Scarica - Liceo Scientifico Ulivi

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Redazione: III D Leonardo Bertini, Ana Botnari, Raffaele Braniste, Giulio Cabrini, Matteo Cobianchi, Alessandro
Dalla Chiesa, Elena De Benedetti, Chiara Delmonte, Riccardo Ferri, Veronica Guerci, Alina Ivanylo, Chiara Longhi,
Cecilia Massimo, Lisa Pantaleoni, Alessandro Pasqua, Stefano Peri, Bianca Pezzani, Maria Caterina Pinelli, Dario
Reverberi, Riccardo Riva, Filippo Savi, Federico Sello, Sara Signorini, Alessandro Sorba, Pietro Toso, Davide
Zecca.
IV D Francesca Bacchi, Alain Ben Rejeb, Edoardo Bernini, Alessia Borrini, Pietro Canuti, Alberto Corradi, Alex
Dalla Fiora, Marco Dedja, Vittoria Ferrari, Eleonora Fontana, Matteo Leporati, Agata Magni, Nicola Pagani,
Alessandro Schianchi, Alessandro Simonini, Carlo Tanara, Lorenzo Urbanetto, Arianna Ziveri.
Liceo scientifico “Giacomo Ulivi”
anno scolastico 2014-2015
Editoriale: Alessandro Simonini
Copertina: Cecilia Massimo
Grafica: Arianna Ziveri
Coordinamento: prof.ssa Sandra Borsi
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Editoriale
di Alessandro Simonini
Parigi, 7 gennaio 2015. Strage nella sede del giornale sat irico Charlie Hebdo. L'11 settembre
della Francia.
Dopo l' attentato abbiamo deciso di informarci sul terrorismo di matrice islamica, in
part icolare sul gruppo terrorist ico dello Stato Islamico, recentemente venuto alla ribalta in
Siria e in Iraq dove sembra impossibile ipotizzare una pace duratura. Fin dall'inizio delle
nostre ricerche eravamo consapevoli che il richiamo alla religione islamica non doveva
portarci a confondere Islam e terrorismo: “I terrorist i offendono l' Islam più dei nemici
dell'Islam”(rettore moschea di Parigi).
Alcuni di noi si sono occupat i della libertà d' espressione e in part icolar modo della sat ira,
della sua storia e del suo ruolo nella società attuale oltre che del lavoro di art ist i e
disegnatori che si battono per l'affermazione di quest i valori nei loro Paesi e per la pace nel
mondo, affinché si costruiscano pont i e non barriere.
Il nostro lavoro si pone quindi l'obiett ivo di fornire informazioni il più possibile veritiere per
aiutare i lettori a sviluppare un'opinione individuale su realtà attuali non facili da analizzare
e comprendere: per questa ragione sono state consultate font i diverse e raccolt i pareri di
important i personalità politiche e intellettuali.
Invit iamo perciò i lettori a interpretare quello che leggono e a pensare con la propria testa,
senza farsi influenzare da alcuno stereot ipo.
Tunisi, 18 marzo 2015. Strage di turist i nel museo del Bardo. L'11 settembre della Tunisia.
Nairobi, 2 aprile 2015. Strage di student i al campus di Garissa. L'11 settembre del Kenya.
Quando stavamo impaginando questo numero unico il mondo è stato colpito da altri gravi
attentat i. Appare perciò evidente la necessità di una presa di posizione forte e decisa da
parte di tutto il mondo civile per impedire la definitiva affermazione dei progett i jihadist i in
Africa e Medio Oriente. Siamo di fronte a quello che alcuni politologi hanno definito uno
“scontro di civiltà”? Auguriamo ai lettori di riuscire a rispondersi, tenendo conto che in
quest i casi spesso non c'è una risposta giusta.
4 aprile 2015
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INDICE
Charlie Hebdo: reazioni e commenti
Cosa è successo
Cosa pensano i leader mondiali
Nel mondo musulmano
E noi?
Charlie Hebdo:
la reazione popolare
Parigi: il mondo in piazza
Altre manifestazioni
Sul web
Charlie Hebdo va a ruba
Polemiche
Reazioni psicologiche
Le reazioni dei ragazzi
Reclutamento Isis
I disseminatori
I siti web
La prigione
Imam erranti
L’”Autostrada jihadsita”
L’addestramento
Il profilo del jihadista
Una crisi di identità
Numeri
Isis: la strategia mediatica
1.Reti televisive
2.Internet
3.Jihad 2.0
Gli attacchi informatici
Una nuova strategia
I social più sfruttati dai jihadisti
4.Anonymous
Chi sono
Cosa fanno contro il Jihad
Origini estremismo
Cause
Principali movimenti terroristici
1. Al Qaeda
2.Boko Haram
3.Isis (IS)
L’Isis e l’Islam
Glossario
Versetti del Corano
Commento
Israele e Palestina
Il conflitto
La nascita del “Focolare nazionale”
L'espansione ebraica
La divisione della Palestina
Nascita di Israele
La Guerra dei Sei giorni
La Guerra del Kippur
L'occupazione dei territori
L’invasione del Libano
Gli Accordi di Camp David
La Prima Intifada
Nascita di Hamas
Gli accordi di Oslo
L'assassinio di Rabin
Nascita Autorità N.P.
Nuovi Accordi di Camp David
La Seconda Intifada
La costruzione del muro
L'operazione “Piombo fuso”
Operazioni militari e nuovi insediamenti
Israele: marzo 2015
La libertà di espressione
Un po’ di storia
Il rapporto di “Reporter senza frontiere”
Blasfemia nel mondo
Blasfemia in Italia
Diritto di satira: ci sono dei limiti?
Satira e potere
Cos’è la satira
La satira in Turchia
Libertà di satira
Michel Kichka
Nadia Khiari
Mana Neyestani
Libertà di espressione e mondo arabo
Libertà d' espressione e blasfemia
Shirin Neshat: denuncia attraverso l'arte
I giovani iraniani
Persepolis: la ribellione attraverso un cartone
Sotto il burqa: un libro per sensibilizzare
Le donne in Afghanistan e Iran
Parole come armi
Un film contro l’integralismo: Il destino
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Charlie Hebdo: reazioni e
commenti
Cosa è successo?
Sono passati alcuni mesi dalla strage ed è necessario ricordare
quanto avvenuto. La mattina del 7 gennaio 2015 a Parigi, i fratelli
Said e Cherif Kouachi, cittadini francesi di origine magrebina,
assaltano armati la redazione parigina del settimanale satirico
Charlie Hebdo, uccidendo dodici persone fra le quali quattro
famosi vignettisti, “colpevoli” di avere preso in giro il profeta
Maometto: Charb, pseudonimo di Stéphane Charbonnier, 47
anni, direttore del giornale. Cabu, cioè Jean Cabut, 76 anni.
Tignous, ovvero Bernard Verlhac, 57 anni. Georges Wolinski, 80
anni, disegnatore, uno dei pilastri di Charlie Hebdo.
Il giorno dopo i fratelli Kouachi e Amedy Coulibaly – autore della
strage nel negozio kosher di Parigi, avvenuta il giorno dopo –
vengono uccisi dalle teste di cuoio. Emerge da un video caricato
su youtube, che Coulibaly agiva per conto dell'ISIS e giustificava
la sua azione contro la Francia colpevole di blasfemia e violenze
contro i musulmani.
La condanna per la strage nella sede del giornale satirico Charlie
Hebdo è unanime. A poche ore dall'assalto le reazioni si
susseguono senza sosta: mentre i siti jihadisti lodano gli
assalitori, ricordando la "derisione" del settimanale nei confronti
di Maometto e il coinvolgimento militare della Francia nei Paesi
musulmani, l'Occidente si prepara ad una risposta.
Cosa pensano i leader mondiali?
Il presidente francese, François Hollande, è arrivato subito sul
luogo dell'attentato, in pieno centro: "È terrorismo, non c'è
dubbio". Poche ore dopo, in diretta tv, afferma: "un vile
attentato" parlando alla Nazione e proclamando il lutto
nazionale. "Dobbiamo essere consapevoli che la nostra arma è
l'unità, niente potrà separarci. La Francia è grande e la libertà più
forte della guerra. Uniamoci e vinceremo, niente potrà farci
flettere dalla nostra determinazione. Dobbiamo essere compatti,
mostrare che siamo un Paese unito. Siamo in un momento
difficile, sapevamo di essere minacciati perché siamo un Paese di
libertà. Viva la repubblica e viva la Francia". Il governo ha deciso
l'immediato aumento del livello di allerta per attentati
terroristici, polizia e gendarmi sono stati schierati davanti a
scuole, edifici pubblici e redazioni di giornali. "Dobbiamo
rispondere cercando gli autori di questo atto infame, arrestarli e
giudicarli e faremo tutto il possibile" assicura il presidente.
"Dobbiamo tutelare gli organi pubblici, le forze dell'ordine
saranno dispiegate ovunque mettendo in atto il piano
antiterrorismo".
L'ex presidente Nicolas Sarkozy, parla di "atto barbaro" e
"tragedia nazionale che sconvolge profondamente". "I colpevoli
di queste barbarie - continua - dovranno essere perseguiti e
puniti con la più estrema severità. Tutti i mezzi dello Stato
saranno messi in azione per neutralizzare i tre criminali all'origine
di questo atto".
Il mondo è attonito, l'attentato è il più grave in Francia dal 1940.
"Barbaro attacco", lo definisce anche il presidente della
Repubblica, Giorgio Napolitano. "Un gesto vile ed esecrabile,
che non colpisce semplicemente un giornale, ma uno dei pilastri
sui quali si basa la nostra civiltà: la libertà di stampa; nella lotta
contro il fanatismo, il terrorismo e tutte le forme di odiosa
violenza nei confronti di cittadini inermi, la Francia potrà sempre
contare sulla vicinanza e la fattiva collaborazione dell'Italia".
In una nota diffusa dal portavoce vaticano, padre Federico
Lombardi, si denuncia "la violenza omicida abominevole". Nel
dettaglio, si fa sapere che Papa Francesco esprime "la più ferma
condanna per l'orribile attentato che ha funestato Parigi con un
alto numero di vittime, seminando la morte, gettando nella
costernazione l'intera società francese, turbando profondamente
tutte le persone amanti della pace ben oltre i confini della
Francia". Papa Francesco partecipa nella preghiera alla
sofferenza dei feriti e delle famiglie dei defunti ed esorta tutti ad
"opporsi con ogni mezzo al diffondersi dell'odio e di ogni forma
di violenza, fisica e morale, che distrugge la vita umana, viola la
dignità delle persone, mina radicalmente il bene fondamentale
della convivenza pacifica fra le persone e i popoli, nonostante le
differenze di nazionalità, di religione e di cultura".
“Non si uccide in nome di Dio, la libertà di stampa è essenziale
ma la religione non va offesa, non si può prendere in giro la fede
di un altro anche se non si reagisce con la violenza”. Papa
Bergoglio ha quindi sottolineato che la libertà di espressione
deve avere dei limiti, in quanto non si “giocattolizza la religione
degli altri, la libertà è diritto ma anche dovere”. Molto singolare
poi, la metafora utilizzata dal Pontefice per spiegare il concetto:
“È vero che non si può reagire violentemente ma se un amico
dice una parolaccia contro mia mamma, gli spetta un pugno”,
ribadendo che “ogni religione ha dignità ed io non posso
prenderla in giro“.
Un attacco "codardo e diabolico", lo definisce il presidente degli
Stati Uniti, Barack Obama. "Siamo con i francesi", rimarca
sottolineando come i terroristi abbiamo paura della libertà di
stampa visto che hanno organizzato una strage di giornalisti.
"L'islam è una religione pacifica ed è una sfortuna vedere questi
estremisti radicali ed aggiunge che gli Stati Uniti lavoreranno per
proteggere gli americani in casa e all'estero e sono consapevoli
del rischio di attacchi da parte di combattenti stranieri disposti a
dare la loro vita per la loro causa”. "Di volta in volta, la
popolazione francese ha difeso i valori universali. La Francia e la
magnifica città di Parigi, dove è avvenuto l'attacco, offrono al
mondo un esempio che durerà ben oltre la visione odiosa di
questi killer".
"Ogni americano è con voi", aggiunge il segretario di Stato
americano John Kerry. "Il mondo non si arrenderà ai terroristi.
Nessuno sa meglio della Francia che la libertà ha un prezzo", ha
affermato definendo le vittime della strage dei "martiri della
libertà". Condoglianze al Paese anche dal presidente russo
Vladimir Putin che condanna fermamente l'attacco di Parigi ed il
terrorismo in tutte le sue forme.
Nel mondo musulmano
Il rettore della grande Moschea di Parigi Dalil Boubakeur ha
condannato quest’atto barbarico e molti musulmani francesi
hanno espresso tutto il loro orrore. I musulmani sono stanchi di
essere sospettati, ostaggi di una crisi morale e identitaria. Sono i
primi a essere inorriditi dai crimini dell’ISIS e di Al Qaeda e sono
le prime vittime di questo terrorismo. “I terroristi offendono
l’Islam più dei nemici dell’Islam, che hanno insultato il Profeta
(Maometto) con i film o con vignette” e i musulmani devono
sforzarsi di “isolare, assediare, e per dirlo apertamente,
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sradicare” questi “gruppi takfiri” [il Takfirismo è un movimento
settario fondato nel 1971 che definisce eretici tutti i musulmani
che non condividono il suo punto di vista, legittimandone così
l’uccisione].
Se Nasrallah prende posizione contro gli estremisti, in Iran,
nazione sciita vicina ad Hezbollah, la Guida Suprema iraniana,
l’ayatollah Ali Khamenei, attacca i servizi di intelligence di paesi
“nemici” che, secondo la sua opinione, lavorano per dividere la
comunità islamica, alimentando le divisioni tra sunniti e sciiti. “Le
mani che seminano discordia tra sunniti e sciiti sono collegate ai
servizi di spionaggio dei nemici dell’islam”.
L’attentato terroristico di Parigi ha scatenato le reazioni della
comunità musulmana nel mondo e, se in Italia gli imam
condannano la strage nella redazione di Charlie Hebdo
sottolineando che la violenza mette a rischio soprattutto i fedeli
islamici, secondo Abdullah al-Athba, direttore di Al-Arab, il più
importante quotidiano del Qatar, quanto accaduto rappresenta
“una scusa della Francia per intervenire in Libia, quindi i
musulmani non devono scusarsi”. E ha poi aggiunto: “Non
scusatevi per un crimine che non avete commesso”.
… e noi?
Questa l'opinione di Assan Nasrallah (v.foto), capo di Hezbollah
(partito politico sciita del Libano), le cui milizie combattono al
fianco delle truppe lealiste nella guerra civile siriana, in un
discorso tenuto in occasione della commemorazione della
nascita di Maometto. Questi gruppi di sunniti, ha proseguito,
“pongono una minaccia al nostro sangue, al nostro presente, al
futuro, al nostro onore, e hanno cominciato a portare una
minaccia all’Islam stesso. Il comportamento dei gruppi takfiristi
che affermano di seguire l’islam ha dato una visione distorta della
stessa religione, del Corano e della nazione islamica più di quella
fornita dai nemici dell’islam che hanno insultato il profeta”.
“Come possono pretendere questi gruppi di rappresentare l’Islam
se decapitano, sventrano e massacrano la gente e in Yemen
uccidono persone mentre commemorano la nascita del profeta?
Oggi la nostra nazione e la nostra religione si trovano ad
affrontare questa pericolosa minaccia”. In una nota inviata poi
alla TV al-Arabiya, Nasrallah ha ribadito che attaccare innocenti è
inaccettabile e deve essere condannato.
Anche Orhan Pamuk, intellettuale turco, (v.foto) si è schierato
contro il terrorismo. Sull'attentato di Parigi ha detto: ”Questo
attacco è un duro colpo per quelli che, come me, credono che i
musulmani possano vivere in pace accanto ai cristiani in Europa.
Questo attacco è un tentativo di uccidere questa speranza.”
Inoltre ha aggiunto che è fondamentale difendere la libertà di
parola, specialmente in un paese come la Turchia dove questo
diritto è limitato.
Nonostante non si trattasse del primo attentato in Europa e che il
livello d’allerta fosse alto sin da Natale, gli attentatori sono
riusciti nel loro intento, un attacco a due luoghi simbolo, la
redazione di un giornale satirico e un supermercato frequentato
da ebrei.
Un atto vile, oltre che crudele (non dimentichiamo infatti che le
vittime erano persone inermi). Un attacco alla libertà di tutti i
paesi democratici e civilizzati.
Su “La Repubblica” Ezio Mauro firma l’editoriale e scrive: “Se
vogliamo che i morti di Parigi abbiano un significato morale e
politico anche per noi, oltre al significato simbolico e militare per
i terroristi, dobbiamo recuperare questa consapevolezza di ciò
che noi siamo. Si chiama Occidente, cioè quella parte della
cultura e del mondo che afferma di credere appunto nella
democrazia come pratica che regge la cosa pubblica e la
convivenza civile. Recuperata questa coscienza, dobbiamo
prendere atto che proprio a questa identità è stata dichiarata una
guerra.”
L'attacco è stato giustificato come un atto di vendetta in nome
del profeta Maometto; a nostro parere, però, non si è trattato
d'altro che di un tentativo disperato di far tornare a tremare
l'Occidente dall'ultimo grande attentato: l'11 settembre 2001,
l'ultimo in grado di mettere in ginocchio l'Occidente e l'unico in
grado di dimostrare che la grande potenza degli USA poteva
essere scalfita. L'evento ha rivelato il bisogno dell'Europa di
prepararsi concretamente ad eventuali attacchi terroristici, come
hanno già fatto gli Stati Uniti dopo l’ attentato del 2001. Occorre
peraltro ricordare che molti dei gruppi ribelli anti Assad, che poi
hanno dato vita all’ISIS, sono stati inizialmente sostenuti da
governi occidentali, in primo luogo gli USA.
Fino a che le grandi potenze continueranno a fomentare squilibri
mondiali e soluzioni belliche, quasi sempre per nascosti interessi
geopolitici ed economici, la situazione continuerà a rimanere
instabile. E’ possibile e doveroso chiamarsi fuori da questo
scontro, provando a costruire ponti tra popoli, religioni e culture,
invece di acuire le divergenze.
Ma ora l’Occidente sarà costretto ad agire, anche se la via
militare non è l’unica e forse non sarebbe risolutiva in un
contesto così complesso.
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Bibliografia e sitografia:
“L’ Humanité avant la Réligione” o “Osiamo vivere insieme”. Ma
quello più diffuso era “Je suis Charlie”, scritto ovunque.
Il simbolo più presente naturalmente era la matita: matite vere,
di cartone, piccole o gigantesche, hanno dominato la
manifestazione.
Parigi, Charlie Hebdo: condanna internazionale, 7
gennaio 2015 http://www.repubblica.it/esteri/
Altre manifestazioni
A cura di: Alina Jvanylo, Alessandro Pasqua, Dario
Reverberi, Riccardo Riva, Federico Sello, Davide Zecca
(III D 2015)
Parigi: attacco armato giornale Charlie Hebdo almeno 10
morti 5 feriti , 8 gennaio 2015
http://www.ilfattoquotidiano.it/
http://www.reset.it/rassegna-stampa-italia/siamo-tutticharlie
Charlie Hebdo:
la reazione popolare
Parigi: il mondo in piazza
Domenica 11 gennaio 2015, la popolazione parigina è scesa in
piazza per dare il via alla più grande manifestazione di tutti i
tempi: leader politici di tutta Europa hanno affiancato il
presidente francese in una manifestazione silenziosa - da Place
de la Republique a Place de la Nation - a cui hanno preso parte
due milioni di persone, facendo di Parigi “la capitale del mondo
libero”. [“Il Giornale”]
Manifestazioni si sono tenute in altre città della Francia e
dell’Europa. Nelle foto sotto la manifestazione dei francesi
residenti a Parma e quella dei ragazzi musulmani di Treviso.
Nonostante si sentisse offesa dalle vignette di Charlie Hebdo,
una buona parte della popolazione musulmana infatti si è
discostata dai terroristi, criticando ciò che è successo e
condannando l'uso della violenza come arma per rispondere a
un'offesa.
In testa al corteo i sopravvissuti al massacro e i familiari delle
vittime. Nella foto, con la fronte bendata, il disegnatore Luz, che
realizzerà la prima copertina di Charlie Hebdo dopo l’attentato,
con Maometto che piange.
