
svolti dalla Convenzione (che facevano capo a Michel Barnier,
all’epoca Commissario europeo) sembrano ora sussistere i presupposti per prendere misure concrete, sul piano delle istituzioni
come dei programmi. Ciò che conta è che l’Agenzia per la difesa
abbia un potere reale, e che si approfitti della sua creazione per
razionalizzare e snellire le organizzazioni esistenti. Per l’avvenire,
occorre che l’Agenzia abbia un sostegno politico forte e le risorse
necessarie per affermare rapidamente la sua autorità sulle attività
di R&T e creare le condizioni propizie alla realizzazione di un mercato europeo degli armamenti competitivo e capace di far fronte
alle esigenze delle forze armate dell’Unione.
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Quali sono stati i progressi realizzati dall’avvio della politica europea di sicurezza e di difesa, cinque anni fa? Dal punto di vista degli
Stati Uniti, il riconoscimento della necessità che l’Europa migliori
le proprie capacità militari, anche se sviluppate in modo indipendente dalla NATO, è stato accolto con favore, ma i progressi verso
lo sviluppo di tali capacità sono stati decisamente lenti. Nel corso
degli ultimi cinque anni leader e funzionari europei hanno dedicato moltissimo tempo ed enormi energie allo sviluppo di istituzioni ed orientamenti per la difesa europea e per il coordinamento
di tali sforzi con le organizzazioni nazionali ed multinazionali.
Data la grande diversità nelle capacità e nelle tradizioni in materia
di difesa dei 25 membri dell’UE, è probabilmente inevitabile attribuire grande importanza allo sviluppo istituzionale, specialmente
nelle fasi iniziali del progetto. Tuttavia, ciò ha anche fatto sì che gli
Stati Uniti percepissero la PESD come una politica focalizzata
sinora più sull’organizzazione di un processo che sul conseguimento di risultati.
Molti americani sono legittimamente insoddisfatti per lo squilibrio tra l’attenzione riservata dall’UE alle istituzioni, e quella
riservata allo sviluppo di capacità. Temono inoltre che la PESD
duplichi inutilmente gli sforzi della NATO e complichi il processo
decisionale senza apportare un reale valore aggiunto sul piano
militare. Alcuni sono restii ad incoraggiare la creazione di una
potenza militare, e pertanto politica, capace in teoria di rivaleggiare con gli Stati Uniti. In ultima analisi, tuttavia, gli Stati Uniti
sono fortemente interessati ad una PESD più efficace. Considerata l’entità delle forze armate statunitensi attualmente impegnate in Iraq, gli USA sono infatti più che mai favorevoli a capacità
di difesa dell’UE più efficaci e potenzialmente autonome. L’autonomia di difesa dell’UE comporta dei rischi, ma nulla che non
possa essere gestito con un minimo di buona volontà e pragmatismo da entrambe le parti (qualità che negli ultimi anni hanno
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fatto difetto, ammettiamolo). Di fronte alle attuali grandi sfide
militari e strategiche su scala mondiale, nonché agli interessi che
l’UE e gli Stati Uniti continuano ad avere in comune, Washington
dovrebbe tuttavia preoccuparsi molto più per la debolezza militare dell’UE che per la sua forza potenziale.
I primi cinque anni di PESD, naturalmente, non hanno coinciso solo come processo. Durante questo periodo l’UE ha infatti
intrapreso le prime operazioni concrete: missioni di polizia nell’ex
Repubblica jugoslava di Macedonia e in Bosnia; una missione
militare appoggiata dalla NATO nell’ex Repubblica jugoslava di
Macedonia; e un’operazione militare autonoma nella Repubblica
democratica del Congo.
Si è trattato in ogni caso di missioni su scala ridotta, facilmente
realizzabili anche senza il coinvolgimento dell’UE, con una ‘coalizione di volontari’ all’interno della NATO, o sotto la direzione di
una ‘nazione guida’ dell’UE. L’operazione in Congo è stata in
realtà una missione francese appoggiata da alcuni paesi europei,
cui è stata attribuita una portata europea. Queste missioni nei Balcani e in Africa sono comunque state utili indicatori del tipo di
contributo che l’UE potrebbe fornire qualora continui a sviluppare la volontà e la capacità di agire sul piano militare. Il ruolo
svolto dall’UE nell’ex Repubblica jugoslava di Macedonia e in
Congo è stato un simbolo importante degli interessi dell’Unione
in campo umanitario e per la sicurezza comune. Entrambe le missioni hanno inoltre consentito di trarre lezioni proficue sulle esigenze dell’UE dal punto di vista istituzionale e militare in vista di
missioni analoghe in futuro. Alla fine del 2004 l’UE subentrerà
alla NATO nell’operazione di mantenimento della pace attualmente in corso in Bosnia. Anche questa missione contribuirà a
dimostrare che l’UE è in grado di agire, e può farlo a fianco della
missione NATO in Kosovo senza creare rivalità o confusioni a
livello di autorità politica o comando militare. L’UE non è certo
ancora pronta ad effettuare schieramenti militari di vasta entità
senza un consistente sostegno logistico, di pianificazione e di intelligence da parte della NATO o degli Stati Uniti - ma ha cominciato
a muovere i primi passi in questa direzione.
Nel corso degli ultimi cinque anni l’UE ha fatto progressi anche
riguardo allo sviluppo delle capacità militari, per quanto la strada
da percorrere sia ancora lunga. L’attenzione politica dedicata allo
sviluppo di capacità è già di sé significativa, anche se non si è
ancora tradotta in un aumento delle risorse destinate alla forza
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militare europea, ad eccezione di rari casi come quello della Francia. Le riforme nel settore della difesa nazionale, talvolta ispirate al
riesame della difesa strategica effettuato dal Regno Unito alla fine
degli anni ’90 (British Strategic Defence Review), stanno facendo
passi avanti. La Francia ha già proceduto alla professionalizzazione delle sue forze armate, e l’Italia e la Spagna si stanno muovendo nella stessa direzione. La Germania ha proceduto ad un profondo riesame del suo sistema di difesa nel 2003, e prevede
attualmente di dotarsi entro la fine del decennio di una forza di
intervento di 35.000 uomini, cui si aggiungerà una forza di 70.000
uomini per le operazioni di mantenimento della pace.
I membri dell’UE si sono impegnati collettivamente a sviluppare una forza europea di reazione rapida che li avrebbe resi capaci
di schierare 60.000 uomini in 60 giorni e di sostenere tale spiegamento per un massimo di un anno. Tale forza, pur non essendo
ancora in grado di realizzare tutti gli obiettivi che si prefigge, è
stata dichiarata operativa nel maggio 2003. I membri europei della
NATO hanno a loro volta assunto importanti impegni volti a sviluppare entro il 2006 una forza di risposta della NATO (NRF) di
circa 21.000 uomini, schierabile in tempi che vanno da una a tre
settimane, e in grado di sostenersi autonomamente per 30 giorni.
La creazione dell’NRF avrebbe dovuto incitare gli europei ad
ampliare le loro capacità militari e a dimostrare che, pur perseguendo lo sviluppo della PESD, continuano a credere nella NATO
in quanto organizzazione militare. Apparentemente, il piano funziona. Persino la Francia, che nel 1966 era uscita dalla struttura di
comando militare integrata della NATO, si è impegnata a fornire
all’NRF 1.700 uomini, e alti ufficiali francesi occuperanno posizioni di comando nella struttura della nuova forza. Va inoltre
detto che non tutti i piani di schieramento europei sono rimasti
puramente teorici, e che il numero di uomini effettivamente schierati all’estero è in aumento. Il Regno Unito, la Francia e la Germania hanno attualmente più di 10.000 dei loro soldati schierati all’estero e gli Stati membri dell’UE hanno schierato complessivamente oltre 60.000 uomini al di là delle frontiere europee.
Si stanno dunque compiendo dei progressi, ma molto resta
ancora da fare. Benché gli impegni a sviluppare le capacità militari
siano ammirevoli e costantemente presenti nei discorsi ufficiali,
quasi tutti i bilanci europei per la difesa sono in fase di stagnazione
o in diminuzione, e le speranze di un’inversione di tendenza in
tempi brevi sono minime. La questione principale non riguarda
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comunque né le spese della difesa per l’acquisizione di costose
capacità militari, né il numero complessivo di uomini, quanto
piuttosto la schierabilità effettiva anche per operazioni di stabilizzazione. I paesi dell’UE dispongono di forze di terra per un totale
di 1.200.000 uomini, dei quali però solo 80.000 schierabili all’estero. Questa situazione deve cambiare, se si vuole che la nozione
di autonomia militare dell’UE abbia realmente un senso. Quali
siano le carenze in termini di capacità non è un segreto: riguardano il trasporto aereo strategico e quello via mare, le munizioni
con guida di precisione e l’interoperabilità delle comunicazioni e
dell’intelligence. Alcune delle iniziative PESD - ad esempio il piano
d’azione europeo sulle capacità (PAEC), si sono rivelate utilissime
per individuare tali carenze: sono state invece meno efficaci nell’eliminarle.
Eppure sarebbe possibile realizzare grandi progressi anche
senza un aumento dei bilanci per la difesa, che si presenta politicamente difficile. I membri dell’UE nel loro complesso già spendono
annualmente oltre 200 miliardi di dollari per la difesa. Questa
cifra rappresenta all’incirca la metà di quanto spendono gli Stati
Uniti, ma è pur sempre una somma ragguardevole, senza considerare che gli impegni contratti dall’UE nel settore della difesa sono
di gran lunga inferiori a quelli degli Stati Uniti. Il fatto è che questi
fondi vengono spesi male, stanziando cifre sproporzionate per
forze armate permanenti gonfiate e obsolete. Michael O’Hanlon,
esperto di analisi della difesa presso la Brookings Institution,
ritiene che, se i membri dell’UE prendessero le giuste decisioni in
materia di organizzazione e approvvigionamento, potrebbero disporre in un prossimo futuro della capacità di schierare circa
200.000 uomini all’estero anche senza un aumento consistente
dei bilanci per la difesa. Ciò non costituirebbe soltanto un contributo rilevante alla sicurezza del mondo occidentale, ma rappresenterebbe anche una capacità che i dirigenti americani sarebbero
costretti a prendere sul serio.
Per quanto riguarda le istituzioni - che rappresentano un
aspetto necessario, anche se non sufficiente, della PESD - i progressi, seppure notevoli, non sono stati senza problemi. Tutte le
istituzioni la cui creazione è stata decisa dai vertici di Colonia e
Helsinki (il Comitato politico e di sicurezza, il Comitato militare e
lo Stato maggiore dell’UE), sono ora operative. Inoltre, alcuni
Stati membri hanno creato l’Organizzazione congiunta per la
cooperazione in materia di armamenti (OCCAR), e l’UE ha piani232
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ficato l’istituzione di un’agenzia per le capacità di difesa incaricata
di assicurare che gli Stati membri rispettino gli impegni assunti in
materia di spese e approvvigionamento militari. Queste nuove
istituzioni, tuttavia, non sono state ancora messe alla prova e,
come è forse inevitabile, sono ancora alle prese con la definizione
del loro ruolo. Non c’è dubbio che le modeste operazioni lanciate
finora non sono riuscite ancora a dimostrare che l’UE dispone
della volontà politica o della capacità di pianificare e condurre
un’operazione militare su vasta scala.
Uno degli aspetti più controversi è stato il desiderio, espresso
da alcuni paesi europei, di dotare l’UE di una capacità di pianificazione operativa autonoma. Nella primavera del 2003, durante la
crisi transatlantica sull’Iraq, un piano relativo alla creazione di
una capacità di questo tipo proposto da Francia e Germania scatenò la violenta reazione di Londra e Washington. La reazione dell’amministrazione Bush fu probabilmente eccessiva, ma l’irritazione suscitata dalla proposta franco-tedesca era comprensibile.
Dal punto di vista americano quella proposta violava il compromesso faticosamente raggiunto nel 1999, in base al quale l’UE conveniva di intraprendere operazioni militari autonome solo ‘ove la
NATO non sia impegnata nel suo complesso’ e di fare affidamento ‘sulla garanzia di accesso’ alle capacità di pianificazione
della NATO per evitare disaccordi politici e inutili duplicazioni di
risorse.
La situazione sarebbe stata diversa se gli europei avessero avuto
i mezzi logistici, militari e di intelligence (nonché la volontà politica) necessari per avviare nuove missioni militari, e fosse loro
mancata solo la capacità di pianificazione operativa: ma le cose
non stavano così. Del resto, non c’era da temere che gli Stati Uniti
rifiutassero la garanzia di accesso alla pianificazione della NATO
in caso di crisi, perché un tale rifiuto avrebbe certamente spinto
l’UE a dotarsi di istituzioni proprie. Inoltre la scelta della data di
presentazione della proposta, proprio nel bel mezzo della più
grave crisi transatlantica degli ultimi decenni, sembrava dettata
più dal desiderio di sfruttare l’irritazione degli europei nei confronti dell’America per fare avanzare il progetto di difesa europea
separata, che da una reale necessità. Nel dicembre 2003, dato che il
Regno Unito era ansioso di migliorare le relazioni con la Francia e
la Germania, le parti sono giunte ad un accordo di compromesso
sulla questione della pianificazione: l’UE avrebbe inviato alcuni
dei suoi responsabili della pianificazione operativa presso SHAPE,
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quartier generale della NATO, dotando al contempo di un’altra
piccola cellula di pianificazione lo stato maggiore dell’UE già in
funzione a Bruxelles. La capacità iniziale della nuova cellula
sarebbe stata estremamente limitata, ma per i fautori di una difesa
europea realmente autonoma si trattava perlomeno di un inizio.
Per riguardo al governo britannico, gli Stati Uniti non si sono
dichiarati pubblicamente contrari al piano, ma le preoccupazioni
da essi nutrite relativamente alla necessità di creare una cellula di
pianificazione dell’UE e alle conseguenze di tale misura sono
rimaste.
Lo sviluppo di una capacità di pianificazione operativa autonoma dell’UE rappresenta una minaccia più per le scarse risorse
che l’Europa consacra alla difesa che non per la NATO o per gli
Stati Uniti. Infatti qualora l’UE compisse dei reali progressi in termini di capacità militari (e nello sviluppo di una politica estera e di
difesa realmente comune), un’UE capace di pianificare le proprie
missioni potrebbe addirittura costituire un vantaggio per gli USA.
Contrariamente ai timori che nutrono alcuni americani, il problema che oggi pone la difesa europea non è tanto che gli europei
possano voler schierare la loro crescente potenza militare in forme
suscettibili di nuocere agli interessi americani, quanto che tale
potenza militare non sarebbe probabilmente sufficiente a difendere efficacemente gli interessi comuni degli Stati Uniti e dell’Europa. Le crisi scoppiate in varie regioni del mondo richiedevano un
urgente intervento esterno, e l’UE continua ad essere priva dei
mezzi per agire. I recenti interventi militari dell’Europa (se non
dell’UE) in Sierra Leone, Costa d’Avorio e Repubblica democratica
del Congo – ai quali gli Stati Uniti non erano assolutamente interessati a partecipare - hanno permesso di salvare un gran numero
di vite umane e di difendere gli interessi americani in una un’area
del mondo molto travagliata. Gli americani, che hanno già il loro
da fare in Iraq, Afghanistan e, potenzialmente, in altre regioni del
mondo, dovrebbero auspicare che vengano effettuate altre operazioni di questo tipo: e se le operazioni condotte sotto la bandiera
dell’UE invece che della NATO raccolgono sostegni più ampi in
Europa, andrebbero viste di buon occhio, piuttosto che condannate.
In conclusione, qualunque siano i rischi e le delusioni che ciò
può comportare, è nell’interesse degli Stati Uniti avere un partner
europeo più coeso e dotato di maggiori capacità.
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L’Europa ha oggi di fronte la sfida avvincente dell’unità e della
costruzione istituzionale. Questo progetto, nato più di mezzo
secolo fa per garantire la pace attraverso una cooperazione economica settoriale, è diventato oggi un’unione di diritto che comprende venticinque Stati e non smette di crescere numericamente e
per importanza politica, economica e sociale.
Gli obiettivi tradizionali previsti dai trattati, il mercato unico,
la coesione economica e sociale e l’unione economica e monetaria
lasciano ora il posto alle nuove priorità stabilite dall’agenda di
Lisbona e dal Consiglio europeo di Göteborg, quali lo sviluppo
sostenibile, la cittadinanza europea o la proiezione di un’immagine dell’Europa come ‘partner globale’, che mira a rafforzare l’influenza dell’Unione sulla scena politica ed economica mondiale,
quale fattore di stabilità, progresso e solidarietà.
L’Europa di oggi, che ha conosciuto successi notevoli quali l’introduzione dell’euro in dodici paesi o lo stesso trattato costituzionale, deve affrontare le nuove sfide del XXI secolo. Al riguardo, era
ed è dunque indispensabile concepire un’azione comune in materia di difesa che esprima la solidarietà tra gli Stati membri e unifichi la loro azione di fronte alle sfide poste dal mondo attuale. In
questo modo, l’Unione europea rafforza la sua dimensione
esterna, elemento essenziale di ogni modello di integrazione, e
proietta i valori della cittadinanza europea nel mondo contemporaneo.
La politica europea in materia di sicurezza e di difesa (PESD),
approvata dal Consiglio europeo di Colonia del giugno 1999,
mirava a rafforzare la politica estera e di sicurezza comune (PESC),
nel cui quadro si inseriva. Si trattava di dotare l’Unione europea
delle capacità necessarie e delle strutture appropriate per prevenire i conflitti e gestire le crisi nel quadro dei cosiddetti ‘compiti di
Petersberg’, nel loro triplice aspetto: le missioni umanitarie e di
soccorso, le attività di mantenimento della pace, e le missioni a cui
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partecipano unità di combattimento, ivi comprese forze di ristabilimento della pace. A tal fine l’Unione europea ha deciso di sviluppare una capacità autonoma che le consenta di dirigere tali operazioni, con truppe messe volontariamente a disposizione dagli
Stati membri.
Negli ultimi cinque anni, la PESD ha compiuto importanti
progressi. In effetti, si è dotata delle strutture politiche e militari
necessarie, ha sviluppato le proprie capacità e, dal 2003, ha realizzato le prime operazioni di gestione delle crisi, sia militari che
civili.
Sul piano istituzionale sono stati creati i primi organi di
gestione, fra cui il Segretario generale/Alto Rappresentante per la
PESC, nonché organi specifici della PESD fra cui figurano il
Comitato politico e di sicurezza (CPS), il Comitato militare, lo
Stato maggiore militare e il Comitato per gli aspetti civili della
gestione delle crisi (CIVCOM).
Dal dicembre 1999, il Consiglio europeo di Helsinki ha fissato
un obiettivo relativo alle capacità militari dell’Unione per il 2003.
Ha stabilito che gli Stati membri dovrebbero poter dispiegare,
entro un termine massimo di 60 giorni e per almeno un anno,
forze militari composte da 50-60.000 uomini per compiere operazioni dirette dall’Unione. In questo settore sono stati compiuti
notevoli progressi, anche se persistono lacune.
Parallelamente allo spiegamento di questo personale militare
per la gestione delle crisi e il mantenimento della pace, era inoltre
necessario disporre di capacità civili in settori prioritari quali la
polizia, il rafforzamento dello stato di diritto, l’amministrazione o
la protezione civile. In proposito, gli obiettivi fissati a Feira nel
2000 sono stati a volte superati, ed esiste perfino un progetto di
gendarmeria europea che avrebbe compiti a metà strada tra il militare e il civile.
Tutti questi progressi sono stati accompagnati dal desiderio di
rafforzare le relazioni e la collaborazione con i paesi terzi e le organizzazioni internazionali. Le relazioni transatlantiche sono state
senza dubbio particolarmente importanti per il loro significato
politico. Secondo l’articolo 17 del trattato sull’Unione europea, la
PESC deve rispettare gli obblighi degli Stati membri che ritengono
che la loro difesa comune si realizzi tramite la NATO, nell’ambito
del trattato dell’Atlantico del Nord. Ciò significa che l’Alleanza
resta il fondamento della loro difesa collettiva. Per questo motivo
l’Unione si prefigge di realizzare i compiti di Petersberg in consul236
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tazione con i partner della NATO. Siamo in effetti fermamente
convinti che la PESD contribuisca al rafforzamento del legame
transatlantico. L’Unione e l’Alleanza devono rafforzarsi a vicenda,
evitando nel contempo rivalità e sovrapposizioni. A tal fine, nel
marzo 2003, sono stati conclusi gli accordi ‘Berlin plus’, che consentono all’Unione europea di utilizzare i mezzi e le capacità dell’Alleanza per realizzare le proprie operazioni.
La PESD, tuttavia, collabora anche con altri attori. È già stato
stabilito un quadro di relazioni con i paesi europei membri della
NATO non appartenenti all’Unione europea. Sono state create le
basi della cooperazione con paesi quali il Canada, la Russia o l’Ucraina. Sono stati inoltre compiuti progressi nel dialogo in materia di sicurezza con i partner mediterranei nel quadro del processo
di Barcellona. Infine, sono state precisate le relazioni con il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite per quanto riguarda il mantenimento della pace e della sicurezza internazionale, ed è riconosciuta l’importanza del compito svolto dal Consiglio d’Europa o
dall’OSCE in questo settore.
