Scarica - Liceo Scientifico Ulivi
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1 Redazione: III D Leonardo Bertini, Ana Botnari, Raffaele Braniste, Giulio Cabrini, Matteo Cobianchi, Alessandro Dalla Chiesa, Elena De Benedetti, Chiara Delmonte, Riccardo Ferri, Veronica Guerci, Alina Ivanylo, Chiara Longhi, Cecilia Massimo, Lisa Pantaleoni, Alessandro Pasqua, Stefano Peri, Bianca Pezzani, Maria Caterina Pinelli, Dario Reverberi, Riccardo Riva, Filippo Savi, Federico Sello, Sara Signorini, Alessandro Sorba, Pietro Toso, Davide Zecca. IV D Francesca Bacchi, Alain Ben Rejeb, Edoardo Bernini, Alessia Borrini, Pietro Canuti, Alberto Corradi, Alex Dalla Fiora, Marco Dedja, Vittoria Ferrari, Eleonora Fontana, Matteo Leporati, Agata Magni, Nicola Pagani, Alessandro Schianchi, Alessandro Simonini, Carlo Tanara, Lorenzo Urbanetto, Arianna Ziveri. Liceo scientifico “Giacomo Ulivi” anno scolastico 2014-2015 Editoriale: Alessandro Simonini Copertina: Cecilia Massimo Grafica: Arianna Ziveri Coordinamento: prof.ssa Sandra Borsi 2 3 Editoriale di Alessandro Simonini Parigi, 7 gennaio 2015. Strage nella sede del giornale sat irico Charlie Hebdo. L'11 settembre della Francia. Dopo l' attentato abbiamo deciso di informarci sul terrorismo di matrice islamica, in part icolare sul gruppo terrorist ico dello Stato Islamico, recentemente venuto alla ribalta in Siria e in Iraq dove sembra impossibile ipotizzare una pace duratura. Fin dall'inizio delle nostre ricerche eravamo consapevoli che il richiamo alla religione islamica non doveva portarci a confondere Islam e terrorismo: “I terrorist i offendono l' Islam più dei nemici dell'Islam”(rettore moschea di Parigi). Alcuni di noi si sono occupat i della libertà d' espressione e in part icolar modo della sat ira, della sua storia e del suo ruolo nella società attuale oltre che del lavoro di art ist i e disegnatori che si battono per l'affermazione di quest i valori nei loro Paesi e per la pace nel mondo, affinché si costruiscano pont i e non barriere. Il nostro lavoro si pone quindi l'obiett ivo di fornire informazioni il più possibile veritiere per aiutare i lettori a sviluppare un'opinione individuale su realtà attuali non facili da analizzare e comprendere: per questa ragione sono state consultate font i diverse e raccolt i pareri di important i personalità politiche e intellettuali. Invit iamo perciò i lettori a interpretare quello che leggono e a pensare con la propria testa, senza farsi influenzare da alcuno stereot ipo. Tunisi, 18 marzo 2015. Strage di turist i nel museo del Bardo. L'11 settembre della Tunisia. Nairobi, 2 aprile 2015. Strage di student i al campus di Garissa. L'11 settembre del Kenya. Quando stavamo impaginando questo numero unico il mondo è stato colpito da altri gravi attentat i. Appare perciò evidente la necessità di una presa di posizione forte e decisa da parte di tutto il mondo civile per impedire la definitiva affermazione dei progett i jihadist i in Africa e Medio Oriente. Siamo di fronte a quello che alcuni politologi hanno definito uno “scontro di civiltà”? Auguriamo ai lettori di riuscire a rispondersi, tenendo conto che in quest i casi spesso non c'è una risposta giusta. 4 aprile 2015 4 INDICE Charlie Hebdo: reazioni e commenti Cosa è successo Cosa pensano i leader mondiali Nel mondo musulmano E noi? Charlie Hebdo: la reazione popolare Parigi: il mondo in piazza Altre manifestazioni Sul web Charlie Hebdo va a ruba Polemiche Reazioni psicologiche Le reazioni dei ragazzi Reclutamento Isis I disseminatori I siti web La prigione Imam erranti L’”Autostrada jihadsita” L’addestramento Il profilo del jihadista Una crisi di identità Numeri Isis: la strategia mediatica 1.Reti televisive 2.Internet 3.Jihad 2.0 Gli attacchi informatici Una nuova strategia I social più sfruttati dai jihadisti 4.Anonymous Chi sono Cosa fanno contro il Jihad Origini estremismo Cause Principali movimenti terroristici 1. Al Qaeda 2.Boko Haram 3.Isis (IS) L’Isis e l’Islam Glossario Versetti del Corano Commento Israele e Palestina Il conflitto La nascita del “Focolare nazionale” L'espansione ebraica La divisione della Palestina Nascita di Israele La Guerra dei Sei giorni La Guerra del Kippur L'occupazione dei territori L’invasione del Libano Gli Accordi di Camp David La Prima Intifada Nascita di Hamas Gli accordi di Oslo L'assassinio di Rabin Nascita Autorità N.P. Nuovi Accordi di Camp David La Seconda Intifada La costruzione del muro L'operazione “Piombo fuso” Operazioni militari e nuovi insediamenti Israele: marzo 2015 La libertà di espressione Un po’ di storia Il rapporto di “Reporter senza frontiere” Blasfemia nel mondo Blasfemia in Italia Diritto di satira: ci sono dei limiti? Satira e potere Cos’è la satira La satira in Turchia Libertà di satira Michel Kichka Nadia Khiari Mana Neyestani Libertà di espressione e mondo arabo Libertà d' espressione e blasfemia Shirin Neshat: denuncia attraverso l'arte I giovani iraniani Persepolis: la ribellione attraverso un cartone Sotto il burqa: un libro per sensibilizzare Le donne in Afghanistan e Iran Parole come armi Un film contro l’integralismo: Il destino 5 Charlie Hebdo: reazioni e commenti Cosa è successo? Sono passati alcuni mesi dalla strage ed è necessario ricordare quanto avvenuto. La mattina del 7 gennaio 2015 a Parigi, i fratelli Said e Cherif Kouachi, cittadini francesi di origine magrebina, assaltano armati la redazione parigina del settimanale satirico Charlie Hebdo, uccidendo dodici persone fra le quali quattro famosi vignettisti, “colpevoli” di avere preso in giro il profeta Maometto: Charb, pseudonimo di Stéphane Charbonnier, 47 anni, direttore del giornale. Cabu, cioè Jean Cabut, 76 anni. Tignous, ovvero Bernard Verlhac, 57 anni. Georges Wolinski, 80 anni, disegnatore, uno dei pilastri di Charlie Hebdo. Il giorno dopo i fratelli Kouachi e Amedy Coulibaly – autore della strage nel negozio kosher di Parigi, avvenuta il giorno dopo – vengono uccisi dalle teste di cuoio. Emerge da un video caricato su youtube, che Coulibaly agiva per conto dell'ISIS e giustificava la sua azione contro la Francia colpevole di blasfemia e violenze contro i musulmani. La condanna per la strage nella sede del giornale satirico Charlie Hebdo è unanime. A poche ore dall'assalto le reazioni si susseguono senza sosta: mentre i siti jihadisti lodano gli assalitori, ricordando la "derisione" del settimanale nei confronti di Maometto e il coinvolgimento militare della Francia nei Paesi musulmani, l'Occidente si prepara ad una risposta. Cosa pensano i leader mondiali? Il presidente francese, François Hollande, è arrivato subito sul luogo dell'attentato, in pieno centro: "È terrorismo, non c'è dubbio". Poche ore dopo, in diretta tv, afferma: "un vile attentato" parlando alla Nazione e proclamando il lutto nazionale. "Dobbiamo essere consapevoli che la nostra arma è l'unità, niente potrà separarci. La Francia è grande e la libertà più forte della guerra. Uniamoci e vinceremo, niente potrà farci flettere dalla nostra determinazione. Dobbiamo essere compatti, mostrare che siamo un Paese unito. Siamo in un momento difficile, sapevamo di essere minacciati perché siamo un Paese di libertà. Viva la repubblica e viva la Francia". Il governo ha deciso l'immediato aumento del livello di allerta per attentati terroristici, polizia e gendarmi sono stati schierati davanti a scuole, edifici pubblici e redazioni di giornali. "Dobbiamo rispondere cercando gli autori di questo atto infame, arrestarli e giudicarli e faremo tutto il possibile" assicura il presidente. "Dobbiamo tutelare gli organi pubblici, le forze dell'ordine saranno dispiegate ovunque mettendo in atto il piano antiterrorismo". L'ex presidente Nicolas Sarkozy, parla di "atto barbaro" e "tragedia nazionale che sconvolge profondamente". "I colpevoli di queste barbarie - continua - dovranno essere perseguiti e puniti con la più estrema severità. Tutti i mezzi dello Stato saranno messi in azione per neutralizzare i tre criminali all'origine di questo atto". Il mondo è attonito, l'attentato è il più grave in Francia dal 1940. "Barbaro attacco", lo definisce anche il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano. "Un gesto vile ed esecrabile, che non colpisce semplicemente un giornale, ma uno dei pilastri sui quali si basa la nostra civiltà: la libertà di stampa; nella lotta contro il fanatismo, il terrorismo e tutte le forme di odiosa violenza nei confronti di cittadini inermi, la Francia potrà sempre contare sulla vicinanza e la fattiva collaborazione dell'Italia". In una nota diffusa dal portavoce vaticano, padre Federico Lombardi, si denuncia "la violenza omicida abominevole". Nel dettaglio, si fa sapere che Papa Francesco esprime "la più ferma condanna per l'orribile attentato che ha funestato Parigi con un alto numero di vittime, seminando la morte, gettando nella costernazione l'intera società francese, turbando profondamente tutte le persone amanti della pace ben oltre i confini della Francia". Papa Francesco partecipa nella preghiera alla sofferenza dei feriti e delle famiglie dei defunti ed esorta tutti ad "opporsi con ogni mezzo al diffondersi dell'odio e di ogni forma di violenza, fisica e morale, che distrugge la vita umana, viola la dignità delle persone, mina radicalmente il bene fondamentale della convivenza pacifica fra le persone e i popoli, nonostante le differenze di nazionalità, di religione e di cultura". “Non si uccide in nome di Dio, la libertà di stampa è essenziale ma la religione non va offesa, non si può prendere in giro la fede di un altro anche se non si reagisce con la violenza”. Papa Bergoglio ha quindi sottolineato che la libertà di espressione deve avere dei limiti, in quanto non si “giocattolizza la religione degli altri, la libertà è diritto ma anche dovere”. Molto singolare poi, la metafora utilizzata dal Pontefice per spiegare il concetto: “È vero che non si può reagire violentemente ma se un amico dice una parolaccia contro mia mamma, gli spetta un pugno”, ribadendo che “ogni religione ha dignità ed io non posso prenderla in giro“. Un attacco "codardo e diabolico", lo definisce il presidente degli Stati Uniti, Barack Obama. "Siamo con i francesi", rimarca sottolineando come i terroristi abbiamo paura della libertà di stampa visto che hanno organizzato una strage di giornalisti. "L'islam è una religione pacifica ed è una sfortuna vedere questi estremisti radicali ed aggiunge che gli Stati Uniti lavoreranno per proteggere gli americani in casa e all'estero e sono consapevoli del rischio di attacchi da parte di combattenti stranieri disposti a dare la loro vita per la loro causa”. "Di volta in volta, la popolazione francese ha difeso i valori universali. La Francia e la magnifica città di Parigi, dove è avvenuto l'attacco, offrono al mondo un esempio che durerà ben oltre la visione odiosa di questi killer". "Ogni americano è con voi", aggiunge il segretario di Stato americano John Kerry. "Il mondo non si arrenderà ai terroristi. Nessuno sa meglio della Francia che la libertà ha un prezzo", ha affermato definendo le vittime della strage dei "martiri della libertà". Condoglianze al Paese anche dal presidente russo Vladimir Putin che condanna fermamente l'attacco di Parigi ed il terrorismo in tutte le sue forme. Nel mondo musulmano Il rettore della grande Moschea di Parigi Dalil Boubakeur ha condannato quest’atto barbarico e molti musulmani francesi hanno espresso tutto il loro orrore. I musulmani sono stanchi di essere sospettati, ostaggi di una crisi morale e identitaria. Sono i primi a essere inorriditi dai crimini dell’ISIS e di Al Qaeda e sono le prime vittime di questo terrorismo. “I terroristi offendono l’Islam più dei nemici dell’Islam, che hanno insultato il Profeta (Maometto) con i film o con vignette” e i musulmani devono sforzarsi di “isolare, assediare, e per dirlo apertamente, 6 sradicare” questi “gruppi takfiri” [il Takfirismo è un movimento settario fondato nel 1971 che definisce eretici tutti i musulmani che non condividono il suo punto di vista, legittimandone così l’uccisione]. Se Nasrallah prende posizione contro gli estremisti, in Iran, nazione sciita vicina ad Hezbollah, la Guida Suprema iraniana, l’ayatollah Ali Khamenei, attacca i servizi di intelligence di paesi “nemici” che, secondo la sua opinione, lavorano per dividere la comunità islamica, alimentando le divisioni tra sunniti e sciiti. “Le mani che seminano discordia tra sunniti e sciiti sono collegate ai servizi di spionaggio dei nemici dell’islam”. L’attentato terroristico di Parigi ha scatenato le reazioni della comunità musulmana nel mondo e, se in Italia gli imam condannano la strage nella redazione di Charlie Hebdo sottolineando che la violenza mette a rischio soprattutto i fedeli islamici, secondo Abdullah al-Athba, direttore di Al-Arab, il più importante quotidiano del Qatar, quanto accaduto rappresenta “una scusa della Francia per intervenire in Libia, quindi i musulmani non devono scusarsi”. E ha poi aggiunto: “Non scusatevi per un crimine che non avete commesso”. … e noi? Questa l'opinione di Assan Nasrallah (v.foto), capo di Hezbollah (partito politico sciita del Libano), le cui milizie combattono al fianco delle truppe lealiste nella guerra civile siriana, in un discorso tenuto in occasione della commemorazione della nascita di Maometto. Questi gruppi di sunniti, ha proseguito, “pongono una minaccia al nostro sangue, al nostro presente, al futuro, al nostro onore, e hanno cominciato a portare una minaccia all’Islam stesso. Il comportamento dei gruppi takfiristi che affermano di seguire l’islam ha dato una visione distorta della stessa religione, del Corano e della nazione islamica più di quella fornita dai nemici dell’islam che hanno insultato il profeta”. “Come possono pretendere questi gruppi di rappresentare l’Islam se decapitano, sventrano e massacrano la gente e in Yemen uccidono persone mentre commemorano la nascita del profeta? Oggi la nostra nazione e la nostra religione si trovano ad affrontare questa pericolosa minaccia”. In una nota inviata poi alla TV al-Arabiya, Nasrallah ha ribadito che attaccare innocenti è inaccettabile e deve essere condannato. Anche Orhan Pamuk, intellettuale turco, (v.foto) si è schierato contro il terrorismo. Sull'attentato di Parigi ha detto: ”Questo attacco è un duro colpo per quelli che, come me, credono che i musulmani possano vivere in pace accanto ai cristiani in Europa. Questo attacco è un tentativo di uccidere questa speranza.” Inoltre ha aggiunto che è fondamentale difendere la libertà di parola, specialmente in un paese come la Turchia dove questo diritto è limitato. Nonostante non si trattasse del primo attentato in Europa e che il livello d’allerta fosse alto sin da Natale, gli attentatori sono riusciti nel loro intento, un attacco a due luoghi simbolo, la redazione di un giornale satirico e un supermercato frequentato da ebrei. Un atto vile, oltre che crudele (non dimentichiamo infatti che le vittime erano persone inermi). Un attacco alla libertà di tutti i paesi democratici e civilizzati. Su “La Repubblica” Ezio Mauro firma l’editoriale e scrive: “Se vogliamo che i morti di Parigi abbiano un significato morale e politico anche per noi, oltre al significato simbolico e militare per i terroristi, dobbiamo recuperare questa consapevolezza di ciò che noi siamo. Si chiama Occidente, cioè quella parte della cultura e del mondo che afferma di credere appunto nella democrazia come pratica che regge la cosa pubblica e la convivenza civile. Recuperata questa coscienza, dobbiamo prendere atto che proprio a questa identità è stata dichiarata una guerra.” L'attacco è stato giustificato come un atto di vendetta in nome del profeta Maometto; a nostro parere, però, non si è trattato d'altro che di un tentativo disperato di far tornare a tremare l'Occidente dall'ultimo grande attentato: l'11 settembre 2001, l'ultimo in grado di mettere in ginocchio l'Occidente e l'unico in grado di dimostrare che la grande potenza degli USA poteva essere scalfita. L'evento ha rivelato il bisogno dell'Europa di prepararsi concretamente ad eventuali attacchi terroristici, come hanno già fatto gli Stati Uniti dopo l’ attentato del 2001. Occorre peraltro ricordare che molti dei gruppi ribelli anti Assad, che poi hanno dato vita all’ISIS, sono stati inizialmente sostenuti da governi occidentali, in primo luogo gli USA. Fino a che le grandi potenze continueranno a fomentare squilibri mondiali e soluzioni belliche, quasi sempre per nascosti interessi geopolitici ed economici, la situazione continuerà a rimanere instabile. E’ possibile e doveroso chiamarsi fuori da questo scontro, provando a costruire ponti tra popoli, religioni e culture, invece di acuire le divergenze. Ma ora l’Occidente sarà costretto ad agire, anche se la via militare non è l’unica e forse non sarebbe risolutiva in un contesto così complesso. 