Tra la folla erano presenti anche numerosi bambini che
portavano al collo cartelli disegnati da loro: “Chi uccide è un
pazzo”, “I cattivi non ci fanno paura”. Altri slogan recitavano
In particolare Parma è stata palcoscenico di una manifestazione
della comunità musulmana locale con circa 400 partecipanti.
In segno di rispetto e di solidarietà verso la Francia, il Comune di
Parma ha deciso di esporre il vessillo francese in Municipio,
insieme a quello civico. Entrambe le bandiere rimarranno a
mezz'asta in segno di lutto.
La sera dell' 8 gennaio circa 150 persone si sono riunite in Piazza
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Garibaldi dove Cgil, Cisl e Uil, appoggiati anche da altri sindacati,
hanno organizzato una manifestazione per ricordare le persone
uccise in nome di una follia terrorista, fondamentalista e
vigliacca. “La manifestazione era importante per testimoniare
solidarietà nei confronti dei familiari delle vittime e per dire che
anche Parma si ribella all'attacco di Parigi”. Queste sono le parole
di Paolo Bertoletti, in piazza in rappresentanza della Cgil, critico
anche verso l'intervento di un gruppo di manifestanti che hanno
espresso una condanna verso un Occidente che sfrutta gli
immigrati.
“Matite in alto. Per la libertà d'opinione”. È questo il titolo che
sulla Gazzetta di Parma apre l'articolo dedicato alla
manifestazione che i ragazzi delle sezioni musicali del liceo Attilio
Bertolucci hanno organizzato la mattina dopo l'attentato. Oltre a
voler dimostrare il loro impegno affinché non si ripetano massacri
del genere, i docenti, preoccupati dal fatto che molti giovani
potrebbero cadere in facili reazioni contro i propri compagni
islamici, affermano che è importante impegnarsi affinché non si
generi una “guerra” contro la comunità islamica.
presenta un Maometto che piange e tiene in mano un cartello
con lo slogan “Je suis Charlie”.
Polemiche
Una settimana dopo l’attentato di Parigi, il 14 gennaio 2015,
l’organizzazione terroristica Boko Haram ha sterminato 2000
persone nel nord della Nigeria. E’ la stessa organizzazione
responsabile del rapimento di più di 200 studentesse nigeriane.
Da più parti si è invocata una sensibilizzazione dell’opinione
pubblica mondiale pari a quella per la strage di Parigi. Ma ben
pochi sanno quello che è successo e che continua a succedere in
altri Paesi come il Pakistan, dove sono state distrutte dai talebani
decine di scuole e dove solo nel dicembre del 2014 i terroristi
hanno massacrato 141 persone, quasi tutti studenti figli di
militari. “An unequal world?” recita la vignetta qui sotto.
Certo va considerato l’alto valore simbolico della strage di Charlie
Hebdo, un attentato alla libertà di espressione nel cuore
dell’Europa democratica.
Pino Agnetti sulla Gazzetta sostiene che, proprio perché la nostra
città vanta un rapporto speciale con Parigi e più in generale con la
Francia, sarebbe stato necessario anche un gesto che andasse
oltre le manifestazioni spontanee, come la proclamazione di una
giornata di lutto cittadino da accompagnare con altri gesti
simbolici , e non lasciare cadere troppo in fretta lo slogan “Je suis
Charlie”, ma farne la bandiera di una giornata di lutto. Queste
azioni non bastano certo a sconfiggere i terroristi, ma
servirebbero a superare divisioni e difficoltà interne che rischiano
di farci perdere questa guerra.
Sul web
Nei giorni immediatamente successivi all'attentato sui socialnetwork si è diffuso l'hashtag "JE SUIS CHARLIE" in segno di
supporto per la redazione del giornale vittima dell'attacco:
milioni di utenti hanno condiviso foto e slogan aggiungendo
questo hashtag: i soggetti principali erano matite o musulmani,
uomini e donne, che esprimevano la loro estraneità all'evento e la
loro innocenza.
Reazioni psicologiche
L'attentato ha provocato un clima di insicurezza generale, in
particolare nei parigini, molti dei quali si dichiarano favorevoli ad
una politica anti-immigrazione; temono soprattutto gli immigrati
delle banlieues, ritenuti pericolosi. (Cherif Kouachi era stato
arrestato durante un'operazione antiterroristica condotta nella
periferia parigina nel 2008). In realtà l'odio contro i magrebini ha
vecchie radici: risale infatti alla guerra d'indipendenza algerina
degli anni '60. Successivamente la Francia accolse migliaia di
immigrarti provenienti dalle ex-colonie: molti "stranieri" in
Francia sono cittadini figli di immigrati di seconda o terza
generazione. Gli atteggiamenti razzisti non si sono però spenti e
hanno in alcuni casi esasperato i figli degli immigrati a tal punto
da farli agire in modo violento: è il caso della rivolta delle
banlieues del 2005; dopo l'attentato a Charlie Hebdo le tensioni
sono riesplose, portando molti cittadini a guardare gli stranieri
con sospetto.
Anche in Italia il pericolo dell’islamofobia è reale e solo la scuola e
la corretta informazione possono evitare il diffondersi di idee
false e controproducenti.
“Charlie Hebdo” va a ruba
Le reazioni dei ragazzi
Il numero del giornale satirico stampato una settimana dopo
l’attentato, in cinque milioni di copie, va a ruba nelle edicole
francesi; tradotto in molte lingue o ripubblicato da giornali come
“Il Fatto quotidiano”, è presto esaurito anche nel nostro Paese e
subito ristampato.
La copertina, a sfondo verde con la scritta Tout est pardonné,
Riportiamo alcuni testi di ragazzi di un liceo della nostra città, che
testimoniano la partecipazione alla tragedia e le tante domande
che si pongono i ragazzi come noi.
Il 7 gennaio “ogni cittadino civile è stato attaccato, colpito, offeso
dalla disumanità dell'odio più cupo e tremendo che si possa
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immaginare. […] Si parla di organizzazioni estremiste […]. E se il
problema fosse interno? Il disagio delle periferie che si riversa in
odio per il sistema. Non dimentichiamoci che dieci anni fa le
banlieues parigine andavano a fuoco. Solo un organismo può
evitare situazioni di questo genere: la scuola. Solo a scuola la
persona può prendere atto di valori che rimarranno indelebili
perché parte della sua educazione europea e laica. […] Solo con
progetti educativi di valorizzazione di quell'umanità offesa si
potranno evitare situazioni terribili come quelle vissute a Parigi."
[Stefano Bolzoni]
francese, inglese o tedesco - che gestiscono forum attraverso cui
moltiplicano video e immagini e intercettano i simpatizzanti.
Sono centinaia, sfuggono ai controlli ed hanno piena libertà
d’azione dal Califfato, che ne sfrutta la motivazione ideologica
per infondere entusiasmo nelle reclute.
Francesca Parisi sottolinea che il tremendo attentato è accaduto
“nella città che non solo rappresenta il centro dell'Europa, ma è
simbolo della libertà di coscienza, pensiero e azione teorizzata
per la prima volta nella Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del
cittadino nel 1789. […] E’ una lotta, quella per la libertà, per nulla
conclusa.[…] Abbiamo capito che la guerra non è così lontana da
noi, al contrario è più vicina di quanto pensiamo. "
Purtroppo è così. Il 18 marzo 2015, quando stavamo per chiudere
questo numero unico, a Tunisi un attentato terroristico ad opera
di giovani forse tornati nel loro paese dopo aver combattuto in
Siria contro il regime di Assad (sono tremila i foreign fighters
tunisini) ha coinvolto anche cittadini italiani.
A cura di: Alex Dalla Fiora, Nicola Pagani, Alessandro
Schianchi, Carlo Tanara (classe IV D 2014-2015)
Bibliografia e sitografia:
- P. Agnetti Parma metta il lutto per la strage di Parigi,
“Gazzetta di Parma” 9 Gennaio 2015
- Articoli di T. Giannotti e C. Rancati, “ Gazzetta di
Parma” 12 Gennaio 2015
-Atlante de la Repubblica, 19 gennaio 2015
- http://www.reset.it/rassegna-stampa-italia/siamotutti-charlie
http://www.internazionale.it/storia/le-reazioni-in-tuttomondo-all-attentato-contro-charlie-hebdo
Reclutamento Isis
La presenza di jihadisti con passaporto dell’Unione Europea è
stata spesso sottovalutata e ridotta a un fenomeno isolato di
mancata integrazione. Dopo gli attentati a Madrid nel 2004 e a
Londra nel 2005, ma soprattutto dopo la diffusione su internet
dei video delle decapitazioni di prigionieri dall’estate del 2014, si
è capito che il problema coinvolge la seconda e terza generazione
d’immigrati. Gli assassini, infatti, parlano nei video in perfetto
inglese (o olandese o francese). L’inquietante sorpresa di
giovani, nati in occidente, pronti a partecipare alla Jihad , fa
nascere il desiderio di sapere chi sono i jihadisti europei, perché
sono partiti e come sono stati reclutati.
I disseminatori
Il primo passo è il reclutamento ed avviene quasi sempre online
grazie ai «disseminatori» di Jihad ovvero volontari madrelingua -
I siti web
La radicalizzazione avviene, però, anche attraverso siti web e
pagine dei social network (Facebook, You Tube e Twitter per
esempio).Inoltre, l’uso di questi siti permette anche di abbassare
l’età media dei giovani reclutati, in genere dai 13-14 anni fino ai
ventenni. I siti sono preparati attraverso quella che potrebbe
essere definita una strategia di marketing: con l’uso sapiente
d’immagini e video si provocano le emozioni dell’utente, al punto
che il rifiuto della cultura occidentale - vista come traditrice e
infedele - e la partenza verso un teatro di guerra per portare aiuto
al fratello in difficoltà sembra l’unica soluzione possibile per un
vero credente.[cfr. su queste pagine l’articolo dedicato alla
strategia mediatica dell’Isis]
La prigione
Un altro canale per la radicalizzazione e il reclutamento è la
prigione. Diversi jihadisti, che hanno combattuto all’estero o
compiuto attentati in patria, avevano abbracciato una versione
radicale dell’Islam in carcere. Le prigioni nel mondo in generale e
in Occidente in particolare sono divenute un terreno perfetto per
la predicazione e il reclutamento. I membri di gruppi islamisti
offrono amicizia e protezione a giovani condannati spesso per
reati minori, cominciando quel cammino che, alla loro uscita dalla
prigione, li porterà a brandire le armi contro una società che li ha
rifiutati e condannati.
Imam erranti
Robert Musa Cerantonio, 29enne di padre calabrese e madre
irlandese, è uno dei più pericolosi imam itineranti in Europa.
Egli è lo stesso uomo che si fece una foto davanti alla basilica di
San Pietro con la bandiera di AlQuaeda; inoltre veniva accolto
come una star da molte comunità islamiche in Italia, fino
all’arresto, il 10 luglio 2014 nelle Filippine. Nell’agosto del 2014, in
Kosovo, è stato arrestato l’imam estremista wahabita Husein
Bilal Bosnic, dopo aver girato nel Nord-Italia.
Quest’ultimo è stato fondamentale nel processo di
radicalizzazione di Ismar Mesinovic, l’imbianchino che lasciò la
moglie e partì con il figlioletto di tre anni alla volta della Siria,
dove è morto lasciando il bambino nelle mani dell’IS.
10
L’ «autostrada jihadista»
Se un simpatizzante decide di partire per la Siria o l’Iraq, sale
quasi sempre su un volo per Istanbul o Ankara. La Turchia è
l’«autostrada jihadista» dal 2012 quando Ankara decise di
consentire il passaggio dei volontari anti-Assad. In particolare,
sono tre le città dove i volontari arrivano per essere presi in
consegna da cellule di Isis: Sanliurfa, Gaziantep e Adiyaman.
Si trovano ai confini con la Siria e alcuni hotel sono i punti di
incontro da dove partono le staffette per superarli. È la via che
ha consentito l’arrivo nel Califfato di almeno mille turchi e quasi
tremila occidentali, inclusi cinquanta o, forse cento, italiani.
L’addestramento
Per chi arriva, la destinazione sono i campi di addestramento, di
cui i forum jihadisti diffondono i video. Si addestra all’uso di
kalashnikov, lanciagranate ed esplosivi, ma ci sono anche corsi di
corpo a corpo e indottrinamento ideologico. Si dorme sotto
tende dell’Us Army, rubate dall'Isis nelle basi dell’esercito
iracheno rifornito dagli americani. Chi termina l’addestramento
va a combattere a tempo indeterminato ma può decidere di
tornare nel Paese da cui è partito, per andare a trovare i
famigliari o per mettere a segno un piano definito, come i fratelli
Kouachi. Fra gli occidentali c’è chi cede allo stress e vorrebbe
disertare, ma la punizione del Califfo è feroce: fucilazione seduta
stante.
Il primo gruppo racchiude coloro che provengono dal Nord Africa
o dal Medio Oriente e arrivano in Europa come studenti o
rifugiati. In alcuni casi erano già stati sfiorati dalla
radicalizzazione jihadista, mentre altri si sono avvicinati al
jihadismo dopo l’arrivo in Europa.
Il secondo gruppo raccoglie i figli o i nipoti d’immigrati giunti in
Europa alla ricerca di un lavoro o di sicurezza. La maggior parte di
loro possiede un passaporto europeo e parla perfettamente la
lingua del Paese di residenza. Il terzo gruppo racchiude i
neoconvertiti che si avvicinano a una visione radicale dell’Islam
dopo essere diventati musulmani.
Una crisi di identità
Secondo Kenan Malik, intellettuale indiano residente in Gran
Bretagna, ”l'islamismo radicale non è un movimento religioso,
ma è il modo in cui alcuni gruppi esprimono la loro barbarica
rabbia politica utilizzando a questo fine una certa interpretazione
della religione. I giovani jihadisti crescono estraniati dalla società
nelle nazioni europee nelle quali sono emigrati i loro genitori.
Ma la stessa cosa avviene anche nelle comunità dei Paesi
musulmani. Molti detestano costumi e tradizioni delle loro
famiglie: il motivo per cui si sentono disconnessi tanto dalle
società occidentali quanto dalle comunità musulmane e
abbracciano l'islamismo radicale non è religioso. Ha più a che fare
con una loro crisi d'identità. La jihad dà loro un senso di
appartenenza, una nuova identità: si riconoscono in obbiettivi
comuni spaventosamente chiari.”
Il profilo del jihadista
Ma chi è più sensibile al reclutamento? Esiste un profilo del futuro
jihadista?
Un recente studio fatto dall'agenzia No-Profit, Centre for the
Study of Radicalisation, ha eliminato l’immagine del terrorista
come povero, proveniente da classi disagiate e senza grandi
prospettive.
Alcuni degli autori di azioni terroristiche legate alla Jihad avevano
completato studi universitari e la maggior parte degli arrestati in
Europa per azioni terroristiche aveva un lavoro fisso. Quindi non
appare possibile definire una classe sociale di provenienza dei
reclutati europei. Secondo Edwin Bakker, esperto di terrorismo
del Clingedael, le tre categorie di persone più vulnerabili al
reclutamento jihadista sono:
1. nuovi immigrati
2. seconda o terza generazione d’immigrati
3. neoconvertiti
Numeri
Nel 2014 i numeri stimati degli stranieri trasferiti in Siria per
combattere a fianco dell'ISIS sono: più di 800 dalla Russia, più di
700 dalla Francia, circa 500 dal Regno Unito, 300 dalla Germania,
250 dall’Australia e dal Belgio, 120 dall’Olanda, più di 100 dagli
Stati Uniti, 100 dalla Danimarca, 50 dalla Norvegia e dall’Italia, 30
dall’Irlanda e dalla Svezia. 1400 europei che combattono in Siria.
Alcuni dei 50 italiani sono rientrati in patria dopo aver ricevuto
l'addestramento da parte dei terroristi e svolgono servizi di
logistica reclutamento. L'80% di loro non sono figli di immigrati,
ma italiani convertiti da poco all'Islam.
11
Un articolo dell’11 marzo 2015 segnala più di 3000 foreign
fighters che combattono in Iraq e Siria, di cui 65 partiti dall’Italia.
La cosa che più preoccupa oggi è che cerchino di rientrare nei
Paesi da cui sono partiti o in altri dell’area Shengen.
A cura di: Giulio Cabrini & Matteo Cobianchi
(III D 2014-15)
Bibliografia e sitografia:
M.Venturini, Le tecniche psicologiche per reclutare gli
italiani, 26-8-2014 http://www.ilfattoquotidiano.it/
V.Piccolillo, Giovani e convertiti, chi sono i 50 italiani
dell’Isis, 14-8-2014 http://www.corriere.it/cronache/
D.Ferri, Come i jihadisti di Isis richiamano alle armi gli
europei, 27-6-2014 http://www.giornalettismo.com/
C.Cruciani, Isis, soldi e propaganda antioccidentale per
reclutare nuovi adepti, 7-1-2015 http://ilmanifesto.info/
M.Gaggi, La crisi di identità dei giovani musulmani in Noi
e l’Islam, “Corriere della Sera”, Milano, febbraio 2015
p.243
Isis: la strategia mediatica
L'Isis è riuscito a sfruttare televisione, internet e social network al
fine di diffondere, attraverso immagini e video, il suo messaggio
che incita alla guerra santa e alla lotta contro i “crociati”.
Attraverso un efficiente e particolare sistema narrativo
semplifica e distorce la realtà, al fine di dare un volto nuovo ai
nemici e creare un mondo in bianco e nero, dove loro
rappresentano il bene assoluto e tutt i gli altri il male. Infatti l'Isis,
allo stesso tempo, terrorizza i suoi nemici e recluta nuovi adepti
mostrando i vantaggi di militare nelle sue file.
1. Reti televisive
Nel 1996 una nuova rete televisiva araba con sede in Qatar, Al
Jazeera, [il nome significa in arabo “isola, penisola”, e indica
solitamente l’Arabia Saudita] inizia a mandare in onda i suoi
programmi, “sconvolgendo lo spazio mediatico arabo, fino a
quel momento frammentario, gestito da vari Paesi, o meglio da
varie dinastie interessate a conservare il proprio potere e a non
indispettire troppo il loro partner economico occidentale”. La
nuova rete di informazioni mostra le contraddizioni interne al
mondo arabo e i suoi problemi. Una delle questioni principali è
quella palestinese, la quale è diventata simbolo dell'ingiustizia
inflitta al mondo islamico da un ordine mondiale dovuto e
controllato dal quello occidentale. A differenza di molti altri
paesi islamici, che non mostrano mai Israele, Al Jazeera accoglie
spesso rappresentanti israeliani o intellettuali politici; in questo
modo viene dato un volto ad un "nemico", che è forte e potente e
questo rende più urgente la necessità di combatterlo.
Al Jazeera utilizza anche il potere evocativo delle immagini e
contribuisce a creare nuove mitologie. Ogni arabo, se muore è un
“martire”, mentre i morti occidentali e israeliani sono solo
“morti”. Il primo è l’incarnazione del vero e del giusto, il secondo
invece appartiene per sua natura all’universo del male e della
menzogna. Questo schema narrativo semplifica e distorce la
realtà, ma ha un grande impatto sul pubblico.
La rete televisiva ha svolto e continua a svolgere un ruolo da
protagonista nella diffusione di film e video delle agiografie post
mortem dei martiri per diffondere il loro messaggio, che incita
alla guerra santa e alla lotta contro i “crociati”.
La nascita di stazioni Tv satellitari non ha significato un
cambiamento radicale nelle trasmissioni televisive arabe, anche
se ha moltiplicato la varietà delle trasmissioni, in quanto esse
ricorrono spesso alla demagogia, alla deformazione e
all’allarmismo che servono ad infiammare lo spettatore e trarlo
in inganno.
Per esempio Al Arabiya è un'emittente televisiva degli Emirati
Arabi Uniti, con sede a Dubai, fondata il 3 marzo 2003.
L'emittente è nata da un finanziamento di 300 milioni di dollari
statunitensi da parte dei proprietari della MBC (Middle East
Broadcasting Center), il gruppo libanese Hariri Group, più altri
investimenti dall'Arabia Saudita, Kuwait e dal Golfo Persico; nata
per contrastare la supremazia di Al Jazeera, la combatte usando
le sue stesse armi, cioè la tempestività nel fornire notizie e la
trasmissione dei filmati forniti dai militanti islamici che
compiono attentati o rapimenti.