Su queste basi, nel 2003, l’UE ha avviato le prime operazioni di
gestione delle crisi. La prima è stata un’operazione civile, la missione di polizia EUPM in Bosnia-Erzegovina. Ad essa è seguita l’operazione militare Concordia nell’ex Repubblica jugoslava di Macedonia (FYROM), tra marzo e dicembre. Durante questa
operazione sono stati applicati per la prima volta, e con successo, i
meccanismi ‘Berlin plus’. La terza operazione, l’operazione militare Artemis, si è svolta tra giugno e agosto a Bunia (Repubblica
democratica del Congo). Si tratta della prima operazione autonoma realizzata dall’Unione su richiesta delle Nazioni Unite.
Infine, dai dicembre 2003 nella FYROM è in corso inoltre la missione di polizia Proxima. Viste queste esperienze positive, il Consiglio europeo dello scorso dicembre ha preso in considerazione una
nuova sfida e dichiarato che l’Unione è pronta a subentrare alla
forza militare SFOR della NATO in Bosnia, alla fine del 2004, nel
quadro degli accordi ‘Berlin plus’ e a condizioni da negoziare.
Con la conclusione degli accordi ‘Berlin plus’ e l’attuazione di
queste prime operazioni di gestione delle crisi, si è posto fine alla
fase di costituzione della PESD per avviarne la fase pienamente
operativa.
Così, in occasione degli ultimi Consigli europei, sono state
adottate importanti decisioni per lo sviluppo della PESD, come
ad esempio l’accordo sul documento relativo alla strategia euro237
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pea in materia di sicurezza, presentato dal Segretario
generale/Alto Rappresentante Javier Solana, gli articoli dedicati
alla difesa nel trattato costituzionale europeo, la creazione dell’Agenzia europea per gli armamenti e la cellula di pianificazione di
Bruxelles.
Il documento sulla strategia europea in materia di sicurezza
intitolato ‘Un’Europa sicura in un mondo migliore’ descrive il
nuovo contesto di sicurezza creato dalla globalizzazione e individua le principali minacce a cui l’Unione deve far fronte. Tra di esse
cita il terrorismo, la proliferazione delle armi di distruzione di
massa, i conflitti regionali, il fallimento degli Stati e la criminalità
organizzata. Di fronte a queste minacce, l’UE deve contribuire alla
stabilità e al buon governo nei settori regionali potenzialmente
conflittuali, e dare il suo sostegno a un nuovo ordine internazionale basato sul ‘multilateralismo efficace’. Al riguardo, l’UE confida su una PESD attiva, coerente e dotata di più mezzi e più capacità.
Il 18 giugno 2004 è stato raggiunto un accordo sul trattato
costituzionale europeo che avrà particolare influenza sulla PESD.
Gli articoli che la riguardano, in effetti, contengono elementi che
dovrebbero portare a una solida difesa comune europea. Tra questi articoli, vanno sottolineati l’aggiornamento dell’elenco dei
compiti di Petersberg (che includono ora il disarmo, la lotta al terrorismo e la riforma dei dispositivi di sicurezza di paesi terzi); la
possibilità di una cooperazione strutturata per gli Stati membri
che desiderano impegnarsi maggiormente in termini di capacità
militari e per quanto concerne le missioni più impegnative; una
cooperazione più stretta per la difesa reciproca in caso di attacco
armato contro uno Stato membro; e, al di fuori della PESD, l’esistenza di una clausola di solidarietà particolarmente importante,
che comporta un impegno di assistenza tra Stati membri, anche
con mezzi militari, di fronte alle conseguenze di attentati terroristici o calamità naturali.
Dall’inizio di questa fase, la Spagna ha incoraggiato lo sviluppo
di un’autentica politica di difesa in seno all’Unione e ha partecipato pienamente agli sforzi volti a rafforzarla e a migliorarne le
capacità, nonché alle operazioni di gestione delle crisi realizzate
sia in cooperazione con la NATO che in forma autonoma.
La PESD deve preparare l’Unione a queste nuove sfide in materia di sicurezza. In tale contesto diventa fondamentale il ruolo
della PESD soprattutto in materia di lotta al terrorismo. Siamo
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infatti convinti che l’unità d’azione sarà utilissima in un settore
così sensibile. In proposito, la dichiarazione del Consiglio europeo
di Siviglia del giugno 2002 sul contributo della PESC (compresa la
PESD) consente progressi importanti in materie quali la valutazione comune della minaccia terroristica, la cooperazione in materia di intelligence, la compilazione di un catalogo di mezzi e di capacità militari disponibili per la protezione delle popolazioni civili e
delle forze dell’Unione dagli effetti degli attentati terroristici; o la
cooperazione con la NATO per l’elaborazione di un inventario dei
mezzi e delle capacità per la protezione civile.
I rappresentanti spagnoli alla Convenzione europea hanno
avanzato numerose proposte per imprimere slancio allo sviluppo
futuro della PESD, e la Spagna avrebbe voluto anche spingersi
oltre in questo settore. Pensiamo che il concetto di cooperazione
strutturata in materia di difesa debba essere aperto a tutti gli Stati
membri che desiderano e possono partecipare su basi convenute
di comune accordo. La Spagna sostiene inoltre la clausola di difesa
reciproca quale ulteriore manifestazione di solidarietà tra Stati
membri in seno a un’Unione sempre più politica.
La Spagna ha la ferma intenzione di contribuire attivamente
alle iniziative in corso e il governo spagnolo vuole continuare a
imprimere slancio ai seguenti progetti:
Q Sviluppare le capacità militari europee per condurre operazioni
di reazione rapida, poiché si tratta di un aspetto fondamentale
della PESD. Priva di capacità, la PESD sarà semplice retorica.
Q Partecipare pienamente alla creazione e ai lavori della nuova
Agenzia europea per gli armamenti, la ricerca e le capacità.
Questa agenzia, posta sotto l’autorità del Consiglio, sarà
aperta a tutti gli Stati membri, tenuto conto delle necessità
della PESD, della complementarità con la NATO e degli interessi dell’industria nazionale ed europea della difesa. Nello
stesso tempo, la Spagna sta concludendo il suo processo di
adesione all’Organizzazione congiunta per la cooperazione
in materia di armamenti europea, l’OCCAR, che, in una
prima fase, svolgerà funzioni complementari a quelle dell’Agenzia.
Q Promuovere un maggiore impegno nella lotta al terrorismo nel
quadro della PESD, mobilitando sforzi e risorse attraverso la
piena attuazione delle misure previste nella dichiarazione del
Consiglio europeo di Siviglia e nella dichiarazione dell’UE sul
terrorismo, adottata in seguito agli attentati dell’11 marzo a
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Madrid.
Q Sviluppare le disposizioni del trattato costituzionale europeo
che riguardano la difesa. Tra queste vanno sottolineate l’inclusione di una definizione più ampia delle missioni della PESD e
gli impegni assunti attraverso la cooperazione strutturata, la
clausola di difesa reciproca e quella di solidarietà tra gli Stati
membri. Questi passi avanti nello sviluppo della PESD saranno
perfettamente compatibili con il ruolo svolto dalla NATO nella
difesa collettiva.
Q Rafforzare ulteriormente le relazioni tra l’UE e l’Alleanza atlantica, e stabilire un autentico partenariato strategico nella gestione delle crisi e in altri settori, come quello della lotta al terrorismo. La Spagna crede fermamente nella necessità di
rafforzare ulteriormente il legame transatlantico nel quadro di
una relazione in materia di sicurezza più solida ed equilibrata.
Q La piena realizzazione della cellula civile/militare dell’Unione
incaricata della pianificazione e dell’eventuale direzione delle
operazioni militari e civili, rafforzando nel contempo il collegamento con la NATO. La Spagna auspica il miglioramento
dell’efficacia militare e della visibilità politica dell’Unione nella
conduzione di tali operazioni, realizzate sia in modo autonomo che con il ricorso ai mezzi della NATO, senza sovrapposizione di strutture.
Negli ultimi anni l’UE ha compiuto importanti progressi in
numerosi settori, ma tutta questa realtà politica, economica e
sociale deve adempiere ai suoi obblighi e rispondere alla necessità
di dotarsi di una vera politica estera e di sicurezza comune, incluso
l’aspetto della difesa rappresentato dalla PESD. Si tratta di un
duplice obbligo: nei propri confronti, per poter fronteggiare le
grandi minacce del mondo odierno; ma anche nei confronti della
comunità internazionale, nel cui seno l’Unione vuole apparire un
modello di coesistenza nella pace, la libertà, la giustizia e il progresso. Niente di tutto questo sarà possibile se non assumeremo le
nostre responsabilità in materia di sicurezza. È la sfida che
abbiamo di fronte tutti, e la Spagna compirà ogni sforzo per raccoglierla.
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In una sintesi molto stringata della storia del mondo, in cosa consisterebbero le poche righe consacrate alla storia politica del Regno
Unito nel secolo scorso? Non si discosterebbero molto dalle due
frasi seguenti: ‘Nel XX secolo, la civiltà britannica fondata sulla
libertà e la democrazia è stata minacciata per due volte da aggressioni armate. In entrambi i casi, la minaccia è venuta dal continente
europeo e, in entrambi i casi, è stata respinta essenzialmente grazie
all’aiuto degli Stati Uniti d’America’.
Queste poche righe spiegano meglio di qualunque altro discorso le ragioni profonde della mancanza di entusiasmo dell’opinione pubblica britannica per l’integrazione europea, e le sue reticenze (se non addirittura il rifiuto) di fronte a perdite di sovranità
nel campo della politica estera e della difesa. Naturalmente, non è
una reazione razionale. Se ragionasse con freddezza, l’opinione
pubblica del Regno Unito capirebbe che la migliore garanzia contro il rischio che gli eventi passati possano riprodursi consiste
appunto nella creazione dell’Unione europea, ove gli aggressori e
gli aggrediti di ieri sono inglobati in un’entità unica gestita da istituzioni comuni. Da un lato, le guerre sarebbero impossibili, e dall’altro, si avrebbero politiche estere e di difesa progressivamente
unificate. Ma non è così che funziona l’inconscio dei popoli, che
dimentica con lentezza e reagisce in modo istintivo.
Gli uomini politici devono tenerne conto e ogni paese dell’UE
deve prendere in considerazione gli stati d’animo dei suoi partner.
Non si chiede di rinunciare alle convinzioni e ambizioni individuali, bensì di non negare la realtà. Qualche mese fa, in un sondaggio d’opinione, i britannici dovevano indicare quale paese,
secondo loro, li avrebbe aiutati in caso di minaccia alla loro libertà.
La maggioranza ha risposto ancora: gli Stati Uniti. È un dato di
fatto. In alcuni paesi dell’Europa centrale e orientale, per esempio
in Polonia, la situazione non è molto diversa. Ricordo come fosse
ieri una conferenza a Bruxelles a cui partecipavano, tra l’altro, Jacques Delors e Etienne Davignon, e in cui la parte più vivace delle
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discussioni era stata consacrata all’aspetto ‘difesa’ del progetto di
Costituzione per l’Europa. Il polacco Jacek Saryusz-Wolski era
stato molto deciso, quasi violento nel denunciare il carattere a suo
parere velleitario delle intenzioni dell’UE. Non dava alcun peso
alla ‘clausola di difesa reciproca’ prevista, poiché per il suo paese (e
per i paesi limitrofi) solo la clausola analoga del trattato NATO
offriva garanzie serie: un giorno sapremo se quella dell’Europa è
affidabile, per ora sono solo parole. L’ex ministro degli esteri
polacco Bronislaw Geremek, in un’intervista, aveva giustificato
questo atteggiamento con il ‘peso del passato’. I polacchi conservano nella memoria che il paese è stato stretto in una morsa tra
Stalin e Hitler, e che gli altri paesi dell’Europa occidentale l’hanno
abbandonato. Per l’inconscio collettivo, la Russia rimane una
minaccia potenziale e l’Europa occidentale non offre ancora
garanzie sufficienti. La garanzia è la partecipazione alla NATO,
perché lì sono gli Stati Uniti.
Anche in questo caso, la logica indica che la partecipazione
all’UE è ancora più rassicurante, perché non solo assicura la solidarietà in caso di aggressione, ma rende la semplice ipotesi di
un’aggressione assurda e impraticabile. Tuttavia, ancora una
volta, occorre tener conto del sentimento profondo di una
nazione così spesso provata durante i secoli nel suo orgoglio, nella
sua identità, e nella sua stessa esistenza.
La comprensione deve essere reciproca
Ho insistito, forse un pò troppo, su questo punto perché le divisioni che si fanno talvolta tra gli Stati membri (i buoni Europei da
un lato, i cattivi dall’altro) mi sembrano fuori luogo. Tra i paesi vi
sono differenze determinate alla storia e dal carattere dei popoli,
che occorre comprendere e rispettare, purché tale comprensione
sia reciproca. Possiamo capire i legami particolari dei britannici
con gli Stati Uniti e lo scetticismo momentaneo dei polacchi nei
confronti dei progetti di difesa europea, pur auspicando che le
posizioni attuali evolvano. Anche la posizione dei paesi neutrali, la
cui popolazione ritiene di essere stata in qualche modo ingannata
perché le implicazioni politiche dell’adesione all’UE non erano
state indicate chiaramente in partenza, è comprensibile. Ma
abbiamo il diritto di esigere lo stesso atteggiamento nei confronti
delle specificità degli altri.
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Se per esempio chiediamo al Belgio di riassumere in poche
righe la storia politica del paese nel secolo scorso, ecco all’incirca
quello che otterremmo: ‘Il Belgio non ha dichiarato guerra a nessuno e non aveva alcuna intenzione di partecipare a conflitti
armati, ma è stato invaso due volte perché le forze armate di un
paese vicino, in guerra con un altro paese vicino, ritenevano efficace aggirare le linee difensive del nemico di allora passando attraverso il territorio belga’. Perché stupirsi quindi che in seguito la
politica estera belga ha avuto - e ha tuttora - come obiettivo primario la riconciliazione tra i due paesi in questione, ossia la Francia e
la Germania? Tutti devono capire perché il Belgio auspica che l’integrazione europea progredisca il più possibile, anche in campo
militare, e che le istituzioni sovranazionali siano forti e indipendenti.
La riconciliazione franco-tedesca era fin dall’inizio al centro
del progetto europeo: non c’è quindi da stupirsi che abbia spesso
assunto un carattere emotivo. Ricevendo il progetto del Piano
Schuman, Konrad Adenauer aveva detto a Jean Monnet: ‘Se questo
piano riesce, la mia vita non sarà stata inutile’. Helmut Schmidt ha
voluto la moneta unica contro la volontà dell’opinione pubblica
nazionale, degli industriali e della stessa banca centrale del suo
paese, poiché non voleva che il marco tedesco, troppo forte all’epoca, schiacciasse le monete degli altri paesi europei suscitando
frustrazioni e timori (se la City di Londra desidera ora che il Regno
Unito partecipi all’euro, non è propriamente per gli stessi motivi).
L’acciaio e il carbone erano stati scelti per la prima Comunità europea (CECA) e posti sotto un’alta autorità sovranazionale perché
rappresentavano all’epoca i ‘muscoli’ della guerra, e la Comunità
europea di difesa (CED) era il secondo progetto, prima di passare
alla Comunità economica europea (CEE). L’ipotesi di legami
franco-tedeschi che si spingano fino alla fusione vera e propria dei
due Stati è stata formulata da personalità come Pascal Lamy e
Gunter Verheugen, per citare soltanto il progetto più recente a mia
conoscenza.
Occorre pertanto offrire a coloro che sentono la necessità di
progredire più rapidamente verso l’integrazione, la possibilità di
realizzare i loro progetti nel contesto comunitario, rendendo
facoltativa - e sempre possibile in seguito - la partecipazione degli
altri. Esiste anche una concezione opposta, secondo cui si
dovrebbe impedire a coloro che lo desiderano di avanzare più rapidamente, in quanto distruggono l’Europa. Questa tesi era stata
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difesa da Ralf Dahrendorf a proposito della moneta unica: a suo
parere si sarebbe dovuto abbandonare il progetto perché il Regno
Unito non ne voleva sapere, e realizzarlo avrebbe provocato la divisione della Comunità. Secondo lui, gli avversari dell’Europa unita
erano quelli che si sforzavano di costruire l’Unione monetaria, e
non quelli che la rifiutavano! Inutile dire che questa visione mi
sembra aberrante, soprattutto da parte di un ex Commissario
europeo.
L’abitudine a riflettere insieme come ‘riflesso europeo’
Da quanto precede si capisce che non sono neanche fautore della
‘fuga in avanti’, e che considero inopportuna e irrealizzabile per ora
la generalizzazione delle decisioni maggioritarie in politica estera e
di difesa. Personalità eminenti, soprattutto in seno al Parlamento
europeo, raccomandano
questa misura pensando in buona fede che consentirebbe di
progredire nella costruzione dell’Europa. In questo campo, sembra preferibile la saggezza di Jacques Delors e Valéry Giscard d’Estaing, che ritengono prematura qualsiasi avanzata troppo brusca. Giscard d’Estaing ha affermato che un voto maggioritario
sulla partecipazione alla guerra in Iraq avrebbe demolito qualsiasi
prospettiva di sviluppo della PESC e della PESD, indipendentemente dal risultato del voto. Ha ragione: il Regno Unito, la Spagna
e alcuni altri paesi non si sarebbero mai piegati a un voto contro la
partecipazione alla guerra, mentre la Francia, la Germania e altri
non avrebbero mai accettato un voto a favore. Prima di essere in
grado di prendere a maggioranza decisioni che implicano la pace e
la guerra e l’invio in battaglia di giovani europei, gli Stati membri
devono abituarsi a riflettere insieme, a studiare assieme i fascicoli
scottanti, a coordinarsi. A prima vista non sembra molto, ma è l’unica strada per acquisire ciò che Michel Barnier (che oggi ha le
responsabilità che sappiamo) chiama ‘il riflesso europeo’. L’esistenza stessa di un Alto Rappresentante per la PESC e il modo in
cui Javier Solana ha svolto questo ruolo sensibile hanno già fatto
molto per la politica estera comune, e i risultati sarebbero stati
ancora più importanti se il ‘riflesso europeo’ avesse avuto maggior
peso negli Stati membri.
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Etienne Davignon, grande diplomatico (e genio dei compromessi), dopo un’attenta lettura della famosa ‘lettera degli Otto’ di
sostegno alla posizione americana e della presa di posizione degli
altri governi, ha affermato categoricamente: ‘qualsiasi giovane
diplomatico 1avrebbe potuto farne un testo unico’, tanto erano
simili i concetti fondamentali sull’Alleanza atlantica e sui legami
tra l’Europa e gli Stati Uniti. Il compito di unificare i due testi
sarebbe stato forse un pò arduo per un giovane diplomatico, ma
Davignon stesso avrebbe potuto farlo senza troppe difficoltà. E
l’UE avrebbe avuto un testo comune, anche se, per l’immediato,
nulla sarebbe cambiato riguardo alla partecipazione al conflitto.
La prossima promozione dell’Alto Rappresentante a Ministro
degli affari esteri dell’Unione aumenterà ancora l’efficacia del
‘riflesso europeo’.
Elogio del testo inserito nel progetto di Costituzione
In definitiva, le disposizioni del progetto di Costituzione per l’Europea nei settori della difesa sembrano incarnare ciò che oggi è
auspicabile e possibile. Non dimentichiamo che sono frutto di una
riflessione approfondita cui hanno partecipato non solo i governi,
ma anche le istituzioni europee (Commissione e Parlamento) e i
parlamentari nazionali, che i testi sono stati elaborati sotto la presidenza di Michel Barnier, e che alcuni aspetti sono stati messi a
punto nella loro forma definitiva dai tre Stati membri più direttamente coinvolti: Francia, Germania e Regno Unito. Le disposizioni
della Costituzione possono riassumersi in cinque punti:
a) rafforzamento e ampliamento dei compiti detti ‘di Petersberg’,
che l’Unione può già realizzare per mantenere o ripristinare la
pace in paesi terzi;
b) ‘clausola di solidarietà’ che lega gli Stati membri in caso di attentati terroristici (e anche di calamità naturali);
c) creazione dell’agenzia degli armamenti, elemento essenziale già
in via di realizzazione;
d) ‘cooperazioni strutturate’ tra gli Stati membri che desiderano
progredire più rapidamente nella cooperazione militare e che
sono in grado di farlo. I paesi che non possono partecipare subito hanno ottenuto garanzie sulla possibilità di farlo in seguito.
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Questo punto rappresenta il fulcro degli sviluppi futuri;
e) clausola di difesa comune (la cui denominazione ufficiale è,
stranamente, ‘cooperazione più stretta’) , che riprende l’impegno già esistente nell’ambito dell’Unione dell’Europa occidentale (UEO), senza alcuna incidenza sulla clausola analoga
della NATO.
Questo progetto suscita riserve e critiche, per esempio nel
Senato francese, a causa della sua presunta insufficienza. Ma le
preoccupazioni sono state parzialmente fugate da successivi chiarimenti, e ho cercato di spiegare perché non mi sembra possibile,
né opportuno, in questo momento avanzare più rapidamente
tutti insieme, a condizione di ammettere che coloro che lo desiderano e ne hanno le possibilità abbiano il diritto di farlo. E lo
faranno. L’importante è che ciò sia possibile nell’ambito dell’UE, e
non a livello intergovernativo.