7 Bibliografia e sitografia: “L’ Humanité avant la Réligione” o “Osiamo vivere insieme”. Ma quello più diffuso era “Je suis Charlie”, scritto ovunque. Il simbolo più presente naturalmente era la matita: matite vere, di cartone, piccole o gigantesche, hanno dominato la manifestazione. Parigi, Charlie Hebdo: condanna internazionale, 7 gennaio 2015 http://www.repubblica.it/esteri/ Altre manifestazioni A cura di: Alina Jvanylo, Alessandro Pasqua, Dario Reverberi, Riccardo Riva, Federico Sello, Davide Zecca (III D 2015) Parigi: attacco armato giornale Charlie Hebdo almeno 10 morti 5 feriti , 8 gennaio 2015 http://www.ilfattoquotidiano.it/ http://www.reset.it/rassegna-stampa-italia/siamo-tutticharlie Charlie Hebdo: la reazione popolare Parigi: il mondo in piazza Domenica 11 gennaio 2015, la popolazione parigina è scesa in piazza per dare il via alla più grande manifestazione di tutti i tempi: leader politici di tutta Europa hanno affiancato il presidente francese in una manifestazione silenziosa - da Place de la Republique a Place de la Nation - a cui hanno preso parte due milioni di persone, facendo di Parigi “la capitale del mondo libero”. [“Il Giornale”] Manifestazioni si sono tenute in altre città della Francia e dell’Europa. Nelle foto sotto la manifestazione dei francesi residenti a Parma e quella dei ragazzi musulmani di Treviso. Nonostante si sentisse offesa dalle vignette di Charlie Hebdo, una buona parte della popolazione musulmana infatti si è discostata dai terroristi, criticando ciò che è successo e condannando l'uso della violenza come arma per rispondere a un'offesa. In testa al corteo i sopravvissuti al massacro e i familiari delle vittime. Nella foto, con la fronte bendata, il disegnatore Luz, che realizzerà la prima copertina di Charlie Hebdo dopo l’attentato, con Maometto che piange. Tra la folla erano presenti anche numerosi bambini che portavano al collo cartelli disegnati da loro: “Chi uccide è un pazzo”, “I cattivi non ci fanno paura”. Altri slogan recitavano In particolare Parma è stata palcoscenico di una manifestazione della comunità musulmana locale con circa 400 partecipanti. In segno di rispetto e di solidarietà verso la Francia, il Comune di Parma ha deciso di esporre il vessillo francese in Municipio, insieme a quello civico. Entrambe le bandiere rimarranno a mezz'asta in segno di lutto. La sera dell' 8 gennaio circa 150 persone si sono riunite in Piazza 8 Garibaldi dove Cgil, Cisl e Uil, appoggiati anche da altri sindacati, hanno organizzato una manifestazione per ricordare le persone uccise in nome di una follia terrorista, fondamentalista e vigliacca. “La manifestazione era importante per testimoniare solidarietà nei confronti dei familiari delle vittime e per dire che anche Parma si ribella all'attacco di Parigi”. Queste sono le parole di Paolo Bertoletti, in piazza in rappresentanza della Cgil, critico anche verso l'intervento di un gruppo di manifestanti che hanno espresso una condanna verso un Occidente che sfrutta gli immigrati. “Matite in alto. Per la libertà d'opinione”. È questo il titolo che sulla Gazzetta di Parma apre l'articolo dedicato alla manifestazione che i ragazzi delle sezioni musicali del liceo Attilio Bertolucci hanno organizzato la mattina dopo l'attentato. Oltre a voler dimostrare il loro impegno affinché non si ripetano massacri del genere, i docenti, preoccupati dal fatto che molti giovani potrebbero cadere in facili reazioni contro i propri compagni islamici, affermano che è importante impegnarsi affinché non si generi una “guerra” contro la comunità islamica. presenta un Maometto che piange e tiene in mano un cartello con lo slogan “Je suis Charlie”. Polemiche Una settimana dopo l’attentato di Parigi, il 14 gennaio 2015, l’organizzazione terroristica Boko Haram ha sterminato 2000 persone nel nord della Nigeria. E’ la stessa organizzazione responsabile del rapimento di più di 200 studentesse nigeriane. Da più parti si è invocata una sensibilizzazione dell’opinione pubblica mondiale pari a quella per la strage di Parigi. Ma ben pochi sanno quello che è successo e che continua a succedere in altri Paesi come il Pakistan, dove sono state distrutte dai talebani decine di scuole e dove solo nel dicembre del 2014 i terroristi hanno massacrato 141 persone, quasi tutti studenti figli di militari. “An unequal world?” recita la vignetta qui sotto. Certo va considerato l’alto valore simbolico della strage di Charlie Hebdo, un attentato alla libertà di espressione nel cuore dell’Europa democratica. Pino Agnetti sulla Gazzetta sostiene che, proprio perché la nostra città vanta un rapporto speciale con Parigi e più in generale con la Francia, sarebbe stato necessario anche un gesto che andasse oltre le manifestazioni spontanee, come la proclamazione di una giornata di lutto cittadino da accompagnare con altri gesti simbolici , e non lasciare cadere troppo in fretta lo slogan “Je suis Charlie”, ma farne la bandiera di una giornata di lutto. Queste azioni non bastano certo a sconfiggere i terroristi, ma servirebbero a superare divisioni e difficoltà interne che rischiano di farci perdere questa guerra. Sul web Nei giorni immediatamente successivi all'attentato sui socialnetwork si è diffuso l'hashtag "JE SUIS CHARLIE" in segno di supporto per la redazione del giornale vittima dell'attacco: milioni di utenti hanno condiviso foto e slogan aggiungendo questo hashtag: i soggetti principali erano matite o musulmani, uomini e donne, che esprimevano la loro estraneità all'evento e la loro innocenza. Reazioni psicologiche L'attentato ha provocato un clima di insicurezza generale, in particolare nei parigini, molti dei quali si dichiarano favorevoli ad una politica anti-immigrazione; temono soprattutto gli immigrati delle banlieues, ritenuti pericolosi. (Cherif Kouachi era stato arrestato durante un'operazione antiterroristica condotta nella periferia parigina nel 2008). In realtà l'odio contro i magrebini ha vecchie radici: risale infatti alla guerra d'indipendenza algerina degli anni '60. Successivamente la Francia accolse migliaia di immigrarti provenienti dalle ex-colonie: molti "stranieri" in Francia sono cittadini figli di immigrati di seconda o terza generazione. Gli atteggiamenti razzisti non si sono però spenti e hanno in alcuni casi esasperato i figli degli immigrati a tal punto da farli agire in modo violento: è il caso della rivolta delle banlieues del 2005; dopo l'attentato a Charlie Hebdo le tensioni sono riesplose, portando molti cittadini a guardare gli stranieri con sospetto. Anche in Italia il pericolo dell’islamofobia è reale e solo la scuola e la corretta informazione possono evitare il diffondersi di idee false e controproducenti. “Charlie Hebdo” va a ruba Le reazioni dei ragazzi Il numero del giornale satirico stampato una settimana dopo l’attentato, in cinque milioni di copie, va a ruba nelle edicole francesi; tradotto in molte lingue o ripubblicato da giornali come “Il Fatto quotidiano”, è presto esaurito anche nel nostro Paese e subito ristampato. La copertina, a sfondo verde con la scritta Tout est pardonné, Riportiamo alcuni testi di ragazzi di un liceo della nostra città, che testimoniano la partecipazione alla tragedia e le tante domande che si pongono i ragazzi come noi. Il 7 gennaio “ogni cittadino civile è stato attaccato, colpito, offeso dalla disumanità dell'odio più cupo e tremendo che si possa 9 immaginare. […] Si parla di organizzazioni estremiste […]. E se il problema fosse interno? Il disagio delle periferie che si riversa in odio per il sistema. Non dimentichiamoci che dieci anni fa le banlieues parigine andavano a fuoco. Solo un organismo può evitare situazioni di questo genere: la scuola. Solo a scuola la persona può prendere atto di valori che rimarranno indelebili perché parte della sua educazione europea e laica. […] Solo con progetti educativi di valorizzazione di quell'umanità offesa si potranno evitare situazioni terribili come quelle vissute a Parigi." [Stefano Bolzoni] francese, inglese o tedesco - che gestiscono forum attraverso cui moltiplicano video e immagini e intercettano i simpatizzanti. Sono centinaia, sfuggono ai controlli ed hanno piena libertà d’azione dal Califfato, che ne sfrutta la motivazione ideologica per infondere entusiasmo nelle reclute. Francesca Parisi sottolinea che il tremendo attentato è accaduto “nella città che non solo rappresenta il centro dell'Europa, ma è simbolo della libertà di coscienza, pensiero e azione teorizzata per la prima volta nella Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino nel 1789. […] E’ una lotta, quella per la libertà, per nulla conclusa.[…] Abbiamo capito che la guerra non è così lontana da noi, al contrario è più vicina di quanto pensiamo. " Purtroppo è così. Il 18 marzo 2015, quando stavamo per chiudere questo numero unico, a Tunisi un attentato terroristico ad opera di giovani forse tornati nel loro paese dopo aver combattuto in Siria contro il regime di Assad (sono tremila i foreign fighters tunisini) ha coinvolto anche cittadini italiani. A cura di: Alex Dalla Fiora, Nicola Pagani, Alessandro Schianchi, Carlo Tanara (classe IV D 2014-2015) Bibliografia e sitografia: - P. Agnetti Parma metta il lutto per la strage di Parigi, “Gazzetta di Parma” 9 Gennaio 2015 - Articoli di T. Giannotti e C. Rancati, “ Gazzetta di Parma” 12 Gennaio 2015 -Atlante de la Repubblica, 19 gennaio 2015 - http://www.reset.it/rassegna-stampa-italia/siamotutti-charlie http://www.internazionale.it/storia/le-reazioni-in-tuttomondo-all-attentato-contro-charlie-hebdo Reclutamento Isis La presenza di jihadisti con passaporto dell’Unione Europea è stata spesso sottovalutata e ridotta a un fenomeno isolato di mancata integrazione. Dopo gli attentati a Madrid nel 2004 e a Londra nel 2005, ma soprattutto dopo la diffusione su internet dei video delle decapitazioni di prigionieri dall’estate del 2014, si è capito che il problema coinvolge la seconda e terza generazione d’immigrati. Gli assassini, infatti, parlano nei video in perfetto inglese (o olandese o francese). L’inquietante sorpresa di giovani, nati in occidente, pronti a partecipare alla Jihad , fa nascere il desiderio di sapere chi sono i jihadisti europei, perché sono partiti e come sono stati reclutati. I disseminatori Il primo passo è il reclutamento ed avviene quasi sempre online grazie ai «disseminatori» di Jihad ovvero volontari madrelingua - I siti web La radicalizzazione avviene, però, anche attraverso siti web e pagine dei social network (Facebook, You Tube e Twitter per esempio).Inoltre, l’uso di questi siti permette anche di abbassare l’età media dei giovani reclutati, in genere dai 13-14 anni fino ai ventenni. I siti sono preparati attraverso quella che potrebbe essere definita una strategia di marketing: con l’uso sapiente d’immagini e video si provocano le emozioni dell’utente, al punto che il rifiuto della cultura occidentale - vista come traditrice e infedele - e la partenza verso un teatro di guerra per portare aiuto al fratello in difficoltà sembra l’unica soluzione possibile per un vero credente.[cfr. su queste pagine l’articolo dedicato alla strategia mediatica dell’Isis] La prigione Un altro canale per la radicalizzazione e il reclutamento è la prigione. Diversi jihadisti, che hanno combattuto all’estero o compiuto attentati in patria, avevano abbracciato una versione radicale dell’Islam in carcere. Le prigioni nel mondo in generale e in Occidente in particolare sono divenute un terreno perfetto per la predicazione e il reclutamento. I membri di gruppi islamisti offrono amicizia e protezione a giovani condannati spesso per reati minori, cominciando quel cammino che, alla loro uscita dalla prigione, li porterà a brandire le armi contro una società che li ha rifiutati e condannati. Imam erranti Robert Musa Cerantonio, 29enne di padre calabrese e madre irlandese, è uno dei più pericolosi imam itineranti in Europa. Egli è lo stesso uomo che si fece una foto davanti alla basilica di San Pietro con la bandiera di AlQuaeda; inoltre veniva accolto come una star da molte comunità islamiche in Italia, fino all’arresto, il 10 luglio 2014 nelle Filippine. Nell’agosto del 2014, in Kosovo, è stato arrestato l’imam estremista wahabita Husein Bilal Bosnic, dopo aver girato nel Nord-Italia. Quest’ultimo è stato fondamentale nel processo di radicalizzazione di Ismar Mesinovic, l’imbianchino che lasciò la moglie e partì con il figlioletto di tre anni alla volta della Siria, dove è morto lasciando il bambino nelle mani dell’IS. 10 L’ «autostrada jihadista» Se un simpatizzante decide di partire per la Siria o l’Iraq, sale quasi sempre su un volo per Istanbul o Ankara. La Turchia è l’«autostrada jihadista» dal 2012 quando Ankara decise di consentire il passaggio dei volontari anti-Assad. In particolare, sono tre le città dove i volontari arrivano per essere presi in consegna da cellule di Isis: Sanliurfa, Gaziantep e Adiyaman. Si trovano ai confini con la Siria e alcuni hotel sono i punti di incontro da dove partono le staffette per superarli. È la via che ha consentito l’arrivo nel Califfato di almeno mille turchi e quasi tremila occidentali, inclusi cinquanta o, forse cento, italiani. L’addestramento Per chi arriva, la destinazione sono i campi di addestramento, di cui i forum jihadisti diffondono i video. Si addestra all’uso di kalashnikov, lanciagranate ed esplosivi, ma ci sono anche corsi di corpo a corpo e indottrinamento ideologico. Si dorme sotto tende dell’Us Army, rubate dall'Isis nelle basi dell’esercito iracheno rifornito dagli americani. Chi termina l’addestramento va a combattere a tempo indeterminato ma può decidere di tornare nel Paese da cui è partito, per andare a trovare i famigliari o per mettere a segno un piano definito, come i fratelli Kouachi. Fra gli occidentali c’è chi cede allo stress e vorrebbe disertare, ma la punizione del Califfo è feroce: fucilazione seduta stante. Il primo gruppo racchiude coloro che provengono dal Nord Africa o dal Medio Oriente e arrivano in Europa come studenti o rifugiati. In alcuni casi erano già stati sfiorati dalla radicalizzazione jihadista, mentre altri si sono avvicinati al jihadismo dopo l’arrivo in Europa. Il secondo gruppo raccoglie i figli o i nipoti d’immigrati giunti in Europa alla ricerca di un lavoro o di sicurezza. La maggior parte di loro possiede un passaporto europeo e parla perfettamente la lingua del Paese di residenza. Il terzo gruppo racchiude i neoconvertiti che si avvicinano a una visione radicale dell’Islam dopo essere diventati musulmani. Una crisi di identità Secondo Kenan Malik, intellettuale indiano residente in Gran Bretagna, ”l'islamismo radicale non è un movimento religioso, ma è il modo in cui alcuni gruppi esprimono la loro barbarica rabbia politica utilizzando a questo fine una certa interpretazione della religione. I giovani jihadisti crescono estraniati dalla società nelle nazioni europee nelle quali sono emigrati i loro genitori. Ma la stessa cosa avviene anche nelle comunità dei Paesi musulmani. Molti detestano costumi e tradizioni delle loro famiglie: il motivo per cui si sentono disconnessi tanto dalle società occidentali quanto dalle comunità musulmane e abbracciano l'islamismo radicale non è religioso. Ha più a che fare con una loro crisi d'identità. La jihad dà loro un senso di appartenenza, una nuova identità: si riconoscono in obbiettivi comuni spaventosamente chiari.” Il profilo del jihadista Ma chi è più sensibile al reclutamento? Esiste un profilo del futuro jihadista? Un recente studio fatto dall'agenzia No-Profit, Centre for the Study of Radicalisation, ha eliminato l’immagine del terrorista come povero, proveniente da classi disagiate e senza grandi prospettive. Alcuni degli autori di azioni terroristiche legate alla Jihad avevano completato studi universitari e la maggior parte degli arrestati in Europa per azioni terroristiche aveva un lavoro fisso. Quindi non appare possibile definire una classe sociale di provenienza dei reclutati europei. Secondo Edwin Bakker, esperto di terrorismo del Clingedael, le tre categorie di persone più vulnerabili al reclutamento jihadista sono: 1. nuovi immigrati 2. seconda o terza generazione d’immigrati 3. neoconvertiti Numeri Nel 2014 i numeri stimati degli stranieri trasferiti in Siria per combattere a fianco dell'ISIS sono: più di 800 dalla Russia, più di 700 dalla Francia, circa 500 dal Regno Unito, 300 dalla Germania, 250 dall’Australia e dal Belgio, 120 dall’Olanda, più di 100 dagli Stati Uniti, 100 dalla Danimarca, 50 dalla Norvegia e dall’Italia, 30 dall’Irlanda e dalla Svezia. 1400 europei che combattono in Siria. Alcuni dei 50 italiani sono rientrati in patria dopo aver ricevuto l'addestramento da parte dei terroristi e svolgono servizi di logistica reclutamento. L'80% di loro non sono figli di immigrati, ma italiani convertiti da poco all'Islam. 11 Un articolo dell’11 marzo 2015 segnala più di 3000 foreign fighters che combattono in Iraq e Siria, di cui 65 partiti dall’Italia. La cosa che più preoccupa oggi è che cerchino di rientrare nei Paesi da cui sono partiti o in altri dell’area Shengen. A cura di: Giulio Cabrini & Matteo Cobianchi (III D 2014-15) Bibliografia e sitografia: M.Venturini, Le tecniche psicologiche per reclutare gli italiani, 26-8-2014 http://www.ilfattoquotidiano.it/ V.Piccolillo, Giovani e convertiti, chi sono i 50 italiani dell’Isis, 14-8-2014 http://www.corriere.it/cronache/ D.Ferri, Come i jihadisti di Isis richiamano alle armi gli europei, 27-6-2014 http://www.giornalettismo.com/ C.Cruciani, Isis, soldi e propaganda antioccidentale per reclutare nuovi adepti, 7-1-2015 http://ilmanifesto.info/ M.Gaggi, La crisi di identità dei giovani musulmani in Noi e l’Islam, “Corriere della Sera”, Milano, febbraio 2015 p.243 Isis: la strategia mediatica L'Isis è riuscito a sfruttare televisione, internet e social network al fine di diffondere, attraverso immagini e video, il suo messaggio che incita alla guerra santa e alla lotta contro i “crociati”. Attraverso un efficiente e particolare sistema narrativo semplifica e distorce la realtà, al fine di dare un volto nuovo ai nemici e creare un mondo in bianco e nero, dove loro rappresentano il bene assoluto e tutt i gli altri il male. Infatti l'Isis, allo stesso tempo, terrorizza i suoi nemici e recluta nuovi adepti mostrando i vantaggi di militare nelle sue file. 1. Reti televisive Nel 1996 una nuova rete televisiva araba con sede in Qatar, Al Jazeera, [il nome significa in arabo “isola, penisola”, e indica solitamente l’Arabia Saudita] inizia a mandare in onda i suoi programmi, “sconvolgendo lo spazio mediatico arabo, fino a quel momento frammentario, gestito da vari Paesi, o meglio da varie dinastie interessate a conservare il proprio potere e a non indispettire troppo il loro partner economico occidentale”. La nuova rete di informazioni mostra le contraddizioni interne al mondo arabo e i suoi problemi. Una delle questioni principali è quella palestinese, la quale è diventata simbolo dell'ingiustizia inflitta al mondo islamico da un ordine mondiale dovuto e controllato dal quello occidentale. A differenza di molti altri paesi islamici, che non mostrano mai Israele, Al Jazeera accoglie spesso rappresentanti israeliani o intellettuali politici; in questo modo viene dato un volto ad un "nemico", che è forte e potente e questo rende più urgente la necessità di combatterlo. Al Jazeera utilizza anche il potere evocativo delle immagini e contribuisce a creare nuove mitologie. Ogni arabo, se muore è un “martire”, mentre i morti occidentali e israeliani sono solo “morti”. Il primo è l’incarnazione del vero e del giusto, il secondo invece appartiene per sua natura all’universo del male e della menzogna. Questo schema narrativo semplifica e distorce la realtà, ma ha un grande impatto sul pubblico. La rete televisiva ha svolto e continua a svolgere un ruolo da protagonista nella diffusione di film e video delle agiografie post mortem dei martiri per diffondere il loro messaggio, che incita alla guerra santa e alla lotta contro i “crociati”. La nascita di stazioni Tv satellitari non ha significato un cambiamento radicale nelle trasmissioni televisive arabe, anche se ha moltiplicato la varietà delle trasmissioni, in quanto esse ricorrono spesso alla demagogia, alla deformazione e all’allarmismo che servono ad infiammare lo spettatore e trarlo in inganno. Per esempio Al Arabiya è un'emittente televisiva degli Emirati Arabi Uniti, con sede a Dubai, fondata il 3 marzo 2003. L'emittente è nata da un finanziamento di 300 milioni di dollari statunitensi da parte dei proprietari della MBC (Middle East Broadcasting Center), il gruppo libanese Hariri Group, più altri investimenti dall'Arabia Saudita, Kuwait e dal Golfo Persico; nata per contrastare la supremazia di Al Jazeera, la combatte usando le sue stesse armi, cioè la tempestività nel fornire notizie e la trasmissione dei filmati forniti dai militanti islamici che compiono attentati o rapimenti. 