2. Internet
La nuova generazione di terroristi diffonde i suoi messaggi
soprattutto su internet, anche se poi le TV di tutto il mondo ne
riprendono i più scioccanti.
Già nel 2004 uno studioso analizzò sulla rivista di geopolitica
Limes quello che definiva “il Jihad elettronico”. Numerosi «siti
islamici» che “ trattano l’islam sotto i suoi diversi aspetti:
dottrinale, legale, storico, sociale, economico, culturale e
politico. È da questi portali generalisti che ci si avvia
all’esplorazione del jihad raccontato su Internet. Centinaia di siti,
di nomi, di link, di dati in arabo (lingua privilegiata dell’islam in
quanto lingua del Corano) costituiscono le trame di un intricato
tessuto nel quale si rischia facilmente di perdersi. Ma in questa
rete nella Rete è possibile comunque distinguere tre diverse
tipologie di siti: quelli che diffondono il pensiero dei vari
predicatori musulmani, quelli esplicitamente più militanti, anche
detti «jihadisti» e, infine, quelli che ospitano i «forum islamici».
Dopo la diffusione nell’estate del 2014 dei video delle
decapitazioni di prigionieri da parte dell’Isis, è balzata
all’attenzione mondiale l’abilità del califfato nel gestire un
efficiente apparato comunicativo e nell'utilizzare varie tecniche
per diffondere i propri messaggi sul web, secondo una precisa
strategia. Il messaggio è strutturato in due parti: la prima
consiste nello spaventare i nemici, nel sottolineare che nessuno è
12
davvero al sicuro; la seconda invece punta ad ottenere nuovi
adepti. Per realizzare la prima vengono utilizzati principalmente
video di decapitazioni, per la seconda la tecnica è più sofisticata
e consiste nel mostrare i vantaggi del guerriero pubblicando foto
di piscine, ville di lusso e così via.
Viene inoltre mostrata la vita quotidiana di città controllate dal
Califfato, come Mosul in Iraq, rappresentate come organizzate e
civili e non oppresse da un regime oscurantista.
Hanno fatto scalpore in Occidente i servizi realizzati dall’inglese
John Cantlie, ostaggio dall’autunno 2012, che magnificano la vita
sotto il Califfato.
propri miliziani a bruciare i passaporti occidentali per stabilirsi
definitivamente nel nuovo stato islamico. [Nella foto, tratta da
un video di You Tube del settembre 2014, giovani miliziani
strappano il loro vecchio passaporto e lo bruciano: un rito di
passaggio che sancisce l’entrata dei nuovi jihadisti nello Stato
Islamico]
La maggior parte dei media si è concentrata solo sull'aspetto più
crudo della comunicazione dell'Isis, contribuendo ad alimentare il
terrore, ma la strategia mediatica dell’Isis ha molte facce.
3. Jihad 2.0
Gli attacchi informatici
Queste attività sono coordinate da Ahmad Abousamra, ritenuto
lo stratega della comunicazione digitale dell'Isis.
L'Isis ha dimostrato di possedere sofisticate telecamere ad alta
definizione, di non tralasciare nessun dettaglio nei suoi video e di
aver imparato a sfruttare tutte le applicazioni più diffuse:
JustPaste per pubblicare i resoconti delle battaglie, SoundCloud
per gli audio, Instagram per le immagini, Whatsapp per grafici e
foto.
Una propaganda efficace e costosa, possibile anche grazie alla
nota ricchezza del Califfato.
Uno dei successi mediatici è stato il clip della decapitazione del
reporter americano James Foley, la cui ampia diffusione online ha
scatenato numerose polemiche. I jihadisti hanno reso fotogenica
una decapitazione in mezzo al deserto, con video e audio così
perfetti da sollevare dubbi riguardo alla veridicità delle
immagini. Di conseguenza, nonostante il contenuto atroce poco
"condivisibile", il video ha raccolto tantissime "condivisioni" e "mi
piace": non soltanto un appello all'Occidente, ma un "ottimo"
contenuto social.
Il primo intento della loro comunicazione infatti non è intimidire,
ma richiamare nuovi combattenti: una strategia efficace,
considerato che sono almeno 3000 i miliziani arrivati a
combattere da varie parti del mondo occidentale, tra i quali più
di 50 italiani.
La differenza tra i messaggi e gli articoli in arabo e quelli diffusi
in inglese, rivolti a una più ampia audience internazionale, è
considerevole. In lingua araba i miliziani si richiamano al dovere
islamico di unirsi alla missione jihadista; in inglese sostengono
che arruolarsi sia la chiave per una vita migliore. L'Isis ora sprona i
Dopo gli attacchi armati, l'ISIS e al Qaeda puntano su quelli
informatici. Arruolano hacker esperti, cresciuti in Occidente, che
utilizzano i social network alternativi per diffondere i suoi
proclami e i suoi messaggi.
A una settimana dagli attentati di Parigi, una serie di individui e
piccoli gruppi aveva già iniziato a colpire i suoi siti web. Sotto la
bandiera di “OpFrance” l’ondata di attacchi informatici si è
protratta per alcuni giorni coinvolgendo siti e giornali. “Sedicenti
affiliati al Califfato sono entrati nel profilo Twitter del quotidiano
americano Albuquerque Journal, postando un messaggio
minaccioso: “Siamo già qui, nei vostri Pc e nelle vostre case”.
Destino simile per la homepage della Malaysia Airways, su cui è
apparsa una scritta quasi ironica: “Errore 404-aereo non trovato.
Isis vincerà”.”
“Ma il raid più grave, simbolicamente, è quello avvenuto contro
gli account Twitter e Facebook del Comando Centrale delle
truppe Usa a Tampa. Anche qui sono comparse frasi come: “Lo
Stato Islamico vi insegue” e “guardatevi le spalle”. Nel caso
francese ad agire è stata una rete informale di squadre (crew) e
singoli, noti come AnonGhost, hacktivisti simili ad Anonymous,
che pubblicizzano i loro attacchi nei loro account Facebook e
Twitter.
Fondamentali sono gli hashtag: conquistando una città dopo
l’altra, Isis ha dimostrato che la guerra viene combattuta sia per
la conquista del territorio che della narrativa del messaggio. Due
sono stati quelli più utilizzati da quando Isis ha fatto la sua
comparsa: #Baghdad_is_liberated” and “#Iraq_is_ liberated”.
In Occidente si è cercato di porre freno al successo mediatico
della propaganda jihadista. Account e pagine vengono chiuse
regolarmente, sono stati lanciati hashtag del tipo
#ThinkAgainTurnAway o #ISISMediaBlackout.
Ma ai contrattacchi social occidentali corrispondono decine di
altri hashtag lanciati dall'Isis: il 7 agosto 2014, dopo che il
Presidente Usa Obama dichiarò che avrebbe inviato degli aerei in
Iraq, su twitter è partita la campagna #AMessageFromISIStoUS,
con numerose minacce di ritorsioni agli Stati Uniti.
In alcuni casi, emerge anche un sostegno indiretto all’Isis da
parte di hacker musulmani scontenti della reazione francese alle
stragi. “OpFrance nasce per vendetta per come gli infedeli
(kuffar) si comportano con i musulmani e con l’Islam”, ha
spiegato a “l’Espresso” l’amministratore dell’account Twitter
Unite Islamic Cyber Force, aggiungendo di non avere connessioni
con l’Isis ma di sostenere il suo operato, arrivando a giustificare
le uccisioni di chi insulta il Profeta.
Gli attacchi informatici, come quello del sedicente Cyber
Caliphate, che ha infiltrato il profilo Twitter del comando
centrale del dipartimento della Difesa Usa, sono in realtà metodi
per dimostrare non tanto le abilità degli attaccanti, ma
13
soprattutto l’assenza di capacità negli attaccati. I gruppi
terroristici sono più interessati agli effetti sociali e politici delle
loro azioni online (propaganda e reclutamento) che a colpire
infrastrutture critiche.
Il livello di hacking attuale dell’Isis è ancora abbastanza basso ma
potrebbe migliorare rapidamente. Oltre alla propaganda sui
social media, soprattutto su Twitter, l’Isis è impegnato a
insegnare ai propri militanti misure per proteggere la loro
identità online, creando siti protetti per scambiare messaggi
criptati in arabo e in inglese. Inoltre l'Isis sta progettando di
hackerare i canali televisivi occidentali e di infiltrarsi nella
versione russa di Facebook per estendere la propria propaganda
a nuovi mezzi. Molti utenti che utilizzavano celebri social
network per postare messaggi, immagini e video diffusi dal
gruppo terrorista islamico hanno visto il loro account sospeso.
L'Isis – scrive il Daily Mail – si è quindi sentita costretta a
pianificare una nuova strategia per veicolare i propri messaggi
propagandistici.
censure. Proprio in virtù della sua "apertura", infatti, non è
possibile rimuovere o censurare i contenuti degli utenti, quando
sconvenienti o pericolosi. I mezzi di comunicazione digitali
diventano quindi il veicolo ideale per comunicare la propria
versione dei fatti, il proprio messaggio e per reclutare nuovi
partecipanti alla guerra contro gli infedeli. Permettono infatti di
diffondere messaggi univoci, senza filtri e comunicare
direttamente con la propria fan base, senza che questa ne metta
in discussione la veridicità.
E’ stato da poco pubblicato uno studio (The Isis Twitter Census)
sulla demografia dei supporter del Califfato su Twitter: chi sono,
quanti sono e se prendono parte alla propaganda dell’Isis in
modo coordinato e strutturato. Inoltre i due autori si chiedono
quanto sia efficace la sospensione degli account pro-Isis.
Una nuova strategia
Come spiega il sito Usa Vocativ, cinque sono i pilastri della nuova
strategia. Nel primo e nel secondo viene teorizzata la necessità di
reindirizzare le comunicazioni su altre piattaforme che non siano
Twitter e YouTube. Al terzo punto si ipotizza addirittura la
costruzione di un server alternativo che possa gestire le
comunicazioni dello Stato Islamico. Poi, l’invito a sabotare i canali
televisivi occidentali perché immorali e a trovare un mezzo
alternativo alla piattaforma JustPaste per la pubblicazione dei
comunicati.
I social più sfruttati dai jihadisti
“Ogni giorno ci sono più di 133mila tweet da 46mila profili, di cui
oltre 1.500 condividono 50 e più contenuti pro-jihad. Il jihadista
online tipico fa una media di 7 tweet al giorno, in tre casi su
quattro in arabo, e in uno su cinque in inglese e raggiunge la
media di 1004 follower. Buona parte dell’attività è riconducibile a
circa 79 utenti iperattivi dotati di un numero di profili Twitter che
oscilla fra i 500 e i 2000.”
Le cancellazioni dei profili secondo gli autori sono poco efficaci,
anche se hanno portato l’hastag preferito dal gruppo (il suo nome
in arabo) da 40mila tweet al giorno in settembre a 5mila a
febbraio. Sarebbe necessario che le cancellazioni raggiungessero
la struttura profonda della propaganda Isis su Twitter e che
”fossero le stesse piattaforme social ad adottare politiche di
contrasto più mirate e consapevoli”. D’altra parte dai tweet si
possono ricavare molte informazioni utili, come i profili più
pericolosi per la propaganda e gli spostamenti dei jihadisti.
I jihadisti quindi preferiscono Google+ e Linkedin, social
network molto utilizzati ma meno sotto i riflettori. Su G+ inoltre
vengono sfruttate le funzioni di Picasa per la condivisione di
immagini e il Google Calendar per segnare le battaglie. Su
Linkedin, invece, è stato creato un profilo con l’elenco di tutti i
leader di Isis, compresi i caduti in battaglia. Altro social network
utilizzato è VKontakte, seconda piattaforma per numero di
utenti in Europa e assai diffuso in Russia. Qui sono stati
letteralmente trasferiti gli account di Twitter facendo copia e
incolla di cinguettii e link. E in poche ore sono stati recuperati i
seguaci persi.
Un modo di ovviare alla censura di Twitter e Facebook è stato
spostare la propaganda Isis su Diaspora, social nato nel 2010 a
impianto decentralizzato e aperto: conta un milione di utenti ed
è basato sulla creazione di “nodi” sociali decentralizzati –
chiamati Pod – che possono essere creati dagli utenti stessi e su
cui il social network non ha alcun controllo. Questo consente
quindi all’Isis di agire indisturbato, senza temere ripercussioni o
In conclusione, la nuova guerra non verrà combattuta
esclusivamente militarmente e per il controllo del territorio.
L’Occidente dovrà combattere anche per il controllo di internet,
da cui da un lato ricaverà informazioni utili alla lotta contro i
jihadisti, dall’altro dovrà arginare la diffusione virale della
propaganda, contrastando il reclutamento di nuovi adepti e
sostenitori.
4. Anonymous
Subito dopo gli attentati di Parigi viene caricato su Youtube il
video di rivendicazione di Coulibaly, uno dei terroristi. Ma
contemporaneamente entra in azione contro i siti jihadisti
Anonymous:
WE are Anonymous
We are Legion
We do not Forgive
We do not Forget
Expect Us
14
Chi sono
Anonymous è un fenomeno di Internet che identifica singoli
utenti o intere comunità online che agiscono anonimamente - in
modo coordinato o anche individualmente - per perseguire un
obiettivo concordato.
Il termine viene utilizzato pure come "firma" adottata da gruppi
di hacktivisti, che intraprendono proteste e altre azioni sotto
questo appellativo fittizio.
Il fenomeno, nato nel 2003, si ispira alla pratica della
pubblicazione anonima di immagini e commenti su internet.
Il concetto, inteso come "identità condivisa", si sviluppa nella
imageboard [sito che si basa sulla pubblicazione di immagini] di
lingua inglese 4chan dove il nickname "Anonymous" viene
assegnato ai visitatori che commentano senza identificarsi.
Gli utenti delle imageboard cominciano ad identificare
Anonymous con una persona reale e si diffonde così
l’idea di un collettivo di individui senza nome, in lotta contro
ingiustizie e poteri forti.
che oggi, per esempio, ospita in home page un articolo con le
dichiarazioni del principe Charles-Philippe d’Orleans che prende
le distanze dalla campagna “Je suis Charlie” definendo Charlie
Hebdo un “volgare fogliaccio” espressione di una società
composta da “atei sinistrorsi”.[…]
Dove Anonymous può fare davvero danni alle organizzazioni
estremiste, è nel “deep web”, quella parte di Internet accessibile
solo attraverso il circuito Tor (software per la navigazione
anonima, ndr) e che viene usata, oltre che da dissidenti,
politici, giornalisti e attivisti per i diritti umani che agiscono in
paesi governati da regimi che controllano il web, anche dalle
organizzazioni clandestine legate all’Isis e ad altri gruppi
estremisti. Difficile, però, che si abbiano notizie “ufficiali”
riguardo questa parte dello scontro”.
A cura di: Leonardo Bertini, Pietro Toso, Alessandro
Dalla Chiesa (III D 2014-15)
Bibliografia:
- J. L. Esposito, Guerra santa? Il terrore in nome
dell'Islam. V&P Università, Milano 2004
- G.Sale, Islam contro Islam, Jacka Book, Milano 2013
- M.Mari, La guerra della narrativa: perché è così
efficace la comunicazione mediatica dell’ISIS, 26
settembre 2014,
chefuturo.it
Cosa fanno contro il jihad
L’operazione lanciata da Anonymous (hasthtag
#OpCharlieHebdo) ha lo scopo di mappare tutte le informazioni
che si trovano sui siti legati agli estremisti e denunciare in modo
virale sui social gli account di jihadisti e terroristi, in modo che
vengano oscurati.
Una battaglia combattuta con attacchi che rendono
irraggiungibile il sito saturando la connessione (DDOS,
Distributed Denial of Service) o che portano al defacement, cioè
la sostituzione del contenuto dell’home page, per esempio con
vignette satiriche.
- C.Piotto, Isis, propaganda 3.0. Tweet poliglotti, video
in hd e riviste tradotte in inglese per diffondere i
messaggi dei jihadisti all'Occidente,
L'Huffington Post, 2 settembre 2014
- C. Frediani, Se il terrore corre sul web, L'Espresso, 5
Febbaraio 2015, pagine 60-61.
- M. Schiaffino, Charlie Hebdo, Anonymous non si
ferma: quinto giorno di attacchi ai siti jihadisti, 13-12015 http://www.ilfattoquotidiano.it/
- M. Serafini, G+ e LinkedIn, la nuova strategia di Isis
in rete e sui social network, Corrriere della Sera, 25
agosto 2014.
- F.Chiusi, La cyberguerra del Califfato, in “La
Repubblica” 23 marzo 2015, p.17
L. Trombetta, Il jihad elettronico, in “Limes” n° 1,
2004 pp.43-51
http://www.ilgiornale.it/news/mondo/isis-nuovovideo-propaganda-lostaggio-magnifica-califfato1080156.html
http://vocidalsuq.tgcom24.it/2014/09/25/vita-nelcaliffato /
“Al quinto giorno di mobilitazione, sul canale IRC di Anonymous
dedicato all’operazione ci sono 400-500 utenti connessi, che
discutono delle azioni e si scambiamo consigli su come muoversi
per colpire i bersagli prescelti. […] Nel mirino oggi c’è
Kavkazcenter.com, un sito di news vicino all’estremismo islamico
http://www.games969.com/wpcontent/uploads/2015/02/Anonymous1.jpg
15
Origini estremismo
Cause
La nascita dei movimenti terroristici di matrice islamica nella
seconda metà del ‘900 è legata a diversi fattori. 1.Le ripetute
sconfitte degli arabi, a partire dalla dissoluzione dell’ultimo
Califfato, quello ottomano nel 1924. 2. La sudditanza politica da
Europei e Americani: i confini degli stati del Levante, della
Penisola Araba e del Maghreb sono stati disegnati in modo
artificiale e sono stati vissuti come un’imposizione delle potenze
coloniali per dividere l’intera umma, cioè la comunità dei
credenti. 3. Lo sfruttamento occidentale delle risorse petrolifere
di alcuni Paesi dell’area. Negli anni '50, così, nacque, ad opera di
alcuni intellettuali arabi, il progetto di rifondazione di uno stato
islamico analogo a quello creatosi dopo la morte di Maometto.
In questo scontro il concetto di jihad ha un ruolo chiave: viene
infatti strumentalizzato per legittimare le azioni contro
l'Occidente [vedi il glossario alle pagine seguenti]. Nel Corano,
tuttavia, esistono regole precise riguardo il jihad, che i terroristi
non rispettano: tra queste la proibizione di uccidere gli inermi, di
maltrattare i prigionieri, di danneggiare le case.
Uno degli esempi più noti di jihad (difensivo) è quello della
resistenza armata dei mujaheddin durante l'invasione russa
dell'Afghanistan (1978-1992, nella foto sotto mujaheddin in
Afghanistan nel 1984 ). Tra i guerriglieri vi erano anche alcuni
uomini che fonderanno movimenti terroristici, tra cui Osama Bin
Laden, che progettò l’attacco alle Torri Gemelle dell’11
settembre 2001.
Da singoli attentati e tentativi limitati di fondare Stati jihadisti,
come quello dei talebani in Afghanistan, si è ora passati ad un
progetto politico ambizioso: rifondare l’unità dell’Islam come
all’epoca di Maometto, quando non c’erano divisioni. E’ questo
l’intento dell’IS, lo Stato Islamico proclamato da Abu Bakr al
Baghdadi il 29 giugno 2014 (v.foto pagina seguente)
Come scrive Maurizio Molinari, nel recente saggio Il Califfato del
terrore, si è passati da una guerriglia rivoluzionaria a “una
dittatura con progetti di conquista globali”, che l’autore
paragona a quelli di Stalin e Hitler.
decine di attentati in paesi di quattro diversi continenti, tra cui
USA, Regno Unito, Somalia, Indonesia.
Dopo l'attentato dell'11 Settembre 2001, Osama Bin Laden
diventa il ricercato numero uno dei servizi segreti americani che,
dopo anni di ricerche, riescono a scovarlo ad Abbottabad, in
Pakistan, dove il terrorista viene ucciso il 2 maggio 2011.