I recenti avvenimenti hanno mostrato a che punto le intese fondate su relazioni personali tra alcuni capi di governo siano fragili e
caduche. Basta un cambiamento di maggioranza in un paese e
tutto è sconvolto: l’evoluzione in Spagna è l’ultimo esempio in
ordine di tempo. In mancanza di testi e di istituzioni, nulla è
garantito. Al tempo stesso, occorre rispettare identità e sensibilità
nazionali, nonché gli insegnamenti della storia.
Sarei già alla terza guerra
So quanto sia difficile oggi ‘vendere’ ai giovani il significato e l’importanza storica di aver creato una zona di stabilità e di pace che
abbraccia la maggior parte del continente. È una svolta nella storia
dell’Europa, ma per le nuove generazioni è un dato scontato, che
hanno trovato alla nascita e che per definizione non può rappresentare un ideale da raggiungere; ora, ogni generazione ha bisogno
di avere un ideale. Alcuni anni fa, il miglior amico di mio figlio al
liceo era olandese: ho cercato di spiegargli che mezzo secolo prima
sarebbe forse stato suo nemico. Lungi dal ringraziare l’Unione per
il miracolo compiuto, ha constatato freddamente: ‘gli idioti eravate voi, che vi facevate la guerra’. In Europa abbiamo cercato di
non esserlo più, degli idioti. Helmut Kohl si stupiva di costatare che
era diventato impossibile ‘vendere’ l’Europa con il tema della pace.
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E tuttavia, basta attraversare una frontiera per vedere cosa succede
al di fuori dell’UE, in Kosovo per esempio, o attraversare il mare per
constatare la situazione tra Israele e la Palestina. Jacques Delors
aveva osservato che, nella storia d’Europa, scoppiava una guerra
ogni vent’anni circa. Vista la mia età, sarei già alla terza guerra.
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Uno dei paradossi dell’Unione europea è che, se da un lato garantisce un grado ineguagliato di sicurezza ai cittadini dei sempre più
numerosi Stati membri, dall’altro è quanto mai cauta nello sviluppare una strategia per preservare tale sicurezza. L’espansione dell’Unione europea potrebbe anche essere il contributo più importante alla sicurezza internazionale del mondo contemporaneo, ma
per sostenere il dinamismo dell’Unione è necessaria una strategia
che indichi come l’Europa intende porsi negli anni avvenire per
proteggere quanto realizza per i suoi cittadini. Dovrà espandersi
ulteriormente per consolidare l’Unione, precisando al tempo
stesso con quali paesi vicini intratterrà relazioni speciali. Sarà inoltre necessario stabilire con quali mezzi e dove l’Europa farà sentire
la sua presenza, per impedire che eventuali minacce raggiungano le
sue frontiere. Il modo in cui l’UE ha affrontato la questione dei Balcani servirà più avanti ad illustrare i costi che ha comportato per
l’Europa il fatto di non aver trovato la volontà politica di intervenire risolutamente in settori in cui non deve temere di avventurarsi.
Si tratta di questioni che riguardano la sicurezza europea e che
costituiscono il punto centrale e ancora irrisolto della politica dell’UE: dove, quando, come e con che continuità l’Europa proietterà
la sua azione per assicurare la nostra protezione. Questo problema
deve essere ancora presentato in termini chiari alla maggioranza
dei cittadini europei. I leader politici continuano a preferire la verbosità all’efficienza e a dissimulare le dure scelte politiche ed economiche che l’Europa deve compiere, in un mondo esposto a
minacce nuove che richiedono nuove forme di difesa, e in un
momento in cui non può né deve più aspettarsi che gli Stati Uniti
si sacrifichino per garantire la sua sicurezza. L’Europa, inoltre, si
trova in un frangente storico in cui deve decidere in quale misura i
suoi interessi coincidano con quelli degli Stati Uniti, anche se tali
interessi possono a volte divergere. I primi cinque anni della politica europea di sicurezza e di difesa hanno quindi rappresentato il
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coraggioso tentativo compiuto da alcuni per dare sostanza ad una
politica in mancanza di una strategia.
Nei casi in cui ha agito, l’Europa lo fatto generalmente in reazione a qualcosa e senza coordinamento tra le istituzioni. La sicurezza è stata definita in modo restrittivo come sicurezza militare, e
così facendo non si è colta l’opportunità di sincronizzare e combinare strumenti disparati in modo da esercitare un’influenza reale
e proporzionata alle potenzialità dell’Europa e alle aspettative che
suscita. Gli Stati membri, nel frattempo, portano avanti le rispettive politiche estere trasmettendo segnali confusi a quelle stesse
regioni il cui destino riveste un interesse vitale per l’UE. Le dichiarazioni dell’Europa creano aspettative che troppo spesso vengono
deluse.
Una strategia presuppone che gli elementi più disparati dell’azione internazionale possano e debbano essere sintetizzati in un
approccio unico, creando o modificando opportunamente gli
strumenti necessari per la sua realizzazione. La sicurezza, in questo contesto, investe la povertà e le sue conseguenze, la crescente
incapacità degli Stati di rappresentare per le popolazioni l’ultima
risorsa, l’identificazione popolare in nuove ideologie o convinzioni e nelle istituzioni che le rappresentano, nonché la sempre
minore efficienza delle frontiere. Gli strumenti di questo disordine sono la tecnologia, il terrore, e la liberalizzazione rampante
dei mercati. Coloro che si sentono diseredati si rivolgono verso
porti sicuri, come l’Europa, o diventano preda di chi ne manipola
il malcontento. Oggi il denaro circola più facilmente che mai e una
porzione crescente del PIL globale è in mano all’economia sommersa. In un mondo in cui solo alcuni possono avere accesso alla
ricchezza e/o alla sicurezza, gli altri si forgiano un’identità nuova
alla ricerca di sicurezza. È qui che le convinzioni vengono ad assumere un ruolo così importante.
In poche parole, il dilemma della sicurezza europea è quello di
un’Unione fondata sulla fede comune nelle regole che si trova confrontata a un mondo la cui parola d’ordine è la deregolamentazione. La questione è se l’Unione europea abbia sufficiente fiducia
in se stessa per proiettare questi valori con intensità nelle sue
immediate vicinanze, e con ponderata determinazione altrove. In
termini pratici, si tratta di scegliere tra un’Europa ben fortificata e
quasi inespugnabile, con frontiere esterne chiaramente (e,
secondo molti, culturalmente) definite, e un’Europa costituita da
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cerchi concentrici di società che possono aggregarsi gradualmente
le une alle altre man mano che scelgono di aderire alle regole del
‘club’ chiamato Europa. È una scelta tra un’Europa che desidera
evitare qualsiasi contagio dall’esterno, e un’Europa che sceglie di
contagiare gli altri con il suo esempio e la sua apertura alla partecipazione. La prima è un’alternativa donchisciottesca, che rivela
mancanza di coraggio politico e di immaginazione. La seconda
impone all’Europa di spingere lo sguardo verso orizzonti più ampi
del proprio ombelico. La prima schiude una prospettiva di fallimento in materia di sicurezza, la seconda costituisce la base di una
strategia di sicurezza che dev’essere ancora sviluppata.
Nel frattempo, gli ultimi cinque anni sono stati segnati da sfide
senza precedenti, e il contesto della PESD è stato drammaticamente rimodellato dalla necessità di una politica europea nei Balcani, dall’attacco terroristico agli Stati Uniti dell’11 settembre
2001, e dalla guerra in Iraq. Questi fatti hanno fornito argomenti
sia a coloro che vogliono rafforzare le barriere intorno all’Europa,
sia a chi sostiene che l’Europa, per proteggersi, debba proiettarsi al
di là delle proprie frontiere. Se si vuole capire dove risiede il potenziale della sicurezza europea, non bisogna sottovalutare l’impulso
derivante dai progressi realizzati. I paesi balcanici si sono visti
aprire la via verso l’Unione nel 1999. Nel periodo successivo l’Unione ha stanziato oltre 5 miliardi di euro in questa regione; ha
fatto da catalizzatore per evitare un’escalation del conflitto nell’ex
Repubblica jugoslava di Macedonia, e ha saputo imporre con energia un’unione costituzionale provvisoria tra Serbia e Montenegro.
Sempre nel dicembre 1999 è stato offerto alla Turchia lo status di
paese candidato all’Unione. I paesi del Medio Oriente, compreso
un diffidente Israele, si sono lasciati convincere che l’unica via
verso una soluzione del conflitto arabo-israeliano fosse quella
indicata dalla tabella di marcia del Quartetto, elaborata in gran
parte dall’UE e dal suo inviato speciale. Nel frattempo, il bilancio
ufficiale dell’Autorità palestinese ha ricevuto sostegno vitale dalla
Commissione. Quando è avvenuta la tragedia dell’11 settembre 2001 i paesi europei hanno reagito spontaneamente, sia a
livello emotivo che nei fatti. I membri europei della NATO hanno
appoggiato il ricorso all’articolo 5. Molti paesi hanno contribuito
all’intervento in Afghanistan, alcuni rompendo con i propri antecedenti storici per farlo. L’UE si è affrettata a rivedere le proprie
misure di sicurezza interne e a trovare mezzi di cooperazione nella
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lotta internazionale contro il terrorismo. Nel 2003 l’Unione ha
anche compiuto una missione militare in Congo e nello stesso
anno, malgrado le divisioni create dalla guerra in Iraq, si è
mostrata disposta ad adottare per la prima volta un documento in
cui si definisce una strategia comune in materia di sicurezza.
A livello istituzionale, il Consiglio europeo ha cominciato a
mettere in piedi le strutture necessarie per supportare l’Alto Rappresentante, anche se in modo così esitante da risultare vergognoso. Ha sviluppato a livello embrionale un sistema di scambio
di intelligence, anche se le informazioni più sensibili sono trattenute a livello nazionale e gli investimenti sono insufficienti
rispetto a quanto necessario per il livello di analisi auspicato. Ha
creato l’ossatura di un’unità di pianificazione militare e ha faticosamente instaurato una relazione con la NATO per l’utilizzazione
dei suoi mezzi. Il carico di responsabilità è ricaduto sull’Alto Rappresentante Javier Solana che, impegnando notevoli energie personali, ha dovuto - per usare una terminologia imprenditoriale far conoscere l’Europa, definire le proprie mansioni (dato che esiste anche un Commissario per le relazioni esterne) e trovare le
risorse necessarie allo svolgimento delle sue funzioni, rendendo al
tempo stesso conto al suo consiglio di amministrazione (i ministri
degli esteri) e rispondendo ai capricci individuali e collettivi degli
azionisti. Il Commissario per le relazioni esterne Chris Patten ha
condiviso l’onere delle responsabilità sul piano sia geografico che
funzionale, mentre la Commissione ha mantenuto il controllo del
bilancio per l’assistenza. La Commissione contribuisce così alla
componente economica della strategia esterna dell’Unione e
svolge un ruolo centrale in qualsiasi negoziato sul sostegno di
bilancio alle strategie comuni con le istituzioni finanziarie internazionali.
Rispetto alla situazione precedente, si tratta di un risultato
notevole per l’UE. Eppure si ha la sensazione che non si sia fatto
abbastanza, che l’Europa abbia fatto fatica a tenere il ritmo degli
sviluppi che hanno un impatto diretto sulla sua sicurezza. È in
parte una questione di percezione, in parte una questione di
fondo. Dando un’impressione di coesione, l’UE ha suscitato
aspettative sulle sue reali intenzioni ma, una volta confrontata a
questioni concrete di potere, non si è dimostrata all’altezza. Vista
dall’esterno, questa dicotomia assume contorni molto più netti.
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Abbiamo permesso che si creassero aspettative, anzi, le abbiamo
incoraggiate: se le deludiamo, la fiducia svanisce e viene meno l’incentivo a soddisfare le esigenze dell’Europa.
In nessun altro luogo ciò è più evidente che nei Balcani, dove la
realtà si scontra con la retorica, e molte delle considerazioni svolte
finora derivano dall’esperienza acquisita in quella regione. Negli
ultimi cinque anni l’UE è stata molto attiva nei Balcani. Ha stanziato oltre cinque miliardi di euro, istituendo a tal fine un fondo
speciale con meccanismi a esborso rapido. La Commissione europea ha collaborato strettamente con la Banca mondiale per sviluppare politiche macroeconomiche. Nel settore della sicurezza,
l’Alto Rappresentante ha contribuito in modo essenziale a disinnescare la crisi nell’ex Repubblica jugoslava di Macedonia. Altrettanta energia è stata prodigata per l’instaurazione dell’Unione tra
Serbia e Montenegro. Ciascuna di queste iniziative merita la massima considerazione. Tuttavia, ci sono in gioco questioni più
vaste. La sicurezza europea sarà garantita solo quando i Balcani
saranno entrati a far parte dell’UE. Nel frattempo, l’area resta un
problema per la sicurezza dell’Unione, essenzialmente per la mancanza di fiducia dell’Europa in se stessa e nella regione, che le
impedisce di offrire ai paesi in questione lo status di candidati e di
stabilire un calendario per l’adesione. Circa 20 milioni di abitanti
dei Balcani occidentali ritengono che dovrebbero essere cittadini
dell’UE. Tutto lascia supporre che, se venisse loro detto chiaramente entro quale scadenza devono essere pronti e quali sono i
requisiti da soddisfare, sarebbero disposti non solo a sopportare le
riforme radicali necessarie per entrare in Europa, ma anche ad
accettare un’ingerenza europea relativamente pesante. In questo
consiste, dopo tutto, il processo di adesione all’Europa. La soluzione dei problemi politici ancora in sospeso nella regione diventerebbe una responsabilità europea, e l’incentivo a ridurre le tensioni in materia di sicurezza diventerebbe progressivamente più
forte. La prevedibilità, che solo l’UE può garantire, costituirebbe il
collante per cambiamenti più rapidi. I politici che vogliono le
riforme e cercano per le loro nazioni un futuro in Europa godrebbero di un sostegno notevole, nonostante le dolorose riforme da
attuare. Gli investitori sarebbero incoraggiati a lanciarsi nella
mischia balcanica. I giovani sceglierebbero di costruirsi un futuro
nella regione. Per la criminalità organizzata sarebbe molto più
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arduo farsi strada nel mondo della politica attraverso la corruzione, come sarebbe molto più difficile per i politici senza scrupoli
sfruttare il nazionalismo piegandolo ai loro scopi.
Poiché la regione è in territorio europeo e una sua adesione sarà
prima o poi inevitabile, le esigenze europee in materia di sicurezza
avrebbero dovuto bastare, di per sé, a dettare una politica che
offrisse ai Balcani una traiettoria chiara verso l’adesione con una
scadenza precisa. In mancanza di un quadro esclusivamente europeo per orientare il processo in questa regione, le minacce per la
sicurezza dell’Europa si aggravano. Le reti criminali internazionali vedono la regione come una testa di ponte verso l’UE. La deindustrializzazione dell’economia nell’ultimo decennio ha lasciato
schiere di disoccupati. La maggioranza dei giovani vuole emigrare
nei paesi dell’UE. Un paese e una provincia sono protettorati internazionali. I riformatori che avevano fondato le loro speranze sulla
promessa dell’Europa si rendono conto che l’argomento è sempre
meno persuasivo per gli elettori. Se l’Unione disponesse di una
politica di gestione delle migrazioni volta ad incrementare la propria produttività e a compensare l’inevitabile fabbisogno demografico, sarebbe (stato) possibile concludere accordi con i paesi
balcanici per dare ai loro cittadini la possibilità di ottenere visti
temporanei per svolgere lavori specifici in Europa.
Il cardine strategico di una soluzione politica della questione
balcanica è la Serbia. Un clima di fiducia tra Serbia e Croazia finirà
per eliminare l’irredentismo in Bosnia. La fiducia in Belgrado consentirà alla Serbia di gestire politicamente le concessioni che sono
inevitabili nei suoi negoziati con Pristina. Uno sforzo parallelo che
permettesse agli abitanti del Kosovo di assumersi la responsabilità
dell’autogoverno e delle conseguenze delle proprie azioni, specie
in materia di minoranze e di criminalità, introdurrebbe una dose
salutare di realismo nei toni iperbolici che pervadono le rivendicazioni dei politici kosovari ed esaltano l’opinione pubblica. Così
facendo la sicurezza di vicini quali l’ex Repubblica jugoslava di
Macedonia sarebbe meno minacciata dal futuro incerto del
Kosovo.
È difficile immaginare alternative diverse dall’opzione europea, una solida opzione europea, al fine di creare la fiducia necessaria a provocare un’accelerazione verso l’UE. Ci sarebbe voluta la
volontà politica dei leader e un minimo di capacità di non farsi distrarre da altri eventi globali. Per l’Europa la migliore risposta alla
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crisi dell’Iraq sarebbe stata dimostrare di poter almeno trovare
soluzioni regionali efficaci e pacifiche. Al vertice di Salonicco del
giugno 2003, invece, l’Unione si è immersa in un sottobosco di
mezze misure e di gergo comunitario. La Serbia deve continuare a
sottomettersi all’unione con il Montenegro imposta dall’UE, cosa
che ha gravemente ritardato i suoi preparativi per i negoziati con
Bruxelles. Il destino del Kosovo resta ostaggio di interessi che si
collocano fuori dell’Europa e continua a non essere nelle mani dei
suoi abitanti - situazione che si potrebbe definire in altri termini
come la gestione di una sorta di limbo.
Se si può trarre una lezione dai Balcani, è che le politiche dell’Unione europea in materia di sicurezza e di difesa richiedono un
quadro strategico che offra gli orientamenti e gli strumenti necessari affinché l’Europa possa agire ben al di là delle proprie frontiere. Dire che si deve cominciare dai Balcani non significa accordare un favore speciale a questa regione. Si tratta piuttosto di
lanciare un appello alla disciplina necessaria per stabilire le priorità, coagulare la volontà politica, e realizzare risultati sui quali
cominciare a gettare le fondamenta di una strategia europea in
materia di sicurezza. Una strategia che dia coerenza e vigore alla
capacità europea di occuparsi contemporaneamente della candidatura della Turchia e del destino del Medio Oriente, così come di
questioni quali l’immigrazione, la criminalità organizzata, la
gestione delle tecnologie, e il contagio di società in cui lo Stato ha
abdicato al suo ruolo essenziale. Solo su questa base si potrà
cominciare ad accostarsi con fiducia alle questioni più generali
accennate in questo saggio.
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Antecedenti
La decisione del Consiglio europeo di Colonia, del giugno 1999, di
‘fornire all’Unione europea i mezzi e le capacità necessari perché
possa assumere le proprie responsabilità per quanto riguarda una
politica europea comune in materia di sicurezza e di difesa’ suscitò
notevole attenzione. Per molti si trattava di un logico passo avanti
nel processo d’integrazione europea, ma per alcuni fu una sorpresa;
mentre qualcuno temeva un impatto negativo sulle relazioni transatlantiche, altri pensavano si trattasse solo di un’ulteriore proclamazione di intenzioni europee che andava ad aggiungersi a quelle
già fatte in passato, ma mai veramente realizzate.
A partire dal 1999, invece, sono state definite le pietre miliari e
le finalità di una futura politica europea in materia di sicurezza e
di difesa (PESD), sono stati stabiliti gli obiettivi da raggiungere per
quanto riguarda le strutture e le capacità, e sono stati assimilati i
precedenti compiti dell’Unione dell’Europa occidentale (UEO).
L’UE stava per diventare l’istituzione europea che avrebbe riunito
tutti gli strumenti necessari per assicurare la prevenzione e la
gestione delle crisi o, se necessario, le risposte. Le intenzioni politiche devono essere sorrette da capacità credibili: questa è la finalità
concreta degli obiettivi della PESD.
Sviluppi - qualche osservazione
A cinque anni di distanza si può fondatamente affermare che nell’ambito dell’UE e della sua politica estera e di sicurezza comune
(PESC) esiste una politica europea in materia di sicurezza e di
difesa. All’interno del Segretariato generale del Consiglio sono
all’opera nuovi comitati e nuovi elementi; esiste una solida base di
procedure e concetti concordati di comune accordo per le opera-
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zioni di gestione delle crisi; vi sono gli accordi permanenti tra l’UE
e la NATO; sono state svolte svariate esercitazioni di gestione delle
crisi e, in particolare dal 2003, sono state condotte quattro operazioni reali sotto la guida dell’UE, due di polizia e due militari. Non
c’è dubbio che si sia trattato di uno sviluppo incredibilmente
rapido, tanto più se si considera che all’interno dell’UE si è cominciato a lavorare alla PESD partendo più o meno da zero, mentre
una precedente esperienza era stata sicuramente acquisita grazie
alla cooperazione in ambito NATO e UEO.
Nel 2000-2001 si è avuta la fase iniziale di preparazione. Si
dovevano costituire i comitati necessari, quali il Comitato politico
e di sicurezza e il Comitato militare (detto ‘Organo militare ad
interim’ fino alla primavera 2001). In rappresentanza degli Stati
membri essi dovevano sviluppare conoscenze specialistiche ed
esperienze, definire agende e metodologie di lavoro e stabilire relazioni ed intese reciproche. Altrettanto dicasi per i nuovi elementi
all’interno del Segretariato generale del Consiglio, alcune nuove
direzioni sul versante civile, lo Stato maggiore dell’UE e il centro di
situazione congiunto civile-militare. Tanto per dare un esempio,
la completa installazione dello Stato maggiore è durata circa un
anno e ha comportato complesse attività interne quali: progettare
e definire l’infrastruttura e la tecnologia dell’informazione, gestire
l’arrivo del personale, le sue condizioni di lavoro e la formazione
interna, precisarne lo status all’interno dell’UE e fissare le indispensabili condizioni di bilancio.