2. Internet La nuova generazione di terroristi diffonde i suoi messaggi soprattutto su internet, anche se poi le TV di tutto il mondo ne riprendono i più scioccanti. Già nel 2004 uno studioso analizzò sulla rivista di geopolitica Limes quello che definiva “il Jihad elettronico”. Numerosi «siti islamici» che “ trattano l’islam sotto i suoi diversi aspetti: dottrinale, legale, storico, sociale, economico, culturale e politico. È da questi portali generalisti che ci si avvia all’esplorazione del jihad raccontato su Internet. Centinaia di siti, di nomi, di link, di dati in arabo (lingua privilegiata dell’islam in quanto lingua del Corano) costituiscono le trame di un intricato tessuto nel quale si rischia facilmente di perdersi. Ma in questa rete nella Rete è possibile comunque distinguere tre diverse tipologie di siti: quelli che diffondono il pensiero dei vari predicatori musulmani, quelli esplicitamente più militanti, anche detti «jihadisti» e, infine, quelli che ospitano i «forum islamici». Dopo la diffusione nell’estate del 2014 dei video delle decapitazioni di prigionieri da parte dell’Isis, è balzata all’attenzione mondiale l’abilità del califfato nel gestire un efficiente apparato comunicativo e nell'utilizzare varie tecniche per diffondere i propri messaggi sul web, secondo una precisa strategia. Il messaggio è strutturato in due parti: la prima consiste nello spaventare i nemici, nel sottolineare che nessuno è 12 davvero al sicuro; la seconda invece punta ad ottenere nuovi adepti. Per realizzare la prima vengono utilizzati principalmente video di decapitazioni, per la seconda la tecnica è più sofisticata e consiste nel mostrare i vantaggi del guerriero pubblicando foto di piscine, ville di lusso e così via. Viene inoltre mostrata la vita quotidiana di città controllate dal Califfato, come Mosul in Iraq, rappresentate come organizzate e civili e non oppresse da un regime oscurantista. Hanno fatto scalpore in Occidente i servizi realizzati dall’inglese John Cantlie, ostaggio dall’autunno 2012, che magnificano la vita sotto il Califfato. propri miliziani a bruciare i passaporti occidentali per stabilirsi definitivamente nel nuovo stato islamico. [Nella foto, tratta da un video di You Tube del settembre 2014, giovani miliziani strappano il loro vecchio passaporto e lo bruciano: un rito di passaggio che sancisce l’entrata dei nuovi jihadisti nello Stato Islamico] La maggior parte dei media si è concentrata solo sull'aspetto più crudo della comunicazione dell'Isis, contribuendo ad alimentare il terrore, ma la strategia mediatica dell’Isis ha molte facce. 3. Jihad 2.0 Gli attacchi informatici Queste attività sono coordinate da Ahmad Abousamra, ritenuto lo stratega della comunicazione digitale dell'Isis. L'Isis ha dimostrato di possedere sofisticate telecamere ad alta definizione, di non tralasciare nessun dettaglio nei suoi video e di aver imparato a sfruttare tutte le applicazioni più diffuse: JustPaste per pubblicare i resoconti delle battaglie, SoundCloud per gli audio, Instagram per le immagini, Whatsapp per grafici e foto. Una propaganda efficace e costosa, possibile anche grazie alla nota ricchezza del Califfato. Uno dei successi mediatici è stato il clip della decapitazione del reporter americano James Foley, la cui ampia diffusione online ha scatenato numerose polemiche. I jihadisti hanno reso fotogenica una decapitazione in mezzo al deserto, con video e audio così perfetti da sollevare dubbi riguardo alla veridicità delle immagini. Di conseguenza, nonostante il contenuto atroce poco "condivisibile", il video ha raccolto tantissime "condivisioni" e "mi piace": non soltanto un appello all'Occidente, ma un "ottimo" contenuto social. Il primo intento della loro comunicazione infatti non è intimidire, ma richiamare nuovi combattenti: una strategia efficace, considerato che sono almeno 3000 i miliziani arrivati a combattere da varie parti del mondo occidentale, tra i quali più di 50 italiani. La differenza tra i messaggi e gli articoli in arabo e quelli diffusi in inglese, rivolti a una più ampia audience internazionale, è considerevole. In lingua araba i miliziani si richiamano al dovere islamico di unirsi alla missione jihadista; in inglese sostengono che arruolarsi sia la chiave per una vita migliore. L'Isis ora sprona i Dopo gli attacchi armati, l'ISIS e al Qaeda puntano su quelli informatici. Arruolano hacker esperti, cresciuti in Occidente, che utilizzano i social network alternativi per diffondere i suoi proclami e i suoi messaggi. A una settimana dagli attentati di Parigi, una serie di individui e piccoli gruppi aveva già iniziato a colpire i suoi siti web. Sotto la bandiera di “OpFrance” l’ondata di attacchi informatici si è protratta per alcuni giorni coinvolgendo siti e giornali. “Sedicenti affiliati al Califfato sono entrati nel profilo Twitter del quotidiano americano Albuquerque Journal, postando un messaggio minaccioso: “Siamo già qui, nei vostri Pc e nelle vostre case”. Destino simile per la homepage della Malaysia Airways, su cui è apparsa una scritta quasi ironica: “Errore 404-aereo non trovato. Isis vincerà”.” “Ma il raid più grave, simbolicamente, è quello avvenuto contro gli account Twitter e Facebook del Comando Centrale delle truppe Usa a Tampa. Anche qui sono comparse frasi come: “Lo Stato Islamico vi insegue” e “guardatevi le spalle”. Nel caso francese ad agire è stata una rete informale di squadre (crew) e singoli, noti come AnonGhost, hacktivisti simili ad Anonymous, che pubblicizzano i loro attacchi nei loro account Facebook e Twitter. Fondamentali sono gli hashtag: conquistando una città dopo l’altra, Isis ha dimostrato che la guerra viene combattuta sia per la conquista del territorio che della narrativa del messaggio. Due sono stati quelli più utilizzati da quando Isis ha fatto la sua comparsa: #Baghdad_is_liberated” and “#Iraq_is_ liberated”. In Occidente si è cercato di porre freno al successo mediatico della propaganda jihadista. Account e pagine vengono chiuse regolarmente, sono stati lanciati hashtag del tipo #ThinkAgainTurnAway o #ISISMediaBlackout. Ma ai contrattacchi social occidentali corrispondono decine di altri hashtag lanciati dall'Isis: il 7 agosto 2014, dopo che il Presidente Usa Obama dichiarò che avrebbe inviato degli aerei in Iraq, su twitter è partita la campagna #AMessageFromISIStoUS, con numerose minacce di ritorsioni agli Stati Uniti. In alcuni casi, emerge anche un sostegno indiretto all’Isis da parte di hacker musulmani scontenti della reazione francese alle stragi. “OpFrance nasce per vendetta per come gli infedeli (kuffar) si comportano con i musulmani e con l’Islam”, ha spiegato a “l’Espresso” l’amministratore dell’account Twitter Unite Islamic Cyber Force, aggiungendo di non avere connessioni con l’Isis ma di sostenere il suo operato, arrivando a giustificare le uccisioni di chi insulta il Profeta. Gli attacchi informatici, come quello del sedicente Cyber Caliphate, che ha infiltrato il profilo Twitter del comando centrale del dipartimento della Difesa Usa, sono in realtà metodi per dimostrare non tanto le abilità degli attaccanti, ma 13 soprattutto l’assenza di capacità negli attaccati. I gruppi terroristici sono più interessati agli effetti sociali e politici delle loro azioni online (propaganda e reclutamento) che a colpire infrastrutture critiche. Il livello di hacking attuale dell’Isis è ancora abbastanza basso ma potrebbe migliorare rapidamente. Oltre alla propaganda sui social media, soprattutto su Twitter, l’Isis è impegnato a insegnare ai propri militanti misure per proteggere la loro identità online, creando siti protetti per scambiare messaggi criptati in arabo e in inglese. Inoltre l'Isis sta progettando di hackerare i canali televisivi occidentali e di infiltrarsi nella versione russa di Facebook per estendere la propria propaganda a nuovi mezzi. Molti utenti che utilizzavano celebri social network per postare messaggi, immagini e video diffusi dal gruppo terrorista islamico hanno visto il loro account sospeso. L'Isis – scrive il Daily Mail – si è quindi sentita costretta a pianificare una nuova strategia per veicolare i propri messaggi propagandistici. censure. Proprio in virtù della sua "apertura", infatti, non è possibile rimuovere o censurare i contenuti degli utenti, quando sconvenienti o pericolosi. I mezzi di comunicazione digitali diventano quindi il veicolo ideale per comunicare la propria versione dei fatti, il proprio messaggio e per reclutare nuovi partecipanti alla guerra contro gli infedeli. Permettono infatti di diffondere messaggi univoci, senza filtri e comunicare direttamente con la propria fan base, senza che questa ne metta in discussione la veridicità. E’ stato da poco pubblicato uno studio (The Isis Twitter Census) sulla demografia dei supporter del Califfato su Twitter: chi sono, quanti sono e se prendono parte alla propaganda dell’Isis in modo coordinato e strutturato. Inoltre i due autori si chiedono quanto sia efficace la sospensione degli account pro-Isis. Una nuova strategia Come spiega il sito Usa Vocativ, cinque sono i pilastri della nuova strategia. Nel primo e nel secondo viene teorizzata la necessità di reindirizzare le comunicazioni su altre piattaforme che non siano Twitter e YouTube. Al terzo punto si ipotizza addirittura la costruzione di un server alternativo che possa gestire le comunicazioni dello Stato Islamico. Poi, l’invito a sabotare i canali televisivi occidentali perché immorali e a trovare un mezzo alternativo alla piattaforma JustPaste per la pubblicazione dei comunicati. I social più sfruttati dai jihadisti “Ogni giorno ci sono più di 133mila tweet da 46mila profili, di cui oltre 1.500 condividono 50 e più contenuti pro-jihad. Il jihadista online tipico fa una media di 7 tweet al giorno, in tre casi su quattro in arabo, e in uno su cinque in inglese e raggiunge la media di 1004 follower. Buona parte dell’attività è riconducibile a circa 79 utenti iperattivi dotati di un numero di profili Twitter che oscilla fra i 500 e i 2000.” Le cancellazioni dei profili secondo gli autori sono poco efficaci, anche se hanno portato l’hastag preferito dal gruppo (il suo nome in arabo) da 40mila tweet al giorno in settembre a 5mila a febbraio. Sarebbe necessario che le cancellazioni raggiungessero la struttura profonda della propaganda Isis su Twitter e che ”fossero le stesse piattaforme social ad adottare politiche di contrasto più mirate e consapevoli”. D’altra parte dai tweet si possono ricavare molte informazioni utili, come i profili più pericolosi per la propaganda e gli spostamenti dei jihadisti. I jihadisti quindi preferiscono Google+ e Linkedin, social network molto utilizzati ma meno sotto i riflettori. Su G+ inoltre vengono sfruttate le funzioni di Picasa per la condivisione di immagini e il Google Calendar per segnare le battaglie. Su Linkedin, invece, è stato creato un profilo con l’elenco di tutti i leader di Isis, compresi i caduti in battaglia. Altro social network utilizzato è VKontakte, seconda piattaforma per numero di utenti in Europa e assai diffuso in Russia. Qui sono stati letteralmente trasferiti gli account di Twitter facendo copia e incolla di cinguettii e link. E in poche ore sono stati recuperati i seguaci persi. Un modo di ovviare alla censura di Twitter e Facebook è stato spostare la propaganda Isis su Diaspora, social nato nel 2010 a impianto decentralizzato e aperto: conta un milione di utenti ed è basato sulla creazione di “nodi” sociali decentralizzati – chiamati Pod – che possono essere creati dagli utenti stessi e su cui il social network non ha alcun controllo. Questo consente quindi all’Isis di agire indisturbato, senza temere ripercussioni o In conclusione, la nuova guerra non verrà combattuta esclusivamente militarmente e per il controllo del territorio. L’Occidente dovrà combattere anche per il controllo di internet, da cui da un lato ricaverà informazioni utili alla lotta contro i jihadisti, dall’altro dovrà arginare la diffusione virale della propaganda, contrastando il reclutamento di nuovi adepti e sostenitori. 4. Anonymous Subito dopo gli attentati di Parigi viene caricato su Youtube il video di rivendicazione di Coulibaly, uno dei terroristi. Ma contemporaneamente entra in azione contro i siti jihadisti Anonymous: WE are Anonymous We are Legion We do not Forgive We do not Forget Expect Us 14 Chi sono Anonymous è un fenomeno di Internet che identifica singoli utenti o intere comunità online che agiscono anonimamente - in modo coordinato o anche individualmente - per perseguire un obiettivo concordato. Il termine viene utilizzato pure come "firma" adottata da gruppi di hacktivisti, che intraprendono proteste e altre azioni sotto questo appellativo fittizio. Il fenomeno, nato nel 2003, si ispira alla pratica della pubblicazione anonima di immagini e commenti su internet. Il concetto, inteso come "identità condivisa", si sviluppa nella imageboard [sito che si basa sulla pubblicazione di immagini] di lingua inglese 4chan dove il nickname "Anonymous" viene assegnato ai visitatori che commentano senza identificarsi. Gli utenti delle imageboard cominciano ad identificare Anonymous con una persona reale e si diffonde così l’idea di un collettivo di individui senza nome, in lotta contro ingiustizie e poteri forti. che oggi, per esempio, ospita in home page un articolo con le dichiarazioni del principe Charles-Philippe d’Orleans che prende le distanze dalla campagna “Je suis Charlie” definendo Charlie Hebdo un “volgare fogliaccio” espressione di una società composta da “atei sinistrorsi”.[…] Dove Anonymous può fare davvero danni alle organizzazioni estremiste, è nel “deep web”, quella parte di Internet accessibile solo attraverso il circuito Tor (software per la navigazione anonima, ndr) e che viene usata, oltre che da dissidenti, politici, giornalisti e attivisti per i diritti umani che agiscono in paesi governati da regimi che controllano il web, anche dalle organizzazioni clandestine legate all’Isis e ad altri gruppi estremisti. Difficile, però, che si abbiano notizie “ufficiali” riguardo questa parte dello scontro”. A cura di: Leonardo Bertini, Pietro Toso, Alessandro Dalla Chiesa (III D 2014-15) Bibliografia: - J. L. Esposito, Guerra santa? Il terrore in nome dell'Islam. V&P Università, Milano 2004 - G.Sale, Islam contro Islam, Jacka Book, Milano 2013 - M.Mari, La guerra della narrativa: perché è così efficace la comunicazione mediatica dell’ISIS, 26 settembre 2014, chefuturo.it Cosa fanno contro il jihad L’operazione lanciata da Anonymous (hasthtag #OpCharlieHebdo) ha lo scopo di mappare tutte le informazioni che si trovano sui siti legati agli estremisti e denunciare in modo virale sui social gli account di jihadisti e terroristi, in modo che vengano oscurati. Una battaglia combattuta con attacchi che rendono irraggiungibile il sito saturando la connessione (DDOS, Distributed Denial of Service) o che portano al defacement, cioè la sostituzione del contenuto dell’home page, per esempio con vignette satiriche. - C.Piotto, Isis, propaganda 3.0. Tweet poliglotti, video in hd e riviste tradotte in inglese per diffondere i messaggi dei jihadisti all'Occidente, L'Huffington Post, 2 settembre 2014 - C. Frediani, Se il terrore corre sul web, L'Espresso, 5 Febbaraio 2015, pagine 60-61. - M. Schiaffino, Charlie Hebdo, Anonymous non si ferma: quinto giorno di attacchi ai siti jihadisti, 13-12015 http://www.ilfattoquotidiano.it/ - M. Serafini, G+ e LinkedIn, la nuova strategia di Isis in rete e sui social network, Corrriere della Sera, 25 agosto 2014. - F.Chiusi, La cyberguerra del Califfato, in “La Repubblica” 23 marzo 2015, p.17 L. Trombetta, Il jihad elettronico, in “Limes” n° 1, 2004 pp.43-51 http://www.ilgiornale.it/news/mondo/isis-nuovovideo-propaganda-lostaggio-magnifica-califfato1080156.html http://vocidalsuq.tgcom24.it/2014/09/25/vita-nelcaliffato / “Al quinto giorno di mobilitazione, sul canale IRC di Anonymous dedicato all’operazione ci sono 400-500 utenti connessi, che discutono delle azioni e si scambiamo consigli su come muoversi per colpire i bersagli prescelti. […] Nel mirino oggi c’è Kavkazcenter.com, un sito di news vicino all’estremismo islamico http://www.games969.com/wpcontent/uploads/2015/02/Anonymous1.jpg 15 Origini estremismo Cause La nascita dei movimenti terroristici di matrice islamica nella seconda metà del ‘900 è legata a diversi fattori. 1.Le ripetute sconfitte degli arabi, a partire dalla dissoluzione dell’ultimo Califfato, quello ottomano nel 1924. 2. La sudditanza politica da Europei e Americani: i confini degli stati del Levante, della Penisola Araba e del Maghreb sono stati disegnati in modo artificiale e sono stati vissuti come un’imposizione delle potenze coloniali per dividere l’intera umma, cioè la comunità dei credenti. 3. Lo sfruttamento occidentale delle risorse petrolifere di alcuni Paesi dell’area. Negli anni '50, così, nacque, ad opera di alcuni intellettuali arabi, il progetto di rifondazione di uno stato islamico analogo a quello creatosi dopo la morte di Maometto. In questo scontro il concetto di jihad ha un ruolo chiave: viene infatti strumentalizzato per legittimare le azioni contro l'Occidente [vedi il glossario alle pagine seguenti]. Nel Corano, tuttavia, esistono regole precise riguardo il jihad, che i terroristi non rispettano: tra queste la proibizione di uccidere gli inermi, di maltrattare i prigionieri, di danneggiare le case. Uno degli esempi più noti di jihad (difensivo) è quello della resistenza armata dei mujaheddin durante l'invasione russa dell'Afghanistan (1978-1992, nella foto sotto mujaheddin in Afghanistan nel 1984 ). Tra i guerriglieri vi erano anche alcuni uomini che fonderanno movimenti terroristici, tra cui Osama Bin Laden, che progettò l’attacco alle Torri Gemelle dell’11 settembre 2001. Da singoli attentati e tentativi limitati di fondare Stati jihadisti, come quello dei talebani in Afghanistan, si è ora passati ad un progetto politico ambizioso: rifondare l’unità dell’Islam come all’epoca di Maometto, quando non c’erano divisioni. E’ questo l’intento dell’IS, lo Stato Islamico proclamato da Abu Bakr al Baghdadi il 29 giugno 2014 (v.foto pagina seguente) Come scrive Maurizio Molinari, nel recente saggio Il Califfato del terrore, si è passati da una guerriglia rivoluzionaria a “una dittatura con progetti di conquista globali”, che l’autore paragona a quelli di Stalin e Hitler. decine di attentati in paesi di quattro diversi continenti, tra cui USA, Regno Unito, Somalia, Indonesia. Dopo l'attentato dell'11 Settembre 2001, Osama Bin Laden diventa il ricercato numero uno dei servizi segreti americani che, dopo anni di ricerche, riescono a scovarlo ad Abbottabad, in Pakistan, dove il terrorista viene ucciso il 2 maggio 2011. Dopo la sua morte il comando passa ad Ayman al Zawahiri, ma il movimento è in crisi per le perdite subite e per l’avanzata di altri gruppi terroristici, come Boko Haram e Isis, che alla lotta contro l’Occidente affiancano progetti territoriali. Recentemente Ayman al Zawahiri ha lasciato liberi i suoi seguaci di aderire all’Is. 2.Boko Haram Lo scopo di Boko Haram (nome che significa ”l’educazione occidentale è sacrilega, è proibita”) è quello di costituire uno stato islamico nel nord della Nigeria, dove da anni compie sanguinose azioni militari contro i cristiani e tutti quelli che vengono ritenuti vicini all'occidente. Il movimento minaccia anche gli stati limitrofi, che si sono coalizzati con il governo nigeriano per contrastare i terroristi. Fra le azioni più note dei guerriglieri di Boko Haram il rapimento nel 2014 di più di 276 studentesse nigeriane, quasi tutte ancora oggi nelle mani dei terroristi, e il massacro di 2000 persone nel nord della Nigeria una settimana dopo l’attentato di Parigi, il 14 gennaio 2015. 