Dopo la sua morte il comando passa ad Ayman al Zawahiri, ma
il movimento è in crisi per le perdite subite e per l’avanzata di altri
gruppi terroristici, come Boko Haram e Isis, che alla lotta contro
l’Occidente affiancano progetti territoriali. Recentemente
Ayman al Zawahiri ha lasciato liberi i suoi seguaci di aderire all’Is.
2.Boko Haram
Lo scopo di Boko Haram (nome che significa ”l’educazione
occidentale è sacrilega, è proibita”) è quello di costituire uno
stato islamico nel nord della Nigeria, dove da anni compie
sanguinose azioni militari contro i cristiani e tutti quelli che
vengono ritenuti vicini all'occidente.
Il movimento minaccia anche gli stati limitrofi, che si sono
coalizzati con il governo nigeriano per contrastare i terroristi. Fra
le azioni più note dei guerriglieri di Boko Haram il rapimento nel
2014 di più di 276 studentesse nigeriane, quasi tutte ancora oggi
nelle mani dei terroristi, e il massacro di 2000 persone nel nord
della Nigeria una settimana dopo l’attentato di Parigi, il 14
gennaio 2015.
3.Isis (IS)
Il movimento che mira alla creazione di uno stato islamico in Iraq
e nel Levante fu fondato dal terrorista Abu Mus'ab al Zarqawi,
capo di Al Qaeda in Iraq, ucciso in un raid americano nel 2006.
Nel 2010 la sua eredità fu raccolta da Abu Bakr al Baghdadi, che
riorganizzò il movimento e ne ampliò il progetto.
Principali movimenti terroristici
1.Al Qaeda
Dopo la guerra in Afghanistan, Bin Laden fonda Al Qaeda, che
comincerà ad acquisire notorietà compiendo attentati contro
simboli del potere occidentale, come le ambasciate. Il
movimento si sviluppa progressivamente e accoglie seguaci da
tutto il mondo. Nel corso della sua attività, Al Qaeda ha compiuto
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Approfittando dei disordini creati in Siria dalla primavera araba
(2011), infatti, l'organizzazione, ribattezzata Isis (Stato Islamico
in Iraq e in Siria), ottenne sostegno militare e finanziario da parte
degli stati che appoggiavano i ribelli anti-Assad. L'obiettivo
dell'Isis, tuttavia, non era quello di combattere il dittatore siriano:
già nel 2012 i militanti dell’Isis operavano una guerra di conquista
territoriale attaccando villaggi, eliminando gli oppositori e poi
lasciando delle guarnigioni con il compito di amministrare i
territori conquistati. Attuavano quindi l'islamizzazione dell' area
attraverso l'imposizione della shari'a e ricostruivano acquedotti,
ponti, scuole. Nello stesso periodo alimentarono le tensioni tra
sunniti e sciiti in Iraq con ripetuti attentati contro gli sciiti,
minoranza al potere nel Paese e malvista dal resto della
popolazione.
conosciuta come Lamassu, distrutta dall’IS nel marzo 2015; il sito
di Nimrud; statue distrutte nel museo di Mosul].
Le azioni dell' Isis divennero di dominio pubblico a livello
mondiale nel giugno 2014, quando il grosso delle forze dello
Stato islamico ( circa 15000 uomini) attaccò una guarnigione
dell'esercito iracheno e occupò Mosul, seconda città irachena, e si
espanse fino alla piana di Ninive, provocando la fuga della
comunità cristiana. Il 29 giugno 2014 Al Baghdadi diffuse un
video dove annunciava la nascita dello Stato Islamico e la sua
nomina a Califfo. Da qui il nome di Califfato o IS, cioè
semplicemente Stato Islamico.
Nei mesi successivi il movimento diede prova della sua ferocia
con le decapitazioni di alcuni ostaggi occidentali. Le esecuzioni
provocarono la reazione di Stati Uniti e Regno Unito, che
iniziarono a condurre dei raid aerei nei territori controllati
dall'Isis. Ma vennero perpetrate anche stragi di sciiti, che
rientrano in un piano sistematico di genocidio di questa
minoranza musulmana. L' avanzata dei terroristi in Siria venne
ostacolata dai Curdi che, nonostante le difficoltà dovute
soprattutto all'ostruzionismo della Turchia nei loro confronti,
riuscirono a riprendere la città di Kobane, nel nord della Siria,
occupata dall’Isis. (gennaio 2015)
Nei territori conquistati i terroristi continuano a fare “pulizia” di
tutto quello che non è islamico (sunnita). Vengono colpiti anche
monumenti: all’inizio dell’estate 2014 il Ministro del Turismo di
Baghdad quantificava in circa 4370 i siti distrutti dai jihadisti tra
Mosul, Diyala, Kirkuk, Anbar e Salahuddin; bollettino difficile da
aggiornare, vista la difficoltà di reperire informazioni dai luoghi
occupati. Recentemente distrutti il sito archeologico della città
assira di Nimrud, capitale del regno di Assurbanipal II, nei pressi
di Mosul, raso al suolo con i bulldozer; reperti archeologici del
museo di Mosul. [Nelle foto a fianco l’antica statua assira
Alle testimonianze artistiche si aggiungono quelle culturali: in
febbraio i jihadisti hanno saccheggiato migliaia di volumi dalla
biblioteca di Mosul e hanno incendiato quelli della biblioteca
universitaria della città in un rogo acceso davanti agli occhi degli
studenti del campus. In marzo hanno fatto esplodere la biblioteca
pubblica, mandando in cenere 100.000 volumi, fra cui opere
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rarissime, riconosciute come patrimonio dell’umanità
dall’UNESCO.
Su internet circolano video che documentano le atrocità del
Califfato, contro persone (massacri, decapitazioni, esecuzioni
compiute da bambini) e contro la cultura millenaria della
regione che fu culla della civiltà.
L'IS si è così costruita un'immagine attraverso i moderni metodi
di pubblicità e propaganda per perseguire il suo obiettivo: creare
uno stato islamico sulle orme di quello dell’VIII secolo. Ma,
osserva la Napoleoni, si tratta di “una organizzazione molto
pragmatica e moderna. Si muove nel presente, non nel passato”.
L’Isis e l’Islam
L’Isis e gli altri “terroristi sfruttano la religione islamica per
giustificare e ispirare il proprio illegittimo e personale jihad, da
loro proclamato senza che ne abbiano autorità alcuna, e
condotto contro l'Occidente e anche contro gli stessi governi
musulmani” [V.E.Parsi]
Siamo in guerra, se non ve ne siete accorti, quella dichiarata
dall'ISIS è una guerra vera e propria, difficile da ammettere solo
perché, come la maggior parte delle guerre moderne, non ha dei
veri e propri confini, un fronte preciso. Leggiamo su tutti i
giornali di questa guerra, il jihad, e spesso sentiamo critici,
politici, religiosi chiedersi le motivazioni e le radici di questo
conflitto.
E’ necessario, a nostro parere, conoscere alcune delle nozioni
fondamentali sulla religione islamica, per capire perché
dobbiamo distinguere Islam e terrorismo jihadista.
Prendiamo in considerazione alcune parole chiave del lessico
specifico e versetti del Corano.
Glossario
Fatwa (pl.fatāwa) si intende un parere legale con cui il mufti
(giudice investito dell’autorità per farlo) regola una determinata
questione applicando il diritto islamico.
La più famosa fatwa fu pronunciata il 14 febbraio del 1989, 26
anni fa, dall’ayatollah Khomeini, il leader politico e religioso
dell’Iran, contro lo scrittore di origine indiana Salman Rushdie,
condannato a morte per aver scritto I versi satanici, un romanzo
in cui – secondo Khomeini – Rushdie insultava la religione
islamica e il suo profeta. Ancora oggi lo scrittore vive sotto scorta.
Da questo episodio viene l’errata interpretazione, diffusa in
occidente, della parola fatwa come sinonimo di condanna a
morte da eseguire prontamente.
A cura di: Edoardo Bernini, Alberto Corradi, Marco
Dedja, Matteo Leporati, Alessandro Simonini (IV D
2014-2015)
Bibliografia e sitografia:
Loretta Napoleoni, ISIS Lo Stato del terrore, Feltrinelli,
Milano 2014
Intervista a L.Napoleoni
http://www.avvenire.it/Cultura/Pagine/califfatoholding-del-terrore.aspx
Maurizio Molinari, Il Califfato del Terrore, Rizzoli,
Milano 2015
Voce Al Qaeda: Wikipedia
http://www.theguardian.com/world/2015/mar/09/iraq
-condemns-isis-destruction-ancient-sites
http://www.finzionimagazine.it/news/approfondimen
to-news/lisis-contro-i-libri-e-il-patrimonio-artisticodelliraq/
Jihåd: reso erroneamente nelle lingue occidentali con «guerra
santa», significa letteralmente «lotta», «sforzo» compiuto «sulla
via di Dio» . La tradizione prevede quattro tipi di jihåd: con
l’«animo», con la «parola», con la «mano» e, infine, con la
«spada». I primi tre, rivolti ai singoli fedeli (con l’«animo») e
all’intera comunità islamica (con la «parola», con la «mano»),
sono considerati il «grande jihåd», volto alla pacificazione delle
proprie passioni e al mantenimento del benessere della
collettività. Quello con la «spada» è invece considerato il
«piccolo jihåd» ed è indirizzato all’esterno della comunità, sia
per difenderla da un’aggressione armata (J. difensivo), sia per far
trionfare la parola di Dio sui territori non islamici.(J.offensivo). Il
jihåd è obbligo individuale di tutti i credenti capaci di portare
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armi, ma solo in caso di aggressione. Nel J.offensivo l’ obbligo
ricade sull’intera comunità ed è sufficiente che solo un certo
numero di musulmani lo esegua personalmente. E’ proibita
l’uccisione degli inermi (donne, bambini, anziani, disabili
eccetera), vieta di distruggere i beni del nemico (tra cui, ad
esempio, le case) e obbliga a preservare la natura.
Questa la teoria, ma nell’evoluzione storica delle società
islamiche il concetto di jihåd offensivo e la sua applicazione
pratica hanno seguito percorsi diversi. Dal X secolo d.C. il
termine acquisisce il significato di «azione militare
religiosamente giustificata al fine di creare un ambiente
universale islamico» ovvero, «guerra santa». In un Islam
frammentato, diverse autorità locali proclamavano il proprio
jihåd, a volte anche contro lo stesso califfo. In periodo coloniale,
invece, (XIX-XX secolo) si diffuse l’idea del jihåd come strumento
di lotta anticoloniale ( jihåd difensivo, più politico che religioso;
cfr. per esempio la resistenza algerina antifrancese e quella
libica antitaliana).
Solo a partire dagli anni Settanta, con l’acuirsi del confronto tra
mondo arabo-islamico e Occidente (dalla guerra del 1967 con
Israele), il jihåd è diventato una vera e propria parola d’ordine
usata da gran parte di quei movimenti fondamentalisti che
hanno come obiettivo la lotta all’imperialismo occidentale e ai
regimi arabi alleati dell’Occidente. Dalla stessa radice g (j) h d
(=sforzo) deriva la parola mujahid .
Mujahid (pl. mujaheddin) indica “colui che mette in pratica il
jihad”. Nel lessico politico contemporaneo è sinonimo di
militante impegnato sul piano politico e/o militare. Il termine nel
recente passato denotava per esempio sia i combattenti
nazionalisti (vedi guerra di indipendenza algerina 1954-62) che
gli integralisti religiosi della lotta di resistenza antimonarchica
contro lo scià (Iran, 1971-79), o della guerriglia anticomunista in
Afghanistan (1978-92). Oggi i media italiani usano come
sinonimo “jihadista”.
Mujaheddin in Afghanistan nel 1984
Shari'ah: dalla stessa radice di shari’ ( la «via [dritta rivelata da
Dio]») ciò che Dio ha stabilito per regolare e valutare tutta
l’attività e la condotta del musulmano.
Quest’ultimo è sottoposto al dettato sciaraitico ovunque egli si
trovi, anche nei paesi non islamici. Le fonti sono: Corano, Sunna
(Raccolta dei detti del Profeta), e la giurisprudenza che ne è
derivata.
Oggi è quasi una ”parola magica ripetuta dai fondamentalisti”
(Haliday).
In alcuni paesi a maggioranza islamica come l’Iran e l’Arabia
Saudita, la Shari'ah non è considerata solo un codice di
comportamento etico, ma una fonte di diritto positivo (anche se
non l’unica). Su di essa si basa per es. la pena di morte per
blasfemia, apostasia, adulterio. Il fondamentalismo si appella ad
una più rigorosa applicazione del dettato sciaraitico in tutti gli
ambiti giuridici e considera la Shari'ah l’unica via giuridica da
percorrere.
Salafiyya, salafiti: movimento fondato negli ultimi decenni del
XIX secolo che considera le prime comunità di musulmani, gli
“antenati virtuosi” (salaf al-salihin), un modello per la creazione
di una nuova società. Se prima indicava le tendenze
modernizzatrici di riformatori islamici, dagli anni Settanta del XX
secolo indica una tendenza conservatrice presente nel mondo
arabo, in particolare nella penisola araba, ma ora espressa anche
da Al Bagdadi, l’autoproclamato Califfo dell’Is.
Sunniti (rosa chiaro) e sciiti (rosa scuro)
Sciismo: dall'arabo shi‛a «partito, fazione», sottinteso «di Alì” il
cugino e genero di Maometto, che entrò in conflitto coi suoi
successori e creò una setta separata. E’ il principale ramo
minoritario dell'Islam (circa il 10% della popolazione musulmana
mondiale, ma è la religione dominante in Iran). Lo sciismo non è
un’eresia (dottrina basata su interpretazioni contrarie alla
ortodossia) né un vero e proprio scisma (uscita, separazione)
nell’Islam, ma una frattura politica, derivante da questioni
relative alla successione del Profeta.
Sunnismo: dall’arabo sunnah (“tradizione, consuetudine”) è
l’orientamento religioso dell'Islam attualmente maggioritario che
comprende circa l’85- 90% del mondo islamico. Definisce
l’ortodossia in opposizione ai dissidenti (come gli sciiti) e in nome
del rispetto della consuetudine approvata da tutti e del modello
profetico.
La sunna si definì lentamente, nel corso di un processo che
condusse, alla fine del 10° sec., alla selezione delle tradizioni
accettabili e delle scuole legali che regolavano l’interpretazione
della legge sacra. I sunniti credono nell’eternità del Corano e
nella predestinazione (qadar), secondo la quale Dio ha previsto
ogni singolo atto ed evento della vita dei credenti.
Umma: nel Corano, la comunità dei credenti. Il termine, usato
anche in epoca preislamica, con vari significati, da quello
religioso a quello politico-ideologico, indicò la prima comunità
islamica costituitasi ai tempi del Profeta a Medina, da cui il senso
più generale di comunità islamica universale (ummat alislāmiyya), che comprende cioè tutti i paesi in cui vige la legge
islamica.
Con la nascita degli Stati-nazione anche nell’area mediorientale,
alcuni movimenti politici hanno utilizzato il termine umma per
tradurre il concetto di nazione, da cui ummat al-‛arabiyya,
«comunità araba», nel senso di nazione araba.
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Versetti del Corano
Commento
Tra le sure [le 114 ripartizioni] del Corano sono vari versetti che
incitano alla violenza contro gli infedeli; non solo, sembra che il
popolo islamico debba prepararsi ad una battaglia contro coloro
che non professano l’islam. Seguono alcuni dei versetti che
abbiamo ritenuto più significativi riguardo a questo argomento.
Risulta chiara la crudeltà con cui la dottrina islamica condanna le
altre religioni; tuttavia bisogna tenere conto del contesto storico
in cui il Corano stesso fu scritto, periodo nel quale guerre sante
contro altre religioni erano all'ordine del giorno. Attualmente è
ancora più sbagliato prendere alla lettera queste frasi che
incitano la violenza, sapendo che la società e la cultura odierna
hanno compiuto un notevole progresso rispetto alle epoche
passate. Il fatto che i combattenti dell' ISIS prendano questi
versetti e li pongano alla base delle proprie azioni li differenzia
dall'essere semplici credenti islamici e li rende veri e propri
fanatici estremisti.
“Non obbedire ai miscredenti; lotta invece con essi
vigorosamente.” (C.25:52)
“Uccideteli ovunque li incontriate e scacciateli da dove vi hanno
scacciato” (C.2:191)
“E combattili fino a quando non ci sia più tumulto o oppressione,
e prevalga la giustizia e la fede in Allah ovunque e dovunque.”
(C.8:39)
“O voi che credete! Combattete i miscredenti che vi stanno
attorno, che trovino durezza in voi.” (C.9:123)
“Combattete coloro che non credono in Allah, che non vietano
quello che Allah e il Suo Messaggero hanno vietato” (C.9:29)
“La ricompensa di coloro che fanno la guerra ad Allah e al Suo
Messaggero e che seminano la corruzione sulla terra è che siano
uccisi o crocifissi, che siano loro tagliate la mano e la gamba da
lati opposti o che siano esiliati sulla terra: ecco l’ignominia che li
toccherà in questa vita; nell’altra vita avranno castigo immenso.”
(C.5:33)
“Preparate, contro di loro, tutte le forze che potrete [raccogliere]
e i cavalli addestrati per terrorizzare il nemico di Allah e il vostro
e altri ancora che voi non conoscete, ma che Allah conosce. Tutto
quello che spenderete per la causa di Allah vi sarà restituito e non
sarete danneggiati.” (C.8:60)
A conferma delle nostre osservazioni riportiamo qui un articolo
che ci ha segnalato la nostra insegnante. Parlando a un seminario
tenutosi alla Mecca il 22 febbraio 2015 sul tema "L'islam e la lotta
contro il terrorismo", Ahmed al-Tayeb, l’imam di Al-Azhar, la più
autorevole università del mondo islamico sunnita (in Egitto, al
Cairo), ha dichiarato che è urgente una radicale riforma
dell'insegnamento religioso fra i musulmani per contenere la
diffusione dell'estremismo religioso. L’imam ha sottolineato che
l'estremismo è prodotto da una "cattiva interpretazione del
Corano e della sunna". "Vi è stata un'accumulazione storica di
tendenze estremiste", che hanno portato alcune persone ad
abbracciare una forma errata dell'islam. "L'unica speranza per
recuperare l'unità della nazione musulmana [umma] - ha
aggiunto - è di contrastare in scuole e università questa tendenza
a bollare i musulmani come miscredenti". Il principe Khaled AlFaisal, governatore della Mecca, ha letto un discorso del re
saudita Salman. In esso il monarca custode dei due luoghi santi
dell'islam ha affermato che "il terrorismo è una piaga prodotta da
un'ideologia estremista". Esso è "una minaccia alla comunità
musulmana e al mondo intero".
A cura di: Raffaele Braniste, Riccardo Ferri, Cecilia
Massimo, Stefano Peri, Alessandro Sorba (III D 201415)
Bibliografia e sitografia
- H. R. Piccardo (curatore), Il Corano, Newton &
Compton, Roma 1996
- Glossario ragionato dei termini islamici, in “Limes” n°
1, 2004 pp.35-42
- F.Halliday, Glossario, in Cento miti sul Medio Oriente,
Einaudi, Torino 2006
- V.E.Parsi, Introduzione a John L. Esposito, Guerra
santa? Il terrore in nome dell'Islam. V&P Università,
Milano 2004, p.XI
- www.treccani.it
- http://www.asianews.it/notizie-it/Imam-di-AlAzhar:-Per-fermare-l%27estremismo-islamicooccorre-una-riforma-dell%27insegnamento-religioso33541.html
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Israele e Palestina
La nascita del "Focolare Nazionale"
La Gran Bretagna con la Dichiarazione Balfour (1917) riconosceva
ai sionisti il diritto di formazione di un "focolare nazionale" in
territorio palestinese, diritto che venne interpretato come il
permesso di costituire uno stato autonomo ed indipendente.
Questo fu subito causa di attriti tra la popolazione araba
preesistente e i sionisti. Il futuro fondatore d’Israele David Ben
Gurion delimitava i territori in cui stanziarsi così: a nord fino al
fiume Lītānī in Libano e al Monte Hermon, a sud il Golfo di
‘Aqaba, a est tra Amman e ‘Aqaba e a ovest fino ad al-‘Arīš, città
del Sinai egiziano.