Ma gli obiettivi della PESD non consentivano di concentrare le
attività unicamente sull’assetto interno. Bisognava elaborare le
procedure e i concetti necessari per disporre di una base comune
per le operazioni di gestione delle crisi sotto la guida dell’UE, ed
era necessario ottenere su questi l’accordo degli Stati membri.
Hanno cosi’ visto la luce le procedure UE di gestione delle crisi,
documenti sulla cooperazione civile-militare, e una vasta gamma
di concetti per i vari aspetti delle operazioni militari o di polizia, e
si è dato avvio alla preparazione delle esercitazioni di gestione
delle crisi. Grossi lavori si sono accentrati sulla messa a disposizione delle capacità europee militari e civili per raggiungere gli
obiettivi precedentemente fissati dal Consiglio europeo. Si sono
definiti requisiti dettagliati per eventuali missioni sulla base di
scenari generici, si sono compilati inventari dei contributi offerti
dagli Stati membri e dai partner, e si sono valutate tali capacità alla
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luce dei requisiti. La prima conferenza sul miglioramento delle
capacità si è svolta nel novembre 2001, e sono stati lanciati il Piano
d’azione europeo sulle capacità (PAEC/ECAP) e il meccanismo di
sviluppo delle capacità per soddisfare le capacità richieste e ovviare
alle carenze riscontrate.
Durante tutto il 2001, e anche fino alla metà del 2002, le relazioni PESD al Consiglio e le relazioni militari alla riunione semestrale dei Capi di Stato Maggiore della difesa rispecchiano bene
questo periodo di preparazione: i temi fondamentali trattati
riguardano lo sviluppo di strutture, concetti, procedure e capacità. Lo sviluppo delle relazioni con altri veniva in seconda battuta.
Per motivi politici, solo alla fine del 2002 si sarebbe giunti ad una
soluzione della relazione permanente UE-NATO, poi messa a
punto nel marzo 2003: il cosiddetto pacchetto ‘Berlin plus’, comprendente un accordo sulla sicurezza. Ciò non ha agevolato il
coordinamento e la cooperazione nel settore dello sviluppo dei
concetti e delle capacità.
Tuttavia alla luce del progresso globale compiuto, il Consiglio
europeo di Laeken dichiarò, alla fine del 2001, che l’UE era ormai
in grado di condurre alcune operazioni di gestione delle crisi e
avrebbe progressivamente potuto assumerne di più ambiziose.
Ciò fornì lo stimolo a non limitarsi solo alla sfera delle dichiarazioni: la PESD doveva dimostrare la propria serietà e aveva bisogno
di giustificazioni per conservarla. Mentre i lavori sulla base concettuale continuavano, dal 2002 in poi era giunto il momento di
entrare nella fase di crescita successiva della PESD: una verifica,
con la prima esercitazione dell’UE di gestione delle crisi e la preparazione di vere e proprie operazioni.
Il 2003 è stato l’anno del lancio di quattro operazioni: la missione di polizia dell’UE (EUPM) in Bosnia, l’operazione militare
Concordia nell’ex Repubblica jugoslava di Macedonia, durata nove
mesi, l’operazione militare UE Artemis nella Repubblica democratica del Congo, durata circa tre mesi, e una seconda missione di
polizia, Proxima, sempre nell’ex Repubblica jugoslava di Macedonia.
Fatto della massima importanza, le missioni hanno realizzato i
propri obiettivi e assistito i paesi in questione verso una maggiore
stabilità. Hanno inoltre dimostrato che lo sviluppo della base concettuale delle operazioni PESD era tale da permettere ai responsabili politici e al personale di supporto di avere pieno controllo su
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queste prime sfide svoltesi in uno scenario reale, compresa la partecipazione di Stati terzi. L’operazione Concordia ha offerto per la
prima volta la possibilità di mettere a profitto gli accordi ‘Berlinplus’, tra cui tutte le necessarie consultazioni tra l’UE e la NATO e
il ricorso ai mezzi e alle capacità della NATO, in particolare con il
comando operativo UE presso SHAPE e il DSACEUR in qualità di
comandante dell’operazione - una situazione verificatasi nuovamente per la prima esercitazione UE-NATO di gestione delle crisi
alla fine del 2003. Viceversa, Artemis è stata la prima operazione
militare autonoma dell’UE a sostegno delle Nazioni Unite, con
ricorso al principio della ‘nazione quadro’, nel caso specifico la
Francia. Il modo in cui l’operazione fu preparata e decisa dimostrò
inoltre la capacità di reazione rapida, obiettivo che fino ad allora
aveva prodotto soltanto molti documenti teorici e concettuali. Si
acquisì così la fiducia che, col tempo, l’UE sarebbe stata in grado
anche di assumere maggiori responsabilità in Bosnia, ad esempio
con una missione militare, sempre in cooperazione e in coordinamento con la NATO.
Progressi e prospettive - qualche riflessione
La creazione di una PESD ha dimostrato ancora una volta che gli
interessi comuni o condivisi si possono salvaguardare e promuovere al meglio all’interno di un’istituzione comune, nella fattispecie l’UE - di recente allargata - il che comporta, di conseguenza, un
peso maggiore e un profilo più netto. Per i vecchi Stati membri e i
nuovi, in precedenza osservatori attivi, la PESD ha contribuito ad
una comune comprensione della realtà, dei progressi necessari
nonché degli adattamenti opportuni. Le regolari sessioni del Consiglio e le riunioni periodiche dei comitati, i programmi delle Presidenze, le relazioni al Consiglio e le sue conclusioni esortano gli
Stati membri a un’attenzione costante ai temi della PESC e della
PESD, che incidono anche sulle loro rispettive posizioni. Il principio dell’unanimità aiuta a trovare denominatori comuni o compromessi, promuove la solidarietà e, specie per le questioni operative, ne accresce anche la legittimità. Il progetto di costituzione
contiene nuove disposizioni importanti. La PESC e la PESD riscuotono largo sostegno nell’opinione pubblica e suscitano grandi
aspettative nei partner dell’UE, che si tratti di singoli paesi o di
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organizzazioni internazionali. Fattore importante per la sicurezza
transatlantica ed europea, l’UE e la NATO condividono gli stessi
obiettivi, una solida base per la cooperazione e le complementarità
strategiche, anche se vi è ancora spazio per intensificare ulteriormente il rapporto bilaterale.
Le sfide, però, restano. L’attuale ventaglio delle missioni PESD,
gli obiettivi di capacità e le esigenze sono principalmente orientati
a situazioni come quelle sperimentate nei Balcani. Finora le operazioni pratiche nel quadro della PESD hanno essenzialmente
riguardato la stabilizzazione postbellica al di fuori del territorio
degli Stati membri dell’UE: solo l’operazione Artemis ha visto un
impiego più massiccio di forze, sempre però col consenso formale
delle autorità ospitanti. Le suddette operazioni PESD erano fondate su motivi validi, ma finora non si è mai dovuti intervenire in
risposta ad una minaccia o aggressione diretta imminente. Si è
avuto addirittura il tempo di discutere vari aspetti, tra cui la catena
di comando, per operazioni particolari, su un periodo di svariate
settimane. Adesso esiste la minaccia permanente rappresentata
dal terrorismo mondiale, insieme ad altri ben noti fattori di
rischio transnazionali, e l’allargamento avvicinerà all’UE varie
zone di instabilità e di crisi: diventerà fondamentale mantenere e
salvaguardare la sicurezza in tutti i suoi aspetti. In un’Europa
allargata è quindi d’importanza vitale, adesso, che gli Stati membri traducano in realtà per la PESC e la PESD le implicazioni della
Strategia europea in materia di sicurezza - ‘più attiva, più coerente,
più capace e più cooperativa con gli altri’ - unitamente alle pertinenti disposizioni del progetto di costituzione.
Ciò implica naturalmente la sostanziale volontà politica
comune di far ulteriormente evolvere l’UE in un attore credibile e
rispettato sulla scena mondiale. Dato questo obiettivo, potranno
rivelarsi utili alcuni elementi di carattere piuttosto pratico menzionati di seguito.
Le nuove sfide strategiche rendono necessaria una risposta
comune adeguata sulle future intenzioni della PESD, il livello di
ambizione e i conseguenti obiettivi civili e militari. Si tratta di un
presupposto per la successiva messa a punto degli strumenti e la
loro predisposizione ad un impiego coerente. Inoltre, per sfruttare
al massimo i vantaggi dell’UE è indispensabile che l’impiego di
mezzi e capacità nelle operazioni risponda ad obiettivi e orientamenti chiari. Individuare e definire intenzioni ed obiettivi ambi-
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ziosi, seppur realistici, e fornire orientamenti sono compiti tutt’altro che facili. Sono stati istituiti organi speciali appositamente
per dare un apporto adeguato sul piano della consulenza e dei
lavori di sostegno sulla base delle loro particolari conoscenze ed
esperienze, che occorre sfruttare al massimo. Inoltre, il miglioramento della cooperazione civile-militare ha giustamente affiancato la PESD fin quasi dall’inizio, ma non è stato per questo
dimenticato l’altrettanto importante coordinamento civile-civile
tra i vari pilastri dell’UE e al loro interno. La nuova cellula di pianificazione civile-militare proposta al Consiglio europeo del dicembre 2003 costituirà un valore aggiunto, una volta risolte le questioni di organizzazione interna: insieme al personale già presente,
sarà in grado di concentrarsi sui propri compiti generali, con il
sostegno del personale necessario e il contributo di altre risorse.
Per preparare e prendere decisioni, occorre consapevolezza
delle situazioni e una base essenziale di buona intelligence. Notevoli
progressi si sono fatti con la creazione del centro di situazione congiunto dell’UE e della Divisione ‘Intelligence’ dello Stato Maggiore,
entrambi incaricati di assemblare e filtrare l’intelligence ricevuta da
fonti civili e militari nazionali. La qualità del materiale, di utilità
generale, dipende in larga misura da coloro che detengono tali
informazioni e sono disposti a comunicarle. Restano grandi possibilità di ampliare la cooperazione sia tra gli Stati membri e l’UE,
che all’interno dei diversi servizi, incluso il necessario supporto
tecnico, e di riunire le informazioni pertinenti sugli sviluppi, i
rischi e le minacce allo scopo di comporre un quadro analitico
comune.
Come già detto, gli obiettivi di capacità civili e militari sono
stati in linea di massima raggiunti. Ciò nonostante, è evidente per
l’UE come per la NATO che le forze armate europee presentano
tuttora grosse carenze che si collocano in settori tipici delle operazioni di gestione delle crisi al di fuori del territorio dell’UE: disponibilità, schierabilità, sostenibilità nel tempo, interoperabilità,
standardizzazione di comando e controllo, efficacia e capacità di
sopravvivenza di gruppi interforze combinati. Il Piano d’azione
europeo sulle capacità (PAEC/ECAP), lanciato alla fine del 2001
come approccio ‘bottom-up’, ha dato vita ad una serie di gruppi di
progetto con una partecipazione volontaria variabile. Salvo poche
eccezioni, però, né tali gruppi né il meccanismo di sviluppo delle
capacità, incluso il coordinamento UE-NATO, hanno ancora pro-
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dotto capacità fresche e avanzate in misura sufficiente da offrire le
garanzie necessarie alla conduzione di tutti i tipi di operazioni di
gestione delle crisi che sono state previste finora, o che saranno
necessarie in futuro. Non si intende con questo disconoscere gli
sforzi di ristrutturazione in corso negli eserciti europei, né la
varietà di progetti ed iniziative esistenti. Il recente concetto dei
‘gruppi tattici’ è una proposta pratica importante intesa a promuovere una vera e propria capacità militare di reazione rapida.
Da oltre due anni si discute in sede PESD di questo tema, a causa
della sua complessità: implicazioni del processo decisionale a Bruxelles e nelle capitali, disponibilità e prontezza di mezzi e capacità
militari e di altra natura, comando e controllo, comunicazioni o
finanziamento. Ci sono ora buone probabilità di fare un passo
avanti.
Una volta concretizzati, i risultati di tali progetti e iniziative
miglioreranno sicuramente la situazione. Ma per ottenere un rendimento ancora migliore continua ad essere necessario, riguardo
gli sforzi di difesa dell’UE, armonizzare, coordinare e cooperare in
modo molto più attivo. La nuova Agenzià può diventare utile per
stimolare tale processo, a condizione che i progetti e le decisioni
futuri traggano impulso da posizioni europeè piuttosto che
nazionali. Potrebbe inoltre essere utile esaminare se gli attuali
principi dei contributi volontari e l’approccio ‘bottom-up’ non
debbano essere integrati da una guida più forte impressa dall’alto.
Anche se è corretto affermare che l’essenza della PESD è costituita
da capacità credibili, occorre compiere nuovi sforzi e progressi
reali. È cambiato il contesto di sicurezza strategico e le sfide si
fanno sempre più complesse, concrete, e potrebbero non consentire esitazioni o ritardi.
E per concludere
In cinque anni soltanto, in pratica anche meno, le realizzazioni
della PESD hanno superato di gran lunga le aspettative. Anche se
può essere ancora perfezionata, ha raccolto successi non solo in
teoria ma anche nelle applicazioni concrete. Le sfide sul piano
transatlantico e su quello globale sono pressanti: la più grande è
quella di dare risposte credibili per un contesto di sicurezza attuale
e futuro. Tali risposte richiederanno un nucleo strategico concen-
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trato e coeso, che dovrebbe includere anche un coordinamento e
una cooperazione ancora più intensi con la NATO e altre organizzazioni internazionali. La sicurezza e gli strumenti necessari per
salvaguardarla (e per affrontare tutti i possibili rischi o le eventuali
minacce) restano preziosi per tutte le parti in causa.
Gli strumenti possono variare: quello che conta è raggiungere
l’obiettivo della pace, della sicurezza e della stabilità.
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cinque anni
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Negli ultimi cinque anni tre progetti complessi hanno impegnato
l’Europa: l’introduzione dell’euro, l’allargamento dell’Unione ad
est, e la negoziazione di una Costituzione per l’Unione a 25. In tale
contesto è passato quasi del tutto inosservato un fatto estremamente importante: il graduale sviluppo di una politica estera e di
sicurezza comune. L’ossatura istituzionale ha preso forma, e si sta
progressivamente dotando di una forza militare. Per riprendere le
parole di Javier Solana, in questo settore l’Unione, abitualmente
così lenta, ha progredito alla velocità della luce da quando, nel
1999, è stata istituita la PESD.
Nonostante le divisioni dell’anno passato riguardo agli Stati
Uniti e alla guerra in Iraq, l’UE ha effettivamente compiuto un
salto di qualità. Ha creato strutture politiche, militari e di gestione
delle crisi, in particolare un comando militare e un’agenzia per gli
armamenti. Ha adottato per la prima volta una strategia europea
in materia di sicurezza. Dopo aver assorbito l’ex Unione dell’Europa occidentale, ha condotto le sue prime operazioni militari e
missioni di polizia indipendenti sotto la bandiera blu a dodici
stelle: in Congo (Artemis), in Bosnia-Erzegovina (EUPM), nell’ex
Repubblica jugoslava di Macedonia (Concordia e Proxima). Tuttavia, l’UE non ha progredito soltanto sul piano operativo, ma ha
acquistato contemporaneamente una dimensione strategica con
l’adozione della Strategia europea in materia di sicurezza di
Solana. È opportuno sottolineare al riguardo che nel progetto di
trattato costituzionale, su cui pure non si era trovato un accordo
nel dicembre 2003, tutte le clausole relative alla PESD erano state
approvate all’unanimità. L’Europa ha finalmente preso in mano la
situazione. Si è dotata di tutta una serie di strumenti, tra cui il meccanismo di sviluppo delle capacità per far fronte a determinate
carenze e l’Agenzia europea per gli armamenti incaricata del coordinamento della ricerca, dell’acquisizione e della produzione. Nel
complesso, si è assistito nel 2003 ad un’attuazione estremamente
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rapida della PESD. È stato portato a termine il lavoro preparatorio
per rendere l’UE uno dei principali attori strategici sulla scena
mondiale.
Anche adesso l’Unione non deve nascondere i suoi meriti. La
difesa europea non è più uno slogan privo di contenuto. ‘Nonostante le loro carenze, gli europei non sono militarmente impotenti’. È quanto afferma il generale Rainer Schuwirth, primo direttore generale dello Stato Maggiore dell’UE. I fatti confermano le
sue parole.
Il ruolo degli europei non è irrilevante: tutt’altro. Sono subentrati nelle operazioni condotte praticamente in tutti i punti caldi
dei Balcani: Bosnia, Kosovo, ex Repubblica jugoslava di Macedonia, Albania. Con 30.000 uomini messi a disposizione dagli Stati
dell’UE, l’Europa ha inviato più truppe nei Balcani degli stessi
Stati Uniti. Entro la fine del 2004 l’UE assumerà quasi interamente la conduzione dell’operazione in Bosnia-Erzegovina.
Anche in Afghanistan le truppe europee, con uno schieramento di
circa 7.000 uomini, sono numericamente superiori a quelle statunitensi, e gli Stati membri dell’UE continueranno a fornire un contributo importante se e quando la NATO subentrerà nelle operazioni in tutto il territorio afghano.
Un generale tedesco ha assunto il comando dell’ISAF a Kabul.
Navi tedesche e spagnole pattugliano le acque dell’Oceano
Indiano intorno al Corno d’Africa. Forze speciali danesi, insieme
ad altre forze europee, sono in missione nel sud dell’Afghanistan,
mentre truppe speciali svedesi hanno operato sotto comando
francese in Congo.
Gli europei si sono resi conto che non è possibile condurre una
politica estera efficace senza un credibile sostegno militare. Riconoscono, come testimonia la strategia europea in materia di sicurezza, che la loro prima linea di difesa nel mondo caotico di oggi si
situerà spesso all’estero. Hanno ormai superato le antiche inibizioni rispetto allo schieramento di truppe al di fuori dell’area
NATO. Pur favorevoli ad un intervento tempestivo, rapido e, se
necessario, energico, essi non escludono l’azione preventiva, sebbene considerino il ricorso alla forze armata solo come ultima ratio,
come una delle tante possibilità offerte dalla gamma di strumenti
diplomatici, economici e della politica di sviluppo.
Vi è una crescente presenza militare europea sul terreno. L’Eurocorpo, composto di unità belghe, francesi, tedesche e spagnole,
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è servito da modello sia per il corpo tedesco-olandese, che per
quello formato da forze tedesche, danesi e polacche. La costituzione di una forza di reazione rapida capace di schierare 60.000
uomini entro 60 giorni e per un anno intero è un processo che può
essere estremamente lento. Sta comunque progredendo, e
amplierà considerevolmente il quadro della cooperazione, strutturata o di altra natura.
Fatto ancor più importante, gli europei hanno cominciato, con
consapevolezza e grande determinazione, ad ovviare alle carenze
delle loro forze armate. Sono già passati per lo più, o sono sul
punto di farlo, dalla leva obbligatoria alla leva professionale. Che
si tratti degli accordi ‘Berlin plus’ o dell’‘obiettivo primario di Helsinki’, stanno procedendo al rafforzamento delle loro capacità. È
in via di realizzazione una serie di progetti: una flotta da trasporto
aereo a lungo raggio (A400M), un sistema di ricognizione satellitare autonomo (Galileo), centinaia di elicotteri da trasporto leggero, nuove armi a guida di precisione. È stata intensificata la
cooperazione fra le industrie della difesa degli Stati dell’UE, di cui
l’esempio più significativo è la fusione sfociata nell’EADS. I nostri
sforzi stanno diventando più mirati. Il peso dell’Europa in seno
alla NATO sarà indubbiamente maggiore, cosa che gli americani
hanno sempre affermato di volere.
Le disparità, le asimmetrie e i divari fra Stati Uniti ed Europa, di
cui si deplorava l’esistenza già prima della fine della guerra fredda,
erano la normale conseguenza delle esigenze strategiche imposte
agli europei durante il conflitto Est-Ovest. Si trattava di difendere
l’Europa occidentale lungo la cortina di ferro contro la supremazia convenzionale dell’Unione Sovietica. Per quarant’anni, il problema è stato l’invio quanto più rapido possibile di truppe lungo la
cortina di ferro, anziché la proiezione di forze su lunghe distanze.
L’adattamento degli strumenti militari alla nuova situazione della
sicurezza creatasi al termine della guerra fredda non poteva che
essere un processo lungo e laborioso, anche nelle circostanze più
favorevoli. Lo sviluppo di nuove tecnologie, di nuove strutture
militari e di nuovi sistemi di approvvigionamento e produzione
richiede tempo. Se è vero che gli europei avrebbero potuto procedere più rapidamente, ora hanno ingranato la marcia superiore.
L’Unione continuerà inevitabilmente ad avere 25 ministri degli
esteri, 25 ministri della difesa e 25 eserciti. Vi saranno tuttavia una
coerenza e una coesione sempre maggiori. Gli europei hanno fatto
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propri gli insegnamenti tratti dalle recenti operazioni di mantenimento della pace in teatri remoti. Tenuto conto dei vincoli di
bilancio, delle esigenze dell’ONU e della necessità di allontanare le
nuove minacce, è indispensabile una maggiore integrazione. A
rigor di logica la tappa successiva nell’evoluzione dell’UE
dovrebbe essere un’Unione europea di sicurezza e di difesa.