3.Isis (IS) Il movimento che mira alla creazione di uno stato islamico in Iraq e nel Levante fu fondato dal terrorista Abu Mus'ab al Zarqawi, capo di Al Qaeda in Iraq, ucciso in un raid americano nel 2006. Nel 2010 la sua eredità fu raccolta da Abu Bakr al Baghdadi, che riorganizzò il movimento e ne ampliò il progetto. Principali movimenti terroristici 1.Al Qaeda Dopo la guerra in Afghanistan, Bin Laden fonda Al Qaeda, che comincerà ad acquisire notorietà compiendo attentati contro simboli del potere occidentale, come le ambasciate. Il movimento si sviluppa progressivamente e accoglie seguaci da tutto il mondo. Nel corso della sua attività, Al Qaeda ha compiuto 16 Approfittando dei disordini creati in Siria dalla primavera araba (2011), infatti, l'organizzazione, ribattezzata Isis (Stato Islamico in Iraq e in Siria), ottenne sostegno militare e finanziario da parte degli stati che appoggiavano i ribelli anti-Assad. L'obiettivo dell'Isis, tuttavia, non era quello di combattere il dittatore siriano: già nel 2012 i militanti dell’Isis operavano una guerra di conquista territoriale attaccando villaggi, eliminando gli oppositori e poi lasciando delle guarnigioni con il compito di amministrare i territori conquistati. Attuavano quindi l'islamizzazione dell' area attraverso l'imposizione della shari'a e ricostruivano acquedotti, ponti, scuole. Nello stesso periodo alimentarono le tensioni tra sunniti e sciiti in Iraq con ripetuti attentati contro gli sciiti, minoranza al potere nel Paese e malvista dal resto della popolazione. conosciuta come Lamassu, distrutta dall’IS nel marzo 2015; il sito di Nimrud; statue distrutte nel museo di Mosul]. Le azioni dell' Isis divennero di dominio pubblico a livello mondiale nel giugno 2014, quando il grosso delle forze dello Stato islamico ( circa 15000 uomini) attaccò una guarnigione dell'esercito iracheno e occupò Mosul, seconda città irachena, e si espanse fino alla piana di Ninive, provocando la fuga della comunità cristiana. Il 29 giugno 2014 Al Baghdadi diffuse un video dove annunciava la nascita dello Stato Islamico e la sua nomina a Califfo. Da qui il nome di Califfato o IS, cioè semplicemente Stato Islamico. Nei mesi successivi il movimento diede prova della sua ferocia con le decapitazioni di alcuni ostaggi occidentali. Le esecuzioni provocarono la reazione di Stati Uniti e Regno Unito, che iniziarono a condurre dei raid aerei nei territori controllati dall'Isis. Ma vennero perpetrate anche stragi di sciiti, che rientrano in un piano sistematico di genocidio di questa minoranza musulmana. L' avanzata dei terroristi in Siria venne ostacolata dai Curdi che, nonostante le difficoltà dovute soprattutto all'ostruzionismo della Turchia nei loro confronti, riuscirono a riprendere la città di Kobane, nel nord della Siria, occupata dall’Isis. (gennaio 2015) Nei territori conquistati i terroristi continuano a fare “pulizia” di tutto quello che non è islamico (sunnita). Vengono colpiti anche monumenti: all’inizio dell’estate 2014 il Ministro del Turismo di Baghdad quantificava in circa 4370 i siti distrutti dai jihadisti tra Mosul, Diyala, Kirkuk, Anbar e Salahuddin; bollettino difficile da aggiornare, vista la difficoltà di reperire informazioni dai luoghi occupati. Recentemente distrutti il sito archeologico della città assira di Nimrud, capitale del regno di Assurbanipal II, nei pressi di Mosul, raso al suolo con i bulldozer; reperti archeologici del museo di Mosul. [Nelle foto a fianco l’antica statua assira Alle testimonianze artistiche si aggiungono quelle culturali: in febbraio i jihadisti hanno saccheggiato migliaia di volumi dalla biblioteca di Mosul e hanno incendiato quelli della biblioteca universitaria della città in un rogo acceso davanti agli occhi degli studenti del campus. In marzo hanno fatto esplodere la biblioteca pubblica, mandando in cenere 100.000 volumi, fra cui opere 17 rarissime, riconosciute come patrimonio dell’umanità dall’UNESCO. Su internet circolano video che documentano le atrocità del Califfato, contro persone (massacri, decapitazioni, esecuzioni compiute da bambini) e contro la cultura millenaria della regione che fu culla della civiltà. L'IS si è così costruita un'immagine attraverso i moderni metodi di pubblicità e propaganda per perseguire il suo obiettivo: creare uno stato islamico sulle orme di quello dell’VIII secolo. Ma, osserva la Napoleoni, si tratta di “una organizzazione molto pragmatica e moderna. Si muove nel presente, non nel passato”. L’Isis e l’Islam L’Isis e gli altri “terroristi sfruttano la religione islamica per giustificare e ispirare il proprio illegittimo e personale jihad, da loro proclamato senza che ne abbiano autorità alcuna, e condotto contro l'Occidente e anche contro gli stessi governi musulmani” [V.E.Parsi] Siamo in guerra, se non ve ne siete accorti, quella dichiarata dall'ISIS è una guerra vera e propria, difficile da ammettere solo perché, come la maggior parte delle guerre moderne, non ha dei veri e propri confini, un fronte preciso. Leggiamo su tutti i giornali di questa guerra, il jihad, e spesso sentiamo critici, politici, religiosi chiedersi le motivazioni e le radici di questo conflitto. E’ necessario, a nostro parere, conoscere alcune delle nozioni fondamentali sulla religione islamica, per capire perché dobbiamo distinguere Islam e terrorismo jihadista. Prendiamo in considerazione alcune parole chiave del lessico specifico e versetti del Corano. Glossario Fatwa (pl.fatāwa) si intende un parere legale con cui il mufti (giudice investito dell’autorità per farlo) regola una determinata questione applicando il diritto islamico. La più famosa fatwa fu pronunciata il 14 febbraio del 1989, 26 anni fa, dall’ayatollah Khomeini, il leader politico e religioso dell’Iran, contro lo scrittore di origine indiana Salman Rushdie, condannato a morte per aver scritto I versi satanici, un romanzo in cui – secondo Khomeini – Rushdie insultava la religione islamica e il suo profeta. Ancora oggi lo scrittore vive sotto scorta. Da questo episodio viene l’errata interpretazione, diffusa in occidente, della parola fatwa come sinonimo di condanna a morte da eseguire prontamente. A cura di: Edoardo Bernini, Alberto Corradi, Marco Dedja, Matteo Leporati, Alessandro Simonini (IV D 2014-2015) Bibliografia e sitografia: Loretta Napoleoni, ISIS Lo Stato del terrore, Feltrinelli, Milano 2014 Intervista a L.Napoleoni http://www.avvenire.it/Cultura/Pagine/califfatoholding-del-terrore.aspx Maurizio Molinari, Il Califfato del Terrore, Rizzoli, Milano 2015 Voce Al Qaeda: Wikipedia http://www.theguardian.com/world/2015/mar/09/iraq -condemns-isis-destruction-ancient-sites http://www.finzionimagazine.it/news/approfondimen to-news/lisis-contro-i-libri-e-il-patrimonio-artisticodelliraq/ Jihåd: reso erroneamente nelle lingue occidentali con «guerra santa», significa letteralmente «lotta», «sforzo» compiuto «sulla via di Dio» . La tradizione prevede quattro tipi di jihåd: con l’«animo», con la «parola», con la «mano» e, infine, con la «spada». I primi tre, rivolti ai singoli fedeli (con l’«animo») e all’intera comunità islamica (con la «parola», con la «mano»), sono considerati il «grande jihåd», volto alla pacificazione delle proprie passioni e al mantenimento del benessere della collettività. Quello con la «spada» è invece considerato il «piccolo jihåd» ed è indirizzato all’esterno della comunità, sia per difenderla da un’aggressione armata (J. difensivo), sia per far trionfare la parola di Dio sui territori non islamici.(J.offensivo). Il jihåd è obbligo individuale di tutti i credenti capaci di portare 18 armi, ma solo in caso di aggressione. Nel J.offensivo l’ obbligo ricade sull’intera comunità ed è sufficiente che solo un certo numero di musulmani lo esegua personalmente. E’ proibita l’uccisione degli inermi (donne, bambini, anziani, disabili eccetera), vieta di distruggere i beni del nemico (tra cui, ad esempio, le case) e obbliga a preservare la natura. Questa la teoria, ma nell’evoluzione storica delle società islamiche il concetto di jihåd offensivo e la sua applicazione pratica hanno seguito percorsi diversi. Dal X secolo d.C. il termine acquisisce il significato di «azione militare religiosamente giustificata al fine di creare un ambiente universale islamico» ovvero, «guerra santa». In un Islam frammentato, diverse autorità locali proclamavano il proprio jihåd, a volte anche contro lo stesso califfo. In periodo coloniale, invece, (XIX-XX secolo) si diffuse l’idea del jihåd come strumento di lotta anticoloniale ( jihåd difensivo, più politico che religioso; cfr. per esempio la resistenza algerina antifrancese e quella libica antitaliana). Solo a partire dagli anni Settanta, con l’acuirsi del confronto tra mondo arabo-islamico e Occidente (dalla guerra del 1967 con Israele), il jihåd è diventato una vera e propria parola d’ordine usata da gran parte di quei movimenti fondamentalisti che hanno come obiettivo la lotta all’imperialismo occidentale e ai regimi arabi alleati dell’Occidente. Dalla stessa radice g (j) h d (=sforzo) deriva la parola mujahid . Mujahid (pl. mujaheddin) indica “colui che mette in pratica il jihad”. Nel lessico politico contemporaneo è sinonimo di militante impegnato sul piano politico e/o militare. Il termine nel recente passato denotava per esempio sia i combattenti nazionalisti (vedi guerra di indipendenza algerina 1954-62) che gli integralisti religiosi della lotta di resistenza antimonarchica contro lo scià (Iran, 1971-79), o della guerriglia anticomunista in Afghanistan (1978-92). Oggi i media italiani usano come sinonimo “jihadista”. Mujaheddin in Afghanistan nel 1984 Shari'ah: dalla stessa radice di shari’ ( la «via [dritta rivelata da Dio]») ciò che Dio ha stabilito per regolare e valutare tutta l’attività e la condotta del musulmano. Quest’ultimo è sottoposto al dettato sciaraitico ovunque egli si trovi, anche nei paesi non islamici. Le fonti sono: Corano, Sunna (Raccolta dei detti del Profeta), e la giurisprudenza che ne è derivata. Oggi è quasi una ”parola magica ripetuta dai fondamentalisti” (Haliday). In alcuni paesi a maggioranza islamica come l’Iran e l’Arabia Saudita, la Shari'ah non è considerata solo un codice di comportamento etico, ma una fonte di diritto positivo (anche se non l’unica). Su di essa si basa per es. la pena di morte per blasfemia, apostasia, adulterio. Il fondamentalismo si appella ad una più rigorosa applicazione del dettato sciaraitico in tutti gli ambiti giuridici e considera la Shari'ah l’unica via giuridica da percorrere. Salafiyya, salafiti: movimento fondato negli ultimi decenni del XIX secolo che considera le prime comunità di musulmani, gli “antenati virtuosi” (salaf al-salihin), un modello per la creazione di una nuova società. Se prima indicava le tendenze modernizzatrici di riformatori islamici, dagli anni Settanta del XX secolo indica una tendenza conservatrice presente nel mondo arabo, in particolare nella penisola araba, ma ora espressa anche da Al Bagdadi, l’autoproclamato Califfo dell’Is. Sunniti (rosa chiaro) e sciiti (rosa scuro) Sciismo: dall'arabo shi‛a «partito, fazione», sottinteso «di Alì” il cugino e genero di Maometto, che entrò in conflitto coi suoi successori e creò una setta separata. E’ il principale ramo minoritario dell'Islam (circa il 10% della popolazione musulmana mondiale, ma è la religione dominante in Iran). Lo sciismo non è un’eresia (dottrina basata su interpretazioni contrarie alla ortodossia) né un vero e proprio scisma (uscita, separazione) nell’Islam, ma una frattura politica, derivante da questioni relative alla successione del Profeta. Sunnismo: dall’arabo sunnah (“tradizione, consuetudine”) è l’orientamento religioso dell'Islam attualmente maggioritario che comprende circa l’85- 90% del mondo islamico. Definisce l’ortodossia in opposizione ai dissidenti (come gli sciiti) e in nome del rispetto della consuetudine approvata da tutti e del modello profetico. La sunna si definì lentamente, nel corso di un processo che condusse, alla fine del 10° sec., alla selezione delle tradizioni accettabili e delle scuole legali che regolavano l’interpretazione della legge sacra. I sunniti credono nell’eternità del Corano e nella predestinazione (qadar), secondo la quale Dio ha previsto ogni singolo atto ed evento della vita dei credenti. Umma: nel Corano, la comunità dei credenti. Il termine, usato anche in epoca preislamica, con vari significati, da quello religioso a quello politico-ideologico, indicò la prima comunità islamica costituitasi ai tempi del Profeta a Medina, da cui il senso più generale di comunità islamica universale (ummat alislāmiyya), che comprende cioè tutti i paesi in cui vige la legge islamica. Con la nascita degli Stati-nazione anche nell’area mediorientale, alcuni movimenti politici hanno utilizzato il termine umma per tradurre il concetto di nazione, da cui ummat al-‛arabiyya, «comunità araba», nel senso di nazione araba. 19 Versetti del Corano Commento Tra le sure [le 114 ripartizioni] del Corano sono vari versetti che incitano alla violenza contro gli infedeli; non solo, sembra che il popolo islamico debba prepararsi ad una battaglia contro coloro che non professano l’islam. Seguono alcuni dei versetti che abbiamo ritenuto più significativi riguardo a questo argomento. Risulta chiara la crudeltà con cui la dottrina islamica condanna le altre religioni; tuttavia bisogna tenere conto del contesto storico in cui il Corano stesso fu scritto, periodo nel quale guerre sante contro altre religioni erano all'ordine del giorno. Attualmente è ancora più sbagliato prendere alla lettera queste frasi che incitano la violenza, sapendo che la società e la cultura odierna hanno compiuto un notevole progresso rispetto alle epoche passate. Il fatto che i combattenti dell' ISIS prendano questi versetti e li pongano alla base delle proprie azioni li differenzia dall'essere semplici credenti islamici e li rende veri e propri fanatici estremisti. “Non obbedire ai miscredenti; lotta invece con essi vigorosamente.” (C.25:52) “Uccideteli ovunque li incontriate e scacciateli da dove vi hanno scacciato” (C.2:191) “E combattili fino a quando non ci sia più tumulto o oppressione, e prevalga la giustizia e la fede in Allah ovunque e dovunque.” (C.8:39) “O voi che credete! Combattete i miscredenti che vi stanno attorno, che trovino durezza in voi.” (C.9:123) “Combattete coloro che non credono in Allah, che non vietano quello che Allah e il Suo Messaggero hanno vietato” (C.9:29) “La ricompensa di coloro che fanno la guerra ad Allah e al Suo Messaggero e che seminano la corruzione sulla terra è che siano uccisi o crocifissi, che siano loro tagliate la mano e la gamba da lati opposti o che siano esiliati sulla terra: ecco l’ignominia che li toccherà in questa vita; nell’altra vita avranno castigo immenso.” (C.5:33) “Preparate, contro di loro, tutte le forze che potrete [raccogliere] e i cavalli addestrati per terrorizzare il nemico di Allah e il vostro e altri ancora che voi non conoscete, ma che Allah conosce. Tutto quello che spenderete per la causa di Allah vi sarà restituito e non sarete danneggiati.” (C.8:60) A conferma delle nostre osservazioni riportiamo qui un articolo che ci ha segnalato la nostra insegnante. Parlando a un seminario tenutosi alla Mecca il 22 febbraio 2015 sul tema "L'islam e la lotta contro il terrorismo", Ahmed al-Tayeb, l’imam di Al-Azhar, la più autorevole università del mondo islamico sunnita (in Egitto, al Cairo), ha dichiarato che è urgente una radicale riforma dell'insegnamento religioso fra i musulmani per contenere la diffusione dell'estremismo religioso. L’imam ha sottolineato che l'estremismo è prodotto da una "cattiva interpretazione del Corano e della sunna". "Vi è stata un'accumulazione storica di tendenze estremiste", che hanno portato alcune persone ad abbracciare una forma errata dell'islam. "L'unica speranza per recuperare l'unità della nazione musulmana [umma] - ha aggiunto - è di contrastare in scuole e università questa tendenza a bollare i musulmani come miscredenti". Il principe Khaled AlFaisal, governatore della Mecca, ha letto un discorso del re saudita Salman. In esso il monarca custode dei due luoghi santi dell'islam ha affermato che "il terrorismo è una piaga prodotta da un'ideologia estremista". Esso è "una minaccia alla comunità musulmana e al mondo intero". A cura di: Raffaele Braniste, Riccardo Ferri, Cecilia Massimo, Stefano Peri, Alessandro Sorba (III D 201415) Bibliografia e sitografia - H. R. Piccardo (curatore), Il Corano, Newton & Compton, Roma 1996 - Glossario ragionato dei termini islamici, in “Limes” n° 1, 2004 pp.35-42 - F.Halliday, Glossario, in Cento miti sul Medio Oriente, Einaudi, Torino 2006 - V.E.Parsi, Introduzione a John L. Esposito, Guerra santa? Il terrore in nome dell'Islam. V&P Università, Milano 2004, p.XI - www.treccani.it - http://www.asianews.it/notizie-it/Imam-di-AlAzhar:-Per-fermare-l%27estremismo-islamicooccorre-una-riforma-dell%27insegnamento-religioso33541.html 20 Israele e Palestina La nascita del "Focolare Nazionale" La Gran Bretagna con la Dichiarazione Balfour (1917) riconosceva ai sionisti il diritto di formazione di un "focolare nazionale" in territorio palestinese, diritto che venne interpretato come il permesso di costituire uno stato autonomo ed indipendente. Questo fu subito causa di attriti tra la popolazione araba preesistente e i sionisti. Il futuro fondatore d’Israele David Ben Gurion delimitava i territori in cui stanziarsi così: a nord fino al fiume Lītānī in Libano e al Monte Hermon, a sud il Golfo di ‘Aqaba, a est tra Amman e ‘Aqaba e a ovest fino ad al-‘Arīš, città del Sinai egiziano. L'espansione ebraica Il conflitto tra gli ebrei d'Israele e gli arabi palestinesi è una competizione aspra, crudele e nazionalistica, da sempre usata dalla propaganda antioccidentale a sostegno delle rivendicazioni del mondo arabo, in particolare dopo l’11 settembre 2001. Abbiamo voluto approfondire la storia dello