L'espansione ebraica
Il conflitto tra gli ebrei d'Israele e gli arabi palestinesi è una
competizione aspra, crudele e nazionalistica, da sempre usata dalla
propaganda antioccidentale a sostegno delle rivendicazioni del
mondo arabo, in particolare dopo l’11 settembre 2001.
Abbiamo voluto approfondire la storia dello stato di Israele, per
capire se le affermazioni degli integralisti islamici abbiano qualche
fondamento o se si tratti solo di uno dei pretesti per legittimare le
azioni terroristiche nell’area mediorientale.
Il conflitto
La causa del conflitto, che in Medio Oriente vede opposti
israeliani (di religione ebraica) e palestinesi (di fede musulmana),
è la volontà di entrambi i popoli di avere un proprio stato
all’interno del medesimo territorio. Il conflitto arabo-israeliano
abbraccia circa un secolo di tensioni politiche e di ostilità.
Gli israeliani lo rivendicano in quanto 3.000 anni fa in Palestina
erano insediate tribù ebraiche di cui sono i discendenti. Già
durante la cattività babilonese (VI-V secolo a.C.) gli ebrei si
dispersero, lasciando liberi questi territori sui quali si insediarono
gli antenati dei palestinesi.
La diaspora ebraica si intensificò quando la regione fu
conquistata dai romani. In seguito la Palestina entrò a far parte
dell’impero ottomano, che si dissolse soltanto dopo la prima
guerra mondiale. Quando, a fine Ottocento, in Europa scoppiò
una nuova ondata di antisemitismo (“semiti” sono detti gli ebrei,
in quanto discendenti di Sem, figlio di Noè, ma anche gli arabi
sono semiti sotto il profilo linguistico ed etnico), Teodor Herzl, un
ebreo ungherese, fondò il movimento sionista, che sosteneva la
necessità per gli ebrei di ritornare nella Terra Promessa dove
fondare un loro stato. Inoltre, Herzl organizzò il primo convegno
sionista mondiale a Basilea nel 1897 e in esso furono poste le basi
per la graduale penetrazione ebraica in Palestina, grazie
all'acquisto da parte dell'Agenzia Ebraica di terreni per dar vita a
un'entità statale ebraica.
Tuttavia, fino alla promulgazione delle leggi razziali, pochi ebrei
erano partiti per la Palestina, amministrata dagli inglesi dopo la
prima guerra mondiale, dove essi convivevano pacificamente con
i Palestinesi. Dopo la seconda guerra mondiale, l’Occidente, che
provava un senso di colpa nei confronti della Shoah, decise che
era giunto il momento di costituire uno Stato Israeliano. Alla fine
del 1947 l’Onu deliberò che il 15 maggio 1948 sarebbe nato lo
Stato di Israele.
Sotto il Mandato britannico l'immigrazione ebraica nella zona
subì un'accelerazione mentre l'Agenzia Ebraica - organizzazione
sionista che agiva grazie ai finanziamenti provenienti da
sostenitori esteri - operò velocemente per l'acquisto di terreni. Il
risultato fu un aumento della popolazione ebraica in Palestina
dalle 83.000 unità del 1915 alle 360.000 unità della fine degli anni
Trenta. Negli anni Venti e Trenta numerose furono le
dimostrazioni di protesta da parte dei movimenti palestinesi, che
sovente sfociarono in veri e propri scontri a tre tra l'esercito
britannico, i residenti arabi e i gruppi armati dei coloni ebrei.
Spesso gli attriti non erano dovuti all'immigrazione in sé, ma ai
differenti sistemi di assegnazione del terreno. Questo, unito alle
regole con cui venivano gestiti i terreni assegnati ai coloni, di
fatto toglieva l'unica fonte di sostentamento e lavoro a
moltissimi insediamenti arabi preesistenti.
Con la Proposta della Commissione Peel del 1937 si parlava della
prima volta di divisione del Mandato in uno Stato palestinese e in
uno ebraico.
Verso la fine degli anni trenta, dopo la Grande Rivolta Araba e i
falliti tentativi di divisione della Palestina in due Stati, la Gran
Bretagna si pentì di aver sostenuto il movimento sionista e
cominciò a negare al sionismo quell'appoggio politico che aveva
garantito loro (cfr. il "Libro Bianco" del 1939). Ciò indusse gli ebrei
di Palestina a chiedere aiuto agli Stati Uniti. Con la seconda
guerra mondiale gli ebrei si schierarono con gli Alleati mentre
molti gruppi arabi guardarono con interesse l'Asse, nella
speranza che una sua vittoria servisse a liberarli dalla presenza
britannica. Dopo la guerra, si passò dai 360 mila individui della
fine degli anni Trenta ai 630 mila del 1947.
La divisione della Palestina
La definitiva risposta delle Nazioni Unite alla questione
palestinese fu data il 29 novembre 1947 con l'approvazione della
risoluzione 181, che raccomandava la spartizione del territorio
conteso tra uno Stato palestinese, uno ebraico e una terza zona,
che comprendeva Gerusalemme, amministrata direttamente
dall'ONU.
La risoluzione però, invece di preparare la pace, fu la premessa
della guerra. Nel decidere su come spartire il territorio l'UNSCOP
( United Nations Special Committee on Palestine) per evitare
possibili rappresaglie da parte della popolazione araba, considerò
la necessità di radunare tutte le zone dove i coloni ebraici erano
presenti in numero significativo nel futuro territorio ebraico, a cui
venivano aggiunte diverse zone disabitate (per la maggior parte
desertiche) in previsione di una massiccia immigrazione
dall'Europa.
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Nascita di Israele
La Guerra del Kippur
La nascita ufficiale dei due Stati in Palestina non ebbe mai luogo.
Infatti, non appena i britannici ebbero lasciato la zona ponendo
fine al proprio mandato (maggio 1948) i sionisti dichiararono lo
Stato di Israele (subito riconosciuto da USA e URSS) e la Lega
Araba scatenò una guerra "di liberazione" contro Israele. Le
ostilità terminarono il 25 gennaio 1949, con una chiara vittoria
israeliana, grazie alla efficiente organizzazione militare e al
migliore armamento.
I palestinesi lentamente si riorganizzarono: nel 1959 nacque AlFatah (sigla rovesciata di Ḥarakat at-Taḥrīr al-waṭanī al-filasṭīnī,
con l’omissione delle iniziali di al-waṭanī «nazionale», movimento
di liberazione nazionale palestinese) e nel 1964 l’Organizzazione
per la Liberazione della Palestina (OLP), slegata dai paesi arabi,
di cui divenne capo Yasser Arafat.(v.foto)
Nel 1973 Egitto e Siria attaccarono Israele, iniziò così la guerra
dello Yom Kippur. La data scelta per l’attacco fu il 6 ottobre,
giorno dello Yom Kippur, la festività più solenne del calendario
ebraico. Fu la più grande guerra combattuta in Medio Oriente
fino a quella del Golfo e portò alla crisi petrolifera del 1973, un
embargo delle esportazioni di petrolio nei paesi occidentali che
aggravò molto la crisi economica che in quegli anni aveva
cominciato a colpire Europa e Stati Uniti. Soprattutto nei primi
giorni, le perdite israeliane furono gravissime. Nel giro di una
settimana, però, l’esercito israeliano riuscì a riorganizzarsi e a
sfruttare la sua superiorità organizzativa e tecnologica. Le ostilità
terminarono definitivamente il 28 ottobre, quando ormai le
divisioni israeliane erano pronte a puntare sul Cairo. In
particolare, l’Egitto cominciò dopo la guerra a normalizzare i
rapporti con Israele e la conclusione del trattato di pace tra le due
nazioni nel 1979 portò all’espulsione dell’Egitto dalla Lega Araba,
durata fino al 1989.
L’occupazione dei territori
La Guerra dei sei giorni
La cosiddetta "Guerra dei sei giorni" del giugno 1967 segna lo
spartiacque della storia del Medio Oriente. Consiste in un attacco
preventivo di Israele che distrusse inizialmente l'aviazione
egiziana e scatenò una successiva offensiva contro l'Egitto, la
Siria, la Giordania. Israele viveva un clima di isteria provocato dal
timore dell'accerchiamento e di un nuovo olocausto. La guerra ha
sancito l'irreversibilità dello status quo nei territori israelopalestinesi. Israele ha consolidato e legittimato la sua esistenza e
i palestinesi non possono evitare di riconoscere la realtà di
Israele.
Nel 1977 il partito laburista perse definitivamente il controllo che
aveva avuto dalla fondazione del paese. Il trionfo del partito di
destra Likud e i governi di Menachem Begin (1977-83) e di Yitzak
Shamir (1983-84 e 1986-92) portò ad una politica intransigente
nei confronti dei palestinesi che si tradusse nell’occupazione
ebraica delle terre, creando insediamenti e colonie ovunque nei
territori abitati da arabi, principalmente in Cisgiordania e nella
Striscia di Gaza. L’affermazione del fondamentalismo ebraico
fece sì che Israele negli anni successivi perdesse via via il
carattere laico che lo aveva contraddistinto dalla fondazione.
L’invasione del Libano
Il 14 marzo 1978 Israele invase il Libano (“operazione Litani”) con
l’intento di creare una fascia di sicurezza all’interno del territorio
libanese (fino al fiume Litani) per tenere i propri villaggi di
frontiera al di fuori del raggio d’azione dell’artiglieria dell’OLP
che da una decina di anni aveva creato una base nel sud del
Paese, da cui attaccava il nord di Israele. Dopo la condanna
dell’ONU, (risoluzioni 425 e 426) fu creata la Forza di
Interposizione in Libano delle Nazioni Unite (UNIFIL) per
riportare la pace in Libano, ma gli israeliani non ritireranno le
proprie truppe dal sud del Paese fino al 2000.
Gli Accordi di Camp David
Il 17 settembre 1978 fu sottoscritta un'intesa globale a Camp
David, negli Stati Uniti, dal capo di Stato egiziano A. Sadāt e dal
premier israeliano M. Begin con la mediazione del presidente
degli Stati Uniti J. Carter in vista di una soluzione del conflitto. La
cosiddetta “Impalcatura per la pace in Medio Oriente”aveva
come piattaforma convenuta la risoluzione n° 242 del Consiglio
di Sicurezza delle Nazioni Unite, che sostanzialmente imponeva
un negoziato tra le parti in guerra sulla base del ritiro delle forze
israeliane entro confini sicuri e riconosciuti, della fine di ogni
pretesa o stato di belligeranza, del rispetto e del riconoscimento
di sovranità, integrità territoriale e indipendenza politica di ogni
Stato della regione.
La Prima Intifada
Israele nel 1949 e nel 1967
(da La battaglia per Gerusalemme, Limes, 2010)
A partire dal 1987, nei territori occupati si alzò un moto popolare
(che prese il nome di Intifada, in arabo "brivido, scossa"), che
22
cercava di combattere la presenza israeliana in Palestina. A
differenza di quanto era successo in passato, inoltre, la
sommossa nasceva proprio all'interno dello stato di Israele, in
Cisgiordania e nella striscia di Gaza, dove le condizioni di vita per
i palestinesi erano particolarmente dure.
riconobbe il diritto di Israele a esistere e rinunciò formalmente
all’uso della violenza per ottenere i suoi scopi, cioè la creazione di
uno stato palestinese. L’accordo conteneva anche un piano
specifico per mettere in atto una soluzione definitiva alla
“questione palestinese”.
L’ “Intifada delle pietre” scoppiò l'8 dicembre 1987, quando un
camion israeliano colpì due furgoni che trasportavano operai di
Gaza al campo profughi di Jabaliyya, uccidendone quattro. In
risposta la sera stessa, scoppiò una rivolta, in cui centinaia di
persone bruciarono gomme e attaccarono le Forze di Difesa
Israeliane. In breve la rivolta si espanse ad altri campi profughi
palestinesi e infine a Gerusalemme.
La repressione israeliana fu durissima, tanto che il 22 dicembre il
Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite condannò Israele per
avere violato le Convenzioni di Ginevra a causa del numero di
morti palestinesi in queste prime poche settimane di Intifada.
Israele prometteva di ritirarsi da Gaza e dalla Cisgiordania e da
altri territori occupati militarmente. I palestinesi avrebbero
dovuto riconoscere Israele e rinunciare alla violenza. (nella foto
Bill Clinton, Rabin e Arafat)
Il clima favorevole dovuto al reciproco riconoscimento di Israele e
dell’OLP portò alla firma nel 1994 di un accordo di pace fra Israele
e la Giordania. Ma il fondamentalismo ebraico non vedeva di
buon occhio accordi con i palestinesi.
Nascita di Hamas
La rivolta fu il terreno favorevole alla nascita di altre
organizzazioni estremiste , che si richiamavano esplicitamente
all’Islam contro il nemico assoluto (Israele). La più importante era
Hamas (acronimo arabo di "Movimento di Resistenza Islamico")
fondato a Gaza dallo sceicco Ahmed Yassin e da Khan Yunis,
entrambi esponenti delle fazioni palestinesi più integraliste.
Fu scatenata una serie di attacchi suicidi, il primo a Tel Aviv il 6
luglio 1989, contro il bus 405. La presenza di Hamas inasprì lo
scontro con le forze militari israeliane con un crescendo di
attentati terroristici suicidi. Da un punto di vista ideologico
Hamas si richiamava ai Fratelli Musulmani, ma le attività di quel
movimento, cominciate già nei primi anni '70, avevano ben altre
finalità. Il lavoro di queste organizzazioni, infatti, si concentrava
nell'istituzione di ospedali, sistemi di istruzione, biblioteche e
altri servizi in aiuto alle popolazioni palestinesi della Cisgiordania
e della Striscia di Gaza.
Gli accordi di Oslo
Lo scoppio della Prima guerra del Golfo contro Saddam Hussein
(1991) convinse l’opinione pubblica internazionale che era
necessario accelerare il processo di pace. Il 13 settembre 1993
vennero firmati gli Accordi di Oslo: sembrò che il conflitto stesse
per finire, ma i nodi principali restavano irrisolti e rimandati a un
secondo turno di negoziati: la nascita di uno stato palestinese
indipendente, il ritorno dei profughi palestinesi, il controllo delle
scarse risorse idriche e lo status di Gerusalemme.
Per la prima volta gli israeliani riconobbero nell’Organizzazione
per la Liberazione della Palestina l’interlocutore ufficiale che
parlava per il popolo palestinese e gli riconobbero il diritto di
governare su alcuni dei territori occupati. L’OLP da parte sua
L'assassinio di Rabin
Nel novembre del 1995 il premier israeliano Yitzhak Rabin, che
in base agli accordi di Oslo (ribaditi a Washington alla presenza di
Clinton e del presidente egiziano Mubarak) proponeva un
parziale ritiro dai territori occupati, venne assassinato a Tel Aviv,
al termine di una manifestazione per la pace. Yigal Amir,
ultranazionalista cresciuto negli ambienti religiosi, dichiarò di
aver voluto uccidere, con Rabin, il processo di pace.
Il ministro degli esteri Shimon Peres, stratega della pace insieme
a Rabin, assunse la carica di primo ministro, rappresentando così,
non solo simbolicamente, la continuità politica e la via negoziale
alla pace.
Nascita Autorità Nazionale Palestinese
Ma Hamas otteneva sempre più ascolto presso la popolazione
araba mentre l’OLP perdeva consensi. Una serie di attentati
suicidi contro bus israeliani nel 1996 portò il Partito Laburista a
perdere le elezioni a favore del partito di destra Likud ( Benjamin
Netanyahu andò al governo).
Nelle zone che avrebbero dovuto diventare il futuro stato
palestinese cominciò una forma di autogoverno guidata
dall’Autorità Nazionale Palestinese (ANP), presidente della quale
fu eletto nel 1996 Yasser Arafat.
Nuovi Accordi di Camp David
Quando i laburisti tornarono al governo con Ehud Barak nel 1999
si aprirono di nuovo opportunità di pace. Israele si ritirò dal
Libano e nel luglio del 2000, sotto gli auspici del Presidente
Clinton, il Primo Ministro Barak e il presidente Arafat si
incontrarono a Camp David per raggiungere un accordo su uno
status permanente. Barak propose di abbandonare il 90% della
Cisgiordania, ma la proposta di Arafat di lasciar tornare i profughi
palestinesi in patria non poteva essere accettata da Israele, in
23
quanto avrebbe significato avere un paese a maggioranza araba.
La Seconda Intifada
La tensione ricominciò a salire e, nel settembre 2000, scoppiò la
seconda Intifada, scatenata da una provocatoria passeggiata
dell’allora candidato premier israeliano Ariel Sharon sulla
Spianata delle Moschee.
L’”Intifada di al -Aqsà” (nome della sacra moschea di
Gerusalemme) provocò molte vittime (solo fra maggio 2003 e
giugno 2004 furono uccisi 768 civili palestinesi e 189 israeliani).
Molto diversa dalla prima, in quanto non moto popolare ma moto
politico, organizzato di lotta armata.
La reazione del premier Ariel Sharon (dal gennaio 2001 al potere)
agli attentati suicidi fu durissima: distruzione delle case dei
terroristi, omicidi mirati contro i capi della resistenza palestinese,
controllo militare che impediva a molti palestinesi di lavorare e
quindi penalizzazione economica.
divenne il moderato Abū Māzen (di Al Fatah, partito fondato nel
1959 da Arafat) sembrarono aprirsi nuove opportunità per la
pace. Sharon nel 2005 annunciò di voler smantellare le colonie
ebraiche di Gaza.
Ma da un lato Hamas (che nel 2006 vinse le elezioni in Palestina)
e gli altri gruppi armati non erano controllati dall’ANP e non
rinunciarono alla lotta; dall’altro i fondamentalisti ebraici non
vedevano di buon occhio una politica moderata nei confronti dei
palestinesi.
Dopo reciproci attacchi e tregue, Israele lanciò una dura offensiva
contro la Striscia di Gaza, con l’intento di smantellare le basi
missilistiche palestinesi e chiudere i tunnel che collegavano la
Striscia all’Egitto.
La costruzione del muro
A questo si aggiunse dal 2002 la costruzione di un muro,
ufficialmente in difesa dei civili, in realtà anche per dividere le
une dalle altre le città arabe e penalizzare ulteriormente la loro
economia.
La barriera incluse molti insediamenti israeliani. Per Israele,
questa era autodifesa; per la Palestina, un'occupazione di
territorio illegale. Nonostante fosse illegittima dal punto di vista
del diritto internazionale, la costruzione del muro è proseguita
per anni.
L'operazione "Piombo Fuso"
Due graffiti di Bansky sul muro
Israele (premier dal 2006 era Benjamin Netanyahu, che
nell’estate di quell’anno lanciò l’offensiva contro i militanti
libanesi di Hezbollah nota come seconda guerra Israelolibanese) fra il 27 dicembre 2008 e il 18 gennaio 2009, lanciò
l'offensiva denominata Cast Lead, Piombo Fuso. La Striscia di
Gaza venne bombardata per cinque giorni e successivamente fu
invasa dall'esercito israeliano. Nel primo giorno di
bombardamenti i morti furono tra i 200 e i 300 (il Sabato nero del
massacro). Alla fine dell’offensiva Gaza appariva un campo di
rovine: più di mille le vittime tra i palestinesi, molti dei quali civili.
L'Onu condannò l'aggressione con la risoluzione 1860 dell’8
gennaio 2009. Inoltre il Consiglio per i diritti umani aprì
un’inchiesta che verificò la violazione dei diritti umani della
popolazione palestinese.
Operazioni militari e nuovi insediamenti
Quando nel novembre 2004 morì Arafat e presidente dell’ANP
“Pilastro di sicurezza” è il nome in codice della campagna militare
iniziata il 14 novembre 2012 dalle Forze di Difesa Israeliane
contro i militanti di Hamas e del Movimento per il Jihad Islamico
in Palestina, come rappresaglia per il loro lancio di razzi. Venne
ucciso Ahmad al-Ja'bari, capo militare di Hamas, colpevole di non
aver voluto o saputo far rispettare il cessate il fuoco. La reazione
di Hamas fu quella di scatenare un massiccio lancio di razzi sulle
cittadine e gli insediamenti israeliani.
24
Fra il 2012 e il 2014 gli aerei israeliani hanno continuato a colpire
la Striscia di Gaza con bombardamenti su depositi di armi e su
abitazioni. Israele inoltre ha proseguito la politica degli
insediamenti civili, da sempre fonte di tensioni con la
popolazione araba (nel 2013, novanta nuovi insediamenti vicino a
Ramallah).