Inevitabilmente, l’Unione continuerà anche ad avere 25 ministri delle finanze e, quindi, 25 bilanci della difesa. Vi saranno
sovrapposizioni, duplicazioni e anche qualche spreco. È una situazione che si verifica anche altrove: ad esempio il bilancio del Pentagono, anziché tener conto delle esigenze delle forze armate,
viene spesso stabilito in base a considerazioni di stampo elettoralistico. Nel complesso è inutile negare, tuttavia, che la capacità dei
nostri apparati militari combinati è molto inferiore a quella che
potrebbero produrre o mettere in campo strutture più integrate.
Di fatto, al di fuori degli Stati Uniti, nessun altro paese eguaglia
le forze riunite dell’Unione europea. L’UE a 25 dispone di
1.900.000 uomini e donne in uniforme, a fronte del contingente
USA di 1.400.000 uomini. Nel 2002, il Regno Unito, la Francia e la
Germania hanno speso per la difesa 90 miliardi di USD, e la spesa
dell’UE a 25 nel settore della difesa è stata pari a 175 miliardi di
USD. Questa cifra può sembrare modesta in confronto ai 350
miliardi di USD spesi dagli Stati Uniti nello stesso anno (nell’esercizio attuale tale spesa è più vicina ai 500 miliardi di USD), ma è
più di quanto non abbiano speso per le loro forze armate Russia,
Cina e Giappone messi insieme. La sfida per gli europei non è
tanto spendere di più, quanto spendere in modo più avveduto ed
efficace. E per farlo non c’è che una soluzione: spendere assieme.
Non occorre che gli europei si mettano alla pari con gli americani: non avrebbe alcun senso, dato l’eccessivo spreco di risorse
degli Stati Uniti in campo militare. Pur avendo uno spirito globale, l’Europa non ha pretese egemoniche. Promuoverà la democrazia nel mondo ma non si servirà, per farlo, di mezzi militari.
Rifugge dalle guerre ‘per scelta’: guerre per la democratizzazione,
per il disarmo, per sconfiggere il male. Non ha ambizioni territoriali. Non intende piegare gli altri alle proprie convinzioni e ai propri valori, sapendo perfettamente che non è possibile garantire
ovunque l’ordine e il buon governo. Il progresso può nascere soltanto dal raffronto delle idee, non dallo scontro armato. Se è vero
che il potere di coercizione è indispensabile in un mondo minac-
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ciato dal terrorismo, dalla proliferazione delle armi di distruzione
di massa, dai conflitti regionali, da Stati in corso di fallimento e
dalla criminalità organizzata transfrontaliera, anche il potere di
persuasione ha un suo posto e una sua utilità. La persuasione
diplomatica, il compromesso e la conciliazione, i regimi istituiti
nel quadro di trattati e accordi internazionali, e gli incentivi economici sono altrettanti strumenti da non disdegnare. Come ai
tempi della guerra fredda, l’opera di contenimento sarà in molti
casi preferibile all’uso di una forza eccessiva. Qualunque sia il
potere esercitato, di coercizione o di persuasione, ciò che importa
in fin dei conti è usarlo con intelligenza.
L’Europa dovrebbe inoltre rifuggire dalla frenesia tecnologica
che negli Stati Uniti ha accompagnato in modo così evidente la
‘rivoluzione negli affari militari’. Un’incursione ‘ad alta tecnologia’ può vincere una guerra asimmetrica, ma non la pace. Può rovesciare i tiranni, ma non può di per sé creare un nuovo ordine: questo è quanto ci ha insegnato ancora una volta l’esperienza in Iraq.
Le forze armate statunitensi sono riuscite a far cadere Saddam
Hussein, ma stanno incontrando serie difficoltà nel sopraffare
qualche centinaio di insorti che combattono nella città irachena di
Falluja.
La PESD ha solo cinque anni di vita. Non è molto. Sappiamo
dagli sforzi d’integrazione compiuti in altri settori che la capacità
di stare insieme non si acquista da un giorno all’altro. Integrazione e innovazione saranno ancor più difficili da ottenere in
campo militare, visto che gli Stati membri si aggrappano a quest’ultimo simbolo di sovranità nazionale. È quanto si è verificato
nel periodo di formazione degli Stati Uniti: inizialmente sono
stati conclusi accordi nel settore del commercio interstatale, in
seguito è stato introdotto il dollaro come valuta unica; e solo alla
fine, dopo aver combattuto le prime guerre con milizie statali, è
stato costituito un esercito federale. L’Europa dovrà senza dubbio
percorrere lo stesso cammino.
La politica europea in materia di sicurezza e di difesa costituisce un inizio straordinario, ma è solo un inizio sulla cui base
dovremo proseguire senza esitazioni e senza indugio. Ci dobbiamo dotare di forze flessibili, mobili e moderne capaci di proiettarsi oltre le frontiere della guerra fredda. Un comando europeo e
forse un ministro europeo della difesa non dovrebbero essere prospettive troppo remote. Nel mondo caotico di questi primi anni
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del XXI secolo, la forza non è l’unica soluzione. Eppure senza un
apparato militare rispettabile l’Europa non potrà negoziare un
nuovo patto transatlantico, né potrà assumersi le sue responsabilità in un mondo in cui il multilateralismo è un modo efficace di
far fronte alle minacce attuali e future, anziché una vacua pretesa.
Questo potenziamento della forza militare non equivale in
alcun modo ad una ‘militarizzazione’ dell’Unione europea, contrariamente a quanto alcuni sostengono. È una questione di
dignità, di capacità di fare sentire il proprio peso sulla scena mondiale, e anche di necessità, se vogliamo fronteggiare i nuovi pericoli
che hanno sostituito l’antica minaccia sovietica.
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A lungo considerata materia di discordia tra i Quindici, la difesa
europea li ha infine ravvicinati. Aspetto a lungo trascurato della
costruzione europea - come un progetto vago che rientrava periodicamente nelle discussioni per essere rapidamente abbandonato,
perché in definitiva la situazione non era matura e in ogni caso presupponeva troppe cessioni di sovranità per formare oggetto di consenso - la difesa europea si è in fin dei conti imposta, grazie a una
serie di circostanze favorevoli, al punto da apparire il solo risultato
politico raggiunto in occasione del vertice dei capi di Stato e di
governo dei 25 del dicembre 2003. Ha quindi monopolizzato le
prime pagine della stampa internazionale, tanto più che nessuno si
faceva illusioni sulle possibilità di conseguire un accordo sulla
Costituzione europea e sulla riforma intesa ad adeguare le istituzioni comunitarie per poter accogliere i dieci nuovi Stati membri.
Fino ad allora i soli incontri in materia di difesa che richiamavano l’attenzione delle redazioni erano quelli dell’Alleanza atlantica. La fine della guerra fredda, che ha accentuato la sensazione di
una certa obsolescenza della NATO (prima che questa rinascesse a
‘seconda vita’ uscendo dalla zona euro-atlantica); l’assunzione di
maggiori responsabilità da parte delle truppe europee nei Balcani,
che ha evidenziato gravi lacune militari e la necessità di colmarle,
nonché la volontà dell’America di disimpegnarsi parzialmente da
una regione della cui sorte spetta naturalmente agli europei farsi
carico; infine, l’11 settembre e le sue conseguenze, a partire dalla
priorità data alla lotta al terrorismo: sono tutti fattori che hanno
modificato la situazione. L’attenzione che ora i media rivolgono
alle riunioni dei ministri europei della difesa è uno dei segni della
rivoluzione che il panorama strategico attraversa dopo un’immobilità durata decenni, e da dove emerge lentamente la volontà degli
europei di farsi carico della difesa del loro continente e di svolgere
un ruolo nella soluzione dei conflitti nel mondo. Resta indubbiamente ampio il divario tra questa volontà politica, espressa più o
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meno intensamente in Europa, e i mezzi di bilancio a suo sostegno. Si vede peraltro che le costrizioni del Patto di stabilità sono
talvolta addotte come facili scuse da alcune capitali, consapevoli
che spendere il denaro dei contribuenti in sistemi di armamenti
non è la migliore delle ricette elettorali.
Questo giudizio meriterebbe tuttavia di essere relativizzato alla
luce della crescente adesione dei cittadini europei alla politica di
sicurezza e di difesa comune - che oggi approvano, secondo un
recente sondaggio dell’Eurobarometro, a grande maggioranza
(74%). L’accordo raggiunto nel vertice di Berlino del novembre
2003 tra Jacques Chirac, Tony Blair e Gerhard Schröder (prima di
essere confermato dal Consiglio europeo) è pertanto il risultato di
una presa di coscienza. È fondamentale sotto tre aspetti. Innanzitutto per la difesa europea, in quanto la creazione di una ‘capacità
di pianificazione e di conduzione di operazioni’ militari europee,
in altri termini l’embrione di un quartier generale europeo, è il
tanto cercato elemento simbolico dell’’autonomia’ dell’Europa
della difesa, o almeno dei suoi inizi. Con l’istituzione della ‘clausola di difesa reciproca’ e le ‘cooperazioni strutturate’, non è esagerato parlare di un balzo in avanti del progetto della difesa europea.
In secondo luogo, è fondamentale sul piano politico, poiché è
grazie alla difesa europea che Jacques Chirac e Gerhard Schröder si
sono potuti riavvicinare a Tony Blair, da cui si erano allontanati
così nettamente quando il primo ministro britannico si era allineato risolutamente a George W. Bush in occasione dell’intervento in Iraq. Paradossalmente la difesa europea, che pure ha contribuito a inasprire le relazioni tra la ‘vecchia Europa’ e
Washington, ha anche contribuito a superare, almeno provvisoriamente, l’incrinatura delle relazioni transatlantiche.
Infine è fondamentale per l’Europa, in quanto ha mostrato che
quando la Francia, la Germania e la Gran Bretagna si mettono
d’accordo, la loro capacità di trascinare e la loro forza di persuadere i partner europei risultano quasi irresistibili. In un’Europa a
25, in cui la ricerca del consenso diventa sempre più aleatoria, la
lezione merita di essere ricordata, perché verosimilmente prefigura il modello delle alleanze - le ‘cooperazioni rafforzate’ o i
‘gruppi pionieri’ - che consentiranno domani all’Europa allargata
di proseguire la sua costruzione.
La sequenza di eventi che ha portato a maturità la difesa europea è istruttiva per più di un verso, ma innanzitutto perché sotto272
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linea la forza e l’ambiguità del legame transatlantico. Dall’incontro franco-britannico di Saint-Malo del dicembre 1998, la difesa
europea ha un’evoluzione che quasi ricalca quella dell’Alleanza
atlantica. Le due organizzazioni sono diventate strettamente
interdipendenti. Hanno seguito una strategia identica, allargandosi sostanzialmente agli stessi paesi, esigendo da questi riforme
stranamente simili quale condizione di ammissione al loro ‘club’.
Negli ultimi quattro anni si sono sorvegliate, talvolta copiandosi
(ad esempio creando entrambe una forza di reazione rapida,
seguita da unità ancora più rapide, quasi nel tentativo di superarsi
reciprocamente), finendo poi col tollerarsi. Il futuro dirà se sarà
possibile prevedere una sorta di ripartizione dei compiti, che
sarebbe in tal caso più geografica che politica, dato che le missioni
di Petersberg, nella loro dimensione più ampia, coprono praticamente l’intera gamma delle operazioni di prevenzione dei conflitti
e ristabilimento della pace che l’Unione potrebbe dover compiere
per difendere i suoi interessi.
Le difficoltà incontrate nel potenziamento della difesa europea
sono dovute, allo stesso tempo, alla pavidità dei suoi dirigenti politici, alla fragilità del consenso di cui godono, agli stretti margini di
manovra finanziari di cui dispongono, ma anche al fatto che l’amministrazione americana, a lungo ossessionata dal rischio di un
‘doppione’ - cioè di una concorrenza e di un indebolimento della
NATO con una conseguente perdita di influenza degli Stati Uniti
in Europa - si è accanita a disseminare di insidie il suo cammino. La
difesa europea si è fatta strada a forza, lottando contro i pregiudizi,
la diffidenza e, sostanzialmente, l’opposizione della maggior parte
dei dirigenti americani, a cominciare dal segretario alla Difesa
Donald Rumsfeld, dal consigliere per la sicurezza nazionale Condoleezza Rice, e dal numero 2 del Pentagono Paul Wolfowitz. Washington ha trovato in Lord Robertson, segretario generale dell’Alleanza atlantica, un avvocato zelante dei suoi pregiudizi riguardo
alla difesa europea. Eppure è un altro britannico che ha consentito
a quest’ultima di decollare: Tony Blair è stato il tramite che ha permesso alla relazione euroamericana di passare dal conflitto al consenso. Il primo ministro britannico, che ha sempre giustificato con
i suoi omologhi europei la ‘relazione speciale’ che la Gran Bretagna
intrattiene con Washington con la sua vocazione a fungere da
‘ponte’ tra il vecchio continente e l’America, è di fatto il promotore
dello ‘spirito di Saint-Malo’ - anche se in seguito, richiamato all’ordine da Washington, ne ha preso le distanze.
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All’avvio dato dal trattato di Amsterdam (nel 1997) non è
seguita l’attuazione delle disposizioni della politica estera e di
sicurezza comune (PESC). La crisi in Kosovo, che ha mostrato agli
europei che non disponevano dei mezzi strategici per ristabilire da
soli la sicurezza nei Balcani, alle porte di casa loro, ha dato il primo
salutare impulso. Il secondo, più determinante seppur indiretto, è
stato la prospettiva dell’avvio della moneta unica europea, il
1º gennaio 1999. Tony Blair è consapevole che attraverso il dossier
della difesa può rompere l’isolamento di Londra e riportarla nel
‘cuore dell’Europa’ per assumervi un ruolo di leadership. Ad ogni
modo, l’euro è stato varato, l’allargamento è ben avviato ed è facile
capire che l’unico grande progetto per l’Europa è l’elaborazione di
una politica estera e di difesa comune. A Saint-Malo è stato detto
tutto o quasi: l’Unione deve avere una capacità d’azione autonoma, sostenuta da forze militari credibili, con i mezzi per utilizzarle e la disponibilità a farlo (...). Per poter prendere le decisioni e,
quando l’Alleanza in quanto tale non è impegnata, per approvare
azioni militari, l’Unione europea deve dotarsi di strutture appropriate.
Tutto è stato detto. Ciò non ha però impedito una guerra di
trincea, durata quattro anni, tra l’Alleanza e l’Unione, guerra al
contempo politica, concettuale e, a volte, semantica: quante esegesi del termine ‘autonomia, del ‘diritto di primo rifiuto’ che l’espressione ‘quando l’Alleanza in quanto tale non è impegnata’
implicherebbe o meno! Queste tensioni sono state esasperate dal
conflitto in Iraq e dalle relazioni di ciascun paese europeo con l’America, come si è visto in occasione della crisi della NATO del gennaio-febbraio 2003. Nonostante il forte slancio impresso dalle
decisioni dei vertici di Colonia (giugno 1999) e Helsinki (dicembre
1999), che hanno permesso di delineare chiaramente l’’obiettivo
primario’ di 60.000 uomini, la difesa europea dà spesso all’opinione pubblica la sensazione di essere immobile.
Paradossalmente, è stato il conflitto iracheno che le ha consentito di compiere un passo avanti decisivo. In quanto, man mano
che l’esercito e la diplomazia americana e il loro alleato britannico
si impantanavano in Iraq, e alla luce delle rivelazioni sempre più
imbarazzanti (il caso David Kay, la polemica sulle armi di distruzione di massa), il gregarismo di Tony Blair diventava sempre più
costoso in termini politici. Soprannominato dalla stampa popolare il ‘barboncino’ di George Bush, il primo ministro britannico si
è alienato molte simpatie in Europa, intaccando seriamente il
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capitale guadagnato grazie alla reputazione di premier britannico
più europeista dalla fine della seconda guerra mondiale. Come nel
1998 a Saint-Malo, il premier ha capito di dover bilanciare gli
effetti negativi del pro-americanismo militante della Gran Bretagna ‘ritornando’ in Europa con un gesto forte.
Sottolineare il contributo dato da Tony Blair per alimentare il
motore della difesa europea non significa negare il ruolo fondamentale svolto dal ‘vertice dei Quattro’ tenutosi il 29 aprile 2003 a
Tervuren, che ha visto la partecipazione di Francia, Germania, Belgio e Lussemburgo. Perché senza questa iniziativa - troppo presto
criticata per essere stata decisa in fretta e in un momento poco
opportuno (nel clima transatlantico inasprito dalla crisi irachena)
che poteva soltanto farla apparire una provocazione agli occhi di
Washington e Londra - l’adesione di Tony Blair alle proposte di
Jacques Chirac e Gerhard Schröder sarebbe stata priva di fondamento. I Quattro hanno ricordato che l’Unione avrà una vera politica estera comune soltanto se si doterà di una difesa credibile. Il
possesso di un simile strumento, che presuppone un accordo sulle
condizioni di impiego, accelererà la formazione di un consenso
europeo sullo stato del mondo. Questo approccio è coerente con la
decisione dei Quindici di elaborare una ‘strategia europea in materia di sicurezza’ che, fortemente alimentata dalle paure dell’11 settembre, ci si è presto resi conto pone eccessivamente l’accento
sull’‘azione preventiva’, se non sulla ‘guerra preventiva’. Le proposte del 29 aprile sembrano innovatrici ma, di fatto, riprendono più
o meno quelle della Convenzione europea (che ha dato origine alla
Costituzione europea), del documento franco-tedesco del novembre 2002 e del vertice franco-britannico di Tolosa del febbraio
2003. L’elemento controverso del vertice di Tervuren consiste
ovviamente nella volontà di dotarsi di un ‘nucleo di capacità collettiva di pianificazione e conduzione delle operazioni’, che fa
temere a Washington, e in minor misura a Londra, una volontà di
creare una versione europea di SHAPE, il quartiere generale delle
potenze alleate in Europa.
Le pressioni esercitate dagli americani sul premier britannico
per indurlo a rinunciare all’impegno assunto al vertice di Berlino
si sono moltiplicate nel corso di un intenso braccio di ferro diplomatico. I partner della Gran Bretagna hanno tuttavia aiutato Londra ad attenuare la pressione di Washington, anche attraverso una
strumentalizzazione mediatica. Rivelando prematuramente che
la Gran Bretagna aveva aderito a un compromesso sulla difesa
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Attori e testimoni
europea, la Francia e la Germania hanno creato un fatto compiuto: l’accordo, annunciato dal giornale Le Monde, ha reso impossibile un voltafaccia britannico, e gli americani hanno finito per
capirlo e per gettare la spugna.
L’abbozzo di un ‘quartier generale europeo’, la possibilità che
alcuni paesi creino un ‘gruppo pioniere’ per far avanzare più rapidamente la difesa europea (le ‘cooperazioni strutturate’), la clausola di difesa reciproca, la creazione dell’‘Agenzia europea per gli
armamenti, la ricerca e le capacità militari’, la creazione progressiva di un comando europeo di trasporto strategico in collegamento con il programma dell’A-400 M, la messa in orbita della
‘costellazione Galileo’, che costituisce il programma europeo di
posizionamento via satellite, sono alcuni degli strumenti che
garantiranno, in prospettiva, la credibilità della difesa europea.
Il dibattito sulla questione se la difesa europea debba contentarsi di diventare il ‘pilastro europeo’ della NATO o acquisire una
propria ‘autonomia’ è di ordine puramente teorico, ed è in parte
già superato dagli eventi. La presenza di truppe europee in Bosnia,
in Kosovo, nell’ex Repubblica jugoslava di Macedonia, in Afghanistan e, soprattutto, in Congo è di per sé già una risposta, a patto
che i governi europei facciano gli sforzi necessari in termini di
bilancio. Da questo punto di vista, l’inerzia di alcuni paesi non
induce all’ottimismo: potrà tuttavia solo rallentare la creazione
della difesa europea, non fermarne il corso. La difesa europea
genererà ancora molti attriti con l’America e la NATO, ma dispone
ormai delle strutture istituzionali e politiche per avanzare risolutamente.
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Annessi
Cronologia1
9-10 dicembre 1991
Trattato di Maastricht sull’Unione europea (TUE)
I dodici paesi membri definiscono una politica estera e di
sicurezza comune (PESC). L’articolo J.4 stipula che ‘la politica estera e di sicurezza comune comprende tutte le questioni relative alla sicurezza dell’Unione europea, ivi compresa la definizione a termine di una politica di difesa
comune’. L’Unione chiede inoltre ‘all’Unione dell’Europa
occidentale (UEO) di elaborare e di porre in essere le decisioni e le azioni dell’Unione aventi implicazioni nel settore
della difesa’. Il TUE entra in vigore nel novembre 1993.
19 giugno 1992
Dichiarazione di Petersberg2
Il Consiglio dei ministri dell’UEO a Petersberg, presso
Bonn, definisce i ‘compiti di Petersberg’, che includono
‘missioni umanitarie e di soccorso, attività di mantenimento della pace e missioni di unità di combattimento
nella gestione di crisi, ivi comprese missioni tese al ristabilimento della pace’.