stato di Israele, per capire se le affermazioni degli integralisti islamici abbiano qualche fondamento o se si tratti solo di uno dei pretesti per legittimare le azioni terroristiche nell’area mediorientale. Il conflitto La causa del conflitto, che in Medio Oriente vede opposti israeliani (di religione ebraica) e palestinesi (di fede musulmana), è la volontà di entrambi i popoli di avere un proprio stato all’interno del medesimo territorio. Il conflitto arabo-israeliano abbraccia circa un secolo di tensioni politiche e di ostilità. Gli israeliani lo rivendicano in quanto 3.000 anni fa in Palestina erano insediate tribù ebraiche di cui sono i discendenti. Già durante la cattività babilonese (VI-V secolo a.C.) gli ebrei si dispersero, lasciando liberi questi territori sui quali si insediarono gli antenati dei palestinesi. La diaspora ebraica si intensificò quando la regione fu conquistata dai romani. In seguito la Palestina entrò a far parte dell’impero ottomano, che si dissolse soltanto dopo la prima guerra mondiale. Quando, a fine Ottocento, in Europa scoppiò una nuova ondata di antisemitismo (“semiti” sono detti gli ebrei, in quanto discendenti di Sem, figlio di Noè, ma anche gli arabi sono semiti sotto il profilo linguistico ed etnico), Teodor Herzl, un ebreo ungherese, fondò il movimento sionista, che sosteneva la necessità per gli ebrei di ritornare nella Terra Promessa dove fondare un loro stato. Inoltre, Herzl organizzò il primo convegno sionista mondiale a Basilea nel 1897 e in esso furono poste le basi per la graduale penetrazione ebraica in Palestina, grazie all'acquisto da parte dell'Agenzia Ebraica di terreni per dar vita a un'entità statale ebraica. Tuttavia, fino alla promulgazione delle leggi razziali, pochi ebrei erano partiti per la Palestina, amministrata dagli inglesi dopo la prima guerra mondiale, dove essi convivevano pacificamente con i Palestinesi. Dopo la seconda guerra mondiale, l’Occidente, che provava un senso di colpa nei confronti della Shoah, decise che era giunto il momento di costituire uno Stato Israeliano. Alla fine del 1947 l’Onu deliberò che il 15 maggio 1948 sarebbe nato lo Stato di Israele. Sotto il Mandato britannico l'immigrazione ebraica nella zona subì un'accelerazione mentre l'Agenzia Ebraica - organizzazione sionista che agiva grazie ai finanziamenti provenienti da sostenitori esteri - operò velocemente per l'acquisto di terreni. Il risultato fu un aumento della popolazione ebraica in Palestina dalle 83.000 unità del 1915 alle 360.000 unità della fine degli anni Trenta. Negli anni Venti e Trenta numerose furono le dimostrazioni di protesta da parte dei movimenti palestinesi, che sovente sfociarono in veri e propri scontri a tre tra l'esercito britannico, i residenti arabi e i gruppi armati dei coloni ebrei. Spesso gli attriti non erano dovuti all'immigrazione in sé, ma ai differenti sistemi di assegnazione del terreno. Questo, unito alle regole con cui venivano gestiti i terreni assegnati ai coloni, di fatto toglieva l'unica fonte di sostentamento e lavoro a moltissimi insediamenti arabi preesistenti. Con la Proposta della Commissione Peel del 1937 si parlava della prima volta di divisione del Mandato in uno Stato palestinese e in uno ebraico. Verso la fine degli anni trenta, dopo la Grande Rivolta Araba e i falliti tentativi di divisione della Palestina in due Stati, la Gran Bretagna si pentì di aver sostenuto il movimento sionista e cominciò a negare al sionismo quell'appoggio politico che aveva garantito loro (cfr. il "Libro Bianco" del 1939). Ciò indusse gli ebrei di Palestina a chiedere aiuto agli Stati Uniti. Con la seconda guerra mondiale gli ebrei si schierarono con gli Alleati mentre molti gruppi arabi guardarono con interesse l'Asse, nella speranza che una sua vittoria servisse a liberarli dalla presenza britannica. Dopo la guerra, si passò dai 360 mila individui della fine degli anni Trenta ai 630 mila del 1947. La divisione della Palestina La definitiva risposta delle Nazioni Unite alla questione palestinese fu data il 29 novembre 1947 con l'approvazione della risoluzione 181, che raccomandava la spartizione del territorio conteso tra uno Stato palestinese, uno ebraico e una terza zona, che comprendeva Gerusalemme, amministrata direttamente dall'ONU. La risoluzione però, invece di preparare la pace, fu la premessa della guerra. Nel decidere su come spartire il territorio l'UNSCOP ( United Nations Special Committee on Palestine) per evitare possibili rappresaglie da parte della popolazione araba, considerò la necessità di radunare tutte le zone dove i coloni ebraici erano presenti in numero significativo nel futuro territorio ebraico, a cui venivano aggiunte diverse zone disabitate (per la maggior parte desertiche) in previsione di una massiccia immigrazione dall'Europa. 21 Nascita di Israele La Guerra del Kippur La nascita ufficiale dei due Stati in Palestina non ebbe mai luogo. Infatti, non appena i britannici ebbero lasciato la zona ponendo fine al proprio mandato (maggio 1948) i sionisti dichiararono lo Stato di Israele (subito riconosciuto da USA e URSS) e la Lega Araba scatenò una guerra "di liberazione" contro Israele. Le ostilità terminarono il 25 gennaio 1949, con una chiara vittoria israeliana, grazie alla efficiente organizzazione militare e al migliore armamento. I palestinesi lentamente si riorganizzarono: nel 1959 nacque AlFatah (sigla rovesciata di Ḥarakat at-Taḥrīr al-waṭanī al-filasṭīnī, con l’omissione delle iniziali di al-waṭanī «nazionale», movimento di liberazione nazionale palestinese) e nel 1964 l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP), slegata dai paesi arabi, di cui divenne capo Yasser Arafat.(v.foto) Nel 1973 Egitto e Siria attaccarono Israele, iniziò così la guerra dello Yom Kippur. La data scelta per l’attacco fu il 6 ottobre, giorno dello Yom Kippur, la festività più solenne del calendario ebraico. Fu la più grande guerra combattuta in Medio Oriente fino a quella del Golfo e portò alla crisi petrolifera del 1973, un embargo delle esportazioni di petrolio nei paesi occidentali che aggravò molto la crisi economica che in quegli anni aveva cominciato a colpire Europa e Stati Uniti. Soprattutto nei primi giorni, le perdite israeliane furono gravissime. Nel giro di una settimana, però, l’esercito israeliano riuscì a riorganizzarsi e a sfruttare la sua superiorità organizzativa e tecnologica. Le ostilità terminarono definitivamente il 28 ottobre, quando ormai le divisioni israeliane erano pronte a puntare sul Cairo. In particolare, l’Egitto cominciò dopo la guerra a normalizzare i rapporti con Israele e la conclusione del trattato di pace tra le due nazioni nel 1979 portò all’espulsione dell’Egitto dalla Lega Araba, durata fino al 1989. L’occupazione dei territori La Guerra dei sei giorni La cosiddetta "Guerra dei sei giorni" del giugno 1967 segna lo spartiacque della storia del Medio Oriente. Consiste in un attacco preventivo di Israele che distrusse inizialmente l'aviazione egiziana e scatenò una successiva offensiva contro l'Egitto, la Siria, la Giordania. Israele viveva un clima di isteria provocato dal timore dell'accerchiamento e di un nuovo olocausto. La guerra ha sancito l'irreversibilità dello status quo nei territori israelopalestinesi. Israele ha consolidato e legittimato la sua esistenza e i palestinesi non possono evitare di riconoscere la realtà di Israele. Nel 1977 il partito laburista perse definitivamente il controllo che aveva avuto dalla fondazione del paese. Il trionfo del partito di destra Likud e i governi di Menachem Begin (1977-83) e di Yitzak Shamir (1983-84 e 1986-92) portò ad una politica intransigente nei confronti dei palestinesi che si tradusse nell’occupazione ebraica delle terre, creando insediamenti e colonie ovunque nei territori abitati da arabi, principalmente in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza. L’affermazione del fondamentalismo ebraico fece sì che Israele negli anni successivi perdesse via via il carattere laico che lo aveva contraddistinto dalla fondazione. L’invasione del Libano Il 14 marzo 1978 Israele invase il Libano (“operazione Litani”) con l’intento di creare una fascia di sicurezza all’interno del territorio libanese (fino al fiume Litani) per tenere i propri villaggi di frontiera al di fuori del raggio d’azione dell’artiglieria dell’OLP che da una decina di anni aveva creato una base nel sud del Paese, da cui attaccava il nord di Israele. Dopo la condanna dell’ONU, (risoluzioni 425 e 426) fu creata la Forza di Interposizione in Libano delle Nazioni Unite (UNIFIL) per riportare la pace in Libano, ma gli israeliani non ritireranno le proprie truppe dal sud del Paese fino al 2000. Gli Accordi di Camp David Il 17 settembre 1978 fu sottoscritta un'intesa globale a Camp David, negli Stati Uniti, dal capo di Stato egiziano A. Sadāt e dal premier israeliano M. Begin con la mediazione del presidente degli Stati Uniti J. Carter in vista di una soluzione del conflitto. La cosiddetta “Impalcatura per la pace in Medio Oriente”aveva come piattaforma convenuta la risoluzione n° 242 del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, che sostanzialmente imponeva un negoziato tra le parti in guerra sulla base del ritiro delle forze israeliane entro confini sicuri e riconosciuti, della fine di ogni pretesa o stato di belligeranza, del rispetto e del riconoscimento di sovranità, integrità territoriale e indipendenza politica di ogni Stato della regione. La Prima Intifada Israele nel 1949 e nel 1967 (da La battaglia per Gerusalemme, Limes, 2010) A partire dal 1987, nei territori occupati si alzò un moto popolare (che prese il nome di Intifada, in arabo "brivido, scossa"), che 22 cercava di combattere la presenza israeliana in Palestina. A differenza di quanto era successo in passato, inoltre, la sommossa nasceva proprio all'interno dello stato di Israele, in Cisgiordania e nella striscia di Gaza, dove le condizioni di vita per i palestinesi erano particolarmente dure. riconobbe il diritto di Israele a esistere e rinunciò formalmente all’uso della violenza per ottenere i suoi scopi, cioè la creazione di uno stato palestinese. L’accordo conteneva anche un piano specifico per mettere in atto una soluzione definitiva alla “questione palestinese”. L’ “Intifada delle pietre” scoppiò l'8 dicembre 1987, quando un camion israeliano colpì due furgoni che trasportavano operai di Gaza al campo profughi di Jabaliyya, uccidendone quattro. In risposta la sera stessa, scoppiò una rivolta, in cui centinaia di persone bruciarono gomme e attaccarono le Forze di Difesa Israeliane. In breve la rivolta si espanse ad altri campi profughi palestinesi e infine a Gerusalemme. La repressione israeliana fu durissima, tanto che il 22 dicembre il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite condannò Israele per avere violato le Convenzioni di Ginevra a causa del numero di morti palestinesi in queste prime poche settimane di Intifada. Israele prometteva di ritirarsi da Gaza e dalla Cisgiordania e da altri territori occupati militarmente. I palestinesi avrebbero dovuto riconoscere Israele e rinunciare alla violenza. (nella foto Bill Clinton, Rabin e Arafat) Il clima favorevole dovuto al reciproco riconoscimento di Israele e dell’OLP portò alla firma nel 1994 di un accordo di pace fra Israele e la Giordania. Ma il fondamentalismo ebraico non vedeva di buon occhio accordi con i palestinesi. Nascita di Hamas La rivolta fu il terreno favorevole alla nascita di altre organizzazioni estremiste , che si richiamavano esplicitamente all’Islam contro il nemico assoluto (Israele). La più importante era Hamas (acronimo arabo di "Movimento di Resistenza Islamico") fondato a Gaza dallo sceicco Ahmed Yassin e da Khan Yunis, entrambi esponenti delle fazioni palestinesi più integraliste. Fu scatenata una serie di attacchi suicidi, il primo a Tel Aviv il 6 luglio 1989, contro il bus 405. La presenza di Hamas inasprì lo scontro con le forze militari israeliane con un crescendo di attentati terroristici suicidi. Da un punto di vista ideologico Hamas si richiamava ai Fratelli Musulmani, ma le attività di quel movimento, cominciate già nei primi anni '70, avevano ben altre finalità. Il lavoro di queste organizzazioni, infatti, si concentrava nell'istituzione di ospedali, sistemi di istruzione, biblioteche e altri servizi in aiuto alle popolazioni palestinesi della Cisgiordania e della Striscia di Gaza. Gli accordi di Oslo Lo scoppio della Prima guerra del Golfo contro Saddam Hussein (1991) convinse l’opinione pubblica internazionale che era necessario accelerare il processo di pace. Il 13 settembre 1993 vennero firmati gli Accordi di Oslo: sembrò che il conflitto stesse per finire, ma i nodi principali restavano irrisolti e rimandati a un secondo turno di negoziati: la nascita di uno stato palestinese indipendente, il ritorno dei profughi palestinesi, il controllo delle scarse risorse idriche e lo status di Gerusalemme. Per la prima volta gli israeliani riconobbero nell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina l’interlocutore ufficiale che parlava per il popolo palestinese e gli riconobbero il diritto di governare su alcuni dei territori occupati. L’OLP da parte sua L'assassinio di Rabin Nel novembre del 1995 il premier israeliano Yitzhak Rabin, che in base agli accordi di Oslo (ribaditi a Washington alla presenza di Clinton e del presidente egiziano Mubarak) proponeva un parziale ritiro dai territori occupati, venne assassinato a Tel Aviv, al termine di una manifestazione per la pace. Yigal Amir, ultranazionalista cresciuto negli ambienti religiosi, dichiarò di aver voluto uccidere, con Rabin, il processo di pace. Il ministro degli esteri Shimon Peres, stratega della pace insieme a Rabin, assunse la carica di primo ministro, rappresentando così, non solo simbolicamente, la continuità politica e la via negoziale alla pace. Nascita Autorità Nazionale Palestinese Ma Hamas otteneva sempre più ascolto presso la popolazione araba mentre l’OLP perdeva consensi. Una serie di attentati suicidi contro bus israeliani nel 1996 portò il Partito Laburista a perdere le elezioni a favore del partito di destra Likud ( Benjamin Netanyahu andò al governo). Nelle zone che avrebbero dovuto diventare il futuro stato palestinese cominciò una forma di autogoverno guidata dall’Autorità Nazionale Palestinese (ANP), presidente della quale fu eletto nel 1996 Yasser Arafat. Nuovi Accordi di Camp David Quando i laburisti tornarono al governo con Ehud Barak nel 1999 si aprirono di nuovo opportunità di pace. Israele si ritirò dal Libano e nel luglio del 2000, sotto gli auspici del Presidente Clinton, il Primo Ministro Barak e il presidente Arafat si incontrarono a Camp David per raggiungere un accordo su uno status permanente. Barak propose di abbandonare il 90% della Cisgiordania, ma la proposta di Arafat di lasciar tornare i profughi palestinesi in patria non poteva essere accettata da Israele, in 23 quanto avrebbe significato avere un paese a maggioranza araba. La Seconda Intifada La tensione ricominciò a salire e, nel settembre 2000, scoppiò la seconda Intifada, scatenata da una provocatoria passeggiata dell’allora candidato premier israeliano Ariel Sharon sulla Spianata delle Moschee. L’”Intifada di al -Aqsà” (nome della sacra moschea di Gerusalemme) provocò molte vittime (solo fra maggio 2003 e giugno 2004 furono uccisi 768 civili palestinesi e 189 israeliani). Molto diversa dalla prima, in quanto non moto popolare ma moto politico, organizzato di lotta armata. La reazione del premier Ariel Sharon (dal gennaio 2001 al potere) agli attentati suicidi fu durissima: distruzione delle case dei terroristi, omicidi mirati contro i capi della resistenza palestinese, controllo militare che impediva a molti palestinesi di lavorare e quindi penalizzazione economica. divenne il moderato Abū Māzen (di Al Fatah, partito fondato nel 1959 da Arafat) sembrarono aprirsi nuove opportunità per la pace. Sharon nel 2005 annunciò di voler smantellare le colonie ebraiche di Gaza. Ma da un lato Hamas (che nel 2006 vinse le elezioni in Palestina) e gli altri gruppi armati non erano controllati dall’ANP e non rinunciarono alla lotta; dall’altro i fondamentalisti ebraici non vedevano di buon occhio una politica moderata nei confronti dei palestinesi. Dopo reciproci attacchi e tregue, Israele lanciò una dura offensiva contro la Striscia di Gaza, con l’intento di smantellare le basi missilistiche palestinesi e chiudere i tunnel che collegavano la Striscia all’Egitto. La costruzione del muro A questo si aggiunse dal 2002 la costruzione di un muro, ufficialmente in difesa dei civili, in realtà anche per dividere le une dalle altre le città arabe e penalizzare ulteriormente la loro economia. La barriera incluse molti insediamenti israeliani. Per Israele, questa era autodifesa; per la Palestina, un'occupazione di territorio illegale. Nonostante fosse illegittima dal punto di vista del diritto internazionale, la costruzione del muro è proseguita per anni. L'operazione "Piombo Fuso" Due graffiti di Bansky sul muro Israele (premier dal 2006 era Benjamin Netanyahu, che nell’estate di quell’anno lanciò l’offensiva contro i militanti libanesi di Hezbollah nota come seconda guerra Israelolibanese) fra il 27 dicembre 2008 e il 18 gennaio 2009, lanciò l'offensiva denominata Cast Lead, Piombo Fuso. La Striscia di Gaza venne bombardata per cinque giorni e successivamente fu invasa dall'esercito israeliano. Nel primo giorno di bombardamenti i morti furono tra i 200 e i 300 (il Sabato nero del massacro). Alla fine dell’offensiva Gaza appariva un campo di rovine: più di mille le vittime tra i palestinesi, molti dei quali civili. L'Onu condannò l'aggressione con la risoluzione 1860 dell’8 gennaio 2009. Inoltre il Consiglio per i diritti umani aprì un’inchiesta che verificò la violazione dei diritti umani della popolazione palestinese. Operazioni militari e nuovi insediamenti Quando nel novembre 2004 morì Arafat e presidente dell’ANP “Pilastro di sicurezza” è il nome in codice della campagna militare iniziata il 14 novembre 2012 dalle Forze di Difesa Israeliane contro i militanti di Hamas e del Movimento per il Jihad Islamico in Palestina, come rappresaglia per il loro lancio di razzi. Venne ucciso Ahmad al-Ja'bari, capo militare di Hamas, colpevole di non aver voluto o saputo far rispettare il cessate il fuoco. La reazione di Hamas fu quella di scatenare un massiccio lancio di razzi sulle cittadine e gli insediamenti israeliani. 