La strada per la pace è ancora lunga.
Israele, marzo 2015
Il premier in carica Benjamin Netanyahu esce vincitore dalle
elezioni anticipate del 17 marzo 2015, e annuncia l'intenzione
di creare un governo "forte". “Il suo partito – il Likud – ha
ottenuto 30 seggi su 120 in Parlamento. Nel 2013 si era
fermato a 18. Gli avversari di centro-sinistra del Zionist
Camp, guidato dal laburista Isaac Herzog – dati in leggero
vantaggio dai sondaggi della vigilia – conquistano 24 seggi.
Terza forza del Paese il cartello dei partiti arabi, che ottiene
14 eletti.”
Gli arabi-israeliani infatti sono accorsi alle urne per votare
contro il premier. Nonostante la vittoria di Netanyahu,
quindi, queste elezioni segnano un risultato storico per la
coalizione araba.
Il segretario generale dell'OLP, Yasser Abed Rabbo, ha
dichiarato che Israele «ha scelto la via dell'occupazione e
della colonizzazione e non del negoziato e del
collaborazione». Anche la giornalista Diana Buttu, israeliana
di sangue arabo, pensa che non cambierà molto per i
palestinesi. A rischio dunque ancora una volta il processo di
pace.
Appena prima delle elezioni, il premier aveva dichiarato che
con lui non sarebbe mai nato uno stato palestinese; è allo
studio un disegno di legge che definisce Israele come "Stato
della Nazione ebraica": “la laicità dello Stato e il principio di
non discriminazione dei cittadini arabo-israeliani” verrebbe
così meno.
A cura di: Francesca Bacchi, Alain Ben Rejeb, Alessia
Borrini, Vittoria Ferrari, Arianna Ziveri. (IV D 2014-2015)
Ultimo paragrafo S.Borsi.
Bibliografia e sitografia:
D. Condello, Israele-Palestina: storia della guerra "infinita"
e le sue vere origini. www.stopcensura.com
5 ottobre 2010.
Gli accordi di Oslo, vent'anni fa.www.ilpost.it
13 settembre 2013.
F. Halliday, Cento miti sul Medio Oriente. Einaudi, Torino
2005.
M. Campanini, Storia del Medio Oriente 1798-2005. Il
Mulino, Bologna 2006.
M. Toaldo, Piccolo atlante della disputa, in “Limes” La
Palestina impossibile n°5/ 2007.
U. De Giovannangeli, Il negoziato impossibile. dal
quaderno speciale di “Limes” La battaglia per
Gerusalemme, 2010.
E. Fedrizzi – A. Della Valentina, Dossier Terra.
Italia,Europa, Mondo. Minerva Scuola, Bologna 2012
T.Canetta, Il primo sconfitto è il processo di pace,
http://www.linkiesta.it/vittoria-netanyahu-israeleconseguenze-palestina 18-3-2015
Israele, 18 marzo 2015: Benjamin Netanyahu annuncia la
vittoria elettorale
Il presidente degli Stati Uniti Barak Obama non è d’accordo
con le posizioni di Netanyahu e “continua a credere che una
soluzione a due Stati sia l’unica scelta per la difesa di Israele
se vuole restare un paese democratico.” Non si può
mantenere per sempre lo status quo né tantomeno estendere
gli insediamenti.[Intervista del 23 marzo 2015]
Per contrastare l’avanzata del terrorismo, inoltre, Obama
sostiene la necessità di un accordo con l’Iran, mal visto da
Israele.
D.Buttu, Voto in Israele, vedrete che per noi palestinesi
non cambierà nulla,
http://www.repubblica.it/esteri/2015/03/18
Foto Intifada, http://www.bocchescucite.org/lecondizioni-per-la-prossima-intifada-ci-sono-gia/
http://www.repubblica.it/esteri/2015/03/23/news/la_sfida
_di_obama_a_netanyahu_quella_dei_due_stati_e_l_unic
a_scelta_-110251658/
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La libertà di espressione
Un po’ di storia
La libertà di manifestazione del pensiero parte dalle polis
dell’antica Grecia, dove la libertà di parola, detta parresìa,
coincideva con la facoltà di ogni cittadino di esprimere
liberamente la propria opinione durante le assemblee pubbliche.
Ma solamente con il XVII e XVIII secolo e con lo sviluppo del
pensiero liberale si giunse alla teorizzazione della libertà di
manifestazione del pensiero, che all’interno dello stato di
diritto garantiva la tutela delle minoranze.
Secondo Spinoza, teorico della libertas philosophandi, ogni Stato
in cui vige un regime democratico e non tirannico deve
assicurare ad ogni individuo la libertà di espressione.
Quest’ultima è un diritto inalienabile, la cui limitazione esterna,
imposta dallo Stato, ne segna la progressiva instabilità, mentre la
rinuncia spontanea all’esercizio di tale diritto fa retrocedere
l’uomo al rango di bestia.
La libertà di espressione divenne così componente principale del
“contratto sociale” e base di ogni democrazia. La libertà di
manifestazione del pensiero è divenuta principio di tutte le
Costituzioni democratiche, tra cui quella italiana.
La Costituzione italiana sancisce la libertà di manifestazione del
pensiero, che si esplica attraverso la libertà di stampa e la libertà
di parola, con l'Articolo 21, comma 1:
"Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio
pensiero, con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di
diffusione".
L’articolo 21 segna una rottura con il passato, dopo il sistema di
censura del regime fascista.
La libertà di espressione è riconosciuta anche dalla
Dichiarazione Universale dei diritti dell’uomo del 1948:
"Ogni individuo ha il diritto alla libertà di opinione e di
espressione, incluso il diritto di non essere molestato per la
propria opinione e quello di cercare, ricevere e diffondere
informazioni e idee attraverso ogni mezzo e senza riguardo a
frontiere."
E’ ripresa dalla Convenzione europea per la salvaguardia dei
diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU, 1950):
"Ogni persona ha diritto alla libertà di espressione. Tale diritto
include la libertà di opinione e la libertà di ricevere o di
comunicare informazioni o idee senza ingerenza alcuna da parte
delle autorità pubbliche , e senza considerazione di frontiera."
Il rapporto di "Reporter senza Frontiere"
Nell'annuale rapporto di Reporter Senza Frontiere, il World Press
Freedom Index, che dal 2002 elabora la classifica dei Paesi in base
a una griglia di criteri che vanno dal pluralismo al numero di abusi
e aggressioni ai danni della stampa verificatisi in un determinato
Paese, si registra una "regressione brutale" della libertà nel
mondo a causa dell'aumento delle aree di guerra.
Nel 2014 l'Italia scende al 73esimo posto, tra la Moldavia e il
Nicaragua, perdendo ben 24 posizioni dall’anno precedente.
La ragione, secondo il rapporto di Rsf, sono le sempre più
frequenti intimidazioni che i giornalisti subiscono, da parte da
parte di organizzazioni criminali e non solo.
In generale, il World Press Freedom Index segna un
peggioramento globale, come è possibile leggere nel report:
“Sotto attacco dalle guerre, dalle crescenti minacce di agenti
non statali, da violenze durante manifestazioni e dalla crisi
economica, la libertà dei media è in ritirata in tutti e cinque i
continenti”. Il peggioramento globale è “incontestabile”,
scrivono i ricercatori di Rsf, “nel 2014 c’è stata una drastica
caduta della libertà d’informazione. Due terzi dei 180 Paesi
censiti hanno avuto un risultato peggiore rispetto all’anno
scorso”.
In cima alla classifica della libertà d’informazione, come di
consueto, i paesi nordici: prima la Finlandia, seguita da Norvegia
e Svezia.
In fondo, anche qui senza sorprese, Turkmenistan, Corea del Nord
e, fanalino di coda, l’Eritrea. La Francia guadagna una posizione
fino al 38° posto, gli Usa ne perdono tre e vanno al 49°.
Blasfemia nel mondo
Fra gli argomenti su cui molti sono pronti ad accettare limiti
alla libertà di espressione ci sono quelli religiosi.
Nel 2012 l’Iheu (International Humanist and Ethical Union)
denunciò presso l’ONU l’inasprimento delle leggi contro la
blasfemia. Anche se è stata arginata la pretesa dei paesi
musulmani di approvare mozioni presso le Nazioni Unite per
condannare qualsiasi “offesa” alla religione, la Lega Araba nel
settembre del 2012 ripropose un accordo internazionale –
assieme a Ue, Onu, Unione Africana e Organizzazione della
Conferenza Islamica – che penalizzasse “odio” religioso e
blasfemia.
“A farne le spese, soprattutto gli apostati, i non credenti e in
generale i laici, con una limitazione preoccupante della libertà di
espressione e di pensiero sotto il ricatto della sensibilità religiosa
offesa.[…] Si può pensare che certe espressioni satiriche rivolte
all’islam dal mondo occidentale siano discutibili, provocatorie,
fuori luogo”. Questo non può giustificare la violenza degli
attentati di Parigi, o di quello del 2004 in Olanda. E la paura di tali
reazioni non deve soffocare qualsiasi forma di critica nei
confronti della religione.
“Reporter senza frontiere” ha pubblicato nel dicembre 2013 un
dossier intitolato Blasfemia, l’informazione sacrificata sull’altare
della religione, in cui registra molti casi di giornalisti accusati di
blasfemia per articoli che avevano a che fare con la religione.
A pagina 23, in particolare, si tratta del caso del 2005, relativo
alla pubblicazione in Danimarca di 12 vignette su Maometto,
ripubblicate in Francia da Charlie Hebdo, la più famosa delle quali
raffigurava il profeta con una bomba al posto del turbante. Alle
vivaci reazioni musulmane si unirono le richieste occidentali di un
maggior rispetto nei confronti delle religioni.
Solo la strage di Parigi del 7 gennaio 2015 ha posto in primo piano
la difesa della libertà di espressione.
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La bestemmia o blasfemia ingiuriosa e triviale, in quanto
offensiva del sentimento religioso dei rispettivi fedeli, è punita
nelle legislazioni penali vigenti in molti paesi sia teocratici sia
laici. In alcuni paesi la bestemmia non è un crimine. Per esempio,
negli Stati Uniti d'America essere perseguiti per questo crimine
violerebbe la Costituzione. Nel Regno Unito, precisamente in
Inghilterra e Galles, i reati di blasfemia sono stati aboliti nel
2008. In Europa, il Consiglio d'Europa ha raccomandato che i
paesi membri adottino leggi a favore della libertà d'espressione e
che quindi non perseguitino la blasfemia.
Nei paesi in cui è in vigore la sharia ed in altri paesi musulmani, la
blasfemia è invece un reato punibile con la pena di morte o con
anni di reclusione. In Pakistan la legge sulla blasfemia è
all’origine di molte violenze impunite contro cristiani e
musulmani sciiti, secondo l’ultimo rapporto di Amnesty
International sulla situazione dei diritti umani nel mondo.
(Vedi le proteste in Pakistan contro la legge, in base alla quale è
stata condannata a morte nel 2009 Asia Bibi, cristiana, ancora in
carcere nel marzo 2015; il marito e i cinque figli sono costretti a
vivere nascosti, ma continuano a chiedere la revisione della
legge e il sostegno della comunità internazionale).
Tutto ciò mostra come governi o fazioni radicali si impongano
attraverso il richiamo a presunte autorità superiori, opprimendo
altri punti di vista sulla religione, che vengono accusati di
blasfemia e di offendere i dogmi, i valori tradizionali e i
sentimenti dei fedeli.
perché le loro parole e azioni sono determinate dalla rivelazione
divina e non basate sui desideri della gente".
Ai nostri occhi di occidentali, che viviamo la libertà come
prerogativa naturale dell'uomo, queste considerazioni paiono
incomprensibili. Da tempo, infatti, si è affermata la possibilità di
esprimere le proprie credenze senza cadere nel blasfemo.
Per l’imam Choudary, invece, la nuova copertina di Charlie
Hebdo, con Maometto che piange mostrando la frase Je suis
Charlie è "un atto di guerra". Il predicatore punta il dito contro la
vignetta, “sottolineando che ‘ridicolizzare’ il Profeta è un ‘attacco
al suo onore’ dal momento che la maggioranza dei musulmani
non lo rappresenta perché considerato un gesto blasfemo. Se un
simile comportamento venisse portato di fronte a un tribunale
della sharia, la legge islamica, comporterebbe la pena
capitale.[…] La copertina è ‘una sfacciata provocazione’, mentre
la gente dovrebbe essere ‘sensibile nei confronti delle emozioni e
dei pensieri dei musulmani’".
Blasfemia in Italia
Dal 1999 la bestemmia non ricade più tra i reati: è considerata un
illecito amministrativo. La versione vigente dell'articolo 724
("Bestemmia e manifestazioni oltraggiose verso i defunti") è la
seguente: «Chiunque pubblicamente bestemmia, con invettive o
parole oltraggiose, contro la Divinità, è punito con la sanzione
amministrativa da euro 51 a euro 309». Secondo alcuni, tuttavia,
anche la sanzione alla bestemmia comprometterebbe la libertà
di pensiero e di critica garantita dalla Costituzione italiana. A
questo proposito, in una sentenza della Corte di Cassazion3e del
27 marzo 1992 sull'articolo 724, si stabilisce che: « assurdo e
fuori di luogo è il voler ricondurre la bestemmia alla
manifestazione del pensiero e alla libertà costituzionalmente
garantita di tale manifestazione […]. Ciò che, invero, vien
sanzionato è il fatto di bestemmiare con invettive e parole
oltraggiose: non la manifestazione di un pensiero, ma una
manifestazione pubblica di volgarità.”
La bestemmia è quindi un’espressione di maleducazione che
poco ha a che fare con la religione o la libertà di espressione, ma
in un paese cattolico come l’Italia la sensibilità comune la tollera
più della satira su tematiche religiose.
Diritto di satira: ci sono dei limiti?
In Italia, infatti, dopo la strage di Parigi, ci si è interrogati sugli
eventuali limiti della satira di fronte al sentimento religioso.
Riportiamo i punti salienti di un’intervista al professore Nicola
Colaianni, ordinario di Diritto ecclesiastico, italiano e comparato,
presso l’Università di Bari, già magistrato della Suprema Corte di
Cassazione e parlamentare.
Libertà di espressione e mondo arabo
Le radici della visione della libertà di espressione nel mondo
arabo vanno ricercate in ambito politico e religioso.
Una frase emblematica è quella di Anjem Choudary, imam di
Londra per cui la libertà di espressione confluisce totalmente
nella adorazione di Allah, unico Dio : "L'islam non è pace, ma
piuttosto sottomissione ai comandi del solo Allah. Per questo i
musulmani non credono nell'idea della libertà d'espressione,
Il professore crede che i limiti della satira debbano essere scelti
dai disegnatori satirici stessi, secondo il loro punto di vista,
i valori in cui credono e le battaglie che vogliono combattere.
Colaianni infatti smise di criticare i Fratelli Musulmani dopo il 30
giugno 2013, da quando cioè non hanno più avuto il potere in
Egitto e hanno iniziato a essere vittime.
“La satira è una grande arma nelle mani dei deboli contro la
tirannia, ma non deve essere sacralizzata, altrimenti potremmo
finire con usarla contro chiunque ci sembri diverso, le minoranze, le etnie o chiunque possa già soffrire di discriminazione.
Si può parlare di qualsiasi cosa attraverso la satira, anche della
27
religione se è divertente, ha un senso, e fa pensare.
In Egitto per esempio fra le barzellette più famose ci sono quelle
sulla religione, alcune davvero irriverenti. Il contesto, il pubblico,
la comprensione reciproca e il rispetto possono far funzionare
qualsiasi cosa. Certo, è rischioso prendere in giro le cose in cui la
gente crede. L’Islam è più di qualche pagina di libro e di insegnamenti, è parte integrante del modo in cui alcune persone capiscono il mondo, guardano al loro passato e al loro presente.
Prendere in giro questo […] può comportare confusione. Il senso
dell’umorismo si riferisce sempre alla vita vissuta, condivide riferimenti e sottolinea assurdità in un modo che la gente possa
capirlo. Quindi varia in base alla cultura e alle esperienze vissute”.
Satira e potere
“A chi impugna mitragliatrici per sterminare matite, e a chiunque
si sottometta a qualcosa di diverso dalla propria coscienza, ci
piacerebbe spiegare che avventura faticosa e fantastica sia la
libertà. Ma non lo faremo, perché la libertà non si può
spiegare.[…] La forma estrema, per molti incomprensibile, di
libertà è la satira. Offensiva, provocatoria e irrispettosa per
definizione, ribalta ostinatamente il punto di vista, perciò è
detestata dai possessori di verità assolute e dai fautori delle
religioni.” [M.Gramellini]
Cos’è la satira
A cura di: Veronica Guerci, Bianca Pezzani, Caterina
Pinelli (III D 2014-15)
Un paragrafo a cura di Pietro Canuti (IV D 2014-15)
Bibliografia e sitografia:
Blasfemia, l’informazione sacrificata sull’altare della
religione http://en.rsf.org/religions/en.html
Mappa sulla violazione della libertà religiosa nel mondo:
(qui non riportata)
http://acs-italia.org/wp-content/uploads/cartinalibert%C3%A0-religiosa.jpg
Mappa sulla libertà di espressione nel 2014:
http://en.rsf.org/
La legge sulla blasfemia nel mondo:
http://www.lettera43.it/upload/editor/blasfemia%202.jp
g
L.M.Guzzo, Intervista a Nicola Colaianni, ordinario di
Diritto ecclesiastico a Bari 14-1-2015 “La Stampa”
Ridicolizzare il Profeta è un attacco al suo onore,
13/1/2015
http://www.osservatoreitalia.it/index.asp?art=2946&arg
=46&red=10
GB, imam Choudary: I musulmani non credono nella
libertà di parola, 9-1-2015
http://www.imolaoggi.it/2015/01/09/
http://www.avvenire.it/Mondo/Pagine/asia-bibi-ildramma-della-famiglia.aspx
Ancorata ad una tradizione millenaria, la satira costituisce la più
graffiante delle manifestazioni artistiche. Basata su sarcasmo,
ironia, trasgressione, dissacrazione e paradosso “rivela e colpisce
con lo scherno o con il ridicolo concezioni, passioni, modi di vita e
atteggiamenti comuni a tutta l’umanità, o caratteristici di una
categoria di persone o anche di un solo individuo, che
contrastano o discordano dalla morale comune (e sono perciò
considerati vizi o difetti) o dall’ideale etico dello scrittore”.
Verte preferibilmente su temi di attualità, scegliendo come
bersaglio privilegiato i potenti.
La satira propriamente detta è una forma letteraria (singolo
componimento, più o meno breve; ma anche poema satirico,
romanzo satirico ecc.), ma si può esprimere anche attraverso
vignette, come quelle del giornale satirico francese Charlie
Hebdo.
Essendo una forma d’arte, il diritto di satira trova riconoscimento
nell’art. 33 della Costituzione Italiana, che sancisce la libertà
dell’arte. In molti Paesi del mondo, invece, tale libertà non è
garantita e talora è fortemente osteggiata. Abbiamo scelto la
Turchia.
La satira in Turchia
Sorta dalle ceneri dell'Impero ottomano nel 1923, la Turchia è
una Repubblica parlamentare. Le sue istituzioni sono state a
lungo fortemente condizionate dalle forze armate, il cui ruolo
politico venne fissato nella Costituzione da Kemal Atatürk e
ribadito nell'ultima Costituzione del 1982, emendata nel 1995. In
questi ultimi dodici anni, tuttavia, durante i quali Erdogan ha
ricoperto la carica di premier, il sistema di vita sociale in Turchia è
cambiato, rientrando in un più tradizionale orientamento
musulmano. Forte dei successi ottenuti in campo interno e
internazionale nel settore economico e della riduzione del potere
delle Forze Armate, Erdoğan è stato eletto presidente nell’agosto
del 2014. Sostenuto dal 50% di parlamentari dell'Akp (il suo
partito di centro destra islamista, Libertà e Giustizia) propone
“una nuova Costituzione”, redigendo una carta "liberale " che
possa essere “un riferimento per il mondo musulmano come via
dell'islam senza dittatura”.