3 giugno 1996
Consiglio della NATO a Berlino
I ministri degli affari esteri della NATO riuniti a Berlino
convengono di sviluppare una identità di sicurezza e difesa
europea nell’ambito della NATO che consente ad ufficiali
europei nell’ambito della NATO di occupare in parallelo
posizioni di comando nella struttura dell’UEO. Concordano inoltre che le strutture e i mezzi della NATO siano
disponibili per future missioni militari dirette dall’UEO.
16-17 giugno 1997
Trattato di Amsterdam
Il trattato inserisce i ‘compiti di Petersberg’ nell’ambito
della PESC (art. 17) e istituisce il posto di Segretario Generale/Alto Rappresentante per la PESC (SG/AR). Il trattato
riveduto entrerà in vigore nel maggio 1999.
1.Cronologia elaborata in collaborazione con Timo Behr, stagiaire all’Istituto di studi per la sicurezza
2. Gli avvenimenti in corsivo sono
significativi per lo sviluppo della
PESD anche se si sono svolti al di
fuori del quadro istituzionale dell’UE.
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1998
Presidenza austriaca
6 luglio
Lettera di intenti (LoI)
Germania, Spagna, Francia, Italia, Regno Unito e Svezia
firmano una lettera di intenti al fine di agevolare la ristrutturazione transnazionale dell’industria europea della
difesa.
9 settembre
Convenzione OCCAR
Germania, Francia, Italia e Regno Unito firmano un trattato che istituisce la ‘Organizzazione congiunta per la
cooperazione in materia di armamenti’ (OCCAR) al fine di
migliorare la gestione dei progetti comuni di armamento.
24-25 ottobre
Consiglio europeo informale di Pörtschach
Per la prima volta il Regno Unito rinuncia alle sue obiezioni nei confronti di una difesa europea.
4 novembre
Incontro informale dei ministri della difesa a Vienna
I ministri della difesa discutono per la prima volta di difesa
nell’ambito istituzionale europeo.
3-4 dicembre
Vertice franco-britannico di Saint-Malo
Il Primo ministro britannico e il presidente francese fanno
una dichiarazione comune sulla difesa europea favorevole
alla creazione di una capacita’ militare ‘autonoma’ e credibile per la gestione delle crisi internazionali.
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1999
Presidenza tedesca
6-23 febbraio
Negoziati di Rambouillet
I negoziati di pace sul Kosovo tra serbi e albanesi del
Kosovo si svolgono a Rambouillet (Francia).
12 marzo
Allargamento della NATO
Ungheria, Polonia e Repubblica ceca diventano membri
della NATO a seguito della decisione del Consiglio del
Nordatlantico del luglio 1997.
13-14 marzo
Riunione informale dei ministri degli affari esteri dell’Unione europea
Proposta tedesca per una politica comune in materia di
sicurezza e di difesa.
18-19 marzo
Firma degli accordi di Rambouillet
I rappresentanti degli albanesi del Kosovo firmano un
accordo di pace provvisorio. A seguito del rifiuto di firma da
parte dei rappresentanti della Repubblica federale di Jugoslavia (RFY) i negoziati vengono sospesi.
24 marzo
Guerra del Kosovo
La NATO lancia attacchi aerei contro obiettivi militari
situati nella Repubblica federale di Jugoslavia.
23-25 aprile
Vertice della NATO a Washington
In occasione del vertice per il cinquantesimo anniversario
della NATO i capi di Stato adottano un nuovo concetto
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strategico ed una iniziativa per promuovere le capacità
militari. Essi si dichiarano disposti a sostenere le missioni
dell’Unione europea sulla base degli accordi ‘Berlin plus’.
Viene ribadito il principio di forze ‘separabili, ma non separate’.
29 maggio
Vertice franco-tedesco di Tolosa
Proposta franco-tedesca di mettere l’Eurocorpo a disposizione dell’Unione europea per operazioni di gestione di
crisi.
3-4 giugno
Consiglio europeo di Colonia
Durante tale Consiglio, Javier Solana è nominato SG/AR
ed i dirigenti europei collegano le capacità di difesa europee ai ‘compiti di Petersberg’. Trasferimento di alcune
competenze dell’UEO all’Unione europea. Quando il processo sara’ completato, ‘l’UEO avrà concluso la sua missione in quanto organizzazione’.
10 giugno
Fine della guerra in Kosovo
La NATO sospende gli attacchi aerei dopo l’accordo del
presidente Milosevic di ritirare le sue truppe dal Kosovo
dopo 78 giorni di attacchi aerei.
11 giugno
Le truppe della KFOR entrano in Kosovo
21 giugno
Vertice Stati Uniti/Europa a Bonn
L’Unione europea e gli Stati Uniti annunciano la nuova
agenda transatlantica onde rafforzare il proprio partenariato e prevenire o gestire crisi internazionali.
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Presidenza finlandese
Luglio
Relazione ad hoc di gruppi di lavoro sulla questione della ristrutturazione dell’industria di difesa europea
Sei gruppi ad hoc istituiti sulla base della lettera di intenti
del 1998 presentano i propri risultati. Viene creato un
comitato esecutivo con il compito di preparare un accordo
quadro finale.
20 luglio
Vertice italo-britannico di Londra
Lancio della ‘European Defence Capabilities Initiative’
(EDCI).
14 ottobre
Istituzione di EADS
A Strasburgo Gerhard Schröder, Jacques Chirac, Jean-Luc
Lagardère e Jürgen Schrempp annunciano la fusione di
Dasa e Matra-Aérospatiale. Il nuovo gruppo si denominerà
EADS (European Aeronautic Defense and Space Company).
18 ottobre
Javier Solana assume le funzioni di primo SG/AR
15 novembre
Prima riunione comune tra i ministri della difesa e
degli affari esteri dell’Unione europea a Bruxelles
19 novembre
Javier Solana è nominato Segretario Generale dell’UEO
22-23 novembre
Consiglio dei ministri dell’UEO a Lussemburgo
Inventario dei mezzi e delle capacità disponibili per operazioni di gestione di crisi attuabili da parte dell’Unione
europea.
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25 novembre
Vertice franco-britannico di Londra
Dichiarazione comune sulla difesa europea che prefigura
Helsinki.
2 dicembre
CASA si associa a EADS
Firma di un accordo per integrare il gruppo aerospaziale e
di difesa spagnolo CASA a EADS.
10-11 dicembre
Consiglio europeo di Helsinki
I governi europei raggiungono un accordo sull’obiettivo
primario (headline goal) (60.000 uomini entro il 2003, in
grado di essere schierati nell’arco di 60 giorni e la cui missione potrà durare fino a un anno); sulle modalità di una
completa cooperazione tra l’Unione europea e la NATO, e
sulle condizioni di consultazione con i paesi candidati
all’Unione europea, i paesi europei non membri della
NATO ed i partners dell’UEO. Per tali compiti deve essere
creata una nuova struttura istituzionale, che comprende
segnatamente un Comitato politico e di sicurezza (CPS)
interinale, il Comitato militare interinale e uno Stato Maggiore, nonché un Centro di situazione (SitCen). Inoltre,
verranno organizzate riunioni ad hoc del Consiglio affari
generali (CAG) con la partecipazione, all’occorrenza, dei
ministri della difesa.
2000
Presidenza portoghese
28 febbraio
I ministri della difesa europei si incontrano a Sintra
La conferenza pone le basi per la futura conferenza sui
rispettivi impegni in termini di capacità militari.
Marzo
I comitati interinali PESD cominciano i lavori
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23-24 marzo
Consiglio europeo informale di Lisbona
Decisione di istituire un comitato per la gestione civile
delle crisi a livello europeo.
27 marzo
Vladimir Putin è eletto presidente della Russia
18 aprile
L’Eurocorpo assume il comando della KFOR durante sei mesi
22 maggio
L’Unione europea instaura il suo comitato per la
gestione civile delle crisi
19-20 giugno
Consiglio europeo di Santa Maria da Feira
I dirigenti europei decidono di istituire quattro comitati
ad hoc UE/NATO su: sicurezza e obiettivi di capacità;
modalità di utilizzazione dei mezzi della NATO; meccanismi permanenti di consultazione. Essi definiscono inoltre
un obiettivo primario (headline goal) di 5.000 agenti di
polizia per tutte le varie missioni connesse alla prevenzione
dei conflitti.
Presidenza francese
27 luglio
Accordo quadro LoI sull’industria europea di difesa
A seguito dei lavori di un comitato direttivo sulla ristrutturazione dell’industria di difesa europea, istituito nel
1998, è firmato un accordo quadro al Farnborough Air
Show. I firmatari sono Germania, Spagna, Francia, Italia,
Regno Unito e Svezia.
19 settembre
Prima riunione comune del Consiglio del Nordatlantico e del Comitato politico e di sicurezza interinale
13 novembre
Consiglio dell’UEO a Marsiglia
Trasferimento delle funzioni di gestione di crisi dall’UEO
all’Unione europea.
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20 novembre
Conferenza sull’impegno di capacità a Bruxelles
Gli Stati membri si impegnano ad un contributo di
100.000 uomini, 400 aerei da combattimento e 100 navi,
che costituirà la futura forza di reazione rapida.
6-12 dicembre
Consiglio europeo di Nizza
I dirigenti europei ridefiniscono gli obiettivi primari, stabiliscono strutture militari e politiche nonché meccanismi
permanenti di consultazione e discutono sulla definizione
e istituzione finale delle capacità europee. La nuova revisione del trattato dell’Unione europea è finalizzata. Per
quanto riguarda la PESD, il CPS forma oggetto del nuovo
articolo 25. Le cooperazioni rafforzate sono autorizzate
per le questioni di politica estera, ma non per la difesa (art.
27). Vengono inoltre accettate le direttive concernenti l’istituzione delle operazioni militari. Il trattato entra in
vigore nel febbraio 2003.
14-15 dicembre
Consiglio atlantico a Bruxelles
La Turchia mette il veto all’accesso dell’Unione europea
alle strutture di pianificazione della NATO.
2001
Presidenza svedese
20 gennaio
George W. Bush entra ufficialmente in carica e diventa il 43° presidente degli Stati Uniti
28 gennaio
L’organizzazione congiunta per la cooperazione in materia di
armamenti (OCCAR) è dotata di status giuridico
31 gennaio
Prima riunione tra il Consiglio Atlantico e il CPS
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1° marzo
Il generale tedesco Rainer Schüwirth è nominato
primo direttore generale dello Stato maggiore europeo
9 aprile
Il generale finlandese Gustav Hägglund è nominato
capo del Comitato militare dell’Unione europea
14 maggio
Memorandum d’intesa
Il memorandum d’intesa tedesco-olandese mette l’accento
sulla cooperazione reciproca al fine di rafforzare le capacità europee in materia di trasporto aereo.
15 maggio
18 Stati del Gruppo ‘Armamenti dell’Europa occidentale’
(GAEO) firmano un memorandum d’intesa.
29-30 maggio
Vertice UE-NATO a Budapest
Prima riunione comune dei ministri degli affari esteri della
NATO e dell’Unione europea
12 giugno
Consiglio franco-tedesco di difesa e sicurezza a Friburgo
Germania e Francia si impegnano a promuovere la politica
europea nel settore della sicurezza e della difesa.
12 giugno
Prima riunione dei Comitati militari dell’Unione
europea e della NATO
15-16 giugno
Consiglio europeo di Göteborg
I dirigenti europei raggiungono un accordo su nuovi obiettivi relativi agli aspetti civili della gestione delle crisi e adottano il ‘Programma dell’Unione europea per la prevenzione dei conflitti violenti’.
28 giugno
Lo statuto dell’UEO è modificato: viene mantenuto un elemento
residuo a Bruxelles
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Presidenza belga
17-20 agosto
La NATO lancia l’operazione ‘Essential Harvest’ in FYROM
La NATO schiera 400 uomini nell’ex Repubblica di Macedonia al fine di disarmare i ribelli albanesi.
11 settembre
Attacchi terroristi a New York e Washington
Il giorno successivo il Consiglio atlantico invoca per la
prima volta l’articolo 5 del Trattato di Washington. In
occasione di una riunione speciale, il Consiglio Affari
generali e relazioni esterne (CAGRE) esprime la propria
solidarietà agli Stati Uniti.
21 settembre
Riunione straordinaria del Consiglio europeo a Bruxelles
I dirigenti europei esprimono la loro solidarietà nei confronti degli Stati Uniti e stabiliscono un piano d’azione per
la lotta contro il terrorismo.
7 ottobre
Gli Stati Uniti lanciano attacchi aerei contro l’Afghanistan
Insieme al Regno Unito gli Stati Uniti lanciano attacchi
aerei contro obiettivi in Afghanistan. Germania, Australia,
Canada e Francia danno il loro contributo all’operazione
militare ‘Enduring Freedom’ diretta dagli Stati Uniti.
19 ottobre
Riunione informale dei capi di Stato e di governo a
Gand
Pubblicazione dell’elenco delle misure e iniziative da prendere nella lotta contro il terrorismo.
19 novembre
Conferenza sul miglioramento delle capacità militari
Gli Stati membri identificano 55 lacune in materia di
mezzi militari e presentano proposte per un nuovo sistema
di revisione dei medesimi.
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14-15 dicembre
Consiglio europeo di Laeken
I dirigenti europei nominano presidente della Convenzione sul futuro dell’Europa l’ex presidente francese Valéry
Giscard d’Estaing. Danno inoltre l’avvio ad un piano d’azione europeo sulle capacità (PAEC/ECAP) e dichiarano
che l’Unione europea è ormai in grado di svolgere determinate operazioni di gestione di crisi. La Grecia si oppone ad
un progetto d’accordo tra l’Unione europea e la Turchia
sulle modalità finali delle relazioni tra l’Unione europea e
la NATO.
18-19 dicembre
Revisione di un memorandum d’intesa per l’acquisto di A400M
Sette paesi europei firmano un memorandum per l’acquisto di 196 aerei da trasporto A400M, invece dei 225 aerei
previsti inizialmente.
2002
Presidenza spagnola
1° gennaio
Creazione del Centro satellitare europeo dell’Unione
europea a Torrejon, presso Madrid
1° gennaio
Creazione dell’Istituto di studi per la sicurezza dell’Unione europea a Parigi
10 gennaio
Il Regno Unito assume il comando della Forza internazionale di
assistenza alla sicurezza (ISAF-1) a Kabul
11 marzo
Azione comune del Consiglio sulla missione di polizia
dell’Unione europea (EUPM)
A seguito della riunione del Consiglio Affari generali e
Relazioni esterne di Bruxelles del 18 e 19 febbraio 2002,
l’UE decide di assumere il comando della forza di polizia
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internazionale che si trova in missione sul territorio
bosniaco sotto l’autorita’ dell’ONU. Si tratta della prima
operazione del genere eseguita dall’Unione.
15-16 marzo
Consiglio europeo di Barcellona
Il Consiglio annuncia che intende subentrare alle operazioni della NATO nell’ex Repubblica jugoslava di Macedonia.
22-28 maggio
Primo esercizio di gestione di crisi dell’Unione europea (CME 02)
17 giugno
Consiglio Affari generali a Lussemburgo
I ministri degli affari esteri europei decidono l’istituzione
di un quadro comune per finanziare le operazioni con
implicazioni militari o di difesa.
20 giugno
La Turchia assume il comando dell’ISAF-2
21-22 giugno
Consiglio europeo di Siviglia
I dirigenti europei ampliano le missioni della PESD per
includere la lotta contro il terrorismo, e fanno una dichiarazione comune sull’impegno di capacità nel settore dello
stato di diritto.
Presidenza danese
16 luglio
Presentazione di ‘STAR 21’ al Presidente della Commissione europea, Romano Prodi
Il Gruppo consultivo europeo sull’aerospaziale presenta
una relazione intitolata ‘STAR 21: Strategic Aerospace
Review for the 21st Century’ a Romano Prodi.
10 settembre
In seno alla convenzione europea viene creato un
gruppo di lavoro sulla difesa, presieduto da Michel
Barnier
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17 settembre
Gli Stati Uniti pubblicano una nuova ‘National Security Strategy’
30 settembre
Direttive relative al tribunale penale internazionale
Il CAGRE accetta una serie di direttive per gli Stati membri
concernenti il TPI (Tribunale penale internazionale).
24-25 ottobre
Consiglio europeo di Bruxelles
Il ‘testo di Bruxelles’ consente un’intesa con la Turchia,
segnatamente per quanto riguarda la candidatura di Cipro
all’Unione europea.
8 novembre
Risoluzione 1441 del Consiglio di sicurezza dell’ONU
Il Consiglio di sicurezza adotta una risoluzione che rafforza il regime delle ispezioni in Iraq e offre a Baghdad
un’ultima possibilità di rispettare i suoi obblighi in materia di disarmo e controlli.
19 novembre
Conferenza a livello ministeriale sulla capacità di
gestione civile delle crisi
21-22 novembre
Vertice della NATO a P raga
Sette paesi dell’ex blocco sovietico saranno accettati come
membri della NATO entro il 2004. I membri della Nato si
impegnano chiaramente in materia di mezzi operativi ed
accettano di creare una ‘forza di risposta NATO’ (NRF) di
21.000 uomini.
12-13 dicembre
Consiglio europeo di Copenaghen
Dieci nuovi membri faranno parte dell’Unione europea
entro il maggio 2004. Firma di un accordo tra l’Unione
europea e la Turchia che riguarda l’accesso degli europei
alle risorse logistiche, di pianificazione e di informazione
della NATO in caso di missione esclusivamente europea.
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16 dicembre
Dichiarazione comune NATO-UE sulla PESC - ‘Berlin
plus’
A seguito dell’accordo con la Turchia al vertice di Copenaghen, la NATO e l’UE concludono un accordo che dà all’Unione accesso ai mezzi dell’Alleanza per la gestione delle
crisi. Da parte sua l’UE accetta di integrare al massimo i
paesi non europei della NATO in seno alla PESD.
16 dicembre
Relazione finale del Gruppo di lavoro VIII sulla difesa
della Convenzione europea
31 dicembre
Lancio della missione di polizia europea (EUPM) in
Bosnia-Erzegovina
Si tratta della prima operazione civile di gestione di crisi
dell’UE in ambito PESD. Comprende 531 funzionari di
polizia e 400 civili. Il suo mandato è di tre anni, fino al
dicembre 2005.
2003
Presidenza greca
22-23 gennaio
40° anniversario del trattato dell’Eliseo
La Germania e la Francia accettano di meglio coordinare le
rispettive politiche in vari settori e optano a favore di una
posizione comune sull’utilizzazione della forza in Iraq.
27 gennaio
I Ministri degli Affari esteri europei approvano la
prima missione militare europea nell’ex Repubblica
jugoslava di Macedonia
30 gennaio
Lettera comune di otto leader europei per un fronte unito tra l’Europa e gli Stati Uniti
Otto capi di Stato e di governo europei firmano una lettera
comune in cui esprimono la loro solidarietà nei confronti
della politica americana in Iraq.
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4 febbraio
Vertice franco-britannico di Le Touquet
La dichiarazione comune sul rafforzamento della cooperazione europea in materia di sicurezza e di difesa sottolinea
vari obiettivi per la PESD, segnatamente in materia di
capacità.
5 febbraio
Dichiarazione del Gruppo di Vilnius
In una dichiarazione comune dieci paesi candidati alla
NATO (7 paesi devono essere ammessi nell’aprile 2004)
esprimono il loro appoggio alla posizione americana sull’Iraq.
6 febbraio
Riunione straordinaria del Consiglio Nordatlantico (NAC)
Germania, Belgio, Francia e Lussemburgo si oppongono
alla richiesta americana concernente un sostegno della
NATO alla Turchia in previsione di una guerra in Iraq,
volendo dare priorità al processo dell’ONU.
10 febbraio
Dichiarazione comune di Russia, Francia e Germania sull’Iraq
10 febbraio
Una forza tedesco-olandese assume il comando dell’ISAF-3
La forza tedesco-olandese riceve il sostegno della NATO in
materia di pianificazione e di logistica.
16 febbraio
Il Comitato di pianificazione della difesa (DPC) della NATO
accetta misure di sostegno alla Turchia
Per evitare un veto francese, il DPC subentra al Consiglio
Nordatlantico (NAC) per quanto riguarda il sostegno
NATO sulla Turchia.
17 febbraio
Consiglio europeo straordinario di Bruxelles
I dirigenti europei affermano il loro impegno a favore del
lavoro degli ispettori dell’ONU in Iraq e ribadiscono che ‘la
guerra non è inevitabile’.
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21 febbraio
Vertice italo-britannico
Dichiarazione sulla difesa e la sicurezza.
1° marzo
Il gruppo sul piano d’azione europeo sulle capacità
(PAEC/ECAP) presenta la sua relazione finale
14 marzo
Accordo UE-NATO sulla struttura di comando per le
operazioni europee
È negoziato un accordo che consente agli europei di utilizzare le strutture di comando della NATO per le operazioni
dell’Unione.
20 marzo
I primi bombardamenti americani su Baghdad segnano l’inizio
della guerra in Iraq
21 marzo
Inizio della guerra terrestre in Iraq
31 marzo
Lancio della missione Concordia nell’ex Repubblica
jugoslava di Macedonia
Si tratta della prima missione europea che utilizza le strutture e mezzi della NATO quali definiti dagli accordi di ‘Berlin plus’. La missione comprende 350 militari e deve durare
sei mesi.