24 Fra il 2012 e il 2014 gli aerei israeliani hanno continuato a colpire la Striscia di Gaza con bombardamenti su depositi di armi e su abitazioni. Israele inoltre ha proseguito la politica degli insediamenti civili, da sempre fonte di tensioni con la popolazione araba (nel 2013, novanta nuovi insediamenti vicino a Ramallah). La strada per la pace è ancora lunga. Israele, marzo 2015 Il premier in carica Benjamin Netanyahu esce vincitore dalle elezioni anticipate del 17 marzo 2015, e annuncia l'intenzione di creare un governo "forte". “Il suo partito – il Likud – ha ottenuto 30 seggi su 120 in Parlamento. Nel 2013 si era fermato a 18. Gli avversari di centro-sinistra del Zionist Camp, guidato dal laburista Isaac Herzog – dati in leggero vantaggio dai sondaggi della vigilia – conquistano 24 seggi. Terza forza del Paese il cartello dei partiti arabi, che ottiene 14 eletti.” Gli arabi-israeliani infatti sono accorsi alle urne per votare contro il premier. Nonostante la vittoria di Netanyahu, quindi, queste elezioni segnano un risultato storico per la coalizione araba. Il segretario generale dell'OLP, Yasser Abed Rabbo, ha dichiarato che Israele «ha scelto la via dell'occupazione e della colonizzazione e non del negoziato e del collaborazione». Anche la giornalista Diana Buttu, israeliana di sangue arabo, pensa che non cambierà molto per i palestinesi. A rischio dunque ancora una volta il processo di pace. Appena prima delle elezioni, il premier aveva dichiarato che con lui non sarebbe mai nato uno stato palestinese; è allo studio un disegno di legge che definisce Israele come "Stato della Nazione ebraica": “la laicità dello Stato e il principio di non discriminazione dei cittadini arabo-israeliani” verrebbe così meno. A cura di: Francesca Bacchi, Alain Ben Rejeb, Alessia Borrini, Vittoria Ferrari, Arianna Ziveri. (IV D 2014-2015) Ultimo paragrafo S.Borsi. Bibliografia e sitografia: D. Condello, Israele-Palestina: storia della guerra "infinita" e le sue vere origini. www.stopcensura.com 5 ottobre 2010. Gli accordi di Oslo, vent'anni fa.www.ilpost.it 13 settembre 2013. F. Halliday, Cento miti sul Medio Oriente. Einaudi, Torino 2005. M. Campanini, Storia del Medio Oriente 1798-2005. Il Mulino, Bologna 2006. M. Toaldo, Piccolo atlante della disputa, in “Limes” La Palestina impossibile n°5/ 2007. U. De Giovannangeli, Il negoziato impossibile. dal quaderno speciale di “Limes” La battaglia per Gerusalemme, 2010. E. Fedrizzi – A. Della Valentina, Dossier Terra. Italia,Europa, Mondo. Minerva Scuola, Bologna 2012 T.Canetta, Il primo sconfitto è il processo di pace, http://www.linkiesta.it/vittoria-netanyahu-israeleconseguenze-palestina 18-3-2015 Israele, 18 marzo 2015: Benjamin Netanyahu annuncia la vittoria elettorale Il presidente degli Stati Uniti Barak Obama non è d’accordo con le posizioni di Netanyahu e “continua a credere che una soluzione a due Stati sia l’unica scelta per la difesa di Israele se vuole restare un paese democratico.” Non si può mantenere per sempre lo status quo né tantomeno estendere gli insediamenti.[Intervista del 23 marzo 2015] Per contrastare l’avanzata del terrorismo, inoltre, Obama sostiene la necessità di un accordo con l’Iran, mal visto da Israele. D.Buttu, Voto in Israele, vedrete che per noi palestinesi non cambierà nulla, http://www.repubblica.it/esteri/2015/03/18 Foto Intifada, http://www.bocchescucite.org/lecondizioni-per-la-prossima-intifada-ci-sono-gia/ http://www.repubblica.it/esteri/2015/03/23/news/la_sfida _di_obama_a_netanyahu_quella_dei_due_stati_e_l_unic a_scelta_-110251658/ 25 La libertà di espressione Un po’ di storia La libertà di manifestazione del pensiero parte dalle polis dell’antica Grecia, dove la libertà di parola, detta parresìa, coincideva con la facoltà di ogni cittadino di esprimere liberamente la propria opinione durante le assemblee pubbliche. Ma solamente con il XVII e XVIII secolo e con lo sviluppo del pensiero liberale si giunse alla teorizzazione della libertà di manifestazione del pensiero, che all’interno dello stato di diritto garantiva la tutela delle minoranze. Secondo Spinoza, teorico della libertas philosophandi, ogni Stato in cui vige un regime democratico e non tirannico deve assicurare ad ogni individuo la libertà di espressione. Quest’ultima è un diritto inalienabile, la cui limitazione esterna, imposta dallo Stato, ne segna la progressiva instabilità, mentre la rinuncia spontanea all’esercizio di tale diritto fa retrocedere l’uomo al rango di bestia. La libertà di espressione divenne così componente principale del “contratto sociale” e base di ogni democrazia. La libertà di manifestazione del pensiero è divenuta principio di tutte le Costituzioni democratiche, tra cui quella italiana. La Costituzione italiana sancisce la libertà di manifestazione del pensiero, che si esplica attraverso la libertà di stampa e la libertà di parola, con l'Articolo 21, comma 1: "Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero, con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione". L’articolo 21 segna una rottura con il passato, dopo il sistema di censura del regime fascista. La libertà di espressione è riconosciuta anche dalla Dichiarazione Universale dei diritti dell’uomo del 1948: "Ogni individuo ha il diritto alla libertà di opinione e di espressione, incluso il diritto di non essere molestato per la propria opinione e quello di cercare, ricevere e diffondere informazioni e idee attraverso ogni mezzo e senza riguardo a frontiere." E’ ripresa dalla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU, 1950): "Ogni persona ha diritto alla libertà di espressione. Tale diritto include la libertà di opinione e la libertà di ricevere o di comunicare informazioni o idee senza ingerenza alcuna da parte delle autorità pubbliche , e senza considerazione di frontiera." Il rapporto di "Reporter senza Frontiere" Nell'annuale rapporto di Reporter Senza Frontiere, il World Press Freedom Index, che dal 2002 elabora la classifica dei Paesi in base a una griglia di criteri che vanno dal pluralismo al numero di abusi e aggressioni ai danni della stampa verificatisi in un determinato Paese, si registra una "regressione brutale" della libertà nel mondo a causa dell'aumento delle aree di guerra. Nel 2014 l'Italia scende al 73esimo posto, tra la Moldavia e il Nicaragua, perdendo ben 24 posizioni dall’anno precedente. La ragione, secondo il rapporto di Rsf, sono le sempre più frequenti intimidazioni che i giornalisti subiscono, da parte da parte di organizzazioni criminali e non solo. In generale, il World Press Freedom Index segna un peggioramento globale, come è possibile leggere nel report: “Sotto attacco dalle guerre, dalle crescenti minacce di agenti non statali, da violenze durante manifestazioni e dalla crisi economica, la libertà dei media è in ritirata in tutti e cinque i continenti”. Il peggioramento globale è “incontestabile”, scrivono i ricercatori di Rsf, “nel 2014 c’è stata una drastica caduta della libertà d’informazione. Due terzi dei 180 Paesi censiti hanno avuto un risultato peggiore rispetto all’anno scorso”. In cima alla classifica della libertà d’informazione, come di consueto, i paesi nordici: prima la Finlandia, seguita da Norvegia e Svezia. In fondo, anche qui senza sorprese, Turkmenistan, Corea del Nord e, fanalino di coda, l’Eritrea. La Francia guadagna una posizione fino al 38° posto, gli Usa ne perdono tre e vanno al 49°. Blasfemia nel mondo Fra gli argomenti su cui molti sono pronti ad accettare limiti alla libertà di espressione ci sono quelli religiosi. Nel 2012 l’Iheu (International Humanist and Ethical Union) denunciò presso l’ONU l’inasprimento delle leggi contro la blasfemia. Anche se è stata arginata la pretesa dei paesi musulmani di approvare mozioni presso le Nazioni Unite per condannare qualsiasi “offesa” alla religione, la Lega Araba nel settembre del 2012 ripropose un accordo internazionale – assieme a Ue, Onu, Unione Africana e Organizzazione della Conferenza Islamica – che penalizzasse “odio” religioso e blasfemia. “A farne le spese, soprattutto gli apostati, i non credenti e in generale i laici, con una limitazione preoccupante della libertà di espressione e di pensiero sotto il ricatto della sensibilità religiosa offesa.[…] Si può pensare che certe espressioni satiriche rivolte all’islam dal mondo occidentale siano discutibili, provocatorie, fuori luogo”. Questo non può giustificare la violenza degli attentati di Parigi, o di quello del 2004 in Olanda. E la paura di tali reazioni non deve soffocare qualsiasi forma di critica nei confronti della religione. “Reporter senza frontiere” ha pubblicato nel dicembre 2013 un dossier intitolato Blasfemia, l’informazione sacrificata sull’altare della religione, in cui registra molti casi di giornalisti accusati di blasfemia per articoli che avevano a che fare con la religione. A pagina 23, in particolare, si tratta del caso del 2005, relativo alla pubblicazione in Danimarca di 12 vignette su Maometto, ripubblicate in Francia da Charlie Hebdo, la più famosa delle quali raffigurava il profeta con una bomba al posto del turbante. Alle vivaci reazioni musulmane si unirono le richieste occidentali di un maggior rispetto nei confronti delle religioni. Solo la strage di Parigi del 7 gennaio 2015 ha posto in primo piano la difesa della libertà di espressione. 26 La bestemmia o blasfemia ingiuriosa e triviale, in quanto offensiva del sentimento religioso dei rispettivi fedeli, è punita nelle legislazioni penali vigenti in molti paesi sia teocratici sia laici. In alcuni paesi la bestemmia non è un crimine. Per esempio, negli Stati Uniti d'America essere perseguiti per questo crimine violerebbe la Costituzione. Nel Regno Unito, precisamente in Inghilterra e Galles, i reati di blasfemia sono stati aboliti nel 2008. In Europa, il Consiglio d'Europa ha raccomandato che i paesi membri adottino leggi a favore della libertà d'espressione e che quindi non perseguitino la blasfemia. Nei paesi in cui è in vigore la sharia ed in altri paesi musulmani, la blasfemia è invece un reato punibile con la pena di morte o con anni di reclusione. In Pakistan la legge sulla blasfemia è all’origine di molte violenze impunite contro cristiani e musulmani sciiti, secondo l’ultimo rapporto di Amnesty International sulla situazione dei diritti umani nel mondo. (Vedi le proteste in Pakistan contro la legge, in base alla quale è stata condannata a morte nel 2009 Asia Bibi, cristiana, ancora in carcere nel marzo 2015; il marito e i cinque figli sono costretti a vivere nascosti, ma continuano a chiedere la revisione della legge e il sostegno della comunità internazionale). Tutto ciò mostra come governi o fazioni radicali si impongano attraverso il richiamo a presunte autorità superiori, opprimendo altri punti di vista sulla religione, che vengono accusati di blasfemia e di offendere i dogmi, i valori tradizionali e i sentimenti dei fedeli. perché le loro parole e azioni sono determinate dalla rivelazione divina e non basate sui desideri della gente". Ai nostri occhi di occidentali, che viviamo la libertà come prerogativa naturale dell'uomo, queste considerazioni paiono incomprensibili. Da tempo, infatti, si è affermata la possibilità di esprimere le proprie credenze senza cadere nel blasfemo. Per l’imam Choudary, invece, la nuova copertina di Charlie Hebdo, con Maometto che piange mostrando la frase Je suis Charlie è "un atto di guerra". Il predicatore punta il dito contro la vignetta, “sottolineando che ‘ridicolizzare’ il Profeta è un ‘attacco al suo onore’ dal momento che la maggioranza dei musulmani non lo rappresenta perché considerato un gesto blasfemo. Se un simile comportamento venisse portato di fronte a un tribunale della sharia, la legge islamica, comporterebbe la pena capitale.[…] La copertina è ‘una sfacciata provocazione’, mentre la gente dovrebbe essere ‘sensibile nei confronti delle emozioni e dei pensieri dei musulmani’". Blasfemia in Italia Dal 1999 la bestemmia non ricade più tra i reati: è considerata un illecito amministrativo. La versione vigente dell'articolo 724 ("Bestemmia e manifestazioni oltraggiose verso i defunti") è la seguente: «Chiunque pubblicamente bestemmia, con invettive o parole oltraggiose, contro la Divinità, è punito con la sanzione amministrativa da euro 51 a euro 309». Secondo alcuni, tuttavia, anche la sanzione alla bestemmia comprometterebbe la libertà di pensiero e di critica garantita dalla Costituzione italiana. A questo proposito, in una sentenza della Corte di Cassazion3e del 27 marzo 1992 sull'articolo 724, si stabilisce che: « assurdo e fuori di luogo è il voler ricondurre la bestemmia alla manifestazione del pensiero e alla libertà costituzionalmente garantita di tale manifestazione […]. Ciò che, invero, vien sanzionato è il fatto di bestemmiare con invettive e parole oltraggiose: non la manifestazione di un pensiero, ma una manifestazione pubblica di volgarità.” La bestemmia è quindi un’espressione di maleducazione che poco ha a che fare con la religione o la libertà di espressione, ma in un paese cattolico come l’Italia la sensibilità comune la tollera più della satira su tematiche religiose. Diritto di satira: ci sono dei limiti? In Italia, infatti, dopo la strage di Parigi, ci si è interrogati sugli eventuali limiti della satira di fronte al sentimento religioso. Riportiamo i punti salienti di un’intervista al professore Nicola Colaianni, ordinario di Diritto ecclesiastico, italiano e comparato, presso l’Università di Bari, già magistrato della Suprema Corte di Cassazione e parlamentare. Libertà di espressione e mondo arabo Le radici della visione della libertà di espressione nel mondo arabo vanno ricercate in ambito politico e religioso. Una frase emblematica è quella di Anjem Choudary, imam di Londra per cui la libertà di espressione confluisce totalmente nella adorazione di Allah, unico Dio : "L'islam non è pace, ma piuttosto sottomissione ai comandi del solo Allah. Per questo i musulmani non credono nell'idea della libertà d'espressione, Il professore crede che i limiti della satira debbano essere scelti dai disegnatori satirici stessi, secondo il loro punto di vista, i valori in cui credono e le battaglie che vogliono combattere. Colaianni infatti smise di criticare i Fratelli Musulmani dopo il 30 giugno 2013, da quando cioè non hanno più avuto il potere in Egitto e hanno iniziato a essere vittime. “La satira è una grande arma nelle mani dei deboli contro la tirannia, ma non deve essere sacralizzata, altrimenti potremmo finire con usarla contro chiunque ci sembri diverso, le minoranze, le etnie o chiunque possa già soffrire di discriminazione. Si può parlare di qualsiasi cosa attraverso la satira, anche della 27 religione se è divertente, ha un senso, e fa pensare. In Egitto per esempio fra le barzellette più famose ci sono quelle sulla religione, alcune davvero irriverenti. Il contesto, il pubblico, la comprensione reciproca e il rispetto possono far funzionare qualsiasi cosa. Certo, è rischioso prendere in giro le cose in cui la gente crede. L’Islam è più di qualche pagina di libro e di insegnamenti, è parte integrante del modo in cui alcune persone capiscono il mondo, guardano al loro passato e al loro presente. Prendere in giro questo […] può comportare confusione. Il senso dell’umorismo si riferisce sempre alla vita vissuta, condivide riferimenti e sottolinea assurdità in un modo che la gente possa capirlo. Quindi varia in base alla cultura e alle esperienze vissute”. Satira e potere “A chi impugna mitragliatrici per sterminare matite, e a chiunque si sottometta a qualcosa di diverso dalla propria coscienza, ci piacerebbe spiegare che avventura faticosa e fantastica sia la libertà. Ma non lo faremo, perché la libertà non si può spiegare.[…] La forma estrema, per molti incomprensibile, di libertà è la satira. Offensiva, provocatoria e irrispettosa per definizione, ribalta ostinatamente il punto di vista, perciò è detestata dai possessori di verità assolute e dai fautori delle religioni.” [M.Gramellini] Cos’è la satira A cura di: Veronica Guerci, Bianca Pezzani, Caterina Pinelli (III D 2014-15) Un paragrafo a cura di Pietro Canuti (IV D 2014-15) Bibliografia e sitografia: Blasfemia, l’informazione sacrificata sull’altare della religione http://en.rsf.org/religions/en.html Mappa sulla violazione della libertà religiosa nel mondo: (qui non riportata) http://acs-italia.org/wp-content/uploads/cartinalibert%C3%A0-religiosa.jpg Mappa sulla libertà di espressione nel 2014: http://en.rsf.org/ La legge sulla blasfemia nel mondo: http://www.lettera43.it/upload/editor/blasfemia%202.jp g L.M.Guzzo, Intervista a Nicola Colaianni, ordinario di Diritto ecclesiastico a Bari 14-1-2015 “La Stampa” Ridicolizzare il Profeta è un attacco al suo onore, 13/1/2015 http://www.osservatoreitalia.it/index.asp?art=2946&arg =46&red=10 GB, imam Choudary: I musulmani non credono nella libertà di parola, 9-1-2015 http://www.imolaoggi.it/2015/01/09/ http://www.avvenire.it/Mondo/Pagine/asia-bibi-ildramma-della-famiglia.aspx Ancorata ad una tradizione millenaria, la satira costituisce la più graffiante delle manifestazioni artistiche. Basata su sarcasmo, ironia, trasgressione, dissacrazione e paradosso “rivela e colpisce con lo scherno o con il ridicolo concezioni, passioni, modi di vita e atteggiamenti comuni a tutta l’umanità, o caratteristici di una categoria di persone o anche di un solo individuo, che contrastano o discordano dalla morale comune (e sono perciò considerati vizi o difetti) o dall’ideale etico dello scrittore”. Verte preferibilmente su temi di attualità, scegliendo come bersaglio privilegiato i potenti. La satira propriamente detta è una forma letteraria (singolo componimento, più o meno breve; ma anche poema satirico, romanzo satirico ecc.), ma si può esprimere anche attraverso vignette, come quelle del giornale satirico francese Charlie Hebdo. Essendo una forma d’arte, il diritto di satira trova riconoscimento nell’art. 33 della Costituzione Italiana, che sancisce la libertà dell’arte. In molti Paesi del mondo, invece, tale libertà non è garantita e talora è fortemente osteggiata. Abbiamo scelto la Turchia. La satira in Turchia Sorta dalle ceneri dell'Impero ottomano nel 1923, la Turchia è una Repubblica parlamentare. Le sue istituzioni sono state a lungo fortemente condizionate dalle forze armate, il cui ruolo politico venne fissato nella Costituzione da Kemal Atatürk e ribadito nell'ultima Costituzione del 1982, emendata nel 1995. In questi ultimi dodici anni, tuttavia, durante i quali Erdogan ha ricoperto la carica di premier, il sistema di vita sociale in Turchia è cambiato, rientrando in un più tradizionale orientamento musulmano. Forte dei successi ottenuti in campo interno e internazionale nel settore economico e della riduzione del potere delle Forze Armate, Erdoğan è stato eletto presidente nell’agosto del 2014. Sostenuto dal 50% di parlamentari dell'Akp (il suo partito di centro destra islamista, Libertà e Giustizia) propone “una nuova Costituzione”, redigendo una carta "liberale " che possa essere “un riferimento per il mondo musulmano come via dell'islam senza dittatura”. In realtà la Turchia è ben lontana dall’essere un paese liberale. Basta considerare la libertà di espressione: il rapporto di Reporter