In realtà la Turchia è ben lontana dall’essere un paese liberale.
Basta considerare la libertà di espressione: il rapporto di Reporter
senza frontiere del 2014 segnala la Turchia al 154° posto nel
mondo, dato che “molti giornalisti sono stati mandati in prigione
o si trovano ad affrontare un processo a causa del loro lavoro”. La
satira, se pure molto diffusa, costantemente subisce pressioni e
attacchi da parte del potere che è oggetto della critica. Oggi è
Erdoğan il soggetto privilegiato della satira. Nella vignetta del
famoso disegnatore Musa Kart la didascalia recita “Linguaggio
28
politico” mentre dalla bocca di Erdoğan, al posto della lingua,
esce una mano che spruzza gas urticante. Si tratta di un chiaro
riferimento all’uso di questo tipo di gas durante la repressione
poliziesca delle manifestazioni di protesta di Gezi Park nel 2013.
“Dei devoti musulmani pregano davanti alla scritta ‘non c’è nessun
Allah, la religione è una bugia’, uno di loro telefona col cellulare
direttamente a Dio per chiedere se può assentarsi dalla preghiera
prima del previsto”.
La seconda vignetta è del cartoonist Patrick Chappatte, ed è
stata pubblicata sul New York Times, ma ha messo nei guai un
professore che la mostrava durante una manifestazione a
Istanbul, in quanto considerata un insulto alla bandiera turca.
In Turchia la stampa non è libera e indipendente. Io vivo in un
paese che è laico ma il (mio) caso giudiziario è nato a partire da
un disegno. In un paese laico un disegno viene denunciato dalla
pubblica accusa e in un paese laico la corte mi ha messo sotto
processo. L’offerta di democrazia dell’AKP non è sincera.”
A cura di: Ana Botnari, Elena De Benedetti, Chiara
Longhi, Filippo Savi (III D 2014-15)
Bibliografia e sitografia:
Voce “satira”: www. treccani.it
Massimo Gramellini, Checkpoint Charlie, “La Stampa”
9-1-2015
Filippo Cicciù, La satira in Turchia,
https://kebapconnection.wordpress.com/2012/05/14/l
a-satira-in-turchia/
[da notare un uomo con la bandiera dell’Unione Europea che spia
Erdogan: si allude al fatto che si sta esaminando da tempo la
proposta di far entrare la Turchia nell’Unione Europea]
Quando il presidente Erdogan nel marzo del 2014 bloccò Twitter
con il pretesto della sicurezza nazionale, la rete si scatenò in una
campagna satirica contro le limitazioni della libertà di
espressione in Turchia con vignette e slogan.
Naturalmente anche la religione islamica non può essere oggetto
di satira in Turchia senza suscitare reazioni.
Bahadir Baruter, uno dei più noti disegnatori satirici del Paese,
collaboratore della rivista Penguen, nel 2012 è stato messo sotto
processo per aver pubblicato una vignetta ironica sulla religione;
per la violazione dell’articolo 216 del codice penale turco
(“denigrazione dei valori religiosi di un gruppo”) rischia un anno
di prigione.
Filippo Cicciù, Gli attacchi alla satira in Turchia: una
vecchia storia
https://kebapconnection.wordpress.com/2015/01/04/
Vignette:
http://contents.internazionale.it/wpcontent/uploads/2
014/03/erdogan.jpg
http://www.rainews.it/dl/img/2014/03/310x0_1395401
992430_turchia17.jpg
http://www.ondebat.net/wpcontent/uploads/2013/08/vignetta-baruter.jpg
Ha affermato Baruter: “Le riviste di satira e anche altre
pubblicazioni come quelle comuni sono messe sotto pressione
dalla legge. Per esempio io che pubblico, faccio l’editore e il
disegnatore ho subito dieci procedimenti giudiziari e sto
sostenendo un processo. [Quello relativo alla vignetta a fianco
riportata]
29
Libertà di satira
“In generale, è diritto naturale dell'uomo quello di utilizzare la sua
penna e la sua lingua, a suo rischio e pericolo. Conosco molti libri
che hanno annoiato, non ne conosco nessuno che abbia fatto male
realmente a qualcuno.” François-Marie Arouet, detto Voltaire
In parallelo con gli avvenimenti di Parigi del 7 gennaio 2015 e
l’incombente minaccia dell'Isis viene risollevata la questione
della libertà di espressione e in particolare della libertà di satira.
In Italia come all'estero non si parla di altro. Da qui l'emergere di
pareri contrastanti a riguardo. Il giornalista e scrittore de “La
Repubblica” Corrado Augias scrive: “Continuo a pensare che
alzare le mani contro la satira manifesti solo che ci mancano le
parole o che prendiamo sul serio chi vuole farci del male o
provocarci. Riuscendoci in tal caso benissimo.”
Un altro scrittore con idee chiare riguardo il recente attentato è
Salman Rushdie: “L’arte della satira è forza di libertà contro la
tirannia e la disonestà. […] Credo fortemente nella libertà di
parola. Si può non avere simpatia per Charlie Hebdo ma ciò non
giustifica in alcun modo il loro omicidio né la critica al loro diritto
di parlare.”
Così si apre il nostro lavoro sulla libertà di satira per rivendicare
una libertà di parola che nei secoli ha subito attacchi ma che
finalmente è riuscita ad affermarsi, anche se ancora a rischio.
Abbiamo deciso di trattare le storie dei personaggi che stanno
dietro i fumetti di alcuni vignettisti di Cartooning for peace.
Vedremo come i protagonisti di queste satire abbiano in realtà
molto in comune con i loro autori e diventino portavoce dei loro
ideali.
Michel Kichka, nato in Belgio nel 1954, è uno dei maggiori
rappresentanti dei fumettisti israeliani (di cui presiede
l’Associazione). Illustratore e vignettista satirico, pubblica su
numerose testate giornalistiche e collabora con la televisione
israeliana e con quella francese. Docente presso la Bezalel
Academy di Gerusalemme – una delle più prestigiose scuole
d’arte al mondo – nel 2006 ha aderito al movimento “Cartooning
for Peace” e nel 2011 è stato nominato Cavaliere delle Arti e delle
Lettere dal Ministero della Cultura francese.
« Destruction des Bouddhas de la Vallée de Bâmiyân en
Afghanistan, destruction des mausolées musulmans à
Tombouctou, destruction des trésors du Musée de Mossoul,
attentats au Musée Juif de Bruxelles, attentats à Charlie Hebdo,
attentat au Musée Bardo de Tunis. Décidément, les terroristes
islamistes ont un attrait particulier, et particulièrement maladif,
pour l’Art. L’Art de tuer et de détruire, au demeurant. »
Riguardo la recente strage di Charlie Hebdo a Parigi, Kichka
riprende quel tragico 11 settembre 2001, richiamando la caduta
delle torri gemelle, in questo caso la libertà di satira del giornale
satirico francese. Nella seconda vignetta vediamo invece Cabu,
uno dei disegnatori uccisi nella strage, che dice: ”E’ duro essere
ucciso da degli idioti”.
A fianco riportiamo anche la vignetta disegnata da Kichka subito
dopo la strage del museo del Bardo di Tunisi, il 18 marzo 2015,
con il testo in francese che compare nel suo blog.
30
Nadia Khiari, vignettista tunisina e docente di Belle Arti a Tunisi,
è stata insignita a Liegi della Laurea Honoris Causa per la sua
lotta per la libertà d’espressione, ha vinto diversi premi fra cui in
Italia nel settembre del 2014 il premio Satira politica, sezione
disegno satirico, a Forte dei Marmi.
Intervistata nel febbraio del 2014 nel suo paese, ha parlato del
suo personaggio, il gatto Willis from Tunis.
All’inizio, prima della Rivoluzione [2010-11], era solo un gatto, ma
dopo l’ultimo discorso dell’allora presidente Ben Ali prima della
sua fuga, il 13 gennaio 2011, l’ha usato per parlare della politica in
Tunisia. Ben Ali “ha tentato di calmare la popolazione e ha detto,
per mantenere il potere, che ci sarebbe stata libertà di
espressione”. Willis, nella prima vignetta, veste i panni dellʼexPresidente, che rivolgendosi ai suoi sostenitori, nelle sembianze
di tre topolini che esultano per il calo del prezzo del formaggio,
dice con aria soddisfatta “vi ho capito...”
Sotto la dittatura di Ben Ali [presidente della Tunisia dall’87 al
2011] la critica non era permessa. Nonostante questo molti artisti
hanno lasciato parlare le loro matite ma hanno avuto
continuamente problemi, hanno subito intimidazioni, sono stati
vittime di violenze e hanno visto le porte del carcere spalancarsi.
La stessa Nadia Khiari ha subito intimidazioni per mesi da parte
di un gruppo estremista seguace di Ben Ali e ha rischiato il
carcere innumerevoli volte. “Si viveva tutti sotto una sorta di
oppressione. Come si può esprimersi sotto una dittatura senza
avere dei problemi?”
La rivoluzione ha liberato i tunisini da quella oppressione.
“Siamo stati costretti a tapparci la bocca e a dimenticare. Io
penso che la rivoluzione possa essere paragonata al primo vagito
di un neonato, al primo grido di una creatura che può godersi la
sua prima boccata d’ossigeno per poi crescere ed essere libera di
esprimere il suo essere”.
Certo rimangono molti i problemi della Tunisia, da quello
economico a quello politico, con partiti che pensano a spartirsi il
potere. Ma la Khiari è fiduciosa, e intanto niente viene
risparmiato dalla sua critica.
Nell’autunno del 2014 in Tunisia si sono tenute libere elezioni,
che hanno portato ad un parlamento in cui siedono sia forze
laiche che religiose. La Tunisia è l’unico Paese coinvolto dalla
primavera araba che abbia una costituzione democratica.
L’attentato al Museo del Bardo di Tunisi, avvenuto il 18 marzo
2015, testimonia che il terrorismo non accetta l’affermazione
nell’area di forze democratiche e laiche (il primo obiettivo era il
Parlamento).
Riportiamo infine la vignetta dedicata dalla disegnatrice Nadia
Khiari alle vittime di Charlie Hebdo.
In una vignetta successiva Willis-Ben Ali inneggia alla rivoluzione,
suscitando le risate di tutti.
Quel giorno, ha detto la Khiari “ho creato una pagina su
Facebook e ho condiviso il mio primo fumetto nella rete sul gatto
Willis, con l’intento di rappresentare l’attualità, di testimoniare
come si vive in Tunisia giorno dopo giorno, attraverso perché no,
un po’ di impertinenza”.
31
Mana Neyestani è nato a Teheran, in Iran, nel 1973. Da quando
aveva 16 anni disegna fumetti e vignette. Da alcuni anni vive in
esilio, a Parigi, sotto la protezione dell’Icorn, l’International Cities
of Refuge Network, la rete delle città che difendono la libertà
d’espressione.
In carcere, Neyestani resta tre mesi. Poi riceve un permesso di
uno. A sei giorni dalla scadenza, decide di fuggire insieme alla
moglie Mansoureh.
«Dallo Scià agli imam, abbiamo sempre vissuto sotto una
dittatura. E’ un problema culturale, più che politico. La voglia di
esprimersi c’è ed è diffusa. Ma non ci sono i mezzi, non ci sono
partiti, sindacati, media liberi. Per questo il regime cerca di
mandare all’estero chi pensa. Sa cosa si dice a Teheran? Che,
dopo il petrolio, gli intellettuali sono il principale prodotto
d’esportazione dell’Iran».
Molte sono le tematiche su cui si incentrano le satire originali di
Neyestani: alcune proclamano il concetto di “freedom”, libertà,
altre si riferiscono alla “morte” della democrazia. Molte di
queste satire contengono anche critiche a modi di pensare e
agire del passato come quello nazista, richiamando ad esempio la
brutalità dei tedeschi nei confronti degli ebrei e mettendo in
risalto attraverso un’ironia pungente le ingiustizie commesse.
A Parigi nel gennaio del 2013 incontra il giornalista italiano
Alberto Mattioli e gli racconta la sua storia, che ha disegnato
nella Graphic Novel Una metamorfosi iraniana.
Nel 2000, quando il governo iraniano chiude 17 giornali in un
colpo solo, smette di disegnare vignette satiriche e comincia a
disegnare per i bambini. «Lavoravo a “Iran Jomeh”, supplemento
settimanale del quotidiano “Iran”, finanziato dal governo. I
rapporti con la proprietà non erano facili, ma io ero tranquillo,
lavoravo per i ragazzi». L’incubo inizia un sabato del 2006.
«Avevo scritto una striscia buffa su dieci metodi per schiacciare
uno scarafaggio, protagonista un ragazzino che parla con
l’insetto. Purtroppo misi in bocca allo scarafaggio la parola
“namana”.
A cura di: Pietro Canuti, Eleonora Fontana, Agata
Magni, Lorenzo Urbanetto (IV°D 2014-2015)
Bibliografia e sitografia
- François-Marie Arouet, detto Voltaire, voce ”Liberté d’
'imprimer”, Questions sur l’ Encyclopédie
- C. Augias, “La libertà di satira e la Legge”, “La
Repubblica”, 17 gennaio 2015
- S. Rushdie, Lettura presso University of Vermont, “La
Repubblica”, 17 gennaio 2015
- http://fr.kichka.com/
E’ un termine azero, della minoranza turca che vive nel nord del
Paese, da sempre nel mirino del regime. Però in Iran è una parola
gergale che usiamo tutti, un’espressione comune, che significa:
“Cosa? Cosa dici?”. Niente di strano». La minoranza azera, però,
la prende malissimo. Ci sono manifestazioni, scontri, scioperi:
«Gli azeri si considerarono insultati. Soprattutto, credo, perché
l’editore era il governo». Dieci giorni dopo, il vignettista e il suo
editore vengono arrestati. Direzione l’edificio 209 del carcere di
Evin. Qui li informano che nelle città azere la polizia ha sparato
sui manifestanti facendo morti e feriti. «Volevano che
confessassi, ma io non avevo nulla da confessare. Il famigerato
giudice Said Mortazavi mi chiedeva quanti soldi avevo ricevuto
dagli americani per scatenare i disordini, minacciandomi di un
interrogatorio “tecnico”. Tutti in Iran sappiamo cosa significa...».
- Alberto Mattioli, “Kafka a Teheran, uno scarafaggio
conduce all’esilio”, “La Stampa”, 10 gennaio 2013
- Libertà di satira:
http://www.difesadellinformazione.com/57/il-dirittodi-satira/
- Cartooning for peace:
http://www.cartooningforpeace.org/
- Nadia Zangarelli, Intervista a Nadia Khiari - Willis from
Tunis, 5-2-2014 http://www.globalproject.info/it/
32
Libertà di espressione e
mondo arabo: utopia o
realtà prossima?
L'individuo è padrone di pensare, esprimersi e agire come crede
necessario per il suo sviluppo personale. La libertà dell'individuo
è una condizione necessaria al progresso sociale. Avere la facoltà
di scelta è quello che distingue l'uomo dalle altre creature. Se
l'individuo non avesse la libertà di pensare, esprimersi ed agire, la
sua vita sarebbe simile a quella di un automa. La libertà di
espressione non deve avere alcun limite religioso; in Occidente
essa ci permette di esprimere critiche senza cadere nel blasfemo,
mentre i Paesi islamici dovranno ancora combattere per
ottenerla.
Ma non è solo la religione ad essere un argomento tabù in alcuni
Paesi. Abbiamo analizzato le figure di alcune artiste – fotografe,
registe, scrittrici – che hanno dedicato la loro opera soprattutto
al ruolo e alle condizioni delle donne nei Paesi in cui
l’imposizione della legge coranica o la persistenza di antiche
tradizioni rende difficile la loro vita e il rapporto con il mondo
maschile. Un Paese in particolare è al centro della nostra breve
indagine, l’Iran.
Shirin Neshat: denuncia attraverso l'arte
Nata nel 1957 in Iran, è una fotografa e videoartista che si è
imposta a livello internazionale per la sua capacità di esplorare la
complessità delle condizioni sociali all’interno della cultura
islamica, rivolgendo un’attenzione particolare alla condizione
della donna.
Vissuta negli Stati Uniti dal 1974 al 1990,al suo ritorno in patria si
è resa conto delle radicali trasformazioni subite dalla società
iraniana e “senza rinnegare la sua duplice appartenenza al mondo
occidentale e a quello orientale, Neshat ha impostato un discorso
figurativo altamente poetico, capace di scuotere lo spettatore
con immagini e muti racconti: espressione di problematiche che
seppur connesse con l'islamismo ne oltrepassano i confini. I suoi
primi lavori (Women of Allah, 1993-97) sono fotografie in bianco e
nero di donne velate, primi piani di parti del corpo femminile
(volti, mani, piedi) sulle quali Neshat sovrascrive versi di
poetesse iraniane contemporanee, come F. Farrukhzād, che
mettono in discussione le qualità stereotipe associate alle donne
musulmane”.
“Realizza anche installazioni video in cui sono raccontate storie,
affidate quasi esclusivamente alla coreografia delle immagini e
alla musica, che rende più intensi gli stati emozionali. […]
Per es. in Rapture (1999) tratta della separazione dei generi,
contrapponendo un gruppo di uomini, che eseguono rituali
apparentemente assurdi in una fortezza, e un gruppo di donne
che vagano in un deserto fino a giungere alla spiaggia sotto la
fortezza e spingono una barca in mare, strumento del loro
destino, forse di morte, forse di libertà.”
Nel 2009 realizza il suo primo film, Women without men, basato
sul romanzo omonimo di Parsipur, che vince al Festival di
Venezia il Leone d’Argento.
Nelle sue fotografie mostra, attraverso immagini piene di
tensione, corpi velati di persone sottomesse che ogni giorno
devono fare i conti con la violenza ed il terrorismo.
33
I giovani iraniani
Dal 1921 al 1979 l’Iran è stato governato dalla dinastia Pahlavi, un
regime autoritario, aperto alle ingerenze straniere, che portò
avanti dagli anni ’60 un programma di modernizzazione
economica e sociale, ma non riuscì ad evitare violente
contestazioni, di cui approfittarono i seguaci dell'ayatollah
Khumaini (Khomeini), che costrinsero lo Scià Reza Pahlavi alla
fuga.
Oggi, più di tre decenni dopo la rivoluzione, c’è una grande
divergenza tra la generazione che ha fatto la rivoluzione, con le
sue ideologie e il suo idealismo sociale, e la nuova generazione
nata dopo la rivoluzione, che si ispira soprattutto a un idealismo
individuale. Questa nuova generazione ha avuto un'educazione
islamica apparentemente lontana dalle influenze dalla società
occidentale; ma in realtà la sincronia di un islam politicizzato e
onnipresente nella vita quotidiana della popolazione con
l'inevitabile impatto delle culture straniere, enfatizzato dai vari
media, ha prodotto una desacralizzazione della religione. Ciò ha
determinato a sua volta un'ibridazione della società iraniana, che
nessuno poteva prevedere. Si è così diffusa la percezione che la
società iraniana sia entrata in una nuova era. I giovani iraniani
sono molto dubbiosi circa il loro avvenire in Iran. Dalle loro parole
traspare l'angoscia per la difficoltà di costruirsi una vita
indipendente. Per molti di loro il vago orizzonte futuro si situa
all'estero.
scuola il richiamo verso le sue radici e la sua famiglia la spinge a
tornare in Iran, dove si sposa.
Persepolis: il film
Il film traduce in cartone animato il graphic novel omonimo,
realizzato dalla giovane iraniana Marjane Satrapi, che vi descrive
vent’anni della propria vita. Oggi la Satrapi, che è anche regista
del film con Vincent Paronnaud, è costretta a vivere in Francia;
l’Iran ha protestato vivamente per la proiezione del film al festival
di Cannes del 2007 (dove vinse il Premio della giuria) e continua a
boicottarlo.
La piccola Marjane, bambina di nove anni già ribelle e
anticonformista, rifiuta le rigide regole della società iraniana,
soprattutto dopo la caduta del regime dello Scià e l’avvento della
cosiddetta rivoluzione islamica di Khomeini. Preoccupati per
l’incolumità della figlia, i genitori, quando compie 14 anni,
decidono di mandarla a studiare in Austria.