16 aprile
Dichiarazione di Atene
Firma del trattato di adesione all’Unione europea dei dieci
paesi seguenti: Cipro, Estonia, Ungheria, Lettonia, Lituania, Malta, Polonia, Slovacchia, Slovenia e Repubblica
ceca.
16 aprile
La NATO subentra alla missione ISAF in Afganistan
29 aprile
Vertice di Tervuren
Germania, Belgio, Francia e Lussemburgo concordano di
cooperare più strettamente sulle questioni inerenti alla
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difesa. La proposta più controversa riguarda l’istituzione
di un comando militare europeo indipendente a Tervuren.
19 maggio
Conferenza sulle capacità
L’Unione europea dichiara di disporre della capacità operativa per tutta la gamma dei compiti di Petersberg, anche
se con limitazioni e restrizioni dovute alle carenze riconosciute.
12 giugno
Lancio dell’operazione Artemis nella Repubblica
democratica del Congo
Si tratta della prima missione militare dell’Unione europea senza la NATO e al di fuori del continente europeo. L’operazione è condotta da 1800 militari, principalmente
francesi e svedesi, il cui spiegamento è inteso a stabilizzare
la situazione in materia di sicurezza nella città di Bunia,
capitale della provincia d’Ituri.
16 giugno
Il Consiglio prepara una risposta europea alla proliferazione delle armi di distruzione di massa
n occasione del CAGRE di Lussemburgo i ministri degli
affari esteri esaminano gli orientamenti dei ‘Principi fondamentali di una strategia europea contro la proliferazione delle armi di distruzione di massa’ e di un ‘Piano d’azione per l’istituzione dei principi di base’.
19-20 giugno
Consiglio europeo di Salonicco
L’Alto Rappresentante Javier Solana presenta una versione
preliminare della Strategia europea in materia di sicurezza.
Il Consiglio adotta inoltre una ‘dichiarazione sulla non
proliferazione delle armi di distruzione di massa’, compresi i ‘Principi fondamentali’ nonché il ‘Piano d’azione
congiunto’. Alla presidenza italiana viene assegnato il
compito di definire piani per la creazione di un’agenzia
europea per gli armamenti.
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27 giugno
Ratifica dell’accordo quadro contenuto nella lettera d’intenti
(LoI)
L’Italia è l’ultimo paese che ratifica l’accordo, che può
ormai essere applicato.
Presidenza italiana
10 luglio
La Convenzione europea conclude i suoi lavori
18 luglio
Valéry Giscard d’Estaing presenta il progetto di trattato di Costituzione europea finalizzato dalla Convenzione
21 luglio
Il Consiglio Affari generali proroga il mandato della
missione Concordia fino al 15 dicembre 2003
1° settembre
Fine dell’operazione Artemis nella Repubblica democratica del Congo
L’Unione europea restituisce i pieni poteri all’ONU, segnatamente alla MONUC.
20 settembre
Vertice informale Regno Unito-Francia-Germania a Berlino
Il Regno Unito dà il suo appoggio al piano franco-tedesco
concernente una cellula di pianificazione europea. I tre paesi
non riescono tuttavia a definire una posizione comune sull’Iraq.
25 settembre
Dichiarazione congiunta sulla cooperazione tra le
Nazioni Unite e l’UE nell’ambito della gestione delle
crisi
29 settembre
Azione comune del Consiglio sull’operazione di polizia Proxima nell’ex Repubblica jugoslava di Macedonia
Il CAGRE decide che un’operazione di polizia deve far
seguito all’operazione Concordia il 15 dicembre 2003.
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3-4 ottobre
Riunione informale dei ministri della difesa dell’UE
I ministri della difesa dell’UE ricercano di trovare un compromesso sul futuro comando europeo. Essi decidono
inoltre che l’UE debba subentrare alla NATO per le missioni di mantenimento della pace in Bosnia dal 2004.
21 ottobre
L’Iran accetta le ispezioni dei suoi impianti nucleari
I ministri degli affari esteri tedesco, britannico e francese
stipulano un accordo con l’Iran e ottengono una maggiore
cooperazione di Teheran con l’AIEA.
17 novembre
Accordo del Consiglio su un’agenzia europea per gli
armamenti
Il CAGRE accetta i principi relativi ad un’agenzia europea
per gli armamenti, la ricerca e le capacità militari. Decide
inoltre di sviluppare una tabella di marcia per proseguire i
progressi dell PAEC/ECAP.
19-29 novembre
Primi esercizi comuni UE/NATO sulla gestione delle
crisi (CMX/CME 03)
29 novembre
Riunione dei ministri degli esteri europei a Napoli
Una proposta della presidenza italiana sul futuro della
difesa europea getta le basi per un accordo globale sulle questioni di difesa nella futura Costituzione europea.
12-13 dicembre
Consiglio europeo di Bruxelles
La conferenza intergovernativa di Bruxelles si blocca sulla
futura ripartizione dei voti fra i paesi in seno al Consiglio.
Il Consiglio europeo adotta tuttavia la versione finale della
Strategia europea in materia di sicurezza basata sul documento di Javier Solana ‘Un’Europa sicura in un mondo
migliore’.
12 dicembre
Gli Stati membri dell’UE approvano un piano per istituire una cellula di pianificazione
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Un compromesso preliminare tra Germania, Francia e
Regno Unito consente ai dirigenti europei di approvare un
piano relativo all’istituzione di una cellula di pianificazione civilo-militare europea autonoma all’inizio del 2004.
15 dicembre
Lancio dell’operazione Proxima in FYROM
L’operazione di polizia di 200 uomini lanciata nell’ex
Repubblica jugoslava di Macedonia è intesa ad aiutare le
autorità macedoni a sviluppare le proprie forze di polizia.
2004
Presidenza irlandese
28 gennaio
Nomina del responsabile della squadra per la creazione dell’agenzia (AET)
Javier Solana nomina Nick Witney a capo dell’AET (squadra per la creazione dell’agenzia europea della difesa).
18 febbraio
Proposta di Germania, Francia e Regno Unito concernente la creazione di gruppi tattici
Al vertice di Berlino i tre suddetti paesi hanno proposto la
creazione di nove gruppi tattici (battlegroups) composti
ciascuno di circa 1.500 uomini schierabili rapidamente
nei luoghi di crisi all’esterno del territorio europeo.
23 febbraio
Il Consiglio approva un nuovo meccanismo finanziario
Accordo sul nuovo meccanismo ‘Athena’, concernente la
copertura e la divisione dei costi comuni delle missioni
militari dell’UE.
11 marzo
Attacchi terroristici contro Madrid
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15 marzo
Presentazione della relazione ‘Ricerca per un’Europa
più sicura’
Un gruppo di personalità presenta una relazione dal titolo
‘Ricerca per un’Europa più sicura’ al presidente della Commissione europea Romano Prodi. La relazione auspica lo
sviluppo di progetti di ricerca utili nel contesto della sicurezza interna e delle missioni PESC/PESD. I progetti
saranno finanziati dall’UE.
25-26 marzo
Consiglio europeo sul terrorismo
Il Consiglio europeo istituisce il posto di coordinatore
della lotta contro il terrorismo dell’UE in seno al Consiglio
dell’Unione. Il suo titolare fornirà le informazioni utili ai
ministri dell’interno e della giustizia e coordinerà i lavori
degli Stati membri nella lotta contro il terrorismo. Al
posto è nominato l’olandese Gijs de Vries.
29 marzo
Allargamento della NATO
Sette nuovi Stati aderiscono alla NATO: Bulgaria, Estonia,
Lettonia, Lituania, Romania, Slovacchia e Slovenia. Si
tratta del quinto e maggiore allargamento dell’Alleanza
atlantica.
5-6 aprile
Riunione informale dei ministri della difesa dell’UE
Il concetto di ‘gruppo tattico’ è approvato.
24 aprile
Referendum a Cipro
I ciprioti greci respingono il piano di riunificazione dell’ONU, approvato invece dai ciprioti turchi. Cipro entrerà
quindi divisa nell’UE.
1° maggio
Allargamento dell’UE
L’UE accoglie dieci nuovi membri: Cipro, Estonia, Ungheria, Lituania, Lettonia, Malta, Polonia, Slovacchia, Slovenia e Repubblica ceca.
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17 maggio
Riunione del CAGRE
Approvazione del documento ‘Obiettivo primario 2010’
che fissa i principali parametri per lo sviluppo delle capacità militari dell’Unione entro il 2010. Tali obiettivi, essenzialmente di carattere qualitativo, vertono sulla rapidità a
livello di processo decisionale e pianificazione nonché di
spiegamento delle forze e sulla interoperabilità e la sostenibilità di forze ad alta prontezza. Esaminata la possibilità
di una futura missione UE in Bosnia che subentri alla
SFOR della NATO.
18-27 maggio
Terzo esercizio di gestione di crisi dell’Unione europea
(CME 04)
8 giugno
Il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite approva all’unanimità la risoluzione n. 1546 relativa ad un ‘governo sovrano provvisorio’ in Iraq
13 giugno
Elezioni del Parlamento europeo nei 25 paesi membri
dell’Unione
17-18 giugno
Consiglio europeo di Bruxelles
Il Consiglio approva il progetto rivisto di Costituzione
europea.
28-29 giugno
Vertice della NATO a Istanbul
La NATO decide di concludere la sua operazione SFOR in
Bosnia-Erzegovina a fine 2004. L’UE ne assumerà d’ora in
poi la responsabilità, in collaborazione con l’Alleanza.
29 giugno
Riunione straordinaria del Consiglio europeo
Javier Solana è confermato Segretario Generale/Alto Rappresentante per un nuovo mandato di cinque anni, e indicato come futuro ‘ministro degli affari esteri dell’Unione’
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al momento dell’entrata in vigore del trattato costituzionale. José Manuel Durao Barroso è nominato nuovo presidente della Commissione europea.
12 luglio
Creazione dell’Agenzia Europea di Difesa
Il CAGRE approva l’azione comune (2004/551/PESC) che
istituisce l’Agenzia Europea di Difesa, dipendente dal Consiglio e basata a Bruxelles. Ne fanno parte 24 paesi, con la
sola eccezione della Danimarca.
29 ottobre
Firma della Costituzione UE
Con una solenne cerimonia – a Roma, nella stessa sala dove
47 anni prima era stato firmato il Trattato istitutivo della
Comunita’ Economica Europea – i capi di Stato e di
governo UE firmano il testo finale del Trattato Costituzionale UE (TCUE). Se il processo di ratifica non incontrerà
ostacoli, il TCUE dovrebbe entrare in vigore il 1 novembre
2006 per un ‘periodo illimitato’.
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Bibliografia
Questo repertorio contiene soltanto volumi che si riferiscono specificamente alla
PESD.
1. Documenti ufficiali
T ‘Un’Europa sicura in un mondo migliore. Strategia europea in materia di
sicurezza’, documento proposto da Javier Solana e adottato dai capi di stato e di
governo al Consiglio Europeo del 12 dicembre 2003.
T ‘From Copenhagen to Brussels. European defence: core documents’, 2003,
compiled by Antonio Missiroli, Chaillot Paper 67 (Paris: European Union Institute
for Security Studies, December 2003).
T ‘European armaments cooperation: core documents’, 2003, compiled by
Burkard Schmitt, Chaillot Paper 59 (Paris: European Union Institute for Security
Studies, April 2003).
T ‘From Laeken to Copenhagen. European defence: core documents’, 2003,
compiled by Jean-Yves Haine, Chaillot Paper 57 (Paris: European Union Institute
for Security Studies, March 2003).
T ‘From Nice to Laeken. European defence: core documents’, 2002, compiled by
Maartje Rutten, Chaillot Paper 51 (Paris: European Union Institute for Security
Studies, April 2002).
T ‘From St-Malo to Nice. European defence: core documents’, 2001, compiled
by Maartje Rutten, Chaillot Paper 47 (Paris: Institute for Security Studies of WEU,
May 2001).
2. Libri
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Unión (Madrid: Política Exterior & Biblioteca Nueva, 1999).
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Reform (CER) (February-March 2001).
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security actor. A strategy for action by the Venusberg Group (Gütersloh: Bertelsmann
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Abbreviazioni
AAR
Air-to-Air Refuelling
ACP
Africa, Caraibi e Pacifico
ADM
Armi di Distruzione di Massa
AED
Agenzia Europea di Difesa
AET
Agency Establishment Team
AR
Alto Rappresentante
BE
Belgio
C3I
Command, Control, Communication and Intelligence
C4ISR
Command, Control, Communications, Computers, Intelligence,
CAG
Consiglio Affari Generali
CAGRE
Consiglio Affari Generali e Relazioni Esterne
CAOC
Combined Air Operations Centre
Surveillance and Reconnaissance
CDM
Capability Development Mechanism
CECA
Comunità Europea del Carbone e dell’Acciaio
CED
Comunità Europea di Difesa
CEE
Comunità Economica Europea
CGAI
Consiglio Giustizia e Affari Interni UE
CIG
Conferenza Intergovernativa
CIMIC
Civil-Military Cooperation
COREPER
Comitato dei Rappresentanti Permanenti presso l’UE
CPS
Comitato Politico e di Sicurezza
CSAR
Combat Search and Rescue
CZ
Repubblica Ceca
DCI
Defence Capabilities Initiative
DG
Direttorato-Generale
DK
Danimarca
DM
Deutsche Mark
DPC
Defence Planning Committee
DSACEUR
Deputy Supreme Allied Commander EURope (NATO)
EADS
European Aeronautic, Defence and Space company
EC/CE
European Community/Comunità Europea
ECHO
European Community Humanitarian Office
ECOFIN
Consiglio dei ministri economici e finanziari UE
EDCI
European Defence Capabilities Initiative
EOD
Explosive Ordnance Disposal
ETA
Euzkadi ta Azkatasuna (patria basca e libertà)
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EUPM
EU Police Mission
EUPOL
EU Police
EUROFOR
EU Force
FES
Fondo Europeo di Sviluppo
FHQ
Force Headquarters
FR
France
FRY
Federal Republic of Yugoslavia (Serbia and Montenegro)
FYROM
Former Yugoslav Republic of Macedonia (ex Reppublica jugoslava di
Macedonia
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GAEO
Gruppo Armamenti Europeo-Occidentale
GE
Germania
GR
Grecia
GSM
Global System for Mobile Communication
HALE
High Altitude Long Endurance
HQ
Headquarters (quartier generale)
IAEA
International Atomic Energy Agency
IESD
Identità Europea di Sicurezza e Difesa (NATO)
IFOR
Implementation Force (NATO)
IPTF
International Police Task Force (ONU)
IRA
Irish Republican Army
ISAF
International Security Assistance Force
ISS
Istituto di studi per la sicurezza dell’Unione europea
ISTAR
Intelligence, Surveillance, Target Acquisition and Reconnaissance
IT
Italia
KFOR
Kosovo Force (NATO)
LdI/LoI
Lettera di Intenti/Letter of Intent
LU
Lussemburgo
MALE
Medium Altitude Long Endurance
MAPE
Multinational Advisory Police Element
MCM
Mine Countermeasures
MEDEVAC
Medical Evacuation
MONUC
Missione ONU in Congo
MoU
Memorandum of Understanding
MPF
Multinational Protection Force
MSU
Multinational Specialised Unit
NAC/CA
North Atlantic Council (Consiglio Atlantico)
NATO
North Atlantic Treaty Organisation
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NBC
Nucleare, Biologico e Chimico
NL
Paesi Bassi
NRF
Response Force (NATO)
OCCAR
Organizzazione Congiunta per la Cooperazione sugli ARmamenti
OCSE/OECD
Organizzazione per lo Sviluppo e la Cooperazione Economica
OHQ
Operational Headquarters
ONU
Organizzazione delle Nazioni Unite
PAEC/ECAP
Piano di Azione Europeo sulle Capacità
PE
Parlamento Europeo
PESC
Politica Estera e di Sicurezza Comune UE
PESD
Politica Europea in materia di Sicurezza e Difesa
PIC
Peace Implementation Council (Accordi di Dayton)
PIL/PNL
Prodotto interno/nazionale lordo
PL
Polonia
POLUKRBAT
Battaglione della Forza di Pace Polacco-Ucraina
PT
Portogallo
R&T
Ricerca e Tecnologia
RDC
Repubblica Democratica del Congo
RELEX
Relazioni Esterne UE
Ro-Ro
Roll-on Roll-off
SAM
Surface-to-Air Missile (terra-aria)
SATCEN
Centro Satellitare UE
SBS
State Border Service
SES
Strategia Europea in materia di Sicurezza
SFOR
Stabilisation Force (NATO)
SG
Segretario Generale
SHAPE
Supreme Headquarters Allied Powers Europe (NATO)
SHORAD
Short Range Air Defence
SIPA
State Information and Protection Agency
SITCEN
Situation Centre UE
SOF
Special Operations Forces
SP
Spagna
SSN
Subsurface attack Nuclear (sottomarino d’attacco nucleare)
STAR 21
Strategic Aerospace Review for the 21st Century
TCE
Trattato della Comunità Europea
TUE
Trattato sull’Unione Europea
TK
Turchia
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UAV
Unmanned Aerial Vehicle
UE
Unione Europea
UEO
Unione dell’Europa Occidentale
UK
Regno Unito
UNMIBH
Missione ONU in Bosnia-Erzegovina
UNSC
United Nations Security Council
UP
Unità Politica UE
UPPAT
Unità di Pianificazione Politica e Allarme Tempestivo
US
Stati Uniti d’America
VMQ
Voto a Maggioranza Qualificata
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Gli autori
Martti Ahtisaari è fondatore e presidente della Crisis Management Initiative,
attore non governativo indipendente, che si occupa della nuova problematica in
materia di sicurezza e delle sfide collegate. Nel 1994 è stato eletto decimo
Presidente della Finlandia. Dopo aver lasciato tale incarico nel febbraio 2000,
Ahtisaari ha assunto la copresidenza dell’EastWest Institute di New York e la
presidenza dell’International Crisis Group a Bruxelles. È membro del gruppo di
consiglieri presso l’Open Society Institute e della rete Soros Foundations,
presente in vari paesi. È inoltre presidente della Balkan Children and Youth
Foundation, del Global Action Council of the International Youth Foundation,
nonché dell’ufficio internazionale di WSP International. Ha presieduto un
gruppo di lavoro indipendente sulla sicurezza del personale delle Nazioni Unite
in Iraq. E’ stato inoltre inviato speciale delle Nazioni Unite per il Corno d’Africa
e inviato speciale del Presidente in esercizio dell’OSCE per l’Asia centrale.
Michel Barnier, nato il 9 gennaio 1951, diplomato nel 1972 presso l’Ecole
supérieure de Commerce (Parigi), è attualmente ministro francese degli affari
esteri. Tra il 1973 e il 1999 ha svolto diverse funzioni elettive in Savoia. Dal 1973
al 2004 ha inoltre ricoperto incarichi governativi, tra cui ministro dell’ambiente
e ministro delegato agli affari europei. Dal 1999 al 2004 è stato commissario
europeo incaricato della politica regionale. È anche stato presidente del
gruppo difesa della Convenzione sull’avvenire dell’Europa. Dal 1997 al 1999 è
stato presidente dell’Associazione francese del Consiglio dei comuni e delle
regioni d’Europa, e dal 1998 al 1999 presidente della delegazione del Senato per
l’Unione europea. È cofondatore e membro del consiglio direttivo
dell’associazione ‘Dialogue et Initiative’ (UMP) dal 1999, e presidente fondatore
dell’associazione ‘Nouvelle République’. Dal 2002 Michel Barnier è membro a
pieno titolo dell’Ufficio politico dell’UMP. Opere pubblicate : Vive la politique,
Stock, Parigi, 1985 ; Le défi écologique, chacun pour tous, Stock, Parigi, 1990 ; L’Atlas
des risques majeurs, Plon, Parigi, 1992 ; Vers une mer inconnue, Pluriel Hachette,
Parigi, 1994 ; Notre contrat pour l’alternance, Plon, Parigi, 2001.
L’Ammiraglio di Squadra (c.r) Jean Bétermier è attualmente consulente
internazionale, consigliere presso il Centre des Hautes Etudes de l’Armement e
membro del Consiglio scientifico della difesa. Ex allievo della Scuola navale e
delle scuole di pilotaggio dell’US Navy, ha svolto la sua attività nella marina e
nell’aviazione alternando i periodi di comando con incarichi di stato maggiore.
Ha comandato in particolare la base aeronavale di Landivisiau, la portaerei
Clemenceau, la Squadra dell’Atlantico e l’Ecole supérieure de Guerre navale. È
stato inoltre capo di gabinetto del Capo di stato maggiore delle forze armate.
Jean Betermier è vicepresidente del Forum du Futur e membro del comitato
editoriale di Comparative Strategy.
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Carl Bildt incentra oggi la sua attività sulle questioni internazionali
(www.bildt.net). In tale settore è stato molto attivo per quanto riguarda i Balcani:
è stato Rappresentante speciale dell’Unione europea nell’ex Jugoslavia e il primo
Alto Rappresentante in Bosnia dal 1995 al 1997, e successivamente inviato
speciale del Segretario generale delle Nazioni Unite nei Balcani dal 1999 al 2001.
In Svezia è stato membro del Parlamento dal 1979 al 2001, presidente del Partito
moderato dal 1986 al 1999 e primo ministro dal 1991 al 1994. Il suo governo ha
negoziato e firmato nel 1995 il trattato di adesione della Svezia all’Unione
europea. Ha presieduto il gruppo dei saggi dell’Agenzia spaziale europea, ha
consigliato l’ICANN sulla gestione di Internet su scala mondiale e, di recente, ha
fatto parte del Gruppo di personalità incaricato d’informare la Commissione
europea sulla ricerca in materia di sicurezza. È attualmente presidente del Kreab
Group of public affairs companies e del Nordic Venture Network.