senza frontiere del 2014 segnala la Turchia al 154° posto nel mondo, dato che “molti giornalisti sono stati mandati in prigione o si trovano ad affrontare un processo a causa del loro lavoro”. La satira, se pure molto diffusa, costantemente subisce pressioni e attacchi da parte del potere che è oggetto della critica. Oggi è Erdoğan il soggetto privilegiato della satira. Nella vignetta del famoso disegnatore Musa Kart la didascalia recita “Linguaggio 28 politico” mentre dalla bocca di Erdoğan, al posto della lingua, esce una mano che spruzza gas urticante. Si tratta di un chiaro riferimento all’uso di questo tipo di gas durante la repressione poliziesca delle manifestazioni di protesta di Gezi Park nel 2013. “Dei devoti musulmani pregano davanti alla scritta ‘non c’è nessun Allah, la religione è una bugia’, uno di loro telefona col cellulare direttamente a Dio per chiedere se può assentarsi dalla preghiera prima del previsto”. La seconda vignetta è del cartoonist Patrick Chappatte, ed è stata pubblicata sul New York Times, ma ha messo nei guai un professore che la mostrava durante una manifestazione a Istanbul, in quanto considerata un insulto alla bandiera turca. In Turchia la stampa non è libera e indipendente. Io vivo in un paese che è laico ma il (mio) caso giudiziario è nato a partire da un disegno. In un paese laico un disegno viene denunciato dalla pubblica accusa e in un paese laico la corte mi ha messo sotto processo. L’offerta di democrazia dell’AKP non è sincera.” A cura di: Ana Botnari, Elena De Benedetti, Chiara Longhi, Filippo Savi (III D 2014-15) Bibliografia e sitografia: Voce “satira”: www. treccani.it Massimo Gramellini, Checkpoint Charlie, “La Stampa” 9-1-2015 Filippo Cicciù, La satira in Turchia, https://kebapconnection.wordpress.com/2012/05/14/l a-satira-in-turchia/ [da notare un uomo con la bandiera dell’Unione Europea che spia Erdogan: si allude al fatto che si sta esaminando da tempo la proposta di far entrare la Turchia nell’Unione Europea] Quando il presidente Erdogan nel marzo del 2014 bloccò Twitter con il pretesto della sicurezza nazionale, la rete si scatenò in una campagna satirica contro le limitazioni della libertà di espressione in Turchia con vignette e slogan. Naturalmente anche la religione islamica non può essere oggetto di satira in Turchia senza suscitare reazioni. Bahadir Baruter, uno dei più noti disegnatori satirici del Paese, collaboratore della rivista Penguen, nel 2012 è stato messo sotto processo per aver pubblicato una vignetta ironica sulla religione; per la violazione dell’articolo 216 del codice penale turco (“denigrazione dei valori religiosi di un gruppo”) rischia un anno di prigione. Filippo Cicciù, Gli attacchi alla satira in Turchia: una vecchia storia https://kebapconnection.wordpress.com/2015/01/04/ Vignette: http://contents.internazionale.it/wpcontent/uploads/2 014/03/erdogan.jpg http://www.rainews.it/dl/img/2014/03/310x0_1395401 992430_turchia17.jpg http://www.ondebat.net/wpcontent/uploads/2013/08/vignetta-baruter.jpg Ha affermato Baruter: “Le riviste di satira e anche altre pubblicazioni come quelle comuni sono messe sotto pressione dalla legge. Per esempio io che pubblico, faccio l’editore e il disegnatore ho subito dieci procedimenti giudiziari e sto sostenendo un processo. [Quello relativo alla vignetta a fianco riportata] 29 Libertà di satira “In generale, è diritto naturale dell'uomo quello di utilizzare la sua penna e la sua lingua, a suo rischio e pericolo. Conosco molti libri che hanno annoiato, non ne conosco nessuno che abbia fatto male realmente a qualcuno.” François-Marie Arouet, detto Voltaire In parallelo con gli avvenimenti di Parigi del 7 gennaio 2015 e l’incombente minaccia dell'Isis viene risollevata la questione della libertà di espressione e in particolare della libertà di satira. In Italia come all'estero non si parla di altro. Da qui l'emergere di pareri contrastanti a riguardo. Il giornalista e scrittore de “La Repubblica” Corrado Augias scrive: “Continuo a pensare che alzare le mani contro la satira manifesti solo che ci mancano le parole o che prendiamo sul serio chi vuole farci del male o provocarci. Riuscendoci in tal caso benissimo.” Un altro scrittore con idee chiare riguardo il recente attentato è Salman Rushdie: “L’arte della satira è forza di libertà contro la tirannia e la disonestà. […] Credo fortemente nella libertà di parola. Si può non avere simpatia per Charlie Hebdo ma ciò non giustifica in alcun modo il loro omicidio né la critica al loro diritto di parlare.” Così si apre il nostro lavoro sulla libertà di satira per rivendicare una libertà di parola che nei secoli ha subito attacchi ma che finalmente è riuscita ad affermarsi, anche se ancora a rischio. Abbiamo deciso di trattare le storie dei personaggi che stanno dietro i fumetti di alcuni vignettisti di Cartooning for peace. Vedremo come i protagonisti di queste satire abbiano in realtà molto in comune con i loro autori e diventino portavoce dei loro ideali. Michel Kichka, nato in Belgio nel 1954, è uno dei maggiori rappresentanti dei fumettisti israeliani (di cui presiede l’Associazione). Illustratore e vignettista satirico, pubblica su numerose testate giornalistiche e collabora con la televisione israeliana e con quella francese. Docente presso la Bezalel Academy di Gerusalemme – una delle più prestigiose scuole d’arte al mondo – nel 2006 ha aderito al movimento “Cartooning for Peace” e nel 2011 è stato nominato Cavaliere delle Arti e delle Lettere dal Ministero della Cultura francese. « Destruction des Bouddhas de la Vallée de Bâmiyân en Afghanistan, destruction des mausolées musulmans à Tombouctou, destruction des trésors du Musée de Mossoul, attentats au Musée Juif de Bruxelles, attentats à Charlie Hebdo, attentat au Musée Bardo de Tunis. Décidément, les terroristes islamistes ont un attrait particulier, et particulièrement maladif, pour l’Art. L’Art de tuer et de détruire, au demeurant. » Riguardo la recente strage di Charlie Hebdo a Parigi, Kichka riprende quel tragico 11 settembre 2001, richiamando la caduta delle torri gemelle, in questo caso la libertà di satira del giornale satirico francese. Nella seconda vignetta vediamo invece Cabu, uno dei disegnatori uccisi nella strage, che dice: ”E’ duro essere ucciso da degli idioti”. A fianco riportiamo anche la vignetta disegnata da Kichka subito dopo la strage del museo del Bardo di Tunisi, il 18 marzo 2015, con il testo in francese che compare nel suo blog. 30 Nadia Khiari, vignettista tunisina e docente di Belle Arti a Tunisi, è stata insignita a Liegi della Laurea Honoris Causa per la sua lotta per la libertà d’espressione, ha vinto diversi premi fra cui in Italia nel settembre del 2014 il premio Satira politica, sezione disegno satirico, a Forte dei Marmi. Intervistata nel febbraio del 2014 nel suo paese, ha parlato del suo personaggio, il gatto Willis from Tunis. All’inizio, prima della Rivoluzione [2010-11], era solo un gatto, ma dopo l’ultimo discorso dell’allora presidente Ben Ali prima della sua fuga, il 13 gennaio 2011, l’ha usato per parlare della politica in Tunisia. Ben Ali “ha tentato di calmare la popolazione e ha detto, per mantenere il potere, che ci sarebbe stata libertà di espressione”. Willis, nella prima vignetta, veste i panni dellʼexPresidente, che rivolgendosi ai suoi sostenitori, nelle sembianze di tre topolini che esultano per il calo del prezzo del formaggio, dice con aria soddisfatta “vi ho capito...” Sotto la dittatura di Ben Ali [presidente della Tunisia dall’87 al 2011] la critica non era permessa. Nonostante questo molti artisti hanno lasciato parlare le loro matite ma hanno avuto continuamente problemi, hanno subito intimidazioni, sono stati vittime di violenze e hanno visto le porte del carcere spalancarsi. La stessa Nadia Khiari ha subito intimidazioni per mesi da parte di un gruppo estremista seguace di Ben Ali e ha rischiato il carcere innumerevoli volte. “Si viveva tutti sotto una sorta di oppressione. Come si può esprimersi sotto una dittatura senza avere dei problemi?” La rivoluzione ha liberato i tunisini da quella oppressione. “Siamo stati costretti a tapparci la bocca e a dimenticare. Io penso che la rivoluzione possa essere paragonata al primo vagito di un neonato, al primo grido di una creatura che può godersi la sua prima boccata d’ossigeno per poi crescere ed essere libera di esprimere il suo essere”. Certo rimangono molti i problemi della Tunisia, da quello economico a quello politico, con partiti che pensano a spartirsi il potere. Ma la Khiari è fiduciosa, e intanto niente viene risparmiato dalla sua critica. Nell’autunno del 2014 in Tunisia si sono tenute libere elezioni, che hanno portato ad un parlamento in cui siedono sia forze laiche che religiose. La Tunisia è l’unico Paese coinvolto dalla primavera araba che abbia una costituzione democratica. L’attentato al Museo del Bardo di Tunisi, avvenuto il 18 marzo 2015, testimonia che il terrorismo non accetta l’affermazione nell’area di forze democratiche e laiche (il primo obiettivo era il Parlamento). Riportiamo infine la vignetta dedicata dalla disegnatrice Nadia Khiari alle vittime di Charlie Hebdo. In una vignetta successiva Willis-Ben Ali inneggia alla rivoluzione, suscitando le risate di tutti. Quel giorno, ha detto la Khiari “ho creato una pagina su Facebook e ho condiviso il mio primo fumetto nella rete sul gatto Willis, con l’intento di rappresentare l’attualità, di testimoniare come si vive in Tunisia giorno dopo giorno, attraverso perché no, un po’ di impertinenza”. 31 Mana Neyestani è nato a Teheran, in Iran, nel 1973. Da quando aveva 16 anni disegna fumetti e vignette. Da alcuni anni vive in esilio, a Parigi, sotto la protezione dell’Icorn, l’International Cities of Refuge Network, la rete delle città che difendono la libertà d’espressione. In carcere, Neyestani resta tre mesi. Poi riceve un permesso di uno. A sei giorni dalla scadenza, decide di fuggire insieme alla moglie Mansoureh. «Dallo Scià agli imam, abbiamo sempre vissuto sotto una dittatura. E’ un problema culturale, più che politico. La voglia di esprimersi c’è ed è diffusa. Ma non ci sono i mezzi, non ci sono partiti, sindacati, media liberi. Per questo il regime cerca di mandare all’estero chi pensa. Sa cosa si dice a Teheran? Che, dopo il petrolio, gli intellettuali sono il principale prodotto d’esportazione dell’Iran». Molte sono le tematiche su cui si incentrano le satire originali di Neyestani: alcune proclamano il concetto di “freedom”, libertà, altre si riferiscono alla “morte” della democrazia. Molte di queste satire contengono anche critiche a modi di pensare e agire del passato come quello nazista, richiamando ad esempio la brutalità dei tedeschi nei confronti degli ebrei e mettendo in risalto attraverso un’ironia pungente le ingiustizie commesse. A Parigi nel gennaio del 2013 incontra il giornalista italiano Alberto Mattioli e gli racconta la sua storia, che ha disegnato nella Graphic Novel Una metamorfosi iraniana. Nel 2000, quando il governo iraniano chiude 17 giornali in un colpo solo, smette di disegnare vignette satiriche e comincia a disegnare per i bambini. «Lavoravo a “Iran Jomeh”, supplemento settimanale del quotidiano “Iran”, finanziato dal governo. I rapporti con la proprietà non erano facili, ma io ero tranquillo, lavoravo per i ragazzi». L’incubo inizia un sabato del 2006. «Avevo scritto una striscia buffa su dieci metodi per schiacciare uno scarafaggio, protagonista un ragazzino che parla con l’insetto. Purtroppo misi in bocca allo scarafaggio la parola “namana”. A cura di: Pietro Canuti, Eleonora Fontana, Agata Magni, Lorenzo Urbanetto (IV°D 2014-2015) Bibliografia e sitografia - François-Marie Arouet, detto Voltaire, voce ”Liberté d’ 'imprimer”, Questions sur l’ Encyclopédie - C. Augias, “La libertà di satira e la Legge”, “La Repubblica”, 17 gennaio 2015 - S. Rushdie, Lettura presso University of Vermont, “La Repubblica”, 17 gennaio 2015 - http://fr.kichka.com/ E’ un termine azero, della minoranza turca che vive nel nord del Paese, da sempre nel mirino del regime. Però in Iran è una parola gergale che usiamo tutti, un’espressione comune, che significa: “Cosa? Cosa dici?”. Niente di strano». La minoranza azera, però, la prende malissimo. Ci sono manifestazioni, scontri, scioperi: «Gli azeri si considerarono insultati. Soprattutto, credo, perché l’editore era il governo». Dieci giorni dopo, il vignettista e il suo editore vengono arrestati. Direzione l’edificio 209 del carcere di Evin. Qui li informano che nelle città azere la polizia ha sparato sui manifestanti facendo morti e feriti. «Volevano che confessassi, ma io non avevo nulla da confessare. Il famigerato giudice Said Mortazavi mi chiedeva quanti soldi avevo ricevuto dagli americani per scatenare i disordini, minacciandomi di un interrogatorio “tecnico”. Tutti in Iran sappiamo cosa significa...». - Alberto Mattioli, “Kafka a Teheran, uno scarafaggio conduce all’esilio”, “La Stampa”, 10 gennaio 2013 - Libertà di satira: http://www.difesadellinformazione.com/57/il-dirittodi-satira/ - Cartooning for peace: http://www.cartooningforpeace.org/ - Nadia Zangarelli, Intervista a Nadia Khiari - Willis from Tunis, 5-2-2014 http://www.globalproject.info/it/ 32 Libertà di espressione e mondo arabo: utopia o realtà prossima? L'individuo è padrone di pensare, esprimersi e agire come crede necessario per il suo sviluppo personale. La libertà dell'individuo è una condizione necessaria al progresso sociale. Avere la facoltà di scelta è quello che distingue l'uomo dalle altre creature. Se l'individuo non avesse la libertà di pensare, esprimersi ed agire, la sua vita sarebbe simile a quella di un automa. La libertà di espressione non deve avere alcun limite religioso; in Occidente essa ci permette di esprimere critiche senza cadere nel blasfemo, mentre i Paesi islamici dovranno ancora combattere per ottenerla. Ma non è solo la religione ad essere un argomento tabù in alcuni Paesi. Abbiamo analizzato le figure di alcune artiste – fotografe, registe, scrittrici – che hanno dedicato la loro opera soprattutto al ruolo e alle condizioni delle donne nei Paesi in cui l’imposizione della legge coranica o la persistenza di antiche tradizioni rende difficile la loro vita e il rapporto con il mondo maschile. Un Paese in particolare è al centro della nostra breve indagine, l’Iran. Shirin Neshat: denuncia attraverso l'arte Nata nel 1957 in Iran, è una fotografa e videoartista che si è imposta a livello internazionale per la sua capacità di esplorare la complessità delle condizioni sociali all’interno della cultura islamica, rivolgendo un’attenzione particolare alla condizione della donna. Vissuta negli Stati Uniti dal 1974 al 1990,al suo ritorno in patria si è resa conto delle radicali trasformazioni subite dalla società iraniana e “senza rinnegare la sua duplice appartenenza al mondo occidentale e a quello orientale, Neshat ha impostato un discorso figurativo altamente poetico, capace di scuotere lo spettatore con immagini e muti racconti: espressione di problematiche che seppur connesse con l'islamismo ne oltrepassano i confini. I suoi primi lavori (Women of Allah, 1993-97) sono fotografie in bianco e nero di donne velate, primi piani di parti del corpo femminile (volti, mani, piedi) sulle quali Neshat sovrascrive versi di poetesse iraniane contemporanee, come F. Farrukhzād, che mettono in discussione le qualità stereotipe associate alle donne musulmane”. “Realizza anche installazioni video in cui sono raccontate storie, affidate quasi esclusivamente alla coreografia delle immagini e alla musica, che rende più intensi gli stati emozionali. […] Per es. in Rapture (1999) tratta della separazione dei generi, contrapponendo un gruppo di uomini, che eseguono rituali apparentemente assurdi in una fortezza, e un gruppo di donne che vagano in un deserto fino a giungere alla spiaggia sotto la fortezza e spingono una barca in mare, strumento del loro destino, forse di morte, forse di libertà.” Nel 2009 realizza il suo primo film, Women without men, basato sul romanzo omonimo di Parsipur, che vince al Festival di Venezia il Leone d’Argento. Nelle sue fotografie mostra, attraverso immagini piene di tensione, corpi velati di persone sottomesse che ogni giorno devono fare i conti con la violenza ed il terrorismo. 33 I giovani iraniani Dal 1921 al 1979 l’Iran è stato governato dalla dinastia Pahlavi, un regime autoritario, aperto alle ingerenze straniere, che portò avanti dagli anni ’60 un programma di modernizzazione economica e sociale, ma non riuscì ad evitare violente contestazioni, di cui approfittarono i seguaci dell'ayatollah Khumaini (Khomeini), che costrinsero lo Scià Reza Pahlavi alla fuga. Oggi, più di tre decenni dopo la rivoluzione, c’è una grande divergenza tra la generazione che ha fatto la rivoluzione, con le sue ideologie e il suo idealismo sociale, e la nuova generazione nata dopo la rivoluzione, che si ispira soprattutto a un idealismo individuale. Questa nuova generazione ha avuto un'educazione islamica apparentemente lontana dalle influenze dalla società occidentale; ma in realtà la sincronia di un islam politicizzato e onnipresente nella vita quotidiana della popolazione con l'inevitabile impatto delle culture straniere, enfatizzato dai vari media, ha prodotto una desacralizzazione della religione. Ciò ha determinato a sua volta un'ibridazione della società iraniana, che nessuno poteva prevedere. Si è così diffusa la percezione che la società iraniana sia entrata in una nuova era. I giovani iraniani sono molto dubbiosi circa il loro avvenire in Iran. Dalle loro parole traspare l'angoscia per la difficoltà di costruirsi una vita indipendente. Per molti di loro il vago orizzonte futuro si situa all'estero. scuola il richiamo verso le sue radici e la sua famiglia la spinge a tornare in Iran, dove si sposa. Persepolis: il film Il film traduce in cartone animato il graphic novel omonimo, realizzato dalla giovane iraniana Marjane Satrapi, che vi descrive vent’anni della propria vita. Oggi la Satrapi, che è anche regista del film con Vincent Paronnaud, è costretta a vivere in Francia; l’Iran ha protestato vivamente per la proiezione del film al festival di Cannes del 2007 (dove vinse il Premio della giuria) e continua a boicottarlo. La piccola Marjane, bambina di nove anni già ribelle e anticonformista, rifiuta le rigide regole della società iraniana, soprattutto dopo la caduta del regime dello Scià e l’avvento della cosiddetta rivoluzione islamica di Khomeini. Preoccupati per l’incolumità della figlia, i genitori, quando compie 14 anni, decidono di mandarla a studiare in Austria. All’inizio l’esperienza austriaca è per Marjane piuttosto traumatica perché gli altri studenti la identificano con quel mondo fatto di fondamentalismo religioso cui lei si è ribellata, ma con il passare del tempo riesce ad integrarsi. Alla fine della Ma le leggi dettate dal fondamentalismo non permettono a una donna di essere libera, né di costruirsi una carriera artistica. Neppure il matrimonio la soddisfa e Marjane riparte per l’Europa. Solo a questo punto dal disegno stilizzato in bianco e nero si passa al colore. Il film attraverso una storia individuale di formazione affronta la memoria collettiva del Paese. Persepolis: la ribellione attraverso un cartone La storia privata di Marjane, infatti, si intreccia con la storia politica dell’Iran e con le storie di tutti gli altri personaggi: quella dei parenti uccisi dai pasdaran [i miliziani khomeinisti della 34 rivoluzione islamica del 1979], degli amici mandati a combattere la guerra contro l’Iraq [nel 1991] e dei giovani che, segnati dalle atrocità della guerra, cercano disperatamente di ritagliarsi uno spazio felice eludendo i controlli dei guardiani della rivoluzione. Il viaggio di Marjane da bimba a donna adulta la porta a scontrarsi con due realtà differenti: da una parte l’Iran che passa da monarchia filo-occidentale a repubblica islamica integralista; dall’altra un Occidente che, pur essendo libero, non è capace di comprendere, un Occidente popolato da persone che, non trovando una ragione di vita collettiva, si perdono nel labirinto della individualità. Ma quello che risalta soprattutto è “cosa significa essere donna in Iran, cosa si nasconde dietro un velo nero imposto sulla bellezza e la complessità di una persona e di un popolo”.