All’inizio l’esperienza austriaca è per Marjane piuttosto
traumatica perché gli altri studenti la identificano con quel
mondo fatto di fondamentalismo religioso cui lei si è ribellata,
ma con il passare del tempo riesce ad integrarsi. Alla fine della
Ma le leggi dettate dal fondamentalismo non permettono a una
donna di essere libera, né di costruirsi una carriera artistica.
Neppure il matrimonio la soddisfa e Marjane riparte per l’Europa.
Solo a questo punto dal disegno stilizzato in bianco e nero si
passa al colore. Il film attraverso una storia individuale di
formazione affronta la memoria collettiva del Paese.
Persepolis: la ribellione attraverso un
cartone
La storia privata di Marjane, infatti, si intreccia con la storia
politica dell’Iran e con le storie di tutti gli altri personaggi: quella
dei parenti uccisi dai pasdaran [i miliziani khomeinisti della
34
rivoluzione islamica del 1979], degli amici mandati a combattere
la guerra contro l’Iraq [nel 1991] e dei giovani che, segnati dalle
atrocità della guerra, cercano disperatamente di ritagliarsi uno
spazio felice eludendo i controlli dei guardiani della rivoluzione.
Il viaggio di Marjane da bimba a donna adulta la porta a
scontrarsi con due realtà differenti: da una parte l’Iran che passa
da monarchia filo-occidentale a repubblica islamica integralista;
dall’altra un Occidente che, pur essendo libero, non è capace di
comprendere, un Occidente popolato da persone che, non
trovando una ragione di vita collettiva, si perdono nel labirinto
della individualità. Ma quello che risalta soprattutto è “cosa
significa essere donna in Iran, cosa si nasconde dietro un velo
nero imposto sulla bellezza e la complessità di una persona e di
un popolo”.[M.Fadda]
Persepolis ha la capacità di trasmettere le emozioni dell’autrice
(nella foto); le immagini ci inducono a solidarizzare con le
difficoltà della protagonista, a pensare e a riflettere a fondo sulla
storia dell’ Iran.
Sotto il burqa: un libro per sensibilizzare
L’autrice del romanzo, pubblicato nel 2001, è Deborah Ellis, che
ha lavorato in varie parti del mondo collaborando a progetti di
sostegno alle popolazioni colpite dalla guerra. In particolare è
stata nei campi profughi in Pakistan, dove ha raccolto storie di
ragazze e donne costrette a portare il burqa; ne ha tratto un
romanzo la cui protagonista è Parvana, una ragazzina che porta
il chador, ma che dovrà portare il burqa, come la sorella più
grande e la madre.
Quando il libro fu scritto (nel 2000) l’Afghanistan era sconvolto
dalla guerra fra i talebani e l’Alleanza del Nord e pochi
conoscevano le sofferenze della popolazione civile di un paese
così lontano dalle vicende internazionali. Ma nel 2001, dopo
l’attentato di New York, Bin Laden si rifugiò in Afghanistan e gli
USA invasero il paese. Divennero famose parole come talebani e
burqa e il libro venne tradotto anche in italiano.
La scrittrice vi denuncia la sofferenza delle donne afgane,
obbligate a vivere sotto un velo che copre ogni centimetro
quadrato del loro corpo impedendo loro persino i movimenti e
lasciando una piccola rete davanti agli occhi. Il racconto è
ambientato a Kabul, tra bombardamenti e violenza, soldati col
turbante e donne col burqa.
Parvana è una ragazzina di 11 anni che vive in una stanza con i
suoi genitori, le sorelle Nooria e Maryam, e il piccolo Ali. Lei e la
sua famiglia hanno dovuto trasferirsi più volte a causa dei
bombardamenti che hanno ucciso il fratello maggiore, Hossian, e
hanno fatto perdere una gamba al padre. Per le strade di Kabul
girano i talebani che hanno imposto il burqa alle donne, la barba
agli uomini, e che hanno proibito il lavoro o la scuola alle ragazze.
Perciò Parvana, ogni giorno, accompagna il padre a lavorare al
mercato, dove egli legge e scrive lettere per gli analfabeti. Un
altro compito quotidiano della ragazzina è andare ad attingere
l’acqua dal pozzo:
”La mamma e Nooria dovevano indossare il burqa ogni volta che
uscivano, e non era possibile che trasportassero un secchio d’acqua
su per quelle scale sconnesse indossando il burqa. E poi era
pericoloso per le donne uscire per strada senza essere
accompagnate da un uomo. Parvana sapeva che toccava a lei
andare a prendere l’acqua perché nessun altro in famiglia poteva
farlo.”
Un giorno, un gruppo di soldati talebani rapisce il padre di
Parvana senza motivo. Per il bene della sua famiglia è costretta a
tagliarsi i lunghi capelli neri e a vestirsi come un maschio per
poter lavorare al posto del padre. Anche la madre decide di
tornare a lavorare per un giornale e con l’aiuto di un’amica, la
signora Weera, riesce ad raggiungere Mazar-e-Sharif, con la
scusa di dover maritare la figlia maggiore. Il padre viene rilasciato
e Parvana parte con lui per raggiungere Mazar, caduta in mano ai
talebani, alla ricerca della sua famiglia.
Parvana ricorda spesso una storia che le raccontava il padre,
quella della coraggiosa Malali, che per ottenere la libertà
dell’Afghanistan, guidò le truppe in guerra. Nei momenti di
difficoltà prova ad immedesimarsi in Malali che è il simbolo del
coraggio. Quando parte con il padre alla ricerca del resto della
famiglia, gli chiede se viaggerà come ragazza o ragazzo. Il padre
le risponde: “Scegli tu, sarai comunque la mia piccola Malali”.
Nel salutarli la signora Weera mostra loro delle copie della rivista
di sua madre, che tiene nascoste sotto il burqa:
“Dì a tua madre che molte copie di questa rivista stanno per essere
spedite alle donne di tutto il mondo. Lei ha contribuito a far sapere
al mondo che cosa succede in Afghanistan. Assicurati che lo sappia.
Quello che ha fatto è molto importante. E dille che abbiamo
bisogno che torni per lavorare al prossimo numero”.
Il messaggio della scrittrice è molto profondo e invita a riflettere
sulla richiesta d’aiuto delle donne afgane.
Le donne in Afghanistan e Iran
Anche se oggi, dopo l’intervento della missione internazionale
(l’International Security Assistance Force o Isaf ha concluso il
proprio compito alla fine del 2014) la situazione in Afghanistan è
migliorata e il Paese ha un presidente ed un parlamento eletti,
non si può parlare ancora di democrazia. Il terrorismo ha ripreso
piede via via che le forze occidentali si vanno ritirando.
Inoltre, come attestava la politica afgana Malalai Joya nel
2012,“su una popolazione di 27 milioni di afgani, circa 22 milioni
vivono sotto la soglia di povertà, e la condizione delle donne è
allarmante. Il governo, sostenuto dagli Stati Uniti, è composto
da personaggi corrotti, signori della guerra e signori della droga,
con idee retrograde e fondamentaliste che non li rendono molto
diversi dai talebani, ed il paese si colloca ai primi posti fra i paesi
più corrotti al mondo”.
Per quanto riguarda l’Iran, riportiamo le parole dell’attivista
Masih Alinejad (foto della pagina seguente) che vive in esilio dal
2009, fra New York e Londra, per le minacce subite in seguito alle
sue inchieste sulla brutalità del regime. Ha creato un blog che
raccoglie le foto delle iraniane a capo scoperto, per mostrare il
vero volto dell’Iran. “Essere donna in Iran è una battaglia
continua. Devi lottare ogni giorno per affermare diritti basilari.
[…] Quando ti vogliono zittire non attaccano mai le tue opinioni.
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Puntano sempre alla tua sessualità. Ti chiamano brutta perché
pensano sia un modo per spezzarti. Ti chiamano prostituta. Io
sono stata diffamata in ogni modo”. Alinejad ha appena ricevuto
a Ginevra il premio per i diritti delle donne, il Women’s Right
Award. Intervistata da Anna Lombardi ha detto che le donne che
postano sul suo blog le foto a capo scoperto “rischiano il carcere
e anche peggio. Ma è un rischio che prendono per essere se
stesse. Essere donne in Iran è pericoloso comunque. Con le foto
hanno trovato un modo per unirsi e farsi sentire.”
Dalle testimonianze che abbiamo raccolto su questi due Paesi,
Iran e Afghanistan - nei libri, nel film e negli articoli - possiamo
concludere che il diritto di esprimere liberamente qualsiasi
pensiero non è di tutti, e in particolare non è ancora riconosciuto
a tante donne, costrette a una prigionia eterna sotto un velo nero
o private del diritto di esprimere le proprie opinioni.
Ma le donne combattono per ottenere questi diritti, anche a
costo di perdere tutto.
Le parole come armi
La lirica è il genere letterario per eccellenza del mondo arabo, che
si esprime in una lingua dal lessico ricco e musicale. Nata in epoca
preislamica come genere contraddistinto da regole, ritmi e metri
codificati e inalterabili, la poesia araba ha subito una vera e
propria rivoluzione a partire dagli anni '40 del Novecento, per
opera di una donna, l’irachena Nazik al Mala’ika (1923-2007) che
seppe coniugare l’impegno a favore della poesia in versi liberi con
quello sociale e culturale a favore dell’emancipazione della
donna.
Con coraggio la poetessa denuncia le vessazioni subite dalle
donne, l’isolamento, il delitto d’onore. Vedi per esempio La
maledizione del tempo, dove si riflette sull’uccisione di una
ragazza per riscattare l’onore della famiglia che lei con il suo
comportamento aveva compromesso: ”Verrà l’alba e di lei
chiederanno le ragazze / dove l’hai vista? Risponde il bruto
«L’abbiamo ammazzata» / abbiamo lavato l’onta della vergogna
dalla nostra fronte.[…] / vicine del quartiere, ragazze del villaggio /
impasteranno il pane con le nostre lacrime di paura / ci taglieremo
le trecce, scoloriremo le mani / perché le loro vesti restino bianche e
pure / niente sorriso, niente gioire, non ci volteremo perché il
pugnale / nelle mani dei nostri padri e dei fratelli ci controlla / e
domani chi sa quale deserto / non si levi per lavare l’onta?”
La sua poesia si fa sempre più cupa. “La natura è ostile e il
deserto diventa metafora della solitudine e dell’ineluttabile
sofferenza umana”.
Per concludere il nostro lavoro abbiamo scelto la poesia Canto
d’amore per le parole, un inno alla magia e all’incanto della
creazione letteraria, ma che vogliamo leggere anche come un
inno alla libertà di espressione.
“[…] Perchè abbiamo paura delle parole / quando tra di loro vi sono
parole simili a campane invisibili,/ la cui eco preannuncia nelle
nostre vite agitate / la venuta di un'epoca di alba incantata,
intrisa d'amore e di vita?/ Ci siamo assuefatti al silenzio./ Ci siamo
paralizzati, temendo che il segreto possa dividere le nostre labbra./
Abbiamo pensato che nelle parole giaceva un folletto invisibile,/
rannicchiato, nascosto dalle lettere dalle orecchie del tempo./
Abbiamo incatenato le lettere assetate,/ vietando loro di diffondere
la notte per noi / come un cuscino, gocciolante di musica, sogni,
e caldi calici./ Perchè abbiamo paura delle parole? / Tra di loro ne
esistono di incredibile dolcezza / le cui lettere hanno estratto il
tepore della speranza da due labbra,/ e altre che, esultando di gioia
si sono fatte strada tra la felicità momentanea di due occhi /
inebriati./ Parole, poesia, teneramente / hanno accarezzato le
nostre gote, suoni / che, assopiti nella loro eco, colorano una
frusciante, / segreta passione, un desiderio segreto./ Perchè
abbiamo paura delle parole? / Se una volta le loro spine ci hanno
ferito, / hanno anche avvolto le loro braccia attorno al nostro collo
e diffuso il loro dolce profumo sui nostri desideri./ Se le loro lettere ci
hanno trafitto / e il loro viso si è voltato stizzito / ci hanno anche
lasciato un liuto in mano / e domani ci inonderanno di vita./ Su,
versaci due calici di parole./ Domani ci costruiremo un nido di sogno
di parole,/ in alto, con l'edera che discende dalle sue lettere./
Nutriremo i suoi germogli con la poesia/ e innaffieremo i suoi fiori
con le parole./ Costruiremo un terrazzo per la timida rosa / con
colonne fatte di parole,/ e una stanza fresca inondata di ombra,
protetta da parole./ Abbiamo dedicato la nostra vita come una
preghiera / chi pregheremo... se non le parole?”
A cura di: Chiara Delmonte, Lisa Pantaleoni, Sara
Signorini ( III D 2014-2015) Penultimo paragrafo S.Borsi.
Bibliografia e sitografia:
Suarez Villegas , J.C. La libertà di espressione e il rispetto
dei sentimenti religiosi
https://periodicos.ufsc.br/index.php/ethic/article
Masserat Amir Ebrahimi e Ziba Jalali Naini, I giovani
alla ricerca dello spazio perduto, in L'Iran tra maschera e
volto Limes n°5/ 2005
Scheda film Persepolis
http://www3.ti.ch/DECS/sw/temi/scuoladecs/index.php
?fuseaction=scuole.
M.Fadda, Persepolis in “Cineforum” n°466 2007
“Shirin Neshat” www.Treccani.it
http://www.nodalmolin.it/Afghanistan-oggi-sguardodi-donne, 7 dicembre 2012
A.Lombardi, Intervista/L’attivista Masih Alinejad, in
esilio, ha creato un blog che raccoglie le foto delle
iraniane in “La Repubblica” 23 marzo 2015 p.19
Antologia della poesia araba a cura di F.M. Corrao, La
Biblioteca di Repubblica, Milano 2004
Nazik al Mala’ika Canto d’amore per le parole,
http://www.larecherche.it/testo.asp?Tabella=Proposta
_Poesia&Id=268
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Un film contro l’integralismo:
Il destino
Film contro l'integralismo di ogni epoca del maggior cineasta
del mondo arabo (l’egiziano Yussef Chahine, 1926-2008). Il film,
del 1997, precede l’11 settembre 2001, che ha portato
all’attenzione mondiale l’integralismo islamico, ma il regista lo
conosce bene: nel 1993 in Egitto era stato condannato il suo film
L’emigré, solo perché la storia raccontata assomigliava a quella di
Giuseppe (e non si deve rappresentare al cinema un profeta).
Trama
Cordoba, 1195. Il filosofo Averroè accoglie il giovane Joseph,
fuggito dalla Francia dopo che il padre, traduttore delle opere del
filosofo arabo, è stato bruciato sul rogo. Il cenacolo di Averroè è
frequentato anche dai figli del califfo Al-Mansour, Nasser e
Abdallah. Il primo è innamorato di sua figlia, mentre Abdallah,
che ama la musica e la danza, ha una relazione con la figlia del
cantore gitano Marwan. Confuso sul suo destino e la sua identità,
Abdallah si lascia convincere ad entrare nella setta di integralisti
al servizio dello sceicco Riad. Essi avversano apertamente
Averroè e rovinano anche i rapporti del filosofo con il califfo, di
cui è giudice e consigliere. La sua biblioteca personale viene data
alle fiamme. Ma i testi ricopiati dai suoi discepoli sono portati al
sicuro da Nasser in Egitto, appena in tempo, dato che il califfo
condanna Averroè all’esilio e le sue opere al rogo. Il filosofo lascia
Cordoba, mentre i suoi libri sono bruciati in piazza, ma egli sa che
sono salvi. "Il pensiero ha le ali / nessuno può arrestare il suo volo".
Averroè
E’ il nome con cui è noto Muhammad Ibn Rushd (1126-1198),
filosofo e scienziato arabo spagnolo. Il film non si sofferma tanto
sull’opera di divulgatore e commentatore di Aristotele, quanto
sul suo intento di dimostrare la conciliabilità tra ragione e fede.
Averroè distingue l'ambito dell'indagine razionale, che aspira alla
verità scientifica, da quello della rivelazione coranica, il cui fine è
l'edificazione spirituale dei fedeli. Scrive il filosofo Umberto Curi:
"Una luce di razionalità e tolleranza, di equilibrio e assennatezza,
di tutela della tradizione e di apertura al nuovo. Intellettuale
poliedrico, versato nei più diversi campi del sapere, giudice e
medico di corte, astronomo e teologo, fra i maggiori esponenti di
quell'ampio e discusso movimento di pensiero denominato
falsafa, nel quale convergono le maggiori personalità della
ricerca filosofica islamica fra Duecento e Trecento […]. Averroè è
assunto dall'autore egiziano come protagonista di un racconto in
cui la ricostruzione storica e biografica è esplicitamente piegata a
finalità 'pedagogiche' strettamente connesse con le
problematiche odierne.
Come otto secoli fa, anche oggi dovremmo guardarci dal
soggiacere al fanatismo e all'intolleranza, dalla tentazione di
subordinare la necessaria libertà dell'indagine razionale alla
cortigianeria del potere. Come allora, anche oggi dovremmo
'aristotelicamente' evitare gli opposti eccessi del
fondamentalismo religioso e del mero conformismo utilitaristico,
perseguendo invece con tenacia il 'giusto mezzo' effettivamente
praticato dal filosofo arabo: rispetto della tradizione e insieme
autonomia della riflessione razionale; scrupolosa osservanza
delle leggi e insieme saggia moderazione nella loro applicazione;
riconoscimento dell'autorità, ma senza alcuna servile
sottomissione. [...] Per comunicare questo messaggio di
tolleranza e tenere insieme Oriente e Occidente, Cristianesimo e
Islam, fede e ragione il regista sceglie il modulo espressivo del
doppio: due i roghi, che aprono e chiudono il film, doppi i
personaggi e gli eventi. Inoltre non è casuale il riferimento alla
figura di Averroè. Si può anzi affermare che nessuna altra figura
avrebbe potuto compendiare gli intendimenti di Chahine meglio
del filosofo arabo. [...] Più che limitarsi ad affermare la
superiorità dell'indagine razionale rispetto all'apparato simbolico
e retorico proprio della religione, Averroè legittimava entrambe
le forme di ricerca, assegnando ad esse funzioni e destinatari
differenti: la falsafa doveva essere coltivata dai filosofi, con
l'avvertenza di non comunicare al volgo spiegazioni allegoriche
dei testi sacri, onde non ingenerare scetticismo negli intelletti più
deboli, mentre la milla era a sua volta rispettata come
espressione di una pia credenza popolare, di per sé non in
conflitto con le conclusioni della dimostrazione filosofica, né in
linea di principio discordante dalla ricerca dell'inscindibile unità
della verità."
Il film
Il modulo espressivo del doppio è evidente fin dall’incipit: al rogo
sotto le mura di Carcassonne, ad una civiltà oscurantista e ad una
religione distorta (che anticipano i tempi dell’ Inquisizione) si
contrappone la casa-cenacolo di Averroé a Cordoba, centro di
elaborazione di cultura e di libera circolazione di idee, ma anche
di esperienza di vita, che non trascura le gioie della tavola, della
musica e della danza. Le donne non sono sottomesse, ma parte
attiva della vita familiare. La vivacità dei costumi, la sensualità
delle danze, la musica e le canzoni celebrano la gioia di vivere.
A questo modello di civiltà laica si contrappone la setta degli
integralisti: vestiti di verde come le bandiere dell’Islam, sono
intolleranti come i cristiani della prima scena. A loro il regista
attribuisce tecniche di reclutamento e di obnubilazione delle
coscienze e della ragione, che fanno riferimento ai
fondamentalismi del presente. “Il vuoto interiore costruito
attraverso la cancellazione della cultura e dei sentimenti (il
“deserto” in cui si conclude il percorso iniziatico), slogan e parole
d’ordine ossessivamente ripetuti che si sostituiscono
all’articolazione dei concetti, una sorta di militarizzazione delle
coscienze, di narcosi collettiva programmata per la violenza.”
[Vecchi]
A livello visivo l’uso della macchina a mano per la scena girata
all’interno del castello della setta rende bene l’offuscarsi della
coscienza del giovane Abdallah.
Rincresce che un film così importante non sia stato ripubblicato
in DVD, rendendone difficile la visione in Italia.
A cura di: prof.ssa Sandra Borsi
Bibliografia:
Umberto Curi, Lo schermo del pensiero, Raffaello Cortina
Editore, Milano 2000 pp.115-123
Paolo Vecchi Il pensiero ha le ali in “Cineforum n° 372 p.16
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