Nato il 14 maggio 1946, Elmar Brok è membro del Parlamento europeo (PE) dal
1980. E’ membro dell’Ufficio del Gruppo del Partito popolare europeo
(democratico-cristiano) e Democratici europei, e presidente della commissione
per gli affari esteri, i diritti dell’uomo, la sicurezza comune e la politica di
difesa. Brok è stato presidente del Gruppo PPE in seno alla Convenzione per una
Costituzione europea, e rappresentante ufficiale del PE alle conferenze
intergovernative di Amsterdam e di Nizza, nonché alla CIG sul progetto di
Costituzione europea. Ha studiato giurisprudenza e scienze politiche,
segnatamente presso il Centre for European Governmental Studies
dell’Università di Edimburgo, ed è vicepresidente del dipartimento Media
Development presso la Bertelsmann AG. È stato nominato ‘MEP of the Year
2003’ dal settimanale European Voice, in seguito ad una votazione europea, e
‘Mr. Konvent’ dopo un sondaggio presso membri della convenzione, giornalisti
e universitari.
Robert Cooper è direttore generale degli affari esteri e politico-militari presso
il Segretariato generale del Consiglio dell’Unione europea. È cresciuto in Gran
Bretagna e Kenya. Ha lasciato Nairobi nel 1966 per entrare all’università di
Oxford (Worcester College, PPE). Ha frequentato per un anno la Pennsylvania
University di Filadelfia ed è entrato in diplomazia nel 1970. Ha lavorato a New
York, Tokyo, Bruxelles e Bonn. La sua carriera diplomatica si è svolta in gran
parte in Asia e in Europa. Dal 1989 al 1993 ha diretto il Policy Planning Staff del
Foreign Office. È stato in seguito Director for Asia e successivamente Deputy
Secretary for Defence and Overseas Affairs presso il Cabinet Office. Prima di
stabilirsi a Bruxelles nel 2002, è stato Rappresentante speciale del governo
britannico in Afghanistan. Ha pubblicato vari saggi e articoli sugli affari
internazionali, da ultimo The Breaking of Nations (Atlantic Press, Oak Loan, III,
2003).
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Judy Dempsey è stata corrispondente diplomatica del Financial Times (FT) a
Bruxelles dal 2001 al 2004, prima di passare all’International Herald Tribune. Tra il
1996 e il 2001, ha diretto l’ufficio di Gerusalemme del Financial Times
occupandosi segnatamente delle questioni relative ad Israele, all’Autorità
palestinese e alla Giordania. Judy Dempsey ha aperto l’ufficio del Financial Times
a Berlino nel 1992 per coprire le conseguenze economiche e politiche
dell’unificazione tedesca. Tra il 1990 e il 1992, in qualità di corrispondente per
l’Europa dell’Est a Londra, ha coperto le guerre balcaniche. Dal 1985 al 1990 ha
lavorato a Vienna dove ha coperto l’Europa centrale e orientale per i giornali The
Economist e il Financial Times, dopo esser stata corrispondente del giornale The
Irish Times per l’Europa orientale.
Lamberto Dini è nato a Firenze il 1º marzo 1931. Laureato in economia
all’Università di Firenze (1955), ha effettuato studi superiori presso le Università
del Minnesota e del Michigan nell’ambito, tra l’altro, di una Fullbright
Scholarship del governo statunitense. Nel 1959 è entrato come economista
presso il Fondo monetario internazionale di cui è divenuto direttore nel 1976.
Nel 1979 è stato nominato direttore generale della Banca d’Italia, ricoprendo
questo incarico fino al 1994, anno in cui è entrato a far parte del primo governo
Berlusconi come ministro del Tesoro. È stato presidente del Consiglio dei
ministri e ministro del Tesoro dal gennaio 1995 al maggio 1996. Nel 1996 è stato
eletto al Parlamento italiano e dal maggio 1996 al giugno 2001 è stato ministro
degli Affari esteri. Da allora è Vicepresidente del Senato italiano, che ha anche
rappresentato in seno alla Convenzione europea.
Jean-Louis Gergorin, direttore del Coordinamento strategico della
compagnia EADS, ha iniziato la sua carriera al servizio del governo francese
come direttore del Centro di Analisi e Previsione del ministero degli Affari esteri
e come membro del Comitato franco-tedesco incaricato della sicurezza e della
difesa. In seguito è passato al settore privato, dove occupa diversi posti direttivi
presso Matra, Lagardere e Matra Aerospatiale. Gergorin è diplomato dell’Ecole
Polytechnique e dell’Ecole nationale d’administration (ENA) di Parigi. Fa inoltre
parte degli ex allievi dello Stanford Executive Programme.
Nicole Gnesotto è direttrice dell’Istituto per gli studi sulla sicurezza
dell’Unione Europea dal 1º gennaio 2002. In precedenza è stata direttrice
dell’Institut d’Etudes de Securité dell’UEO, professore presso l’Institut d’Etudes
Politiques di Parigi (Sciences-Po), responsabile presso il direttore dell’Institut
Français des Relations Internationales (IFRI), vice direttore del Centro di Analisi
e Previsione (CAP) presso il Quai d’Orsay. E’ autrice di numerose pubblicazioni
sulle relazioni transatlantiche e l’Unione europea tra cui, in particolare, La
puissance et l’Europe (Presses de Sciences Po, Paris, 1998).
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Philip H. Gordon dirige il Center on the United States and Europe della
Brookings Institution, a Washington, presso cui esercita anche l’attività di
ricercatore. È autore, insieme a Jeremy Shapiro, di Allies at War: America, Europe
and the Crisis Over Iraq (McGraw-Hill, New York, 2004). Durante la seconda
amministrazione Clinton è stato direttore del dipartimento Affari Europei del
National Security Council.
Norbert Gresch, Vice capo divisione presso il Segretariato della Commissione
affari esteri del Parlamento europeo, dirige l’unità Sicurezza e Difesa della
sottocommissione. Nato il 13 novembre 1945 a Nienburg/Weser, ha prestato
servizio di leva dal 1965 al 1967. Ha studiato storia e inglese all’Università di
Tübingen, conseguendo un dottorato in scienze politiche nel 1977. Dal 1979
lavora al Parlamento europeo dal 1979 e dal 1981 al 1988 è stato consigliere del
Gruppo socialista. È stato membro del gabinetto del Commissario Karel van
Miert dal 1989 al 1991 e membro del gabinetto dei Presidenti del Parlamento
europeo, Egon Klepsch e Klaus Haensch, dal 1992 al 1995. Presso il Segretariato
della commissione per gli affari politici, di cui fa parte dal 1995, si è occupato dei
seguenti settori: Europa sudorientale dal 1995 al 2000, PESC, sicurezza e difesa
dal 2001. Dal 1997 insegna all’Università di Lovanio (Belgio).
Jean-Yves Haine è ricercatore presso l’Istituto per gli studi sulla sicurezza
dell’Unione europea, a Parigi, e si occupa di relazioni transatlantiche, della
politica estera degli Stati Uniti e della PESD. Ha conseguito un dottorato in
scienze politiche presso l’Institut d’Etudes Politiques di Parigi. È stato Visiting
Fellow al Department of Government all’Università di Harvard e maître de
conférence in relazioni internazionali presso l’Institut d’Etudes politiques di
Parigi. È stato relatore per European Defence: a Proposal for a White Paper (maggio
2004), e ha di recente pubblicato ‘The imperial moment’, Cambridge Review of
International Affairs, Vol. 16, n. 3, autunno 2003; ‘L’Alliance superflue?’, Esprit,
agosto-settembre 2003; ‘The EU Soft Power: Not Hard Enough?’, Georgetown
Journal of International Affairs, inverno 2003/primavera 2004, Vol. V, n. 1 e Les EtatsUnis ont-ils besoin d’alliés ?, Payot, Parigi, 2004 (France-Amériques Prize 2004).
Gustav Lindstrom è ricercatore presso l’Istituto di studi sulla sicurezza
dell’Unione europea, a Parigi. Ha un dottorato e un Master in Policy Analysis
della RAND Graduate School, e un M.A. in politica internazionale della Stanford
University. Ha occupato vari incarichi presso la RAND, l’UE (CdR) e la Banca
mondiale. Ha pubblicato numerosi studi sul terrorismo, l’interoperabilità,
l’allarme rapido, la mondializzazione, la PESC e l’immigrazione. È autore degli
Occasional Papers n. 2 e 44. Ha curato il Transatlantic Book ‘Shift or Rift: Assessing
US-EU relations after Iraq’, di cui è coautore, e (con Burkard Schmitt) i Cahiers de
Chaillot nn. 66 e 68. All’Istituto, Gustav Lindstrom si occupa delle relazioni
transatlantiche, della politica estera degli Stati Uniti, delle questioni spaziali e di
homeland security.
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Antonio Missiroli è ricercatore presso l’Istituto di studi sulla sicurezza
dell’Unione europea, a Parigi. Ha un dottorato in storia contemporanea della
Scuola Normale Superiore di Pisa e un Master of International Public Policy
della Johns Hopkins University. Dal 1993 al 1996 ha insegnato scienze politiche
presso il Dickinson College di Bologna, ed è stato direttore degli studi europei
presso il CESPI di Roma. Dal 1996 al 1997 è stato visiting fellow presso il Centre
for European Studies del St Antony’s College di Oxford, prima di diventare
ricercatore (dal 1998 al 2001) all’Istituto di studi sulla soicurezza dell’UEO. Ha
pubblicato studi sulla PESC, la Scandinavia, l’opposizione politica, l’Europa
centrale e la politica estera dell’Italia, oltre a Les deux Allemagnes (Casterman,
Paris, 1994) e Dove nascono le elites (Reset, Roma, 1997). Ha scritto il Cahier de
Chaillot n. 38 e l’Occasional Paper n. 45. Ha curato il Cahier de Chaillot n. 53 e gli
Occasional Papers n. 11, 27 e 34. È curatore e coautore del Cahier de Chaillot n. 64 e
ha riunito i testi del Cahier de Chaillot n. 67. All’Istituto di studi per la sicurezza,
Antonio Missiroli si occupa delle questioni relative all’allargamento e degli
aspetti istituzionali della PESC/PESD; è inoltre responsabile delle relazioni con
la stampa.
Alberto Navarro è segretario di Stato per gli Affari europei presso il ministero
spagnolo degli Affari esteri. Dal 1980, data in cui egli è entrato nel servizio
diplomatico, ha ricoperto vari incarichi presso tale ministero e le ambasciate di
Spagna in Honduras e in Cecoslovacchia. Dal 1997 al 1999 è stato direttore di
ECHO, l’Ufficio per gli aiuti umanitari della Commissione, e dal 1999 è il capo di
gabinetto dell’Alto Rappresentante per la PESC, Javier Solana, a Bruxelles. Nel
2003 è stato nominato capo della delegazione della Commissione europea per il
Brasile.
Martin Ortega è ricercatore presso l’Istituto di studi sulla sicurezza
dell’Unione europea, a Parigi. È stato docente di diritto internazionale e relazioni
internazionali in varie università spagnole, prima di diventare ricercatore (dal
1998 al 2001) all’Istituto di studi sulla sicurezza dell’UEO. È autore del Cahier de
Chaillot n. 45 e dell’Occasional Paper n. 40, e ha curato l’Occasional Paper n.14 e il
Cahier de Chaillot n. 62. All’Istituto, Martin Ortega si occupa di dialogo Euromediterraneo, Medio Oriente e multilateralismo, con particolare riferimento alle
Nazioni Unite.
Ferdinando Riccardi ha esercitato per tutta la vita la professione di giornalista,
concentrandosi quasi esclusivamente su un tema : la costruzione dell’Europa
unita. La sua attività per l’Agence EUROPE (agenzia di stampa specializzata
negli affari europei) è iniziata nel 1958, con l’apertura dell’ufficio di Bruxelles (la
sede principale era, all’epoca, in Lussemburgo, dove era basata la CECA).
All’inizio della sua attività ha collaborato anche ad alcuni giornali e riviste
italiani, francesi e belgi, ma ha poi finito per dedicarsi sempre più e quasi
esclusivamente all’Agence. Dapprima ha diretto l’ufficio di Bruxelles, poi è
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diventato caporedattore generale. Attualmente, in veste di editorialista, pubblica
in media quattro commenti alla settimana dedicati all’attualità europea, che
segue pertanto, con responsabilità diverse, da quasi mezzo secolo.
Alexander Rondos è nato in Tanzania e ha studiato all’Università di Oxford. È
stato consigliere di George Papandreou, ministro greco degli affari esteri fino
alle elezioni del marzo 2004. In tale periodo è stato anche ambasciatore
straordinario, svolgendo il ruolo di inviato del ministro degli Affari esteri nei
Balcani, in Medio Oriente e nelle situazioni di emergenza umanitaria. Prima di
entrare al governo, ha lavorato presso la Banca mondiale e ha dedicato la maggior
parte della sua carriera internazionale agli aiuti umanitari e allo sviluppo. Nel
1992 ha istituito la prima agenzia di aiuto per la Chiesa cristiana ortodossa - le
opere di assistenza cristiane ortodosse - dopo aver collaborato con
l’organizzazione Catholic Relief Services in Etiopia, in Medio Oriente e in
occasione di varie crisi umanitarie.
Burkard Schmitt è ricercatore e assistente del Direttore presso l’Istituto di
studi sulla sicurezza dell’UE, a Parigi. Ha un dottorato in storia contemporanea
conseguito presso l’università di Erlangen-Nürnberg, e una laurea dell’università
di Bordeaux. Dal 1995 al 1998 ha lavorato come ricercatore indipendente,
consulente e giornalista, prima di diventare ricercatore (dal 1998 al 2001) presso
l’Istituto di studi per la sicurezzaO. All’Istituto, i suoi principali settori di ricerca
sono l’industria e la cooperazione in materia di armamenti. E’ autore dei Chaillot
Papers nn. 40 e 63. Ha curato i Cahier de Chaillot nn. 44 e 61, e (con Gustav
Lindstrom) nn. 66 e 68. Ha raccolto i testi per il Cahier de Chaillot n.59 e curato
l’Occasional Paper n.54.
Il generale Rainer Schuwirth è entrato nelle Forze armate tedesche nel 1964. Ha
comandato una batteria di artiglieria antiaerea, la 8a brigata corazzata a
Lüneburg, e il IVº Corpo (GE) a Potsdam. Ha ricoperto numerosi incarichi
nazionali e presso la NATO come responsabile delle informazioni e delle
operazioni, assistente militare del ministro tedesco della Difesa, responsabile
d’unità, e successivamente come capo della divisione politico-militare
dell’Esercito federale e consigliere in materia di difesa presso la Rappresentanza
permanente alla NATO. Dal 2001 al 2004 è stato il primo Direttore dello Stato
maggiore dell’UE.
Theo Sommer, nato nel 1930 a Costanza (Germania), ha studiato storia, scienze
politiche e relazioni internazionali all’università di Tübingen e all’università di
Chicago, ottenendo il dottorato con una tesi dal titolo ‘Germany and Japan
between the Powers 1935-1940’. Nel 1958 è entrato a far parte della redazione
del giornale Die Zeit, diventandone caporedattore nel 1973, editore/direttore
nel 1992 e direttore delle pubblicazioni nel 2000. Nel 1969/1970 ha diretto il
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Centro di analisi e previsione del ministero tedesco della Difesa. Ha pubblicato
varie opere di politica estera e ha partecipato a numerose commissioni e
comitati, tra cui la commissione internazionale per i Balcani (commissione
Tindemans, 1995/96), la commissione internazionale indipendente sul Kosovo
(commissione Goldstone, 1999-2000). È stato vicepresidente della commissione
sul futuro della Bundeswehr (commissione Weizsäcker, 1999/2000) e per
25 anni, è stato membro del Board dell’International Institute for Strategic
Studies di Londra.
Laurent Zecchini, a lungo corrispondente diplomatico presso l’ufficio
europeo del quotidiano Le Monde a Bruxelles, segue ora in particolare le
questioni di difesa. Dopo essere stato redattore politico del Figaro (1974-1977), ha
raggiunto la redazione politica di Le Monde nel 1978, prima di passare alla
redazione esteri nel 1983. Dopo essersi occupato di Africa, è stato
successivamente corrispondente per l’Asia meridionale e a Londra, Washington
e Bruxelles.
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Pubblicazioni dell’Istituto
Tutte le pubblicazioni sono accessibili
attraverso il sito Internet dell’Istituto:
www.iss-eu.org
Libro
European Defence – A proposal for a White Paper
Maggio 2004
André Dumoulin, Jan Foghelin, François Heisbourg, William Hopkinson, Marc Otte,
Tomas Ries, Lothar Rühl, Stefano Silvestri, Hans-Bernhard Weisserth, Rob de Wijk
Chair: Nicole Gnesotto, Rapporteur: Jean-Yves Haine
Chaillot Papers
n°68
One year on: lessons from Iraq
Marzo 2004
R. Asmus, C Bertram, C. Bildt, E. Brimmer, M. Dassu, R. de Wijk, J. Dobbins,
W. Drozdiak, N. Gnesotto, P.H. Gordon, C. Grant, G Gustenau, P. Hassner,
J. Hulsman, A. Lejins, C. McArdle Kelleher, A. Moravcsik, J. Onyszkiewicz,
J. Sedivy, N. Serra and A. Vasconcelos; Edited by G. Lindstrom and B. Schmitt
n°67
From Copenhagen to Brussels – European defence:
Core Documents, Volume IV
Dicembre 2003
Compiled by Antonio Missiroli
n°66
n°65
Fighting proliferation – European perspectives
Mark Smith, Bruno Tertrais and Jean Pascal Zanders
edited by Gustav Lindstrom and Burkard Schmitt
Dicembre 2003
The South Caucasus: a challenge for the EU
Dicembre 2003
Pavel Baev, Bruno Copieters, Svante E. Cornell, David Darchiashvili,
Arman Grigorian, Dov Lynch, John Roberts, Domitilla Sagramoso,
Brenda Shaffer, Arif Yunusov; edited by Dov Lynch
n°64
Partners and neighbours: a CFSP for a wider Europe
Settembre 2003
Judy Batt, Dov Lynch, Antonio Missiroli, Martin Ortega and
Dimitrios Triantaphyllou
Occasional Papers
n°53
Europe’s next shore: the Black Sea region
after EU enlargement
Giugno 2004
Mustafa Aydin
n°52
Rethinking the Euro-Mediterranean political
and security dialogue
Maggio 2004
Rosa Balfour
n°51
Crisis management in sub-Saharan Africa.
The role of the European Union
Aprile 2004
Fernanda Faria
n°50
For our eyes only? Shaping an intelligence
community within the EU
Gennaio 2004
Björn Müller-Wille
n°49
UE cohesion in the UN General Assembly
Paul Luif
Dicembre 2003
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A partire dal Consiglio Europeo di Colonia del giugno 1999,
l’Unione ha sviluppato – sotto l’egida di Javier Solana, Alto
Rappresentante per la PESC e futuro ministro degli esteri
dell’UE – una sua politica europea in materia di sicurezza e
difesa (PESD).
Ma che cosa è veramente la PESD? Quali sono le ambizioni dell’Unione sulle questioni di sicurezza e difesa? Che
cosa è stato realizzato nei cinque anni appena trascorsi?
Quali sono le differenti sensibilità dei 25 stati membri
riguardo il futuro della difesa europea? Come sviluppare le
relazioni con la NATO e gli Stati Uniti? Che effetto avrà il
nuovo trattato costituzionale sull’evoluzione del ruolo internazionale dell’Unione?
Questi interrogativi costituiscono la base di partenza di
quest’opera collettiva dell’Istituto di studi per la sicurezza
dell’Unione europea. Qui il lettore trovera’ l’analisi critica
più esauriente possibile delle risorse e delle conquiste
dell’Unione nel corso dei primi cinque anni della PESD
(1999-2004). Il libro comprende due parti.
La prima, scritta dai ricercatori dell’Istituto, analizza i
diversi aspetti della PESD dalla sua creazione, e ne illustra le
prospettive possibili.
La seconda parte comprende le opinioni di varie personalità che sono state attori e testimoni privilegiati della PESD
nei cinque anni trascorsi: giornalisti, industriali, parlamentari, esperti, e alti funzionari dell’UE.
Hanno collaborato a questo volume:
M. Ahtisaari, M. Barnier, C. Bildt, E. Brok & N. Gresch,
R. Cooper, J. Dempsey, L. Dini, J.L. Gergorin & J. Bétermier,
P.H. Gordon, J.Y. Haine, G. Lindstrom, A. Missiroli,
A. Navarro, M. Ortega, F. Riccardi, A. Rondos, B. Schmitt,
R. Schuwirth, T. Sommer e L. Zecchini
A cura di Nicole Gnesotto
Prefazione di Javier Solana
Pubblicato dall’
Istituto di studi per la sicurezza
dell’Unione europea
43 avenue du
Président Wilson
F-75775 Paris cedex 16
phone: +33 (0) 1 56 89 19 30
fax: +33 (0) 1 56 89 19 31
e-mail: [email protected]
www.iss-eu.org
€ 10