[M.Fadda] Persepolis ha la capacità di trasmettere le emozioni dell’autrice (nella foto); le immagini ci inducono a solidarizzare con le difficoltà della protagonista, a pensare e a riflettere a fondo sulla storia dell’ Iran. Sotto il burqa: un libro per sensibilizzare L’autrice del romanzo, pubblicato nel 2001, è Deborah Ellis, che ha lavorato in varie parti del mondo collaborando a progetti di sostegno alle popolazioni colpite dalla guerra. In particolare è stata nei campi profughi in Pakistan, dove ha raccolto storie di ragazze e donne costrette a portare il burqa; ne ha tratto un romanzo la cui protagonista è Parvana, una ragazzina che porta il chador, ma che dovrà portare il burqa, come la sorella più grande e la madre. Quando il libro fu scritto (nel 2000) l’Afghanistan era sconvolto dalla guerra fra i talebani e l’Alleanza del Nord e pochi conoscevano le sofferenze della popolazione civile di un paese così lontano dalle vicende internazionali. Ma nel 2001, dopo l’attentato di New York, Bin Laden si rifugiò in Afghanistan e gli USA invasero il paese. Divennero famose parole come talebani e burqa e il libro venne tradotto anche in italiano. La scrittrice vi denuncia la sofferenza delle donne afgane, obbligate a vivere sotto un velo che copre ogni centimetro quadrato del loro corpo impedendo loro persino i movimenti e lasciando una piccola rete davanti agli occhi. Il racconto è ambientato a Kabul, tra bombardamenti e violenza, soldati col turbante e donne col burqa. Parvana è una ragazzina di 11 anni che vive in una stanza con i suoi genitori, le sorelle Nooria e Maryam, e il piccolo Ali. Lei e la sua famiglia hanno dovuto trasferirsi più volte a causa dei bombardamenti che hanno ucciso il fratello maggiore, Hossian, e hanno fatto perdere una gamba al padre. Per le strade di Kabul girano i talebani che hanno imposto il burqa alle donne, la barba agli uomini, e che hanno proibito il lavoro o la scuola alle ragazze. Perciò Parvana, ogni giorno, accompagna il padre a lavorare al mercato, dove egli legge e scrive lettere per gli analfabeti. Un altro compito quotidiano della ragazzina è andare ad attingere l’acqua dal pozzo: ”La mamma e Nooria dovevano indossare il burqa ogni volta che uscivano, e non era possibile che trasportassero un secchio d’acqua su per quelle scale sconnesse indossando il burqa. E poi era pericoloso per le donne uscire per strada senza essere accompagnate da un uomo. Parvana sapeva che toccava a lei andare a prendere l’acqua perché nessun altro in famiglia poteva farlo.” Un giorno, un gruppo di soldati talebani rapisce il padre di Parvana senza motivo. Per il bene della sua famiglia è costretta a tagliarsi i lunghi capelli neri e a vestirsi come un maschio per poter lavorare al posto del padre. Anche la madre decide di tornare a lavorare per un giornale e con l’aiuto di un’amica, la signora Weera, riesce ad raggiungere Mazar-e-Sharif, con la scusa di dover maritare la figlia maggiore. Il padre viene rilasciato e Parvana parte con lui per raggiungere Mazar, caduta in mano ai talebani, alla ricerca della sua famiglia. Parvana ricorda spesso una storia che le raccontava il padre, quella della coraggiosa Malali, che per ottenere la libertà dell’Afghanistan, guidò le truppe in guerra. Nei momenti di difficoltà prova ad immedesimarsi in Malali che è il simbolo del coraggio. Quando parte con il padre alla ricerca del resto della famiglia, gli chiede se viaggerà come ragazza o ragazzo. Il padre le risponde: “Scegli tu, sarai comunque la mia piccola Malali”. Nel salutarli la signora Weera mostra loro delle copie della rivista di sua madre, che tiene nascoste sotto il burqa: “Dì a tua madre che molte copie di questa rivista stanno per essere spedite alle donne di tutto il mondo. Lei ha contribuito a far sapere al mondo che cosa succede in Afghanistan. Assicurati che lo sappia. Quello che ha fatto è molto importante. E dille che abbiamo bisogno che torni per lavorare al prossimo numero”. Il messaggio della scrittrice è molto profondo e invita a riflettere sulla richiesta d’aiuto delle donne afgane. Le donne in Afghanistan e Iran Anche se oggi, dopo l’intervento della missione internazionale (l’International Security Assistance Force o Isaf ha concluso il proprio compito alla fine del 2014) la situazione in Afghanistan è migliorata e il Paese ha un presidente ed un parlamento eletti, non si può parlare ancora di democrazia. Il terrorismo ha ripreso piede via via che le forze occidentali si vanno ritirando. Inoltre, come attestava la politica afgana Malalai Joya nel 2012,“su una popolazione di 27 milioni di afgani, circa 22 milioni vivono sotto la soglia di povertà, e la condizione delle donne è allarmante. Il governo, sostenuto dagli Stati Uniti, è composto da personaggi corrotti, signori della guerra e signori della droga, con idee retrograde e fondamentaliste che non li rendono molto diversi dai talebani, ed il paese si colloca ai primi posti fra i paesi più corrotti al mondo”. Per quanto riguarda l’Iran, riportiamo le parole dell’attivista Masih Alinejad (foto della pagina seguente) che vive in esilio dal 2009, fra New York e Londra, per le minacce subite in seguito alle sue inchieste sulla brutalità del regime. Ha creato un blog che raccoglie le foto delle iraniane a capo scoperto, per mostrare il vero volto dell’Iran. “Essere donna in Iran è una battaglia continua. Devi lottare ogni giorno per affermare diritti basilari. […] Quando ti vogliono zittire non attaccano mai le tue opinioni. 35 Puntano sempre alla tua sessualità. Ti chiamano brutta perché pensano sia un modo per spezzarti. Ti chiamano prostituta. Io sono stata diffamata in ogni modo”. Alinejad ha appena ricevuto a Ginevra il premio per i diritti delle donne, il Women’s Right Award. Intervistata da Anna Lombardi ha detto che le donne che postano sul suo blog le foto a capo scoperto “rischiano il carcere e anche peggio. Ma è un rischio che prendono per essere se stesse. Essere donne in Iran è pericoloso comunque. Con le foto hanno trovato un modo per unirsi e farsi sentire.” Dalle testimonianze che abbiamo raccolto su questi due Paesi, Iran e Afghanistan - nei libri, nel film e negli articoli - possiamo concludere che il diritto di esprimere liberamente qualsiasi pensiero non è di tutti, e in particolare non è ancora riconosciuto a tante donne, costrette a una prigionia eterna sotto un velo nero o private del diritto di esprimere le proprie opinioni. Ma le donne combattono per ottenere questi diritti, anche a costo di perdere tutto. Le parole come armi La lirica è il genere letterario per eccellenza del mondo arabo, che si esprime in una lingua dal lessico ricco e musicale. Nata in epoca preislamica come genere contraddistinto da regole, ritmi e metri codificati e inalterabili, la poesia araba ha subito una vera e propria rivoluzione a partire dagli anni '40 del Novecento, per opera di una donna, l’irachena Nazik al Mala’ika (1923-2007) che seppe coniugare l’impegno a favore della poesia in versi liberi con quello sociale e culturale a favore dell’emancipazione della donna. Con coraggio la poetessa denuncia le vessazioni subite dalle donne, l’isolamento, il delitto d’onore. Vedi per esempio La maledizione del tempo, dove si riflette sull’uccisione di una ragazza per riscattare l’onore della famiglia che lei con il suo comportamento aveva compromesso: ”Verrà l’alba e di lei chiederanno le ragazze / dove l’hai vista? Risponde il bruto «L’abbiamo ammazzata» / abbiamo lavato l’onta della vergogna dalla nostra fronte.[…] / vicine del quartiere, ragazze del villaggio / impasteranno il pane con le nostre lacrime di paura / ci taglieremo le trecce, scoloriremo le mani / perché le loro vesti restino bianche e pure / niente sorriso, niente gioire, non ci volteremo perché il pugnale / nelle mani dei nostri padri e dei fratelli ci controlla / e domani chi sa quale deserto / non si levi per lavare l’onta?” La sua poesia si fa sempre più cupa. “La natura è ostile e il deserto diventa metafora della solitudine e dell’ineluttabile sofferenza umana”. Per concludere il nostro lavoro abbiamo scelto la poesia Canto d’amore per le parole, un inno alla magia e all’incanto della creazione letteraria, ma che vogliamo leggere anche come un inno alla libertà di espressione. “[…] Perchè abbiamo paura delle parole / quando tra di loro vi sono parole simili a campane invisibili,/ la cui eco preannuncia nelle nostre vite agitate / la venuta di un'epoca di alba incantata, intrisa d'amore e di vita?/ Ci siamo assuefatti al silenzio./ Ci siamo paralizzati, temendo che il segreto possa dividere le nostre labbra./ Abbiamo pensato che nelle parole giaceva un folletto invisibile,/ rannicchiato, nascosto dalle lettere dalle orecchie del tempo./ Abbiamo incatenato le lettere assetate,/ vietando loro di diffondere la notte per noi / come un cuscino, gocciolante di musica, sogni, e caldi calici./ Perchè abbiamo paura delle parole? / Tra di loro ne esistono di incredibile dolcezza / le cui lettere hanno estratto il tepore della speranza da due labbra,/ e altre che, esultando di gioia si sono fatte strada tra la felicità momentanea di due occhi / inebriati./ Parole, poesia, teneramente / hanno accarezzato le nostre gote, suoni / che, assopiti nella loro eco, colorano una frusciante, / segreta passione, un desiderio segreto./ Perchè abbiamo paura delle parole? / Se una volta le loro spine ci hanno ferito, / hanno anche avvolto le loro braccia attorno al nostro collo e diffuso il loro dolce profumo sui nostri desideri./ Se le loro lettere ci hanno trafitto / e il loro viso si è voltato stizzito / ci hanno anche lasciato un liuto in mano / e domani ci inonderanno di vita./ Su, versaci due calici di parole./ Domani ci costruiremo un nido di sogno di parole,/ in alto, con l'edera che discende dalle sue lettere./ Nutriremo i suoi germogli con la poesia/ e innaffieremo i suoi fiori con le parole./ Costruiremo un terrazzo per la timida rosa / con colonne fatte di parole,/ e una stanza fresca inondata di ombra, protetta da parole./ Abbiamo dedicato la nostra vita come una preghiera / chi pregheremo... se non le parole?” A cura di: Chiara Delmonte, Lisa Pantaleoni, Sara Signorini ( III D 2014-2015) Penultimo paragrafo S.Borsi. Bibliografia e sitografia: Suarez Villegas , J.C. La libertà di espressione e il rispetto dei sentimenti religiosi https://periodicos.ufsc.br/index.php/ethic/article Masserat Amir Ebrahimi e Ziba Jalali Naini, I giovani alla ricerca dello spazio perduto, in L'Iran tra maschera e volto Limes n°5/ 2005 Scheda film Persepolis http://www3.ti.ch/DECS/sw/temi/scuoladecs/index.php ?fuseaction=scuole. M.Fadda, Persepolis in “Cineforum” n°466 2007 “Shirin Neshat” www.Treccani.it http://www.nodalmolin.it/Afghanistan-oggi-sguardodi-donne, 7 dicembre 2012 A.Lombardi, Intervista/L’attivista Masih Alinejad, in esilio, ha creato un blog che raccoglie le foto delle iraniane in “La Repubblica” 23 marzo 2015 p.19 Antologia della poesia araba a cura di F.M. Corrao, La Biblioteca di Repubblica, Milano 2004 Nazik al Mala’ika Canto d’amore per le parole, http://www.larecherche.it/testo.asp?Tabella=Proposta _Poesia&Id=268 36 Un film contro l’integralismo: Il destino Film contro l'integralismo di ogni epoca del maggior cineasta del mondo arabo (l’egiziano Yussef Chahine, 1926-2008). Il film, del 1997, precede l’11 settembre 2001, che ha portato all’attenzione mondiale l’integralismo islamico, ma il regista lo conosce bene: nel 1993 in Egitto era stato condannato il suo film L’emigré, solo perché la storia raccontata assomigliava a quella di Giuseppe (e non si deve rappresentare al cinema un profeta). Trama Cordoba, 1195. Il filosofo Averroè accoglie il giovane Joseph, fuggito dalla Francia dopo che il padre, traduttore delle opere del filosofo arabo, è stato bruciato sul rogo. Il cenacolo di Averroè è frequentato anche dai figli del califfo Al-Mansour, Nasser e Abdallah. Il primo è innamorato di sua figlia, mentre Abdallah, che ama la musica e la danza, ha una relazione con la figlia del cantore gitano Marwan. Confuso sul suo destino e la sua identità, Abdallah si lascia convincere ad entrare nella setta di integralisti al servizio dello sceicco Riad. Essi avversano apertamente Averroè e rovinano anche i rapporti del filosofo con il califfo, di cui è giudice e consigliere. La sua biblioteca personale viene data alle fiamme. Ma i testi ricopiati dai suoi discepoli sono portati al sicuro da Nasser in Egitto, appena in tempo, dato che il califfo condanna Averroè all’esilio e le sue opere al rogo. Il filosofo lascia Cordoba, mentre i suoi libri sono bruciati in piazza, ma egli sa che sono salvi. "Il pensiero ha le ali / nessuno può arrestare il suo volo". Averroè E’ il nome con cui è noto Muhammad Ibn Rushd (1126-1198), filosofo e scienziato arabo spagnolo. Il film non si sofferma tanto sull’opera di divulgatore e commentatore di Aristotele, quanto sul suo intento di dimostrare la conciliabilità tra ragione e fede. Averroè distingue l'ambito dell'indagine razionale, che aspira alla verità scientifica, da quello della rivelazione coranica, il cui fine è l'edificazione spirituale dei fedeli. Scrive il filosofo Umberto Curi: "Una luce di razionalità e tolleranza, di equilibrio e assennatezza, di tutela della tradizione e di apertura al nuovo. Intellettuale poliedrico, versato nei più diversi campi del sapere, giudice e medico di corte, astronomo e teologo, fra i maggiori esponenti di quell'ampio e discusso movimento di pensiero denominato falsafa, nel quale convergono le maggiori personalità della ricerca filosofica islamica fra Duecento e Trecento […]. Averroè è assunto dall'autore egiziano come protagonista di un racconto in cui la ricostruzione storica e biografica è esplicitamente piegata a finalità 'pedagogiche' strettamente connesse con le problematiche odierne. Come otto secoli fa, anche oggi dovremmo guardarci dal soggiacere al fanatismo e all'intolleranza, dalla tentazione di subordinare la necessaria libertà dell'indagine razionale alla cortigianeria del potere. Come allora, anche oggi dovremmo 'aristotelicamente' evitare gli opposti eccessi del fondamentalismo religioso e del mero conformismo utilitaristico, perseguendo invece con tenacia il 'giusto mezzo' effettivamente praticato dal filosofo arabo: rispetto della tradizione e insieme autonomia della riflessione razionale; scrupolosa osservanza delle leggi e insieme saggia moderazione nella loro applicazione; riconoscimento dell'autorità, ma senza alcuna servile sottomissione. [...] Per comunicare questo messaggio di tolleranza e tenere insieme Oriente e Occidente, Cristianesimo e Islam, fede e ragione il regista sceglie il modulo espressivo del doppio: due i roghi, che aprono e chiudono il film, doppi i personaggi e gli eventi. Inoltre non è casuale il riferimento alla figura di Averroè. Si può anzi affermare che nessuna altra figura avrebbe potuto compendiare gli intendimenti di Chahine meglio del filosofo arabo. [...] Più che limitarsi ad affermare la superiorità dell'indagine razionale rispetto all'apparato simbolico e retorico proprio della religione, Averroè legittimava entrambe le forme di ricerca, assegnando ad esse funzioni e destinatari differenti: la falsafa doveva essere coltivata dai filosofi, con l'avvertenza di non comunicare al volgo spiegazioni allegoriche dei testi sacri, onde non ingenerare scetticismo negli intelletti più deboli, mentre la milla era a sua volta rispettata come espressione di una pia credenza popolare, di per sé non in conflitto con le conclusioni della dimostrazione filosofica, né in linea di principio discordante dalla ricerca dell'inscindibile unità della verità." Il film Il modulo espressivo del doppio è evidente fin dall’incipit: al rogo sotto le mura di Carcassonne, ad una civiltà oscurantista e ad una religione distorta (che anticipano i tempi dell’ Inquisizione) si contrappone la casa-cenacolo di Averroé a Cordoba, centro di elaborazione di cultura e di libera circolazione di idee, ma anche di esperienza di vita, che non trascura le gioie della tavola, della musica e della danza. Le donne non sono sottomesse, ma parte attiva della vita familiare. La vivacità dei costumi, la sensualità delle danze, la musica e le canzoni celebrano la gioia di vivere. A questo modello di civiltà laica si contrappone la setta degli integralisti: vestiti di verde come le bandiere dell’Islam, sono intolleranti come i cristiani della prima scena. A loro il regista attribuisce tecniche di reclutamento e di obnubilazione delle coscienze e della ragione, che fanno riferimento ai fondamentalismi del presente. “Il vuoto interiore costruito attraverso la cancellazione della cultura e dei sentimenti (il “deserto” in cui si conclude il percorso iniziatico), slogan e parole d’ordine ossessivamente ripetuti che si sostituiscono all’articolazione dei concetti, una sorta di militarizzazione delle coscienze, di narcosi collettiva programmata per la violenza.” [Vecchi] A livello visivo l’uso della macchina a mano per la scena girata all’interno del castello della setta rende bene l’offuscarsi della coscienza del giovane Abdallah. Rincresce che un film così importante non sia stato ripubblicato in DVD, rendendone difficile la visione in Italia. A cura di: prof.ssa Sandra Borsi Bibliografia: Umberto Curi, Lo schermo del pensiero, Raffaello Cortina Editore, Milano 2000 pp.115-123 Paolo Vecchi Il pensiero ha le ali in “Cineforum n° 372 p.16 37 38